Nina Berbérova, Dove non si parla d’amore, traduzione dal russo di Margherita Crepax, p. 222, L. 26.000
La notorietà di Nina Berbérova (1901-1993) in Italia risale agli ultimi anni della sua vita, quando la scrittrice viveva negli Stati Uniti. È però stato l’editore francese Actes Sud a ripubblicarne l’opera e a proporla all’estero. Inizialmente i titoli tradotti in italiano sono stati scelti con l’intenzione di attirare un lettore che non la conosceva, pescando tra le opere considerate più importanti: L’accompagnatrice, Feltrinelli 1987, da cui è tratto il film di Claude Miller (1992), Alleviare la sorte (Feltrinelli 1988, che contiene anche il racconto «Pianto»). In séguito, anche dopo la monumentale autobiografia Il corsivo è mio (Adelphi 1989), Berbérova è divenuta un punto di riferimento per il lettore italiano, e sono uscite altre cinque raccolte di racconti, sempre per Adelphi, perciò sarebbe lecito quanto meno sospettare che Dove non si parla d’amore sia un tentativo di propinare al lettore gli avanzi, ben confezionati in un polpettone.
Ma non è così.
I diciannove racconti qui pubblicati, scritti tra il 1931 e il 1940 in Francia, prima di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti, sono poesie in prosa accomunate da rilevanti motivi di fondo — il vuoto/la vanità, il ritorno parallelo nello spazio e nel tempo, la modesta autostima femminile versus la tracotante arroganza maschile — che ne fanno un’opera compatta e coesa.
«Poema in prosa», titolo di un racconto, sarebbe facilmente estensibile all’intera raccolta per la prevalenza del simbolico, del connotativo, del cadenzato. Quelli che in superficie si presentano come racconti sulla miseria, sull’emigrazione, sulla Francia degli anni Trenta vista dall’occhio straniante di una russa fuggita dalla Russia della rivoluzione, a un esame più attento si fanno leggere e rileggere come poesie, in cui il lettore è libero di tracciare acapo mentali per forgiare, sciogliere e riforgiare i versi che più lo avvincono.
La foglia d’acero protagonista del «Poema in prosa» ha resistito sull’albero nonostante il freddo, e trema — sensibile al minimo alito di vento — davanti alla potenza, alla rumorosa violenza del rullo schiacciasassi. Solo la deformazione paranoide di Kroon — impotente inventore fallito di giochi di distruzione, di conquista, di sopraffazione — può deformarla al punto di considerarla «una foglia egoista che è riuscita a mettersi in salvo», meccanismo patologico in cui l’esistenza, per quanto innocente, viene caricata di sensi di colpa del tutto fuori luogo.
Perla nella trattazione poetica del ritorno spaziotemporale è «Souvenir di Pietroburgo», dove, alla vanità dei souvenir «che già adesso non ricordavano niente a nessuno e che anche in futuro sarebbero serviti solo a ricordare una giornata in una città estranea», si contrappone il viaggio autentico di Gastón Gastónovič a Pietroburgo (dove Berbérova è nata), un luogo dove «ogni tanto bisogna ritornare». È facile illudersi, riandando ai profumi, alle luci, agli spazi, di poter ripercorrere a ritroso l’esistenza, ripresentandosi agli stessi bivi ma compiendo scelte di percorso diverse. E il ritorno al presente viene alleviato dal gesto di Gastón Gastónovič di regalare una stilografica al «figlio che Ólen’ka avrebbe potuto avere da lui». «“Dev’essere molto costosa” aggiunse stringendo la penna nella mano.» Il giovane non ha fazzoletto nel taschino, e la penna cade proprio a fagiolo, puntuale nel colmare un vuoto.
La donna in questi racconti è spesso vittima della propria scarsa autostima. In «Gli stessi, senza Konstantìn Ivànovič», Natàl’ja Petróvna non può considerarsi «in niente una donna eccezionale», e ha una riverenza assoluta per Konstantìn Ivànovič. Invece ha capacità creative non indifferenti, tant’è vero che immagina di trasporre per il teatro il dramma della propria vita, in cui Konstantìn Ivànovič figurerebbe «quasi sempre dietro le quinte», ossia in posizione di potere. L’uomo è in realtà «“una caricatura” e “un ciarlatano”», un esibizionista che pronuncia parole «scritte sul quaderno con la lettera maiuscola», e proprio dal fumo di queste maiuscole Natàl’ja si lascia accecare. La poesia del racconto tocca il suo apice nella descrizione di come Natàl’ja vive la propria partecipazione alla conferenza del rimpianto ex convivente, Konstantìn Ivànovič: «Ha detto: sono felice. Anch’io lo penso: è felice. Ah, mio Dio, non riesco assolutamente a seguire».
A lui, d’altronde, «non interessa affatto sapere» se gli altri lo ascoltano: perciò ha bisogno di circondarsi di un pubblico rispettoso e passivo; la stessa funzione svolta durante la convivenza da Natàl’ja, che alla conferenza crede di non riuscire a seguirlo perché parte dal presupposto che, dietro la vanità di quelle parole, stia un senso. E la mancanza di questo senso viene da lei interpretata come propria incapacità di capire. Natàl’ja si percepisce come capace solo di crescere e mantenere un figlio non proprio, ma di lui, e lui, liberatosi di quel fardello, prosegue le sue predicazioni per il mondo, offeso perdipiù dall’incomprensione di quel — simpaticisssimo — nucleo famigliare sui generis, in cui l’importanza di ciascuno si stempera nell’identità di gruppo. Ma anche questa appartenenza viene vissuta con sensi di colpa dalla protagonista. «E aveva ragione, rifletteva Natàl’ja Petróvna, c’è qualcosa di ridicolo nel nostro andare dappertutto insieme, in sette, a trovare gli amici, a fare la spesa, al cinema». La poesia del prosaico viene vissuta come ossimoro solo dall’ottusa superficialità del predicatore. «E non c’è pensiero né bellezza in una pentola piena di boršč o in una tinozza d’acqua». Intellettuale non è chi lo è, ma chi vi si atteggia. Vengono in mente le recenti polemiche sull’uso improprio, da parte di alcuni filosofi, di termini scientifici per gettare fumo negli occhi all’ignaro lettore…
Il vertice della poesia sull’eccessiva modestia nella concezione del Sé femminile è in «Sua moglie», “la moglie di lui”, per intenderci. In famiglia si svolge un gioco letterario ma senza pretese. Bisogna prendere la coppia nome+patronimico di tutti i presenti e i conoscenti e cercare l’opera letteraria in cui compare un personaggio dallo stesso nome. Anche qui il nucleo famigliare è massimamente strampalato, e conduce una vita modesta che si ravviva soltanto a Natale, con l’arrivo dall’estero di Ósip Ivànovič, e con il gioco dei nomi dei personaggi. L’estero è un mondo di fiaba, l’arrivo di Ósip Ivànovič è l’arrivo di un personaggio, e con lui la vita diventa letteratura e la letteratura vita. «Forse qualcuno dirà […] che c’è sempre da insospettirsi quando le donne fanno ah! e uh! e che il nostro Ósip Ivànovič era solo un chiacchierone innamorato di se stesso, incapace perfino di notare le “persone vere” accanto a lui…» Ecco il prototipo del maschio vincente. Ma se in «Gli stessi, senza Konstantìn Ivànovič» c’era il dramma autentico nel dramma immaginato, qui c’è il gioco autentico nel gioco immaginato: il gioco delle congetture su che tipo potrebbe essere la moglie di lui, che a queste riunioni “come ai vecchi tempi” non è mai presente, ma lo aspetta nell’albergo.
Le donne di famiglia proiettano scopertamente: «Vicino a lui anche una donna intelligente sembrerebbe scema. Sua moglie fa bene a non farsi vedere in giro». «Gli uomini di genio adorano sposare le cuoche […] in casa gliene piacerà una che non parla, sottomessa, mansueta… E io lo capisco». Ergo: nessuna di noi potrebbe essere sua moglie perché siamo troppo evolute. Sulla scorta di queste proiezioni infondate, alla morte di Ósip Ivànovič, il gruppo fa una colletta e si presenta per consegnarla alla “scema”, alla “cuoca” vedova col figlio Alëša. La doccia fredda, dopo la quale la colletta verrà ridistribuita agli offerenti, non potrebbe essere più gelida: «Alëša studia arte». «Ad Alëša piace andare a cavallo». Bastano due o tre di questi macigni per frantumare le fantasie di anni e allontanare dall’albergo di lusso i malcapitati, che inciampano nelle poltrone. E il gioco è continuato fino alla fine: la vedova si chiama Ànna Arkàd’evna: come la moglie di Karénin nel romanzo di Tolstój.
Bruno Osimo
settembre 1997