Yearly Archives: 2015

Čechov, Casa con mezzanino, nuova traduzione


copertina dom s mezoninom

Casa con mezzanino (racconto di un pittore)

I

Fu sei-sette anni fa, vivevo in un distretto del governatorato di T., nella tenuta del possidente Belokùrov, un giovane che si alzava molto presto, portava la poddëvka1, la sera beveva birra e continuava a lamentarsi con me di non riuscire a trovare comprensione da nessuna parte in nessuno. Lui viveva nella dépendance in giardino, e io nella vecchia casa padronale, nell’enorme sala con colonne, che non aveva mobili a eccezione del divano largo su cui dormivo e del tavolo su cui facevo i solitari. Qui sempre, anche col bel tempo, c’era qualcosa che fischiava nelle vecchie stufe Amosov2, e durante i temporali tutta la casa tremava e, sembrava, cadeva a pezzi, e faceva un po’ paura, soprattutto di notte, quando tutte e dieci le grandi finestre venivano all’improvviso illuminate da un lampo.

Condannato dalla sorte al continuo ozio, non facevo decisamente nulla. Per ore intere guardavo dalle mie finestre il cielo, gli uccelli, i vialetti, leggevo tutto quello che mi portavano dalla posta, dormivo. A volte uscivo di casa e fino a tarda sera passeggiavo senza meta.

Una volta, mentre tornavo a casa, senza volere mi ritrovai in un podere che non conoscevo. Il sole si stava già nascondendo, e sulla segale in fiore si distendevano le ombre della sera. Due file di abeti vecchi, piantati uno vicino all’altro, molto alti, si ergevano come due muri continui, formando un vialetto scuro, bello. Varcai con facilità la siepe e m’incamminai per questo vialetto, scivolando sugli aghi d’abete che coprivano il terreno per qualche centimetro. Era silenzioso, buio, e solo in alto sulle cime degli alberi tremolava qua e là una luce chiara dorata che si rifletteva sulle ragnatele formando un arcobaleno. Forte, fin soffocante era l’odore degli aghi. Poi svoltai in un lungo vialetto di tigli. Anche qui desolazione e vecchiaia; il fogliame dell’anno passato frusciava con tristezza sotto i piedi e al crepuscolo le ombre si nascondevano tra gli alberi. A destra, nel vecchio frutteto, di malavoglia, con voce flebile cantava un rigogolo, anche lui vecchio, probabilmente. Ma ecco che finirono anche i tigli; passai accanto a una casa bianca con un terrazzo e un mezzanino, e davanti a me d’un tratto si rivelò una vista sul cortile padronale e su un ampio laghetto con una kupal’nâ3, con una distesa di salici verdi, con un paesino sull’altra riva, con un campanile alto e stretto, sul quale ardeva una croce, riflettendo il sole che tramontava. Per un momento mi avvolse l’incanto di qualcosa di caro, di molto familiare, come se avessi già visto questo stesso panorama da bambino.

E vicino alle colonne di pietra bianca, che dal cortile conducevano ai campi, vicino alle colonne robuste con i leoni, c’erano due ragazze. Una di loro, la maggiore, esile, pallida, molto bella, con una chioma di folti capelli castani, con una piccola bocca ostinata, aveva un’espressione severa e mi degnò a malapena di uno sguardo; l’altra invece, ancora molto giovane – avrà avuto diciasette o diciotto anni, non di più – anche lei esile e pallida, con la bocca grande e con gli occhi grandi, mi guardò sorpresa, mentre le passavo accanto, disse qualcosa in inglese e si imbarazzò, e mi sembrava di conoscere anche queste due facce graziose da molto tempo. E tornai a casa con la stessa sensazione di quando si fa un bel sogno.

Da lì a poco, a mezzogiorno, mentre io e Belokùrov stavamo passeggiando vicino a casa, all’improvviso, frusciando sull’erba, entrò nel cortile una carrozza molleggiata, con dentro una di quelle ragazze. Era la maggiore. Veniva a farci firmare una petizione a favore delle vittime dell’incendio. Senza guardarci, ci raccontò con molta serietà nei dettagli quante case erano andate a fuoco nel villaggio di Siânov, quanti uomini, donne e bambini erano rimasti senza tetto e che cosa intendeva fare come prima cosa il comitato per le vittime dell’incendio, di cui ora faceva parte. Dopo averci fatto firmare, mise via il foglio e cominciò subito a salutarci.

«Pëtr Petróvič, vi siete completamente dimenticato di noi» disse lei a Belokùrov, dandogli la mano. «Venite, e se monsieur N. (pronunciò il mio cognome) vorrà dare un’occhiata a come vivono gli ammiratori del suo talento, e venire a trovarci, io e la mamma ne saremo felici».

Feci un inchino.

http://store.streetlib.com/casa-con-mezzanino

The Fundamentals of Translation, ebook by Bruno Osimo

fundamentals copertina

Bruno Osimo

The Fundamentals of Translation

Introductory Course with Exemplifying Tables for B. A. Students

translations by Alice Rampinelli, Anna Paradiso, Bruno Osimo

ISBN 9788898467099

1 Communicating always means translating

1.1 What is translation?

When speaking about translation, people usually think of the trasposition of a text from a language (a natural code) to another, different from the one in which the text was originally conceived and written. As a matter of fact, that is just a peculiar subprocess within the boundless universe of translation. One of the first steps towards a more scientific and complete approach to translation as it is generally thought of consists in acknowledging all its potential aspects.

The translation process is often described with metaphors relating to space and movement. In some languages the terms referring to “source text” and “target text” are undoubtedly linked to the notion of “space”. In Italian, for instance, “testo di partenza” and “testo d’arrivo” (literally, “starting text” and “arrival text”) refer to the semantic field of runs and races. The same is true, for example, for the French “texte de départ” and “texte d’arrivée”.

To some extent, it seems that translation were a sort of transportation of something (apparently words) from one place to another. And this might be due to the fact that even the Latin word from which “translation” derives, “translatus”, comes from the verbtrans-fero meaning “to bring on the opposite side of”. But even though it is true that translation has a spatial dimension, it also has a temporal and cultural one, all three made up of a number of other interrelated elements.

To avoid all the words which are too explicitly linked to the semantic field of departures and arrivals, which remind of military targets (“target text”) or which imply the misleading idea that there were no previous influences on the first text (“source text”), one may call “original” the text from which the translation process stems, and “translation” the text resulting from it. However, the word “translation” does not allow to make a distinction between the process and the outcome.

That is why the ideal terms would be “prototext” (i.e. “first text”, the original text) and “metatext” (i.e. the subsequent text, deriving from the first one). Such terms were coined by the Slovak semiotician Anton Popovič (1933-1984), who gave a substantial boost to translation studies in the 1960s and 1970s. Unfortunately, his ideas spread to the Western countries only after he had prematurely died.

It is also necessary to define the notion of “text”. The first definition that comes to mind when speaking of a text is a consistent group of written words with a unified structure that makes it a whole. But according to semiotics, the notion of “text” needs to be extended to nonverbal languages, such as music, figurative arts, cinema, advertisement, natural environment, street signals, and so on.

The consequences of such a widening of horizons are clear: if by “translation” we mean any process transforming a prototext into a metatext, with the text belonging to any verbal or nonverbal language or code (and by the way, prototext and metatext can even be expressed with the same code!), then the notion of “translation process” embraces a very wide range of processes, related to all possible transformations of texts.

That is why the translation process includes apparently different phenomena, such as film translation (often called “movie version”, a definition which does not stress its belonging to the sphere of translation) and intertextual translation (quotations, references, allusions, and so on). Already in 1683 the French churchman and scholar Pierre-Daniel Huet wrote in his De interpretatione:

the term “translation” also refers to the clarification of abstruse doctrines, to the interpretation of enigmas and dreams, to the interpretation of oracles, to the solution of complex issues, and, finally, to the spreading of all that is unknown. (Huet 1683:18)
immagini1

In the previous table, each row contains a communicative act which belongs to the translation process. Let us see some examples of translation processes.

The first row shows the standard interlingual translation process. The prototext is expressed in a natural code (i.e. in a language – English for instance – that differs from artificial codes such as, say, mathematics), and its transformation into a metatext is textual (both metatext and prototext are verbal texts) and interlingual (the prototext language is different from the metatext language).

The second row shows paraphrase: the process is the same as interlingual translation, but paraphrase usually occurs within the same language, as the content of the message is simply re-expressed with other words.

Quotations may take on the form of references or allusions especially if their ‘delimiters’ (such as inverted commas) are missing: sometimes it is a very hard task for the reader to recognize them as alien texts which were originally part of another, far different text. Even quotations are forms of translation because a word or a sentence uttered by someone in a given context and co-text (→ section 3.1) is re-uttered in a new context and co-text. In this way, the original utterance is now part of a new text: it is ‘translated’. The Internet and all the other telecommunication media are exponentially increasing intertextuality in our every-day communication practice. It is extremely easy for people with access to the Internet to come into contact with the other’s words, and the most modern communicative acts are consequently intertexts, i.e. intertextual translations.

Among the different types of intersemiotic translation there are also reading and writing, all the stages of dream elaboration as both intra- and interpersonal phenomena (i.e. reporting the dream, transcribing it), and psychotherapy, consisting both in the repeated translation of affects, feelings, and drives into words, and in the decoding and recoding of such words, which finally act as a feedback for the patient.

* * *

 

With a scientific explanation for the translation process as its goal, contemporary translation science does not only deal with interlingual translation. The present course on the fundamentals of translation does not aim at teaching how to translate – the translation practice represents a subsequent phase in the education of translators –, but at shading light on an often taken for granted and unconsciously practiced activity, as well as at paving the way for the interlingual translation practice.

http://store.streetlib.com/fundamentals-of-translation

copertinasilva

Prefazione

Silva si è manifestata nella frazione di Passano (Deiva) nell’agosto del 2008 e – non incoraggiata – ci ha seguìto fino a casa. Angelo, il veterinario, le dava più o meno un anno. È entrata nella nostra vita con le zampe di velluto, senza fare rumore, per non disturbare. Nemmeno abbaiava, solo nel sonno, ogni tanto, le venivano fuori degli abbaietti trattenuti, in falsetto. Per il resto dove la mettevi stava, fosse la sua cuccia, l’automobile, il Bar Atlantic, o la panchina fuori dal supermercato ad aspettare chi faceva la spesa. Solo una volta, mentre facevo la spesa con mio figlio, si è divincolata dal collare e ci è corsa incontro trovandoci nel reparto latticini.

A fine agosto 2013 aveva tentato una specie di fuga – forse con l’idea di andarci a cercare chissà dove – immettendosi sull’autostrada vicino al casello di Deiva, camminando sull’angusto marciapiedino che c’è nelle gallerie in quel tratto. Anonime persone sensibili e preoccupate evidentemente l’avevano scorta ed erano riuscite ad accostare in una piazzola d’emergenza per farla salire, consegnandola poi agli uomini della Salt, che ci avevano telefonato da Spezia dove l’avevano tenuta fino al nostro arrivo, apparentemente tranquilla. E un mese dopo una non meglio spiegata paralisi l’aveva immobilizzata per una settimana, ma subito dopo aveva ripreso le sue corse da lepre.

Paralisi simile l’ha colpita il 20 settembre 2015, solo che questa volta non si è ripresa, e il giorno dopo il suo cuore si è fermato.

La voragine che s’è aperta con la sua mancanza nei cuori di noi tutti ci ha fatto capire molto anche di noi stessi. Gli esseri meno invadenti, più beneducati, si fanno strada nel cuore degli altri in modo quasi impercettibile, ma poi lasciano un grande vuoto.

Queste liriche, in parte mie in parte dei miei famigliari, sono in sua memoria.

Bruno Osimo

5 ottobre 2015

http://store.streetlib.com/a-silva-liriche-a-quattro-zampe

Roman Jakobson’s Translation Handbook

Bruno Osimo1

 

 

This book is based on the principle that it is possible to create a text out of the writings of an author, focusing on a subject that had not necessarily been considered central or fundamental in the original author’s view. Roman Jakobson wrote many articles and books, that only partially dealt with translation. My intention here is to synthesize his thought on translation by collecting a number of quotations from different papers and essays of different times, originally written in various languages, and rearranging them according to my own criteria.

 

jakobson handbook copertina

The result is a series of paragraphs and chapters whose identity derives from the assembling of heterogeneous texts that, however, see one given topic from different perspectives. The first chapters focus on inner language as a nonverbal code, and the consequences of the continuous shift from verbal to nonverbal and viceversa occurring during speech, writing – coding –, hearing, reading – decoding –, and therefore occurring within the translation process itself. The notion of “intersemiotic translation” is considered from a new perspective.

In the central chapter Jakobson’s distinctive features method is applied to translation. Using the similarity/contiguity and imputed/factual variables, taken from Peirce’s writings, Jakobson realizes that one of the four actualizations is missing from Peirce’s treatment. Translation, that according to Jakobson is not equivalence but evolution of sense, may well be imputed similarity, the missing actualization of the aforementioned variables.

In the third chapter the focus is on the difference between humane disciplines and exact sciences, and where translation studies belong. Scientific method should be limited to exact disciplines or extended to humane fields as well? This decision has many implications, starting from the name of our discipline – translation science, translatology, translation studies, translation theory – passing through scientific terminology and arriving to semiotics, that according to Jakobson is the science within which the translation discipline should develop itself. Since in classic times disciplines were divided into trivium (humane fields) and quadrivium (sciences), following Jakobson’s semiotic path would mean to overcome trivium, to get out of triviality, in a sense.

In a slightly different form the three chapters were published as articles as follows:

 

(2009). Jakobson and the mental phases of translation. Mutatis Mutandis, 2(1), 73 – 84.

(2008) Translation as imputed similarity”. Sign Systems Studies 36.2:315-339.

(2016) Translation from rags to riches in Jakobson. Sign Systems Studies, still to be defined.

 

 

 

http://store.streetlib.com/roman-jakobson-s-translation-handbook

 

Dinda L. Gorlée: Goethe’s glosses to translation, tesi di Chiara Dell’Orto Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Dinda L. Gorlée: Goethe’s glosses to translation

Relatore: professor Bruno Osimo

CHIARA DELL’ORTO

Fondazione Milano
Civica Scuola Interpreti e Traduttori

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Diploma in Mediazione linguistica Dicembre 2015

© Dinda L. Gorlée: «Goethe’s glosses to translation» 2012 © Chiara Dell’Orto per l’edizione italiana 2015

2

Dinda L. Gorlée: Goethe’s glosses to translation

Abstract in italiano

La presente tesi propone la traduzione dell’articolo Goethe’s glosses to translation di Dinda L. Gorlée, pubblicato sul volume 40, numero 3/4 del Sign Systems Studies, rivista accademica di semiotica. Il testo tradotto affronta sotto vari aspetti il concetto di triadicità, in contrapposizione con quello di dualismo. Semioticamente questo concetto è stato preso in considerazione da Peirce, nella sua triade semiotica di segno-oggetto-interpretante e nelle sue categorie di Primità, Secondità, Terzità. In traduzione, sia Jakobson che Goethe hanno sostenuto l’idea dell’esistenza di tre tipi di traduzione. Goethe ha formulato questa idea durante la stesura del suo West-Östlicher Divan, sorta di traduzione/parafrasi della versione in arabo del Divan di Hāfez. Attraverso le glosse a margine nelle Noten und Abhandlungen e nei Paralipomena, Goethe ha inoltre cercato di giustificare la libertà presasi nel tradurre e nel ricreare una nuova versione dell’opera persiana.

English abstract

The document proposes the Italian translation of the article Goethe’s glosses to translation by Dinda L. Gorlée, published on Sign Systems Studies. The article deals with the notion of triadicity, as opposed to that of duality. Semiotically, this concept was considered by Peirce in his semiotic sign-object- interpretant triad and in his threefold categories of Firstness, Secondness and Thirdness. In translation, both Jakobson and Goethe supported the idea of the existence of three types of translation. Goethe had this idea writing his West-Östlicher Divan, his personal translation/paraphrase of the Arabic version of Hafiz’ Divan. Through the marginal glosses in Noten und Abhandlungen and Paralipomena, Goethe also tried to justify the liberties he took when translating and recreating a new version of the Persian work.

Zusammenfassung

Diese Diplomarbeit schlägt die italienische Übersetzung des Artikels Goethe’s glosses to translation von Dinda L. Gorlée vor, der im Band 40 Nummer 3/4 der akademischen Zeitschrift von Semiotik Sign Systems Studies veröffentlicht wurde. Der Artikel befasst sich unter verschiedenen Aspekten mit dem Konzept der Triadizität im Gegensatz zu der Dualität. Semiotisch wurde dieses Konzept von Peirce in seiner semiotischen Triade Zeichen-Objekt- Interpretant und seine dreifachen Kategorien Erstheit, Zweitheit und Drittheit in Erwägung gezogen. Im Bereich der Übersetzung unterstutzten sowohl Jakobson als auch Goethe die Idee der Existenz von drei Arten Übersetzung. Goethe hatte diese Idee während des Schreibens seines West-östlichen Divan, eine Art Übersetzung/Paraphrase der arabischen Version des Hafis‘ Diwans. Durch die Randglossen in Noten und Abhandlungen und Paralipomena Goethe versuchte auch zu rechtfertigen die Freiheit, die er sich bei der Übersetzung und Wiederschaffung einer neuen Version des persischen Werkes genommen hatte.

3

1 PREFAZIONE…………………………………………………………………………………………………………………………………..5

1.1 Introduzione al testo …………………………………………………………………………………………………………………………………………..5 1.2 Scelte traduttive…………………………………………………………………………………………………………………………………………………6 2 TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE …………………………………………………………………………………………………. 7

3 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI……………………………………………………………………………………………………………50

4

1.1 Introduzione al testo

1 PREFAZIONE

La presente tesi ha come oggetto la traduzione dell’articolo Goethe’s glosses to translation di Dinda L. Gorlée, pubblicato nel 2012 su Sign Systems Studies 40(3/4). L’autrice, ricercatrice olandese di semiotica e traduzione, è a capo di un ufficio di traduzione giuridica multilingue all’Aja. Collabora inoltre con l’università norvegese di Bergen agli Archivi Wittgenstein e con quella di Helsinki presso il dipartimento di ricerche traduttologiche. L’articolo tratta principalmente di semiotica, traduzione e mediazione culturale, citando vari nomi di personaggi importanti e famosi nei rispettivi campi. Partendo dalla sua esperienza e dalle amicizie “semiotiche” che l’hanno indirizzata verso quel percorso di studi, l’autrice parla di come nel corso degli anni l’approccio e l’atteggiamento del traduttore verso la traduzione siano cambiati. Da un approccio duale o diadico, che è stato per molto tempo quello convenzionale e che ha dominato l’intero mondo della traduttologia fino a mezzo secolo fa, si è passati a considerare maggiormente un approccio triadico. Quest’ultimo, orientato verso la dottrina, anch’essa triadica, dei segni semiotici di Peirce, ha generato il nuovo metodo traduttivo: la semiotraduzione. Basandosi su questo nuovo metodo di pensiero progressivo, Goethe ha individuato, così come Jakobson, tre tipi di traduzione. La sostanziale differenza tra i due sta nel fatto che Goethe ha valutato i tre gradi di corrispondenza possibile tra prototesto e metatesto, mentre Jakobson, con i suoi tre tipi di traduzione (intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica), ha dato per scontata la mancanza di equivalenza. I tre tipi di traduzione goethiani, da lui chiamati anche «epoche», possono essere così definiti: traduzione linearmente prosaica, parodistica e identica all’originale. Nel primo tipo si assiste a una Verdeutschung (termine coniato da Schleiermacher), una “germanificazione”, in cui il prototesto scompare e la traduzione risulta così una versione completamente germanizzata. Secondo Goethe una prosa lineare è la scelta migliore per questo primo tipo. Il secondo tipo presenta il dualismo domesticazione-straniamento, ovvero la Verfremdung. La traduzione perde la sua

5

attenzione filologica per il prototesto e si assiste a una riformulazione. Il terzo e ultimo tipo è quello più elevato e più difficoltoso da mettere in pratica, poiché il traduttore perde la sua identità nazionale, adattandola al gusto estetico della massa. La traduzione è identica all’originale sia nel significato che nei procedimenti ritmici, metrici e retorici. Goethe ha formulato quest’idea dell’esistenza di tre tipi di traduzione nelle glosse a margine del suo West-östlicher Divan, rieditate nelle Noten und Abhandlungen e nei Paralipomena. Il West-östlicher Divan, versione personale goethiana in tedesco del Divan persiano di Hāfez, scritto in caratteri arabi, è la dimostrazione sia dell’applicazione del concetto e dell’approccio triadico alla traduzione da parte di Goethe, sia dell’erudizione propria di Goethe (la conoscenza della lingua araba non era cosa comune a quel tempo e, a onor del vero, nemmeno oggigiorno) e della mediazione culturale tra oriente e occidente, uno degli scopi fondamentali di quest’opera.

1.2 Scelte traduttive

Quando è stato possibile reperire la fonte (dal sito ufficiale del Deutsches Textarchiv), le citazioni presenti nel testo di autori tedeschi (Goethe e Eckermann) sono state tradotte direttamente dall’originale.

6

2 TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

Friendship

Amicizia

When I find myself recollecting some instances of meeting Juri Lotman, I vividly remember the turmoil between East and West, making us captive of the political history and alienizing all personal contact. Lotman’s effective appeal to my invitation to become, together with Thomas A. Sebeok, key speakers of the First Congress of the Norwegian Association of Semiotics in Bergen (1989), became a semiotic extravaganza, unforgettable for all present. Translation was a crucial issue, but it seemed to work between semiotic friends. Sebeok addressed Lotman “mostly in German, with snatches of French, interspersed by his shaky English and my faltering Russian” (Sebeok 2001: 167). During one of the events of the congress, Lotman whispered to me in French, as I guess, that translation was on the program in the semiotic school in Tartu. I thought that the brief remark was a smart anecdote, but I had misunderstood Lotman’s cryptic words, alas!

Quando mi trovo a pensare ad alcune volte in cui incontrai Juri Lotman, ripercorro vividamente l’atmosfera di confusione tra Est e Ovest che ci rendeva prigionieri della storia politica e ci isolava da tutti i nostri contatti personali. L’efficace appello di Lotman al mio invito a diventare con Thomas A. Sebeok oratore principale del Primo Congresso della Norwegian Association of Semiotics a Bergen (1989) diventò uno stravagante spettacolo semiotico, indimenticabile per tutti i presenti. La traduzione era un tema cruciale, ma sembrava di lavorare tra amici semiotici. Sebeok si rivolgeva a Lotman “perlopiù in tedesco, con frammenti in francese, inframezzati dal suo inglese precario e dal mio russo zoppicante” (Sebeok 2001: 167). Nel corso di un evento durante il congresso, Lotman mi sussurrò in francese che, come credo di aver capito, la traduzione era nel programma della scuola semiotica di Tartu. Pensai che quel commento fosse soltanto un brillante aneddoto, ma aimè avevo frainteso le parole criptiche di Lotman.

The semiotic approach to translation – semiotranslation – had for many years been my lonely adventure. To write the methodology of Charles Peirce’s semiotics in a doctoral dissertation was against the

L’approccio semiotico alla traduzione – semiotraduzione – è stato per molti anni la mia avventura solitaria. Scrivere una tesi di dottorato sulla metodologia semiotica di Charles Peirce andava contro il volere

7

opinion of my university superiors, so I worked on the enterprise alone. Later, under the inspiration of Sebeok, Peircean translation had turned into my “mono-mania”. In October 1999, if I remember well, I met for the first time Peeter Torop during the 7th International Congressof the International Association for Semiotic Studies in Dresden. Immediately, we became friends, although we had in the beginning no real language in common, but needed to communicate through half-words, body movements, and gesture. We have stayed honest friend until today (and hopefully tomorrow). My words of friendship are a simple yet affectionate statement but, in a time of professional wilderness, I fully realize that having a real friend overcomes our active busyness to trust in the truth and luxury of the language of friendship.

dei miei docenti universitari. Decisi così di intraprendere il cammino da sola. Successivamente, ispirata da Sebeok, la traduzione peirceiana diventò la mia monomania. Nell’ottobre del 1999, se mi ricordo bene, incontrai per la prima volta Peeter Torop durante il Settimo Congresso Internazionale della International Association for Semiotic Studies a Dresda. Siamo diventati subito amici nonostante all’inizio non avessimo alcuna lingua in comune e quindi comunicassimo con mezze parole, movimenti del corpo e gesti. Siamo rimasti buoni amici fino a oggi (e spero lo saremo anche domani). Le mie parole d’amicizia sono una dichiarazione semplice ma affettuosa, tuttavia, in un’epoca di aridità professionale, mi sono resa pienamente conto che avere un vero amico ci fa superare le difficoltà contingenti e confidare nella verità e nel lusso del linguaggio dell’amicizia.

Lotman’s hidden and secret words were realized in the friendship between Peeter and myself. A friendship between two semiotic translation theoreticians exists in our case to challenge the “old” rules of linguistic translatology into producing a new semiotic theory about the plural and manifold activity of making sense of a source text into a target text. Translatology – translating (process) and translation (product) – starts from the original, Romantic unity of the ego

L’amicizia tra me e Peeter era incentrata sulle parole segrete e nascoste di Lotman. L’amicizia tra due teorici della semiotraduzione esiste nel nostro caso per sfidare le “vecchie” leggi della traduttologia linguistica e produrre una nuova teoria semiotica che riguarda la plurale e molteplice attività del ricavare il senso di un prototesto in un metatesto. La traduttologia – il tradurre (processo) e la traduzione (prodotto) – parte dall’originale – l’unità romantica dell’Io alita la

8

breathing his or her individual fashion of translation traversing the fixed and normative unity of language-and-grammar, but the perspective has now changed into the revolutionary advance of the plurality of the translator’s signatures. Translating (process) and translation (product) create a living and radical form of Roman Jakobson’s transmutation, inside and outside the source text, producing new target reactions of the “chaotic” symbiosis of language- and-culture.

propria modalità individuale di traduzione attraverso l’unità fissa e normativa di lingua e grammatica – ma la prospettiva ora è cambiata, con la rivoluzionaria pluralità delle firme del traduttore. Il tradurre (processo) e la traduzione (prodotto) creano una nuova forma vivente e radicale della trasmutazione di Roman Jakobson, dentro e fuori il prototesto, scatenando così nuove metareazioni della simbiosi “caotica” dell’insieme di lingua e cultura.

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), the Romantic poet- dramatist-novelist-philosopher and scientist (anatomy, botany) of German culture, came close to defining the modern version of translatology. In his days, he saw translation – including annotation, retranslation, and even lexicography – of a literary work in the German language as a means of performing a vital service for particularly classical literature. Goethe introduced the concept of world literature , building and mediating the cultural and political identity of the German princedoms into one national home (Venuti 1998: 77-78). However, at

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), poeta, drammaturgo, romanziere, filosofo e scienziato (anatomia, botanica) del romanticismo tedesco, arrivò quasi a definire la versione moderna di traduttologia. Considerava la traduzione di un’opera letteraria in lingua tedesca – compresa di annotazioni, ritraduzione e perfino lessicografia – un mezzo atto a rendere un servizio vitale per la letteratura, soprattutto per quella classica. Goethe introdusse il concetto di letteratura mondiale, costruendo e fondendo l’identità politica e culturale dei principati tedeschi in una patria nazionale (Venuti 1998: 77-78).

9

informal kinds of causeries with his younger secretary Johann Peter Eckermann (1792-1854)1 – indeed, early forms of “interviews” occurring in Goethe’s study of the Weimar Palais, during dinner, in the library, in the garden, or taking walks together – Goethe interpreted as “translator” of his own experiences, the similarity between botanical

Comunque, durante causeries informali con il suo giovane segretario Johann Peter Eckermann (1792-1854) – in realtà erano “interviste” ante litteram che si verificavano nello studio di Goethe nel Palais di Weimar, a cena, in biblioteca, in giardino o facendo una passeggiata insieme – Goethe interpretò come traduttore delle proprie esperienze, la

1 This footnote is an informal excursus to punctuate formally the acute angle to understand the two ways of Goethe’s work in formal and informal writings, as argued here separately and in mediation. Semiotically, both reflect knowledge and metaknowledge, unfolding in the formation of reasoning in Peirce’s three categories: argumentative deduction, experimental induction, and hypothetical abduction reflect the two concepts of formality and informality, that are not separate but interactive in whole and parts. The formal mind is the pure cognition of semiosis (logical Thirdness, with nuances of Secondness and Firstness) and the informal mind is the degenerate pseudo-semiosis (real or fictional Secondness, with nuances of Firstness and Thirdness). In literary genres, Peirce’s categories represent description, narration, and dissertation. Formal works are the flow of text-oriented thought-signs, to have essentially one interpretation, whereas informal works embody culture-oriented “factors – the bodily states and external conditions – and these interrupt logical thought and fact” (Esposito 1980: 112). The informal stories are the picaresque variety of narrative genres. The flow of episodes, plots, anecdotes, and other impressionistic and causal narrations can embrace many meanings, even ambiguous and contradictory senses.

In Lotman’s cultural semiosis, the “constant flux” (1990: 151) of knowledge and metaknowledge throws light on the dialogic interaction of different human semiospheres (1990: 125ff.). The structural boundaries of formal cultural (moral, ethical, ideological) space may be crossed by all kinds of informal human (self-) expressions reflecting various cultures. In literary language, the crosswise dialog between formal and informal codesdemonstrates how and when human cultures (and subcultures) move away from domestic codes to shift to adopting new and strange codes. Lotman exchanges the formal “stereotype-images” into the informal image of what is described as “the unknown Dostoevsky” or “Goethe as he really was” to give a “true understanding” of literary personalities and their works (1990: 137). See also metaknowledge in the encyclopedic information of Sebeok (1986: 1: 529–534) and Greimas (1982: 188–190, 192).

Goethe’s formal attitude about literary translation will focus on his creative translation of his West-ostlicher Divan. His informal view will be argued about his own self-explanatory notes, explaining the complexities of his German translation of the Arabic verse. In this article, Goethe’s informal attitude about literary translation will be discussed: firstly, in the editor’s “table-talk literature” (1946: viii) of Goethe’s Conversations with Eckermann, and secondly, Goethe’s self- explanatory notes, explaining the German translation of his Divan verse. The latter, the Divan and the notes, shows the difference between Lotman’s terms of “central and peripheral spheres of culture” (1990: 162). The Divan is “the central sphere of culture … constructed on the principle of an integrated structural whole, like a sentence”, whereas the notes are “the peripheral sphere … organized like a cumulative chain organized by the simple joining of structurally independent texts” (Lotman 1990: 162). Lotman adds that “This organization best corresponds to the function of these texts: of the first to be a structural model of the world and of the second to be a special archive of anomalies” (Lotman 1990: 162).

10

form, shape, or pattern to:

somiglianza tra forma botanica, struttura o modello di:

[…] a green plant shooting up from its root, thrusting forth strong green leaves from the sturdy stem, and at least terminating in a flower. The flower is unexpected and startling, but come it must – nay, the whole foliage has existed only for the sake of that flower […]. This is the ideal – this is the flower. The green foliage of the extremely real introduction is only there for the sake of this ideal, and only worth anything on account of it. For what is the real in itself? We take delight in it when it is represented with truth – nay, it may give us a clearer knowledge of certain things; but the proper gain to our higher nature lies alone in the ideal, which proceeds from the heart of the poet. (Eckermann 1946: 155; see 327)

[…] una pianta verde che germoglia dalle radici, il cui robusto stelo da vita a verdi e vigorose foglie ai lati e termina, infine, con un fiore. – Il fiore era inaspettato e sorprendente ma doveva venire; sì, il verde fogliame era lì solo per lui […]. Questo è l’ideale, questo è il fiore. Il verde fogliame della più che reale esposizione è lì solo per questo ideale e vale qualcosa soltanto in sua virtù. Ma che cos’è il reale in sé? Ci rallegriamo quando viene rappresentato con verità, sì, può anche darci una conoscenza più ampia di certe cose; ma la vera vittoria per la nostra natura superiore risiede ancora soltanto nell’ideale, che emerge dal cuore del poeta. (Eckermann 1836: Bd.1, 302)

Goethe’s footnotes to the phenomenon of translation explained the organic form of translation, attaining the long-cultivated ambition to blossom and fruit. Anticipating the idea of intersemiotic translation, Goethe’s approach seemed in some ways to anticipate biosemiotics. Indeed, the wilderness of the thistle path – shooting up from the wild rhizomes, thrusting forth thorny weeds with sharp spines and prickly margins – comes alive in the nomadic wanderings into the translator’s semiosis or pseudo-semiosis (Kull, Torop 2003, Gorlée 2004a). As a warning against the business of “a thousand hindrances” of translation, Goethe’s proverb said “one must not expect grapes from thorns, or figs from thistles […]” (Eckermann 1946: 385, 199). After his botanical analogy, Goethe added in spirited inspiration: “The like has often

Le note a piè pagina di Goethe sul fenomeno della traduzione spiegavano la forma organica della traduzione, realizzando l’ambizione, a lungo coltivata, di fiorire e dare frutti. Anticipando l’idea di traduzione intersemiotica, l’approccio di Goethe sembrava in qualche modo anticipare anche l’idea di biosemiotica. In effetti il deserto del sentiero dei cardi – che germogliano dai rizomi selvatici, facendo crescere foglie spinose con spine aguzze e margini setolosi – prende vita nei nomadi vagabondaggi della semiosi o pseudosemiosi del traduttore (Kull, Torop 2003, Gorlée 2004a). Come un avvertimento rispetto all’impresa dei “mille ostacoli” della traduzione, un proverbio di Goethe recitava “non bisogna aspettarsi l’uva dalle spine né i fichi dai rovi […]” (Eckermann 1848: Bd.3, 158). Dopo la sua analogia botanica

11

happened to me in life; and such cases led to a belief in a higher influence, in something daemonic, which we adore without trying to explain further” (Eckermann 1946: 385). Friendship, I guess.

Goethe aggiunse, brillantemente ispirato: “Mi è spesso successo qualcosa di simile nella vita; e casi del genere portano a credere in un influenza superiore, qualcosa di demoniaco, che noi adoriamo senza cercare di spiegare ulteriormente” (Eckermann 1848: Bd.3, 158). L’amicizia, credo.

Semiotranslation

Semiotraduzione

The conventional view of translation is the dual (or dyadic) approach that has tended to predominate the whole of translation studies. This comprehensive theory of translation studies was used as a systematic guideline and, semiotically, was based on the twofold concepts of Ferdinand de Saussure’s language theory – signifier and signified, langue and parole, denotation and connotation, matter and form, sound and meaning, as well as synchrony and diachrony. The semiologically oriented language theory was in agreement with Saussure’s system of contrastive terms, while the dual dichotomies produced, for example, Hjelmslev’s expression and content, form and substance, and Jakobson’s code and message, selection and combination, metaphor and metonymy, whole and details. However Sebeok’s inner and outer, vocal and nonvocal, verbal and nonverbal,

L’approccio convenzionale alla traduzione è quello duale (o diadico) che ha dominato l’intera traduttologia. Questa teoria completa della traduzione fu usata come linea guida sistematica e, semioticamente, era basata sui duplici concetti della teoria del linguaggio di Ferdinand de Saussure – signifiant e signifié, langue e parole, denotazione e connotazione, sostanza e forma, suono e significato, così come sincronia e diacronia. La teoria del linguaggio orientata semiologicamente concordava con il sistema dei termini contrastivi di Saussure, mentre le dicotomie creavano, per esempio, espressione e contenuto, forma e sostanza di Hjelmslev, codice e messaggio, selezione e combinazione, metafora e metonimia, insieme e particolari di Jakobson. Tuttavia, per quanto riguarda interno ed esterno, vocale e nonvocale, verbale e nonverbale, segni e sistemi segnici linguistici e

12

linguistic and nonlinguistic sign and sign systems, as well as Lotman’s primary and secondary modelling systems, internal and external communication, closed and open cultures, cultural center and periphery, tended not towards Saussure’s contrastive oppositions, but reflect a continuum, echoing relational structure of evolutionary progress. They grasp aspects of dynamic modes of expression, as found in Peirce’s threefold (or triadic) doctrine of semiotic signs.

nonlinguistici di Sebeok, così come i sistemi di modellizzazione primaria e secondaria, la comunicazione interna ed esterna, le culture aperte e chiuse, il centro e la periferia della cultura di Lotman, non sono orientati verso le opposizioni contrastive di Saussure, ma riflettono un continuum, riecheggiando la struttura relazionale del progresso evolutivo. Essi colgono modalità espressive dinamiche, come quelle presenti nella triplice (o triadica) dottrina dei segni semiotici di Peirce.

Within the threefold categories, the two-step model of translation studies of the linguistic (or multilingual) relation between the production and the producer, or the producing activity and reproductive activity, loses the primary importance. So does the ideal of perfect equivalence produced in the target language stand for the “same” place in the source language. The “old” model of classical equivalence has produced the paradigm of evaluating in the lines of the argument a yes/no response. The dual explanation judges translation according to the dual dichotomies of language: translation studies and translation practice, translation process and translation product, translatability and untranslatability, prescriptive (normative) and descriptive translation, co-textual and contextual translations, as well as source-oriented and target-oriented translations, faithful and

Nell’ambito delle tre categorie, il modello traduttologico diadico della relazione linguistica (o multilingue) tra produzione e produttore, o attività produttiva riproduttiva, perde la sua importanza primaria. Così l’ideale di equivalenza perfetta prodotta nella lingua ricevente sta per lo “stesso” posto nella lingua emittente. Il modello “vecchio” dell’equivalenza classica ha prodotto una valutazione sì/no sul piano dell’argomento. La spiegazione diadica giudica la traduzione in accordo con le dicotomie diadiche del linguaggio: traduttologia e pratica della traduzione, processo traduttivo e prodotto, traducibilità e intraducibilità, traduttologia prescrittiva (normativa) e descrittiva, traduzioni cotestuali e contestuali, così come traduzioni orientate verso il prototesto e verso il metatesto, traduzione libera e fedele, traduzione linguistica e artistica, traduzione naturalizzante e estraniante,

13

free translation, linguistic and artistic translation, naturalizing and alienating translation, exotization and acculturation of translations, historization and actualization (assimilation) of translations, accuracy and receptibility of translations, and many others emanating from semiological (structuralist) approaches to translation studies (Greimas 1982: 351-352).

esotizzazione e acculturazione delle traduzioni, storicizzazione e attualizzazione (assimilazione) delle traduzioni, accuratezza e recettibilità delle traduzioni e molte altre che provengono da approcci semiologici (strutturalisti) alla traduttologia (Greimas 1982: 351-352).

Semiotranslation is the “new” methodology, characterized as Peirce’s doctrine of detecting and analyzing signs as a “progressive” thinking method, different from Saussure. Hijacked by Peirce, as my situation was, away from the camp of Saussure, the outlook of translation studies and the translation of meaning was based on the division and subdivision of the framework of Peirce’s logical terms. The semiotic sign or representamen, object, and interpretant, divided into various threeway elements, correspond to Peirce’s categories of Firstness, Secondness, Thirdness. The threeway elements are not separate but interact with each other in semiosis, when possible. Translators, as human interpreters, work with pseudo-semiosis or Peirce’s degenerate semiosis (Gorlée 1990; see fn. 1), as argued here. Semiotranslation channels a dynamic network of Peircean interpretant- signs, considered as artificial “sign-things” which are still alive, and thus

La dottrina peirceiana consistente nell’individuare e analizzare i segni come metodo di pensiero “progressivo”, diverso da Saussure, genera il metodo “nuovo”, la semiotraduzione. Le prospettive della traduttologia – peirceianamente dirottata, come la mia situazione, lontano dal campo di Saussure – e della traduzione del significato erano basate sulla divisione e suddivisione della struttura dei termini logici di Peirce. Il segno semiotico o representamen, l’oggetto e l’interpretante, divisi in vari elementi triadici, corrispondono alle categorie peirceiane di Primità, Secondità e Terzità. Gli elementi triadici non sono separati ma, quando possibile, interagiscono tra loro semioticamente. Come argomento qua, i traduttori, in qualità di interpreti umani, lavorano con la pseudosemiosi o con la semiosi degenerata di Peirce (Gorlée 1990; vedi nota 1). La semiotraduzione crea una rete dinamica di segni-interpretanti di Peirce, considerati

14

progressively growing in time. A translation is a (re)creative work by a translator (or various translators), going through successive moods, aspects, and phases of the never-ending acts of translation. Simplifying the complex tasks of the translator, the vague and impromptu translations, made by so-called “bad” translators bringing in unintegrated and illogical impressions, could under the fortunate circumstances of “good” translators grow to become clear translations, giving higher determined and logical features – or performing any interpretant-messages whatsoever between “good” and “bad” (Gorlée 2004a: 167, 2004b) in what can be called intermediate types.

“segni-cose” artificiali, che sono tutt’ora vivi e crescono progressivamente nel tempo. Una traduzione è un lavoro (ri)creativo di uno o più traduttori che passa via via attraverso diversi stati d’animo, aspetti e fasi di atti traduttivi interminabili. Semplificando i compiti complessi del traduttore, le traduzioni vaghe e improvvisate, eseguite dai cosiddetti traduttori “cattivi” che mettono insieme impressioni nonintegrate e illogiche, potrebbero, nelle mani di traduttori “buoni”, crescere e diventare traduzioni chiare, con migliori caratteristiche logiche e determinate – o produrre messaggi-interpretanti a metà strada tra “buono” e “cattivo” (Gorlée 2004a: 167, 2004b) in quelli che possono essere chiamati tipi intermedi.

Peirce’s mental activity of threeway subdivision had the cultural flavor of detecting all kind of signs and nonsigns, analyzing both linguistic and nonlinguistic (graphical, acoustic, optical and other) messages (see Sebeok 1985) interplaying with each other in the outer and inner speech expressed in the sensation, emotion, and attention of the new media. Between Saussure – in agreement with Nida’s formal and dynamic equivalence (1964) – but tending toward Peirce, Jakobson’s three types of translation (1959) gave widening significances to the traditional concept of translation, defined as: (1)

L’attività mentale delle suddivisioni triadiche peirceiane aveva il gusto culturale dell’individuare tutti i tipi di segni e nonsegni, analizzando sia i messaggi linguistici che nonlinguistici (grafici, acustici, ottici e altri) (vedi Sebeok 1985) che interagivano l’uno con l’altro nel discorso interno ed esterno espresso nella sensazione, emozione e nell’attenzione dei nuovi media. Nel contesto Saussuriano – in accordo con l’equivalenza formale e dinamica di Nida (1964) – ma tendendo verso Peirce, i tre tipi di traduzione di Jakobson (1959) resero più significativa la concezione tradizionale di traduzione, definendola

15

Intralingual translation or rewording is an interpretation of verbal signs by means of other signs of the same language, (2) Interlingual translation or translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language, and (3) Intersemiotic translation or transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems. (Jakobson 1959: 233)

come: (1) la traduzione intralinguistica o riformulazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni verbali della stessa lingua, (2) la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di un’altra lingua e (3) la traduzione intersemiotica o transmutazione è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni provenienti da sistemi segnici nonverbali. (Jakobson 1959: 233)

Jakobson’s threefold division of translations gives the translational concept new and extralinguistic horizons beyond merely the accurate “rewording” and less accurate “translation proper” to the free and unbounded “transmutation” (Gorlée 1994: 156ff.). The wider phenomenon, including an “unconventional” repertoire of extensive forms of translations, was either supported or rejected, by purely linguistic translation theoreticians, as being non-empirical and “radical”. Jakobson’s On linguistic aspects of translation (1959) is now included in The Translation Studies Reader (Venuti 2004: 138-143), but in this recent manual of translation studies, semiotics is not (yet) mentioned as a methodology of translation studies2.

I tre tipi di traduzione di Jakobson aprono orizzonti nuovi ed extralinguistici al concetto traduttivo che vanno semplicemente oltre la “riformulazione”, più precisa, la “traduzione propriamente detta”, meno precisa, spingendosi fino alla “transmutazione”, libera e senza limiti (Gorlée 1994: 156 e seguenti). Il fenomeno allargato, che comprende anche un repertorio “non convenzionale” di forme estensive di traduzione, fu sia supportato che rifiutato da teorici della traduzione a impostazione rigidamente lessicale, poiché considerato non empirico e “radicale”. Il saggio On linguistic aspects of translation (1959) di Jakobson fa ora parte del recente manuale The Translation Studies Reader (Venuti 2004: 138-143), nel quale però la semiotica non

2 Jakobson’s cardinal functions of language can be pairwise attached or matched to the triad of Peirce’s categories, though they are not identical to them and their correlation is interactive and may vary upwards and downwards with the communicational instances and textual network (Gorlée 2008).

16

è (ancora) menzionata come metodo traduttologico.

The criticism of semiology (in the French tradition: structuralism) and its symbiosis with translation studies may be summarized in the following three points: (1) the linguistic imperialism, in which a linguistic model can be applied to nonlinguistic objects in a metaphorical replacement, without doing justice to the nature of the nonlinguistic objects, (2) semiology is basically the study of signifiers, and does not ask what signs mean but how they mean, the object that refers to the sign; meaning become wholly a sign-internal affair, while Peirce’s interpretant-sign falls outside the sign and is not studied and not described, and finally (3) binarism, the division into a priori dual oppositions is presented as the instrument for exhaustive analysis, claiming to lead to objective, scientific conclusions; without analyzing the meaningful aspects of language and culture, time and space of the dynamic idea-potentiality of the sign in the human mind, that is identified and translated into the interpretant-sign (see Savan 1987- 1988: 15-72).

La critica della semiologia (secondo la tradizione francese <<strutturalismo>>) e la sua simbiosi con la traduttologia possono essere riassunte nei seguenti tre punti: (1) l’imperialismo linguistico, in cui un modello linguistico può essere applicato a oggetti nonlinguistici in una sostituzione metaforica, senza rendere giustizia alla natura degli oggetti nonlinguistici, (2) la semiologia è fondamentalmente lo studio dei signifiant e non si chiede che cosa significano i segni, ma come significano, l’oggetto che fa riferimento al segno; il significato diventa un affare totalmente interno al segno, mentre il segno-interpretante peirceiano è esterno al segno, non viene studiato e nemmeno descritto e infine (3) il binarismo, la divisione in opposizioni duali a priori, è presentata come lo strumento per un’analisi esaustiva, con la pretesa di condurre a conclusioni scientifiche e oggettive; senza analizzare gli importanti aspetti di lingua e cultura, tempo e spazio dell’idea- potenzialità dinamica del segno nella mente umana, che viene identificata e tradotta nel segno-interpretante (vedi Savan 1987-1988: 15-72).

Peirce’s semiotics argues that any scientific inquiry is best conceived as a dynamic truth-searching process, that is goal-directed

La semiotica di Peirce sostiene che qualsiasi indagine scientifica è concepita come un processo dinamico di ricerca della verità, orientato

17

(teleological) but with no fixed results, no fixed methods, no fixed redefinitions, and no fixed agents. All results, methods, and agents are temporary habits, which are repeatable and nonrepeatable patterns of behavior. The same is also true for interpretative translation – or semiotranslation. Peirce’s idea dramatically changes the whole traditional approach, that as argued concentrates heavily on the basically unverifiable dichotomies labeled as a dogmatic form of dual expression. Semiotranslation offers answers of an evolutionary and sceptical nature about the possibility (or impossibility) of translatability and untranslatability, equivalence and fidelity/infidelity, the function and role of intelligence, will, and emotion of the translator’s fallabilistic mind, translation and retranslation, the fate of the source text, the destiny of the target text, and other semiotic questions.

verso un obiettivo (teleologico) ma senza risultati fissi, metodi fissi, ridefinizioni fisse, né agenti fissi. Tutti, sia risultati che metodi e agenti sono abitudini temporanee, pattern ripetibili e non ripetibili di comportamento. Lo stesso si può dire per la traduzione interpretativa – o semiotraduzione. L’idea di Peirce cambia drasticamente l’intero approccio tradizionale che, come sostenuto, si concentra perlopiù su dicotomie sostanzialmente non verificabili, etichettate come forma dogmatica di espressione duale. La semiotraduzione offre risposte di natura evolutiva e scettica alla possibilità (o impossibilità) di traducibilità o intraducibilità, equivalenza e fedeltà/infedeltà, alla funzione e al ruolo dell’intelligenza, della volontà e dell’emozione della mente fallibile del traduttore, della traduzione e ritraduzione, del fato del prototesto e del destino del metatesto e altre questioni semiotiche.

Sebeok’s encouragement deepened my interest in Peirce’s semiotics, but it dawned on me that Jakobson’s organic concept of translation adhered a unified whole in Lotman’s semiotic theory of culture. The natural inclination to visualize translation from Peirce’s logics was capitalized in Lotman’s universe of translation that joined

L’incoraggiamento di Sebeok ha reso più profondo il mio interesse per la semiotica peirceiana, ma mi sono resa conto che il concetto organico di traduzione di Jakobson aderiva in toto alla teoria semiotica della cultura di Lotman. La naturale inclinazione a visualizzare la traduzione dalla logica peirceiana è stata valorizzata nell’universo della

18

language and culture into what I called the concept of linguïculture (Anderson and Gorlée 2011).3 The expansive system of semiotranslation includes culture and becomes linguïculture, grown and developed in Peeter Torop’s concept of total translation (in 1995, in Russian, with following publications), celebrated in the seminar Culture in Mediation: Total Translation, Complementary Perspectives (2010) in his honor. Torop’s linguïculture and his semiotranslation are actively involved in reaching the ultimate goal of Jakobson’s intersemiotic translation transferred to the forms and shapes of interartistic and interorganic transmutation.

traduzione lotmaniano, che ha unito lingua e cultura in ciò che ho chiamato linguïculture (Anderson e Gorlée 2011). L’ampio sistema della semiotraduzione comprende la cultura e diventa linguïculture, maturata e sviluppata nel concetto di traduzione totale di Peeter Torop (nel 1995, in russo, e successivamente tradotto), celebrata in suo onore nel seminario Culture in Mediation: Total Translation, Complementary Perspectives (2010). La linguïculture di Torop e la sua semiotraduzione sono attivamente coinvolte nel raggiungere l’obiettivo finale della traduzione intersemiotica di Jakobson, trasmessa alle forme e alle figure della transmutazione interartistica e interorganica.

Returning to humanist Goethe, long ago he visualized intersemiotics in the conversational approach to Eckermann, stating that:

Ritornando all’umanista Goethe, tempo fa egli si immaginò l’intersemiotica nell’approccio conversazionale con Eckermann, affermando che:

The plant goes from knot to knot, closing at last with the flower and

La pianta va da nodo a nodo, terminando infine con il fiore e il seme.

3 Linguïculture is coined from “language” and “culture” to suggest their direct connection at a cognitive-intentional-intuitive level beyond that of the mere word, sentence, or discourse. Linguïculture, as language-cum-culture, follows an earlier term, languaculture (Agar 1994a, 1994b), according to Agar himself an “awkward term” (1994b: 60) meaning language-and culture. Languaculture is used by Agar to argue his anthropological fieldwork (1994b: 93, 109ff. 128, 132, 137, 253f.), discussing the patterns of linguo-cultural expressions, happening in personal (low-content) or collectivistic (high-content) messages (Agar 1994a: 222). Linguïculture broadens languaculture to other areas and directions, different from Agar with a semiotic approach (Agar 1994b: 47f.). In the linguistic etymology of the binomial construction, the first unit must be affixed to the second: instead of Agar’s Latin root, halftranslated into French, “lengua” into “langua” (languaculture), the proposed “lingui-” in the transposition linguiculture, derived from Latin “lingua” with final affix –i attached after the root, will capture the speech units together with the attached cultural clues.

19

the seed. In the animal kingdom it is the same. The caterpillar and the tape-worm go from knot to knot, and at last form heads. With the higher animals and man, the vertebral bones grow one upon another, and terminate with the head, in which the powers are concentrated […]. Thus does a nation bring forth its heroes, who stand at the heads like demigods to protect and save […] many last longer, but the greater part have their places supplied by others and are forgotten by posterity. (Eckermann 1946: 292)

Nel regno animale non è diverso. Il bruco, il verme solitario vanno da nodo a nodo e formano infine una testa; per quanto riguarda animali di natura superiore ed esseri umani, le vertebre sono posizionate una sopra l’altra fino a raggiungere la testa, dove si concentrano le forze. […] E così un popolo si crea i propri eroi che, come semidei, sono in prima fila nella protezione e nella cura; […] alcuni durano più a lungo; la maggior parte viene sostituita da altri e dimenticata dai posteri. (Eckermann 1836: Bd.2, 65-66)

Goethe with his brother-in-arms Friedrich von Schiller (1759-1805), belong to the Geniezeit, expressing the strong belief in the progress of individual work to turn into cultural and scientific heroes – an opinion that was relevant in the epoch of the progress of the industrial revolution. Goethe mentioned the practical and theoretical evolutionism of literature, mineralogy, and meteorology (Eckermann 1946 292-294) but as we see, his genre of semiotranslation bears fruit from one to another language and stands for the continuity in the future.

Goethe e il suo caro amico Friedrich von Schiller (1759-1805), appartengono alla Geniezeit, che esprime la forte convinzione che il corso del lavoro individuale trasformi in eroi della cultura e della scienza – parere che è stato rilevante durante la rivoluzione industriale. Goethe ha citato l’evoluzionismo pratico e teorico della letteratura, della mineralogia e della meteorologia (Eckermann 1946: 292-294), ma come si può vedere il suo genere di semiotraduzione porta i suoi frutti da un linguaggio all’altro e rappresenta la continuità nel futuro.

Truchement

Truchement

During the Sturm und Drang (Storm and Stress) years of Goethe’s youth, Friedrich Schleiermacher’s (1768-1834) (Störig 1963 38-70; trans. Lefevere 1977 66-89 retrans. By Susan Pernofski in Venuti 2004: 43-63) dual or dyadic idea of translation of Greek and Latin literature was the standard definition for translation and critics of translations.

Negli anni dello Sturm und Drang (Tempesta e Impeto) della gioventù di Goethe, la concezione duale o diadica schleiermacheriana della traduzione (1768-1834) (Störig 1963 38-70; tradotto da Lefevere 1977 66-89 ritradotto da Susan Pernofski in Venuti 2004: 43-63) della letteratura greca e latina era la definizione standard per i traduttori e

20

Schleiermacher took a distance from informal “newspaper articles and ordinary travel literature” where he argued that translation is “little more than a mechanical task” (Venuti 2004: 44f.) and concentrated on the formal peculiarities of “old” literature. The new world with strange words and obscure sentences, rhymed in antique hexameter had to be transmogrified to a version of German, the native tongue, adorned with classical insights to imitate a “true” approximation of the classical authors and the sacred writings. The translator needed to be a philologist, a poet, and a classical or theological scholar, to respond to the complexities of the profession. The alternative attitudes of the translator were characterized by Schleiermacher as Verfremdung – imitating the source language, creating a foreignness of the German translation – or Verdeutschung – approximating the target language and producing a germanization of the translation. In Schleiermacher’s (and Goethe’s) day, only a tiny elite of the readers had access to the knowledge of foreign languages, in the sense that real paraphrases or imitations can lead to misconceptions and misunderstandings. Schleiermacher stressed that language is a creative game and “no one has his language mechanically attached to him from the outside as if by straps” (trans. qtd. in Venuti 2004: 56f.). Translation is for translators

per i critici della traduzione. Schleiermacher prendeva una certa distanza da “articoli di giornale e comune letteratura di viaggio” informali in cui sosteneva che la traduzione è “poco più di un’attività meccanica” (Venuti 2004: 44-45) e si concentrava sulle peculiarità formali della “vecchia” letteratura. Il nuovo mondo di strane parole e frasi oscure, concepito in esametri antichi e in rima, doveva essere magicamente trasformato in una versione in tedesco, la lingua madre, impreziosito da approfondimenti classici, per imitare una “vera” approssimazione degli autori classici e delle sacre scritture. Il traduttore doveva essere un filologo, un poeta e uno studioso classico o teologico per far fronte alle difficoltà della professione. Gli atteggiamenti alternativi del traduttore sono stati caratterizzati da Schleiermacher come Verfremdung – imitazione della lingua emittente, creazione di uno straniamento della traduzione tedesca – o Verdeutschung – approssimazione della lingua ricevente e germanizzazione della traduzione. Ai tempi di Schleiermacher (e Goethe) solo una piccola élite di lettori conosceva le lingue straniere, nel senso che parafrasi o imitazioni reali potevano portare a malintesi e incomprensioni. Schleiermacher sottolineò che la lingua è un gioco creativo e che “non siamo collegati meccanicamente alla nostra lingua dall’esterno con

21

not so claustrophobic as it seems a bootstrapping operation (Merrel 1995: 98).

delle cinghie” (Schleiermacher 1838: 233). Per quanto sembri un’operazione di bootstrapping, la traduzione non è così claustrofobica per i traduttori (Merrel 1995: 98).

Goethe’s priorities started indeed from the work of classical authors (Homer, Euripides, Sophocles, Plato, Cicero), the sacred writings (Old and New Testaments), and traditional epics (Nibelungenlied). Since Goethe was the multilingual humanist of the old Western secular culture, he broadened the landscape to the socio-literary discussion of more modern or contemporary writers, such as Alighieri Dante, Jean- Baptiste Molière, William Shakespeare, Lord George Byron, and Walter Scott. Goethe had a classical mind, but his unique genius and his global significance were universal and transdisciplinary. He was strongly attentive to old and new developments in music, theatre, opera, architecture, Serbian songs, Chinese novels into what he called the global ideal of the “higher world-literature” (Eckermann 1946: 263). Goethe knew French, English, Italian, Latin, Greek, Hebrew, and Arabic and had translated works by Denis Diderot, François Voltaire, Benvenuto Cellini, Lord Byron and others. Translation was Goethe’s

Le priorità di Goethe partivano infatti dalle opere di autori classici (Omero, Euripide, Sofocle, Platone, Cicerone), le sacre scritture (Antico e Nuovo Testamento) e poemi epici tradizionali (Nibelungenlied). Essendo Goethe l’umanista multilingue dell’antica cultura laica occidentale, ampliò gli orizzonti verso una discussione socio-letteraria di autori più moderni o contemporanei come Dante Alighieri, Jean- Baptiste Molière, William Shakespeare, Lord George Byron e Walter Scott. Goethe aveva una mente classica, ma il suo genio unico e la sua importanza globale erano universali e transdisciplinari. Prestava molta attenzione ai vecchi e nuovi sviluppi di musica, teatro, opera, architettura, canzoni serbe, romanzi cinesi verso ciò che lui chiamava idea globale di “letteratura mondiale superiore“ (Eckermann 1946: 263). Goethe sapeva francese, inglese, italiano, latino, greco, ebraico e arabo e aveva tradotto opere di Denis Diderot, François Voltaire, Benvenuto Cellini, Lord Byron e altri. Aveva un interesse speciale per la

22

special concern; he had been a translator himself and was fully aware of the troubles with the critical translation of literary works.4 Together with the brothers August Wilhelm and Friedrich von Schlegel (1767- 1845, 1772-1829), who broadened the significances of translation to Indian literature, Goethe introduced Oriental literature to Western readers.

traduzione; era lui stesso un traduttore ed era pienamente consapevole delle difficoltà della traduzione critica di opere letterarie. Insieme ai fratelli August Wilhelm e Friedrich von Schlegel (1767-1845, 1772-1829), i quali aumentarono l’importanza della traduzione per la letteratura indiana, Goethe fece conoscere la letteratura orientale ai lettori occidentali.

Goethe’s spiritual revolt out of his artistic and political life was writing Faust, his masterwork, in which the final volume II was completed in the last years of his life, during his conversations with Eckermann. In a quasi-autobiographical history, Goethe told the words and actions of a heroic man of enlightenment struggling between God and Mephistopheles. Bemused with magical dreams and wild passions for charming or even fatal women – recalling the Cartesian duality of mind and body –Faust sought energy and redemption through love, study and good works. Before Faust, Goethe’s first escape was pilgrimage from bourgeois civilization to the “otherness” of the cultures of Oriental life, that was in Germany otherwise regarded than

La ribellione spirituale di Goethe nella sua vita artistica e politica fu quella di scrivere il Faust, il suo capolavoro, il cui II volume finale fu completato nei suoi ultimi anni di vita, durante le sue conversazioni con Eckermann. In una storia quasi autobiografica, Goethe racconta le azioni e le parole di un eroe dell’Illuminismo che combatte tra Dio e Mefistofele. Disorientato da sogni magici e passioni selvagge per donne attraenti o addirittura fatali – che richiamano il dualismo cartesiano mente-corpo – Faust ricerca l’energia e la redenzione nell’amore, nello studio e nelle opere buone. La prima fuga di Goethe, anteriore al Faust, fu il pellegrinaggio dalla civiltà borghese alla “diversità” delle culture orientali, in Germania considerato diversamente dalle

4 In Goethe’s informal Conversations with Eckermann (1946), an intralingual translation of the actual conversations, the phenomenon of interlingual translation is repeated and discussed many times: specifically (1946: 65, 78, 160, 163ff., 199, 309, 320, 341, 385, 395, 396, 400, 410) and references to Goethe’s intersemiotic translation (1946: 135f., 303, 320).

23

the British and French explorations of the East (Said 2003). In Goethe’s Germany, the Orient was an imaginative and unknown world of mysteries, with the alien customs of a Muslim continent and speaking Arabic, the language of the cryptic but sacred Islam.

esplorazioni francesi e inglesi dell’est (Said 2003). Nella Germania di Goethe l’oriente era considerato un mondo di misteri, fantasioso e sconosciuto, con usanze strane di un continente musulmano che parla l’arabo, la lingua del criptico ma sacro Islam.

Goethe was transmogrified into a Western Orientalist – although a salon Orientalist, since he never traveled to the East to study Arabic in situ. He composed the German translation of the Persian ghasal lyric of Hafiz5 (14th century), written in Arabic script. In the years of Goethe’s translation of Hafiz, the study of Orientalism changed his Western scale of art into a paradise of Oriental art (Said 2003). The basic elements are not the familiar Western “Skulptur und Bild, sondern Ornament und Kalligraph” (sculpture and image but rather ornament and calligraphy, my trans) (Solbrig 1973: 84). The mystical understanding of the recitation of the Quran, the metaphors of a beautiful rose with hundred leaves, and the nightingale’s song had to be symbolized, fictionalized, and to a certain degree allegorized (Solbrig 1973: 96). The rhetorical symbolisms of Hafiz’ mystical trance, drunk on the wine of

Goethe si era magicamente trasformato in un orientalista occidentale – anche se un orientalista da salotto, non essendo mai andato in oriente a studiare arabo in loco. Tradusse in tedesco i poemi lirici (ghazal) persiani di Hāfez (IV secolo) scritti in caratteri arabi. Negli anni della traduzione goethiana di Hāfez lo studio dell’Orientalismo passò da un punto di vista occidentale sull’arte all’arte orientale come paradiso (Said 2003). Gli elementi base non sono le familiari e occidentali “Skulptur und Bild, sondern Ornament und Kalligraph” (scultura e immagine, ma ornamento e calligrafo) (Solbrig 1973: 84). L’interpretazione mistica della recitazione del Corano, le metafore di una bella rosa con centinaia di foglie e del canto dell’usignolo dovevano essere simbolizzate, romanzate e in un certo senso allegorizzate (Solbrig 1973: 96). I simbolismi retorici della trance mistica di Hāfez,

5 Hafiz (original name: Shams ud-din Mohammad) (c.1325–1390) was a Persian poet (Shiraz, now Iran) of the ghazals or odes. Belonged to the order of dervishes and was a member of the mystical Sufi sect. Hafiz has been the subject of an enormous and still growing scholarship of Oriental studies, but will here only be indicated in some details.

24

the beloved sultana, were translated into Goethe’s own sensual desire worded in his love poetry.6

ubriaco del vino dell’amata sultana, sono stati tradotti nel desiderio sensuale di Goethe stesso, espresso nelle sue poesie d’amore.

Goethe mediated not in person, but in fine arts between East and West. His German West-östlicher Divan was no ordinary translation but he composed a retranslation and reversion, or better a:

Goethe mediò tra oriente e occidente, non in prima persona, ma tramite le belle arti. Il suo West-östlicher Divan Tedesco non era una semplice traduzione, bensì una ritraduzione e una nuova versione, o meglio un:

Truchement [which] derives nicely from the Arabic turjaman, meaning “interpreter”, “intermediary”, or “spokesman”. On the one hand, Orientalism acquired the Orient as literally and as widely as possible; on the other, it domesticated this knowledge to the West, filtering it through regulatory codes, classifications, specimen cases, periodical reviews, dictionaries, grammars, commentaries, editions, translations, all of which together formed a simulacrum of the Orient and reproduced it materially in the West, for the West. (Said 2003: 166; see Paker 1998: 571)

Truchement [che] deriva dall’arabo turjaman, che significa “interprete”, “intermediario”, o “portavoce”. Da un lato l’Orientalismo ha acquisito l’oriente in maniera più letterale e ampia possibile; dall’altro, ha addomesticato questa conoscenza per l’occidente, filtrandola attraverso codici normativi, classificazioni, casi tipo, recensioni su periodici, dizionari, grammatiche, commentari, edizioni, traduzioni, che tutti insieme formavano un simulacro dell’oriente e lo riproducevano materialmente in occidente, per l’occidente. (Said 2003: 166; vedi Paker 1998: 571)

Goethe’s West-östlicher Divan (tr. West-Eastern Divan) (1814-1819)7 is the formal paraphrase of the Oriental narratives of Hafiz.8 However

Il West-östlicher Divan (Divan Occidentale-Orientale) di Goethe (1814-1819) è la parafrasi formale delle narrazioni orientali di Hāfez.

6 See Thubron (2009). Sufi poetry was religious and didactic verse, but is at times full of mystical satire with parodies and travesties. The criticism of the complexity of Islam society can turn into a flirt “with public obloquy and social danger, as if to prove that their love of God was wholly disinterested, uninfluenced by, indeed, contemptuous of, the social approval sought by the outwardly pious. Wine, forbidden to Muslims, becomes the emblem of divinity: homoeroticism (forbidden in theory, though not always in practice) is a recurring theme, where the divine is manifested in the beauty of beardless boys (Ruthven 1997: 65–66).

7 For the German original of the West-ostlicher Divan including Noten und Abhandlungen and Paralipomena (Goethe1952, published in East Germany) and without Paralipomena (Goethe 1958, published in West Germany). For Noten und Abhandlungen, see Storig (1963: 35–37). For the English translation of West- östlicher Divan, see Goethe (1998), of Noten und Abhandlungen, see Lefevere (1977: 35–37), retranslated by Sharon Sloan in Venuti (2004: 64–66). The English translation of Paralipomena (Goethe 1952) is my own.

25

Goethe was acquainted with Hafiz through the German translation of Divan (1812), written by the Austrian diplomat and Orientalist Joseph Freiherr von Hammer-Purgstall (1774-1856). As Goethe explained in his Divan (1952: 183-185, 1958: 302-304), he had from 1814 read von Hammer-Purgstall’s recent translations of Hafiz’ ghazals. This reading aroused so vividly his deeper emotions, that he felt encouraged and stimulated into making his own retranslation. Indeed, Oriental studies was in Goethe’s days a pioneer project, so that Hammer’s translation in German was a bold experiment in Oriental scholarship.9 Hammer- Purgstall had sent his translated book to Goethe, with the artistic dedication “Dem Zaubermeister das Werkzeug” (a tool for the magician, my trans.) (Solbrig 1973: 13,37). Hammer’s translation was basically an interlinear version, a word-for-word imitation retaining the Arabic words and their different meanings (polysemy) for the learned audience of Orientalists. Yet in Goethe’s vision, Hammer’s philological translation became a dynamic exhortation to develop further into elegant poetry for Western man and woman.

Goethe era venuto a conoscenza di Hāfez grazie alla traduzione tedesca del Divan (1812), scritta dal diplomatico e orientalista austriaco Joseph Freiherr von Hammer-Purgstall (1774-1856). Come Goethe spiegò nel suo Divan (1952: 183-185, 1958: 302-304), aveva letto a partire dal 1814 le ultime traduzioni di von Hammer-Purgstall dei ghazal di Hāfez. Questa lettura suscitò le sue emozioni più profonde, così da sentirsi incoraggiato e stimolato a creare una propria ritraduzione. Ai tempi di Goethe l’orientalistica era un progetto pionieristico, perciò la traduzione di Hammer in tedesco era un esperimento ardito nel campo degli studi orientali. Hammer-Purgstall aveva inviato il suo libro tradotto a Goethe con la dedica creativa “Dem Zaubermeister das Werkzeug” (Al prestigiatore, lo strumento) (Solbrig 1973: 13,37). La traduzione di Hammer era fondamentalmente una versione interlineare, un’imitazione parola per parola che manteneva le parole arabe e le loro differenti accezioni (polisemia) per il pubblico colto di orientalisti. Tuttavia nella visione di Goethe, la traduzione filologica di Hammer divenne un’esortazione dinamica all’ulteriore sviluppo verso

8 The Oxford English Dictionary refers that the Persian word “divan”, untranslated into German and English, was “[o]riginally, in early use, a brochure, or fascicle of written leaves or sheets, hence a collection of poems” (OED 1989: 4: 882).

9 Joseph Hammer-Purgstall was a multilingual scholar. Beyond his native language, German, he knew Arabic, Persian, Turkish, Greek, Latin, Spanish, Italian, French, English, Hebrew, and Russian (Solbrig 1973: 45).

26

una poesia elegante per gli uomini e le donne occidentali.

Hammer’s poetic simplicity was compared by Henri Broms to a forgotten treasure of “rough diamonds”, although in his beautiful metaphor Broms recognized that “their roughness in no fault, it is, rather, as if these original, simple rhythms might give a clearer sight of Hafiz’ world than many later interpretations” (1968: 46-47). Eastern and Western man and woman do not use the same structures and their minds use different logics (Broms 1990). Goethe was a visionary poet and his duty was to animate Hafiz’ lyrical poems for the “popular” elixir of Western life (Eckermann 1946: 271). He read Hammer’s poetically rough translation as a tool to mix his meanings in retranslation. There was in those days no affair of plagiarism, claiming responsibility for Goethe’s copying or stealing Hammer’s words or ideas. Indeed, Goethe highly appreciated Hammer’s translation – “mit Achtung und Anerkennung” (“with esteem and recognition”, my trans.) (Solbrig 1973: 16), “höchster Lob“ (“highster praise”, my trans.) (Lentz 1958: 21) – and vice versa. He consulted Hammer-Purgstall’s treatise again and again to solve many of his translational problems. At the same time, Goethe never wrote about the lack of artistic value of the alien words and ambiguities used by Hammer-Purgstall, that, as it seemed to

La semplicità poetica di Hammer fu paragonata da Henri Broms a un tesoro dimenticato di “diamanti grezzi”, anche se nella sua bella metafora Broms riconobbe che “il loro essere grezzi non è un difetto, ma piuttosto come se questi originai e semplici ritmi potessero dare una visione più chiara del mondo di Hāfez rispetto a molte interpretazioni successive” (1968: 46-47). Gli uomini e le donne orientali e occidentali non utilizzano le stesse strutture e la loro mente utilizza logiche diverse (Broms 1990). Goethe era un poeta visionario e il suo dovere era quello di animare le liriche di Hāfez per il “popolare” elisir di lunga vita occidentale (Eckermann 1946: 271). Egli lesse la traduzione poeticamente grezza di Hammer come strumento per miscelare i suoi significati nella ritraduzione. All’epoca non si parlò di plagio pretendendo responsabilità da parte di Goethe per aver copiato o rubato le parole o le idee di Hammer. Infatti Goethe apprezzò molto la traduzione di Hammer – “mit Achtung und Anerkennung” (“con stima e riconoscimento”), “höchster Lob” (“massima lode”) (Lentz 1958: 21) – e vice versa. Consultò più volte il trattato di Hammer-Purgstall per risolvere molti dei suoi problemi traduttivi. Allo stesso tempo Goethe non scrisse mai della mancanza di valore artistico delle parole straniere

27

Goethe, were “created” for his poetic verse (Lentz 1958: 24).

e delle ambiguità usate da Hammer-Purgstall, che secondo Goethe, erano state “create” per i suoi versi poetici (Lentz 1958: 24).

Goethe had been deeply interested in Zoroastrianism, Mohammad’s Quran, and Bedouin poetry. Yet his thoughts must have remembered when he was a boy and heard the Oriental storytelling of the beautiful and captivating princess Sheherazade, whose marvelous fantasies of Oriental wealth, food and drink, and sex were to pleasure her husband, the king of Samarkand. The original stories of the popular (but unfinished) collection, Thousand and One Nights or Arabian Nights (Mommsen 1981: ix–xxiii, 101–118, 290–295), had been written in Arabic, but were translated to French in 12 volumes of Abbé Antoine Galland’s Les mille et une nuits (1704–1717) and then retranslated from French into other European languages, including German (Mommsen 1981: xv).

Goethe era profondamente interessato allo Zoroastrismo, al Corano di Maometto e alla poesia beduina. Tuttavia i suoi pensieri devono avergli ricordato di quando era un ragazzo e ascoltava il racconto orientale della bella e affascinante principessa Shahrazād, le cui incredibili fantasie di ricchezza, cibo e bevande e sesso orientali avevano lo scopo di dare piacere al marito, il re di Samarcanda. Le storie originali della famosa (ma incompleta) raccolta Le mille e una notte (Mommsen 1981: ix–xxiii, 101–118, 290–295) furono scritte in arabo ma tradotte in francese nei 12 volumi de Les mille et une nuits di Abbé Antoine Galland (1704–1717) e successivamente ritradotte dal francese nelle altre lingue europee, compreso il tedesco (Mommsen 1981: xv).

The popular Arabian tales, and the variants and imitations of this Western pilgrimage, had nothing to do with the impoverished life of Eastern men and women confined to the desert and held in low repute by the Muslim code of the Islamic Middle East (Said 2003: 64f., 193ff.). From the informal coffeehouse pleasure to the formal amusement of Goethe’s genius, as man of Western taste, he turned, with his intimate

I racconti arabi popolari, le varianti e le imitazioni di questo pellegrinaggio occidentale non avevano niente a che fare con la vita povera degli uomini e le donne orientali, confinati nel deserto e tenuti in condizioni di scarsa rispettabilità dal codice musulmano del Medio Oriente islamico (Said 2003: 64-65, 193 e seguenti). Dal piacere informale della caffetteria al divertimento formale del genio di Goethe,

28

narration and wealth of local color, the Divan into a dramatic imagery between reality and romance, a travesty in which romance was stronger than reality. Despite the religious war of Christendom and Islam, Goethe felt free in the poetic retranslation to identify himself with his prophetic “twin brother” Hafiz. He also took the liberty to disguise Marianne von Willemer (1784–1860), his mistress, to play the role of poetess Suleika (Nicoletti 2002: 349-376).

in quanto uomo dal gusto occidentale, con la sua narrazione intima e la sua ricchezza di colori locali, trasformò il Divan in un insieme di immagini teatrali tra realtà e storia d’amore, parodia in cui il la storia d’amore era più forte della realtà. Nonostante la guerra religiosa tra Cristianesimo e Islam, Goethe si sentì libero nella ritraduzione poetica di identificarsi con il suo profetico “fratello gemello” Hāfez. Si prese inoltre la libertà di nascondere Marianne von Willemer (1784–1860), la sua amante, dietro il ruolo della poetessa Suleika (Nicoletti 2002: 349- 376).

Goethe followed the poetic verse of Hafiz’ ghazals (from Arabic “spinning”), that were Sufi-inspired poems of varying length and made up of a number of 4 to 14 couplets, all upon the same rhyme, playing together a pattern of variations on the main theme. The rhyme is repeated throughout the poem, but the off lines are unrhymed (aa, ab, ac, etc.). In the final couplet, the poet signs his name. The continuity of ghazals is, for Western eyes, rhapsodic and incoherent. To give the hidden meaning a sense, Goethe had expanded the couplet into a stanza up to 30 lines and made the ghazal a logical unity. In terms of style, he did not use the style of “old” quasi-Oriental writing, the historicizing or retrospective approach, en vogue in the Western world

Goethe seguì la struttura poetica dei ghazal (dall’arabo “filatura”) di Hāfez, poesie ispirate al sufismo, di vara lunghezza e composte da un minimo di 4 a un massimo di 14 distici, tutti con la stessa rima, fornendo un modello di variazioni sul tema principale. La rima è ripetuta per tutta la poesia, ma i versi di chiusura di ogni strofa non sono rimati (aa, ab, ac, ecc.). Il distico finale contiene la firma del poeta. La continuità dei ghazal è, agli occhi occidentali, rapsodica e incoerente. Per dare un senso al significato nascosto, Goethe aveva ampliato il distico in una strofa con 30 versi e reso il ghazal un’unità logica. In termini di stile non utilizzò quello della “vecchia” scrittura quasi-orientale, l’approccio storicizzante o retrospettivo in voga nel

29

to approximate the Oriental world-picture to the West. Goethe abandoned his earlier two-step model of either exoticizing or naturalizing translation and tried to give the translated cycle of the poetic verse and essays a new, modernized, and actual expression in the German Divan.

mondo occidentale per approssimare l’immagine del mondo orientale all’occidente. Goethe abbandonò il suo precedente modello diadico di traduzione esotizzante o naturalizzante e cercò di conferire al ciclo tradotto di versi poetici e saggi una nuova, moderna e attuale espressione nel Divan tedesco.

The target-oriented truchement meant that the translator Goethe had to a certain degree modified linguistically and culturally the source text to suit his reality, taste, and critical standards, attributing modern ideas, persons, things, etc. to the target readership (Gorlée 1997: 162). Taking some scientific distance from Hammer-Purgstall’s philological translation, Goethe wrote with what sounded like the suddenly liberated translator of bridging socio-cultural differences (Fink 1982). Despite the traditional models, Goethe was free and followed his own lyric-prosaic “Spielformen” (Scholz 1990), that is playful forms of abductive literature, including the free mixture of foreign and native elements. As a globalized botanist, Goethe offered “something like a rhizomatic model” of “the desert and the oasis […] rather than forest and field” (Deleuze, Guattari 1987: 18; see Gorlée 2004a). Goethe’s Divan collection is not Hammer’s monolog but a role-playing dialog, or even trialog.

Il truchement orientato verso il metatesto significava che il traduttore Goethe aveva in una certa misura modificato linguisticamente e culturalmente il prototesto per adattarlo alla propria realtà, ai propri gusti e standard critici, attribuendo idee, persone, cose moderne ecc. al pubblico della cultura ricevente (Gorlée 1997: 162). Prendendo una certa distanza scientifica dalla traduzione filologica di Hammer-Purgstall, Goethe scrisse con quello che sembrava il traduttore improvvisamente emancipato delle differenze socioculturali (Fink 1982). Nonostante i modelli tradizionali, Goethe era libero e seguì le sue “Spielformen” lirico-prosaiche (Scholz 1990), ossia forme giocose di letteratura abduttiva, tra cui il libero mix di elementi stranieri e nativi. In quanto botanico globalizzato, Goethe offrì “qualcosa di simile a un modello rizomatico” de “il deserto e l’oasi […] anziché del bosco e del campo” (Deleuze, Guattari 1987: 18; vedi Gorlée 2004a). Il Divan di Goethe non è il monologo di Hammer, ma un

30

dialogo o addirittura un trialogo, con un gioco di ruolo.

(Meta)statements

(Meta)dichiarazioni

In Goethe’s Divan cycle, the formal story went hand in hand with the informal asides: the Noten und Abhandlungen (tr. Notes and Essays) and then Paralipomena (1818–1819). In both marginal glosses10, Goethe coped with the doubles entendres of the Divan’s rewording, paraphrasing, amplifying, reinterpreting, condensing, parodying, and commenting of the revision and (re)-translation. The comments, redactions, adjuncts, phrases, paragraphs, fragments, and at times even misplacings and misunderstandings are published to better understand the techniques, plots, motifs, and types of the German Divan. Goethe’s informal marginalia reflected his own metastatements – Merrell’s “counterstatements, counterpropositions, counterarguments, and countertexts” (1982: 132) – about the analytical differences with respect to the statements of creative translation (Popovič 1975: 12–13; see fn. 1).

Nel ciclo del Divan di Goethe la storia formale andava di pari passo con le digressioni informali: le Noten und Abhandlungen (Note e Trattati) e Paralipomena (1818–1819). In entrambe le glosse a margine Goethe fece i conti con i doppi sensi della riformulazione, della parafrasi, dell’ampliamento, della reinterpretazione, della condensazione, della parodia, del commentare la revisione e la (ri)traduzione del Divan. Commenti, redazioni, aggiunte, frasi, paragrafi, frammenti e a volte anche errori di collocazione e fraintendimenti vengono pubblicati per comprendere al meglio le tecniche, le trame, i motivi e i tipi del Divan tedesco. I marginalia informali di Goethe riflettevano le sue metadichiarazioni – le “controdichiarazioni, controposizioni, controargomenti e controtesti” di Merrel (1982: 132) – sulle differenze analitiche rispetto alle dichiarazioni della traduzione creativa (Popovič 1975: 12–13; vedi nota 1).

One of the last glosses features Goethe’s new opinion: the threefold

Una delle ultime glosse include la nuova opinione di Goethe: il

10 A gloss (from Greek glossa “tongue”, “language”) – used in the title as keyword of the article – is an intellectual or naive explanation, by means of a marginal note of a previous text; sometimes used of the foreign or obscure word that requires explanation.

31

model of translation. Goethe’s concept of translation manifests the information, and reproduction, and adaptation of the real and fictitious specificity of Western “orientalized” translations from Oriental literary works. In a selection of the paragraphs of the Notes, Goethe stated that:

modello di traduzione triadico. Il concetto di traduzione goethiano esprime l’informazione, la riproduzione e l’adattamento della reale e finzionale specificità delle traduzioni occidentali “orientalizzate” di opere letterarie orientali. In una selezione dei paragrafi delle Note, Goethe affermò che:

There are three kinds of translation. The first acquaints us with the foreign countries on our own terms; a plain prose translation is best in this purpose. Prose in and of itself serves as the best introduction: it completely neutralizes the formal characteristics of any sort of poetic art and reduces even the most exuberant waves of poetic enthusiasm to still water. The plain prose translation surprises us with foreign splendors in the midst of our national domestic sensibility; in our everyday lives, and without our realizing what is happening to us – by lending our lives a nobler air – it genuinely uplifts us. Luther’s Bible translation will produce this kind of effect with each reading.

Esistono tre tipi di traduzione. Il primo ci fa conoscere i paesi esteri con i nostri sensi; in questo caso una semplice prosa è la migliore. La prosa, infatti, elevando completamente tutte le caratteristiche di ogni sorta di arte poetica e riducendo anche l’entusiasmo poetico a un minimo livello, garantisce il miglior servizio iniziale, sorprendendoci con eccellenze straniere nel pieno della nostra domesticità, della nostra vita di tutti i giorni e, senza che noi capiamo cosa ci stia accadendo, conferendoci uno stato d’animo più nobile, realmente ci eleva. Ogni lettura della traduzione luterana della Bibbia produce un tale effetto.

Much would have gained, for instance, if the Nibelungen had been set in good, solid prose at the outset, and labeled as popular literature. Then the brutal, dark, solemn, and strange sense of chivalry would still have spoken to us in its full power. Whether this would still be feasible or even advisable now is best decided by those who have more rigorously dedicated themselves to these matters of antiquity.

Se i Nibelungen fossero stati scritti in una buona prosa e bollati come libro popolare, si sarebbe guadagnato molto di più e lo strano, solenne, cupo, e grigio senso di cavalleria si sarebbe ancora rivolto a noi nel pieno del suo potere. Se questo sia ancora consigliabile o fattibile, possono deciderlo al meglio coloro che si sono dedicati con decisione a questi affari antichi.

A second epoch follows, in which the translator endeavors to transport himself into the foreign situation but actually only appropriates the foreign idea and represents it as his own. I would like to call such an epoch parodistic, in the purest sense of that word. It is most often men of wit who feel drawn to the parodistic. The French make use of this style in the translation of all poetic works: Delille’s

Segue una seconda epoca, in cui il traduttore deve calarsi nella condizione straniera, ma in realtà si appropria solo del senso straniero e con i propri sensi si sforza di rappresentarlo. Vorrei chiamare tale epoca parodistica, nel senso più puro della parola. Sono perlopiù persone ricche d’ingegno che si sentono chiamati a svolgere questo tipo di attività. I francesi si servono di questo tipo di traduzione per

32

translations provide hundreds of examples.11 In the same way that the French adapt foreign words to their pronunciation, they adapt feelings, thoughts, even objects; for every foreign fruit there must be a substitute grown in their own soil.

tutte le opere poetiche; si possono trovare centinaia di esempi nelle traduzioni di Delille. Così come adattano parole straniere alla loro pronuncia, i francesi procedono allo stesso modo con sentimenti, pensieri, sì anche con oggetti e per ogni frutto straniero pretendono un surrogato che sia cresciuto sul loro suolo, proveniente dalla loro terra.

[…] Because we cannot linger for very long in either a perfect or an imperfect state but must, after all, undergo one transformation after another, we experienced the third epoch of translation, which is the final and highest of the three. In such periods, the goal of the translation is to achieve perfect identity with the original, so that the one does not exist instead of the other but in the other’s place.

[…] Poiché si può stare fermi per molto sia in uno stato di perfezione che di imperfezione, ma una trasformazione dopo l’altra deve pur sempre avvenire, così abbiamo vissuto il terzo periodo, che è il più elevato e l’ultimo dei tre, quello in cui lo scopo è produrre una traduzione identica all’originale, così che uno non venga considerato piuttosto che l’altra, ma che prenda il suo posto.

This kind met with the most resistance in its early stages, because the translator identifies so strongly with the original that he more or less gives up the uniqueness of his own nation, creating this third kind of text for which the taste of the masses has to be developed.

Questo tipo ha inizialmente riscontrato le resistenze maggiori, poiché il traduttore, che si identifica fortemente con l’originale, rinuncia (più o meno) all’originalità della sua nazione e così si va a creare un terzo tipo, che deve formarsi secondo il gusto della massa.

At first the public was not at all satisfied with Voss 12(who will never be fully appreciated) until gradually the public’s ear accustomed itself to this new kind of translation and became comfortable with it. Now anyone who assesses the extent of what has happened, what versatility has come to the Germans, what rhythmical and metrical advantages are available to the spirited, talented beginner, how Ariosto and Tasso, Shakespeare and Calderon have been brought to us two and three times over as Germanized foreigners, may hope that literary history will openly acknowledge who was the first to choose this path in spite of so

Voss, poeta mai abbastanza stimato e apprezzato, non poteva soddisfare il pubblico finché non si fosse abituato al nuovo tipo di traduzione e non si fosse trovato a proprio agio con esso. Chi ora, in questo momento osserva ciò che è successo, la versatilità che è entrata a far parte dei tedeschi, quali benefici retorici, ritmici, metrici possedevano i giovani di spirito e talentuosi, come Ariosto e Tasso, Shakespeare e Calderon ci sono stati fatti passare come stranieri germanizzati due o tre volte, egli può sperare che la storia letteraria dica apertamente chi per primo, tra molti ostacoli, intraprese questa

11 Abbe Jacques Delille (1738–1813) translated Virgil’s Georgics and Aeneid into German. 12 Johann Heinrich Voss (1751–1826) translated Homer into German hexameters.

33

many and varied obstacles.

via.

For the most part, the works of von Hammer indicate a similar treatment of oriental masterpieces; he suggests that the translation approximate as closely as possible the external form of the original work.

Per la maggior parte, le opere di von Hammer richiedono un trattamento simile ai capolavori orientali, per i quali è consigliata una traduzione più vicina possibile alla forma esterna dell’originale.

[…] Now would be the proper time for a new translation of the third type that would not only correspond to the various dialects, rhythms, meters, and prosaic idioms in the original but would also, in a pleasant and familiar manner, renew the poem in all of its distinctiveness for us. […]

[…] Ora sarebbe giunto il momento di una traduzione del terzo tipo, che corrisponderebbe ai diversi dialetti, le diverse modalità linguistiche ritmiche, metriche e prosaiche dell’originale e rinnova piacevolmente e in maniera a noi familiare la poesia in tutte le sue caratteristiche. […]

The reason why we also call the third epoch the final one can be explained in a few words. A translation that attempts to identify itself with the original ultimately comes close to an interlinear version and greatly facilitates our understanding of the original. We are led, yes, compelled as it were, back to the source text: the circle, within which the approximation of the foreign and the familiar, the known and the unknown constantly move, is finally complete. (Venuti 2004: 64–66; original Goethe 1952: 2: 186–189, 1958: 5: 304–307)13

Perché la terza epoca viene chiamata anche l’ultima, lo si spiega in poche parole. Una traduzione che ha come scopo di identificarsi con l’originale, alla fine si avvicina alla versione interlineare e facilita molto la comprensione dell’originale; con questo veniamo così ricondotti al teso base, guidati per così dire. Viene così finalmente chiuso tutto il cerchio, all’interno del quale si muovono l’approssimazione di ciò che è straniero e familiare, ciò che è conosciuto e sconosciuto. (Goethe 1952: 2: 186–189, 1958: 5: 304–307)

As discussed by Venuti (2005: 801), Goethe’s first phase concerns the radical domestication of the target language (Verdeutschung), making the reader forget that the text really is a translation of a

Come discusso da Venuti (2005: 801), la prima fase di Goethe riguarda la radicale addomesticazione della lingua ricevente (Verdeutschung), facendo dimenticare al lettore che il testo è in realtà

13 The 1952 edition offered a non-philological edition of Goethe’s unchanged “original” style in old-German, without rectifying capitalization, punctuation, parentheses, grammatical misconstructions, and so forth (Goethe 1952). The 1958 is a standard edited edition. For discussion of Goethe’s Notes, see chronologically Pannwitz (1917: 240–243), Lentz (1958), Rado (1982), Wertheim (1983), Steiner (1975: 256–260), and Nicoletti (2002).

34

previous work. The source text has “disappeared” and the translation is a totally Germanized version. The second phase is a duality of domestication and foreignizing (Verfremdung). The translation loses the closeness to the source text and becomes an alienated world formulated and reformulated in a somewhat biased translation between source and target texts. The reader of franglais and other mixtures of languages is aware that the translator has mediated between both texts and becomes puzzled. The third phase is a manipulation to accord with some ideology, prejudice, dogma, or belief. The source text has been modified, even mutilated, peripherically, or almost beyond recognition. Indeed, such manipulation, away from the source center, may happen (fn. 1), and be accepted, welcomed, or simply ignored in the target culture, due to the linguistic and cultural distance between the codes involved, the temporal and/or spatial distance between the text-to-be-translated and the translated text, and/or for other reasons, be they social, political, religious, institutional, commercial, and so on.

una traduzione di un opera precedente. Il prototesto è “scomparso” e la traduzione è una versione completamente germanizzata. La seconda fase presenta il dualismo domesticazione-straniamento (Verfremdung). La traduzione perde la sua vicinanza al prototesto e diventa un mondo estraneo formulato e riformulato in una traduzione con un bias tra prototesti e metatesti. Il lettore di franglais e alti mix di lingue è consapevole che il traduttore ha mediato tra i due testi e diventa confuso. La terza fase presenta una manipolazione per concordare con ideologie, pregiudizi, dogmi o credenze. Il prototesto è stato modificato, perfino mutilato, perifericamente, o reso quasi irriconoscibile. Infatti una tale manipolazione, che porta lontano dal centro di origine, può succedere (nota 1) ed essere accettata, accolta, o semplicemente ignorata dalla cultura ricevente a causa della distanza linguistica e culturale tra i codici coinvolti, la distanza temporale e/o spaziale tra il prototesto e il metatesto e/o per altre ragioni, siano esse sociali, politiche, religiose, istituzionali, commerciali e così via.

Goethe offered an alternative to Schleiermacher’s dual approach of translation to a third “move” (Robinson 1998: 98) from the historical context of German culture to the nostalgia of exotic life and the erotic

Goethe offrì un’alternativa all’approccio diadico di Schleiermacher alla traduzione con una terza “mossa” dal contesto storico della cultura tedesca alla nostalgia della vita esotica e dell’amore erotico

35

love of the Orient, as delicately restructured by himself. The orientalized metempsychosis of two fictional cultures had challenged Goethe’s new vision in the informal glosses to translation: was the Arabic Divan retranslated into German language more than a nomadic enthusiasm for Oriental religion and culture? Was Goethe’s triadic mention of translation a linguistic-anthropological symbol mixing Orient and Occident? Was Goethe, the greatest cosmopolitan of his days, in terms of sheer erudition and mastery of the Eastern material, a crosscultural critic of East and West?

dell’oriente, così come delicatamente ristrutturato da lui stesso. La metempsicosi orientalizzata di due culture finzionali aveva sfidato la nuova visione di Goethe nelle glosse informali alla traduzione: il Divan arabo ritradotto in lingua tedesca era più di un nomade entusiasmo per la religione e la cultura orientale? Il concetto triadico di traduzione di Goethe era un simbolo linguistico-antropologico di legame tra oriente e occidente? Goethe, il più grande cosmopolita del suo tempo, in termini di pura erudizione e padronanza della materia orientale, era un critico interculturale di oriente e occidente?

The Paralipomena are metacomments of his own comments. They work as Goethe’s catalogue-type information for his own use and are merely unmediated fragments, plagued by spelling mistakes and grammatical errors (see fn. 13). Without their later unedited publication (in Goethe 1952), the simplicity of Goethe’s metadata would have been lost and “forgotten”. 14 The whole text is as follows:

I Paralipomena sono metacommenti dei suoi stessi commenti. Fungono da catalogo di informazioni per uso proprio e non sono altro che frammenti non mediati, colmi di errori ortografici e grammaticali (vedi nota 13). Senza la loro pubblicazione successiva non revisionata (in Goethe 1952), la semplicità dei metadati di Goethe sarebbe andata “dimenticata”. L’intero testo è il seguente:

Three kinds
1, To reconcile foreign productions and the fatherland. 2, Further attempt against the foreign to achieve a middle situation. 3, final attempt to make translation and original identical

Tre tipi
1, riconciliare le produzioni straniere con la madrepatria. 2, ulteriori sforzi contro lo straniero per ottenere una situazione media. 3, sforzo finale che renda la traduzione e l’originale identici

14 The plural Paralipomena (from Greek paraleipein “to leave aside”, “to omit”) signify “forgotten” postscripts, supplements, or reflections of a previous book or fragment. Goethe’s Paralipomena has hardly been discussed.

36

of all three the Germans can indeed show examples of exemplary pieces. more than approaching the foreign situation we should certainly note, to cheer loudly on the works of von Hammer, directing us on this way. even warmly welcoming the hexameter and pentameter from the first concept of translation.

Di tutti e tre i tedeschi possono di fatto dare esempi di pezzi esemplari. Più che avvicinarci alla situazione straniera, dovremmo certamente prender nota e incitare a gran voce le opere di von Hammer, portandoci su questa via. Perfino accogliendo calorosamente l’esametro e il pentametro derivante dalla prima concezione di traduzione.

The strangeness of the transfigurations into Greek and Latin of the excellent Jones,15 recalls the foreign country, customs, and taste, meaning that the study of the content totally destroys the originality of the poems.

La stranezza delle trasfigurazioni in greco e latino dell’eccellente Jones ricorda il paese straniero, i costumi e i gusti, il che significa che lo studio del contenuto distrugge totalmente l’originalità della poesia.

The grotesque enterprise of Mr. [any name] to rework Firdusi16 in the sense of alienating it from the Orient without bringing it close to the West.

La grottesca impresa del signor [nome qualsiasi] di rielaborare Firdusi nel senso di estraniarlo dall’oriente senza avvicinarlo all’occidente.

A prose translation should be far better than one transformed into an alien unsuitable rhythm.

Una traduzione in prosa sarebbe sicuramente migliore di una trasformata in un ritmo alieno e inadatto.

Von Hammer translation, retaining line by line of the original, is on its own correct, perhaps can Mr. [any name] decide now to accept these intents and purposes, to accomplish for himself and the bookseller in charge of the printing a flourishing business.

La traduzione di von Hammer, che conserva l’originale riga per riga, è di per se corretta, forse può il signor [nome qualsiasi] decidere ora di accettare queste intenzioni e scopi per ottenere per se stesso e per il libraio responsabile della stampa un fiorente profitto.

The translator will not harvest any thanks and the publisher no

Il traduttore non otterrebbe alcun ringraziamento e l’editore alcun

15 Sir William Jones (1746–1794), an English polyglot with knowledge of twenty-eight languages, was an eminent Oriental and Sanskrit scholar. Jones was interested in Hafiz and translated the sacred texts of Eastern religions. He pronounced the genealogical connection of Sanskrit with Greek and Latin, and the languages of Europe.

16 Firdusi (transliterated as Firdausi, Ferdowsi, or Firdowski) (932–1020) was the Persian poet who wrote the Iranian national epic, the Shahnamah. 37

profit. (My trans. from Goethe 1952: 3: 130–131)

guadagno. (Goethe 1952: 3: 130–131)

The chaotic Paralipomena naturally uses a different style of writing than the ordered paragraphs of the Notes. The informal tone reflects the emotional voice of Goethe’s personal words, but his dry and business-like actions speak louder. The pitch of Paralipomena lay in the postscript: how to cook Goethe’s West-Eastern Divan into a success story. Goethe focused on the production’s costs: to win the spectacular bestseller the business went at the expense of his associates (including the translator).

I caotici Paralipomena usano naturalmente un altro stile di scrittura rispetto agli ordinati paragrafi delle Note. Il tono informale riflette la voce emotiva delle parole personali di Goethe, ma le sue azioni monotone da uomo d’affari parlano molto più forte. Il punto più intenso dei Paralipomena è nel post scriptum: come trasformare il Divan occidentale orientale goethiano in una storia di successo. Goethe si concentrò sui costi di produzione: per diventare un bestseller, gli affari andarono a scapito dei suoi collaboratori (traduttore incluso).

East and West mingle in bizarre juxtaposition, but they do not mix in Goethe’s labyrinth of fragments. Guided by the spatiotemporal distance to Hafiz, Goethe mediates semiotically in cultural differences of morals and scholarship as a human and spiritual alternative. His agenda of the Notes reflects a psychological and anthropological understanding of Eastern ideas, concepts, meaning, and nuance. The public interest of cross-cultural scholarship is translated into the free association of poetry. The results are striking, including a new vision of translation. At the same time, Goethe’s hidden agenda arises in the bottom line of Paralipomena to determine the effectiveness of the agreement. The “negotiation” of bridging cultures and national

Oriente e occidente si mescolano in una bizzarra giustapposizione, ma non si mixano nel labirinto di frammenti goethiano. Guidato dalla distanza spaziotemporale da Hāfez, Goethe media semioticamente tra differenze culturali di morale e sapere come alternativa umana e spirituale. La sua pianificazione delle Note riflette una comprensione psicologica e antropologica di idee, concetti e sfumature orientali. L’interesse pubblico del sapere interculturale è tradotto nell’associazione libera della poesia. I risultati sono straordinari e comprendono una nuova visione della traduzione. Allo stesso tempo la pianificazione nascosta di Goethe compare in conclusione dei Paralipomena, determinando l’efficacia dell’accordo. La “negoziazione”

38

experiences becomes on dark spots an over-confidence, changing into a purely commercial affair – an unhappy return to bourgeois civilization.

di culture ed esperienze nazionali nelle zone oscure diviene un eccesso di sicurezza, trasformandosi in un affare puramente commerciale – un infelice ritorno alla civiltà borghese.

Semiotic mediation

Mediazione semiotica

Goethe’s caravan of sign translation – from information and reproduction until adaptation – makes the target text become more and more visible in Peirce’s interpretants, and the source text more and more invisible. Goethe’s various “epochs” – Peirce’s Secondness indicating the spatiotemporal object under the force of haeccity (MS 909: 18 = CP: 1.405, 1890–1891) – were transported to signify the whole sign of the trajectory of translation. Semiotic signs play the role of a mediator between thought and reality, so that the “bringing together” of translation is grounded not on genuine Thirdness, but rather on the “middle, medium, means, or mediation” of the original sign (Parmentier 1985: 42 and passim) to produce mediate interpretants.

La carovana goethiana della traduzione segnica – dall’informazione e riproduzione fino all’adattamento – rende il metatesto sempre più visibile negli interpretanti di Peirce e il prototesto sempre più invisibile. Le varie “epoche” di Goethe – la Secondità di Peirce che indica l’oggetto spaziotemporale sotto la forza dell’ecceità (MS 909: 18 = CP: 1.405, 1890–1891) – furono portate a significare tutto il segno della traiettoria della traduzione. I segni semiotici svolgono il ruolo di un mediatore tra pensiero e realtà, in modo che il “mettere insieme” di una traduzione non sia basato sull’autentica Terzità, ma piuttosto su “medio, medium, mezzi o mediazione” del segno originale (Parmentier 1985: 42 e passim) per produrre interpretanti mediati.

Goethe’s and Jakobson’s three types of translation are the same in grammatical number, but differ on “such distinctions as objective and subjective, outward and inward, true and false, good and bad […]” (MS 304: 39, 1903). From a more external viewpoint, Goethe valued the

I tre tipi di traduzione di Jakobson e Goethe sono uguali in quantità, ma diversi per quanto riguarda “distinzioni tra oggettivo e soggettivo, esterno e interno, vero e falso, buono e cattivo […]”(MS 304: 39, 1903). Da un punto di vista più esterno, Goethe ha valutato i tre gradi di

39

three degrees of possible equivalence between source and target texts, whereas Jakobson’s intralingual, interlingual, and intersemiotic translations took the lack of equivalence for granted as the standard “equivalence in difference” (1959: 233). From an internal viewpoint, Goethe’s truchement disguised translation in a liberated mode of a subjective translation, while Jakobson judged externally the distance between source and target language. Then Jakobson broadened their mutual translatability outside “ordinary language” (1959: 234) to translate the cultural (inter)relations (unmarked and marked forms and functions) into the target version (Mertz 1985: 13–16). Jakobson stated that the bilingual and bicultural dilemma of implying linguïculture defied all efforts of translatability, representing the “Gordian knot by proclaiming the dogma of untranslatability” (1959: 234). Semiotranslation can untie the intricate knot, cutting through untranslatability to claim Jakobson’s degrees of a relative translatability – not arriving at Goethe’s genial work, but an effort to solve the complexities.

equivalenza possibile tra prototesto e metatesto, mentre le traduzioni intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica di Jakobson hanno dato per scontata la mancanza di equivalenza in quanto “equivalenza nella differenza” (1959: 233). Da un punto di vista interno, il truchement di Goethe ha nascosto la traduzione in un tipo emancipato di traduzione soggettiva, mentre Jakobson ha giudicato esternamente la distanza tra prototesto e metatesto. Inoltre Jakobson ha ampliato la loro traducibilità reciproca al di fuori del “linguaggio ordinario” (1959: 234) per tradurre le (inter)relazioni (inter)culturali (forme e funzioni marchiate e non) in una metaversione (Mertz 1985: 13–16). Jakobson affermò che il dilemma bilingue e biculturale che implica la linguïculture si sottrae a tutti gli sforzi di traducibilità, rappresentando il “nodo gordiano proclamando il dogma dell’intraducibilità” (1959: 234). La semiotraduzione può sciogliere quel nodo intricato, dando un taglio all’intraducibilità, per rivendicare i gradi di una relativa traducibilità di Jakobson – non arrivando all’opera geniale di Goethe, ma compiendo uno sforzo per risolvere le complessità.

Translation is freedom with a bold (re)action of the translator to reach his or her signature of the “same” meaning. The sign action is semiotic mediation, acting under the forces of reality and thought. In

La traduzione è libertà con un’audace (re)azione del traduttore per ottenere la propria segnatura dello “stesso” significato. L’azione segnica è mediazione semiotica, che agisce sotto le forze di realtà e

40

translation, Firstness – sign – and Secondness – object – are linked to connect to the “medium” of Thirdness (CP: 1.337, 1909). Peirce wrote that:

pensiero. Nella traduzione, Primità – segno – e Secondità – oggetto – sono unite per connettere il “medium” della Terzità (CP: 1.337, 1909). Peirce scrisse che:

As a medium, the Sign is essentially in a triadic relation, to its Object which determines it, and to its Interpretant which it determines. In its relation to the Object, the Sign is passive; that is to say, its correspondence to the object is brought about by an effect upon the Sign, the Object remaining unaffected. On the other hand, in its relation to the Interpretant the Sign is active, determining the Interpretant without being itself thereby affected.

Come un medium, il segno è essenzialmente in una relazione triadica con il suo oggetto che lo determina e con il suo interpretante da lui determinato. Nella relazione con l’oggetto il segno è passivo; ciò significa che la corrispondenza con l’oggetto è causata da un effetto sul segno, e l’oggetto non viene toccato. Dall’altro lato, nella relazione con l’interpretante, il segno è attivo e determina l’interpretante senza venirne lui stesso inficiato.

But at this point certain distinctions are called for. That which is communicated from the Object through the Sign to the Interpretant is a Form; that is to say, it is nothing like an existent, but is a power, is the fact that something would happen under certain conditions. This Form is really embodied in the object, meaning that the conditional relation which constitutes the form is true of the Form as it is in the Object. In the Sign it is embodied only in a representative sense, meaning that whether by virtue of some real modification of the Sign, or otherwise, the Sign becomes endowed with the power of communicating it to an interpretant. It may be in the interpretant directly, as it is in the Object, or it may be in the Interpretant dynamically, as [the] behavior of the Interpretant […] (MS 793: 2–5 = (in different version) EP: 2: 544, 1906)

Ma a questo punto certe distinzioni sono necessarie. Ciò che viene comunicato dall’oggetto all’interpretante attraverso il segno è una forma; vale a dire che non è nulla come un esistente, ma è un potere, è il fatto che qualcosa potrebbe accadere in certe condizioni. Questa forma è veramente incarnata nell’oggetto, ciò significa che la relazione condizionale che costituisce la forma è vera della forma così come lo è dell’oggetto. Nel segno è incarnata solo in un senso rappresentativo, cioè o in virtù di qualche reale modifica al segno, o altrimenti, il segno si dota del potere di comunicarlo all’interpretante. Può essere nel’interpretante direttamente, com’è nell’oggetto, o può essere nell’interpretante dinamicamente, come comportamento dell’interpretante […].(MS 793: 2–5 = (in una versione diversa) EP: 2: 544, 1906)

Thirdness in translation is no purely intellectual interaction of First and Second into Third, but becomes a fantasy of a Second in relation to a First, without a real Third. Peirce wrote that:

La Terzità nella traduzione non è l’interazione puramente intellettuale del primo e del secondo nel terzo, ma diventa una fantasia di un secondo in relazione ad un primo, senza un terzo reale. Peirce

41

scrisse che:

A man gives a brooch to his wife. The merely mechanical part of the act consists in his laying the brooch down while uttering certain sounds, and her taking it up. There is no genuine triplicity here; but there is no giving, either. The giving consists in his agreeing that a certain intellectual principle shall govern the relations of the brooch to his wife. (CP: 2.86, 1902)

Un uomo da una spilla alla moglie. La parte puramente meccanica dell’atto consiste nell’uomo che appoggia la spilla emettendo suoni e la donna che la raccoglie. Qui non c’è vera triplicità; ma non vi è nemmeno alcun dono. Il dono consiste nel concordare da parte di lui sul fatto che un certo principio intellettuale governerà le relazioni tra la spilla e sua moglie. (CP: 2.86, 1902)

The jewel of Goethe’s creative and recreative work West-östlicher Divan actively involves the knowledge of Hafiz and von Hammer- Purgstall, but the “mere congeries of dual characters” (MS 901: 13 = CP: 1.371, 1885) are brought in such a way that the synthesis (Thirdness) lies on Goethe’s way of translation, and particularly on himself as the translating poet.

Il gioiello dell’opera creativa e ricreativa West-östlicher Divan di Goethe coinvolge attivamente la conoscenza di Hāfez e von Hammer- Purgstall, ma “la mera congerie dei personaggi duali” (MS 901: 13 = CP: 1.371, 1885) è presente in modo tale che la sintesi (Terzità) si trovi sulla via goethiana della traduzione e in particolare su se stesso come poeta traducente.

In a literary work, the triadicity is dissolved into the “true duality” (MS 909: 11 = CP: 1.366, 1890–1891) of sign and object to embody the German interpretants in verse of Hafiz’ Arabic Divan. Goethe’s “alienated” treasure-box reflects his will and effort of mediation, based not alone on knowledge of foreign languages, but on his artistic genius and aesthetic life. Peirce returned to an Oriental tinge, when he continued as followed about semiosis and mediation:

In un opera letteraria la triadicità si dissolve nel “vero dualismo” (MS 909: 11 = CP: 1.366, 1890–1891) segno-oggetto per incorporare gli interpretanti tedeschi nei versi del Divan arabo di Hāfez. La scatola del tesoro “alienata” di Goethe riflette la sua volontà e il suo sforzo di mediazione, basati non solo sulla conoscenza di lingue straniere, ma sul suo genio artistico e sulla sua vita estetica. Peirce tornò a una sfumatura orientale quando continuò a trattare di semiosi e mediazione come segue:

The merchant in the Arabian Nights threw away a datestone which

Il mercante in Le mille e una notte lanciò una pietra datata che colpì

42

struck the eye of a Jinnee. This was purely mechanical, and there was no genuine triplicity. The throwing and the striking were independent of one another. But had he aimed at the Jinnee’s eye, there would have been more than merely throwing away the stone. There would have been genuine triplicity, the stone being not merely thrown, but thrown at the eye. Here, intention, the mind’s action, would have come in. Intellectual triplicity, or Mediation, is my third category. (CP: 2.86, 1902)17

l’occhio di un genio. Ciò fu puramente meccanico, e non c’era vera triplicità. Il lanciare e il colpire erano indipendenti l’uno dall’altro. Ma se avesse mirato a colpire l’occhio del genio, ci sarebbe stato più di un semplice lanciare la pietra. Ci sarebbe stata vera triplicità, la pietra non sarebbe semplicemente stata lanciata ma lanciata verso l’occhio. Qui sarebbe entrata in gioco l’intenzione, l’azione della mente. La triplicità intellettuale, o mediazione, è la mia terza categoria. (CP: 2.86, 1902)

In the understanding of Goethe’s Divan and the “spontaneous” discovery of applying a triadic translation, the “good”, “bad”, and “intermediate” sign-events of translation modify and mediate the literary form of the accidental interpretants, made by pure chance and effort (CP: 1.337, 1909). Goethe’s intermediate (re)translation reflects not genuine semiosis – the “perfect” sign of Thirdness – but offers “imperfect” signs. Pseudo-semiosis is represented in the translation composed by human interpreters. The “quasi-minds” (MS 793: 2, 1906 = EP: 2: 544, 1906) create new but biased quasi-translations, on the

Nella comprensione del Divan di Goethe e nella scoperta “spontanea” di applicare una traduzione triadica, i segni-eventi “buoni”, “cattivi” e “intermedi” della traduzione modificano e mediano la forma letteraria degli interpretanti casuali, fatta da puro caso e sforzo (CP: 1.337, 1909). La (ri)traduzione intermedia goethiana non riflette la vera semiosi – il segno “perfetto” della Terzità – ma offre segni “imperfetti”. La pseudosemiosi è rappresentata nella traduzione scritta da interpreti umani. Le “quasi-menti” (MS 793: 2, 1906 = EP: 2: 544, 1906) creano quasi-traduzioni nuove ma con un bias, sulla base di

17 The passage of Arabian Nights about accidental Thirds is repeated in Peirce’s episode: “’How did I slay thy son?’ asked the merchant, and the jinnee replied, ‘When thou threwest away the date-stone, it smote my son, who was passing at the time, on the breast, and he died forthright.’ Here there were two independent facts, first that the merchant threw away the date-stone, and second that the date-stone struck and killed the jinnee’s son. Had it been aimed at him, the case would have been different; for then there would have been a relation of aiming which would have connected together the aimer, the thing aimed, and the object aimed at, in one fact. What monstrous injustice and inhumanity on the part of that jinnee to hold that poor merchant responsible for such an accident!” (MS 909: 12 = CP: 1.365, 1890–1891) and mentioned again in “the date-stone, which hit the Jinnee in the eye” (CP: 1.345, 1903).

43

ground of quasi-signs made by the quasi-thought of a quasi-mind (Gorlée 2004b)18. Quasi-translations bring forth not the intellectual mind, but rather some unanalyzable, unpredictable, unsystemic, and controversial qualities of the feeling and mind of the interpreter- translator, manifesting instead of the high-level mental semiosis the lower-level idea of Goethe’s wicked travesty of the real facts.

quasi-segni prodotti da quasi-pensieri di una quasi-mente (Gorlée 2004b). Le quasi-traduzioni non danno vita alla mente intellettuale, ma piuttosto ad alcune qualità non analizzabili, imprevedibili, non sistemiche e controverse dei sentimenti e della mente dell’interprete- traduttore, manifestando invece della semiosi mentale di alto livello, l’idea di basso livello dell’audace parodia goethiana dei fatti reali.

Quasi- or pseudo-Thirdness is called “Betweenness or Mediation in its simplest and most rudimentary form” (CP: 5.104, 1903). This degenerate sign relation brings together and takes apart – semiotically, deconstructs and constructs – Goethe’s glosses on the plurality of translation (CP: 2.89ff., 1902). The deterioration of the triadic relation into a dyadic or degenerate semiosis can define the varieties of intermediate types. The thought-off content of Goethe’s Notes is regulated by the duality of first degenerate signs, but the ramified lines of the Paralipomena agree with second degenerate signs (Parmentier 1985: 39f.).19 In first or singly degenerate signs, the interpretant points

La quasi- o pseudo-Terzità è chiamata “betweeness o mediazione nella sua forma più semplice e rudimentale” (CP: 5.104, 1903). Questa relazione segnica degenerata unisce e smonta – semioticamente, decostruisce e costruisce – le glosse di Goethe sulla pluralità della traduzione (CP: 2.89 e seguenti, 1902). Il deterioramento della relazione triadica in una o semiosi diadica o degenerata può definire le varietà di tipi intermedi. Il contenuto pensato delle Note di Goethe è regolato dal dualismo dei primi segni degenerati, ma i righi ramificati dei Paralipomena concordano con i secondi segni degenerati (Parmentier 1985: 39-40). Nei primi segni degenerati o segni degenerati

18 Quasi-signs, see Gorlée (2004b: 66f., 87, 129f., 137, 148); quasi-thought, see Gorlée (2004b: 145, 203ff., 206ff., 214, 217ff.); quasi-mind, see Gorlée (2004b: 66f., 87, 129f., 137, 148).

19 See Buczyńska-Garewicz (1979, 1983), Gorlee (1990), and Merrell (1995). Peirce’s formal concept of degeneracy and its informal examples were specifically explained in his later years, from 1885 and ending in 1909; see Peirce’s informal letter to Victoria Lady Welby (1837–1912) with a glossary of intermediate types (PW: 194, 1905).

44

directly to its object, but does not interact with the sign. For Peirce, the interpretant “forcibly directs […] to a particular object, and there it stops” (CP: 1.361, 1885) without giving a specific reaction. The reaction is degenerate Secondness with a nuance of Firstness and Thirdness. In second or doubly degenerate signs, the interpretant relates to the sign and the object in separate sign-events, to make its own sense representing the interpreter’s personal meaning. The degenerate Firstness with a nuance of Secondness and Thirdness gives “a pure dream – not any particular existence, and yet not general” (CP: 3.362, 1885).

singolarmente l’interpretante indica direttamente il suo oggetto, ma non interagisce con il segno. Per Peirce l’interpretante “si dirige forzatamente […] verso un oggetto particolare e lì si ferma” (CP: 1.361, 1885) senza reagire in modo specifico. La reazione è la Secondità degenerata con una sfumatura di Primità e Terzità. Nei secondi segni o segni doppiamente degenerati l’interpretante si correla al segno e all’oggetto in segni-eventi separati, per dare il proprio senso, che rappresenta il significato personale dell’interprete. La Primità degenerata con sfumature di Secondità e Terzità dà “un puro sogno – non una esistenza particolare e tuttavia nemmeno generale” (CP: 3.362, 1885).

Goethe was steadily accustomed to bilingual and bicultural identities in the “radically new sort of element” (CP: 1.471, 1896) of his project, connecting and disconnecting Hafiz and von Hammer-Purgstall within his German Divan. He thus practiced in the definitions of the Notes a scientific proposition20, identifying related and otherwise unrelated things about the types of translations in his experience. Peirce’s proposition was a singly degenerate arrangement, made “in a living

Goethe era costantemente abituato a identità bilingui e biculturali nel “tipo di elemento radicalmente nuovo” (CP: 1.471, 1896) del suo progetto, collegando e scollegando Hāfez e von Hammer-Purgstall all’interno del suo Divan tedesco. Egli praticò così nelle definizioni delle Note una proposizione scientifica, identificando aspetti correlati e altrimenti non correlati sui tipi di traduzioni della sua esperienza. La proposizione di Peirce era un accordo singolarmente degenerato, fatto

20 “Proposition” is one of Peirce’s favourite terms, omnipresent in his writings about language, interpretation, utterance, and meaning. 45

effort to make its interpreter believe it true” (MS 646: 16, 1910). Goethe asserted that the dyadic connection of active sign and passive object (CP: 1.471, 1896) was known as Schleiermacher’s duality of paraphrases and imitations. Yet Goethe’s “triad brings a third sort of element, the expression of thought, or reasoning, consisting of a colligation of two propositions, not mere dyadic propositions, however, but general beliefs; and these two propositions are connected by a common term and tend to produce a third belief” (CP: 1.515, c.1896). Goethe wanted to affect the readers by the freedom of his third agent, adaptation – a germane but extraneous element to the interactive duality. In a proposition, Peirce stated that:

“in uno sforzo vitale per renderlo vero al suo interprete” MS 646: 16, 1910). Goethe sostenne che la connessione diadica tra segno attivo e oggetto passivo (CP: 1.471, 1896) era conosciuta come il dualismo schleiermacheriano tra parafrasi e imitazioni. Tuttavia la “triade [di Goethe] porta un terzo tipo di elemento, l’espressione del pensiero, o ragionamento, che consiste nel collegare due proposizioni, non semplici proposizioni diadiche, comunque, ma pensieri generali; e queste due proposizioni sono connesse da un termine comune e tendono a produrre un terzo pensiero” (CP: 1.515, c.1896). Goethe voleva colpire i lettori con la libertà del suo terzo agente, l’ adattamento – un elemento attinente ma estraneo al dualismo interattivo. In una proposizione, Peirce affermò che:

[…] there are in the dyad two subjects of different character, though in special cases the difference may disappear. These two subjects are the units of the dyad. Each is one, though a dyadic one. Now the triad in like manner has not for its principal element merely a certain unanalyzable quality sui generis. It makes [to be sure] a certain feeling in us. (CP: 1.471, 1896)

[…] nella diade ci sono due soggetti di caratteri diversi, anche se in casi speciali la differenza può scomparire. Questi due soggetti sono le unità della diade. Ciascuno è uno, anche se diadico. Ora, la triade in modo simile non ha come suo elemento principale solo una certa qualità non analizzabile sui generis. Ci suscita [a dire il vero] una certa sensazione. (CP: 1.471, 1896)

Contrary to scientific method, “[…] it is to be understood that proposition, judgment, and belief are logically equivalent (though in other respects different)” (MS 789: 2, n.d.). Despite the doubts that “a proposition is nothing existent, but is a general model, type, or law

Contrariamente al metodo scientifico, “[…]è da intendersi che proposizione, giudizio e credenza sono logicamente equivalenti (anche se sotto altri aspetti diversi)” (MS 789: 2, s.d.). nonostante i dubbi che “una proposizione non sia nulla di esistente, ma sia un modello

46

according to which existents are shaped” (MS 280: 29, c.1905), Goethe took his responsibility of the propositional announcement, supporting the three types of translation as a general idea.

generale, un tipo, o un accordo di legge in base al quale si sono formati gli esistenti” (MS 280: 29, c.1905), Goethe si prese la responsabilità dell’annuncio proposizionale, supportando i tre tipi di traduzione come idea generale.

Peirce announced that “[i]n science, a diagram or analogue of the observed fact leads on to a further analogy” (MS 909: 12f. [see 42] = CP: 1.367, 1890– 1891). The approximative approach of the “reactionally degenerate” (CP: 5.73, 1902) glosses of the Notes is again deconstructed in the doubly degenerate list of Paralipomena. The separate lines depend not really on intellectual performance (Thirdness), but sketch the design of the “qualitatively degenerate” (CP: 5.73, 1902) moods and tones of thought of Goethe’s own self. Goethe’s images of self-depiction in the edited version “address themselves to us, so that we fully apprehend them. But it is a paralyzed reason that does not acknowledge others that are not directed to us, and does not suppose still others of which we know nothing definitely” (MS 4: 49, 1904; my italics). Goethe’s “airy nothingness” (CP: 4.241, 1902) means that the sign of “Brute Actuality of things and facts” (Secondness) has weakened beyond the meaningful occurrence into the undetermined and vague quality of “suchness” (Firstness) (CP: 1.303, c.1894, CP:

Peirce annunciò che “[i]n scienza un diagramma o qualcosa di analogo, dei fatti osservati conduce a un’ulteriore analogia” ” (MS 909: 12-13 [vedi 42] = CP: 1.367, 1890– 1891). L’approccio approssimativo delle glosse “reazionalmente degenerate” (CP: 5.73, 1902) delle Note è ancora una volta decostruito nella lista doppiamente degenerata dei Paralipomena. Le linee separate non dipendono realmente da performance intellettuali (Terzità), ma abbozzano il disegno degli umori e dei toni “qualitativamente degenerati” del pensiero di Goethe stesso. Le immagini dell’autorappresentazione di Goethe nella versione revisionata “si rivolgono a noi, così che possiamo comprenderle pienamente. Ma è una ragione paralizzata che non riconosce altri che non siano rivolti verso di noi e non suppone nemmeno altri di cui non sappiamo assolutamente niente”(MS 4: 49, 1904; corsivo aggiunto). Il “nulla d’aria” (CP: 4.241, 1902) di Goethe significa che il segno della “bruta attualità delle cose e dei fatti” (secondità) si è indebolita oltre la significativa occorrenza ed è diventato “talità” (primità) di qualità vaga

47

1.326, c.1894, CP: 1.304, c.1905), independent from the object (Gorlée 2009). To illustrate the empty pages of “Translations” in Paralipomena, Peirce wrote something analogous, saying that:

e indeterminata (CP: 1.303, c.1894, CP: 1.326, c.1894, CP: 1.304, c.1905), indipendente dall’oggetto (Gorlée 2009). Per illustrare le pagine vuote di “traduzioni” nei Paralipomena, Peirce scrisse qualcosa di analogo, affermando che:

Combine quality with quality after quality and what is the mode of being which such determinations approach indefinitely but altogether fail ever to attain? It is, as logicians have always taught, the existence of the individual. Individual existence whether of a thing or of a fact is the first mode of being that suchness fails to confer. (CP: 1.456, c.1896)

Combinare qualità con qualità dopo qualità e qual è il modo di essere che certe determinazioni avvicinano indefinitamente ma non riescono mai a raggiungere interamente? È, come i logici hanno sempre insegnato, l’esistenza dell’individuo. L’esistenza individuale sia essa di una cosa o di un fatto è il primo modo di essere che la talità non riesce a conferire. (CP: 1.456, c.1896)

The mere Firstness is a “rough impression” (SS: 194, 1905) reflecting the “Sign’s Soul, which has its Being in its power of serving as intermediary between its Object and a Mind. Such, too, is a living consciousness, and such the life, the power of growth, of a plant” (CP: 6.455, 1908). Grasping the possibility of understanding the hidden idea of a “dark instinct of being a germ of thought” (CP: 5.71, 1902), the reader is brought “face to face with the very character signified” (NEM 4: 242, 1904), with the expressions and emotions of Goethe’s own self- portrait.

La mera Primità è una “grezza impressione” (SS: 194, 1905) che riflette l’”anima del segno, che ha il suo essere nel suo potere di fungere da intermediario tra l’oggetto e la mente. Tale è anche una coscienza viva e tale la vita, la forza di crescita di una pianta” (CP: 6.455, 1908). Cogliendo la possibilità di comprendere l’idea nascosta di un “istinto oscuro di essere un germe di pensiero” (CP: 5.71, 1902), il lettore è portato “faccia a faccia con il carattere stesso significato” (NEM 4: 242, 1904), con le espressioni e le emozioni dell’autoritratto di Goethe.

With “only a fragment or a completer sign” (NEM 4: 242, 1904) in Goethe’s Paralipomena, the last and final point of intermediate types has been argued in bricolages (Firstness) (Gorlée 2007: 224ff.).

Con “solo un frammento o un segno più completo” (NEM 4: 242, 1904) nei Paralipomena di Goethe, l’ultimo e finale punto dei tipi intermedi è stato messo in discussione nel bricolages (Primità) (Gorlée

48

Translation started out as pure intellectual Thirdness, but was accurately and sharply weakened into mixed concepts of Secondness and Thirdness, mingling with Thirdness. Pseudo-translation is degenerate thought, mediated into a representation of the fact according to a possible idea. Goethe’s images of translation are not reasoned, but rely on experience and education. In the Notes and the Paralipomena, degenerate translation gave in Peirce’s perspective “just one unseparated image, not resembling a proposition in the smallest particular […]; but it never told you so. Now in all imagination and perception there is such an operation by which thought springs up; and its only justification is that it subsequently turns out to be useful” (CP: 1.538, 1903) – like Goethe’s thing of beauty in West-östlicher Divan.

2007: 224 e seguenti). La traduzione iniziò come pura e intellettuale Terzità, ma fu accuratamente e acutamente indebolita in concetti misti di Secondità e Terzità, inframezzandosi alla Terzità. La pseudotraduzione è pensiero degenerato, mediato in una rappresentazione del fatto secondo un’idea possibile. Le immagini goethiane della traduzione non sono ragionate, ma fanno affidamento sull’esperienza e l’istruzione. Nelle Note e nei Paralipomena, la traduzione degenerata ha dato, secondo la prospettiva di Peirce, ”una sola immagine non separata, che non somigliava a una proposizione nel più piccolo dei particolari […] ma non è mai stato detto. Ora, in ogni immaginazione e percezione vi è una tale operazione con la quale il pensiero salta su; e la sua unica giustificazione è che risulta poi utile” (CP: 1.538, 1903) – come il fatto della bellezza nel West-östlicher Divan goethiano.

49

3 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Agar, Michael 1994a. The intercultural frame. International Journal of Intercultural Relations 18(2): 221–237. – 1994b. Language Shock: Understanding the Culture of Conversation. New York: Morrow.

Anderson, Myrdene; Gorlee, Dinda L. 2011. Duologue in the familiar and the strange: Translatability, translating, translation. In: Haworth, Karen; Hogue, Jason; Sbrocchi, Leonard G. (eds.), Semiotics 2010: Proceedings of the Semiotic Society of America. Ontario: Legas Publishing, 221–232.

Broms, Henri 1968. Two Studies in the Relations of Hāfiz and the West. (Studia Orientalia Edidit Societas Orientalis Fennica 39.) Helsinki: Societas Orientalis Fennica (Diss. University of Helsinki).
– 1990. The Eastern man. Semiotica 82(3/4): 293–303.

Buczyńska-Garewicz, Hanna 1979. The degenerate sign. Semiosis 13(5): 5–16.
– 1983. The degenerate sign. In: Borbe, Tasso (ed.), Semiotics Unfolding: Proceedings of the Second Congress of the International Association for Semiotic Studies (IASS, Vienna 1979). (Approaches to Semiotics 68.) Berlin, New York, Amsterdam: Mouton, 43–50.

Chambers, Robert 2010. Parody: The Art that Plays with Art (Studies in Literary Criticism & Theory 21.) New York, Frankfurt etc.: Peter Lang. CP = Peirce, Charles Sanders 1931–1958.
Deleuze, Gilles; Guattari, Felix 1987. A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia. (Massumi, Brian, trans.) Minneapolis: University of

Minneapolis Press [French original: Mille Plateaux: Capitalism et Schizophrénie. Paris: Minuit, 1980].
Eckermann, Johann Peter 1946. Conversations with Goethe. (Moorhead, J. K., ed.; Oxenford, John, trans.) (Everyman’s Library, 851). Reprt. 1930 ed.

London: J. M. Dutton & Sons. [German original: Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens (2 Vols. 1823–1827, 1828–1832).

Leipzig: F. M. Brockhaus, 1836].
EP = Peirce, Charles Sanders 1992–1998.

50

Esposito, Joseph L. 1980. Evolutionary Metaphysics: The Development of Peirce’s Theory of Categories. Athens: Ohio University Press. Fink, Karl J. 1982. Goethe’s West-ostlicher Divan: Orientalism restructured. International Journal of Middle East Studies 14: 315–328. Goethe, Johann Wolfgang von 1952. West-ostlicher Divan. (Grumach, Ernst, ed.) (Werke Goethes, Vol. 2 Noten und Abhandlungen, Vol. 3

Paralipomena). Berlin: Akademie-Verlag.
– 1958. West-östlicher Divan. Noten und Abhandlungen zu besserem Verständnis des West-östlicher Divans. (Burdach, Konrad, ed.) (Vol. 5 Welt- Goethe Ausgabe [Kippenberg, Anton; Petersen, Julius; Wahl, Hans, eds.].) Frankfurt am Main: Freies Deutsches Hochstift Goethe-Museum.
– 1963. Drei Stücke zum Thema vom Ubersetzen. In: Storig, Hans Joachim (ed.), Das Problem des Ubersetzens. Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 34-37.
– 1998. Poems of the West and East: West-Eastern Divan – West-östlicher Divan. Bi-lingual Edition of the Complete Poems. (Mommsen, Katharina, ed.; Whaley, John, trans.)(Germanic Studies in America 68.) Bern, Berlin: Peter Lang.

Gorlée, Dinda L. 1990. Degeneracy: A reading of Peirce’s writing. Semiotica 81(1/2): 71–92.
– 1994. Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce. (Approaches to Translation Studies 12.) Amsterdam, Atlanta: Rodopi.
– 1997. Bridging the gap: A semiotician’s view on translating the Greek classics. Perspectives: Studies in Translatology 5(2): 153–169.
– 2004a. Horticultural roots of translational semiosis. In: Withalm, Gloria; Wallmannsberger, Josef (eds.), Macht der Zeichen, Zeichen der Macht / Signs of Power, Power of Signs: Festschrift für Jeff Bernard / Essays in Honor of Jeff Bernard. (TRANS-Studien zur Veränderung der Welt 3.) Vienna: INST Verlag, 164–187.
– 2004b. On Translating Signs: Exploring Text and Semio-Translation. (Approaches to Translation Studies, 24) Amsterdam, New York: Rodopi.
– 2007. Broken signs: The architectonic translation of Peirce’s fragments. Semiotica 163(1/4): 209–287.
– 2008. Jakobson and Peirce: Translational intersemiosis and symbiosis in opera. Sign Systems Studies 36(2): 341–374.

– 2009. A sketch of Peirce’s Firstness and its significance to art. Sign Systems Studies 37(1/2): 204–269. 51

Greimas, Algirdas Julien; Courtes, Joseph 1982. Semiotics and Language: An Analytical Dictionary. (Christ, Larry; Patte, Daniel; Lee, James; McMahon, Edward II; Phillips, Gary; Rengstorf, Michael, trans.) (Advances in Semiotics). Bloomington: Indiana University Press [French original: Semiotique: Dictionnaire raisonné de la theorie du language. Paris: Hachette, 1979].

Jakobson, Roman 1959. On linguistic aspects of translation. In: Brower, Reuben A. (ed.), On Translation. New York: Oxford University Press, 232–239. Kull, Kalevi; Torop, Peeter 2003. Biotranslation: Translation between Umwelten. In: Petrilli, Susan (ed.), Translation Translation. (Approaches to

Translation Studies 21.) Amsterdam, New York: Rodopi, 315–328 (1st ed. 2000).
Lefevere, Andre 1977. Translating Literature: The German Tradition from Luther to Rosenzweig. Assen, Amsterdam: Van Gorcum.
Lentz, Wolfgang 1958. Goethes Noten und Abhandlungen zum West-ostlichen Divan. Hamburg: Verlag J. J. Augustin.
Lotman, Juri M. 1990. Universe of the Mind: A Semiotic Theory of Culture. (Shukman, Ann, trans.; Eco, Umberto, intro.) London, New York: I. B. Tauris. Merrell, Floyd 1982. Semiotic Foundations: Steps Toward an Epistemology of Written Texts. (Advances in Semiotics.) Bloomington: Indiana University

Press.

– 1995. Semiosis in the Postmodern Age. Purdue: Purdue University Press.
Mertz, Elizabeth 1985. Beyond symbolic anthropology: Introducing semiotic mediation. In: Mertz, Elizabeth; Parmentier, Richard J. (eds.), Semiotic

Mediation: Sociocultural and Psychological Perspectives. (Language, Thought, and Culture: Advances in the Study of Cognition.) Orlando etc.:

Academic Press, 1–19.
Mommsen, Katharina 1981. Goethe und 1001 Nacht. Frankfurt am Main: Suhrkamp [1st ed. 1960, without introduction].
MS = Peirce, Charles Sanders (Manuscripts).
Nicoletti, Antonella 2002. Ubersetzung als Auslegung in Goethes West-östlichem Divan im Kontext fr#hromantischer Übersetzungstheorien und

Hermeneutik. (Basler Studien zur deutschen Sprache und Literatur 18.) Tubingen, Basel: Francke (Diss. University of Basel).
Nida, Eugene A. 1964. Toward a Science of Translating: With Special Reference to Principles and Procedures Involved in Bible Translating. Leiden: Brill.

52

Oxford English Dictionary, The 1989. (Simpson, J.A.; Weiner, E.S.C., eds.) 2nd ed. 20 vols. Oxford: Clarendon Press. [In-text references are to OED 1989, followed by volume number and page numbers]

Paker, Saliha 1998. Turkish tradition. In: Baker, Mona (ed.), Routledge Encyclopedia of Translation Studies. London, New York: Routledge, 571–580. Pannwitz, Rudolf 1917. Die Krisis der Europaischen Kultur. (Rudolf Pannwitz Werke, Vol. 2– 4, Book 1.) Nurnberg: Verlag Hans Carl.
Parmentier, Richard J. 1985. Sign’s place in medias res: Peirce’s concept of semiotic mediation. In: Mertz, Elizabeth; Parmentier, Richard J. (eds.),

Semiotic Mediation: Sociocultural and Psychological Perspectives. (Language, Thought, and Culture: Advances in the Study of Cognition.) Orlando,

etc.: Academic Press, 23–48.
Peirce, Charles Sanders 1931–1958. Collected Papers of Charles Sanders Peirce. (Hartshorne, Charles; Weiss, Paul; Burks, Arthur W., eds.) 8 vols.

Cambridge: Belknap Press of Harvard University Press. [In-text references are to CP: volume number, paragraph number, year]

– 1992–1998. The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings. (Houser, Nathan; Kloesel, Christian, eds.) 2 vols. Bloomington, Indianapolis: Indiana University Press. [In-text references are to EP: volume number: page number, year]

– 1976. The New Elements of Mathematics by Charles S. Peirce. (Eisele, Carolyn, ed.) 4 vols. The Hague, Paris: Mouton; Atlantic Highlands: Humanities Press. [In-text references are to NEM: volume number, paragraph number, year]

– 1997. Semiotics and Significs: The Correspondence Between Charles S. Peirce and Victoria Lady Welby. (Hardwick, Charles S., ed.) Bloomington, London: Indiana University Press. [In-text references are to SS: page number, year]

– (Unpublished manuscripts). Peirce Edition Project. Indianapolis: Indiana University-Purdue University. [In-text references are to MS followed by

page number, year]
Popovič, Anton 1975. Dictionary for the Analysis of Literary Translation. Edmonton: University of Alberta, Dept. of Comparative Literature.
Rado, Gyorgy 1982. Goethe und die Übersetzung. Babel 28(4): 198–232.
Robinson, Douglas 1998. Hermeneutic motion. In: Baker, Mona (ed.), Routledge Encyclopediaof Translation Studies. London, New York: Routledge,

97–99. 53

Ruthven, Malise 1997. Islam: A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University Press.
Said, Edward 2003. Orientalism. Reprint. London: Penguin (1st ed. 1978, without preface).
Savan, David 1987–1988. An Introduction to C. S. Peirce’s Full System of Semeiotic. (Monograph
Series of the Toronto Semiotic Circle 1.) Toronto: Toronto Semiotic Circle.
Scholz, Horst-Gunther 1990. Spielformen in Goethes Alterdichtung. 4 vols. Frankfurt am Main: H.-A. Herchen Verlag.
Sebeok, Thomas A. 1985. Zoosemiotic components of human communication. In: Innis, Robert E. (ed.), Semiotics: An Introductory Anthology.

(Advances in Semiotics.) Bloomington: Indiana University Press: 294–324 [Rev. ed. 1974 and 1977].
– (gen. ed.) 1986. Encyclopedic Dictionary of Semiotics. (Approaches to Semiotics 73.) 3 vols. Berlin etc.: Mouton de Gruyter.
– 2001. The Estonian connection. In: Sebeok, Thomas A., Global Semiotics. (Advances in Semiotics.) Bloomington, Indianapolis: Indiana University Press, 160–171.

Solbrig, Ingeborg H. 1973. Hammer-Purgstall und Goethe:“Dem Zaubermeister das Werkzeug”. (Stanford German Studies 1.) Bern, Frankfurt am Main: Verlag Herbert Lang.

Steiner, George 1975. After Babel: Aspects of Language and Translation. Oxford: Oxford University Press.
Störig, Hans Joachim (ed.) 1963. Das Problem des Übersetzens. Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft.
Thubron, Colin 2009. Madame’s Butterfly Brothel. The New York Book Review 56(10): 24–27 [Review of Bernstein, Richard (2009). The East, the

West, and Sex: A History of Erotic Encounters. New York: Alfred A. Knopf, 2009].
Torop, Peeter 1995. Total’nyj perevod. Tartu: Tartu Ulikooli Kirjastus.
Venuti, Lawrence 1998. The Scandals of Translation: Towards an Ethics of Difference. London, New York: Routledge.

– (ed.) 2004. The Translation Studies Reader. 2nd ed. London, New York: Routledge.

– 2005. Translation, history, narrative. META 50(3): 800–816.

Wertheim, Ursula 1983. Von Tasso zu Hafis. Probleme von Lyrik und Prosa des “Westöstlichen Divans”. Berlin, Weimar: Aufbau-Verlag. 54

Alessandro de Lachenal, LA SCUOLA DI NITRA (E MOLTO ALTRO)

Cominciò con una domanda, apparentemente generica, su una lista di discussione. In realtà risultò ben mirata, perché mi fece rendere conto quasi subito di non saper trovare assolutamente nulla sull’argomento Nitra school – nonostante i libri ben impilati sugli scaffali e qualche altro chiletto di fotocopie impolverate (ricettacolo di temibilissimi pesciolini d’argento).
Ed è finito con un convegno proprio a Nitra, organizzato presso l’università statale diCostantino il Filosofo [1] (così chiamata dal 1996, dopo esser stata fondata quattro anni prima a aprtire da un istituto pedagogico esistente dal 1959) dal locale Dipartimento di studi traduttivi (posso tradurre così ‘Translation Studies’?), dall’Istituto di letterature mondiali dell’Accademia slovacca delle scienze e dalCETRA, il Centro di studi traduttivi di Lovanio.
Una joint venture inedita e (anche per questo) interessante, rispecchiata pure dal titolo assegnato all’intera manifestazione: Some Holmes and Popovič in All of Us?, che Bruno Osimo mima nel suo intervento, fissato per le 14,30 di oggi (giovedì 8 ottobre, nella sessione 1): Any Holmes and Popovič in any of us Italians?

Il logo del convegno slovacco.

Il logo del convegno slovacco.

Tutti gli altri relatori col programma completo li trovate in un PDF di 8 pagine a questo link.
Andate invece sul sito ufficiale per ogni altra informazione, compresa la sponsorizzazione dell’editore Brill, che ha innestato un catalogo tipicamente accademico sulla lunga e nobile tradizione editoriale dei Paesi Bassi (sebbene oggi l’azienda abbia sede non più solo a Leida, ma anche a Boston e Tokyo).

 

Per chi non conosca bene Holmes e Popovič, dirò subito che condividono una morte prematura attorno alla metà degli anni Ottanta, la quale forse ha impedito loro di dispiegare tutte le implicazioni delle loro proposte, che però sono state accolte tempestivamente e in maniera estremamente positiva dalla comunità dei ricercatori interessati.

James Stratton Holmes (1924-1986) figura in quasi tutte le trattazioni di storia più recente della traduzione, nella cui ricostruzione ha assunto, grazie al saggio The Name and Nature of Translation Studies del 1972 (ma pubblicato tre anni più tardi), il ruolo di fondatore della corrente omonima: da un lato voleva opporsi sia all’impressionismo dell’approccio letterario, sia alle pretese di scientificità (ritenute eccessive) dell’approccio linguistico imperante, ma dall’altro ampliava le prospettive di studio e riflessione in una direzione che poi sarebbe stata ‘culturologica’. [2]
Un suo saggio del 1969 sulla traduzione poetica (La versificazione: le forme di traduzione e la traduzione delle forme, tradotto da Margherita Di Michiel) è incluso nell’antologia curata da Siri Neergard, Teorie contemporanee della traduzione(Bompiani 1995, 20022, pp. 239-256); che sia un contributo secondario rispetto al tema qui escusso lo dimostra, credo, il fatto che l’introduzione stessa della curatrice gli dedica una sola paginetta (p. 36), sebbene l’apporto di Holmes alle ‘grandi manovre’ della traduttologia sia comunque riconosciuto nelle note 3 e 17 da Neergard.

Anton Popovič (1933-1984) è invece l’esponente più noto (si fa per dire…) in Occidente della scuola slovacca di Nitra, ed è merito assoluto di Osimo la presenza sul mercato librario italiano del suo testo chiave, «un pilastro della scienza della traduzione»: Teória umeleckého prekladu (Bratislava 1975), che tradotta da Daniela Laudani, rivista da Osimo e collazionata sull’edizione sovietica seriore (Problemy chudožestvennogo perevoda, Moskva 1980) ha dato origine a La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva (Hoepli 2006), «la prima traduzione in una lingua al di qua della vecchia cortina di ferro». [3]
Opportunamente sia la traduttrice sia Laura Salmon [4] rammentano la collaborazione fra i due studiosi ed, è ancora Osimo che affianca le loro schede nel suo Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei (Hoepli 2002, pp. 212-5)

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess Ksenia Elisseeva Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots

Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess

Ksenia Elisseeva

Civica Scuola Interpreti e Traduttori
Laurea specialistica in Traduzione

primo supervisore: professor Bruno OSIMO
secondo supervisore: professoressa Antonella RICCIARDI

Master: Langages, Cultures et Sociétés
Mention: Langues et Interculturalité
Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence Parcours: Traduction littéraire
estate 2008

© The Johns Hopkins University Press 1977
© Ksenia Elisseeva per l’edizione italiana 2008

2

Abstract

This thesis proposes a translation of two articles by two famous Soviet semioticians, Boris Egorov and Isaak Revzin. The scientific article by Egorov regards the cartomantic reading of a person’s life as the creation of a plot in literature. Egorov’s goal is to use the cartomantic system as a rudimentary model for the analysis of literary plots. The article by Revzin pursues Saussure’s analogy between language and chess. By comparing language and chess, he seeks to show that the human intellect uses similar constructions, elements, relations of elements and rules to solve the various tasks of processing information. The second part of this thesis provides a commentary on the translation, the strategy used and the main translational problems.

3

Sommario

Abstract………………………………………………………………………………………. 3 Sommario …………………………………………………………………………………… 4 Traduzione con testo a fronte ………………………………………………………… 5

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots……………… 6 Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci……………………… 7 Language as a Sign System and the Game of Chess…………………… 34 La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi……………….. 35

References ……………………………………………………………………………….. 50 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 51 Analisi traduttologica…………………………………………………………………… 54

Fonte, autori, argomento. …………………………………………………………. 55 Egorov Boris Fedorovič ………………………………………………………… 56 Revzin Isaak Iosifovič …………………………………………………………… 57

Analisi traduttologica ……………………………………………………………….. 58 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 62

4

Traduzione con testo a fronte

5

Chapter 6

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots1.

B. F. Egorov

The exceptionally stormy development of semiotics has naturally brought with it study of the most diverse sign systems, and even cartomancy, fortune- telling with playing cards, has proven to be an object of research. M. L Lekomceva and B. A. Uspenskij’s innovative and intelligent essay has provided us with many valuable and interesting formulations (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). However, the present study does not in fact accept one of their essay’s main theses, that the system of fortune-telling «contains the potential for several interpretations» and the fortune-teller «always possesses several degrees of freedom».

In the essay mentioned, emphasis is put on studying the pragmatics of the “game” for the fortune-teller and for the person having his fortune told. “Professional” fortune-telling is definitely presupposed, in which a fortune-teller conducts a game of divining past and present with his naive victim. But in such a “game”, particularly when the victim does not look at the cards or understands nothing about them, one can speak not of several but of infinite degrees of freedom. For the “professional” fortune-teller, the cards are a pure fiction, and information is received not from the cards but from the external and internal appearance of the person having his fortune told and from his reaction to the fortune-teller’s words. Even the prediction of the future is usually not obtained from the cards: a future is constructed for the victim that is capable of achieving the most “mercenary” effect, and it is based on a study of his character.

1 This article appeared also in Russian as «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

6

Capitolo 6

Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci1.

B. F. Egorov

Lo sviluppo eccezionalmente rapido della semiotica ha naturalmente favorito lo studio dei diversi sistemi segnici, e anche la cartomanzia, divinazione mediante le carte da gioco, è diventata oggetto di studio. L’articolo innovativo e brillante di M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij ci ha fornito una serie di formulazioni valide e interessanti (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). Tuttavia nel presente saggio una delle più importanti tesi espresse dagli studiosi, secondo i quali il sistema della cartomanzia «è un terreno soggetto a varie interpretazioni» e il cartomante «ha sempre parecchi gradi di libertà», viene respinta.

Gli autori dell’articolo pongono l’accento sullo studio della pragmatica del “gioco” della cartomante e di chi vi si rivolge. Viene utilizzato il metodo “professionale” di divinazione, in cui la cartomante conduce con la sua ingenua vittima il gioco volto a indovinare il passato e il futuro. Trattandosi di un “gioco”, soprattutto quando la vittima non guarda le carte o non ne capisce molto, si può dire che i gradi di libertà sono, più che parecchi, infiniti. Per la cartomante “professionale”, le carte sono oggetto di pura finzione, e le informazioni non vengono apprese dalle carte stesse ma dall’apparenza esterna e interna del cliente e dalla sua reazione alle parole della cartomante. Nemmeno la predizione del futuro avviene tramite la lettura delle carte: il futuro della vittima viene rappresentato in modo tale da poter ottenere il massimo effetto “mercenario” ed è basato sullo studio del carattere della persona interessata.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

7

Such a method of fortune-telling does not belong in general to scientific study as a sign system because it is susceptible to an infinite number of degrees of freedom and accordingly to infinite probable outcomes. However, it can be of great interest for game theory and for psychologists.

On the contrary, “honest” fortune-telling, which is most prevalent inside a circle of acquaintances and in telling one’s own fortune, is as a rule a rigid system almost devoid of freedom of choice. In this system, each card has one unique meaning that can vary only in strictly stipulated, isolated instances; various nuances of meaning are created only in the context of the entire distribution of cards, as is discussed below. Obviously such a system is elaborated during a centuries-long developmental process in which the most significant and diverse actions and consequences are selected, and in this form it attracts our attention as a system of plots.

I shall take as my example one of the systems of fortune-telling which is widespread in Petersburg-Leningrad1. This system is only one variant of Russian methods of fortune-telling; of course fortune-telling as a “serious” attribute of everyday Iife is now almost extinct in our country, and has been preserved mainly as an amusement.

Depending on the person whose fortune is being told, an appropriate face card is chosen from among the cards; in this system, kings and queens are the only face cards used. In personal, direct fortune-telling, the queen of spades naturally loses validity for ethical reasons, but in indirect, impersonal fortune- telling, it is theoretically possible to utilize the queen of spades, especially if the fortune-teller has grounds for thinking that a woman is a “villainess”.

1 There are a great many systems of cartomancy, and the literature describing the various methods is extremely extensive. We shall mention only a few books in the Russian language: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Moscow, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Moscow, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

8

Tale metodo di divinazione non può essere considerato un sistema segnico e di conseguenza un oggetto di studio scientifico poiché suscettibile a un numero infinito di gradi di libertà e quindi di esiti possibili, ma può essere interessante per la teoria del gioco e la psicologia.

Al contrario, la cartomanzia “onesta”, quella praticata tra persone che si conoscono, e l’auto-cartomanzia, di norma costituiscono un sistema rigido, quasi privo di ogni libertà di scelta. In questo sistema, ogni carta ha un unico significato che può variare solo in casi isolati, rigorosamente specificati; le varie sfumature di significato sono create nel contesto della completa distribuzione delle carte. Questo caso verrà esaminato successivamente. Questo sistema ha evidentemente subìto nei secoli un lungo processo evolutivo nel quale sono state selezionate diverse azioni e conseguenze significative. Concentreremo la nostra attenzione su questa forma del sistema in quanto sistema di intrecci.

In qualità di esempio analizzerò uno dei sistemi di divinazione diffuso a Pietroburgo-Leningrado1, uno dei tanti metodi di cartomanzia usati in Russia. La cartomanzia, intesa come attributo “serio” della vita di ogni giorno, nel nostro paese si è quasi estinta; è sopravvissuta intesa meramente come gioco.

A seconda dell’oggetto di divinazione [di cui viene predetto il futuro; N.d.T.] dalle carte figure ne viene scelta una appropriata; nel sistema in questione vengono usate solo le figure del re [K] e della donna [Q]. Nella divinazione personale, diretta, la donna di picche [Q♠] viene esclusa per motivi etici; mentre nella divinazione indiretta, impersonale, soprattutto se il soggetto di divinazione [la persona che interessa all’oggetto o, nel caso dell’autocartomanzia, la persona che la cartomante ha in mente; N.d.T.] è una donna considerata “malvagia”, può essere scelta la donna di picche.

1 Vi sono svariati sistemi cartomantici e la letteratura che descrive i vari metodi è estremamente vasta. Accenniamo solo ad alcuni dei libri in lingua russa sull’argomento: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Mosca, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Mosca, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

9

The following table lists the meanings of the face cards and of the predicate cards that denote a state or action. A deck of thirty-six cards is used in the fortune-telling.

10

Nella tabella riportata di séguito vengono elencati i significati delle carte figure e delle carte predicato, cioè quelle di stato e di azione. [Nella tabella e in tutto il saggio i nomi delle carte verranno abbreviati secondo il sistema usuale: A♣ – asso di fiori, K♠ – re di picche, Q♥ – donna di cuori, J♦ – fante di quadri, 10♣ – 10 di fiori e così via; N.d.T.]. In questo sistema di divinazione si usa il mazzo contenente trentasei carte.

11

Suit Denomination

Clubs ♣

Spades ♠

Hearts ♥

Diamonds ♦

Ace (A)

bank (+ K♣ + Q♣ – their house)

blow (+ K♠ + Q♠ – their house)

family house (+ K♥ + Q♥ – their house)

receipt of a letter

King (K)

“financial” (employee, elderly man or widower)

soldier

married man, not old

unmarried person

Queen (Q)

elderly lady or widow (+ K♣ – his lady)

villainess (+ K♠ – his lady)

married woman, not old (+ K♥ – his lady)

girl

Jack (J)

troubles in connection with the bank (+ K♣ + Q♣ – their troubles)

unpleasant, unjust troubles (+ K♠ – his troubles)

domestic troubles (+ K♥ + Q♥ – their troubles)

pleasant, amusing troubles

10

great change

unpleasantness, illness (+ K♠ – interest toward the person)

domestic card

large amount of money

9

change (+ 10♣ – very great change; + K♣ + Q♣ – affectionate attitude toward the person)

unpleasantness, illness (+ 10♠ – very bad; + K♠ + Q♠ – affectionate attitude towards the person; + Q♠ – villainous intent)

domestic love (+ K♥ + Q♥ – their love for someone)

small amount of money (+ 10♦ – very large amount of money)

8

financial conversation

unpleasant conversation (+ K♠ – conversation with him)

domestic conversation

cheerful conversation

7

financial meeting

late meeting (+ K♠ – meeting with him)

quick meeting

cheerful meeting

6

financial journey

long journey

short journey

early, pleasant journey

12

Seme Valore

Fiori ♣

Picche ♠

Cuori ♥

Quadri ♦

Asso (A)

edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro casa)

colpo (+ K♠ e Q♠ – loro casa)

casa (+ K♥ e Q♥ – loro casa)

recapito di una lettera

Re (K)

uomo (impiegato) “pubblico”, anziano o vedovo

soldato

uomo sposato, non anziano

uomo celibe

Donna (Q)

donna anziana o vedova (+ K♣ – sua donna)

donna malvagia (+ K♠ – sua donna)

donna sposata, non anziana (+ K♥ – sua donna)

donna nubile

Fante (J)

faccende legate a un edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro faccende private)

faccende inutili (spiacevoli) (+ K♠ – sue faccende private)

faccende famigliari (+ K♥ e Q♥ – loro faccende private)

faccende divertenti

10

grande cambiamento

dispiacere, malattia (+ K♠ – interesse per il soggetto)

carta di famiglia

molto denaro

9

cambiamento (+ 10♣ – grande cambiamento; + K♣ e Q♣ – relazione sentimentale con il soggetto)

dispiacere, malattia (+ 10♠ – molto grave; + K♠ e Q♠ – relazione sentimentale con il soggetto; + Q♠ – cattive intenzioni)

affetto tra membri della famiglia (+ K♥ e Q♥ – loro amore per qualcuno)

poco denaro (+ 10♦ – moltissimo denaro)

8

conversazione formale

conversazione spiacevole (+ K♠ – conversazione con lui)

conversazione in famiglia

conversazione divertente

7

incontro formale

incontro successivo (+ K♠ – appuntamento con lui)

incontro imminente

incontro divertente

6

viaggio per scopi non personali

viaggio lontano

viaggio non lontano

viaggio di piacere a breve

13

It is evident that as a rule the majority of cards have a single meaning. Only in particular cases do some cards acquire special meanings or nuances, and here context begins to play an essential role.

Cartomancy proceeds in the following manner. Pairs of cards are drawn consecutively from the deck until the card appears that is the basis for the fortune-telling and constitutes the person’s card. The card paired to it is “next to” and “close to” the person. The person’s card (1) is placed in the center, the rest of the cards are gathered into the deck again and reshuffled, and then the cards are laid down. We shall omit the details of laying out the cards as essentially unimportant and shall describe only the result of the distribution. Two cards (2, 3), and then four more (4-7), are placed on the person’s card; they are what the person has “on his heart”. The other cards are arranged in eight groups around the center in the following way:

16, 17 1 18, 19

Nine cards obviously remain outside the distribution; they are discarded and do not take part in the fortune-telling. Cards 8-15 describe the person’s past (“what was”), cards 16-19 describe the present (“what is”), and cards 20-27 describe the future (“what will be”).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

14

13, 14 15

È evidente che di norma la maggioranza delle carte ha un solo significato. Solo in casi particolari alcune carte acquisiscono un significato o una sfumatura speciale e il contesto comincia a esercitare un ruolo fondamentale.

La cartomanzia avviene nel modo seguente. Coppie di carte vengono consecutivamente estratte dal mazzo fino quando esce la carta che rappresenta l’oggetto di divinazione. La carta-compagna indica quello che è «accanto» o «vicino» alla persona. La carta dell’oggetto (1) vene collocata al centro, le carte rimanenti vengono di nuovo raccolte nel mazzo, mescolate e distribuite. Ometteremo i dettagli della distribuzione in quanto privi d’importanza essenziale e descriveremo solo i risultati. Due carte (2, 3) e dopo altre quattro (4-7) vengono collocate sopra la carta dell’oggetto e rappresentano quello che l’oggetto «ha nel cuore». Le altre carte vengono collocate in otto gruppi attorno alla carta centrale come segue:

16, 17 1 18, 19

È evidente che nove carte restano escluse dalla distribuzione; queste carte vengono scartate e non partecipano alla divinazione. Le carte 8-15 caratterizzano il passato dell’oggetto («quel che c’era»), le carte 16-19 – il presente («quel che c’è»), le 20-27 – il futuro («quel che ci sarà»).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

15

13, 14 15

“Reading” the cards takes place in this sequence: initially the cards that the person has “on his heart” are read (at first 2-3, then 4-7), then come “what was”, “what is”, and “what will be”. The order of the cards within a group can be significant for all groups except the center. The positions of the cards in relation to the center, the person, are important because reading takes place from the center to the periphery in a sequence such as 1-17-16 or 1-(13, 14)-15. The person “acquires” the last card by and through the intermediate card or cards. For example, if card 16 stands for the journey and card 17 is an individual, then the person whose fortune is being told turns out to be on a journey because of this individual; if, on the contrary, 16 is an individual and 17 is the journey, then this individual will come on a journey to the person whose fortune is being told. Clearly the sentences, “a meeting due to money” and “money due to a meeting”, have different meanings. In short, the syntax in reading all eight peripheral groups requires a “direct” order of words from the center to the last card and does not permit inversion. The order of the cards is neutral only in isolated cases; for example, 9♣ + K♣ + Q♣ signify an affectionate attitude toward the person whether they are in extreme or middle position. As a result, a structure is created in which the sum, so to speak, of simple elements generates a complex whole whose overall meaning is changed substantially by varying correlations of elements.

After the reading of the entire distribution of cards comes the divination of “what remains to the person”, what the final result of this or another period of the person’s life will be. It is also possible to make subsequent distributions of the cards on themes such as “what will soothe”, “for you”, “for the home”, and “for the heart”. Only very primitive sentences are created by these divinations, which are limited in number to between three and nine cards, together with the predivination that determines the person’s card by the paired card “next to” it. Therefore we can omit them from consideration without detriment, and henceforth shall only consider the basic distribution of cards.

Reading this distribution generates an entire “history” of the person’s life and thus creates a plot. There are an extraordinarily great, though finite, number of plots.

16

La “lettura” delle carte avviene come segue: prima di tutto si leggono le carte «nel cuore» dell’oggetto (prima le 2-3, dopo le 4-7), poi «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà». L’ordine delle carte all’interno di ogni raggruppamento può essere significativo per tutti i gruppi a accezione di quello centrale. È fondamentale il posizionamento delle carte rispetto al centro, l’oggetto; la lettura avviene partendo dal centro verso la periferia, cioè in questo ordine: 1→17→16 oppure 1→(13, 14)→15. L’oggetto “acquisisce” la carta esterna tramite la/e carta/e intermedia/e e grazie a esse. Se, per esempio, la carta 16 significa «viaggio» mentre la 17 è una figura, l’oggetto farà a breve un viaggio grazie all’individuo rappresentato dalla figura 17; se invece 16 sta per un individuo e 17 è un viaggio, l’individuo 16 sta per arrivare da lontano verso l’oggetto. È chiara la differenza tra le affermazioni «incontro a causa di denaro» e «denaro a causa di incontro». In breve, la sintassi nella lettura di tutti gli otto gruppi periferici richiede l’ordine “diretto” delle parole, dal centro alla carta esterna, e non ammette inversioni. L’ordine delle carte è neutro solo in casi isolati; per esempio, 9♣ accanto a K♣ e Q♣ sia nella posizione laterale che in quella centrale significa «relazione sentimentale con il soggetto». In séguito si crea una struttura nella quale la somma degli elementi, supponiamo, semplici genera un insieme complesso il cui senso generale cambia notevolmente variando le correlazioni tra gli elementi.

Alla lettura dell’intera distribuzione delle carte segue la divinazione di «quel che resta» all’oggetto, di quale risultato finale del periodo di vita attuale o immaginato lo attende. Sono inoltre possibili le successive distribuzioni delle carte sul tema «quel che conforterà», «per te» [per l’oggetto], «per la casa» [per la famiglia], «per il cuore». Siccome in questi tipi di divinazione, e anche nella fase iniziale in cui dalla carta-compagna della carta dell’oggetto si predice «quel che è accanto», si usa un numero limitato di carte (da 3 a 9) e vengono generate delle frasi primitive, le si può considerare meno rilevanti per la nostra ricerca, quindi ci occuperemo prevalentemente della distribuzione principale.

La lettura di questa distribuzione ci porta a conoscere l’intera “storia” dell’oggetto creando un intreccio. Il numero degli intrecci è estremamente alto, ma finito.

17

Even if we disregard the variants generated by the order of the cards within the group and consider only the possibility that cards in the deck have of being the person’s card, or of being in groups like “on the heart”, “what was”, “what is”, or “what will be”, then according to the formula of combinations the number of plots will be equal to 12•1022. Taking into account all the variants arising from diverse arrangements or permutations of cards within each of the peripheral groups, this number must be multiplied yet another one hundred times and becomes twelve septillions or 12•1024. If the three billion inhabitants of the terrestrial globe were each to make a new distribution of cards every minute, they would exhaust all the variants after ten billion years of uninterrupted labor; but it is calculated that the solar system will only last approximately another eight billion years, and certainly people will find themselves more interesting and important pursuits during this period.

Moreover, the enormous number of plots are created by thirty-six cards, a very limited set of signs. Hence arises one of the cardinal questions of the theory of plots, that of the “primary element”. On the basis of the material of folklore and of ancient and medieval literature, the academician A. N. Veselovskij suggested that the primary plot element is the motif, «the simplest narrative unit which responds figuratively to the diverse inquiries of the primitive mind or of everyday observation» (Veselovskij 1940: 500). An eclipse of the sun and abduction of a girl are typical motifs. V. Â. Propp later set himself the goal of creating a complete list of motifs of fairy tales by analyzing one hundred plots from Afanas’ev’s collection of tales. He defined his primary elements more exactly as functions and obtained thirty-one such functions, including “a member of the family leaves home”, “a ban is imposed on the hero”, “a ban is broken”, and so on (Propp, 1968: 25-65). It seems that functions can be divided into even smaller units such as “hero”, “departure”, “ban”, “antagonist”, “deception”, and “struggle”, which would turn out to be at least half as few functions as thirty-one. But the fact remains that such units do not aid us at all in understanding the essence of the fairy tale, for they cannot be freely correlated with each other: to wit,

18

Anche se ignoriamo le varianti originate dall’ordine delle carte all’interno del gruppo e consideriamo solo la possibilità che ogni carta del mazzo ha di diventare la carta dell’oggetto, la carta del gruppo «nel cuore», «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà», secondo il calcolo combinatorio il numero degli intrecci è approssimativamente pari a 12•1022. Calcolando tutte le varianti derivanti dalla diversa disposizione o permutazione degli elementi all’interno di ogni gruppo periferico, questo numero va ulteriormente moltiplicato per 100 e diventa dodici settime potenze di un milione, cioè 12•1024. Se ognuno dei tre miliardi di abitanti del globo terrestre facesse una nuova distribuzione ogni minuto, si esaurirebbero tutte le varianti in dieci miliardi di anni di lavoro ininterrotto; è stato calcolato però che il sistema solare durerà solo altri otto miliardi di anni e le persone, sicuramente, nel frattempo troveranno di meglio da fare.

Inoltre, questo grande numero di intrecci è creato da sole trentasei carte, un numero molto limitato di segni. Da qui deriva una delle questioni cardinali dell’intrecciologia, quella dell’“elemento primario”. Sulla base del materiale folcloristico e della letteratura antica e medievale, l’accademico A. N. Veselovskij ha supposto che l’elemento primario dell’intreccio sia il motivo, «la più elementare unità narrativa che risponde figurativamente a diverse indagini della mente primitiva o delle osservazioni quotidiane» (Veselovskij 1940: 500). Alcuni dei motivi tipici sono l’eclissi solare e il rapimento della fanciulla. Successivamente V. Â. Propp si era posto l’obiettivo di completare un elenco dei motivi della fiaba attraverso l’analisi di cento intrecci dalla raccolta di fiabe di Afanas’ev. Per essere precisi, ha definito i suoi elementi primari come «funzioni» e ne ha individuate trentuno tra cui: «un membro della famiglia va via di casa», «all’eroe viene posto un divieto», «un divieto viene violato» e così via (Propp, 1968: 25-65). Le funzioni potrebbero essere suddivise ulteriormente in unità ancora più piccole, come «eroe», «partenza», «divieto», «antagonista», «inganno», «lotta» e diventare perciò la metà del numero proposto da Afanas’ev, ma queste unità non facilitano affatto la comprensione dell’essenza della fiaba poiché non possono essere liberamente correlate tra loro, vale a dire:

19

the ban is imposed on the hero, and not on the antagonist or donor; the antagonist is precisely the one who is properly punished (the thirtieth function) and not the hero or his helper. Syncretic thought operated by using integral segments that themselves represented short plots and that passed undivided from tale to tale, and therefore further differentiation of Propp’s functions would be senseless.

The increasing complication of life and the emergence of an elemental dialectics in thought led to a more flexible and free correlation in the artist’s consciousness between the separate elements of a function, as well as to the appearance of many completely new elements and functions. It would be very valuable to analyze the process of disassociation of motif-functions into more minute units and the emergence of new motif-functions as it takes place over the course of many centuries; for instance, the plot of Puškin’s Ruslan i Lûdmila could be compared, by using Propp’s method, with traditional fairy tale plots. A characteristic feature of modern literature is the disassociation of motifs into their component parts or submotifs, which enter into free interactions with each other as subjects and predicates. Growth in the number of elements increases proportionally to the number of ties between them, which in turn complicates the structure as a whole. Therefore, attempts to reduce all the diversity of world dramaturgy to three dozen or so plots are naïve (see Polty 1895).

Although the origin of cartomancy dates from extreme antiquity, contemporary cartomantic systems are the fruit of a new era. In them, each card is not a motif or “little plot”, but an element that only generates a plot in conjunction with other elements. In turn, each element or card cannot be divided further, and all thirty-six cards are indivisible elements. It is very difficult to classify these elements without taking into consideration the common division into subjects (face cards) and predicates (actions or states). No hierarchy based on suit or denomination, aesthetic or ethical categories, can be observed in our system. The feebly outlined opposition in face cards between the sexes, and the contrast in suits between old and young, married and unmarried, is entirely absent in predicates. Predicates can be conventionally grouped in twelve categories,

20

il divieto è posto all’eroe e non all’antagonista o al donatore; è l’antagonista che viene punito a dovere (la trentesima funzione), non l’eroe o il suo aiutante. Il pensiero sincretico ha agito attraverso segmenti interi che di per sé rappresentavano intrecci brevi che passavano intatti di fiaba in fiaba; di conseguenza un’ulteriore suddivisione delle funzioni di Propp non avrebbe senso.

Le condizioni di vita in peggioramento e la nascita della dialettica spontanea nel pensiero hanno portato a una correlazione più flessibile e libera nella coscienza dell’artista tra i vari elementi di una funzione e inoltre hanno portato alla comparsa di molti elementi e funzioni completamente nuovi. Sarebbe molto utile analizzare il processo di disintegrazione di motivi-funzioni in unità più piccole e la comparsa di elementi nuovi che avviene nel corso di molti secoli; per esempio l’intreccio di Ruslan i Lûdmila di Puškin può essere paragonato, secondo il metodo di Propp, agli intrecci tradizionali della fiaba. Un aspetto caratteristico della letteratura moderna è la disintegrazione dei motivi nelle parti integranti, sottomotivi o soggetti e predicati che entrano in relazioni libere tra loro. La crescita del numero degli elementi aumenta proporzionalmente al numero dei legami tra loro, e questo a sua volta complica la struttura in generale. Sono perciò ingenui i tentativi di limitare tutta la diversità della drammaturgia mondiale a una trentina di intrecci (si veda Polty 1895).

Nonostante le origini della cartomanzia risalgano alla più remota antichità, i sistemi cartomantici contemporanei sono frutto di una nuova epoca. Ogni carta qui non è un motivo o un “piccolo intreccio”, ma un elemento che genera un intreccio se collegato ad altri elementi. Ogni elemento o carta a sua volta non può essere divisa ulteriormente; tutte le trentasei carte sono perciò elementi indivisibili. È molto difficile classificare questi elementi senza prendere in considerazione la suddivisione comune in soggetti (carte figure) e predicati (azioni o stati). Nel nostro sistema è assente ogni suddivisione in base a semi e valori, categorie etiche ed estetiche. La contraddizione poco evidente, nelle carte figure, tra sessi, e il contrasto nei semi tra anziano e giovane, sposato e non sposato è del tutto assente nei predicati. I predicati possono essere formalmente raggruppati in dodici categorie

21

and many denominations have a common type of meaning for all or some suits:

1. change;
2. troubles;
3. illness;
4. receiptofmoney; 5. love;

6. family;
7. conversation;
8. meeting;
9. journey;
10. blow;
11.receipt of a letter; 12.sojourn in some house.

These twelve groups of predicates acquire a more specific meaning in context; some groups, at least two, seven, eight, and nine, are four variants of the same meaning. Almost all meanings in group classification are ethically and aesthetically neutral. Figure cards remain neutral as a rule even in the substitution of suits; Q♠ is an exception, but only in the absence of her cavalier, since the auxiliary status of K♠ frees Q♠ from any condemnation or even ethical suspicion. The groups of predicates one, two, six, seven, eight, nine, eleven, and twelve are neutral in themselves. Only four and five convey a clearly positive meaning, while three and ten are negative; due to their uniqueness, as a rule these groups include only one card, or more rarely two cards. Predicates of the majority of groups are evaluated only when their suit and value are specified, as in unpleasant troubles (J♠), amusing troubles (J♦), unpleasant conversation (8♠), cheerful conversation (8♦). It turns out that the second part of a card’s conventional meaning, its value or denomination, designates, as it were, the state or action itself, while the first part, its suit, introduces something qualitative, evaluative, or attributive.

22

e molti valori hanno lo stesso significato per tutti i semi o per alcuni:

1. cambiamento,
2. faccende,
3. malattia,
4. riscossionedidenaro, 5. amore,

6. famiglia,
7. conversazione,
8. incontro,
9. viaggio,
10. colpo,
11.recapito di una lettera, 12.permanenza in un edificio.

Questi dodici gruppi di predicati acquisiscono un significato più specifico nel contesto; alcuni gruppi – il secondo, il settimo, l’ottavo e il nono – sono le quattro varianti dello stesso significato. Quasi tutti i significati nella classificazione di gruppo sono eticamente ed esteticamente neutrali. Normalmente le carte figure restano neutrali nonostante il significato generale del seme: la donna di picche ne è l’eccezione solo quando il suo “cavaliere” è assente dato che la posizione “ufficiale” di K♠ libera Q♠ da qualsiasi condanna o sospetto di carattere etico. I gruppi dei predicati uno, due, sei, sette, otto, nove, undici e dodici sono neutri. Soltanto il quattro e il cinque esprimono un significato chiaramente positivo, mentre il tre e il dieci sono negativi; e proprio grazie alla loro unicità questi gruppi comprendono di solito solo una o al massimo due carte. I predicati della maggioranza dei gruppi diventano positivi o negativi a seconda del seme e del valore: faccende spiacevoli (J♠), faccende divertenti (J♦), conversazione spiacevole (8♠), conversazione divertente (8♦). Risulta che la prima parte della denominazione convenzionale della carta – il suo valore – significa lo stato, l’azione, invece la seconda parte – il seme – introduce una caratteristica qualitativa, valutativa o attributiva.

23

However, it is significant that a number of predicates do not specify a precise meaning even with substitution of suit and value; a long journey or financial meeting tell us nothing or almost nothing by themselves. This pertains particularly to 10♣ and 9♣, which constitute group one of predicates. “Change” is such a broad term that in fact it embraces all the other groups of predicates, any of which introduces change into the person’s life. It would surely be tempting to adopt an order of reading that passes from the less informative to the more informative cards, for instance from 10♣ to A♠ or 9♦1, but in our system the amount of information conveyed by a card does not influence the order of reading. Possibly, therefore, “change” should not be considered as including all the other signs of the system, but rather all the rest of the possible predicates not contained in the table of meanings. Strictly speaking, it is impossible to measure abstractly a relative amount of information or even to establish a hierarchical scale, since the informational meaning of a card can increase considerably in any specific context; and moreover, the person whose fortune is being told, whether a listener or viewer of the process of distribution and reading, could experience various subjective reactions to any card. For a certain person, a card that in context is more informative may prove to be far less quantitatively and qualitatively informative than a supposedly rather uninformative card, and vice versa. As in perceiving a work of art, subjective associations cannot be avoided, and therefore several, if not an infinitely great number, of referential variants can correspond to the sign’s meaning. But also as in art, there exists none the less an objective system of rudimentary symbols that can be transcribed by “formulae” (the cards’ conventional signs), by distribution in a quadrant, or more conveniently,

1 For example, this is how M. I. Lekomceva and B. A. Uspenskij describe the system known to them, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

24

Tuttavia è significativo che alcuni predicati non specifichino né generalizzino il significato neanche nel caso della sostituzione del seme o del valore; un viaggio lontano o un incontro formale di per sé non ci dicono niente o quasi niente. Questo riguarda in particolar modo 10♣ e 9♣, facenti parte del primo gruppo di predicati. «Cambiamento» è un termine talmente vasto che in effetti comprende tutti gli altri gruppi di predicati, ognuno dei quali introduce un cambiamento nella vita dell’oggetto. Sarebbe sicuramente stato allettante adottare un ordine di lettura tale da analizzare le carte meno informative prima di quelle più informative, partendo per esempio da 10♣ per arrivare a A♠ o 9♦1, ma nel nostro sistema di divinazione la quantità d’informazioni contenute in una carta non influisce sull’ordine di lettura. È probabilmente per questo motivo che la categoria «cambiamento» non va considerata un contenitore di tutti gli altri segni del sistema, ma piuttosto tutti gli altri possibili predicati vanno esclusi dalla tabella dei significati. A rigor di termini, è impossibile misurare in modo astratto una quantità relativa di informazioni o anche stabilire una scala gerarchica, poiché il significato informativo di una carta può diventare considerevolmente più intenso in un contesto specifico; e inoltre l’oggetto di divinazione, essendo un ascoltatore o uno spettatore del processo di distribuzione e di lettura, può sperimentare diverse reazioni soggettive a qualunque carta. Una carta più informativa nel contesto può risultare per una persona quantitativamente e qualitativamente molto meno informativa di quanto non lo sia una carta presumibilmente poco informativa e viceversa. Così come nella percezione di un’opera d’arte una persona non può evitare associazioni soggettive, così al significato di un segno possono corrispondere diversi, se non innumerevoli, varianti referenziali. Tuttavia, esattamente come nell’arte, esiste un sistema oggettivo di simboli univoci che può essere trascritto da “formule” (denominazioni convenzionali delle carte) o attraverso la distribuzione in un quadrante o, più comodamente,

1 Per esempio, è così che M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij descrivono un sistema che gli è noto, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

25

by an “unraveled” line that retains the order of reading cards by groups and arranges the cards within each group in the order in which they should be read. Here, for example, is the transcription of a distribution, showing the card of the person whose fortune is being told (Q♥) and separating the groups within each temporal stratum with semicolons: Q♥, on her heart 7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦, what was K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣, what is A♣, K♦; 9♥, K♥, what will be 7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠.

Thus we can describe the plot of cartomancy conventionally and unambiguously, as with a game of chess, so that any reader can interpret its factual and emotional details. It is far more difficult to analyze the plots of works of art. A writer writes down a complete text by drawing upon the enormous reservoir of poetic vocabulary and saturates it with his ideas, emotions, and associations. The subsequent inclusion of the reader’s subjectivity is wholly natural and analogous, though also more complex, to reading the distribution of the cards. Here “formulization” does not entail a simple ruling of a table into four suits by nine denominations, with inscription of the corresponding meanings of the cards, but rather an extremely difficult examination of how to elaborate the very principles of classification. Some principles will be needed by the researcher interested in plot syntax, plot grammar, and the dialectics of correlating plot elements; other principles will be needed by the historian of plots. Special scales must be created in each instance, and we literary scholars unfortunately do not yet possess a “Mendeleev’s table” of plots. The necessity of creating such tables during the next few years hardly needs to be demonstrated1.

1 True, there are still opponents of typology in literary scholarship in general who say that it destroys the specificity and unique individuality of artwork and writer. For some reason they do not protest against the classification, let us say, of characters in psychology or of types in anthropology. In those cases, systematics obviously does not suppress the distinctiveness of individuals. But why then is it contraindicated in literary scholarship?

26

in forma “dettagliata”, in una linea che mantiene l’ordine di lettura delle carte per gruppi e dispone le carte all’interno di ogni gruppo secondo l’ordine in cui vanno lette. Qui di seguito, per esempio, è riportata la trascrizione di una distribuzione in cui gli strati temporali vengono contrassegnati e divisi da parentesi di diversa forma: «nel cuore» – {}, «quel che c’era» – <>, «quel che c’è» – [], «quel che ci sarà» – (). I gruppi all’interno di ogni stato possono essere separati da punto e virgola. La carta dell’oggetto verrà contrassegnata dal corsivo. La trascrizione risulta quindi: Q♥ {7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦}, <K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣>, [A♣, K♦; 9♥, K♥], (7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠).

È quindi possibile descrivere l’intreccio della cartomanzia in modo convenzionale e univoco, come nel gioco degli scacchi, in modo che ogni lettore possa interpretare i suoi dettagli fattuali ed emotivi. È molto più difficile invece analizzare gli intrecci di un’opera letteraria. Il processo di stesura dell’opera richiede l’uso del vasto vocabolario poetico e contiene idee, emozioni e associazioni dell’autore. Vi si aggiunge naturalmente l’interpretazione soggettiva del lettore, in un modo analogo alla lettura delle carte, ma assai più complesso. Qui la “formulizzazione” non si limita a tracciare una tabella con quattro colonne per i semi e nove per i valori e a compilarla con i corrispettivi significati delle carte, ma consiste piuttosto in uno studio estremamente difficile per elaborare i princìpi stessi di classificazione. Un ricercatore interessato alla sintassi, alla grammatica dell’intreccio, alla dialettica delle relazioni tra gli elementi dell’intreccio, usa princìpi diversi da quelli applicati da, supponiamo, uno storico dell’intrecciologia. In ogni caso sarà necessario creare una tabella diversa. Noi studiosi di narratologia purtroppo non disponiamo ancora di una “tavola periodica di Mendeleev” degli intrecci. Il fatto che simili tabelle dovranno essere create nei prossimi anni è indubbio1.

1 È vero che esistono ancora critici di tipologia generale nella narratologia secondo i quali la tipologia distrugge la specificità e l’individualità irripetibile di un’opera d’arte o di uno scrittore. Per una strana ragione non protestano contro la classificazione, diciamo, di caratteri in psicologia o di tipi in antropologia. In quei casi la sistematica, evidentemente, non reprime la particolarità degli individui. Ma per quale ragione allora è controindicata per la narratologia?

27

Comparative study of literatures, epochs, writers, and schools is greatly impeded by the lag in plot analysis, and plot theory remains in a petrified state although there is more than sufficient preliminary material. Researchers of literary plots could already be profiting from the services of contemporary computers1, but they cannot do so until a rigorous and exact system of classification is elaborated.

Plot analysts can be aided by plot systems already in existence, such as the cartomantic system that we have examined. Except for simple systems like the detective story (see Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), the literary scholar does not treat two or three dimensions like the fortune-teller’s suit, denomination, and time group, and thus we must create multidimensional tables. But the main dimensions of the cartomantic system enter into literary scholarship as a particular case. Denomination, conventionally speaking, remains a principal dimension for the literary scholar and fabulist, and includes persons, actions, and states as well as the grouping of topics and concepts. Suit is analogous to a plot-table of distinctive traits and evaluations that are ethical-aesthetic and qualitative. This series is particularly important so that we can transmit in our formulae evaluations by the author of the events and characters he has depicted. Scales of time and space are also possible. In the cartomantic system, the majority of “circumstantial” categories of place, cause, and effect, are expressed by the predicates themselves; in literary scholarship, they can be included in the scales of actions and states, or of topics and concepts, by adding categories such as time and purpose.

To be sure, a limited set of signs threatens to impoverish the diversity of plot connections and meanings, and hence our task is to discover units that would reflect in totality all the essential features necessary for this research. Even the most detailed plot formula

1 The broad dissemination of teaching and examining machines during the next few years will render the problem of the “formulization” of plots even more acutely urgent.

28

Lo studio comparato di letterature, epoche, scrittori e correnti è fortemente ostacolato dall’arretratezza dell’intrecciologia; la teoria dell’intreccio si trova in uno stato pietrificato nonostante il materiale preliminare sia più che sufficiente. Gli studiosi degli intrecci narrativi avrebbero già potuto servirsi dei computer contemporanei1, ma questo non sarà possibile finché non sarà elaborato un sistema rigido ed esatto di classificazione.

D’aiuto agli intrecciologi può essere il sistema degli intrecci esistente, in particolar modo il sistema di cartomanzia che abbiamo analizzato nel presente saggio. A eccezione dei sistemi semplici, come quello di un giallo (si veda Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), il narratologo non si accontenta di due o tre dimensioni come il seme, il valore, e il gruppo temporale nel presente sistema di divinazione, ma necessita di una tabella pluridimensionale. Ma le principali dimensioni del sistema cartomantico fanno parte di questa tabella come caso particolare. Il valore resta la dimensione principale per il narratologo-fiabista e comprende oltre alle figure e alle azioni-stati la categoria di cose e concetti-idee. Nella tabella degli intrecci, al posto della categoria dei semi, compare la categoria del tratto distintivo e della valutazione, ossia la categoria etico-estetica e qualitativa. Questi criteri sono fondamentali soprattutto per trasmettere con le nostre formule la valutazione che l’autore dell’opera attribuisce agli eventi e ai personaggi. Sono possibili anche i criteri del tempo e dello spazio. Nel sistema della cartomanzia la maggior parte delle categorie “circostanziali” di luogo, causa ed effetto sono espresse dai predicati stessi; e possono far parte delle categorie di stati-azioni o cose-concetti insieme alle categorie di tempo e scopo.

È chiaro che una sequenza limitata di segni rischia di impoverire la diversità dei legami e dei significati dell’intreccio, ed è proprio questa la difficoltà: trovare unità capaci di riflettere nella sua totalità tutti gli aspetti essenziali per questo studio. Persino la formula dell’intreccio più dettagliata non

1 La grande diffusione di macchine-insegnanti e macchine-esaminatori dei prossimi anni renderà ancora più attuale il problema della “formulizzazione” degli intrecci.

29

can certainly never take the place of the text itself in its entirety as a work of art, just as no opus of literary scholarship can become a substitute for the object being examined. When the necessary methods of “segmentation” have been elaborated, a reliable system of classification will be created rapidly by means of dichotomies and antinomies.

Twentieth-century literature, which is exceptionally allusive, associative, and often both metaphorical and metonymical, makes ciphering very complex. Metaphors and metonyms do not in themselves create insuperable difficulties, for what is implied can be given in brackets or as a denominator or denominators. It is immeasurably more difficult to show with formulae the meaning of an entire, complex system in which the terms receive a somewhat or totally new meaning not according to the ordinary rules known to the reader (as when Q♠ acquires various meanings in different contexts) but according to some utterly peculiar movements of authorial thought. The new meaning in such a system does not arise automatically from the context, but requires special designation and can consist either of an addition to the sum of existing terms or of a partial or total replacement of existing terms by something new. The problem of how complex structures arise from simple elements is of special interest to the analyst of plot grammar, who must create special signs to describe the different modes of interrelation between the elements, by using L. Hjelmslev’s linguistic “algebra”, for instance (Hjelmslev 1960: 264-389).

Many questions remain to be resolved. The researcher encounters extraordinary difficulty in attempting to reflect extratextual connections with the text in formulization of poetic plots. The problem of the detail and criteria of proportion for ciphering the plot in each specific research method must be considered attentively, along with a dozen great and small problems that are the urgent tasks of the immediate future. In conclusion, we must point out to those who would discredit our approach that formalization in general, the mathematization of literary processes for the purpose of more exact, conclusive analysis, has nothing in common with

30

potrà mai sostituire il testo nel complesso in quanto opera d’arte, così come nessuna opera letteraria potrà sostituire l’oggetto dello studio. Nel momento in cui verranno elaborati i necessari metodi di “segmentazione”, verrà creato rapidamente un sistema compatto di classificazione tramite dicotomia e antinomia.

La letteratura del Novecento, straordinariamente allusiva, associativa e spesso sia metaforica che metonimica, rende la cifratura molto complessa. Metafore e metonimie di per sé non creano difficoltà irrisolvibili poiché le informazioni sottointese possono essere rese tra parentesi o sotto forma di denominatore/i. Il compito di gran lunga più difficile è esprimere il senso di un sistema intero, complesso, nel quale i componenti acquisiscono qualcosa di nuovo, un significato completamente diverso e non secondo le regole usuali che il lettore conosce (ne è un esempio Q♠, che acquisisce significati diversi nei contesti diversi), ma secondo un ordine particolare del pensiero dell’autore. Il significato nuovo in tale sistema non deriva automaticamente dal contesto, ma richiede una designazione speciale e può consistere sia nell’aggiunta alla somma dei termini esistenti sia nella sostituzione totale o parziale di termini esistenti con qualcosa di nuovo. Il problema dell’origine di strutture complesse da elementi semplici interessa in modo particolare lo studioso nel campo della grammatica dell’intreccio il quale deve creare segni speciali per descrivere diversi metodi di interrelazione tra gli elementi, con l’aiuto, per esempio, dell’“algebra” linguistica di L. Hjelmslev (1960: 264-389).

Vi sono ancora tanti problemi da risolvere. Lo studioso il cui cómpito sarà quello di raffigurare i legami extratestuali con il testo e di “formulizzare” gli intrecci poetici, si troverà di fronte a un’enorme difficoltà. Sarà necessario valutare attentamente il problema del dettaglio e dei criteri di proporzione per cifrare l’intreccio per ogni metodo di ricerca. Nel prossimo futuro dovranno essere risolte questa e altre decine di difficoltà maggiori o minori. Per concludere, facciamo notare ai possibili critici del nostro approccio che la formalizzazione in generale e la matematizzazione di processi letterari allo scopo di un’analisi più esatta, conclusiva, non ha niente in comune con il

31

formalism. The scholar will not operate according to our method by using “naked form”, but by employing the elements that are most rich in content, whether it is a matter of analyzing plot, style, or any other category or aspect. This mathematization should aid literary scholarship by opposing scientific analysis to the unsubstantiated talk of subjectivists of all kinds. «Thought, in rising from the concrete to the abstract, does not deviate from the truth if it is correct … but approaches it. … all scientific (correct, serious, nonabsurd) abstractions reflect nature more profoundly, truthfully, completely» (Lenin 1936: 166).

32

formalismo. Lo studioso non dovrà applicare il nostro metodo usando la “nuda forma”, ma gli elementi ricchi di contenuto, che si tratti di analisi dell’intreccio, dello stile o di qualunque altra categoria o aspetto. Questa matematizzazione deve contrapporre l’analisi scientifica precisa alle chiacchiere non comprovate dei soggettivisti. «Il pensiero che parte dal concreto per arrivare all’astratto non si discosta, se è corretto […], dalla verità, ma ci si avvicina […]. Tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) riflettono la natura in modo più profondo, realistico e completo» (Lenin 1936: 166).

33

Chapter 7

Language as a Sign System and the Game of Chess1.

I. I. Revzin

Language is a system that has its own arrangement. Comparison with chess will bring out the point. In chess, what is external can be separated relatively easily from what is internal. The fact that the game passed from Persia to Europe is external; against that, everything having to do with its system and rules is internal. If I use ivory chessmen instead of wooden ones, the change has no effect on the system; but if I decrease or increase the number of chessmen, this change has a profound effect on the “grammar” of the game.

F. de Saussure 1.1 It will be beneficial for the development of semiotic theory to pursue Saussure’s analogy (Saussure 1933: 45). This is all the more timely because cybernetic model-building has encountered fundamental difficulties in relation not only to the game of chess but to linguistic tasks such as machine translation, apparently for similar reasons: in both cases man essentially uses his intuition, while model-building in terms of complete mastery has been

unsuited to solving such problems.

1.2. We have proposed the following comparisons on the basis of structural, not external, traits. It would have been possible in particular to regard the chess match as a dialogue or even an argument, in which each pair of sentences is linked by an adversary relationship, but we do not do this.

1 This article also appeared in Russian as «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

34

Capitolo 7

La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi1.

I. I. Revzin

La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio. Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tale caso è relativamente facile distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno, ed è interno, al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se sostituisco dei pezzi in legno con dei pezzi in avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se diminuisce o aumenta il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la “grammatica” del gioco.

F. de Saussure 1.1 Per lo sviluppo della teoria semiotica sarebbe utile continuare l’analogia di Saussure. È attuale tanto più che la modellizzazione computerizzata non solo del gioco degli scacchi ma anche di processi linguistici, la traduzione automatica per esempio, ha riscontrato alcune fondamentali difficoltà per ragioni evidentemente simili: in entrambi i casi l’uomo usa molto la propria intuizione, mentre la modellizzazione con il calcolo

completo delle mosse possibili è inadatta per risolvere queste difficoltà.

1.2 I raffronti riportati in seguito sono basati su fattori strutturali, non esterni. In particolare si sarebbe potuto considerare la partita a scacchi un dialogo o una discussione in cui in ogni coppia di proposizioni c’è un nesso di carattere avversativo, ma non lo facciamo.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

35

If the 2.12. move in the chess match is compared below with the lexical morpheme, the smallest significant unit in the sentence, this is not done in order for a sentence to be considered as a gradual, “move by move”, accumulation of morphemes either clarifying or negating the meaning of the preceding sentence (Hockett 1961: 220-236) – this is a very common notion – but in order for these elements to occupy a similar position in the structure of the whole.

1.3. Comparing a chess match with dialogue is only useful when we are involved in both cases with two participants who are alternately active and passive and who pursue a definite goal: winning at chess or achieving understanding in the act of communication. Achieving understanding is considered somehow self-evident, but in fact the participants have to overcome a substantial amount of “noise” having to do with nonconvergence of their semantics and nonconvergence of their grammar and phonology, which is also theoretically possible1. Moreover, situations are possible in which the speaker deliberately tries to conceal his meaning. This stance brings him closer to the position of the chess player, who as a rule tries to hide the meaning of a move, although in chess as well there are quite a few moves whose meaning is obvious to the other participant. Thus we are concerned with goal-directed activity in both objects of study; let us now examine the means of achieving the goal.

2.0. We shall consider both objects of study as structures, collections of elements with fixed relations between them.

1 See following pages.

36

Se la mossa 2.12. nella partita a scacchi è paragonata a un morfema lessicale, unità minima della proposizione significativa, lo si fa non perché una proposizione sia considerata un accumulo graduale, “mossa per mossa”, di morfemi che chiarificano o cancellano il senso della proposizione precedente (Hockett 1961: 220-236) – un’opinione molto diffusa – ma perché questi elementi occupano posizioni vicine nella struttura dell’insieme.

1.3. Il confronto di una partita di scacchi con il dialogo è utile solo se disponiamo in entrambi i casi di due partecipanti passivi e attivi a rotazione e che perseguono uno scopo preciso: vincere nel gioco e farsi comprendere nell’atto di comunicazione. Farsi comprendere è considerato un fattore evidente; in realtà i partecipanti devono superare una considerevole quantità di “rumore” causato dalla divergenza tra le loro abitudini semantiche e, teoricamente è possibile, grammaticali e fonologiche1. Inoltre, possono esservi casi in cui un parlante nasconda di proposito le proprie intenzioni. Tale atteggiamento si avvicina a quello dello scacchista che cerca di solito di mascherare il senso di una mossa, nonostante negli scacchi vi siano molte mosse il cui significato è ovvio all’altro giocatore. In entrambi gli oggetti di studio dunque siamo di fronte a un’attività finalizzata; cerchiamo ora di esaminarne gli strumenti per raggiungere lo scopo.

2.0. Prenderemo in considerazione entrambi gli oggetti di studio come strutture, insiemi di elementi con interrelazioni fisse.

1 Si veda le pagine successive.

37

2.1 Elements.

Chess

Language

2.1. The square.

2.1. Some nonsign background.

2.1.1. A very small set of pieces, sixteen in all, of which six are different. The first significant elements are

2.1.1. A very small set of auxiliary morphemes: affixes, inflections, grammatical prepositions, and in generaI “empty words”.

2.1.2. a finite number, however large, of moves, i.e., of three elements: initial position, new position, chess piece. The move has a very broad meaning which is realized differently each time in

2.1.2. The first significant element is the lexical morpheme; there is a finite number, however large, of morphemes. It is still a potential meaning which is realized in the elements of

2.1.3. a finite number of configurations of pieces, each of which is characterized by its own traits: pawn chain, center, copula, weak point, squares of a given color, opposition, check, zugzwang, etc. The number of such traits is finite; from these configurations is formed

2.1.3. a finite set of words, each of which is characterized by a finite set of traits (Revzin 1969: 63-74): the word’s differential traits, semes, and semantic valences. From these words is formed

2.1.4. an infinite set of positions: the arrangement of all the pieces on the chessboard at a given moment of time t. The positions can be divided into correct and incorrect positions; it is impossible to arrive at an incorrect position by a correct play from initial position. There is an intermediate class of positions that can only be arrived at by completely ignoring the game’s principles and that are meaningless from the standpoint of the player’s practice but not from that of the theoretician.

2.1.4. an infinite set of sentences, which can be subdivided into sentences that are correct, incorrect, and an intermediate class.

2.1.5. Match

2.1.5. Text

2.1.6. Outcome: winning, draw, losing

2.1.6. Understanding, incomplete understanding, lack of understanding

38

2.1. Elementi.

Scacchi

Lingua

2.1.0. Scacchiera

2.1.0. Un contesto non semiotizzato

2.1.1. Un numero molto piccolo di pezzi, sedici in tutto, ma solo sei tipi diversi. I primi elementi significativi sono:

2.1.1. Un numero molto piccolo di morfemi ausiliari: affissi, flessioni, preposizioni grammaticali e “parole vuote” in generale.

2.1.2. un numero finito, ma grande, di mosse, cioè di tre elementi: posizione iniziale, nuova posizione, pezzo. La mossa ha un significato molto generale che si attualizza ogni volta in modo diverso con

2.1.2. La prima unità significativa è il morfema lessicale; vi è un numero finito, ma grande, di morfemi. È anche il significato potenziale attualizzato negli elementi

2.1.3. un numero finito di configurazioni di pezzi, ognuna di quali è caratterizzata dai tratti particolari: catena di pedoni, centro, copula, punto debole, case di un certo colore, opposizione, scacco, zugzwang ecc. Il numero di questi tratti è finito: da queste configurazioni si formano

2.1.3. della quantità finita di parole, ognuna caratterizzata da una quantità finita di tratti (Revzin 1969: 63-74): tratti differenziali di parole, semi e valenze semantiche. Da queste parole si forma

2.1.4. innumerevoli posizioni (la disposizione di tutti i pezzi sulla scacchiera in un tempo t). Le posizioni possono essere suddivise in posizioni corrette e scorrette; è impossibile giungere a una posizione scorretta con un gioco corretto dalla posizione iniziale. Esiste una classe intermedia di posizioni alle quali si può arrivare ignorando completamente i princìpi di gioco, ma le quali sono prive di significato, secondo il punto di vista dello scacchista ma non del ricercatore.

2.1.4. un’infinita quantità di proposizioni, che possono essere suddivise in corrette, scorrette e di una classe intermedia.

2.1.5. Partita

2.1.5 Testo

2.1.6. Risultato: vincita, patta, perdita

2.1.6. Comprensione, comprensione incompleta, incomprensione

39

2.2. Relations.

Chess

Language

2.2.1. The interaction between the pieces: the correlation between the strength and number of attacking and defending pieces, “the coefficient of tension” in the main zones of play, the saturation of valence1

2.2.1. Syntagmatics: valent connections between words

2.2.2. Recollection of previous moves, for instance in connection with the rule about threefold repetition of a position, and especially of possible future positions. The question is not so much that of the positions themselves as of their configurational traits. (See 2.1.3.)

2.2.2. Paradigmatics: recollection of connections between words and sentences not present in the text

2.2.3. A specific instance of the preceding is the relation between abridging the position and isolating support configurations: the pawn backbone, open lines, pawn superiority on the flank, bishops of opposite colors, etc. Ability to abridge the position makes it possible to foresee the situation for many moves in advance, which is not possible with a full set of pieces.

2.2.3. Abridging sentences to initial words, usually to the predicate, is a special type of relation in a sentence, as is abridging each dependent cluster to a single word, usually a pronoun. This abridgment makes it possible to reduce all the diverse formations of the sentence to a finite number of equivalent classes, and thus, according to Donald Michael’s theorem, to conceive of language as the product of a finite automaton.

2.3. Operations.

Applying the relations mentioned in 2.2. and other possible relations in order to achieve an objective makes it possible to speak of combinations of relations.

1 The valence of a chess piece means the number of squares that it can attack; the valence is saturated if sufficiently valuable pieces of the opponent stand on these squares. From our viewpoint, it was precisely valences that were formalized in previously proposed models of the game of chess.

40

2.2. Relazioni.

Scacchi

Lingua

2.2.1. Interazione tra pezzi: correlazione tra potenza e numero di pezzi che attaccano e/o si difendono, “coefficiente di tensione” nelle principali aree di gioco, saturazione della valenza1.

2.2.1. Sintagmatica, ossia legami valenti tra le parole

2.2.2. Memoria delle mosse precedenti, in relazione alla regola della triplice ricorrenza della posizione, e soprattutto delle possibili posizioni future. Non si tratta tanto delle posizioni stesse quanto delle loro caratteristiche configurazionali (si veda 2.1.2.).

2.2.2. Paradigmatica, ossia la memoria dei legami assenti nel testo tra parole e proposizioni.

2.2.3. Il caso specifico dell’affermazione precedente è la relazione tra la circoscrizione della posizione e l’individuazione delle configurazioni d’appoggio: catene di pedoni, posizioni aperte, superiorità dei pedoni sul fianco, alfieri di colore contrario, ecc. La capacità di circoscrivere la posizione permette di prevedere la situazione per molte mosse future, ciò che è impossibile fare attraverso il calcolo completo delle mosse possibili.

2.2.3. Un tipo specifico delle relazioni nella proposizione è la relazione tra la circoscrizione della proposizione alle parole iniziali, solitamente in funzione di predicato, e nel contempo la circoscrizione di ogni gruppo dipendente a una singola parola, solitamente al pronome. Questo permette di limitare la moltitudine di componenti di una proposizione a un numero finito di classi equivalenti e di conseguenza, in base al teorema di Colin Mayhill, di concepire il linguaggio come generato da un meccanismo finito.

2.3. Operazioni.

L’applicazione delle relazioni menzionate nel 2.2 (e non solo) per raggiungere l’obiettivo permette di parlare dell’insieme di operazioni.

1 Per «valenza» di un pezzo si intende il numero delle case che essa può attaccare; la valenza è saturata se su quelle case sono esposti pezzi importanti dell’avversario. Dal nostro punto di vista sono proprio le valenze a essere state formalizzate nei modelli precedenti del gioco degli scacchi.

41

Chess

Language

2.3.1. “Tactics”: making a decision on the basis of logical reasoning, (“calculation”, as chess players say) or on the basis of traits of type 2.1.3.

2.3.1. Ascertaining meaning by means of transformational analysis = logical deduction, or with the support of the differential traits of words.

2.3.2. “Strategy”: ascertaining a position’s strong elements by means of mental abridgment (See 2.2.3).

2.3.2. Ascertaining the phrase’s structural skeleton by means of abridgment (See 2.2.3).

Note. At this point it can be shown that the comparison works precisely the other way around, for while in chess “strategy” is most important, in linguistic analysis preference is given to the equivalent of “tactics”, as in the characteristic distinction between “deep” and “surface” structure. However, it appears that both types of operations are equally important in their respective instances.

3. Let us now analyze the types of rules applied to our objects of comparison.

3.1. First and foremost, there are rules that constitute the system itself; it is precisely these that Saussure had in mind, at least as applied to chess.

Chess

Language

Rules determining the possible moves for each piece in certain configurations

Rules determining the use of auxiliary morphemes given the sentence’s structural meaning

Forbidden

Permitted

Forbidden

Permitted

It is prohibited, for example, to pIace the king on a threatened square.

All the remaining rules

Violation of certain types of grammatical agreement

Usually a rule has this form: to express such – and- such a meaning it is permitted to use one or another format.

42

Scacchi

Lingua

2.3.1 “Tattica”: arrivare a una decisione basandosi sul ragionamento logico (o «calcolo» come dicono gli scacchisti) oppure sui tratti del tipo 2.13.

2.3.1. Accertamento del senso attraverso l’analisi trasformazionale (inferenza logica) o l’appoggio sui tratti distintivi di parole.

2.3.2. “Strategia”: accertamento degli elementi fondamentali della posizione attraverso la circoscrizione dei pensieri (si veda 2.2.3).

2.3.2. Accertamento della struttura della frase attraverso la circoscrizione (si veda 2.2.3).

Nota. A questo punto è possibile dimostrare che il raffronto si verifica esattamente “al contrario” dato che nel gioco degli scacchi la “strategia” è più importante, mentre nell’analisi linguistica la preferenza viene attribuita alla “tattica” (per esempio nella distinzione tipica tra struttura “profonda” e “superficiale”). Nonostante ciò entrambi i tipi di operazioni sono importanti per entrambi gli oggetti in questione.

3. Passiamo all’analisi dei tipi di regole applicabili agli oggetti confrontati.

3.1. Innanzitutto, esistono regole che costituiscono il sistema stesso; è proprio queste regole che intendeva Saussure, se dovessimo applicarle al gioco degli scacchi.

Scacchi

Lingua

regole che determinano le possibili mosse per ogni pezzo in date configurazioni

regole che determinano l’utilizzo dei morfemi ausiliari avvalendosi del significato strutturale prestabilito della proposizione.

Proibito

Permesso

Proibito

Permesso

è proibito per esempio posizionare il re sulla casa a rischio

tutte le altre regole

violare certi tipi di concordanze

solitamente la regola ha la seguente forma: per esprimere un certo significato è permesso usare un certo formante

43

Note. “Agreement” means a rule for connecting auxiliary morphemes. The regimen governing the connection between the auxiliary morphemes of one word and the lexical morphemes of another generally does not possess a very high degree of interdiction.

3.2. Another type of rule is aimed at achieving the maximum effect within a given system. These rules can be divided into two groups.

3.2.1. Rules of a general nature, i.e., general organizational principles for the text or match.

Chess

Language

Principles for the development of pieces, i.e., “one piece is not moved twice in the opening”; for capturing the center in the opening; or for the movement of pawns opposite which there are no hostile pieces in the endgame.

Ivanov’s postuIate (Ivanov 1963: 156-178) about the inadmissibility of different objects’ having an identical meaning within a single situation; the principle of the availability of common semes, “supplementary valence”; in words which are directly linked syntactically or in a more general form, the principle of redundant encoding.

3.2.2. Rules based on knowledge of a specific precedent.

Chess

Language

Recommendations for openings; for example, “how Botvinnik pIayed against …“; reference to basic endgame schemes, and in the middle game even to individual matches, i.e., “a construction similar in many ways to the well-known match between Braunschweig, Duke of Morfì, and Count Isoire”1.

Orientation on the basis of a set of model sentences (Revzin 1966: 3- 15).

1 This report was written under the strong influence of D. Bronstejn’s commentaries on the matches at the Zurich tournament of aspirants, from which this phrase is taken.

44

Nota. Per «concordanza» s’intende una regola di accordo morfologico tra i morfemi ausiliari. Le reggenze, che determinano l’accordo tra i morfemi ausiliari di una parola e i morfemi lessicali dell’altra, normalmente non possiedono un alto grado di proibizione.

3.2. Un altro genere di regole riguarda il raggiungimento del massimo effetto all’interno di un certo sistema. Queste regole possono essere suddivise in due gruppi.

3.2.1. Regole di carattere generale (princìpi generali di organizzazione del testo e, di conseguenza, della partita).

Scacchi

Lingua

Princìpi di sviluppo dei pezzi («un pezzo non viene mai mosso due volte nella fase d’apertura del gioco»), occupare il centro nella fase d’apertura oppure promuovere il pedone che non ha un pedone avversario nella fase finale.

Il postulato del linguista russo Ivanov (Ivanov 1963: 156-178) secondo il quale è inammissibile che gli oggetti differenti vengano denotati in modo identico in una stessa situazione; il principio di esistenza dei semi generali o “valenza supplementare” nelle parole collegate tra loro sintatticamente o più generalmente il principio di codificazione ridondante.

3.2.2. Regole basate sul rimando a un precedente specifico.

Scacchi

Lingua

Consigli per la fase d’apertura, (per esempio: «in questo modo Botvinnik ha sfidato …»), rimandi agli schemi usuali di fase finale, mentre nel mediogioco si può ricorrere ai rimandi alle partite famose («situazione, molto simile alla nota sfida Paul Morphy vs Duca Von Braunschweig e Conte Isouard»)1.

Orientamento su proposizioni-modello (Revzin 1966: 3-15).

1 Questo articolo è stato fortemente influenzato dai commenti di D. Bronštejn sulle partite al torneo degli aspiranti giocatori di Zurigo. Questa frase è presa da quel contesto.

45

3.3. Finally, there are rules that pertain to the system’s external use.

4. There are completely different violations for each of the types of rules cited, which witnesses indirectly to the differences between them.

4.1. Rules of the 3.1. kind generally cannot be violated, for their violation results in violation of the system. It is true, as pointed out in the note to 3.1., that there are intermediate cases in language, such as grammatical government, whose violation brings us to 3.2.

4.2.1. Rules of the 3.2.1. kind can of course be violated, most of all because, generally speaking, it is possible for the different participants to make use of them to a different extent. However, violation of these rules does not necessarily lead to reduced effectiveness. On the contrary, in chess, as in language, the creative but by no means unpremeditated violation of the 3.2.1. rules can exert a very powerful effect, as happened with hypermodernism in chess of the 1920s.

4.2.2. Violation of the 3.2.2. rules is involved where orientation on the basis of mode1s plays a different role according to various inclinations2.

4.3. Violation of the 3.3. rules can go unpunished if it is not noticed by the other participant and does not affect achievement of the goal set by the speaker or player; let us note that in the case of language the goal here is precisely to deceive the hearer; see 1.3.

1 From our viewpoint, such rules do not pertain to the postulates of language but rather to the postulates of good sense; see Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. For another viewpoint, see Wheatley 1970: 34, according to which language contains a semantic rule of the type, “A says: I promise X, entails: A intends X”.

2 The author has devoted a special study to this question.

Chess

Language

The rule “remove a piece after capturing it”; the time-limit, etc.

The requirement that the speaker really believe what he says1.

46

3.3. Infine, esistono regole riguardanti l’aspetto puramente esterno del gioco.

4. Per ognuno di questi tipi di regole ci sono diversi tipi di violazioni, una testimonianza indiretta della loro differenza.

4.1. Le regole del tipo 3.1. non possono essere violate poiché la loro violazione comporta la violazione dell’intero sistema. Anche se nella lingua, come precisato nella nota in 3.1., vi sono regole intermedie (è il caso delle reggenze) la violazione delle quali ci porta a 3.2.

4.2.1. Le regole del tipo 3.2.1., s’intende, possono essere violate soprattutto perché i giocatori possono applicarle in misura diversa. Tuttavia la loro violazione non necessariamente porta all’abbassamento dell’efficacia che si può ottenere. Al contrario, sia negli scacchi sia nella lingua la violazione artistica (non quella calcolata) delle regole 3.2.1. può avere una forte influenza sull’esito (si veda l’ipermodernismo negli scacchi negli anni Venti).

4.2.2. Lo stesso avviene per le regole del tipo 3.2.2., dove l’orientamento verso i modelli nelle correnti diverse svolge un ruolo differente2.

4.3. La violazione delle regole 3.3. può rimanere impunita nel caso il giocatore avversario non dovesse notarlo e non incidere sul raggiungimento dello scopo posto dal parlante (o giocatore). Bisogna precisare che nel caso della lingua lo scopo è proprio quello di ingannare l’ascoltatore (si veda 1.3.).

1 Dal nostro punto di vista, tali regole non riguardano i postulati della lingua, ma i postulati del buon senso; si veda Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. Per un altro punto di vista, si veda Wheatley 1970: 34, secondo cui nella lingua opera la regola semantica del tipo: “A dice: prometto X, comporta: A intende X”.

2 L’autore ha dedicato un studio speciale a questo argomento.

Scacchi

Lingua

la regola «se tocchi un pezzo con la mano devi eseguire la mossa con quel pezzo», i limiti temporali e così via.

il parlante deve intendere quello che dice1

47

If the violation is noticed, this disclosure obviously leads to punishment in the case of chess; punishment is not always obvious in the case of language, although the violation affects the hearer’s notion of the speaker’s morals.

5.1. The goal of this report has been to show that the human intellect seems to make use of similar constructions to solve different tasks pertaining to the processing of information, and therefore it is advisable to describe them in a single system.

5.2. Also, examining possible systems and types of rules is useful in considering any modeling systems having to do with rules and norms.

48

Se, invece, la violazione viene rilevata, si ricorre alla punizione – ovvia nel caso degli scacchi e non altrettanto ovvia nella lingua (la violazione incide sull’opinione che l’ascoltatore ha della morale del parlante).

5.1. Lo scopo di questa comunicazione è dimostrare che l’intelletto umano, evidentemente, usa costrutti simili per la soluzione di problemi diversi che riguardano l’elaborazione delle informazioni e che è quindi opportuno descriverli in un unico sistema.

5.2. D’altra parte lo studio dei sistemi e dei tipi di regole possibili è utile per lo studio di qualsiasi sistema modellizzante che abbia a che fare con regole e norme.

49

References
Hjelmslev, L., «Prolegomeny k teorii âzyka» in: Novoe v lingvistike, Moskva,

1960, 264-389
Hockett, C., «Grammar for the Hearer», in Proceedings of Symposia in Applied

Mathematics, 1961, 220-236.
Ivanov, I. I., «Nekotorye problemy sovremennoj lingvistiki», in Narody Azii i

Afriki, 1963, Moskva, N 4, 156-78.

Karpinskaâ, O. G., Revzin, I. I., «Semiotičeskij analiz rannih p”es Ionesko» in Tezisy dokladov vo vtoroj letnej škole po vtoričnym medeliruûŝim sistemam: 16-26 avgusta 1966, 1966, Tartu, 34-36

Lekomceva, M. I., Usplenskij, B. A., «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», in: Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov, Moskva, 1962, 84-86.

Lenin, L. I., Filosofskie tetradi, Moskva, Partijnoe izd., 1936.
Polti, G., Les 36 situations dramatiques, Paris, Mercuri de France, 1895 Propp, V., Morfologiâ skazki, Leningrad, Accademia, 1928.

Revzin, I. I., «K semiotičeskomu analizu detektivov (na primere romanov Agaty Kristi)», in: Programma i tezisy dokladov v letnej škole po vtoričnym modeliruûŝim sistemam, Tartu, 1964, 38-40.

Revzin, I. I., «Otmečennye frazy, algebra fragmentov, stilistika», in Lingvističeskie issledovaniâ po obŝej i slavânskoj tipologii, 1966, Moskva, 3-15.

Revzin, I. I., «Razvitie ponâtiâ struktury âzyka», in Voprosy filosofii, 1969, Moskva, N 8, 63-74

Saussure, F. de, Kurs obŝej lingvistiki, Moskva, 1933
Ŝeglov, Û. K., «K postroeniû strukturnoj modeli o Šerloke Holmse», in:

Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem, 153-155.

50

Riferimenti bibliografici
Hjelmslev, L., «Prolegomeny k teorii âzyka» in: Novoe v lingvistike, Moskva,

1960, 264-389
Hockett, C., «Grammar for the Hearer», in Proceedings of Symposia in Applied

Mathematics, 1961, 220-236.
Ivanov, I. I., «Nekotorye problemy sovremennoj lingvistiki», in Narody Azii i

Afriki, 1963, Moskva, N 4, 156-78.

Karpinskaâ, O. G., Revzin, I. I., «Semiotičeskij analiz rannih p”es Ionesko» in Tezisy dokladov vo vtoroj letnej škole po vtoričnym medeliruûŝim sistemam: 16-26 avgusta 1966, 1966, Tartu, 34-36

Lekomceva, M. I., Usplenskij, B. A., «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», in: Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov, Moskva, 1962, 84-86.

Lenin, L. I., Filosofskie tetradi, Moskva, Partijnoe izd., 1936.
Polti, G., Les 36 situations dramatiques, Paris, Mercuri de France, 1895 Propp, V., Morfologiâ skazki, Leningrad, Accademia, 1928.

Revzin, I. I., «K semiotičeskomu analizu detektivov (na primere romanov Agaty Kristi)», in: Programma i tezisy dokladov v letnej škole po vtoričnym modeliruûŝim sistemam, Tartu, 1964, 38-40.

Revzin, I. I., «Otmečennye frazy, algebra fragmentov, stilistika», in Lingvističeskie issledovaniâ po obŝej i slavânskoj tipologii, 1966, Moskva, 3-15.

Revzin, I. I., «Razvitie ponâtiâ struktury âzyka», in Voprosy filosofii, 1969, Moskva, N 8, 63-74

Saussure, F. de, Kurs obŝej lingvistiki, Moskva, 1933
Ŝeglov, Û. K., «K postroeniû strukturnoj modeli o Šerloke Holmse», in:

Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem, 153-155.

51

Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

52

Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

53

Analisi traduttologica

54

Dedicherò questa parte della mia tesi all’analisi degli articoli la cui traduzione è riportata sopra. L’argomentazione si strutturerà secondo lo schema classico dell’analisi traduttologica con l’individuazione del lettore modello e delle dominanti. Inoltre, illustrerò brevemente in un capitolo a parte la strategia traduttiva e i problemi di traduzione.

Ma prima di cominciare l’analisi vorrei concentrare la mia attenzione sugli autori degli articoli in questione e sugli articoli stessi.

Fonte, autori, argomento.

«The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» e «Language as a Sign System and the Game of Chess» sono due articoli tratti dal volume Soviet Semiotics a cura di Daniel Peri Lucid (The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1977). Nel libro sono raccolti numerosi saggi scientifici di autori appartenenti alla scuola sovietica di semiotica, come Boris Uspenskij e Ûrij Lotman.

La semiotica è la scienza dei segni linguistici e non linguistici, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto simbolico. Una semiotica moderna si profila già con Peirce, che pone le basi di una teoria filosofica in cui hanno forte rilievo, tra l’altro, la nozione di «semiosi illimitata» e la suddivisione di tre tipi diversi di segni, ossia icone, indici e simboli, a seconda che il rapporto con il referente sia di similarità, come nelle icone, di contiguità o convenzionale. Ma è soprattutto con Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev che si afferma la teoria semiotica moderna. È chiarito lo statuto formativo del significante e del significato; è proposta la nozione di «funzione segnica» e altre nozioni ancora hanno validità generale e appaiono di straordinaria importanza per lo sviluppo della semiotica, come quelle di codice e di commutazione, di rapporti sintagmatici e di rapporti associativi, di sincronia e di diacronia, di sistema come meccanismo produttivo di segni, di unità minime differenziali dal significante, di senso e di atto semico. Su queste basi la semiotica, insieme con la linguistica e

55

l’estetica, ha conosciuto un vasto sviluppo al quale hanno contribuito a vario titolo e con diverse prospettive teoriche – non sempre coincidenti con quelle di Saussure e Hjelmslev – Tynânov, Âkobson, Lotman e Uspenskij. Lotman e Uspenskij appartengono alla scuola sovietica di semiotica e sono stati i primi a teorizzare l’analisi dei «sistemi modellizzanti secondari», cioè di tutti quei sistemi semiotici, diversi dalle lingue, in cui si esprimono specifici modelli di concezione del mondo e di elaborazione umana della realtà (dai miti al folclore, dalle religioni all’arte).

Egorov Boris Fedorovič (nato nel 1926), narratologo russo, ricercatore in scienze filologiche (1967), docente universitario (dal 1978 presso l’Università della storia russa; RAN). Argomenti di cui Egorov si occupa sono: tratti peculiari della critica russa dell’Ottocento e il posto che occupano nella letteratura e nella cultura nazionali, slavofilismo, social-utopisti, critica estetica. Ha pubblicato: O masterstve literaturnoj kritiki (1980), Bor’ba èstetičeskih idej v Rossii serediny XIX veka (1982, 1991), Očerki po istorii russkoj kul’tury XIX veka (1996). Dal 1978 al 1991 – vicepresidente e dal 1991 presidente del comitato di redazione dell’accademia russa delle scienze «Literaturnye pamâtniki».

Nel suo articolo «The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» Egorov argomenta contro Lekomceva e Uspenskij per aver dato troppa importanza alla pragmatica del gioco nel quale una cartomante professionale dispone di una libertà illimitata nella lettura delle carte. Egorov insiste sull’oggettività della descrizione semiotica e paragona la lettura da parte della cartomante della vita di una persona alla creazione di un intreccio, in una maniera prestabilita, variando solo la posizione del segno all’interno di un gruppo limitato di segni, le carte nel mazzo. Lo scopo dello studioso è usare il sistema di divinazione mediante le carte da gioco come modello primitivo per l’analisi dell’intreccio letterario (oggetto della narratologia). Sia il sistema cartomantico che quello degli intrecci è basato su una serie di elementi primari e su dati metodi di distribuzione. Egorov mette in evidenza il fatto che il sistema semiotico della letteratura abbia una sintassi che potrebbe essere classificata in

56

un’eventuale «tavola periodica di Mendeleev» degl’intrecci. Dall’interrelazione di elementi semplici nascono strutture testuali complesse.

Revzin Isaak Iosifovič (1923—1974), linguista, ricercatore in scienze filologiche (1964), membro dell’Istituto di lingue straniere. Pubblicazioni nel campo di linguistica strutturale (teoria generale della modellizzazione, fonologia, grammatica), di semiotica e di poetica. Revzin ha creato, con Rozencvejg, un modello dei tipi di traduzione in Linguistica strutturale contemporanea. Problemi e metodi, del 1977. Ha definito cinque tipi di traduzione: interlineare o parola per parola, letterale, semplificante, precisa e adeguata.

L’articolo «Language as a Sign System and the Game of Chess» di Revzin approfondisce l’analogia di Saussure tra la lingua e il gioco degli scacchi. Mettendo a confronto il sistema linguistico e il sistema di gioco il linguista russo cerca di dimostrare che l’intelletto umano usa nel processo di elaborazione delle informazioni costruzioni simili a quelle di un programma computerizzato che fa la previsione delle mosse possibili nel gioco. In entrambi i sistemi Revzin segnala un numero limitato di elementi – pezzi negli scacchi e morfemi nella lingua – che generano numerose posizioni nel primo caso e vocaboli e proposizioni nel secondo. A livello di relazioni tra componenti, le connessioni tra parole assomigliano alle relazioni tra pezzi sulla scacchiera. Tattica e strategia del gioco vengono paragonate alla struttura superficiale e profonda della lingua. Inoltre, entrambi i sistemi sono costruiti con quelle regole che costituiscono il sistema stesso e altre che mirano a un effetto massimo all’interno del sistema. Il gioco degli scacchi sembra un sistema molto meno complesso di quello della lingua, ma l’approccio di Revzin consistente nel trovare similitudini tra questi sistemi completamente diversi permette il tentativo di creare un unico modello generale.

57

Analisi traduttologica

Entrambi gli articoli di cui ho proposto una traduzione sono testi prevalentemente argomentativi, destinati non solo a un pubblico colto e già esperto in materia, ma anche a un appassionato di semiotica e di linguistica (lettore modello). Sono due testi dal taglio piuttosto professionale, ma non eccessivamente accademico, e neanche di saggistica divulgativa, con l’utilizzo di una terminologia settoriale (a volte spiegata nelle note e nel corpo del testo) e numerosi rimandi a testi e saggi delle varie discipline. Lo stile degli autori è abbastanza lineare, piano, sobrio, spesso difficile non perché la sintassi sia contorta, ma per la complessità dei concetti espressi. Inoltre, sono presenti alcune caratteristiche proprie dei testi scientifici, quali l’uso del passivo e dello universal we.

Dal punto di vista traduttologico la dominante di entrambi i testi è quella informativa per cui ho prestato molta attenzione al lessico adeguato e pregnante, all’esattezza terminologica che mi ha portato a un lavoro preliminare di ricerca, sicuramente più tramite il web che su testi cartacei, per familiarizzarmi con concetti e termini chiave. Oltre che dei concetti semiotici e linguistici gli articoli si avvalgono di una terminologia specifica del gioco degli scacchi in Revzin e della cartomanzia in Egorov. Ho consultato, come accennato prima, dizionari, testi paralleli di riferimento, internet affinché la traduzione fosse il più aderente possibile al testo. Ho ritenuto corretto verificare su fonti elencate nei riferimenti bibliografici informazioni, date, nomi contenuti nei testi. Questa è stata la mia strategia traduttiva.

Per la traslitterazione dei nomi scritti in cirillico mi sono servita delle norme ISO 9 del 1995 in cui ad ogni simbolo cirillico corrisponde un solo simbolo latino. La tabella riportata in seguito rappresenta il metodo di traslitterazione attualmente in uso e uno di quelli precedenti in cui a un carattere cirillico possono corrispondere più caratteri latini, come nel caso delle lettere Ч, Ш, Ц ecc.

58

Russo

GOST 7

ISO 9

А, а

A, a

A, a

Б, б

B, b

B, b

В, в

V, v

V, v

Г, г

G, g

G, g

Д, д

D, d

D, d

Е, е

JE, je

E, e

Ё, ё

JO, jo

Ë, ë

Ж, ж

ZH, zh

Ž, ž

З, з

Z, z

Z, z

И, и

I, i

I, i

Й, й

J, j

J, j

К, к

K, k

K, k

Л, л

L, l

L, l

М, м

M, m

M, m

Н, н

N, n

N, n

О, о

O, o

O, o

П, п

P, p

P, p

Р, р

R, r

R, r

С, с

S, s

S, s

Т, т

T, t

T, t

У, у

U, u

U, u

Ф, ф

F, f

F, f

Х, х

KH, kh

H, h

Ц, ц

CZ, cz

C, c

59

Ч, ч

CH, ch

Č, č

Ш, ш

SH, sh

Š, š

Щ, щ

SHH, shh

Ŝ, ŝ

Ъ, ъ

Ы, ы

Y’, y’

Y, y

Ь, ь

Э, э

È, è

È, è

Ю, ю

JU, ju

Û, û

Я, я

JA, ja

Â, â

La maggiore difficoltà traduttiva dei due saggi è stata quella terminologica: trovare il corrispondente giusto, verificare che il contesto in cui lo trovavo fosse affidabile. Analizzerò ora con un esempio la strategia traduttiva che ho usato per risolvere questa difficoltà:

− traduzione di «language» nell’articolo di Revzin: lingua versus linguaggio.

Il vocabolario Traccani definisce in questo modo la parola «lingua» (ometto significati impertinenti):

lingua s. f. [lat. lĭngua (con i sign. 1 e 2), lat. Ant. dingua]. […]. 4 a Sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfeme), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione o lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche […]. b. Usato assol., con riferimento generico: la grammatica, la sintassi, il lessico o vocabolario d’una l.; il carattere (e ormai ant. l’indole, il genio) d’una l.; la storia, l’evoluzione della l. […].

Ecco invece come viene definita la parola «linguaggio» nello stesso vocabolario:

60

linguaggio s. m. [der. di lingua]. – 1. Nell’uso ant. o letter., e talora anche nell’uso com. odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità […]. 2. a In senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli essere umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di inforrmare altri essere sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di una sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingua storicamente determinate). […]. b. estens. Facoltà di esprimeresi attraverso altri segni, sia gesti, sia simboli. In partic., l’insieme dei mezzi espressivi e stilistici, diversi dalla parola, che sono peculiare della varie arti. […]

Analizzando bene le definizioni mi sono resa conto che il loro campo semantico è molto simile, ma che la parola «lingua» è più adatta per il saggio in questione perché è quella usata da Saussure (l’argomento del saggio di Revzin approfondisce l’analogia tra la lingua e gli scacchi tracciata da Saussure) e dai linguisti in generale. Per verificare quest’ultima affermazione ho inserito nel motore di ricerca il nome del linguista svizzero accanto alla parola «lingua» e successivamente accanto a «linguaggio» e ho notato che nel caso della prima combinazione di parole vi sono molte più occorrenze nei siti affidabili di linguistica e scienza della traduzione.

61

Riferimenti bibliografici
Egorov, B. F., «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy

po znakovym sistemam, II, 1965, Tartu, Tartu University Press, 106-115. Karpov, A. E., Il manuale degli scacchi di Karpov Anatolij, Milano, Walt Disney

Company Italia, 1997.

Lucid, D. P., Soviet Semiotics, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1977.

Osimo, B., La traduzione saggistica dall’inglese: guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2007

Osimo, B., Manuale del traduttore: Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2004

Osimo, B., Propredeutica della traduzione: Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001

Osimo, B., Storia della traduzione: riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002

Revzin, I. I., «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970, 1970, Tartu, Tartu University Press, 177- 185.

Saussure, F. de, Corso di linguistica generale, Bari, Editori Laterza, 1972 Torop, P., Total’nyj perevod, Tartu, Tartu Ülikooli Kirjastus, 1995. Traduzione

italiana La traduzione totale, a cura di B. Osimo, Modena, Logos 2000.

62

Dirk Delabastita, There’s a Double Tongue. An Investigation into the translation of Shakespeare’s wordplay, with special reference to Hamlet, Amsterdam, Rodopi, 1993, p. 1-54. Traduzione italiana a cura del gruppo di studenti del terzo corso di traduzione Inglese-Italiano (germanisti) dell’A. A. 2000-2001 presso l’ISIT: , Anna Bencivenga, Alessia Bonifazi, Mara Cristina, Laura Fedeli, Andrea Ferrari, Jessica La Porta, Angelo Leghi, Marta Manzoni, Olivia Mossotti, Silvia Nicodano, Maria Poli, Valeria Pozzi, Nadia Quartini, Ornella Santoro, coordinati da Bruno Osimo. Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Dirk Delabastita, There’s a Double Tongue. An Investigation into the translation of Shakespeare’s wordplay, with special reference to Hamlet, Amsterdam, Rodopi, 1993, p. 1-54.

Traduzione italiana a cura del gruppo di studenti del terzo corso di traduzione Inglese-Italiano (germanisti) dell’A. A. 2000-2001 presso la Civica Scuola Interpreti e Traduttori: Anna Bencivenga, Alessia Bonifazi, Mara Cristina, Laura Fedeli, Andrea Ferrari, Jessica La Porta, Angelo Leghi, Marta Manzoni, Olivia Mossotti, Silvia Nicodano, Maria Poli, Valeria Pozzi, Nadia Quartini, Ornella Santoro, coordinati da Bruno Osimo.

Capitolo 1

Traduzione e scienza della traduzione

0 Introduzione

Nella tradizione occidentale la comunicazione verbale tra gli esseri umani è diventata oggetto di studio di diverse discipline scientifiche, tra le quali la linguistica, la narratologia, la filosofia del linguaggio, gli studi sociali, la teoria della comunicazione e altre ancora. Anche la traduttologia rientra in questo gruppo, dal momento che si concentra su alcuni tipi di comunicazione bilingue e multilingue. Si può difatti dire che la traduttologia vi occupa una posizione unica (e poco invidiabile), poiché, se vuole riuscire a comprendere le condizioni e le regole su cui si basano le attività di trasferimento multilingue insite nel processo traduttivo, deve anche assolvere il compito di unificare le teorie sulla comunicazione intralinguistica e sulla cognizione e la comunicazione in generale può contribuire al suo sviluppo. La scienza della traduzione è ancora in fase di formazione, e i problemi ancora insoluti sono enormi. Questi possono derivare dagli sviluppi incerti delle discipline a cui è collegata e su cui fa affidamento e/o dalle complessità risultanti dalla sua peculiare posizione intermedia. Questo capitolo vuole essere una descrizione di alcuni problemi fondamentali che questa disciplina deve affrontare. La traduzione viene intesa come triplo processo di ricodifica (sul piano linguistico, culturale e testuale-retorico), e ciò richiede delle scelte, sia perché il codice del prototesto e il codice del metatesto sono asimmetrici, sia perché i testi tendono ad avere un’organizzazione complessa. Nelle sue decisioni il traduttore è fortemente influenzato dalle norme del polisistema ricevente. In aggiunta si danno alcuni spunti sui possibili sviluppi futuri della scienza della traduzione.

1 Problema numero uno della traduzione: l’anisomorfismo dei codici non artificiali

1.1 Ricodifica linguistica
1.1.1 Un enunciato linguistico non possiede un significato intrinseco a disposizione immediata di chiunque se lo trovi semplicemente davanti. Gli enunciati possono diventare segni significativi solo per chi conosce il linguaggio naturale in cui sono formulati. Il significato deriva non tanto dai singoli “messaggi”, quanto dalle multiple relazioni tra i messaggi e i “codici” o sistemi segnici convenzionali usati: quali elementi del repertorio del codice sono stati selezionati, e secondo quali regole sono stati combinati? Possono sembrare domande molto banali nell’era della semiotica, ma nella realtà di tutti i giorni è raro che chi usa la lingua sappia comprenderne tutte le implicazioni. In nome dell’economia cognitiva, oltre che per altri motivi, abbiamo la tendenza ad astrarci da tutti quei meccanismi intricati senza i quali le parole sarebbero prive di senso. È necessario fare ricorso a una forma di linguaggio poetico per farci riscoprire la dicotomia fondamentale tra segni e oggetti (Jakobson). Questa dicotomia ci si rivela in tutta la sua realtà anche quando si vuole imparare il significato di un enunciato prodotto in un linguaggio sconosciuto: l’enunciato può essere a disposizione nella sua fissa materialità, per esempio sotto forma di segni scritti su una superficie, e può comunicare una parvenza di significatività linguistica, ma resta comunque decisamente impenetrabile e si rifiuta testardamente di svelare i suoi significati. Non possono esistere segni significativi senza sistemi segnici, affinché la comunicazione possa avere luogo i codici devono essere condivisi.
Nel caso appena descritto, fortunatamente, si può invocare l’aiuto di un traduttore. Il traduttore deve, o dovrebbe, avere padronanza non solo del codice linguistico nel quale è formulato il messaggio originale, inaccessibile ai riceventi finali, ma anche del codice del metatesto che i riceventi conoscono bene. È perciò in grado di sostituire un messaggio nel protocodice con un messaggio nel metacodice, e in tale processo di deve trasferire un nucleo minimo di significato “invariante”.
Sebbene questo modello di traduzione come processo di ricodifica sia diventato un patrimonio acquisito, è necessario non dare per scontate tutte le sue implicazioni. Presuppone, dunque, che i linguaggi naturali si possano considerare codici; questo termine compare effettivamente nel vocabolario critico di una schiera impressionante di teorici della traduzione, tra i quali Ďurišin, Jakobson, Koller, Ladmiral, i teorici della Scuola di Lipsia (Kade, Neubert, Jäger), Nida, Pergnier, Reiß, Richards, la Scuola stilistica slovacca (Miko, Levý, Popovič), Steiner, la Scuola di Tel Aviv (Even-Zohar, Toury), Van den Broeck, Wilss e altri. La sua interpretazione esatta varia quanto ci si può aspettare dall’eterogeneità dell’elenco. In alcuni teorici il termine compare solo occasionalmente come semplice sinonimo high-tech di «linguaggio naturale», ma in altri casi il suo uso presenta implicazioni concettuali precise sia nella teoria linguistica che nella teoria della traduzione.
Il concetto semiotico di «codice» deriva dalle scienze dell’informazione e della telecomunicazione:
un codice è una trasformazione concordata, solitamente biunivoca e reversibile, mediante la quale è possibile convertire messaggi da un insieme di segni a un altro. Tipici esempi sono il codice Morse, il semaforo e il codice dei sordomuti. Nella nostra terminologia operiamo quindi una netta distinzione tra lingua, che si sviluppa organicamente nel corso del tempo, e codici, che sono inventati con uno scopo preciso e seguono regole esplicite che sono state inventate[1].

Secondo le caratteristiche elencate da Colin Cherry, le lingue umane certamente non rispondono alla definizione tecnica di «codice», come non hanno mancato di far notare i teorici contrari a un uso esteso del concetto[2]. Per esempio, la comunicazione per mezzo di una lingua non è affatto basata su un accordo precedente tra parlante e ascoltatore. Le lingue sono invece radicate in un comportamento sociale che ha una lunga storia; si devono imparare con la pratica e inoltre sono soggette a cambiamenti. Poi, nella lingua sono codificati non messaggi preesistenti, ma pensieri, esperienze, una visione del mondo. Come determinare se la decodifica produce gli stessi pensieri? Inoltre, spesso è stato fatto notare che nelle lingue non esiste un rapporto biunivoco tra signifiant e signifié corrispondente alle inequivocabili regole di trasformazione dei codici tecnici. Infine, i tradizionali modelli che rappresentano in che modo funzionano i codici linguistici nella comunicazione umana sono stati criticati perché troppo statici e unidirezionali e quindi inadatti a dare conto delle caratteristiche dinamiche, interattive della comunicazione verbale reale[3].
Naturalmente i presupposti su cui poggia l’applicazione del concetto di «codice» alla lingua umana necessitano di una spiegazione. Considerare codice un linguaggio naturale implica, tra l’altro, accettare le seguenti tesi: (i) Il linguaggio è un mero strumento a disposizione del singolo: il suo uso o non uso e la sua precisa modalità d’uso dipendono esclusivamente dalle intenzioni comunicative del singolo, e il soggetto che usa la lingua è signore e padrone dei significati dei propri messaggi. (ii) Esiste una serie di “significati puri” prelinguistici senza parole convogliati dal linguaggio.
Il minimo che si possa dire è che questi punti di vista sono contraddittori. Si afferma spesso, quindi, che ben lungi dall’essere un’entità presemiotica o asemiotica, l’uomo viene alla luce proprio nella misura in cui partecipa sempre più all’ordine simbolico del linguaggio durante il processo di socializzazione (cfr. i), e che il significato di un enunciato verbale non può essere astratto dalla sua formulazione verbale, essendo i significati prodotto di sistemi di significazione (cfr. ii). Si è qui posti di fronte a due punti di vista completamente differenti sul linguaggio e le sue relazioni con il significato: il linguaggio come espressione del significato versus il linguaggio come produttore di significato. Ma c’è in gioco ancora più della semplice opposizione tra due teorie del linguaggio. Gli strutturalisti hanno rifiutato l’idea che i Significati o i Soggetti abbiano una vita preverbale indipendente in un qualche campo trascendentale a sé stante. Il significato deriva da strutture di significato ed è perciò una categoria prettamente storica. La concezione della lingua come codice (ossia la lingua come mera espressione di significato) può conseguentemente essere criticata in quanto ideologica, poiché rappresenta la tipica tendenza delle culture umane a investire di obiettività i propri signifié, di presentarli come “fatti di natura” assoluti e universali, in breve, come entità trascendentali e quindi incontestabili. Descrivendo la lingua come codice, la si estrae dalla complessa realtà storica in cui è radicata, e la si trasforma in un mezzo di comunicazione presumibilmente omogeneo e neutro che chiunque può controllare.
Se questa analisi della metafora della lingua come codice è corretta, ci si può ragionevolmente aspettare che i meccanismi culturali che mette a nudo risalgano a un periodo anteriore all’invenzione della teoria dell’informazione e che si manifestino in altre forme vecchie e nuove. Sembra che sia proprio così. Il concetto di lingua come codice e di testi come messaggi (e, in definitiva, di traduzione come “ricodifica”) può essere in realtà recepito come versione moderna tecnologica di una di quelle metafore di cui viviamo[4], più precisamente della cosiddetta metafora del nastro trasportatore, secondo la quale i parlanti mettono idee preesistenti nelle parole e inviano queste parole-con-idee ai destinatari, che devono semplicemente disimballare le idee dall’involucro verbale[5]. Le parole rappresentano semplici contenitori inviati lungo un nastro trasportatore. È possibile documentare che idee simili sulla lingua, sul significato e sulla natura della comunicazione hanno una lunga tradizione. Dalle analisi di Lakoff e Johnson (1980) possiamo inferire che hanno lasciato il segno persino sulla struttura idiomatica della nostra lingua.
È indubbio che l’opposizione tra queste due visioni della lingua ha conseguenze di vasta portata per la teoria della traduzione. Prima di prenderle in considerazione, vorrei chiarire l’uso che faccio del termine «codice». Se ci si riferisce a una lingua naturale come «codice», si usa una metafora. Per questo è necessario essere consapevoli dell’esatto oggetto concreto (ground), o tertium comparationis, che sta alla base dell’immagine. In primo luogo, l’analogia percepita fra il tenore e il veicolo della metafora può riguardare il principio semiotico generale secondo il quale, perché un dato enunciato sia efficace dal punto di vista comunicativo, è necessario che entrambi i parlanti conoscano il sistema che vi sta alla base. In questo caso la metafora è ineccepibile; non vi è alcun dubbio che per decifrare l’Amleto bisogna conoscere l’inglese, così come è necessario avere una buona conoscenza del Morse per capire il senso di un messaggio di punti e linee, o che, come tutti i genitori sanno, le lingue straniere possono essere utilizzate come codici segreti. Tuttavia, se la metafora si basa sull’idea che le lingue naturali condividono con i codici tecnici altre caratteristiche, come per esempio l’essere trasparenti e neutri, la sua accettabilità dipende dal tipo di teoria linguistica (e posizione ideologica) che si adotta. Dato il mio orientamento strutturalista, non posso che continuare a usare il termine «codice» nella sua generale e prima accezione ed essere debitamente consapevole della distanza tra questa interpretazione libera e il concetto «originale», «stretto» o «tecnico».
1.1.2 Se si ritiene che le lingue siano codici in senso stretto, ossia che la lingua sia solo uno strumento a cui si ricorre per esprimere significati autosufficienti, la traduzione può essere considerata un processo bifasico. Nella prima fase il significato del testo è dissociato dalla sua espressione verbale originale; nella seconda è espresso di nuovo ma questa volta nella metalingua. Per queste due fasi di decodifica e ricodifica, Wilss[6] propone la coppia terminologica deverbalizzare (entsprachlichen) versus riverbalizzare (verssprachlichen). Anche in questo caso, la terminologia tecnologica è recente ma il concetto circola da secoli. Così, in molti scritti sulla traduzione rinascimentali e postrinascimentali
trova espressione in una serie di opposizioni metaforiche basate sui concetti di «esterno» versus «interno» o «percettibile» versus «impercettibile», come anima e corpo, materia e spirito, indumento e corpo, cofanetto e gioiello, guscio e nucleo, bacino e liquido contenuto, cassapanca e i suoi contenuti[7].

In un tale concetto di traduzione
l’extérieur seul change, le contenu est le même; on le transvase d’une langue dans une autre […]. En fin de compte et sans chercher à être paradoxal, on serait tenté de dire que les langues sont extérieures au processus de la traduction; elles sont le réceptacle du sens qui est exprimable dans n’importe laquelle d’entre elles[8].

Il mio rifiuto di qualsiasi interpretazione rigida della metafora del codice significa che devo respingere questa rappresentazione del processo traduttivo perché non è valida. Il concetto di significato come prodotto della lingua sembra esigere che il processo traduttivo venga descritto con un modello trifasico. Supponendo che un codice linguistico sia un insieme di minuscoli segni significativi (unità di signifiant e di signifié) e di regole di combinazione, il processo traduttivo può essere considerato, almeno in linea di principio, composto delle tre seguenti fasi: (i) La scomposizione o analisi del prototesto nelle strutture e negli elementi costitutivi della protolingua. (ii) La sostituzione degli elementi della protolingua (elementi e strutture grammaticali) derivante dall’analisi del prototesto con elementi corrispondenti della metalingua (elementi e strutture grammaticali). Comprendere per quale motivo questi elementi corrispondenti della metalingua possono, o devono, essere scelti dall’intero repertorio di quest’ultima, cioè comprendere l’esatta natura di questa “corrispondenza” fra le unità del prototesto e quelle del metatesto, è evidentemente uno dei punti cruciali della teoria della traduzione. (iii) La ricomposizione o sintesi del metatesto sulla base del prodotto della fase di trasferimento, in cui gli elementi di metalingua selezionati sono combinati nel metatesto.
Questa rappresentazione è davvero molto diversa dal procedimento di decodifica-ricodifica che corrisponde alla interpretazione rigida della metafora della lingua come codice. La differenza principale è che il processo traduttivo non abbandona mai l’ambito della semiotica, ossia avviene nelle lingue e fra le lingue, ma mai al di là delle lingue. Una seconda differenza cruciale riguarda la natura della relazione fra prototesti e metatesti, che finora ho vagamente descritto come una sorta di “corrispondenza”. I modelli traduttivi di decodifica e ricodifica tendono a presupporre che il processo traduttivo possa (e debba, perché solitamente è questa l’implicazione normativa) garantire una relazione di identità o quasi-identità fra i significati del prototesto e del metatesto. È una conseguenza logica del modo in cui tali modelli valutano il ruolo cognitivo della lingua. Se la lingua è solo la veste del significato, l’espressione linguistica può essere davvero sostituita senza influenzare il significato. La teoria strutturalista mette in dubbio la validità di questa argomentazione:
non avremo mai, e in effetti non abbiamo mai avuto, un “trasporto” di puri signifié da una lingua a un’altra, o, all’interno della stessa lingua, che lo strumento (o “veicolo”) del signifiant lasci vergini e intatti[9].

L’alternativa strutturalista quindi presenta una concezione completamente diversa della relazione tra i significati di prototesto e metatesto. Rifiutando qualsiasi pretesa di identità semantica fra i due, insiste sull’inevitabilità dei cambiamenti di significato nella traduzione. Il fatto che il significato del prototesto e quello del metatesto non possono che essere diversi deriva dalla tesi centrale dello strutturalismo, secondo la quale la lingua come produttrice di significato va intesa come struttura di relazioni interne autosufficiente e autodeterminante. Il significato di un elemento linguistico è il prodotto del suo valore relazionale all’interno della rete semantica della lingua di appartenenza. Il significato è una caratteristica delle singole lingue, e ciò preclude la possibilità di trovare nella metalingua elementi linguistici che abbiano lo stesso significato degli elementi della protolingua di cui cercano di essere i sostituti.
Se è impossibile ottenere una relazione di identità semantica fra prototesto e metatesto, è stato ipotizzato che nella traduzione può e dovrebbe essere realizzata una relazione di stretta equivalenza. Tuttavia, dal punto di vista del nostro modello strutturalista, deve essere esclusa anche questa possibilità. Il termine «equivalenza» deriva probabilmente dalla matematica[10]. Là denota una relazione riflessiva, simmetrica e transitiva fra due entità. Non è facile vedere come possa una relazione traduttiva essere riflessiva, ma sono soprattutto gli altri due criteri a presentare difficoltà insormontabili. Se le relazioni traduttive fossero simmetriche (A:B Þ B:A), la ritraduzione di qualsiasi metatesto riprodurrebbe il prototesto. Se fossero transitive ([A:B e B:C] Þ A:C), la traduzione nel codice linguistico C della traduzione nel codice linguistico B di qualsiasi prototesto, dovrebbe coincidere con la traduzione diretta del prototesto nel codice linguistico C. È evidente che le relazioni traduttive non soddisfano questi requisiti. Per esempio, le relazioni traduttive sono in sommo grado irreversibili[11] a causa dell’anisomorfismo delle lingue naturali, ossia il fatto che lingue diverse hanno strutture diverse. Non esiste una corrispondenza biunivoca sistematica né tra i singoli segni delle lingue né tra le relazioni interne che intercorrono tra loro in ogni lingua. È banale dire che le lingue differiscono tra loro al punto di ostacolare gravemente la traduzione di un testo da una lingua all’altra. Tuttavia, come ha sottolineato Toury[12], i problemi riscontrati in una traduzione interlinguistica non derivano tanto dalla semplice differenza tra protolingua e metalingua, quanto dal loro essere anisomorfe (o asimmetriche). Lo si può illustrare chiaramente comparando normali traduzioni interlinguistiche con i processi di ricodifica tra codici tecnici o artificiali.
Di solito i codici artificiali non presentano alcuna difficoltà di ricodifica (ossia in relazione con altri codici particolari), per quanto i codici in questione differiscano l’uno dall’altro. È infatti evidente che i codici artificiali sono stati appositamente concepiti per corrispondere il più possibile al sistema di segni con il quale devono comunicare. I codici artificiali hanno un fine specifico, sono fatti per essere isomorfi, sono parassiti per concezione. Per esempio, l’insieme delle relazioni tra i segni del codice Morse e il sistema di scrittura alfabetica è stato stabilito a priori per assicurare la massima corrispondenza reciproca. Ne consegue che tra loro esiste un grado massimo di traducibilità: i metatesti risultanti sono sempre accettabili in conformità alle regole del metacodice (ovvero casi corretti di utilizzo del metacodice) e corrispondono in massimo grado ai prototesti (fatto misurabile, per esempio, mediante test di ritraduzione). L’insieme delle relazioni a priori tra codici artificiali consente un’economia di trasferimento così elevata perché
non si riferisce mai a tali codici come sistemi complessivi su vari livelli, ma solo a uno o più livelli. È evidente che questi livelli servono da variabili di questo tipo predefinito di trasferimento, mentre gli altri livelli rimangono inalterati assumendo quindi lo status di invarianti[13].

I codici non artificiali come le lingue naturali non possono invece fare affidamento su nessuna definizione a priori di corrispondenza tra codici. Dopo tutto, le lingue sono sempre soggette a una certa evoluzione dovuta a molti fattori, tra cui le mutevoli condizioni sociali e materiali in cui avviene la comunicazione verbale. Anche se a volte prendono in prestito elementi lessicali o persino grammaticali da altre lingue, questi prestiti vengono poi integrati completamente, e ridefiniti in conformità con la rete semantica della lingua ricevente, e il loro scopo ultimo è rispondere alle necessità funzionali intraculturali del gruppo sociale in questione, non di facilitare il trasferimento interlinguistico da o verso altre lingue[14]. Non è quindi difficile comprendere perché coppie di lingue diverse (nonostante relazioni genealogiche tra ceppi di lingue dello stesso ceppo e somiglianze tipologiche anche tra lingue non affini) abbiano inevitabilmente un certo livello di anisomorfismo.
A livello pratico, la mancanza di isomorfismo implica che in traduzione debbano essere effettuate delle scelte.
Dal punto di vista della situazione lavorativa del traduttore, in qualsiasi momento della sua professione (ossia dal punto di vista pragmatico), la traduzione è un PROCESSO DECISIONALE: una serie composta da un dato numero di situazioni conseguenti – mosse di un gioco – situazioni che impongono al traduttore di scegliere tra un dato numero (molto spesso definibile in modo preciso) di alternative[15].

I due punti 1.1.2.1. e 1.1.2.2. analizzano ulteriormente la natura di queste scelte.
A livello teorico occorre trarre le seguenti conclusioni. Innanzitutto la traduzione interlinguistica sembra caratterizzata da un certo grado di indeterminatezza. Di solito dieci trascodifiche indipendenti di un prototesto dal codice Morse al codice Braille producono dieci versioni finali identiche: la ritraduzione riproduce il prototesto. Tuttavia è molto probabile che dieci traduzioni verso il francese di un testo inglese differiscano tra loro in misura minore o maggiore, e lo stesso vale per la ritraduzione. È indubbio che le relazioni che di fatto intercorrono tra gli elementi del prototesto e quelli del metatesto sono in parte descrivibili da un punto di vista semantico. I linguisti e gli scienziati della traduzione hanno elaborato determinate categorie descrittive applicabili oltre i confini di un singolo sistema linguistico e sono perciò utili a individuare i cambiamenti semantici che avvengono, o non avvengono, nelle fasi di trasferimento. Tali tentativi di classificare le relazioni traduttive tra protocodice e metacodice sono stati sviluppati, tra l’altro, nel contesto della stilistique comparée. Tuttavia avere a disposizione queste etichette generiche (per quanto possano essere utili per diversi scopi) non risolve la questione dell’anisomorfismo delle lingue. Rimane il livello di arbitrarietà relativo alla selezione degli elementi “corrispondenti” nel metacodice, per quanto siano precisi gli schemi con i quali possiamo classificare le diverse scelte possibili.
Questo mi spinge a una nota terminologica. Nel caso del processo di trascodifica tecnica, la relazione tra prototesto e metatesto può essere legittimamente descritta come relazione di equivalenza in senso stretto, grazie alle relazioni ben definite tra i codici artificiali in questione. Nella traduzione interlinguistica, il termine non può essere invece applicato alle relazioni tra prototesto e metatesto poiché ha implicazioni matematiche. Ciononostante, il termine è ampiamente utilizzato in traduttologia[16]. In che misura è giustificabile l’uso di questo termine? Sebbene il termine non sia applicabile alla traduzione nella sua accezione originale e in senso stretto, non troviamo nulla in contrario al suo uso: (i) in senso approssimativo; dopotutto le lingue non sono totalmente idiomorfiche e, in certe aree ristrette di significato, possono avere un dato grado di isomorfismo, soprattutto tra lingue e culture affini; (ii) in senso puramente descrittivo, che tralascia in toto le origini e le implicazioni matematiche del termine: la traduzione è equivalente alla sua fonte se ha la stessa funzione in una data cultura. Tuttavia, come nel caso di «codice», è necessario diffidare del carico metaforico della parola. In quanto segue, eviterò il rischio di ambiguità ricorrendo ad aggettivi come «equivalenza stretta» (cfr. il concetto matematico), «equivalenza relativa» o «approssimativa» (cfr. i) e «equivalenza empirica» (cfr. ii).
Un’ultima precisazione teorica riguarda la nota questione della traducibilità. In che misura è possibile la traduzione – se è possibile – data la natura sostanziale delle differenze tra le lingue? Coloro che tendono a considerare uguali le lingue naturali e i codici tecnici sono piuttosto ottimisti riguardo alla trasferibilità dei significati. Le formulazioni verbali sono semplice espressione di significati, per questo l’incompatibilità tra protocodice e metacodice non ha molta importanza. Tuttavia, se si accetta che lingua e significato non possono essere facilmente dissociati, è molto più probabile che le caratteristiche idiomorfiche delle lingue siano considerate di ostacolo alla traduzione, dal momento che precludono equivalenza e identità di significato oltre le barriere linguistiche. La mia impostazione strutturalista potrebbe indurmi a condividere quest’ultima posizione, sostenendo che l’effetto cognitivo più o meno profondo della struttura del linguaggio e la natura essenzialmente anisomorfa delle lingue minano il successo della traduzione. Tuttavia tali affermazioni vanno respinte perché sono basate su un concetto a priori di traduzione, ovvero il concetto secondo il quale i significati del prototesto e del metatesto devono essere equivalenti in senso matematico, ossia identici. In questo modo la domanda «Un testo può essere tradotto?» si riduce a «Un testo può essere tradotto in modo da assicurare identità o stretta equivalenza di significato?». Non è affatto necessario limitare tanto il concetto di traduzione, dato che non è intrinsecamente sbagliato concepire la traduzione con diversità o cambiamenti di significato. Oltre a non essere necessario, nuoce allo sviluppo della scienza della traduzione come disciplina empirica (vedi capitolo 3, paragrafo 1.4).

1.1.2.1 Vediamo ora qual è l’effetto più immediato dell’anisomorfismo delle lingue sul processo traduttivo. Catford sostiene che
fondamentalmente, ogni lingua è sui generis; viene suddivisa in categorie in base a relazioni che intercorrono all’interno della lingua[17].

Le lingue sono sistemi strutturati; inoltre, lingue differenti sono strutturate in modo differente. Quindi, la traduzione interlinguistica non può mai essere un semplice o meccanico processo di sostituzione. La corrispondenza tra gli elementi del metacodice e quelli del prototesto non può essere realizzata sulla base di una serie incontestabile di relazioni predefinite tra protocodice e metacodice. Come già sottolineato, questo comporta il più delle volte la necessità di fare scelte tra i diversi elementi del metacodice; analogamente, l’equivalenza stretta risulta impossibile. I traduttori, allora, devono accontentarsi della soluzione che più si avvicina e cercare nel metacodice l’elemento che perlomeno abbia un significato (un valore relazionale) che rifletta in modo ottimale il significato (valore relazionale) dell’elemento del prototesto. I traduttori cercano di portare al massimo il grado relativo di isomorfismo presente tra protocodice e metacodice, cercando in quest’ultimo l’elemento (per così dire) equivalente in modo ottimale al suo corrispettivo del prototesto. Propongo di chiamare questo metodo traduttivo «approccio analogico».
Diversamente dal processo traduttivo omologico, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, la ricerca di analoghi spesso è considerata l’unica forma di traduzione linguistica vera e propria. Forse perché è quello che assomiglia di più all'”ideale” della ricodifica in senso stretto. Data l’impraticabilità di una mappatura completa degli elementi del protocodice e del metacodice, si cerca almeno di sfruttare al massimo il grado di simmetria linguistica a disposizione. In questo senso l’analogia può essere considerata una forma debole di isomorfismo. Bisogna comunque tenere sempre presenti i limiti di questo tipo di strategia traduttiva. Il successo potenziale con un metodo traduttivo linguistico analogico sono limitate da almeno quattro fattori: (i) l’effettivo livello di divergenza tra protocodice e metacodice: più le differenze tra le due sono sostanziali, più è difficile escludere un livello di arbitrarietà nella selezione degli elementi del metacodice sulla base dell’analogia (ii) la misura in cui certi significati culturali si sovrappongono alla pura semantica linguistica dell’elemento del prototesto; questo significa che una traduzione linguisticamente analogica può non essere efficace dal punto di vista della semantica culturale (vedi paragrafo 1.2); (iii) la misura in cui certi vincoli testuali relativi all’applicabilità e all’appropriatezza degli enunciati nelle varie situazioni regolano l’uso della grammatica e del lessico del metacodice (vedi paragrafo 1.3). (iv) la misura in cui l’elemento del prototesto è governato da funzioni semantiche ad hoc determinate dalla specifica configurazione testuale in cui occorre (vedi paragrafo 2).

1.1.2.2 La ricerca di analoghi linguistici spesso è considerato l’unico metodo legittimo di trasferimento, ma basta dare un’occhiata alla realtà della traduzione per giustificare la presenza di un secondo metodo di rappresentazione degli elementi linguistici del prototesto nel metatesto. Questo secondo metodo consiste nella selezione degli elementi del metacodice – o addirittura nella loro invenzione ad hoc se non sono disponibili nel metacodice – sulla base di una somiglianza formale con l’elemento del prototesto da tradurre. La selezione o la creazione di questi omologhi può avvenire non considerando in parte o del tutto il valore relazionale analogico sul piano semantico. In altre parole, l’elemento linguistico del prototesto non è considerato principalmente un’unità semantica funzionale la cui forma serve solo a differenziare e stabilizzare il suo significato come avviene col metodo analogico, ma piuttosto un’unità formale o semplice signifiant. Così, in base al principio dell’omologia, una frase del prototesto – il cui significato dipende dalle relazioni tra i suoi componenti grammaticali e lessicali all’interno dell’intero protocodice – viene tradotta come mera sequenza di parole (la cosiddetta traduzione parola per parola) o addirittura di suoni (la cosiddetta traduzione fonologica). Molti altri fenomeni traduttivi rientrano in questo tipo di strategia, compreso l’uso di prestiti, falsi amici, e il caso estremo della copia diretta, o non-traduzione. Questi fenomeni sono ben noti, dato che si manifestano in molte altre situazioni multilinguistiche, soprattutto nei processi di apprendimento della seconda lingua. Basandosi sul famoso studio di Weinreich Languages in Contact (1953), linguisti teorici e applicati sono giunti a considerarli fenomeni di interferenza.
In generale, i fenomeni di interferenza linguistica non sono ben visti, perciò i traduttologi normativisti spesso bollano gli omologhi traduttivi come soluzioni inadeguate al problema dell’isomorfismo delle lingue. Non è difficile capire il perché di questo atteggiamento negativo così diffuso. Non si può negare che gli omologhi traduttivi tendano a ignorare la dimensione semantica degli elementi linguistici del prototesto che sostituiscono o, piuttosto, ripetono. Gli elementi del prototesto sottoposti a traduzione omologica in realtà sono quasi dissociati dal codice in cui erano stati codificati, dal quale traggono valore semantico. Di conseguenza, il significato degli elementi del metacodice è molto meno equivalente a quello dei loro omologhi di quanto sarebbe con un metodo analogico. In casi estremi, può capitare che nel metacodice non ve ne sia traccia. Negando in modo totale o parziale la semantica del protocodice, non avviene alcuna ricodifica “reale”:
la corrispondenza formale [è la] qualità tipica di una traduzione che riproduce nel metacodice le caratteristiche formali del prototesto in modo meccanico. Spesso la corrispondenza formale distorce la struttura grammaticale e stilistica della lingua ricevente, distorcendo così il messaggio, determinando fraintendimenti o grande fatica nel ricevente[18].

Anche le teorie della traduzione di tipo descrittivo, cioè che non si basano su preconcetti su ciò che la traduzione è o dovrebbe essere, riconoscono chiaramente il carattere speciale dei casi di interferenza linguistica[1]. Comunque, i metodi di traduzione basati sull’omologia linguistica sono usati molto più spesso di quanto ai loro detrattori piaccia ammettere, e il loro campo di applicazione è molto più vasto e vario di quanto ritengano accettabile. Né possono essere giustificati attribuendoli a mera incompetenza o alla difficoltà di trovare analoghi soddisfacenti[2]; lo testimoniano gli innumerevoli casi in cui traduttori esperti preferiscono omologhi anziché analoghi ragionevolmente equivalenti a loro disposizione. Questa scelta è da attribuire a diversi fattori: l’autorità del prototesto o del suo autore, il prestigio del protocodice o della protocultura in generale, il desiderio di aggiungere un tocco esotico al metatesto, il desiderio di influenzare il metacodice e così via.
1.2 Ricodifica culturale
1.2.1 Nonostante la loro condizione privilegiata, le lingue naturali non sono però gli unici mezzi di significazione, comunicazione e organizzazione che le culture umane hanno a disposizione e su cui si basano. Vengono in mente molti altri esempi di sistemi di segni: codici etici, codici legali, segnali militari, linguaggi informatici, codici cifrati, codici culinari, codici della moda, codici architettonici, codici pittorici, codici musicali, di cinesica e prossemica, sistemi di valori ideologici, routine e rituali della vita quotidiana e così via. Questi elenchi fanno sorgere una domanda:
Come si fa a porre fine a questo inventario? Tutto è segno: i regali, le nostre case, il nostro arredamento, i nostri animali domestici[19].

Nelle prossime pagine userò il termine «codice culturale» per un particolare gruppo di sistemi segnici culturali come quelli appena elencati. Partirò da due presupposti, che la cultura è una sorta di struttura complessa che produce significato (e non si limita ad esprimerlo, quindi è esclusa qualsiasi interpretazione rigida della metafora del codice) e che i codici linguistici e i codici culturali non coincidono (anche se sono organizzati con i medesimi princìpi strutturali). Intendo argomentare che il concetto di codice culturale è uno strumento euristico utile perché permette di concettualizzare alcuni fenomeni di trasferimento “culturale” che sembrano proprio distinguibili dalle difficoltà di ricodifica “linguistica”.
Non è necessario ripetere che nessun testo nasce in un vuoto culturale. I testi nascono in – o in reazione a – un preciso contesto, a cui si può alludere, che può essere tematizzato, commentato o sottinteso in altri modi. Di conseguenza, si può ritenere che i testi contengano un carico di significati culturali sopra (accanto, dentro) i loro significati linguistici. A chi legge il Re Lear di Shakespeare non basta disporre di una buona conoscenza della lingua del periodo elisabettiano. Deve anche avere familiarità con il codice culturale elisabettiano: si presuppone una conoscenza di base delle leggi di successione, dei codici d’onore e di obbedienza filiale, delle strutture sociali feudali e così via; vi sono allusioni all’astrologia, alle leggende, alla moda – le scarpe scricchiolanti, il frusciare della seta, i profumi di zibetto – e così via. Le parole del Re Lear sono intrise di cultura elisabettiana.
In questa sede non ci occupiamo del modo in cui questi significati culturali sono (rap)present(at)i nei testi. Mi limito a citare i concetti di connotazione (Hjelmslev) e di mito (Barthes), che offrono un approccio interessante a questo problema. Secondo questi concetti, il segno linguistico è (per così dire) svuotato dal codice culturale, nel senso che viene nella sua interezza ridotto allo status semiotico di mero signifiant a cui si accosta successivamente un signifié convenzionale creando il segno culturale.
Dovremo analizzare più approfonditamente le relazioni fra codici linguistici e codici culturali, al livello generale dei sistemi segnici più che a livello dei singoli segni. È stato ipotizzato (vedi anche il paragrafo 1.1.2) che, dato il nostro punto di partenza, si debbano dare per scontati almeno alcuni legami fra il linguaggio da una parte, e il pensiero (individuale) e la cultura (collettiva) dall’altra. Secondo questa ipotesi, i linguisti hanno dimostrato che la struttura della lingua rispecchia in effetti diversi aspetti della realtà sociale, per esempio nella composizione e nell’organizzazione del lessico, nella struttura della grammatica, nella presenza di socioletti e altre varietà linguistiche, ecc. La presenza di numerose tracce di significati culturali all’interno della struttura stessa della lingua pone inevitabilmente
un problema fondamentale per la linguistica […] [cioè] se la conoscenza del mondo sia separata dalla conoscenza linguistica, e come debba procedere la caratterizzazione di quest’ultima. (Kess & Hoppe 1981: 95)

Per dirlo con parole mie, la distinzione fra codici linguistici culturali è accettabile in assoluto? Oppure, per ricorrere ai termini sintetici usati da alcuni partecipanti a questo dibattito, un dizionario (che raccoglie e organizza la conoscenza di una lingua) è diverso da un’enciclopedia (che raccoglie e organizza la conoscenza del mondo)?
Sostanzialmente ci si può avvicinare alla questione da due parti. Dal punto di vista del codice culturale la questione è in che misura i codici e i sottocodici culturali conducono un’esistenza autonoma, cioè indipendente dall’ordine del linguaggio. Per esempio, ci si può domandare se un codice pittorico possa funzionare senza parole oppure no. È possibile la comunicazione pittorica senza l’ausilio della lingua, considerando l’importante ruolo della critica d’arte, dei manifesti, delle brochure ecc? Le categorie semantiche dei codici di immagini sono predeterminate dalle categorie semantiche del codice linguistico? Nel complesso, risulta che nelle riflessioni sull’arte e sulla cultura il linguaggio viene comunemente ritenuto in un certo qual modo il meccanismo centrale nella produzione di significato in ambito culturale. Lo stesso Saussure considerava il linguaggio il “più importante” sistema di segni della cultura umana (1966; 16,68), ma non si è mai diffuso sul potenziale del modello strutturalista per l’analisi dei fenomeni non linguistici. Una teoria strutturalista sulla cultura in cui veniva assegnato un posto centrale al linguaggio è stata elaborata molti anni dopo dai semiotici della letteratura e della cultura della scuola di Tartu. Secondo questa teoria, il linguaggio è un sistema di modellizzazione primario, e la cultura un sistema di modellizzazione secondario. Il linguaggio plasma la percezione e la comprensione del mondo che ci circonda alla maniera di Sapir e Whorf, e lo stesso fa la cultura, ma al secondo grado: agisce su o viene applicata alle categorie del linguaggio, e ha come scopo la modifica e l’intensificazione delle forme di percezione primaria. Il ruolo centrale del linguaggio è infatti un cardine di questa teoria della cultura:

La struttura della lingua, il modello di mondo che rappresenta, a loro volta influenzano il modo in cui individui e cultura percepiscono e comprendono la realtà; si può discutere sull’entità di questa interazione ma non sul processo in sé. Le lingue naturali sono un sistema di modellizzazione primario nel senso più letterale del termine, e praticamente tutti gli aspetti dei processi di percezione e comprensione dell’individuo vengono in qualche misura influenzati da questo sistema interpretativo primario. […] La lingua in quanto mezzo principale di comunicazione è la base di numerosi altri sistemi sociali – tradizioni, convenzioni sociali, rituali, religione, […] arti figurative. (Lotman 1976: xiv)

Anche le forme artistiche non verbali come la pittura, ecc., sono considerate «im Banne der Sprache» (Flamend 1985). Mentre l’ipotesi sulla cultura della scuola di Tartu lascia una certa autonomia ai codici secondari, è chiaro che in ultima analisi la cultura viene considerata dipendente dal linguaggio. Questi atteggiamenti logocentrici hanno dominato la seconda metà del secolo, e ciò ovviamente ha determinato reazioni critiche da parte di artisti e critici d’arte offesi per la natura riduttiva insita in questa egemonia linguistica. Nonostante questo dissenso, si può tranquillamente concludere che la cultura rimane nel complesso piuttosto logocentrica, e si potrebbe affermare, citando Jakobson, che siamo governati da una tradizione di imperialismo linguistico.
Dal punto di vista opposto, cioè quello della lingua naturale, il tema dell’interdipendenza della linguistica e dei codici culturali si può ridurre a questa domanda: fino a che punto si può descrivere il linguaggio senza fare riferimenti alla realtà extralinguistica? È possibile compilare una grammatica o un dizionario descrittivi senza fare ricorso a significati presi dal codice culturale? Le diverse risposte a questa domanda rischiano di portarci in discussioni linguistiche (e ideologiche e filosofiche) sulle quali non intendo dilungarmi per ragioni pratiche. Vorrei solamente evidenziare il fatto che negli ultimi venti o trenta anni il panorama linguistico è stato dominato dalla grammatica generativa, il cui orientamento generale è universalistico e aculturale. Ci troviamo perciò di fronte a un paradosso non indifferente nel quale gli studiosi della cultura tendono a inserire il linguaggio al centro delle loro ipotesi, mentre, al contrario, la principale tendenza della linguistica attuale è incline piuttosto a isolare il linguaggio dall’ambiente culturale che lo circonda. Ad ogni modo, spero che da queste riflessioni abbozzate sia emerso che le questioni in gioco toccano direttamente le componenti teoriche della scienza della traduzione.
Ho già affermato che accetterò la distinzione tra codici linguistici e codici culturali; si suppone quindi che alcuni significati culturali saranno fuori dalla portata di un’analisi puramente linguistica. Sebbene in un prototesto possono essere codificate linguisticamente alcune caratteristiche della protocultura, presupporrò che la produzione, la comprensione, e la traduzione di un prototesto dipende anche dall’ utilizzo “adeguato” di alcuni segni culturali che possono essere separati dal codice linguistico. Questa posizione non sarà immune da possibili critiche, ma è in accordo con il principio strutturalista secondo il quale il linguaggio deve essere studiato come un sistema autonomo. Inoltre, si possono aggiungere due notevoli argomenti di natura pragmatica; in primo luogo, come intuito da traduttori, critici della traduzione, giurie di concorsi di traduzione, studiosi della traduzione, ecc., nella traduzione bisogna distinguere i problemi socioculturali dai problemi di trasferimento linguistico. Questa intuizione è confermata dalla presenza nel nostro vocabolario critico di termini quali modernizzazione e naturalizzazione da una parte, e storicizzazione ed esotizzazione dall’altra, che denotano il modo in cui viene trattata la dimensione culturale del prototesto . Il secondo argomento pragmatico (collegato all’altro) è la coesistenza di due metodi di traduzione nel caso in cui nel prototesto si registri la presenza di elementi che ne accrescono il peso culturale. Il primo metodo punta a un massimo grado di equivalenza linguistica senza però raggiungere quella culturale. Il secondo metodo favorisce invece l’equivalenza sul piano culturale a scapito del grado di equivalenza linguistica. Si può individuare abbastanza precisamente, per lo meno intuitivamente, la differenza fra i due approcci nel modo in cui il traduttore tratta le informazioni di carattere culturale dell’elemento del prototesto. Nel prossimo paragrafo tratteremo in maniera più sistematica dei diversi metodi di trasferimento culturale.
1.2.2. Anche le culture, come i linguaggi, sono fenomeni storici molto complessi in continua evoluzione a causa dei cambiamenti nel loro ambiente esterno e nei bisogni funzionali interni. ILa conseguenza di questo dinamismo intrinseco è uno sviluppo autonomo dei codici delle diverse culture che tendono ad essere fortemente discordanti e anisomorfi. È tanto più vero in quanto possiamo affermare che le culture (come le lingue) non sono borse piene di singoli elementi alla rinfusa, ma piuttosto strutture con un’organizzazione complessa le cui molteplici relazioni interne determinano la significatività culturale di ogni elemento. Come la ricodifica linguistica (vedi paragrafo 1.1.2.), ciò determina molte difficoltà di trasferimento.
Non sempre il traduttore, affrontando una traduzione interlinguistica, ha bisogno che avvenga anche il trasferimento del significato culturale. Ci sono casi in cui la traduzione viene effettuata all’interno di un unico sistema culturale (ma bilingue), cosicché un cambiamento del codice linguistico non implica necessariamente un cambiamento del codice culturale. È inoltre facile osservare che alcune forze centripete nella nostra civiltà occidentale e la diffusione delle comunicazioni di massa su scala mondiale stanno abbattendo molte barriere culturali prima più difficili da superare. Questo però non vuol dire che stia per cominciare l’era planetaria prevista da Teilhard de Chardin. Né che dobbiamo trascurare i numerosi punti di differenziazione culturale locale che restano e resteranno per sempre. Bisogna talora superare grandi distanze culturali specialmente con le culture non occidentali o con testi del passato che negli anni sono diventati culturalmente esotici se non del tutto incomprensibili.
Ci sono molti modi per superare i punti di asimmetria tra il codice culturale della lingua dell’originale e il codice culturale ricevente. Come ho appena detto, ci sono due strategie di base.

1.2.2.1. Una prima strategia consiste nella sostituzione di elementi linguistici del prototesto con elementi linguistici del metatesto che riflettono al meglio il significato culturale anziché linguistico. In altre parole, l’elemento del metatesto ha un significato culturale analogo; il suo valore relativo all’interno del codice culturale ricevente è un’approssimazione ottimale del valore relazionale della sua controparte nel codice culturale emittente. Un esempio chiarirà queste formulazioni astratte. Come ho detto sopra, in Re Lear Shakespeare nomina le «creaking shoes», oggetto che, nel codice culturale elisabettiano, era segno di moda. Una traduzione olandese come «krakende shoenen» [scarpe scricchiolanti N.d.T.] viene intuitivamente riconosciuta come analogo ragionevolmente equivalente a livello linguistico; tuttavia, non convoglierebbe il significato culturale della frase originale. Tramite un analogo culturale, d’altro canto, si cercherebbe proprio di trovare un’equivalenza approssimativa sul piano culturale, se necessario anche a scapito del grado di equivalenza linguistica. Nel nostro esempio si potrebbe fare riferimento a una marca di scarpe attuale di gran lusso o di gran moda.
L’esempio ci è anche utile per mostrare che i significati culturali in realtà non possono essere estirpati dal codice culturale che li ha generati, perciò l’analogia tra i segni culturali derivanti da codici diversi può essere solo molto approssimativa. Di nuovo (come per gli analoghi linguistici) in certi casi riusciamo a intuire la natura della relazione tra loro, che è ben diverso da una misura accurata dei gradi di equivalenza culturale. Perciò (come con la selezione degli analoghi linguistici), l’anisomorfismo dei codici culturali impone inevitabilmente un livello importante di arbitrarietà nella selezione degli analoghi culturali. Il processo traduttivo è anche qui un processo di selezione, ed è quindi impossibile usare il termine «equivalenza» in senso stretto. Non sorprende che la selezione di elementi localizzanti del codice culturale ricevente sia stata considerata
il problema forse più delicato che un traduttore di un testo letterario deve affrontare. Il senso e il valore comunicativo possono, nel complesso, essere misurati con relativa facilità e relativa precisione per quanto riguarda “l’uso comune” prevalente nella lingua emittente e nella lingua ricevente al momento della stesura del prototesto e del metatesto. Ma come si può misurare il valore degli elementi di tempo-luogo-tradizione nel prototesto?[3]

Forse è per questo che la maggior parte delle teorie normative attuali tende a considerare con sufficienza gli analoghi culturali. A volte si afferma addirittura che il ricorso a una strategia basata su analoghi culturali privi i metatesti del diritto di chiamarsi «traduzioni». Spesso si ritiene che gli analoghi culturali facciano riferimento al contenuto del prototesto, che il traduttore deve traghettare completamente, stando alla metafora del nastro trasportatore; se il traduttore si rifiuta di farlo. il metatesto va chiamato «adattamento», non «traduzione». Un altro fattore che può spiegare la valutazione generalmente negativa degli analoghi culturali è che la mente tende a essere piuttosto sensibile alle interferenze delle diverse situazioni culturali. Di solito disapproviamo la «incongruous jumble of ancient and modern manners»[4], ossia la mescolanza di àmbiti culturali diversi. Consideriamo anche la connotazione negativa che si dà al concetto di «anacronismo». Per quella ragione, gli analoghi culturali causano spesso disagi, a meno che, naturalmente, non venga trasposto radicalmente l’intero contesto culturale del prototesto. Infine, viene a volte sottolineato il fatto che gli analoghi culturali sono destinati a vita breve a causa dei cambiamenti diacronici nel codice culturale ricevente. Più ci sono riferimenti alla cultura ricevente del momento, prima il metatesto risulta datato.
1.2.2.2. Il secondo metodo di trasferimento dei significati culturali consiste nella produzione di omologhi culturali. A livello di ricodifica linguistica, il metodo omologico è caratterizzato dal fatto che l’elemento linguistico del prototesto viene considerato principalmente come unità formale (piano dei significanti) anziché semantico-funzionale (piano dei significati). A livello culturale vale una definizione parallela. La differenza sta ovviamente nella natura speciale dei significanti dei segni culturali. Se ci atteniamo all’interpretazione di Hjelmslev o Barthes, i significanti culturali sono definiti come intero segno linguistico a cui si attribuisce un significato culturale. Se perciò si usa il metodo omologico per trasferire segni culturali, la resa della semantica culturale aggiuntiva dei rispettivi elementi del prototesto passa in secondo piano rispetto a una resa il più possibile equivalente di questi elementi dal punto di vista linguistico. Dal punto di vista dei codici culturali in questione, si ha a che fare con un processo di copia formale in cui la semantica del prototesto viene quasi ignorata. Questo in certi casi determina volte oscurità o addirittura errori di comprensione (falsi amici culturali), specialmente se si devono coprire grandi distanze culturali. Tuttavia, non va sottovalutata la capacità di risolvere i problemi dei riceventi. Nell’esempio delle «creaking shoes», una resa culturalmente omologa (poniamo krakende shoenen in olandese) probabilmente è efficace sul piano comunicativo, anche se forse in modo meno diretto, purché i lettori o gli spettatori del Re Lear possano ricavare indizi sufficienti dal contesto complessivo da trarne la giusta connotazione culturale. In complesso, l’effetto ultimo degli omologhi culturali è spesso limitato all’introduzione di un tocco di couleur locale esotico che non era stato codificato dall’autore del prototesto né percepito dal pubblico del tempo. Forse questo fattore di ridondanza informazionale in parte sta alla base dell’attuale preferenza critica per tali metodi omologici rispetto agli analoghi culturali. Altre possibili ragioni sono state spiegate alla fine del paragrafo precedente (prestigio della cultura emittente ecc.).
Nella misura in cui è possibile distinguere i codici linguistici dai codici culturali, le decisioni prese dai traduttori a livello di trasferimento culturale hanno evidenti ripercussioni sul livello del trasferimento linguistico e viceversa. Le conseguenze vengono approfondite nel paragrafo 2. Per il momento possiamo distinguere approssimativamente le seguenti forme di interdipendenza: gli analoghi linguistici sono anche analoghi culturali nella misura in cui le caratteristiche culturali sono codificate a livello linguistico; nella misura in cui il significato culturale di un elemento del prototesto non è coperto dalla sua descrizione linguistica, gli omologhi culturali coincidono con gli analoghi linguistici; alle stesse condizioni, la produzione di analoghi culturali può richiedere cambiamenti radicali sul piano linguistico. Queste osservazioni permettono di trarre almeno una conclusione importante: l’introduzione del livello culturale ha quantomeno aumentato il numero di metatesti possibili realizzabili sulla base di un prototesto. Nel prossimo paragrafo entrerà in gioco un fattore di ulteriore complicazione.

1.3. Ricodifica testuale

1.3.1 Perché un enunciato sia efficace nella comunicazione orale gli eventuali destinatari del messaggio devono saper attribuire a tutte le frasi che compongono il messaggio il significato linguistico corretto e pertanto devono possedere lo stesso codice linguistico del parlante. Inoltre, per decifrare i significati culturali codificati nei segni linguistici, devono avere una sufficiente padronanza del codice culturale che viene usato. Finora, però, una terza dimensione è stata scarsamente considerata: le incomprensioni e le mancate comunicazioni avvengono anche quando l’eventuale destinatario del testo non è attrezzato a sufficienza all’utilizzo del codice che governa l’uso del linguaggio. Il contributo apportato da questa terza dimensione alla semantica complessiva di un testo e il suo rapporto con la traduzione saranno gli argomenti di questo paragrafo.
In base al famoso schema triadico di Morris si potrebbe dire che lo studio di un sistema di segni come il linguaggio consiste nell’analisi di tre tipi distinti di relazioni: quelle tra i segni (sintassi), quelle tra i segni ed il loro significato convenzionale (semantica), e quelle tra i segni ed i loro fruitori (pragmatica). In molti approcci tradizionali al linguaggio (e alla letteratura) l’interesse è concentrato soprattutto sui primi due tipi di relazioni. In particolare il primo è stato analizzato a fondo da studiosi che mirano a ricostruire la struttura interna delle lingue e che considerano la frase come unità fondamentale della loro analisi. Il terzo tipo di relazioni è entrato a far parte del dominio degli studi del linguaggo solo di recente. È merito di teorici dell’atto di parole come John Austin e John Searle se riconosciamo che l’uso del linguaggio è soggetto a certe regolarità tanto quanto le lingue stesse, e che lo studio del linguaggio non si può quindi limitare o ridurre all’analisi di frasi isolate, astratte dai loro contesti discorsivi. Se consideriamo il contesto linguistico e situazionale complessivo, scopriamo che per parlare e per scrivere compiamo, in effetti, tre atti diversi. Innanzi tutto costruiamo ed enunciamo frasi con un certo potenziale interpretativo (in altre parole la produzione di significati proposizionali o atto locutorio). Nello stesso tempo viene compiuto un cosiddetto atto illocutorio con il quale vogliamo che il nostro enunciato costituisca un atto di asserzione, elogio, domanda, promessa, avvertimento, e via dicendo. E spesso compiamo anche un cosiddetto atto perlocutorio, intendendo provocare un effetto sulle azioni o sullo stato mentale dell’interlocutore che vada oltre la semplice comprensione, per esempio rabbia, intimorimento, convincimento, reazione, e via dicendo. La cosa importante in queste distinzioni è che esse postulano una differenza tra le parole e le cose che si possono fare con le parole (cfr. il titolo del libro di Austin How to Do things with words[5] del 1962). Secondo questa teoria del linguaggio, in cui l’uso del linguaggio è considerato parte integrante della comunicazione umana, i “fini” del mittente del testo sono chiaramente più importanti della scelta dei “mezzi” linguistici. Quindi, gli atti illocutori non sono la conseguenza degli atti locutori. Si ritiene che l’atto illocutorio compiuto usando una certa frase conferisca all’enunciato di quella frase una particolare forza illocutoria. Questa triplice distinzione può essere riassunta nel seguente modo: un parlante enuncia delle frasi con un particolare significato (atto locutorio), e con una particolare forza (atto illocutorio), per ottenere un certo effetto sull’interlocutore (atto perlocutorio). (Kempson 1977: 51)
Quindi, le regole che governano l’uso del linguaggio sono di un ordine gerarchico più elevato delle regole linguistiche in senso stretto. Alla luce di questa voluta forza illocutoria e dell’effetto perlocutorio, queste regole d’ordine più elevato determinano per convenzione quali segni linguistici e quali combinazioni di segni linguistici devono essere selezionati dal repertorio complessivo del codice linguistico, non solo, ma anche quali caratteristiche sopralinguistiche aggiuntive devono comparire nel messaggio. Queste convenzioni possono operare su vari livelli. Elencherò in breve alcuni dei parametri che possono essere manipolati: la scelta degli strumenti grafici ed ortografici (nella comunicazione scritta); la preferenza o la resistenza a varietà linguistiche specifiche quali socioletto, dialetto, idioletto, ecc.; la preferenza o la resistenza a certe caratteristiche lessicali o grammaticali; l’uso di particolari strutture narrative, strategie argomentative, ecc.; l’uso di organizzatori del testo quali titoli, paragrafi, strofe, capitoli, ecc.; l’uso di altri strumenti per la coesione del testo e di convenzioni quali anafora, marcatori del discorso, ecc., l’uso di caratteristiche matricali specifiche quali topoi, formule, motivi, ecc.; la desiderabilità e l’esatta natura di schemi formali aggiuntivi quali allitterazioni, metro, tropi, figure, ecc.; i modi di interazione (per esempio la deissi) con altri sistemi semiotici (nei testi teatrali, nelle sceneggiature dei film, nei cartoni animati, negli annunci pubblicitari e simili). È questo un inventario schematico e provvisorio, ma che illustra adeguatamente i molteplici modi in cui gli enunciati si distinguono come realizzazioni di atti specifici di parole. È giusto ricordare che alcuni dei parametri elencati riguardano aspetti del linguaggio che appartengono al piano dei significanti, per esempio gli aspetti della sonorità. Questa semantizzazione delle proprietà formali è tipica degli atti di parole poetici o letterari; vedi sotto.
Come già detto, l’abbinamento dei tipi di strutture linguistiche con i vari tipi di forza illocutoria è una convenzione. Per esempio una domanda come «why not stop here” in inglese è di solito un suggerimento. Tradotta in ebraico standard perde la sua forza illocutoria secondaria ed opera solo come domanda. (Blum-Kulka 1981: 93)
Le varie convenzioni dell’inglese e dell’ebraico che governano la scelta e l’uso delle strutture del linguaggio qui non coincidono. Sul piano linguistico in senso stretto il valore semantico della frase inglese e di quella ebraica è all’incirca lo stesso, tuttavia la loro semantica complessiva non coincide a causa del diverso potenziale illocutorio e perlocutorio.
Dato che gli enunciati (come la frase singola nell’esempio precedente) possono manifestare il loro effetto pragmatico solo all’interno degli insiemi testuali cui appartengono, e poiché molte delle convenzioni che governano l’uso della linguaggio riguardano la costruzione testuale complessiva degli enunciati, propongo di classificare tutte le convenzioni di cui ho parlato come «codice testuale”. Le differenze nell’organizzazione testuale sono, poi, ciò che contraddistingue un’affermazione ironica rispetto ad una diretta, o ciò che costituisce la specificità di un testo giuridico, di una lettera commerciale, di un documento di una conferenza, di una commedia di costume, di una poesia simbolista, e via dicendo. Gli stessi fattori differenziano anche ogni singolo caso di queste tipologie di testo dalla semplice concatenazione delle frasi che lo compongono. Il testo sarà riconosciuto come un’unità singola di significato con un certo grado e un certo tipo di coerenza; attraverso i suoi marcatori di genere si presenterà come un membro o un quasi membro di una particolare classe di testi; di conseguenza verranno suscitate delle aspettative nel destinatario del testo che sarà spinto a adottare la disposizione alla lettura che per convenzione è pertinente al tipo di atto di parole.
In molte culture il codice letterario si può distinguere come un sottocodice speciale del codice testuale complessivo. Si può fare questa distinzione sia sulla base di un tipo particolare di organizzazione testuale che esso impone al materiale linguistico, sia sulla base della funzione culturale specifica che esso conferisce ai testi: l’aspetto più importante di un messaggio letterario diviene la costruzione del messaggio in quanto tale, incluse le sue caratteristiche formali che vengono semantizzate e diventano parte integrante del significato complessivo del testo (vedi paragrafo 2). Questo dare maggior rilievo alla forma del messaggio spesso comporta collocare in secondo piano altre funzioni tipiche dell’uso del linguaggio, determinando così un grande sconvolgimento dei modi comuni del discorso linguistico-testuale, in cui la vera formulazione linguistica e testuale del messaggio è, di fatto, nascosta o trasparente, poiché l’intento comunicativo è quello di perseguire “fini” più pragmatici. Questo spiega perché i testi artistici hanno un carico informativo tanto elevato. Ne consegue anche che gli strumenti utilizzati nel codice letterario non possono essere studiati in modo proficuo se vengono concepiti come invariabili, o se la comunicazione letteraria è considerata di per sé diversa dagli altri modi del discorso. Si può determinare in modo corretto quale sia la funzione letteraria (estetica, artistica) di un testo solo tenendo conto del background dinamico del codice testuale nel suo insieme. Questa dimensione storica spiega, per esempio, perché alcuni testi vengono decodificati come testi letterari anche se in origine non erano stati codificati come tali, o viceversa.
Utilizzare il termine «codice” in una dissertazione sui sistemi testuali letterari e non letterari significa incontrare nuovamente alcuni problemi teorici fondamentali. Soprattutto nella critica letteraria, l’applicazione del concetto di codice ha sollevato dure critiche. Fokkema (1985) prende in esame tutte le possibili obiezioni, cercando poi di confutarle sistematicamente. Tuttavia, sebbene si tenda a condividere il senso delle sue argomentazioni, alcune rigorose confutazioni falliscono nel loro intento. Per esempio, l’obiezione secondo cui codici precisi si baserebbero su un accordo precedente tra fonte e destinazione, mentre non esiste alcun accordo tra scrittore e lettori, viene «invalidata» nel momento in cui Fokkema «lascia cadere» questo requisito e rende meno precisa la definizione di codice[20]. È, come ovvio, semplicemente impossibile invalidare l’obiezione in modo accettabile. Scrittori diversi e persino opere diverse tendono a introdurre ideoletti propri e l’opera d’arte crea unilateralmente il proprio codice (autocodificazione). Si consideri che Lotman[21] descrive il rapporto tra il codice dell’autore e il codice del lettore in termini di lotta. Come scrive Culler,
la letteratura mina, parodia e rifugge costantemente da qualunque cosa minacci di diventare un codice rigido o un insieme di norme esplicite per l’interpretazione. […] Le opere letterarie non mentono mai interamente all’interno dei codici che le definiscono e ciò è quanto rende l’investigazione semiologica della letteratura un’impresa così allettante[22].

Ci sono altri problemi. Da un lato, si potrebbe mettere in discussione le ipotesi che stanno alla base della mia distinzione tra il codice testuale e il codice culturale, ipotesi che molti critici intertestualisti saranno riluttanti ad accettare. Dall’altro, le ipotesi secondo cui il codice testuale è considerato diverso dal codice linguistico non sono meno controverse. Dopo tutto, come Roland Barthes e altri studiosi ci farebbero credere, non c’è un discorso «puro» né un «grado zero» della retorica. Tuttavia, a difesa della mia decisione potrei fare riferimento a un fenomeno quale la licenza poetica (a quanto pare i codici letterari possono persino giustificare gli abusi delle regole grammaticali più elementari) o alla chiara tendenza dei sottocodici letterari e degli altri sottocodici testuali a non curarsi dei limiti linguistici. Potrei anche citare le importanti teorie della scuola di Tartu. Ma la considerazione decisiva è che sembrano esistere due metodi distinti di traduzione in particolare per la rappresentazione di segni testuali del prototesto. Vengono spiegati nei paragrafi 1.3.2.1 e 1.3.2.2.

1.3.2 Il fatto che gli enunciati verbali siano sempre soggetti a qualche forma di codifica testuale è molto importante per lo studioso di traduzione. Questo, comunque, non implica che una considerazione degli aspetti “testuali” o pragmatici dei segni testuali elimini o riduca l’indeterminatezza delle operazioni di trasferimento linguistico e culturale. Tuttavia, è quanto si aspettano in genere gli studiosi di traduzione.
La nostra intenzione è stata quella di esemplificare una strategia per affrontare i testi e le relative traduzioni cercando di elaborare criteri per una descrizione oggettiva del luogo e della funzione di ogni dato passaggio di un testo all’interno di un sistema di questo genere, per generare istruzioni traduttive adeguate al tipo di testo. Basandosi su una tale strategia, dovrebbe essere possibile sostituire intuitivamente decisioni di quantificazione (cui la teoria tradizionale della traduzione non è ancora capace di rinunciare) con semplici decisioni binarie. Perciò, non dovremo più considerare le traduzioni «molto buone», «più liriche», «piuttosto goffe» o «molto eleganti». In definitiva, dovrebbe esserci solo una traduzione «giusta» o «sbagliata»[23].

I problemi di traduzione incontrati finora vengono semplicemente aggravati dall’introduzione del fattore testuale. Una prima importantissima conseguenza è che spesso la codifica testuale del materiale linguistico plasma testi con un alto grado di strutturazione interna. Ulteriori relazioni testuali ad hoc vengono sovrapposte alle relazioni gerarchiche esistenti tra le frasi (grammatica) e alle relazioni orizzontali che collegano le varie frasi (concatenazione), ciò che spesso porta a un alto grado di complessità semantica intratestuale. L’effetto di questo primo fattore è discusso nel paragrafo 2.
In secondo luogo, analogamente ai codici linguistici e culturali, i codici testuali possono essere descritti come reti complesse di relazioni funzionali interne. Di nuovo traduttori e traduttologi non possono far altro che affrontare la mancanza di adattamento reciproco tra codici testuali tra i quali deve essere eseguito il trasferimento di elementi testuali. In realtà, la dimensione precisa di questa asimmetria differisce ampiamente[24]. Nel caso di certe tradizioni internazionali (il Classicismo francese del diciottesimo secolo, il giallo moderno ecc.) le differenze locali sono a volte molto sottili. In generale, dovremmo accettare il fatto che, ogni qualvolta ci sia un cambiamento di codice linguistico, c’è anche quantomeno un grado minimo di divergenza tra il codice testuale emittente e il codice testuale ricevente. Questo grado minimo è il corollario di convergenza tra il codice primario, linguistico e il codice secondario, testuale, poiché codici testuali tendono a basarsi su certe peculiarità fonologiche, grammaticali ecc. del codice linguistico:
l’influenza formativa della lingua nazionale basata su sistemi di modellazione secondari è un fatto reale e indiscutibile. È importante soprattutto nella poesia[25].

oppure come scrive Levý
die Sprache entwickelt oft schon aufgrund ihrer tektonischen Eigenschaften besonders günstige Voraussetzungen für bestimmte Kunstmittel [26]

La vera natura dell’incompatibilità tra (coppie di) codici testuali appartiene al campo di ricerca di discipline come la stilistica comparata, la sociolinguistica contrastiva, la testologia contrastiva, la comparatistica letteraria, l’analisi del discorso, la grammatica testuale e così via. Restrizioni pratiche mi impediscono di soffermarmi su questi aspetti: è il giunto il momento di osservare più da vicino i possibili metodi di trasferimento testuale.
1.3.2.1 È probabile che i traduttori vengano confrontati con caratteristiche testuali del prototesto sconosciute o insolite nel codice testuale del metatesto; forse il prototesto appartiene a un genere del codice emittente che o non esiste nel codice del metatesto oppure esiste in una forma leggermente differente (segnali di genere differenti) o in una posizione totalmente differente. Sono disponibili due opzioni fondamentali, le quali, ancora una volta, possono essere caratterizzate per mezzo dei concetti dell’analogia e dell’omologia. La soluzione analogica consiste nell’utilizzare una caratteristica stilistica, segnale di genere, tipo di testo, ecc. che appartenga al codice del metatesto e vi occupi una posizione al massimo grado equivalente alla posizione che la caratteristica del prototesto occupa all’interno del proprio codice testuale. Così, il traduttore francese di un sonetto shakespeariano adotta una forma di sonetto continentale invece di copiare le caratteristiche formali del prototesto. A causa dell’anisomorfismo dei codici testuali in questione, un’equivalenza rigorosa tra forme del genere è irrealizzabile e ci si deve rassegnare a un certo grado di indeterminatezza; perciò anche qui la forte tendenza delle procedure di selezione continua ad essere unidirezionale.
C’è stata di recente una forte spinta verso lo sviluppo di un modello descrittivo universale in relazione al quale si potrebbe misurare il grado di equivalenza tra il valore relativo di delle caratteristiche del prototesto versus quelle del metatesto all’interno dei rispettivi codici testuali. Secondo alcuni teorici degli speech act, per esempio, i concreti speech act sono legati alla cultura soltanto a un livello superficiale, poiché possono essere considerati realizzazioni di un gruppo di regole di base universali. Ciò creerebbe la possibilità teorica di uno standard di raffronto. Quanto ai fenomeni stilistici, un tentativo interessante è stato fatto dallo studioso slovacco František Miko. La sua teoria dell’espressione, secondo la quale particolari mezzi stilistici in un linguaggio sono da mettere in relazione con «qualità di espressione» più astratte e universali, sembrerebbe dare il via a
una valutazione sistematica dei mutamenti espressivi che si verificano in una traduzione formando così una base per la classificazione oggettiva di differenze tra la traduzione e l’originale[27].

Comunque, resta da vedere se la teoria universalistica di Miko sia attuabile nella realtà. In modo diverso, anche la teoria polisistemica della letteratura e della cultura offre certi criteri comparativi nel senso che dà un modello concettuale per l’analisi dei testi, delle caratteristiche dei testi e dei modelli di testo nell’evoluzione delle letterature e delle culture. Permette di caratterizzare e quindi di confrontare i tipi di testo e le caratteristiche di testo rispetto al loro status visto all’interno dell’insieme dinamico del codice testuale; a questo scopo offre criteri come conservatore versus innovativo, epigonico versus sperimentale, alto versus basso, canonico versus non canonico, indigeno versus esotico, sistemico versus non sistemico ecc. Tuttavia, sebbene alcuni dei suoi praticanti tendano a una concezione ontologica del concetto di sistema o siano impegnati nella ricerca di universali culturali e traduttivi, in linea di principio l’orientamento della teoria polisistemica è esplicitamente storico più che universalista. Ciò che le analisi polisistemiche dei codici testuali rivelano sempre è proprio la loro complessa organizzazione strutturale, la natura funzionale e dinamica e quindi la loro irriducibilità. Qualsiasi equivalenza tra caratteristiche del codice del prototesto e analoghi del codice del metatesto è, perciò, nel migliore dei casi approssimativa.

1.3.2.2 Una soluzione omologica al problema dell’asimmetria del codice testuale consiste nella copia diretta di caratteristiche del segno pertinente del prototesto. La sua semantica testuale, funzione del suo valore relazionale all’interno dell’intero codice del prototesto, è quasi al di fuori delle caratteristiche di cui si tiene conto a vantaggio della riproduzione delle caratteristiche formali. Questo tipo di strategia traduttiva è esemplificato dalle traduzioni continentali dei Sonetti di Shakespeare che rispettano lo schema rimico e le convenzioni metriche inglesi nonostante le diverse tradizioni autoctone in materia di sonetti.
2 Problema traduttivo numero due: l’organizzazione complessa dei messaggi

2.1 Nelle pagine precedenti la traduzione è stata considerata come processo di ricodifica tripla, sui piani linguistico, culturale e testuale. Dato che i codici non artificiali risultano non reciprocamente riducibili, ho discusso in che modo singoli segni del prototesto in queste condizioni sarebbero trasferibili nei metacodici, per esempio per mezzo di omologhi e analoghi. Ma nella vita vera i traduttori hanno a che fare con testi.
Se i problemi del trasferimento effettivo di singoli elementi del prototesto costringono il traduttore a fare certe scelte, l’identificazione stessa di questi singoli problemi di trasferimento dipende da una serie di scelte preliminare e non meno problematica riguardanti la scomposizione del prototesto. Quando il modello strutturali del prototesto elude le categorie di un unico schema tassonomico, la delimitazione delle singole unità traduttive sarà aperta a un livello sostanziale di indeterminatezza. Il processo traduttivo, anche in questi casi, appare come processo selettivo.
2.2 Il fenomeno appena descritto è particolarmente significativo quando è in gioco il trasferimento di caratteristiche testuali (sezione 1.3.2); è notoriamente una grande preoccupazione per i traduttori di testi letterari e una ragione sufficiente per molti scienziati della traduzione per dichiarare intraducibile la poesia.
La letteratura è caratterizzata dalla compresenza di modelli organizzativi diversi (verso, metro, ripetizioni di suoni, sintassi, isotopie ecc.) che interagiscono in vari modi tra loro e con gli strati sottostanti di significato linguistico e culturale. Ne consegue un’unità molto complessa in cui non è più possibile distinguere signifiant e signifié: si confondono in un unico segno totale, icona perfetta del mondo esclusivo che incarna. Questa compresenza di strutture in conflitto nei testi artistici è uno dei temi principali degli scritti della scuola semiotica di Tartu. Lotman si occupa della dialettica tra proprio e altrui nei sistemi, dove spesso per «altrui» si intendono quegli elementi provenienti da altri sistemi che sono inglobati nel proprio sistema conservando le loco caratteristiche di estraneità. Quando la collocazione di elementi è marcata, ossia inusuale, spezza gli automatismi percettivi del testo e genera un effetto artistico.
Dunque secondo Lotman è la multisistemicità delle opere d’arte letterarie a conferire loro unità strutturale, le loro caratteristiche uniche, l’alto contenuto informativo, la loro «energia” specifica e, in effetti, la loro irripetibilità. Lotman non ha dedicato molti articoli al problema della traduzione letteraria, ma l’osservazione che segue mostra in modo chiaro in quale direzione lo porti la sua teoria del testo letterario.
Le difficoltà fondamentali della traduzione di un testo letterario sono dovute alla necessità di restituire i legami semantici che esistono a livello fonologico e grammaticale. Se a livello fonologico fosse questione soltanto di riprodurre armonie imitative, allitterazioni o altre cose del genere, le difficoltà sarebbero minori. Ma le connessioni semantiche specifiche che compaiono in cirtù del cambiamento in un testo letterario del rapporto tra rivestimento sonoro della parole e la sua semantica, e la semantizzazione del livello grammaticale sembrano non poter essere sottoposti ad alcuna traduzione esatta (Lotman 1973: 16).

Secondo questa concezione sistemica del testo, i singoli elementi di un testo vengono a far parte di una serie di relazioni ad hoc con altri elementi testuali (Toury 1980: 95-96). Secondo Lotman, queste relazioni possono modificare considerevolmente la semantica di qualsiasi elemento testuale rispetto al suo carico semantico abituale. Un esempio molto semplice è rappresentato dall’ironia, che mostra come in un testo una parola possa addirittura assumere un significato esattamente opposto a quello che ci aspetteremmo sulla base del suo valore all’interno del codice linguistico; basti pensare all’effetto del discorso di Antonio in relazione al significato della parola «honorable» in Giulio Cesare , scena III,ii. Analogamente, l’uso di termini arcaici in un testo può essere indicatore di uno stile aulico, ma anche un mezzo per parodiare tale stile. Nei due casi possono essere stati usati gli stessi elementi del repertorio del codice linguistico; la distinzione sta solo nel differente ambito di relazioni testuali nel quale rientrano tali parole.
Di conseguenza, ha senso introdurre una distinzione fra il valore semantico che un elemento ha di norma sulla base della sua posizione relazionale all’interno del codice a cui appartiene, e il valore semantico che questo termine assume all’interno delle relazioni testuali specifiche in cui è inserito. In effetti, questa distinzione è già stata formulata parecchi anni fa dal formalista russo Tynjanov (1971 [1927]). Utilizzando i termini tynjanoviani autofunzione e sinfunzione[6], giungiamo alla formulazione che segue: l’autofunzione di un elemento in un’opera letteraria (ovvero il valore relazionale di quell’elemento all’interno del codice a cui appartiene) non coincide necessariamente con la sua sinfunzione (cioè con il suo valore relazionale all’interno del testo letterario considerato) ed è ad essa subordinato in ogni occorrenza testuale. La differenza fra le due è di grande importanza per la pratica della traduzione letteraria e, quindi, anche per la teoria della traduzione: entra in gioco un nuovo problema.
Tutto quello che è stato esposto nei paragrafi precedenti sulla traduzione (letteraria) era frutto di un punto di vista autofunzionale. Le argomentazioni implicitamente a sostegno di questo approccio possono essere parafrasate come segue: il valore aggiunto che la sinfunzione di un elemento dell’originale rappresenta rispetto alla sua autofunzione è conseguenza delle relazioni strutturali che l’elemento in questione mantiene con gli altri segni che costituiscono l’originale; se il traduttore riesce a trovare elementi corrispondenti che abbiano autofunzioni equivalenti nella lingua della traduzione, nel testo tradotto emergono automaticamente gli stessi gruppi di relazioni strutturali; in questo modo le sinfunzioni dell’originale vengono mantenute. In breve, il surplus di senso ottenuto dall’interazione degli elementi dell’originale viene riprodotto nella traduzione, se i singoli elementi possono essere tutti resi in modo equivalente: se il traduttore si occupa delle autofunzioni, le sinfunzioni sanno badare a sé stesse.

Sebbene questa argomentazione sia in sé indubbiamente corretta, è ovvio che le premesse su cui si basa non sono per niente realistiche. In primo luogo si pone il problema principale della traduzione: la ricerca di elementi singoli nella traduzione che abbiano valore semantico più o meno equivalente nelle due lingue è disseminata di grandi difficoltà. Nella traduzione letteraria questi problemi diventano ancora più seri. Fino ad ora ci siamo occupati principalmente del trasferimento (ottimale) dei significati (valori semantici) dell’originale. Eppure è evidente che anche le relazioni testuali interne che differenziano sinfunzioni da autofunzioni si basano su proprietà puramente formali delle componenti testuali, per esempio sui suoni. Anzi, la differenziazione tra autofunzioni e sinfunzioni sta, in gran parte, proprio nella semantizzazione di tali caratteristiche formali. Questo significa che il traduttore dovrebbe cercare di ottenere un’equivalenza ottimale non solo a livello di significato, ma anche a livello di significanti. Tali requisiti sono però incompatibili sulla base di un ben noto principio: nel linguaggio naturale le relazioni tra significanti e significati sono fondamentalmente arbitrarie (cfr. anche capitolo 2, paragrafo 1.2). Di conseguenza, sembra possibile immaginare una «traduzione in prosa”, che tenti di offrire una resa più o meno equivalente di una poesia di Shakespeare nei termini delle autofunzioni semantiche delle sue diverse componenti linguistiche; sembra possibile immaginare anche una «traduzione in versi” che dia una fedele riproduzione degli aspetti fonologici e prosodici dell’originale. Ma i problemi iniziano quando si vuole riprodurre il testo di Shakespeare in modo da conservare le interazioni testuali specifiche tra le sue varie componenti, cioè le sue sinfunzioni.

Cosa possono fare i traduttori davanti ad un testo tanto complesso? In linea di massima, sembrano esistere due opzioni principali. Scegliendo la prima, il traduttore potrebbe decidere di ignorare le particolari strutture dell’originale o persino interi livelli di strutturazione dell’originale, per avere massima libertà d’azione nel trasferimento ottimale degli elementi e delle strutture dell’originale su altri livelli. L’esempio più tipico di tale approccio è una traduzione in prosa che fin dall’inizio abbandona ogni speranza di riprodurre i suoni e le strutture metriche dei versi dell’originale, per concentrarsi maggiormente sul lessico e sulla grammatica. È chiaro che questo approccio non riuscirà a trasferire le complessità sinfunzionali dell’originale. Il secondo tipo di strategia presuppone un traduttore che metta da parte del tutto il punto di vista dei singoli segni dell’originale e le loro autofunzioni. In realtà segue la procedura inversa: cerca cioè di definire le sinfunzioni che agiscono nell’originale e di trasferire quelle invece dei singoli segni linguistici, culturali e testuali dell’originale, dalla cui interazione sono definiti. Nella formulazione (normativa) di Z. Klemensiewicz:

L’originale deve essere considerato come un sistema e non come una somma di elementi, come un’unità organica e non come un accumulo meccanico di elementi. Il compito del traduttore non è né riprodurre né trasformare gli elementi e le strutture dell’originale, bensì cogliere le loro funzioni e utilizzare strutture ed elementi della lingua madre che per quanto possibile siano sostituti e controvalori di questa lingua con la stessa attitudine ed efficacia funzionale. (citato da Levy 1969: 21-22)

Invece di affermare che anche il trasferimento equivalente di singole caratteristiche testuali specifiche produce un’unità sinfunzionale equivalente, questa strategia olistica mira a trasferire gruppi di caratteristiche testual-funzionali. D’altronde questo è il fondamento della visione tradizionale secondo cui la poesia non può essere tradotta ma solo ricreata. È una concezione difficile da accettare come tale, perché si intende la traduzione in termini restrittivi (cfr.oltre), ma c’è un che di vero. Di conseguenza, dobbiamo accettare la possibilità che la resa – non equivalente a livello ottimale dal punto di vista autofunzionale – di due strutture dell’originale, che si intersecano, instauri comunque una relazione di equivalenza approssimativa a livello sinfunzionale tra l’originale e la traduzione. In altre parole, ad alcune condizioni i cambiamenti semantici dal punto di vista dei segni componenti dell’originale potrebbero benissimo essere il prerequisito per instaurare un grado maggiore di equivalenza a livello dell’originale e della traduzione intesi come macrosegni.
Sfortunatamente, queste sono tutte formule molto astratte e, per quanto riescano a sistematizzare intuizioni comuni, non vi è ancora un modo per controllare la loro validità nella realtà basata sull’osservazione. Da un lato, sembra non esista uno strumento per la misurazione intersoggettiva dei gradi di equivalenza sinfunzionale. Sotto quest’aspetto, la scienza della traduzione dipende da una teoria preliminare del testo (letterario), ovvero una teoria che sia in grado di spiegare con precisione il modo in cui i nessi strutturali presenti nei testi si riflettono sulla semantica che i diversi segni che formano il testo posseggono individualmente in virtù del loro valore all’interno del codice.
Nei paragrafi sulla traduzione poetica ho esaminato questioni piuttosto complesse e probabilmente discutibili. Spero che ciò non abbia suscitato la falsa impressione che la poesia debba essere considerata qualcosa di totalmente diverso dalla normale scrittura, forse addirittura qualcosa di natura più nobile, e che siamo conseguentemente di fronte a due forme e qualità di traduzione completamente diverse, la traduzione letteraria versus la traduzione normale. Al contrario, le distinzioni fra i testi poetici più complessi e il testo di prosa più elementare sono di natura graduale, e in tal senso l’attinenza del nostro secondo problema traduttivo è variabile. In un certo senso, comunque, la discussione sui casi estremi di strutturazione testuale complessa in questo contesto è del tutto opportuna, poiché ci dà una degna conclusione per i paragrafi 1 e 2 in quanto sembra che siamo più lontani che mai dalle procedure predefinite e semplici di trasferimento che ci saremmo potuti aspettare dopo la metafora della ricodifica.

3 Alcune Conclusioni

3.1 Tipi di relazioni traduttive
Con l’ausilio di argomentazioni derivanti principalmente dalla tradizione strutturalista, ho cercato di mostrare che la traduzione non condivide alcune caratteristiche importanti con i processi di ricodifica tecnica. Potremmo ottenere un quadro un po’ più chiaro di tali differenze specificando meglio la varietà di relazioni traduttive come avvengono nella traduzione “reale” versus il tipo unico di relazioni prototesto-metatesto come nel caso della ricodifica pura. Perché sia possibile tale paragone abbiamo bisogno di un sistema di classificazione in grado di darci un controllo concettuale sui vari tipi di cambiamenti e non cambiamenti distinguibili nei processi di trasferimento tra due sistemi. Fortunatamente questo sistema generale di categorie di trasformazione esiste già. Ho in mente le categorie sostituzione, ripetizione, omissione, aggiunta e permutazione già usate secoli fa dagli antichi retori e riscoperte di recente dalla linguista contemporanea (per esempio da Noam Chomsky) e dalla teoria della letteratura (per esempio da Popovič 1976 e Van Gorp 1978).
Passo ora a esaminare brevemente ciascuna di queste cinque categorie di trasformazione. Ne emerge che la prima, la sostituzione, è l’unica a verificarsi nei processi di ricodifica pura. Nella traduzione, invece, nessuna di loro può essere esclusa[28].
3.1.1 Nel caso della sostituzione, l’elemento corrispondente del prototetso viene sostituito da un elemento del metatesto caratterizzato da un valore relazionale più o meno equivalente. Questo equivale a quello che è stato finora definito principio analogico.
Nella ricodifica pura tutte le relazioni tra elementi del metatesto e i loro corrispondenti nel prototesto ricadono in questa categoria. Inoltre, data la simmetria strutturale tra i codici interessati, soddisfano pienamente i criteri dell’equivalenza matematica. Ma nella traduzione tra codici non artificiali si verifica una equivalenza pura soltanto in un numero di casi molto limitato. Non esistono teorie semantiche operazionali e universali che possano fungere da tertium comparationis e selezionare in modo inequivocabile il quasi equivalente più prossimo per ogni elemento del prototesto. Nell’ambito della ricodifica non artificiale, l’analogia è dunque un concetto elastico. Certe sostituzioni a determinate condizioni possono essere considerate più equivalenti e analoghi migliori o più simili rispetto ad altri, ma tutto sommato sono giudizi che lasciano il tempo che trovano. A complicare il quadro, l’equivalenza autofunzionale in certi casi va infranta a vantaggio dell’equivalenza sinfunzionale, soprattutto nella traduzione letteraria.

3.1.2 Gli altri quattro tipi di relazioni sono tipici della ricodifica in senso lato (traduzione).
Nel caso della ripetizione, l’elemento del prototesto non viene sostituito, bensì semplicemente ripetuto o trasferito direttamente dal prototesto al metatesto. Le sue caratteristiche formali vengono in parte o del tutto riprodotte nel metatesto senza considerare l’equivalenza semantica massimale. Ciò corrisponde a quello che è stato chiamato principio omologico. Come è già stato osservato, il fatto che trascuri la semantica del prototesto viene talvolta giudicato un grave difetto, specialmente a livello di ricodifica linguistica:
In che modo affidarsi troppo a un modello di corrispondenza formale indebolisce l’identità semantica? Questo modello identifica la traduzione con la correlazione di segni da un codice all’altro, senza prendere in considerazione le diverse relazioni strutturali tra il segno e gli altri segni nei rispettivi codici. In altre parole, questo modello presuppone un’equivalenza tra i singoli elementi semiotici e le regole che governano la loro ricombinazione in unità linguistiche superiori, sia strutturali sia semantiche. Se è concepibile reperire equivalenti formali funzionali, questi però hanno relazioni diverse nei rispettivi codici, rendendo tale modello meno adatto a riprodurre il significato[29].

Ad ogni modo, per controbilanciare questa concezione, devo sottolineare che vi sono teorie normative alternative della traduzione che favoriscono una linea d’approccio “non-illusionistica” o “esotizzante”, e di conseguenza sono più propense ad approvare i metodi omologici. Inoltre – a prescindere da qualsiasi preconcetto normativo – non si può ignorare il semplice fatto che, in effetti, i trasferimenti omologici avvengono molto spesso.
Una caratteristica importante degli omologhi nella traduzione è la loro capacità di effettuare o rafforzare determinati cambiamenti diacronici all’interno dei codici riceventi. Attraverso gli omologhi la traduzione può divenire un canale per l’introduzione di nuovi elementi nel repertorio del codice ricevente o per la modifica di quelli esistenti. Tale processo si attua ogniqualvolta i casi di interferenza tra codice emittente e codice ricevente non vengono più percepiti come tali. A mo’ di esempio potrei citare la graduale adozione di prestiti nel lessico del codice linguistico ricevente (livello dei codici linguistici), la diffusione della cultura biblica e dei valori cristiani mediante le traduzioni della Bibbia (livello dei codici culturali), l’introduzione di nuove caratteristiche testuali o di un nuovo genere letterario in un altro sistema (livello dei codici testuali) e via dicendo. A questo proposito, gli omologhi traduttivi sono in netta antitesi con gli analoghi traduttivi. Questi ultimi sono sempre esempi “corretti” di uso del codice ricevente, e perciò è molto improbabile che vi causino cambiamenti. Tuttavia, ciò non significa che i metodi di traduzione analogici non possano avere un ruolo strategico nello sviluppo storico di un sistema di segni; però il loro ruolo conservatore anziché innovativo poiché implicano un ripudio più o meno polemico degli elementi estranei e un attivo sostegno ai codici indigeni.
A prima vista può sembrare sorprendente che una strategia traduttiva definibile come forma di non traduzione si manifesti in testi prodotti e ricevuti come «traduzioni». Il nostro scetticismo su quest’idea, tuttavia, è dovuto solo alla nostra incapacità di vedere al di là del cosiddetto buonsenso traduttivo, secondo cui la traduzione sarebbe una categoria distinta, coerente e universalmente definibile. Lo scopo di questo capitolo è mostrare che tali concezioni sono inadeguate. In questo contesto è un’idea stimolante, che incoraggia a integrare la scienza della traduzione in uno studio più generale del discorso, considerare che le sostituzioni linguistiche, culturali o testuali – che, come è stato detto, spesso vengono considerate procedure esclusivamente traduttive – si verificano sistematicamente in testi considerati originali o non tradotti, per esempio nell’uso dei prestiti lessicali, dei prestiti stilistici o semantici ecc.
3.1.3 Nel caso dell’omissione, un particolare elemento del testo originale non viene assolutamente reso nel testo tradotto, nemmeno con un analogo ipoequivalente. Molto probabilmente numerosi traduttologi normativi esiterebbero a considerare legittimo questo processo traduttivo:
In teoria, il traduttore deve giustificare ogni parte o aspetto del senso cognitivo e pragmatico nel testo della lingua dell’originale (Newmark 1981: 149)
Qualsiasi potatura o sfoltimento del testo originale rende meno definita la separazione tra traduzione e adattamento e vanno perciò evitati. Tuttavia, checché ne dicano i critici, le omissioni sono molto frequenti nell’attuale realtà della traduzione per molte ragioni differenti. Come segue dal paragrafo 2, spesso le omissioni non possono essere evitate, essendo i testi originali organizzati in modo complesso: l’opzione di rendere certi elementi o certe strutture del testo originale con la massima equivalenza possibile potrebbe richiedere il sacrificio di altri elementi o strutture del testo originale. Alcuni tra questi potrebbero essere ancora riconoscibili in un analogo ipoequivalente, altri potrebbero essere ripresi in qualche altra parte del testo grazie ad alcuni artifici di compensazione (cfr. infra), altri però potrebbero semplicemente sparire senza lasciar alcuna traccia.
3.1.4 Nel caso dell’aggiunta, il testo tradotto risulta avere dei segni di componente linguistica, culturale o testuale che apparentemente non appaiono nell’originale. Le possibili cause per cui tali elementi, non presenti nel testo originale, vengono inseriti dal traduttore sono molteplici. Di nuovo, la struttura complessa del testo originale potrebbe essere una limitazione di una certa importanza: l’omissione e l’aggiunta vanno a braccetto, soprattutto se il traduttore vuole mantenere le proprietà macrostrutturali o la stessa lunghezza dell’originale. Molto spesso, tuttavia, le aggiunte devono essere spiegate secondo altri principi. È molto nota, per esempio, la tendenza dei traduttori a produrre un testo tradotto più ampio rispetto all’originale: ciò è in parte dovuto al loro interesse, psicolinguisticamente comprensibile, alla chiarezza e alla coerenza, che li induce a esplicitare dei passi complicati, fornendo i collegamenti mancanti, a mettere a nudo argomentazioni implicite e, in generale, a dare al testo una formulazione più completa. Per quanto questa tendenza non intenzionale all’esplicitazione parafrastica sia comprensibile (e, di nuovo, sia frequente nella pratica traduttiva), non è molto apprezzata da numerosi traduttologi contemporanei:
Tutte le norme traduttive sono un tentativo di impedire che il traduttore propenda per l’extrema ratio, la parafrasi. (Newmark 1981: 130)
In altri casi ancora, le aggiunte sono dovute a interventi consapevoli e intenzionali da parte del traduttore, che, per esempio, ritiene forse di poter migliorare le qualità estetiche della sua traduzione, aggiungendo la rima a un prototesto che ne è privo, usando un linguaggio più ricco di metafore, amplificando il sapore esotico del testo, e così via.
3.1.5 Per definire la quinta categoria, la permutazione, è necessario integrare alla prospettiva autofunzionale quella sinfunzionale. La quinta categoria non riguarda il trasferimento vero e proprio di singoli segni dell’originale, bensì le relazioni tra le rispettive posizioni testuali nell’originale e nella traduzione: l’elemento del testo originale viene reso nella traduzione (per mezzo di un omologo o di un analogo, talvolta comportando qualche forma di aggiunta o riduzione), ma la sua posizione all’interno della traduzione non corrisponde alla posizione relativa della sua controparte nell’originale. Quando i traduttologi utilizzano il termine «compensazione» intendono una relazione traduttiva di questo tipo.
All’interno della categoria delle permutazioni vi è un’operazione traduttiva degna di essere ricordata in modo particolare: il traduttore distingue due livelli del discorso, il livello testuale e quello metatestuale, e relega la resa di un elemento del testo originale o di una sua caratteristica nel secondo livello. Lo status metatestuale di questo secondo livello del discorso viene segnalato con mezzi convenzionali, come l’uso delle note a piè di pagina, delle parentesi o del corsivo. Questo metodo particolare di ridistribuzione dei segni del testo originale (per il quale potrebbe essere coniato il termine «compensazione metatestuale») non di rado va a braccetto con metodi traduttivi omologhi: le informazioni metatestuali compensano la frequente mancanza di forza comunicativa di questi metodi. Il fatto che la compensazione metatestuale possa combinarsi con altre categorie di trasformazione risulta anche chiaro dal legame frequente con la categoria dell’aggiunta; molte informazioni descritte nelle note a piè di pagina, ecc., apportano delle aggiunte rispetto all’originale.
3.1.6 Questi cinque tipi di operazione possono essere presenti a livello di ricodificazione linguistica, culturale e testuale. Non bisogna presumere che le decisioni dei traduttori a questi tre livelli siano necessariamente coerenti. È bene tenere in mente la raccomandazione espressa da James S Holmes nella sua trattazione delle diverse traduzioni in inglese contemporaneo di un rondò medioevale in francese:
Sembrerebbe che ci sia una resistenza particolare a trasporre una poesia del passato in una metapoesia completamente contemporanea a tutti i livelli, priva di qualsiasi elemento che indichi i suoi legami con un’epoca precedente. Se quest’ipotesi è corretta, significa che la tendenza a classificare in generale le traduzioni come modernizzanti o storicizzanti deve lasciar posto a un’analisi più elaborata che, per ogni traduzione, definisca un profilo più complesso. (Holmes 1988: 41-42)
In teoria, dovrebbe essere necessaria e sufficiente l’applicazione delle cinque categorie di trasformazione sopra citate a ognuno dei tre livelli di codice a permettere l’«analisi più elaborata» dell’intero gruppo di relazioni tra testo tradotto e originale cui Holmes deve aver pensato. In pratica, le cose risultano più complesse e numerosi fattori limitano i reali potenziali descrittivi delle distinzioni fatte sopra: la natura problematica dei limiti teorici fra i tre codici; i margini indefiniti della prima categoria (sostituzione); la complessa struttura gerarchica dell’intero gruppo di relazioni traduttive che collegano originale e traduzione; e, ultima ma non meno importante, la mancata coincidenza dei punti di vista autofunzionale e sinfunzionale; questa impone che proprio l’identificazione di coppie formate da “problemi” del testo originale e “soluzioni” della traduzione venga molto complicata dal fatto che è probabile che gli elementi del testo tradotto non siano altro che delle soluzioni parziali di problemi altrettanto parziali.
Questi fattori rendono l’intero modello difficile da usare in un reale e dettagliato confronto di testi. Ecco perché lo userò solo indirettamente nella mia trattazione sulla traduzione dei giochi di parole. Tuttavia, sarebbe esagerato affermare che il modello sia privo di qualsiasi capacità descrittiva. Per illustrare le utili distinzioni generali che se ne possono ricavare, ho incluso la seguente griglia (figura 1) che distingue alcuni tipi importanti di traduzioni classificati secondo i miei due parametri: le cinque categorie di trasformazione e i tre livelli di codice. Alcuni dei termini contenuti nei riquadri del diagramma provengono dal linguaggio specialistico di diversi critici e studiosi di traduzione; ecco perché non tutti i termini usati sono comparabili o compatibili. Indicano traduzioni in cui un particolare tipo di relazione traduttiva è così rilevante da definire l’intero gruppo di relazioni tra originale e traduzione. In una traduzione non integrale, per esempio, le omissioni sono così frequenti a livello microstrutturale, e/o riguardano a tal punto certe proprietà macrostrutturali del testo originale, da essere percepite come elementi caratterizzanti della strategia traduttiva nel suo insieme.

3.2 Tipi comunicativi di equivalenza

3.2.1 La maggior parte dei concetti precedentemente espressi dipende direttamente da una definizione saussuriana di significato (in senso linguistico). Nei miei termini valore, posizione relativa ecc., il lettore avrà giustamente riconosciuto un’eco diretta del concetto saussuriano di valeur, certamente uno dei suoi concetti fondamentali. Ora esaminerò la definizione che lo stesso Saussure diede di questo concetto, definizione che mostra una probabile alternativa per avvicinarsi alla traduzione, che potrebbe avere la pretesa di rendere più giustizia alla dimensione “comunicativa” della traduzione; ad ogni modo, in fin dei conti, questa alternativa non si rivelerà molto diversa né può essere usata come una porta di servizio attraverso la quale l’immagine della traduzione, intesa come ricodificazione in senso stretto, può rientrare di nascosto.
Il concetto di valeur è, in effetti, preso in prestito dall’economia. Nella citazione seguente Saussure sviluppa la metafora e mostra come i valori (cioè valeurs) linguistici siano simili a tutti i valori al di fuori della lingua in quanto

sembrerebbero regolati dallo stesso principio paradossale. Sono sempre formati da:
(1) una cosa diversa che può essere scambiata con una il cui valore deve essere determinato; e
(2) cose simili che possono essere confrontate con la cosa il cui valore deve essere determinato.
È necessaria la presenza di entrambi i fattori perché ci sia un valore. Perciò per determinare il valore di una banconota da 5 franchi bisogna sapere: (1) che può essere scambiata con una quantità fissa di qualcosa di diverso, per esempio pane; e (2) che può essere confrontata con un valore simile dello stesso sistema, per esempio una moneta da 1 franco, o con monete di un altro sistema (un dollaro ecc.). Allo stesso modo una parola può essere scambiata con qualcosa di diverso, un’idea; ma può anche essere confrontata con qualcosa della stessa natura, un’altra parola. (Saussure, 1966)

Così suppongo che il valeur di un segno linguistico possa essere definito sia dalla posizione relativa nella struttura linguistica (il secondo fattore nella citazione qui sopra, cioè valeur nel senso stretto della parola), che dalla sua capacità di denotare alcune entità extralinguistiche (il primo fattore nella citazione, cioè la signification saussuriana). Vorrei ora indicare in che modo questa distinzione tra le due definizioni saussuriane di valeur sembra estremamente importante ai fini della traduzione; a questo punto limiterò il discorso al campo della ricodificazione linguistica.
Finora mi sono limitato a definire i valori come opposizioni all’interno della struttura della lingua (livello della langue), in altre parole il secondo fattore della citazione di Saussure. In base a questa definizione si giunge alla conclusione che nella traduzione è impossibile avere un’equivalenza rigorosa e perciò che, per coloro la cui definizione normativa di traduzione richieda una tale equivalenza, la traduzione stessa è impossibile. Lo stesso Saussure non si occupa quasi mai della traduzione ma alcuni suoi commenti in proposito fatti en passant risultano abbastanza chiari:

Se le parole stessero per concetti preesistenti, avrebbero tutti equivalenti esatti di significato da una lingua all’altra; ma non è così: (Saussure, 1966)

Nonostante in queste ultime pagine potrebbe sembrare che la prima definizione di valeurs, cioè i significati, sia stata accantonata, sono molti gli studiosi di traduzione che oggi ritengono che questo fattore sia decisivo sia per la traduzione che per la teoria della traduzione. Insistono sul fatto che la traduzione non si basi su codici (tra i quali operano molte opposizioni strutturali), ma piuttosto su messaggi concreti (che stabiliscono un certo rapporto con la realtà extralinguistica). Tradurre è questione di parole e non di langue:

On n’a pas en effet à traduire des mots, mais des concepts, pas des syntagmes, mais des idées, pas des phrases, mais des démonstrations, des arguments, etc. […](Pergnier, 1976, p. 92)[7]

Secondo questi studiosi il traduttore dovrebbe occuparsi dell’equivalenza non a livello dei valeurs (il secondo fattore saussuriano), ma piuttosto a livello delle significations (il primo fattore saussuriano). L’equivalenza non deve risiedere nelle parole, ma (nel loro rapporto con) i concetti o le idee che vengono espresse attraverso le parole. Se il primo scopo è considerato utopico data l’asimmetria strutturale di due lingue, il secondo potrebbe essere perseguito più facilmente. Secondo questo modo di pensare è evidente che il cambio prospettico da valeurs a significations potrebbe contenere un’argomentazione fondamentale per chi si sente chiamato a difendere la tesi della traducibilità (Mounin, 1963, pp. 266-270). Alla stessa stregua, qualcuno può sentire un suo probabile uso come metodo strategico per vincere l’indeterminatezza della traduzione, che sarebbe insormontabile secondo l’analisi a livello dei valeurs, e per giustificare certe posizioni normative. Prima di discutere queste implicazioni, vorrei mostrare la portata di questo cambio di prospettiva.

3.2.2 Lo stacco concettuale da langue a parole in fatto di traduzione può essere osservato nelle relativamente poche teorie incastonate nella tradizione saussuriana ortodossa (es. Pergnier, 1976; Van Eynde, 1985, pp. 53-54; per citare altri esempi). Più numerosi sono gli esempi che possono essere tratti da teorie meno direttamente legate alla tradizione dello strutturalismo, che mostrano senz’ombra di dubbio una tendenza verso la teoria della traduzione de la parole. La prossima citazione, sulle condizioni dell’equivalenza traduttiva, mostra il senso generale delle argomentazioni di queste ultime teorie

Nella traduzione totale, i testi nella lingua originale (SL) e in quella ricevente (TL) vengono considerati equivalenti traduttivi quando in una data situazione risultino intercambiabili. […] Lo scopo della traduzione totale deve […] essere scegliere equivalenti nella TL che non abbiano “lo stesso significato” delle parole nella SL, ma la maggior sovrapposizione possibiledi gamme situazionali (Catford, 1965)

Catford parla di un concetto generale di «situazione data» che sembra includere almeno queste tre componenti: il mittente del messaggio, il segmento di realtà sul quale incide, il ricevente del messaggio. Il traduttore “comunicativo” deve centrare la sua attenzione, o almeno credere di farlo, su ognuna di queste tre componenti. Di conseguenza possiamo dividere sommariamente i concetti della traduzione “comunicativa” in tre gruppi, che vado ora ad illustrare brevemente[8]:
equivalenza emotiva: il criterio dell’equivalenza riguarda la misura in cui gli intenti comunicativi dell’autore del testo originale debbano essere mantenuti dal traduttore. Un esempio è il concetto di traduzione espresso da Koschmieder e parafrasato da Wilss (1982) come segue:

Tradurre è trovare «das Gemeinte» (G) (il significato inteso), in termini di contenuto e stile dello «Zeichen» (Z) (signifiant) in relazione al «Bezeichnetes» (B) (signifié) della lingua originale e trovare lo «Zeichen» corrispondente nella lingua ricevente che, in relazione al «Bezeichnetes» della stessa, darà lo stesso «Gemeinte» nella lingua ricevente.

Un’enfasi di questo genere sulle intenzioni espressive dell’autore del testo originale può essere ritrovata in certi approcci ermeneutici alla traduzione, in approcci (alla traduzione) ispirati dalla teoria del’enunciazione, e così via.
equivalenza referenziale: qui, tenendo conto di una certa situazione nella realtà, il criterio di equivalenza richiede che il valore di verità della proposizione del testo originale debba essere mantenuto nella traduzione. Ho scelto un breve passo tratto da un articolo di Eugenio Coseriu, la cui ben nota distinzione tra Bedeutung, Bezeichnung e Sinn testimonia chiaramente il suo rifiuto di vedere la traduzione come un’operazione a livello di valeurs:

Das Problem beim Übersetzen ist […] das Problem der identischen Bezeichnung mit verschiedenen Sprachmitteln, d.h. nicht etwa »Wie übersetzt man diese oder jene Bedeutung dieser Sprache?«, sondern »Wie nennt man den gleichen Sachverhalt bzw. Tatbestand in einer anderen Sprache in der gleichen Situation?« (Coseriu, 1978: 21)[9]

equivalenza conativa: il criterio di equivalenza prevede che il traduttore debba mirare alla maggiore somiglianza possibile tra il pubblico originario del testo originale e quello ultimo del testo tradotto. Per dirla come Nida & Taber (1969: 1), che promuovono un concetto di traduzione cosiddetto dinamico:

Una volta lo scopo della traduzione era la forma del messaggio […]. Il nuovo scopo, invece, si è spostato dalla forma del messaggio alla risposta di chi lo riceve.
Perciò va determinata la risposta che il ricevente dà al messaggio tradotto. Questa risposta deve essere poi confrontata con il modo in cui il pubblico aveva reagito al messaggio nella sua forma originaria.
3.2.3 Tentiamo ora di determinare, dal punto di vista comunicativo, le implicazioni teoriche di questo importante cambiamento di prospettiva. Prima di tutto è opportuno specificare che il cambiamento è in sé una mossa assolutamente accettabile; risponde a quanto da noi intuito e cioè che la traduzione è, in realtà, un trasferimento di enunciati concreti e non di strutture linguistiche astratte: di conseguenza, nella traduzione è in gioco “qualcosa in più” delle semplici strutture linguistiche in questione. Inoltre, tutto questo non contraddice assolutamente la definizione saussuriana di significato.
Il problema è, quindi, appurare se gli approcci comunicativi alla traduzione aggiungono qualcosa di nuovo rispetto ad un tipo di approccio che si occupa, non del trasferimento di significations, ma del trasferimento di valeurs. Naturalmente la risposta è sì se un tale tipo di concezione della traduzione basata sul concetto di valeur sembra dare conto soltanto del livello linguistico del trasferimento. Non si discute più sul fatto che nella traduzione vi sia un “qualcosa in più” (culturale, testuale) con cui la traduttologia deve fare i conti. A questo riguardo le definizioni comunicative di traduzione e di equivalenza traduttiva, nonostante il loro carattere prevalentemente normativo, costituiscono un enorme passo avanti se paragonate ad altre concezioni meramente linguistiche che riducono la traduzione alla sola sostituzione del lessico e della grammatica del codice della lingua emittente. Quindi non è esagerato dire che hanno contribuito in modo sostanziale allo sviluppo teorico della disciplina. Attirando la nostra attenzione sulla dimensione testuale della traduzione (vedi par. 1.3) hanno mostrato, una volta per tutte, che gli studi sulla traduzione non devono essere confusi con il confronto strutturale delle lingue (vedi anche Toury 1980: 14).
Comunque le inadeguatezze di concezioni meramente linguistiche della traduzione derivano dal loro ingiustificato trascurare le dimensioni “non linguistiche” della traduzione e non dal loro concentrarsi, in modo apparentemente errato, sui valeurs (piuttosto che sulle significations). Il modello di traduzione presentato in questo capitolo si basa prevalentemente sul livello dei valeurs, ma non senza includere anche i livelli di ricodifica testuale e culturale, applicando i concetti di valeur e langue anche a questi ultimi. Un tale modello sembra quindi perfettamente in grado di rendere giustizia alla dimensione comunicativa della traduzione senza per questo abbandonare la sfera dei valeurs. Potrebbe essere dimostrato, per esempio, che la distinzione classica tra la cosiddetta corrispondenza formale (l’equivalenza tra semplici testi) e l’equivalenza dinamica (l’equivalenza tra messaggi comunicativi) si può ridurre ad una serie di distinzioni graduali:
Tra un’analisi del Prototesto e un processo di trasferimento prototesto-metatesto che considera il prototesto codificato solo a livello linguistico da un lato e, dall’altro lato, un’analisi del prototesto e un processo di trasferimento prototesto-metatesto nel quale viene affidata ai livelli culturali e testuali dell’organizzazione semantica una posizione di maggiore importanza, se non addirittura una posizione gerarchica dominante;
Tra una strategia di trasferimento del prototesto che ricorre frequentemente a soluzioni traduttive omologiche anche a livello linguistico da un lato e, dall’altro lato, una strategia di trasferimento del prototesto che di solito favorisce soluzioni traduttive analogiche.
In altre parole, se si vuole spiegare cosa sia questo “qualcosa in più” che le definizioni comunicative di traduzione vogliono comprendere non è necessario scostarsi dai valeurs e rivolgersi a considerazioni di signification. Del resto credo che una simile conclusione concordi con quanto teorizzato da Saussure. La citazione tratta dal Corso nel paragrafo 3.2.1 sembra suggerire che sia i valeurs sia le significations abbiano un ruolo di uguale importanza nel determinare il significato (linguistico). Comunque nel Corso ci sono altri punti nei quali Saussure ipotizza una relazione di dipendenza tra i due. In ultima analisi è la serie di relazioni strutturali all’interno della langue che determina i possibili usi della stessa in casi concreti di parole:

È abbastanza chiaro che inizialmente il concetto [del verbo «juger” D.D.] non è nulla, o meglio, esso è solo un valore determinato dai suoi rapporti con altri valori ad esso simili, e che, senza di essi la signification non esisterebbe. (Saussure 1966: 117).

La stessa argomentazione può essere applicata ai livelli dei codici culturali e testuali: perché un segno culturale o testuale diventi semioticamente sign-i-ficante ci deve essere un codice convenzionale (langue) superiore e al contempo indipendente dalla particolare occorrenza del segno (parole). Le funzioni comunicative di un testo verbale possono essere provocate solo dalla presenza, all’interno del testo, di alcuni segnali convenzionali che acquistano significato grazie alla conoscenza condivisa di questo sistema di segni preesistente. Credere che le funzioni comunicative dei testi siano in un qualche modo estranee agli effettivi segni del testo sarebbe un tipico esempio di pensiero conduit-metaphor.
Giunti a questo punto dovrebbe emergere l’essenza dell’intero paragrafo. Se l’equivalenza nel vero senso della parola sembra impossibile a livello dei valeurs, non è sicuramente pensabile a livello di significations poiché queste ultime dipendono dai primi. In breve il passaggio a un punto di vista comunicativo sulla traduzione non risolve né può risolvere il problema dell’indeterminatezza della traduzione. Eppure questo può proprio essere l’obiettivo latente di certe teorie “comunicative”: poiché affermazioni normative riguardanti l’equivalenza o l’identità di significato in traduzione non possono trovare conferma sul piano dei valeurs, vengono difese sul piano delle signification. Dal momento che questo appare però impossibile secondo la logica saussuriana, i teorici di approccio comunicativo sono portati ad adeguarsi alla conduit-metaphor e alla rappresentazione non semiotica della traduzione vista come processo di decodifica e ricodifica. Quindi le rappresentazioni della traduzione come decodifica e ricodifica e le definizioni “comunicative” della traduzione possono essere considerate un tentativo congiunto di razionalizzare particolari concezioni normative della traduzione.
Un testo tradotto che sia la ricodifica (linguistica, culturale e testuale) completa di un prototesto porta l’intero potenziale “messaggio” di quest’ultimo. Il problema dell’impossibilità di operare questa piena equivalenza all’interno della ricodifica non può essere risolto spostando la propria attenzione dalla causa («Fino a che punto entrambi i testi sono completamente equivalenti?”) all’effetto («Fino a che punto entrambi i messaggi sono completamente equivalenti dal punto di vista comunicativo?”). Inoltre, anche se non c’è niente di male nello studiare certi effetti, dobbiamo occuparci del problema pratico: che, cioè, dal punto di vista metodologico, non siamo molto più preparati a studiare questi effetti (i gradi di equivalenza comunicativa) di quanto non lo siamo a studiare i fattori che li determinano (i gradi di equivalenza prototesto-metatesto). Come potrebbero affermazioni[10] riguardanti il valore comunicativo equivalente, l’equivalenza dell’impatto sul lettore e così via essere provate in modo intersoggettivo, senza basarsi su una propria intuizione personale? Anche se è vero che alcuni studiosi hanno sviluppato metodi promettenti per l’analisi empirica di alcuni aspetti di questo problema, a questo livello i gradi di equivalenza tra effetti comunicativi sono probabilmente più difficili da calcolare di quelli tra fenomeni testuali. Il principio di equivalenza dinamica, per esempio, presuppone che la comprensione del METATESTO da parte del “destinatario medio” rifletta «la comprensione vera o presunta” del PROTOTESTO da parte dei destinatari originari (Nida & Taber 1969 23). I problemi che emergono da questa affermazione ingannevolmente semplice, incluso lo status del lettore medio del PROTOTESTO e di quello del METATESTO e il problema di metodi per verificare la comprensione, sono difficili da risolvere. Non c’è da stupirsi che teorie traduttive normative di tipo comunicativo vengano spesso accusate di arbitrarietà. È il caso, per esempio, delle seguenti citazioni:

L’equivalenza dinamica è basata sul principio dell’effetto equivalente, e cioè sul fatto che la relazione tra destinatario e messaggio dovrebbe mirare ad essere uguale alla relazione tra i destinatari originari e il messaggio nell’originale. [Eugene Nida D.D.] cita, quale esempio di questo tipo di equivalenza, la traduzione di “Romani 16:16” di J.B. Phillips dove l’idea di «greeting with a holy kiss” (salutare con un bacio santo) viene resa con «give one another a hearty handshake all round” (darsi una forte e sincera stretta di mano). Con questo esempio di quella che sembra «una traduzione inadeguata e di cattivo gusto” emerge la debolezza dei tipi di equivalenza definiti da Nida in modo impreciso. (Bassnett – McGuire 1980:26)
In assenza di una qualsiasi base oggettiva di valutazione, la reazione del lettore della lingua ricevente non può essere prevista così come non può essere misurata la reazione del lettore della lingua emittente e lo spostamento dell’enfasi dal testo a ipotetici aspetti di ricezione porta a parzialità e distorsione illimitata. (Brotherton s.d.:37).

3.3 Livello intermedio delle norme di traduzione

Ogniqualvolta i traduttori si assumono l’impegno di rendere un testo in una lingua, una cultura e un sistema testuale differenti devono confrontarsi con molti problemi di scelta sia nello scomporre il prototesto, sia nell’operazione trasferimento vero e proprio a di tradurre delle singole unità traduttive. Il risultato di questo processo non è quindi quasi mai in una relazione di perfetta rigorosa equivalenza con il prototesto, così che molte traduzioni piú o meno divergenti di un singolo testo possono coesistere, come spesso accade, all’interno della stessa cultura ricevente. L’importante interrogativo che ora ci interessa è perché sembra che i traduttori usino del tutto questa vasta gamma di strategie traduttive possibili.
Tutte le volte in cui si prendono in esame certi specifici campi dell’attività traduttiva, si è colpiti dalla ricorrenza di certi tipi di comportamento traduttivo, la cui preferenza apparentemente ha la meglio sull’intera gamma di opzoni possibili. Il grado di indeterminatezza che distingue la traduzione dai processi di ricodifica pura e determina la disponibilità di varie strategie di traduzione non sempre si accompagna a una varietà altrettanto ampia di metodi effettivamente utilizzati dai traduttori. Inoltre, questa scelta di metodi di traduzione spesso varia sistematicamente in relazione a determinati parametri socioculturali come il genere letterario del prototesto, il prestigio della cultura emittente, le dimensioni, la stabilità, ecc. della cultura ricevente, e cosí via. Di conseguenza,

sans avoir tous les textes et tous les traducteurs d’une certaine époque, l’historien parviendra même à formuler des règles de prévisibilité: avant d’avoir étudié certains textes particuliers, il sait à quelles options et stratégies il peut s’attendre. (Lambert s.d.: 19)

C’è, in altre parole, una sistematica disparità tra ciò che è teoricamente possibile e ciò che si osserva nelle situazioni socioculturali specifiche. Finora il tentativo più interessante di integrare questo fatto importante in una teoria di traduzione è stato intrapreso da Gideon Toury, il cui concetto chiave di norme di traduzione sembra fornire una risposta adeguata al problema[11].

Una norma è sia una sorta di istruzione concreta, sia un criterio per poi valutare la prestazione. Funge da limite per chi fa parte di una comunità ogniqualvolta vuole svolgere il tipo di attività comportamentale alla quale fa riferimento la norma. Le norme sono basate sul principio del comportamento mimetico o imitativo, poiché esigono che queste attività siano eseguite secondo un determinato modello. Una norma può, ma non necessariamente deve, essere formulata esplicitamente. Le norme occupano infatti un secondo piano terreno intermedio molto ampio tra due estremi:

regole obbiettive, relativamente assolute (in certi domini campi comportamentali, perfino leggi stabili, formulate) da una parte, e tratti idiomorfici completamente soggettivi dall’altra. […] Le norme in sé stesse non occupano solamente un punto della scala, ma una sezione graduata dell’intero continuum. (Toury 1980: 51)

Pertanto le norme possono essere più o meno rigide. Le norme vengono

acquisite – addirittura interiorizzate – dai singoli membri della comunità durante il processo di socializzazione (ibidem).

Questo spiega perché esse ci sia una forte tendenza a negare la propria loro normatività. Per quanto le norme siamo relative e storicamente variabili, coloro che aderiscono a una determinata norma spesso sostengono che il comportamento richiesto corrisponde a una logica naturale o universale e che è l’unico comportamento “ragionevole” possibile.

Da queste caratteristiche sembra che l’esistenza e il funzionamento di una norma possano essere inferiti da vari fenomeni: (i) certe regolarità di comportamento in situazioni in cui ci si sarebbe potuto anche aspettare altri tipi di comportamento; (ii) la valutazione positiva o negativa di concreti casi di comportamento che si conformano o no alla norma; (iii) formulazioni esplicite della norma, come raccomandazioni, obbligazioni, dissuasioni, proibizioni ecc.; (iv) l’alto status canonizzato di certi casi precedenti di comportamento, considerati ottimali e perciò realizzazioni esemplari di una data norma, cosi che possono essere prescritte come modello per successive situazioni operative.

La loro definizione implica che

c’è un punto fermo nel ha senso presupporre l’esistenza di norme solo in quelle situazioni che in teoria permettono più varianti di comportamento. (Toury 1980: 51)

La traduzione interlinguistica risulta proprio un’attività comportamentale nella quale si dimostrano possibili varie linee di azione, cosicché le norme di traduzione possono essere considerate limiti che guidano i traduttori nella scelta di metodi di traduzione “adatti” tra una gamma di opzioni disponibili. L’articolo di Toury The nature anad role of norms in literary translation (1980: 51-63) offre una visione chiara dei vari livelli ai quali possono essere operative le norme di traduzione. Consentitemi di ricordare brevemente che quelle che Toury chiama norme preliminari sono quelle che governano proprio la selezione delle opere (autori, generi letterari, scuole ecc.) e anche quelle che riguardano la tolleranza per forme di traduzione indiretta o di seconda mano. Le norme operative di Toury sono i limiti che guidano le decisioni durante il processo di traduzione vero e proprio. La cosiddetta norma iniziale determina il concetto generale della traduzione; questa opzione globale per un certo tipo di traduzione serve da punto di riferimento generale per decisioni operative più specifiche. Questa norma iniziale è

un mezzo utile per indicare la scelta di base del traduttore tra due alternative opposte […]: si sottomette o al prototesto con i suoi nessi testuali e le norme da esso espresse e in esso contenute, o alle norme linguistiche e letterarie attive nella lingua ricevente e nel polisistema letterario ricevente, o in una sua parte. (Toury 1980:54)

L’adesione al primo tipo di norma iniziale risulta nella determina la produzione di traduzioni adeguate (o source-oriented). Anche se c’è una buona probabilità che tali traduzioni non rispondano alle aspettative testuali standard dei lettori del metatesto, le traduzioni del secondo tipo sono dette accettabili (o target-oriented) proprio per il loro impegno ad andare incontro il più possibile alle aspettative dei lettori modello. Nella terminologia precedentemente utilizzata in questo primo capitolo, le traduzioni di tipo adeguato si sforzerebbero di rendere in modo completo l’intera organizzazione semantica del prototesto, comprese le sue gerarchie sinfunzionali; metodi omologici verrebbero adottati per segni culturali e testuali del prototesto; linguisticamente. sarebbero da preferire analoghi a costo dei necessari cambiamenti dettati dalla norma. Le traduzioni di tipo accettabile invece mostrerebbero una preferenza complessiva per gli analoghi a tutti i livelli, senza fare a meno di analoghi poco equivalenti, aggiunte, eliminazioni.
In conseguenza dell’introduzione del concetto di norma, la traduttologia dovrà d’ora in avanti tenere conto di tre livelli sui quali possono essere instaurati i rapporti traduttivi tra prototesto e metatesto (Toury 1980): (i) a livello di competenza traduttiva teorica si può considerare tutta una gamma di relazioni possibili tra prototesto e i molti metatesti potenziali; (ii) a livello delle norme di traduzione vengono postulati alcuni di questi potenziali rapporti prototesto-metatesti come costituenti una vera equivalenza traduttiva, mentre altri vengono respinti a priori come soluzioni di traduzione non valide; (iii) a livello empirico di prestazione traduttiva lo studioso può intuire quali tipi di rapporti traduttivi sono stati effettivamente stabiliti dai traduttori.
Ogni modello teorico per la descrizione o la creazione di potenziali rapporti di equivalenza dovrà essere davvero molto comprensivo, un modello per rapporti intertestuali in generale, in quanto le distinzioni tra traduzioni, adattamenti ecc. non possono essere definite in anticipo. Come quelli del secondo gruppo, i rapporti nel terzo gruppo costituiranno necessariamente un sottoinsieme di questo primo gruppo di tutti i rapporti possibili. Se la gamma delle relazioni effettive si sovrapponga significativamente a quella delle relazioni richieste è un’altra questione. Dovremmo ricordare che una norma può essere più o meno rigida, che i traduttori possono decidere di non rispettare le norme esistenti, che possono nascere sistemi di norme alternativi e causare conflitti e così via. Una caratteristica decisiva delle norme di traduzione – anzi, di ogni norma – è proprio il fatto che non operano in un vuoto eterno, aculturale. Come tutte le norme, le norme di traduzione sono relative e storiche. Sono legate gerarchicamente alle altre norme che regolano il comportamento umano in campi di attività affini o più ampi, e possono perfino coesistere con altre norme all’interno dello stesso campo di attività. Nell’ultimo caso le due norme potrebbero essere in concorrenza, e qualsiasi delle due potrebbe finire per avere il sopravvento e diventare dominante; le trasgressioni di una norma potrebbero venire copiate e portare infine allo sviluppo di una norma alternativa, e così via.

Attualmente è accettata da molti l’idea secondo la quale le norme traduttive sono in correlazione con altre serie di norme all’interno della lingua, della cultura e del sistema testuale ricevente. Dobbiamo molto della comprensione di questi meccanismi al cosiddetto paradigma dei polisistemi nello studio della letteratura e della traduzione, dove svolgono un ruolo di rilievo. Secondo alcuni teorici del polisistema quali Even-Zohar, Toury, Lambert, Lefevere e molti altri, il modo più efficace per studiare letterature, lingue e culture (in breve, i diversi modelli del comportamento umano governati da segni) è quello di pensarli come polisistemi, vale a dire come sistemi di sistemi. Infatti, questi studiosi hanno sviluppato alcuni concetti che si rifanno ai tardi formalisti russi e agli strutturalisti di Praga, che riconoscono come loro padri spirituali. La teoria del polisistema si propone enfaticamente come un aggregato d’ipotesi che mira fondamentalmente a promuovere la ricerca descrittiva. Si distingue da molte altre forme di strutturalismo poiché sostituisce qualunque concetto di struttura staticamente sincronico, astorico e omogeneo, con un concetto eterogeneo e più dinamico. Fenomeni culturali come la letteratura non vengono studiati in termini di un’unica rete chiusa di relazioni (che giustificherebbe difficilmente la diacronia dei fatti letterari), bensì come insiemi complessi di molteplici reti di relazioni. Ipotizzando la coesistenza di molti sistemi di questo tipo, che implica una molteplicità d’intersezioni tra sistemi e quindi una molteplicità di conflitti e lotte per il dominio, il culturologo può rendere giustizia sia al carattere strutturale e organizzato della cultura, sia all’eterogeneità e alla diacronia di questa. Allo stesso modo, lo sviluppo della teoria del polisistema può essere interpretato come un tentativo di superamento del divario precedentemente incolmabile, nello studio della letteratura, tra l’impostazione teorica e quella storica.
Un profilo più dettagliato del pensiero polisistemico riguardo a letteratura e cultura ci porterebbe troppo lontano, ma è necessario dire alcune parole sulla possibile posizione e funzione dei testi tradotti all’interno del polisistema culturale o, piuttosto, – dato che questo è l’ambito in cui sono state condotte la maggior parte delle ricerche – all’interno dei polisistemi letterari. Come si correlano le norme traduttive con le altre norme che formano la complessa struttura del sistema letterario ricevente? Ne risulta che le traduzioni sono oggetti di studio privilegiati perché spesso forniscono ai culturologi accesso diretto al cuore dei meccanismi evolutivi della cultura, favorendo l’analisi sia della dinamica interna sia delle diverse relazioni intersistemiche del sistema letterario ricevente. Come faceva notare Even-Zohar, nella traduzione le prime due norme basilari corrisponderanno nella maggior parte dei casi a due specifiche serie di condizioni sistemiche:
(i) i testi tradotti hanno l’obiettivo di determinare un cambiamento nel centro dominante di un (sotto)sistema letterario:
dato che l’azione traduttiva, nel momento in cui assume una posizione primaria, partecipa al processo di creazione di nuovi modelli, la preoccupazione più grande del traduttore non è di trovare modelli preconfezionati nel suo “bagaglio culturale”, nel quale i testi originali potrebbero essere trasferiti; al contrario, il traduttore è pronto a violare le convenzioni locali. Con tali premesse, le possibilità che una traduzione sia vicina all’originale in termini di adeguatezza (in altre parole, una riproduzione delle relazioni testuali dominanti dell’originale) sono molto più numerose. (Even-Zohar 1978: 124-125)

(ii) i testi tradotti non svolgono una funzione primaria (innovativa), bensì una funzione secondaria (conservatrice) rispetto al centro dominante del (sotto)sistema letterario:
poiché lo sforzo maggiore del traduttore è di concentrarsi per trovare i migliori modelli preconfezionati per il testo estraneo, il risultato è spesso una traduzione non adeguata o (come preferisco dire) una più grande discrepanza tra l’equivalenza raggiunta e l’adeguatezza postulata (Even-Zohar 1978: 125).

3.4 Riconsiderare lo schema comunicativo
3.4.1 L’introduzione del concetto intermedio di norma traduttiva ha conseguenze di vasta portata. Se la traduzione è un processo decisionale, i vincoli che influenzano tali decisioni non comprendono solo fattori più o meno accidentali o soggettivi (gusto personale, competenza linguistica, condizioni lavorative ecc.) e fattori più o meno oggettivi (censura, disponibilità di strumenti per il traduttore, restrizioni dettate dal codice ecc). Dobbiamo anche tener conto dell’effetto dei vincoli intersoggettivi che sono direttamente collegati alla posizione prospettiva o alla funzione del Metatesto all’interno del sistema ricevente e che sono estranei al Prototesto e alla situazione comunicativa nel quale è nato e funzionava. Inoltre, tale interferenza è attiva ad ogni stadio del complesso processo semiotico che porta alla produzione di traduzioni: dalla decisione iniziale di eseguire traduzioni, attraverso la selezione dei prototesti e la possibilità di rifiutarsi o meno di usare determinati testi intermedi, fino alle vere e proprie procedure di scomposizione e trasferimento.
Queste considerazioni sollevano seri dubbi sulla validità non solo della immagine di ricodifica pura quale adeguata rappresentazione del processo traduttivo – se ce ne fosse ancora bisogno –, ma anche dell’intero schema comunicativo doppio, o per lo meno dei presupposti su cui poggia. Secondo lo schema comunicativo doppio: (i) l’atto comunicativo nella traduzione avviene davvero tra il Mittente del Prototesto e il Destinatario del metatesto, ma per alcuni motivi pratici è stato poi suddiviso in due fasi con l’introduzione del traduttore come intermediario, (ii) l’unica funzione, benché riconosciuta difficile, del traduttore è di agire in qualità di trasformatore di messaggi; (iii) i cambiamenti traduttivi tra il Prototesto e il Metatesto sono di norma accidentali e possono essere spiegati in modo soddisfacente come “rumore”. (A sostegno di ciò, si sostiene che la comunicazione ideale senza “rumore” sia rara persino in situazioni monolingui.)
Tali presupposti sono a volte nascosti, ma trovano anche una formulazione esplicita, per esempio in alcune teorie semiotiche formalizzate della traduzione. La seguente citazione ne è un esempio significativo:
L’obiettivo cibernetico del processo è creare le condizioni neces­sa­rie per raggiungere, in situazioni bilingui, lo stesso obiettivo della co­mu­ni­cazio­ne monolingue, cioè la trasmissione di informazio­ni co­stanti. (Ludskanov 1975: 6)

Ovviamente, interpretazioni di questo genere sottovalutano radicalmente fino a che punto le considerazioni attinenti esclusivamente alla fase ricevente dello schema comunicativo doppio (che è dopotutto la fase in cui nasce realmente il metatesto!) influiscano sull’intero processo di trasferimento. In altre parole, il carattere unidirezionale del doppio modello comunicativo preclude ingiustamente il riconoscimento dei principali effetti retroattivi esercitati dai fattori della fase finale proprio sulla fase iniziale e sulla fase di trasferimento dell’intero processo. In modo molto radicale, Gideon Toury ha tratto questa conclusione:
Parlando in termini semiotici, è chiaro che è la cultura ricevente, o una sua parte, a svolgere il ruolo scatenante della decisione di tradurre e del processo traduttivo. La traduzione quale attività teleologica per eccellenza è in gran parte condizionata dagli obiettivi che si prefigge, e questi obiettivi vengono fissati nella e dalla prospettiva del/i sistema/i ricevente. Ne consegue che i traduttori operano innanzitutto nell’interesse della cultura verso la quale traducono, e non nell’interesse del testo originale, per non parlare della cultura originale. […] Le traduzioni sono parte di un solo sistema: il sistema ricevente. (Toury 1985: 18-19)

Il doppio modello comunicativo può ancora essere utile come mezzo per studiare comodamente tutti i fattori implicati nella comunicazione traduttiva, ma le sue lacune emergeranno subito non appena si proporrà come icona dei veri processi tradottivi: tende a oscurare la vera natura semiotica della traduzione.

3.5 Studi sulla traduzione
Come ha illustrato Jiři Levý (1967), la teoria matematica dei giochi contiene diverse categorie che potrebbero rivelarsi utili per una descrizione formale di processi decisionali quali la traduzione. Fra le altre cose Levý introduce i concetti di «istruzione definizionale» (ossia un’istruzione che definisce il paradigma sulla base del quale il traduttore deve fare la sua scelta) e di «istruzione selettiva» (ossia un’istruzione che governa l’effettiva selezione del traduttore tra le possibili alternative secondo certi criteri). Ciascuna istruzione selettiva può a sua volta definire un nuovo paradigma, vale a dire un sottoinsieme del precedente insieme di alternative, e diventare quindi l’istruzione definizionale di questo sottoinsieme, e così via, fino a che il processo di selezione non si conclude con un paradigma di un solo membro. Un principio alla base del modello di Levý è che l’analisi dei processi decisionali comprenda necessariamente anche la ricostruzione del paradigma sulla base del quale il traduttore dovrà fare o avrà fatto le sue scelte.
A pensarci, la rappresentazione di Levý rivela una certa somiglianza con la rappresentazione dei rapporti traduttivi a tre livelli di Gideon Toury. Il livello dei rapporti potenziali indica l’insieme dei possibili equivalenti traduttivi; è a questo livello, si potrebbe dire, che opera l’istruzione definizionale di Levý. Il resto del processo traduttivo, che porta infine a un paradigma di un solo membro, è governato da varie restrizioni tra le quali sono particolarmente rilevanti le norme traduttive. Abbiamo visto come Toury affermi che ha senso presupporre l’esistenza di norme solo in quelle situazioni che in teoria permettono più varianti di comportamento. È proprio il ruolo delle norme quello di fornire istruzioni riguardo al tipo di comportamento da preferire in determinate circostanze: le norme hanno, per definizione, carattere selettivo. Quindi, non sono del tutto diverse dall’istruzione selettiva di Levý in quanto le une e l’altra governano la selezione di un sottoinsieme a partire da insiemi più grandi di possibili traduzioni.
Ma non c’è alcun bisogno di insistere oltre il tollerabile sulla somiglianza fra le rappresentazioni di Levý e di Toury. Il solo scopo di questo confronto è di sottolineare la necessità di elaborare in questa disciplina una componente teorica a cui attribuire le seguenti funzioni: (i) l’ipotetica ricostruzione del paradigma contenente i diversi tipi di rapporto possibili tra prototesto e metatesto, dato un certo prototesto, e dell’insieme dei codici usati nel protosistema e nel metasistema; si tratta, cioè, di una ricerca di tutti i possibili tipi e gradi di equivalenza; (ii) l’ipotetica previsione dei modi in cui questa varietà di tipi di equivalenza prototesto-metatesto è in relazione ai vari tipi di norme traduttive e condizioni del sistema.
Vorrei sottolineare l’importanza di questo punto poiché vorrei che proprio su tale aspetto si concentri una futura correzione nell’ambito della traduttologia descrittiva. A causa del maggior rilievo conferito alle norme e all’esecuzione, questo approccio alla scienza della traduzione ha ampiamente trascurato la materia teorica di cui ho appena parlato, in particolare quella indicata al punto (i). Storicamente, questo relativo disinteresse per il livello teorico è del tutto comprensibile, come conseguenza, cioè, della consueta associazione della teoria della traduzione con gli approcci normativi, rivolti al prototesto, speculativi o strettamente linguistici le cui riduzioni erano state proprio d’incentivo al cambiamento di paradigma. Inoltre, l’impeto antitetico che stava dietro il cambiamento di paradigma ha avuto effetti molto positivi, soprattutto perché ha ristabilito un contatto tra lo studioso e i fatti empirici promuovendo lo studio degli effettivi rapporti prototesto-metatesto e dei concetti normativi che li governano. Ora, però, sembra che sia giunto il momento per la traduttologia descrittiva di superare il suo scetticismo rispetto alla teoria della traduzione e di riaprire o intensificare il dialogo con la linguistica, la semiotica, la filosofia del linguaggio, le varie discipline contrastive ecc. Uno dei compiti che deve affrontare è quello di riciclare il lavoro teorico fatto in precedenza in questo campo, gran parte del quale può rivelarsi di grande aiuto,
anzitutto per via di un lungo e tradizionale interesse per questioni di “equivalenza” versus “corrispondenza formale” […] Deve ancora liberarsi, comunque, dei pregiudizi prescrittivi insiti nella maggior parte degli approcci a tali questioni. L’elemento prescrittivo può infine trovare una sua collocazione nelle estensioni applicate di questa disciplina[30].

In effetti, parecchi segnali sia all’interno sia al di fuori della scienza descrittiva della traduzione indicano che questi futuri sviluppi sono già stati avviati. La mia analisi del problema specifico della traduzione del gioco di parole vuole essere un modesto contributo a questa tendenza. Si compone di due parti. Per prima cosa tratterò il problema teorico dei rapporti potenziali: quali sono le possibili tecniche di traduzione dei giochi di parole, ci sono restrizioni a queste possibilità? Tali argomenti sono affrontati nel terzo capitolo. Il modello provvisorio di competenza così ottenuto dovrebbe quindi permettermi di descrivere con maggior precisione come alcuni traduttori di Shakespeare abbiano, di fatto, superato i giochi di parole del prototesto e quali siano stati le norme e i modelli che hanno governato il loro comportamento. Il resoconto delle mie scoperte è nel capitolo quattro.
Ma prima di tutto è necessario un ulteriore capitolo introduttivo in cui indicherò esattamente quale gamma di fenomeni venga compresa nella definizione di gioco di parole.

La pubblicazione di questo testo nel sito avviene con il gentile permesso dell’autore e della casa editrice Rodopi. Per qualsiasi informazione circa l’acquisto del volume in inglese, rivolgersi a http://www.rodopi.nl/functions/search.asp?BookId=ATS+11.

[1] La distinzione tra cambiamenti traduttivi obbligatori e facoltativi, tema fondamentale nel lavoro di studiosi come Van den Broeck o Toury (vedi Vanderauwera 1985, p. 34-35), è un caso eclatante. Mentre i cambiamenti obbligatori, detti anche cambiamenti dettati dalle regole, vengono imposti al traduttore dalle particolari proprietà strutturali del metacodice, i cambiamenti facoltativi o dettati dalle norme sono dovuti a vincoli meno rigidi, come le preferenze personali, le convenzioni stilistiche, le norme traduttive e così via. I cambiamenti dettati dalle regole sono identificabili come categoria speciale in quanto caratterizzabili come alternativa alla copia omologica diretta, formale degli elementi linguistici del protocodice.
[2] Naturalmente gli omologhi sono sempre a portata di mano.
[3] Lefevere 1975, p. 100.
[4] Tytler 1978: 265
[5] Tradotto nella prima versione italiana del 1974 come Quando dire è fare, ed in maniera più letterale in una versione del 1987: Come fare cose con le parole.
[6] Nella traduzione italiana Einaudi «cofunzione». NdT
[7] Non bisogna tradurre parole, ma concetti, non sintagmi ma idee, non frasi ma dimostrazioni, argomentazioni, etc. (Pergnier, 1976)
[8] Tutte le citazioni provengono da testi sulla traduzione; non è ben chiaro se la distinzione tra questi tre tipi, che sono costrutti ad opera di teorici della traduzione, abbiano in realtà valore
[9] Il problema nel tradurre è il problema di rendere lo stesso significato con diversi mezzi linguistici, quindi non tanto «Come si dice questa o quella parola in questa lingua?» ma piuttosto «Nella stessa situazione, come verrebbe espresso lo stesso fatto o la stessa cosa in un’altra lingua?» (Coseriu, 1978)
[10] Ho avuto un po’ di problemi a tradurre questa frase. In particolar modo ho avuto problemi con la parola “claims”. Alla fine mi sono decisa per il significato dato dal Webster’s Collegiate Dictionary che dice: “An assertion open to challenge” e l’ho quindi tradotta con “affermazione”
[11] Le mie osservazioni sulle nrome sono perlopiù basate su Toury 1980 51-62; si veda anche Hermans 1991.

[1] (Cherry 1978, p.8)
[2] (es. Schmitz 1980)
[3] (es. Kurz 1976)
[4] (Lackoff & Johnson 1980)
[5] (Reddy 1979)
[6] (1982 : 62)
[7] (Hermans 1985 a : 120)
[8] (Ledere 1973: 25).
[9] (Jacques Derrida, citato in Van den Broeck 1988a: 272)
[10] (Wilss 1982: 137)
[11] (Levý 1967 : 1176; Toury 1980 : 13 : etc)
[12] (1980: 11-18)
[13] Toury 1980:13
[14] Vedi anche Toury 1980:13
[15] Levý 1967:1171
[16] Van den Broeck & Lefevere 1984: 77-82
[17] Catford 1965, p. 27.
[18] Nida e Taber 1962, p. 203.
[19] Guiraud 1975, p. 90.
[20] Fokkema 1985, p. 649.
[21] Per esempio 1976, p. 127-131.
[22] Culler 1976, p. 105.
[23] (Wertheimer 1974: 43)
[24] (Lambert 1983a).
[25] (Lotman 1976: 20).
[26] Levý 1969, p. 39.
[27] (Popovič 1970: 84)
[28] Van den Broeck 1984/1985: 132-134.
[29] Siskin 1987: 131-132.
[30] Toury 1985: 34-35.

Fare l’amore di questi tempi. La rubrica di Luca Fontana come esempio di traduzione interculturale ELENA DETTAMANTI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Fare l’amore di questi tempi. La rubrica di Luca Fontana come esempio di traduzione

interculturale

ELENA DETTAMANTI

Civica Scuola Interpreti e Traduttori via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica ottobre 2006

© Elena Dettamanti 2006, per la tesi
© Editoriale Diario SpA 1998-2006, per gli articoli in appendice

1

Fare l’amore di questi tempi.

La rubrica di Luca Fontana come esempio di traduzione interculturale. Elena Dettamanti

ABSTRACT IN ITALIANO

La tesi si basa su un lavoro di analisi della traduzione interculturale. Si è individuata nella rubrica Fare l’amore di questi tempi di Luca Fontana, pubblicata su Diario della settimana, una possibile fonte di materiale per una ricerca. Il lavoro si incentra su un’ipotesi: ogni singolo articolo di Luca Fontana è un esempio di traduzione interculturale. In ciascun articolo un elemento della cultura è stato individuato come prototesto, e uno o più elementi come metatesto. Una prima fase di analisi degli articoli ha evidenziato alcune variabili dei processi traduttivi: il numero dei metatesti, la connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista e la connotazione di una delle culture come dominante o subordinata. Le variabili hanno permesso di delineare una tabella dei tipi di attualizzazione possibili. Ne sono risultati dodici prototipi di traduzione. Collocando gli articoli nei rispettivi prototipi, solo sei tipi di traduzione sono risultati effettivamente rappresentati dagli articoli di Fontana. Per ogni prototipo è stato analizzato in particolare un articolo che mostra le caratteristiche principali del tipo di traduzione interculturale a cui appartiene.

ENGLISH ABSTRACT
This thesis is based on the analysis of intercultural translation processe. Fare l’amore di questi tempi, Luca Fontana’s column published weekly on Diario della settimana, has been focused on as a source for research. This work is based on a hypothesis: Luca Fontana’s column is an example of intercultural translation process. In every article a cultural element has been identified as a prototext, and one or more elements as metatexts. The first step of analysis of the articles has pointed out some variables in translation processes: the number of metatexts, the connotation of one of the cultures as conformist or non-conformist and the connotation of one of the cultures as dominant or subordinate. These variables allowed to draw a table of the possible actualizations of the prototexts. This resulted in twelve possible types of translation. By assigning Luca Fontana’s articles to the single types of translation, only six types were actually represented by Luca Fontana’s articles. For every type of translation, one article has been analyzed in detail to demonstrate the main features of the type of translation to which it belongs.

RESUME EN FRANÇAIS

Cette thèse se fonde sur un travail d’analyse de la traduction interculturelle. La rubrique de Luca Fontana, Fare l’amore di questi tempi, publiée régulièrement dans l’hebdomadaire Diario della settimana, a été choisie comme source de recherche. Ce travail se base sur une hypothèse: chaque article de Luca Fontana est un exemple de traduction interculturelle. Dans chacun d’eux un élément de la culture a été choisi comme prototexte, et un ou plusieurs éléments comme métatextes. Une première phase de l’analyse des articles a mis en évidence certaines variables des processus de traduction: le nombre des métatextes, la connotation d’une des cultures comme conformiste ou anticonformiste ainsi que la connotation d’une des cultures comme dominante ou subordonnée. Ces variables ont permis de rédiger un tableau des types de traduction possibles. Le résultat a été la détermination de douze types de traduction possibles. En classant les articles de Luca Fontana dans les types de traduction appropriés, seuls six types de traduction ont été reconnus comme étant effectivement représentés par les articles de Luca Fontana. Pour chaque type un article a été analysé en détail afin d’expliquer les caractéristiques principales du type de traduction dont cet article fait partie.

2

Sommario

  1. 0  Premessa ………………………………………………………………………………. 50.1 Descrizione del materiale …………………………………………………… 5 0.2 Premessa terminologica……………………………………………………… 5
  2. 1  Primo capitolo – La traduzione della cultura………………………….. 71.1 La traduzione culturale ………………………………………………………. 7 1.1.1 Il concetto di cultura ……………………………………………………… 7 1.1.2 La traduzione intraculturale……………………………………………. 8 1.1.3 La traduzione interculturale………………………………………….. 101.2 La tipologia traduttiva ……………………………………………………… 11 1.2.1 Prototipo di traduzione n ̊4 …………………………………………… 13 1.2.2 Prototipo di traduzione n ̊5 …………………………………………… 13 1.2.3 Prototipo di traduzione n ̊6 …………………………………………… 13 1.2.4 Prototipo di traduzione n ̊8 …………………………………………… 14 1.2.5 Prototipo di traduzione n ̊9 …………………………………………… 14 1.2.6 Prototipo di traduzione n ̊12 …………………………………………. 15

    1.3 La semiosi………………………………………………………………………. 15 1.3.1 La traduzione come passaggio da segno a oggetto…………… 16 1.4 L’abduzione ……………………………………………………………………. 17 1.5 Il ruolo di Luca Fontana nella traduzione interculturale ……….. 17 1.5.1 Luca Fontana come espressione della cultura di confine ….. 18 1.6 Il lettore modello …………………………………………………………….. 18

  3. 2  Secondo capitolo – Analisi dei testi……………………………………….. 202.0 Materiale empirico…………………………………………………………… 20 2.1 Le donne di Shakespeare ………………………………………………….. 20 2.2 Francia o Spagna?……………………………………………………………. 23 2.3 La filosofia di mammà……………………………………………………… 26 2.4 Due culture a confronto ……………………………………………………. 292.4.1 La veste profumata ……………………………………………………… 29

    2.4.2 Il piacere comprato ……………………………………………………… 32 2.5 La soluzione del mistero…………………………………………………… 35 2.6 I fustigatori inglesi…………………………………………………………… 38

  4. 3  Appendice – I testi di Luca Fontana……………………………………… 41
  5. 4  Riferimenti bibliografici ……………………………………………………… 73

3

Elenco delle illustrazioni

  1. Le donne di Shakespeare 20
  2. Francia o Spagna? 23
  3. La filosofia di mammà 26
  4. La veste profumata 29
  5. Il piacere comprato 32
  6. La soluzione del mistero 35
  7. I fustigatori inglesi 38
  8. I leoni di Almodovar 40
  9. Lacrime per Falstaff 41
  10. Bessie senza una lira 42
  11. Repressione eufemistica 43
  12. Tutti nerovestiti 44
  13. Susanna e i vecchioni 45
  14. Borse di fuga triennali 46
  15. La musa al ritorno 47
  16. Giocate un po’ di più 48
  17. Medea (molto) britannica 49
  18. Contro la guerra 50
  19. Il diritto alla compagnia 51
  20. Boschi ombrosi e rovine 52
  21. Uno schianto di prof 53
  22. A bocca aperta 54
  23. Il buon samaritano 55
  24. Eurostar senza desideri 56
  25. Eroica castità 57
  26. Ai romani piaceva la… 58
  27. Sogni di guerra 59
  28. Le visite notturne 60
  29. Il corpo smembrato 61
  30. I dolori delle donne 62
  31. Lussuria e bon ton 63
  32. L’onesto Jago 64
  33. In stato di quiete 65
  34. L’eterna estate di Monicelli 66
  35. Eva, Adolfo e Heidi 67
  36. Medea in villetta 68
  37. Cartulina ‘e Napule 69
  38. Disprezzata regina 70
  39. La famiglia naturale 71
  40. La maledizione di Diana 72

4

0.1 Descrizione del materiale

Premessa

Questa tesi si basa su un lavoro di ricerca che ha lo scopo di identificare, tra le innumerevoli forme di comunicazione, un esempio di traduzione interculturale e in seguito di svolgere un’analisi per individuare tutti gli elementi che rendono il mio materiale una traduzione interculturale a tutti gli effetti. Fenomeno che non è lampante se non a chi studia la traduzione come scienza in tutte le sue forme.

Per svolgere la tesi, è stata individuata una rubrica che sembrava significativa e adatta allo scopo. Si tratta di Fare l’amore di questi tempi di Luca Fontana del Diario della settimana, rivista settimanale che si occupa di attualità. La rubrica in questione appare nel settimanale a partire dal 1998. All’inizio non è una rubrica fissa e non compare tutte le settimane, ma negli ultimi anni si è imposta come imperdibile appuntamento del settimanale. Gli argomenti presentati nella rubrica spaziano, dall’amore alla politica, dalla musica al teatro, ma una costante rimane sempre la vena ironica dell’autore.

La prima fase del lavoro è stata di ricerca. Ho raccolto un campionario di 40 articoli dal 1998 al 2006. Nella seconda fase, quella pratica, ho svolto un lavoro di analisi. Ho stabilito le varianti che caratterizzano i vari processi traduttivi che si producono negli articoli, arrivando all’individuazione di 12 tipi di traduzione. Ho pertanto potuto collocare gli articoli nel loro gruppo di prototipo di traduzione.

Nella terza fase, che corrisponde al secondo capitolo della tesi, ho schematizzato e analizzato un articolo per ogni tipo di processo traduttivo.

0.2 Premessa terminologica

Prima di presentare la prima parte teorica, e per rendere chiara la seconda parte pratica, credo che sia utile fare un’introduzione sulla terminologia presente nella tesi.

Nella seconda parte, quella pratica, il lavoro comprende l’elaborazione degli articoli attraverso

5

schemi che esplicano i passaggi traduttivi che percorre l’autore della rubrica, Luca Fontana, nella sua riflessione sulla società italiana, a volte consapevolmente altre volte inconsapevolmente, e i miei passaggi traduttivi che avvengono durante la mia analisi. Negli schemi compaiono termini propri del linguaggio della scienza della traduzione, come «prototesto» e «metatesto».

Questi due termini fanno ormai parte della traduttologia e sono alla base del concetto di «traduzione». Sono stati introdotti da Popovič (1975).

Con il termine «prototesto» si definisce il testo dal quale parte la traduzione. È insomma il testo d’origine. In una traduzione interlinguistica, da una lingua A a una lingua B, è il testo esposto nella lingua A. Il prototesto può non indicare solamente un testo scritto, come si pensa spesso quando si parla di traduzione. Il prototesto può essere un testo non verbale, ma indica comunque il punto da cui parte il processo traduttivo.

Il prototesto è soggetto della continuità intertestuale (Popovič 1975) e va considerato solamente in relazione alla sua potenzialità di generare un processo traduttivo. Non può essere studiato come elemento concluso e indipendente.

Con il termine «metatesto» si indica il testo prodotto a conclusione del processo traduttivo. Seguendo l’esempio precedente, se parliamo di traduzione da una lingua A a una lingua B, il metatesto è il testo nella lingua B. Come nel caso del prototesto, il metatesto può non essere un testo verbale. È comunque il punto di arrivo di una traduzione.

Il metatesto implica nella sua definizione l’esistenza di un prototesto, che però non potrà mai riprodurre in modo completo. Infatti non esiste una vera e propria equivalenza tra metatesto e prototesto.

6

Primo capitolo – La traduzione della cultura

1.1 La traduzione culturale

Uno dei campi verso i quali l’approccio semiotico ha allargato il concetto di «traduzione» è quello culturale. Per «traduzione culturale» s’intende un processo nel quale, a prescindere da eventuali cambiamenti interlinguistici, si passa da una cultura a un’altra, ossia si modificano i riferimenti dati per scontati, il cosiddetto «implicito culturale».

1.1.1 Il concetto di cultura

Per svolgere una tesi sulla traduzione è doveroso introdurre il concetto stesso di «traduzione». Per «traduzione» si intende qualsiasi processo che trasformi un testo (testo che non deve essere considerato necessariamente come testo verbale) in un altro testo. Questa definizione di «traduzione» evidentemente non limita il processo alla trasformazione di un testo da una lingua verso un’altra lingua. Esso permette quindi di allargare questo concetto ad altre forme: possono essere così ritenute delle traduzioni ad esempio la scrittura e la lettura.

Se si considera questa definizione più ampia di «traduzione», si capisce come la distinzione tra traduzione interculturale e intraculturale sia più difficile del previsto. Per «traduzione interculturale» si è sempre intesa una traduzione da una lingua A a una lingua B e per «traduzione intraculturale» a una traduzione all’interno della stessa lingua. Se però si fa una distinzione tra traduzione interlinguistica e intralinguistica si capisce come vi sia una netta differenza con i concetti di traduzione interculturale e intraculturale.

Si delinea così una netta distinzione tra lingua e cultura. Anche se non bisogna confondere questi due concetti, non si deve pensare che essi non siano in relazione tra loro. Il concetto di cultura è molto più ampio rispetto a quello di lingua che può essere considerato un suo sottoinsieme. La lingua è uno degli elementi che formano la cultura di un individuo o di una società e che permette di differenziarla da altre culture.

Considerando la lingua come sottoinsieme della cultura è ora più facile pensare che il concetto di cultura non possa più essere limitato a una distinzione tra due lingue. La parola «cultura» racchiude un significato molto più ampio: «una cultura è un modo di percepire la realtà» (Osimo 2002). Se si pensa

7

però che la realtà sia una cosa oggettiva, questo non deve trarre in inganno poiché la percezione è un fattore totalmente soggettivo. La propria esperienza, il contesto ambientale, sono tutti fattori che entrano in gioco quando ci si relaziona alla realtà. Questi cambiano continuamente da individuo a individuo e quello che per uno può essere scontato perché già entrato a far parte della sua esperienza per un altro può essere completamente nuovo. È così che si differenziano la parte esplicita e la parte implicita di un testo. Il non-detto può risultare facile da comprendere per un individuo che appartiene al contesto culturale in cui l’enunciato è prodotto, per un altro individuo estraneo a tale cultura la parte implicita può essere totalmente indecifrabile. È questo che rende ogni cultura unica e la differenzia dalle altre.

Riconoscere che la propria cultura è solo una delle possibili percezioni della realtà è un passo molto importante per l’accettazione del diverso. Vi sono due atteggiamenti possibili: l’«altrui nel proprio» e l’«appropriazione dell’altrui». Nel primo caso l’individuo riconosce la diversità tra le culture, è consapevole della soggettività della percezione ed è aperto a un continuo confronto con le altre culture. Nel secondo caso l’individuo guarda la realtà estranea attraverso i parametri della propria cultura per «omogeneizzare la diversità per farla apparire simile a ciò a cui si è abituati» (Osimo 2002).

La dinamica proprio/altrui è il concetto alla base della «semiosfera», concetto introdotto da Lotman. La «semiosfera» è il macrosistema delle culture. Ogni cultura è rappresentata da un sottoinsieme che si sovrappone parzialmente ad altri sottoinsiemi, cioè ad altre culture. Le culture interagiscono continuamente tra loro ed è per questo che il confine di ogni sottoinsieme non è mai netto. La «semiosfera» è sempre aperta a nuove trasformazioni poiché le relazioni tra le culture cambiano continuamente nel tempo e nello spazio.

L’universo delle culture visto in questo modo permette di mettere in luce la specificità di ogni cultura. La suddivisione di questo macrosistema può avvenire a più livelli: si può partire da sottoinsiemi più grandi come gli stati o i continenti fino ad arrivare ai singoli individui. Ogni individuo incarna così una cultura diversa.

Questo concetto di cultura più ampio ci permette di comprendere in modo più preciso la differenza tra «traduzione intraculturale» e «traduzione interculturale».

1.1.2 La traduzione intraculturale

La traduzione di un testo può avvenire all’interno di una stessa cultura o tra due culture diverse. Nel primo caso la traduzione si definisce «traduzione intraculturale».

Come esempio si può prendere una traduzione che avviene all’interno della cultura italiana. In questo caso la definizione di «cultura» avviene a livello di nazione e prende in considerazione i cittadini italiani. Ma se si considera il concetto di «cultura» più ampio descritto nel paragrafo

8

precedente, si può pensare che una «traduzione intraculturale» avvenga per esempio all’interno di un gruppo di persone che non rappresentano per forza tutti i cittadini italiani ma solo una parte. In questo caso il concetto di cultura è più specifico.

Quando si parla di traduzione all’interno della stessa cultura, cioè quando la cultura emittente coincide con la cultura ricevente, non è detto che non insorgano problemi di traducibilità di un testo. La «traduzione intertestuale» avviene anche all’interno di una stessa cultura. Per «intertesto» si intende un testo che contiene citazioni, rimandi o allusioni a un altro testo. La difficoltà di decodifica degli intertesti è proporzionale all’implicitezza o esplicitezza della citazione, rimando o allusione. Vi sono tre parametri di decodifica. Il primo è legato all’implicitezza dell’esistenza dell’intertesto, cioè se vi sono dei segni grafici che indicano la presenza dell’intertesto. Ad esempio se esso è racchiuso nelle virgolette. Il secondo riguarda l’implicitezza della fonte dell’intertesto. A volte la fonte è chiaramente indicata dall’autore, in altri casi viene data per scontata. Il terzo parametro riguarda l’esplicitezza della funzione dell’intertesto. Anche quest’ultima può essere esplicita nella cultura dell’autore, in altri casi può risultare difficile capire il motivo di una citazione.

A seconda del grado di implicitezza/esplicitezza di un intertesto, cambia il grado di difficoltà di decodifica di un testo. Questo non è che uno dei problemi che insorgono durante una traduzione. Quando si affronta una traduzione culturale si relazionano tre culture: la cultura emittente (quella in cui nasce il prototesto), quella del traduttore (quella dove avviene la mediazione) e quella ricevente (quella in cui nasce il metatesto). Ogni testo è caratterizzato da una sua cultura che si distanzia dalle altre. La distanza culturale tra due testi può essere espressa sotto forma di coordinate che tengono conto della differenza, nei due testi, di questi elementi: le «coordinate cronotopiche» (Osimo 2001). La parola «cronotopo» significa «tempospazio» ed indica quindi le coordinate spazio-temporali di un testo, a cui si aggiungono le coordinate culturali.

Il fattore temporale incide enormemente sulla distanza tra culture, le quali acquisiscono o perdono elementi nel corso degli anni. Questo cambiamento è percepibile anche all’interno della stessa cultura.

L’aspetto geografico è un altro elemento che distanzia due culture. I toponimi locali sono dati per scontati all’interno della stessa cultura mentre in un’altra possono assumere persino significati diversi o devono essere resi espliciti.

Altro elemento è lo stile dell’autore che rende un testo più o meno marcato. In alcuni casi questa marcatezza può non essere riconosciuta dal traduttore, il quale vi sovrappone inconsciamente un suo stile; in altri casi il traduttore ritiene preferibile tralasciare la marcatezza per rendere il testo più accettabile nella cultura ricevente. In questo secondo caso il traduttore opera una manipolazione consapevole del testo.

Per evitare errori di traduzione o incomprensioni nell’analisi di un testo, è necessario introdurre il concetto di dominante. Essa viene definita come la componente intorno alla quale si focalizza il testo e che ne garantisce l’integrità. Anche se questa definizione sembra indicare un elemento ben distinto del testo, vi possono essere nel medesimo testo diverse dominanti con grado di importanza diverso. Si

9

possono individuare in un testo due funzioni: la funzione informativa e la funzione estetica. La funzione informativa può riguardare ad esempio la cronologia degli eventi o il senso dell’opera. In alcuni casi può essere esplicita e comparire nel titolo dell’opera. La funzione estetica è legata al suono, allo stile dell’autore, del personaggio o alla sintassi.

Quando si resta all’interno di una stessa cultura, cioè quando la cultura dell’autore coincide con quella del lettore, è più facile riconoscere la dominante di un testo. Ciò nonostante possono insorgere incomprensioni e il lettore può fraintendere la dominante di un testo. Ad esempio, un romanzo storico può essere letto come un romanzo giallo anche se la dominante dell’autore era la ricostruzione storica di una determinata epoca.

Molti dei problemi legati alla traducibilità non riguardano soltanto la traduzione intraculturale, anzi essi aumentano quando si passa a una traduzione interculturale, cioè quando la cultura dell’autore non coincide più con quella del lettore.

1.1.3 La traduzione interculturale

Con il termine «traduzione interculturale» si definisce una traduzione in cui il traduttore attua una mediazione tra due culture distinte. L’autore e il lettore appartengono a due culture diverse.

Nel caso della traduzione interculturale i problemi legati alla traducibilità di un testo aumentano. I problemi già anticipati nel paragrafo precedente riguardano anche la traduzione interculturale. Le distanze tra le coordinate cronotopiche risultano accentuate quando si passa da una cultura a un’altra. Inoltre la dominante è tanto più difficile da trasmettere alla cultura ricevente se quest’ultima si differenzia dalla cultura emittente.

Un problema cruciale della traduzione interculturale è la differenza di specializzazione di una cultura rispetto a un’altra. Ogni cultura risulta più specifica in alcuni campi rispetto a un’altra cultura. Un esempio significativo è quello della neve tratto da Whorf: nella cultura eschimese il campo semantico di «neve» è molto più dettagliato rispetto per esempio a quello italiano. Il semplice verbo «nevicare» non esiste in questa cultura. Esistono dei termini più specifici per differenziare i tipi di nevicate: ad esempio «cade neve ghiacciata che non fa presa sul terreno».

La specificità non riguarda soltanto il campo semantico ma per esempio anche quello grammaticale. Il russo e l’italiano si differenziano per l’utilizzo o meno dell’articolo. L’inglese e l’italiano ne prevedono un utilizzo diverso.

Nel passare da una cultura più specificante a una meno specificante vi è il rischio di tralasciare un significato importante di una parola o di un determinato aspetto di quella cultura. Si genererebbe in questo modo un residuo traduttivo. Allo stesso tempo, nel passaggio da una cultura meno specificante a una più specificante si può cadere nell’eccesso di ridondanza.

Quando ci si trova davanti a due culture diverse è ancora più evidente l’inesistenza di una traduzione perfetta. Aspirare all’equivalenza è totalmente impensabile trovandosi di fronte alle

10

differenze culturali di un testo. In questo caso il traduttore deve scegliere tra due approcci introdotti dallo scienziato della traduzione Toury: quello dell’adeguatezza e quello dell’accettabilità.

I concetti di cultura altrui nella propria e di appropriazione della cultura altrui, già introdotti nel paragrafo 1.1.1, sono fondamentali per distinguere i due approcci.

Tra il prototesto e il metatesto intercorre la distanza cronotopica che in un caso può essere percorsa dal lettore che si avvicina così alla cultura altrui, nell’altro caso è il prototesto che grazie al traduttore si avvicina al lettore. Nel primo caso si parla di «traduzione adeguata». Il prototesto viene conservato ed è compito del lettore fare uno sforzo per percorrere la distanza cronotopica ed avvicinarsi alla cultura emittente. In questo caso la lettura risulta più complicata poiché ricca di esotismi e realia, ma allo stesso tempo arricchisce maggiormente il lettore.

Nel caso della traduzione accettabile avviene il contrario. Il metatesto conserva pochissime caratteristiche del prototesto. In questo caso è il prototesto che tramite la mediazione del traduttore viene avvicinato al lettore. La lettura risulta più facile, gli esotismi e gli elementi di straniamento culturale vengono tradotti nella cultura ricevente per facilitare la comprensione del lettore. È il traduttore che percorre la distanza cronotopica tra il prototesto e il metatesto. I realia della cultura emittente vengono tradotti con realia della cultura ricevente o standardizzati.

Non è sempre il traduttore che decide quale approccio scegliere. In alcuni casi è la stessa cultura a decidere: vi possono essere infatti fattori di tipo politico, la presenza o meno di una cultura dominante o in altri casi la cultura editoriale che predilige un determinato approccio.

1.2 La tipologia traduttiva

Ciascun articolo di Luca Fontana è un esempio di traduzione. Come ogni traduzione presenta due elementi fondamentali: prototesto e metatesto. Per individuare quale sia il tipo di traduzione a cui ci si trova di fronte, si deve verificare se questi due elementi, prototesto e metatesto, nascono nella stessa cultura o appartengono a due culture diverse, se ci si trova cioè di fronte a una traduzione intraculturale o a una traduzione interculturale. La scelta dell’uno o dell’altro tipo di traduzione dipende dal punto di vista con cui si analizzano i testi.

Un’analisi degli articoli di Luca Fontana potrebbe considerare i testi come appartenenti alla sfera della cultura italiana, ad esempio. In questo caso si considererebbero prototesto e metatesto come appartenenti alla stessa sfera culturale. Ci si troverebbe di fronte a una traduzione intraculturale.

Quello che però interessa maggiormente degli scritti di Fontana è l’analisi della società; società che appare varia, molteplice e soggetta a molte interpretazioni. Lo stesso vale per la cultura, il quale concetto è più allargato, come presentato nel paragrafo 1.1.1. «Ognuno ha un proprio linguaggio interno, una propria cultura che è anche una lettura soggettiva della realtà» (Osimo 2002). Ne deriva che il sistema culturale di riferimento può di volta in volta inglobare un solo individuo, un gruppo di persone, una nazione intera. Come afferma Lotman,

11

in base alle limitazioni che il ricercatore impone al suo materiale di studio, si può parlare di cultura pan-umana in generale, della cultura di questa o quell’area geografica oppure di questa o quell’epoca, della cultura, infine, di questa o quella comunità variabile nelle sue dimensioni ecc. (Lotman, 1973: 44).

Seguendo questa definizione, ciascun articolo di Luca Fontana è una traduzione interculturale in cui il prototesto e il/i metatesto/i appartengono a due culture diverse. Cultura emittente e cultura ricevente non coincidono. Sotto questo aspetto i problemi legati alla traducibilità aumentano se si considera che molti elementi impliciti per la cultura emittente possono non esserlo per la cultura ricevente.

Dopo aver individuato il tipo di traduzione, si passa all’analisi dei processi traduttivi. La relazione tra prototesto e metatesto/i cambia. Non si è sempre di fronte allo stesso tipo di traduzione. Ciò nonostante vi sono degli elementi costanti che accomunano i vari prototipi. In ogni tipo compaiono un prototesto (P), un metatesto o più metatesti (M) e il ruolo che svolge la cultura (C). Il numero dei metatesti varia a seconda del tipo di traduzione: ci può essere un solo metatesto, due metatesti (M1 e M2) o un numero di metatesti superiore a 2 (M3, M4…). Il metatesto non è l’unico elemento variabile. La cultura cambia a seconda della sua connotazione. Una cultura può essere conformista o anticonformista, oppure avere un ruolo di cultura dominante o subordinata.

Le variabili sono quindi tre: il numero dei metatesti, la connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista, la connotazione di una delle culture come dominante o subordinata. Considerando queste variabili le combinazioni possibili sono dodici. La tabella sottostante illustra tutte le dodici combinazioni:

tipi di attualizzazione possibili

numero dei metatesti

connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista

connotazione di una delle culture come dominante o subordinata

1

1

sì

no

2

1

sì

sì

3

1

no

sì

4

1

no

no

5

2

sì

no

6

2

sì

sì

7

2

no

sì

8

2

no

no

9

3 o più

sì

no

10

3 o più

sì

sì

11

3 o più

no

sì

12

3 o più

no

no

La tabella mostra tutte le dodici combinazioni, ma il campionario degli articoli di Fontana analizzato non soddisfa tutti e dodici i tipi di attualizzazione possibili. Gli articoli ricoprono sei dei dodici tipi di traduzione possibili e specificatamente i numeri 4, 5, 6, 8, 9 e 12.

Di seguito verranno illustrati i sei prototipi di traduzione con il rispettivo elenco degli articoli che ne fanno parte. Tutti gli articoli possono essere consultati in appendice.

12

1.2.1 Prototipo di traduzione n ̊4

Il tipo di traduzione n ̊4 presenta un solo metatesto. Questo significa che dal prototesto parte un solo processo traduttivo.

Non è presente nessuna contrapposizione tra cultura conformista o anticonformista quindi nessuna delle culture è connotata in modo conformista o anticonformista. Le culture del metatesto vanno considerate in modo generico; culture diverse che si relazionano.

Inoltre non esiste una connotazione di una delle culture come dominante o subordinata, le due culture sono sullo stesso piano e hanno la stessa importanza.

Nel caso specifico degli articoli di Fontana facenti parte di questo prototipo di traduzione, nel metatesto l’autore colloca due visioni del prototesto: una in chiave storica, l’altra in chiave moderna. Poiché dal prototesto nasce un solo metatesto, la visione nelle due letture rimane la stessa nonostante la distanza temporale tra le due culture.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: I leoni di Almodovar, Le donne di Shakespeare, Lacrime per Falstaff, Bessie senza una lira.

1.2.2 Prototipo di traduzione n ̊5

Nel prototipo n ̊5 dal prototesto si generano due processi traduttivi: i metatesti sono pertanto due.

In questo caso esiste una vera e propria contrapposizione tra le culture dei due metatesti. Una cultura è connotata come conformista, l’altra come anticonformista. Nel caso specifico degli articoli di Fontana, il M1 rappresenta la cultura conformista e il M2 la cultura anticonformista.

La contrapposizione, tuttavia, avviene alla pari. Fontana mette in contrasto le due culture, ma nessuna delle due prevale sull’altra. Non vi è quindi una connotazione di una delle culture come dominante o subordinata.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: Repressione eufemistica, Tutti nerovestiti, Susanna e i vecchioni, Francia o Spagna?.

1.2.3 Prototipo di traduzione n ̊6

In questo tipo di traduzione, dal prototesto si generano due metatesti. I processi traduttivi che nascono dal prototesto sono pertanto due.

Come nel prototipo precedente, vi è la connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista. Il primo metatesto rappresenta la cultura conformista e il secondo metatesto la cultura anticonformista.

A differenza del prototipo di traduzione precedente, in questo caso la cultura anticonformista tenta una “ribellione” o un coinvolgimento della cultura conformista verso una visione nuova della realtà. Il

13

risultato però è nullo poiché la cultura conformista del M1 prevale sulla cultura anticonformista del M2. Vi è quindi una connotazione di una delle culture come dominante o subordinata.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: La filosofia di mammà, Borse di fuga triennali, La musa al ritorno.

1.2.4 Prototipo di traduzione n ̊8

In questo tipo di traduzione sono raggruppati la maggior parte degli articoli di Fontana. Infatti una buona parte degli articoli presenta due metatesti e le culture contrapposte vanno considerate in senso generale. Nessuna delle culture è connotata come cultura conformista o anticonformista o come cultura dominante o subordinata.

Poiché gli articoli facenti parte di questo tipo di traduzione sono numerosi, la relazione tra la cultura del M1 e la cultura del M2 varia a seconda dei casi. In alcuni articoli le due culture si limitano a esprimere una loro opinione sul prototesto. In altri casi dal prototesto nascono due fazioni: i sostenitori e gli oppositori. In altri articoli i due metatesti rappresentano due aspetti del prototesto. Ad esempio, nell’articolo Cartulina ’e Napule dal prototesto «Napoli» nascono due metatesti di cui il primo rappresenta la Napoli povera e il secondo la Napoli ricca. Nel loro insieme i due aspetti permettono di delineare una visione completa del prototesto.

Un ultimo caso è la contrapposizione tra due culture appartenenti a mondi completamente diversi. Ad esempio, nell’articolo La veste profumata si contrappongono la cultura marocchina e la cultura italiana.

Nonostante queste peculiarità che contraddistinguono ogni caso, nessuna cultura in tutti gli articoli appartenenti a questo tipo di traduzione prevale sull’altra. È Fontana in un secondo tempo che svolge un’analisi comparativa tra il primo metatesto e il secondo metatesto evidenziando similitudini e differenze.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: Giocate un po’ di più, Medea (molto) britannica, Contro la guerra, Il diritto alla compagnia, Boschi ombrosi e rovine, Uno schianto di prof, A bocca aperta, La veste profumata, IL buon samaritano, Eurostar senza desideri, Il piacere comprato, Eroica castità, Ai romani piaceva la…, sogni di guerra, Le visite notturne, Il corpo smembrato, I dolori delle donne, Lussuria e bon ton, L’onesto Jago, In stato di quiete, L’eterna estate di Monicelli, Eva, Adolfo e Heidi, Medea in villetta, Cartulina ‘e Napule, Disprezzata regina.

1.2.5 Prototipo di traduzione n ̊9

In questo tipo di traduzione dal prototesto partono più di due processi traduttivi. Nel caso specifico dei due articoli di Luca Fontana che fanno parte di questo gruppo, i metatesti sono quattro.

14

Le culture che si contrappongono sono connotate in modo conformista o anticonformista in quanto alcuni metatesti sono espressione di una visione moderna della società, mentre altri metatesti ne rappresentano una visione conservatrice.

In questi articoli però non vi è il prevalere di una cultura sull’altra, nessuna cultura è connotata come dominante o subordinata.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: La famiglia naturale, La soluzione del mistero.

1.2.6 Prototipo di traduzione n ̊12

Come nel prototipo precedente, i processi traduttivi che partono dal prototesto sono più di due. Di questo gruppo fanno parte due articoli e, nei due casi specifici, nell’articolo I fustigatori inglesi i metatesti sono tre mentre nell’articolo La maledizione di Diana i metatesti sono quattro.

A differenza del gruppo precedente, nessuna cultura è connotata come conformista o anticonformista. Le culture dei metatesti vanno considerate in senso generico, esprimono la loro opinione sul prototesto. Ad esempio nel caso dell’articolo I fustigatori inglesi vi sono delle fazioni contrapposte: quelle dei sostenitori e quelle degli oppositori.

Inoltre nessuna cultura è connotata come dominante o subordinata. Non vi sono culture che prevalgono sulle altre.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: I fustigatori inglesi, La maledizione di Diana.

1.3 La semiosi

Il concetto di «semiosi» è stato introdotto dal filosofo statunitense Charles Sanders Peirce, fondatore della semiotica, scienza della significazione. Secondo Peirce ciascun atto semiotico comprende tre elementi: un segno, un oggetto e un interpretante. Secondo la definizione di Peirce:

a sign stands for something to the idea which it produces, or modifies. Or, it is a vehicle conveying into the mind something from without. That for which it stands is called its object; that which it conveys, its meaning; and the idea to which it gives rise, its interpretant (Peirce 7, 6, 89).

Con il termine «segno» si indica pertanto qualsiasi cosa che possa essere percepita, conosciuta. Il segno esiste in correlazione all’oggetto a cui esso rimanda. L’«oggetto» al contrario esiste a prescindere dal segno e può essere percepibile o immaginabile.

Per far si che un segno svolga la sua funzione effettiva di segno, deve entrare in relazione con un oggetto e produrre nella persona una rappresentazione mentale, l’interpretante, che metta in relazione quel segno con quell’oggetto. Si realizza così il processo interpretativo definito da Peirce «semiosi». Ogni atto semiotico implica l’esistenza di un interpretante. Poiché ogni interpretante è una rappresentazione mentale, psichica, la semiosi è un processo interpretativo soggettivo. Esso cambia da

15

individuo a individuo. Ogni individuo carica di affettività in modo diverso l’interpretazione di un segno ed è per questo che lo stesso segno può essere percepito in maniera distinta da due persone che lo connotano col loro contesto culturale e con le loro esperienze personali.

La relazione tra segno e oggetto non cambia solo nello spazio ma anche nel tempo. Nel corso degli anni lo stesso segno può essere percepito in modo diverso dalla stessa persona.

La semiosi è un processo interpretativo che avviene a livello mentale. Può essere consapevole o meno. Prima di Kant1, si riteneva che fosse possibile un atto percettivo non soggettivo, una semplice registrazione di dati. Con l’apporto degli studi di Kant questa teoria è stata smantellata. Ogni atto percettivo è – volenti o nolenti – un atto di giudizio. Ogni atto semiotico si esprime con il linguaggio interno.

Con il concetto di «linguaggio interno» ci si riferisce a quelle proiezioni mentali, ai pensieri che nascono nella mente di ogni individuo ogni qual volta si attua una relazione tra segno e oggetto, ogni volta che si attua un processo semiotico. Il linguaggio interno non si esprime con segni verbali e perciò ogni qualvolta si vuole esprimere un pensiero lo si deve tradurre in segno verbale per poterlo comunicare agli altri.

1.3.1 La traduzione come passaggio da segno a oggetto

Ogni atto semiotico è un atto interpretativo. Lo è per esempio la lettura, la quale rappresenta la prima fase di una traduzione. L’analisi del prototesto è una parte fondamentale dell’atto traduttivo. Nel momento in cui si crea una relazione tra segno e oggetto si verifica il primo passo per comprendere un testo.

Il processo interpretativo semiotico è un processo continuo. Man mano che si procede con la lettura del testo, ogni nuovo segno apporta delle conoscenze maggiori e il lettore crea delle ipotesi interpretative che di volta in volta dovrà controllare alla luce dei segni successivi. Si genera un ciclo illimitato chiamato «circolo ermeneutico» il quale ha alla base il ragionamento logico definito da Peirce «abduzione»2.

Anche la traduzione implica un processo semiotico. Il traduttore, ogni volta che affronta un testo da tradurre, ha davanti un segno del prototesto che genera un primo triangolo semiotico del prototesto. Il traduttore, partendo dal segno del prototesto, sceglie il segno del metatesto il quale a sua volta genera un secondo triangolo semiotico del metatesto. Poiché non vi è un oggetto al centro della traduzione ma un segno che come già specificato nel paragrafo precedente deriva da una percezione soggettiva, l’oggetto del metatesto potenzialmente potrebbe essere diverso da quello del prototesto.

1 Studi esposti da Kant nella Critica della ragion pura (1787). 2 Si veda paragrafo 1.4

16

1.4 L’abduzione

Il concetto di «abduzione» è stato introdotto da Charles Sanders Peirce e si affianca ai due tradizionali ragionamenti logici: la deduzione (il procedimento analitico) e l’induzione (il procedimento sintetico). La deduzione è il ragionamento logico con il minor tasso di creatività e la maggiore certezza della veridicità della conclusione. Aristotele aveva spiegato questo sillogismo utilizzando i termini di premessa maggiore (tutti gli uomini sono mortali3), premessa minore (Socrate è un uomo) e conclusione (Socrate è mortale). Peirce utilizza un altro linguaggio e un altro esempio. Con la deduzione ci si trova davanti a una regola (all the beans from this bag are white, Peirce 3, 5, 1), a un caso specifico (these beans are from this bag, Peirce 3, 5, 1, 623) e si arriva a un risultato (these beans are white, Peirce 3, 5, 1, 623). Quello che si ottiene è sicuramente un dato oggettivo e sicuro, ma questo non porta ad ampliare le proprie conoscenze. Quando ci si trova davanti a un testo non è il processo deduttivo che entra in azione poiché è vero che si è a conoscenza di alcune regole, ad esempio stilistiche o grammaticali, ma non si conoscono i casi antecedenti.

L’altro processo logico, l’induzione, è stato spiegato dagli empiristi. Rispetto alla deduzione ha un grado di creatività maggiore ma un grado di certezza minore. Gli empiristi definivano l’induzione come il processo che attraverso una prima premessa minore (la matita cade4) e una seconda premessa minore (il libro cade) generava una conclusione (tutti i corpi cadono). Secondo la sua terminologia, Peirce definisce l’induzione il sillogismo che attraverso un caso specifico (these beans are from this bag, Peirce 3, 5, 1, 623) e un risultato (these beans are white Peirce 3, 5, 1, 623) genera una regola (all the beans from this bag are white Peirce, 3, 5, 1, 623). Secondo l’induzione ciò che nasce è una regola, ma ogni volta che si analizza un testo non si producono regole ma casi specifici.

Poiché anche attraverso l’induzione non si arriva a una conclusione abbastanza creativa, Peirce sostiene che il procedimento logico che si adotta ogni volta che si affronta un testo è l’abduzione. Nell’abduzione si parte da una regola (all the beans from this bag are white, Peirce 3, 5, 1, 623) e da un risultato (these beans are white Peirce 3, 5, 1, 623) e si arriva a un caso specifico (these beans are from this bag, Peirce 3, 5, 1, 623). In questo caso la certezza della conclusione è basso, ma il tasso di creatività è maggiore rispetto sia alla deduzione sia all’induzione. Se la congettura finale sia vera o falsa lo si scopre mano a mano che si avanza nella lettura di un testo ed è questa continua ricerca che appassiona il lettore e lo rende partecipe.

1.5 Il ruolo di Luca Fontana nella traduzione interculturale

Nel suo lavoro di giornalista Luca Fontana attua un’analisi della società. Prende spunto da episodi di vita quotidiana, da articoli, da discorsi o interviste di personaggi celebri, da canzoni o opere letterarie per dipingere in chiave ironica la società. Per la sua analisi attinge dalle sue esperienze

3 Sono qui citati gli esempi usati da Aristotele per spiegare la deduzione. 4 Sono qui citati gli esempi usati dagli empiristi per spiegare l’induzione.

17

personali e immerge il lettore in un contesto culturale ricco e vario. Per avvicinare il lettore al mondo da lui descritto, Fontana diventa un mediatore culturale, un vero e proprio traduttore. Infatti fa da tramite tra la cultura del prototesto e la cultura del metatesto.

Nella maggior parte degli articoli la traduzione non è una sola, da un prototesto nascono due o più metatesti. Luca Fontana ha così un secondo compito: fare da mediatore tra le culture dei metatesti. Attraverso un procedimento abduttivo spiega le differenze tra le culture dei metatesti, ne delinea le similitudini e i punti di incontro e trae le sue conclusioni. Conclusioni che sono sì soggettive, poiché la soggettività è una delle caratteristiche essenziali del processo abduttivo, ma che lasciano ampio spazio alla riflessione personale del lettore.

1.5.1 Luca Fontana come espressione della cultura di confine

Nel momento in cui Fontana si trova a dover attuare una mediazione tra le culture dei metatesti, si trova a metà tra due culture diverse. È espressione della cosiddetta «cultura di confine», concetto introdotto da Lotman.

Ogni cultura è rappresentata, all’interno della semiosfera, come un insieme. Naturalmente i diversi insiemi delle culture non sono uno staccato dall’altro. Ogni cultura si trova costantemente in contatto con le altre culture, ne viene influenzata e attinge dal diverso per potersi evolvere. Ne deriva che i sistemi delle culture si toccano, dando luogo a “membrane” di confine. Fontana nella sua analisi comparativa si trova proprio al confine tra le due culture, nella posizione della membrana tra le culture che mette in relazione.

Il concetto di confine all’interno della semiosfera riveste una ruolo molto importante e

non è un concetto astratto, ma un’importante posizione funzionale e strutturale, che determina la natura del suo meccanismo semiotico. Il confine è un meccanismo bilingue, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa. Solo col suo aiuto la semiosfera può così realizzare contatti con lo spazio extrasistematico o non semiotico. (Lotman 1985, 60).

1.6 Il lettore modello

Ogni testo viene scritto da un autore per un certo tipo di pubblico; l’autore si immagina un lettore modello che legga il suo testo e che comprenda la sua strategia. L’autore farà quindi delle scelte che si adattano al lettore modello che ha in mente, ad esempio se il narratore è in prima persona o in terza persona, uno stile invece che un altro. L’autore richiede in questo modo al lettore una collaborazione. Il lettore deve accettare le regole che gli impone il testo. Se il lettore legge un racconto di fantascienza non può esigere che tutto quello che viene riportato nel testo sia vero. Il lettore empirico, quello reale, deve rispettare quindi la cooperazione testuale impostagli da quel tipo testo.

18

In alcuni casi la cooperazione testuale può venire meno. Il lettore modello non coincide con il lettore empirico. Il lettore empirico può aver frainteso alcuni aspetti del testo o non aver compreso appieno la figura dell’autore modello, cioè l’immagine che l’autore empirico vuole dare del narratore. «Il successo di un testo dipende dalla capacità dell’autore empirico di elaborare una strategia testuale adatta a un numero elevato di lettori empirici» (Osimo 2001). In questo modo aumentano le probabilità che un testo possa essere interpretato in modo coerente con la strategia dell’autore.

La cooperazione testuale diventa ancora più difficile quando il lettore si trova davanti a un testo tradotto. Tra la figura dell’autore e quella del lettore si colloca quella del traduttore che svolge la funzione di lettore empirico. In una prima fase il traduttore deve interpretare in modo corretto o nel modo più vicino all’idea dell’autore empirico la strategia del prototesto. Quando inizia la traduzione, deve prefissarsi un lettore modello del metatesto. Nel fare questo deve tenere conto di molti fattori, specialmente di quelli culturali. Il traduttore deve adattare il testo della cultura emittente alle richieste della cultura ricevente. Non tutti i testi possono avere lo stesso interesse, possono avere grande successo nella cultura emittente ma non ottenerne altrettanto nella cultura ricevente. Spetta al traduttore trovare una strategia che possa adattarsi a un numero maggiore di lettori empirici della cultura ricevente.

19

Secondo capitolo – Analisi dei testi

2.0 Materiale empirico

Rispetto alla tabella presente in 1.2, che contiene i dodici tipi di attualizzazione possibili dati i parametri scelti per questa ricerca, nel materiale concretamente analizzato sono stati rinvenuti testi che corrispondono a sei dei dodici tipi teorici. Li presento qui nell’ordine in cui si collocano nella suddetta tabella, partendo quindi dal quarto tipo.

2.1 Le donne di Shakespeare

Diagramma del processo traduttivo:

20

L’articolo intitolato Le donne di Shakespeare è apparso sul Diario del 20 luglio 2001. Fontana prende spunto dalla rappresentazione di As you like it di Shakespeare con Elisabetta Pozzi nel ruolo di Rosalind, spettacolo teatrale al quale ha assistito di persona. Come detto in precedenza, l’autore attinge da esperienze che ha vissuto in prima persona per dipingere un ritratto della società moderna.

Questo articolo appartiene al prototipo di traduzione n ̊4. Dal prototesto (identità sessuale) nasce un solo metatesto in cui non vi è né una cultura connotata come conformista o anticonformista, né una cultura connotata come dominante o subordinata. Nel metatesto si uniscono una visione storica e una visione moderna del prototesto. Le due visioni non si contrappongono ma coincidono nel cogliere appieno il significato del prototesto.

Nell’articolo Le donne di Shakespeare il prototesto è l’identità sessuale. Ne nasce un metatesto nel quale confluiscono la rappresentazione all’epoca di Shakespeare della sua commedia As you like it e la rappresentazione moderna con l’interpretazione di Elisabetta Pozzi. Nella commedia, Rosalind, la protagonista femminile, scappa dalla corte travestita da ragazzo per raggiungere il padre al quale è stato usurpato il trono. Il tema del travestimento è molto frequente nelle commedie di Shakespeare ed è un espediente che serve a creare sgomento nello spettatore e situazioni comiche. Fontana nell’articolo esalta le doti dell’attrice Elisabetta Pozzi affermando che lo «incanta vedere con quanto piacere l’attrice entri ed esca dai sessi».

Oltre a esaltare la bravura della protagonista e a dare la sua opinione sull’interpretazione moderna, Fontana svolge un parallelo tra la storia e la modernità. Il tema del travestimento acquista ancora più importanza considerando che al tempo di Shakespeare le donne non potevano recitare. Le parti femminili erano affidate a uomini. Fontana fa notare questa differenza con il teatro moderno. Seppure fosse un divieto insensato contro le donne e per fortuna sorpassato, permetteva di creare ancora più ambiguità nel gioco dei travestimenti. Inoltre il ricorso moderno a donne per le parti femminili nel teatro shakespeariano non permette di rappresentare tutte le parti comiche della commedia, come fa notare Fontana riferendosi alla mancanza della battuta di Rosalind nell’epilogo: «Se io fossi donna, bacerei quelli che mi piacciono, tra tutti voi che avete barba…».

L’utilizzo di soli maschi nelle rappresentazioni teatrali creava però alcuni problemi. Fontana, alla fine dell’articolo, descrive un dialogo fittizio tra Shakespeare e il direttore di scena sui problemi che potevano insorgere agli attori di parti femminili all’epoca di Shakespeare. L’autore ricorre all’ironia per rendere più vivace la sua analisi. L’ironia è un elemento costante degli articoli di Fontana, elemento che rende la lettura piacevole e scorrevole.

21

22

2.2 Francia o Spagna?

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato Francia o Spagna è apparso sul Diario del 24 febbraio 1999. Fontana rievoca un incontro in una trattoria con una coppia di ragazzi, lui italiano lei spagnola, che si sono conosciuti in internet.

Questo articolo fa parte del prototipo n ̊5. Dal prototesto (adeguamento culturale) nascono due metatesti in cui una cultura è connotata come conformista e l’altra cultura come anticonformista. Poiché nessuna delle due culture – stando a come viene esposta la realtà nel testo – prevale sull’altra, non vi è una cultura connotata come dominante.

Il prototesto da cui parte la traduzione è, in questo articolo, l’adeguamento culturale. Ne nascono il primo metatesto, «i ragazzi con la faccia da avvocati», e il secondo metatesto, «coppia incontratasi in rete». Il primo metatesto rappresenta la cultura conformista. Questa cultura è contro ogni tipo di cambiamento e tra le due culture messe a confronto nell’articolo è quella che rinnega ogni adeguamento culturale. Se si considera la dinamica proprio/altrui (1.1.1), la cultura del primo metatesto (M1) rappresenta l’atteggiamento in cui vi è un’appropriazione dell’altrui, cioè si tende ad omogeneizzare le diversità. Si accetta un solo punto di vista: il proprio.

Il secondo metatesto rappresenta la cultura anticonformista. Nella dinamica proprio/altrui 23

rappresenta l’atteggiamento in cui vi è un avvicinamento verso le diversità e un’accettazione dell’altrui nel proprio. Una cultura diversa viene in questo caso percepita come arricchimento per sé stessi.

Fontana si trova davanti a due atteggiamenti contrapposti. Ne evidenzia le diversità contrapponendo i discorsi che ascolta personalmente. Oltre a presentarci queste due culture diverse, dà un suo parere personale. In questo caso Fontana condivide il punto di vista della coppia che si è conosciuta in internet, indignandosi dei discorsi intolleranti dei ragazzi seduti all’altro tavolo. L’autore si domanda quale sia il motivo di questa disparità di adeguamento culturale. Esclude che il grado di tolleranza dipenda da un fattore di censo e ceto e lascia la domanda in sospeso a un’interpretazione personale del lettore.

L’ironia è presente anche in questo articolo. La descrizione degli studenti seduti al tavolo accanto fa sorridere il lettore che riesce quasi a immaginare le facce dei ragazzi: «già a cinque anni hanno facce da ginecologini, commercialistini, avvocatini».

24

25

2.3 La filosofia di mammà

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato La filosofia di mammà è comparso sul Diario del 24 marzo 1999. Fontana si interroga sull’importanza dell’imprinting familiare nel destino di una persona. Prende a esempio il suo incontro con una famiglia romana in un boschetto non lontano da Roma.

Questo articolo fa parte del prototipo di traduzione n ̊6. Dal prototesto si generano due metatesti. Vi è un doppio conflitto tra le due culture: una contrapposizione tra cultura conformista e cultura anticonformista e una contrapposizione tra cultura dominante e cultura subordinata.

Nell’articolo è stato individuato come prototesto la natura. Ne nascono due metatesti: il primo metatesto è impersonato dalla madre e il secondo dalla bambina. Il primo metatesto rappresenta la cultura conformista, quella cultura che respinge qualsiasi stimolo di arricchimento dall’esterno. Il secondo rappresenta la cultura anticonformista, cultura che è mossa da un istinto di curiosità verso ciò che non si conosce. Considerando, come nell’articolo precedente, la dinamica proprio/altrui, la madre rappresenta l’atteggiamento di appropriazione dell’altrui mentre la bambina rappresenta l’atteggiamento di altrui nel proprio.

Le due culture non sono sullo stesso livello: la cultura conformista prevale sulla cultura anticonformista. La madre infrange qualsiasi stimolo di conoscenza e curiosità della bambina. Il

26

tentativo di quest’ultima nel coinvolgere la madre nella sua smania di sapere, viene spento miseramente con un perentorio: «Ma fatte li cazzi tua e magna!».

Fontana relaziona le due culture per mettere in evidenza il differente modo di percepire la natura. La madre non coglie nessuno stimolo dall’esterno, mentre la bambina, nonostante subisca l’influenza negativa della famiglia, rimane affascinata da qualcosa che supera la sua immaginazione come l’enorme quantità d’acqua che si trova davanti a lei.

Attraverso il racconto di questo episodio che ha vissuto in prima persona, Fontana risponde alla sua domanda iniziale: «Quanto conta l’imprinting familiare nel destino di un uomo e di una donna?». Secondo Fontana l’influenza familiare incide molto sulla persona. Le scelte, il carattere, la voglia di conoscere, sono tutti aspetti della personalità che vengono “tramandati” dai genitori. Fontana mette in luce un altro aspetto. Nella cultura italiana, in cui l’età media di uscita dalla famiglia è trentacinque anni, l’imprinting familiare acquista ancora più importanza.

In questo articolo l’ironia è un elemento essenziale. La descrizione della famiglia è vivace e ridicola al tempo stesso. Fontana ironizza sul tono di voce dei componenti della famiglia romana e sulle loro abitudini alimentari. L’idea della stazza della madre e della bambina è resa in modo straordinario attraverso il riferimento a opere di artisti famosi: «Una bambinona di Botero nata da una mammona neoclassica di Picasso». Inoltre l’utilizzo di parole dialettali rende i dialoghi più allegri e veritieri, rendendo il lettore partecipe in prima persona della scena che si sta svolgendo.

27

28

2.4 Due culture a confronto

Nel prototipo di traduzione n ̊8 fanno parte la maggior parte degli articoli di Luca Fontana. Le culture che vengono messe a confronto sono sempre due e sono caratterizzate entrambe dall’assenza sia di una connotazione di tipo conformista o anticonformista, sia di una connotazione di tipo dominante o subordinata. È il senso generale di cultura che va preso in considerazione in questo prototipo.

Nonostante queste caratteristiche comuni, la relazione tra metatesti e prototesto cambia a seconda degli articoli. Il concetto generale di cultura è molto ampio. Per questo motivo ho deciso di presentare qui di seguito l’analisi di due articoli di Fontana appartenenti a questo prototipo per dare una maggiore visione d’insieme e rendere l’analisi più meticolosa.

Nel primo caso, La veste profumata, i due metatesti sono l’espressione di due culture appartenenti a realtà completamente diverse. Nel secondo caso, Il piacere comprato, il prototesto genera due fazioni: gli oppositori e i sostenitori.

2.4.1 La veste profumata

Diagramma del prototipo di traduzione:

29

L’articolo intitolato La veste profumata appare sul Diario del 3 giugno 1998. In questo articolo Fontana prende spunto da un articolo apparso sulla Repubblica del 25 maggio 1998 per affrontare il tema dello scontro tra culture.

Questo articolo fa parte del prototipo di traduzione n ̊8. Dal prototesto nascono due metatesti in cui non vi è nessuna cultura che sia connotata come conformista o anticonformista o come dominante o subordinata. Nel caso specifico di questo articolo, le due culture che si confrontano appartengono a due mondi completamente diversi. Il primo metatesto rappresenta la cultura marocchina, il secondo metatesto la cultura italiana. I due metatesti non sono altro che letture diverse del prototesto: «la veste profumata».

La veste ha per le due culture qui a confronto, quella marocchina e quella italiana, due significati – simbolici, ovviamente – diversi. Per la società marocchina la veste ricamata è un segno di accettazione, di appartenenza e una volta donata a una persona significa l’entrata di questa persona in una famiglia che non la considera più altrui ma proprio. L’accettazione di tale regalo è dunque molto impegnativa. Benché si tratti di un gesto mancato, passivo, secondo la cultura emittente è l’accettazione della promessa di matrimonio. Per la società italiana il dono di una veste ricamata non ha altro valore che quello del regalo, senza nessun significato ulteriore a quello di una generica dimostrazione di affetto.

Fontana in questo articolo colloca la sua analisi in uno spazio intermedio tra le due culture, come linea di congiunzione tra le due. Svolge il ruolo di cultura di confine5. Pur non condividendo il gesto spregiudicato del ragazzo marocchino che ha ucciso la sua ragazza e la madre di lei perché rifiutato, Fontana cerca di decodificare questo gesto – che nella cultura in cui viene fatto è considerato criminale – alla luce della cultura emittente: in questo senso, l’omicidio è visto come problema di traduzione, come decodifica aberrante reciproca.

Il lettore modello di questo articolo non viene posto davanti a una razionale spiegazione di tale meccanismo difettoso di traduzione: tale processo rimane implicito, e viene còlto dal lettore soltanto sotto forma di ironica allusione.

5 Vedi paragrafo 1.5.1 del primo capitolo.

30

31

2.4.2 Il piacere comprato

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato Il piacere comprato è apparso sul Diario del 23 dicembre 1998. Fontana affronta il tema dell’omosessualità prendendo spunto da un articolo di Repubblica, il quale espone la storia di un uomo che per mantenere la famiglia decide di prostituirsi.

Questo articolo rientra nel prototipo di traduzione n ̊8. Dal prototesto (la marchetta) nascono due metatesti. Non si crea né una contrapposizione tra cultura conformista e anticonformista, né un contrasto tra cultura dominante e subordinata.

Nell’articolo è stato individuato un prototesto: la marchetta, ovvero il «termine gergale per omosessuale maschio che si vende a maschi», come spiega Fontana nell’articolo. Da questo prototesto sono stati ricavati due metatesti. Il primo metatesto è la disapprovazione sociale. È stato definito «implicito culturale» in quanto per prima cosa non appare espressamente nel testo ma lo si evince in contrapposizione al secondo metatesto, e in secondo luogo esprime il pensiero comune della società italiana di cui Fontana fa un’analisi nella sua rubrica. Il secondo metatesto è l’articolo della Repubblica in cui viene raccontata la storia lacrimevole della marchetta.

In questo processo traduttivo le due culture formano due schieramenti contrapposti, l’uno contro e l’altro a favore della marchetta. Infatti il primo metatesto rappresenta la parte della società che

32

disapprova il comportamento dell’uomo-marchetta, mentre il secondo metatesto è espressione della cultura delle persone che, leggendo l’articolo di Repubblica, hanno provato pietà per l’uomo costretto a prostituirsi per mantenere la famiglia.

Fontana fa un paragone tra le due visioni contrapposte ed esprime la sua opinione personale. Se da un lato è contro ogni forma di stereotipo e di intolleranza verso ogni categoria sociale, in questo caso Fontana non appoggia la visione pietistica dell’articolo di Repubblica. Egli ritiene impossibile ogni estraneità dal piacere nella decisione dell’uomo, facendo una netta distinzione tra marchetta e prostituta. Nel sostenere la sua tesi, Fontana non si limita a dare una sua opinione personale ma espone motivi fisiologici e di età rendendo la sua analisi ancora più accurata e aggiungendo uno spirito ironico che non manca mai nei suoi articoli.

33

34

2.5 La soluzione del mistero

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato La soluzione del mistero è comparso sul Diario del 14 aprile 1999. Fontana prende spunto da una sentenza della Cassazione riguardo al caso di un adulto che ha mostrato filmini e foto porno a ragazzini e ragazzine.

L’articolo appartiene al prototipo di traduzione n ̊9. Dal prototesto nascono quattro metatesti, alcuni sono espressione di una cultura conformista, altri di una cultura anticonformista. La contrapposizione avviene allo stesso livello, nessuna delle culture prevale sulle altre.

Nell’articolo è stato individuato come prototesto il «vedere o non vedere», da cui nascono il primo metatesto, la richiesta di leggi più severe, il secondo, Il fantasma della libertà di Luis Buñuel, il terzo, il giovane Fontana, e il quarto, la sentenza della Cassazione. Il primo metatesto è espressione di una cultura conformista; ne fanno parte le persone che richiedono delle leggi che regolino cosa vedere o cosa non vedere. Il secondo, il terzo e il quarto metatesto rappresentano una cultura anticonformista. Tra questi fa anche parte lo stesso Fontana che diventa cultura ricevente raccontando la sua esperienza personale di quando era bambino.

Nella sua analisi comparativa dei metatesti, Fontana mette in rilievo un aspetto essenziale del prototesto: l’arbitrarietà della scelta di cosa sia lecito vedere o non vedere. A seconda delle epoche storiche, dei costumi che cambiano nel tempo, la scelta di cosa sia permesso mostrare o non mostrare

35

cambia. Fontana espone due esempi: il film di Buñuel e il racconto del suo amico. Nel film Il fantasma della libertà un uomo mostra foto che suscitano stupore e vergogna nelle ragazzine che le osservano. Non sono che vedute di Place de la Concorde o della Statua della Libertà. L’amico di Fontana racconta che ha ricevuto quando era al ginnasio un sei in condotta per aver prestato Les Fleurs du mal di Beaudelaire a una sua amica.

Inoltre Fontana esprime il suo dissenso per la richiesta di punizioni più severe. Secondo l’autore, basta il costume per scegliere cosa è lecito o cosa non è lecito. Leggi più severe non fanno altro che alimentare il desiderio di andare oltre il lecito.

Lo stile ironico si mostra anche in questo articolo. La descrizione delle sue esperienze giovanili è ricca di dettagli ironici, come il racconto di un compagno di scuola su come nascono i bambini, testimonianza dell’ignoranza che c’era al tempo.

36

37

2.6 I fustigatori inglesi

Diagramma del prototipo di traduzione:

L’articolo intitolato I fustigatori inglesi è apparso sul Diario del 18 novembre 1998. Fontana affronta il tema dell’omosessualità in Gran Bretagna prendendo spunto da un fatto di attualità: la difesa di Tony Blair a favore di uno dei suoi ministri coinvolto in uno scandalo di sesso.

Questo articolo fa parte del prototipo di traduzione n ̊12. Dal prototesto nascono tre metatesti e non compare né una contrapposizione tra culture conformiste e anticonformiste, né una contrapposizione tra culture dominanti e subordinate. Le culture a confronto vanno considerate in senso generico.

Nell’articolo è stato individuato come prototesto l’omosessualità. Ne nascono tre metatesti: il primo metatesto rappresenta la stampa fogna inglese, il secondo gli ex alunni delle scuole private e il terzo la posizione di Tony Blair. I tre metatesti formano schieramenti contrapposti, chi a favore dell’omosessualità e chi contro. Si parte dal primo metatesto, la stampa fogna inglese, che rappresenta il più forte oppositore. Il secondo metatesto, gli ex alunni, si trovano in una posizione intermedia. Pur rinnegando l’omosessualità, la serbano come vizio segreto. Il terzo metatesto, Tony Blair, si colloca tra i sostenitori attraverso la difesa del ministro dell’Agricoltura Nick Brown.

Fontana mette in relazione le tre componenti della società britannica dipingendo un ritratto della società britannica. Ne mette in evidenza i paradossi, come la posizione ambigua degli ex alunni delle

38

scuole private e l’accanimento dei giornali scandalistici contro un fenomeno che fa ormai parte della società, l’omosessualità.

Per descrivere al meglio la società britannica, Fontana utilizza molti sostantivi inglesi. Permettono di rendere la lettura più vivace e aumentano l’ironia della narrazione. Quest’ultima è ancora più accentuata dalle traduzioni in italiano dei termini inglesi: gli ordinary decent people diventano ad esempio «la gggente».

39

40

Appendice – I testi di Luca Fontana

41

42

43

44

45

46

47

48

49

50

51

52

53

54

55

56

57

58

59

60

61

62

63

64

65

66

67

68

69

70

71

72

73

74

Riferimenti bibliografici

Diario della settimana, Milano, Editoriale Diario S.p.a, 1998-2006, ISSN 1594-0098.
KANT Immanuel 1781-87 Kritik der reiner Vernunft, traduzione italiana di G. Colli, Critica della ragion

pura, Adelphi 1976.
LOTMAN, Jurij M., La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti,Venezia, Marsilio

Editori, 1985, ISBN 88-317-4703-7.

LOTMAN, Jurij M., USPENSKIJ, B. A., 1973 Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1987.

OSIMO, Bruno, 2001 Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2005, ISBN 88-203-2935-2.

OSIMO, Bruno, «Traduzione della cultura», in Piretto, Gian Piero, Parole, immagini, suoni di Russia. Saggi di metodologia della cultura, Milano, Edizioni Unicopli, 2002, ISBN 88-400-0810-1.

PEIRCE Charles Sanders 1931-1935, 1958 The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1-6 a cura di Charles Hartshorne and Paul Weiss, vol. 7-8 a cura di Arthur W. Burks, (Cambridge Massachusetts), Harvard University Press.

POPOVIČ, Anton, 1975, La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3511-5.

TOURY G. 1995 Descriptive Translation Studies and Beyond, Amsterdam, Benjamins, 1995, ISBN 90- 272-1606-1.

73

Breve introduzione alla vita e al pensiero di Charles Sanders Peirce A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce ELENA DETTAMANTI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Breve introduzione alla vita e al pensiero di Charles Sanders Peirce

A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce

 ELENA DETTAMANTI

 

Civica Scuola Interpreti e Traduttori

 

primo supervisore: prof. Bruno OSIMO

secondo supervisore: prof. Andrew TANZI

 

 

Master: Langages, Cultures et Sociétés

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de

conférence

Parcours: Traduction littéraire

estate 2008

 

© 2000 Forum on Psychiatry and the Humanities of the Washington School of Psychiatry

© Elena Dettamanti per l’edizione italiana 2008

 



Breve introduzione alla vita e al pensiero di Charles Sanders Peirce

A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce

 

 

English Abstract

 

This thesis proposes the Italian translation of the essay entitled A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce by Joseph Brent, Peirce’s well-known biographer. This essay is the introductory text to the volume Peirce, Semiotics, and Psychoanalysis published in 2000. The author presents an overview of Charles Sanders Peirce’s dreadful life and of his Pragmatism, beginning with his relationship with his father Benjamin and with religion, and analysing his theory of inquiry, his innovative form of inference called “abduction”, his theory of signs which included the three elements – sign, object and interpretant –, and the application of these theories in psychoanalysis.


Sommario

 

 

Traduzione con testo a fronte. 1

Postfazione. 38

Analisi testuale del prototesto. 39

Presentazione dell’autore. 39

Biografia di Charles Sanders Peirce. 41

Tesi del saggio. 42

Struttura del saggio. 42

Il linguaggio. 48

Analisi traduttologica dell’originale. 50

Il lettore modello. 50

Dominante e sottodominanti 51

Strategia traduttiva. 53

Potenziale residuo e residuo effettivo. 57

Gestione del residuo traduttivo. 59

Riferimenti bibliografici 60

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Traduzione con testo a fronte


A Brief Introduction

to the Life and Thought

of Charles Sanders Peirce

 

Joseph Brent

 

 

 

Charles Sanders Peirce (1839-1914) was a singular man – a prodigious, protean, brilliant, and productive intellect who lived a humiliating and tragic life. There is no other quite like him in the history of Western ideas. His life raises the ancient puzzle of the relation of genius and madness. One Peirce scholar, in his review of Peirce’s only full-length biography (Brent 1993), gave his impressions of this extraordinary polymath:

 

A first ranker in western civilization, pioneer semiotician, innovative historian of science, student of economic theory, hopeless accountant, skilled mathematician, unfaithful husband, initiator of pragmatism, occasional actor, profligate dandy, great logician, brilliant experimental physicist, unlucky speculator, eminent cartographer, student of lexicography, gauche socialite, competent structural engineer, persistent drug-taker, occasional vagrant, student of medicine, nominal Episcopalian, prospective encyclopedia salesman, patentee in chemical engineering, subject of police inquiries, profound philosopher, project procrastinator … [Grattan-Guinness 1994]

 

Germane to the subject of this volume, I add experimental psychology and psychology of the conscious and unconscious mind and of the self and self-consciousness.

The complexity of Peirce’s character and his reputation as a broken and dissolute man, despite his recognized brilliance and originality haunted his reputation during his life and ever since his death more than eighty years ago. Despite his acknowledged genius and accomplishments, he was refused a professorship at Harvard, was fired from his lectureship at the Johns Hopkins University, and was forced to resign from his thirty-year career in geodesy at the United States Coast Survey. A major Peirce scholar recently wrote that the owners of his papers, the Harvard Department of Philosophy,


Breve introduzione

alla vita e al pensiero

di Charles Sanders Peirce

 

Joseph Brent

 

 

 

Charles Sanders Peirce (1839-1914) fu un uomo singolare – una mente prodigiosa, versatile, brillante e feconda che visse una vita umiliante e tragica. Non esistono paragoni nella storia del pensiero occidentale. La sua vita solleva l’antico enigma del legame tra genio e follia. Uno studioso di Peirce, nella recensione dell’unica biografia completa a lui dedicata (Brent 1993), espresse le proprie opinioni su questo erudito:

 

avanguardia della civiltà occidentale, pioniere della semiotica, storico innovativo della scienza, studioso di teoria economica, pessimo ragioniere, abile matematico, marito infedele, fondatore del pragmatismo, attore occasionale, dandy dissoluto, grande logico, brillante fisico sperimentale, speculatore sfortunato, eminente cartografo, studioso di lessicografia, persona goffa nella vita mondana, ingegnere strutturale competente, drogato impenitente, vagabondo occasionale, studioso di medicina, nominalmente episcopaliano, potenziale venditore di enciclopedie, detentore di brevetti in ingegneria chimica, indagato dalla polizia, profondo filosofo, procrastinatore di progetti […] (Grattan-Guinness 1994).

 

In attinenza con l’argomento di questo libro aggiungo «psicologo sperimentale» e «psicologo della mente conscia e inconscia e del Sé e dell’autocoscienza».

La complessità della personalità di Peirce e la sua nomea di uomo in disgrazia e dissoluto, malgrado la sua riconosciuta intelligenza e originalità, inficiarono la sua reputazione mentre era in vita e dopo la sua morte, avvenuta più di ottant’anni fa. Benché noto per il suo genio e il suo talento, gli fu rifiutata una cattedra alla Harvard University, perse il posto di lettore universitario alla Johns Hopkins University e fu costretto a rinunciare alla sua trentennale carriera nel campo della geodesia allo United States Coast Survey. Di recente un importante studioso di Peirce ha scritto che i proprietari delle sue opere, il Dipartimento di filosofia della Harvard, «hanno
consistently “acted to obstruct research on Peirce, thus continuing the Harvard vendetta against Peirce which lasted from [Charles W.] Eliot’s ascension to the presidency of Harvard in 1889 until the [recent] advent of … a new breed of Harvard Professors. The history of the Harvard Department’s conduct with respect to the Peirce manuscripts is one of the sorriest tales in American academic history” (Murphey 1993).

Before December 1991, when the department ended censorship of its biographical Peirce material by permitting publication of my biography, with its hundreds of quotations from their biographical manuscripts, it was impossible to attempt well-researched accounts of and explanations for Peirce’s extraordinary character and behavior, though there were many guesses based on rumor and privileged information. Driven largely by the desire to hide the often unpalatable facts of his life, this censorship helps to explain Peirce’s relative obscurity in the history of Western thought, despite his broad influence.

In the attempt to explain the extremes of Peirce’s life, I hypothesize (despite the obvious dangers of historical diagnosis) that Peirce probably suffered from three neurological pathologies, to which he pointed himself. As an adolescent, Peirce began to experience extremely painful episodes of trigeminal neuralgia. These episodes continued throughout his life and often left him prostrate for days, sometimes weeks. His father, who also suffered from a very painful illness, Bright’s disease, early introduced him to opium and ether as palliatives for the intense pain.

In his twenties, Peirce began to exhibit the extreme mood swings that are symptomatic of bipolar disorder. The condition worsened with age, and he manifested most of the associated symptoms. On the manic side, he exhibited driven, paranoid, and impulsive actions; extreme insomnia; ecstatic grandiosity and visionary expansiveness; hypersexuality; almost superhuman energy; and had irrational financial dealings, which include compulsive extravagance and disastrous investing. On the depressive side, he had severely melancholic or depressive episodes characterized by suicidal feelings or flatness of mood, accompanied by an inertness of mind, the inability to feel emotion, and an unbearable sense of futility. As an adolescent, Peirce experimented with drugs, and throughout his life he used them with sophistication, both to manage his pain and depression and to enhance the ecstatic creativity of his manic episodes.
[costantemente] ostacolato gli studi su Peirce, perpetrando così la vendetta della Harvard contro Peirce che durò dall’ascesa di [Charles W.] Eliot alla presidenza della Harvard nel 1869 fino al [recente] arrivo di […] una nuova stirpe di docenti della Harvard. La storia della condotta del Dipartimento di filosofia della Harvard nei confronti dei manoscritti di Peirce è uno dei racconti più bui della storia accademica americana» (Murphey 1993).

Prima del dicembre 1991, quando il dipartimento pose fine alla censura del materiale biografico di Peirce permettendo la pubblicazione della mia biografia contenente centinaia di citazioni dai suoi manoscritti biografici, era impossibile cercare resoconti e spiegazioni dettagliate della personalità e del comportamento singolare di Peirce, sebbene esistessero diverse ipotesi basate su dicerie e informazioni confidenziali. Spinta in gran parte dal desiderio di nascondere gli eventi spesso spiacevoli della sua vita, questa censura permette di spiegare la relativa assenza di Peirce dalla storia del pensiero occidentale, malgrado la sua ampia influenza.

Nel tentativo di spiegare gli estremi della vita di Peirce, ipotizzo (malgrado gli ovvi pericoli di una diagnosi storica) che Peirce fosse affetto da tre patologie neurologiche. Da adolescente iniziò a soffrire di attacchi estremamente dolorosi di nevralgia del trigemino. Questi attacchi si ripresentarono nel corso della sua vita e lo lasciavano spesso privo di forze per giorni, a volte settimane. Suo padre, che soffriva anch’egli di una malattia molto dolorosa, il morbo di Bright, gli fece conoscere molto presto l’oppio e l’etere come palliativi per il forte dolore.

Dopo i vent’anni Peirce cominciò a mostrare repentini cambiamenti d’umore, sintomatici del disturbo bipolare. Le sue condizioni peggiorarono con l’età e si manifestarono numerosi sintomi associati a tale malattia. Per quanto riguarda la fase maniacale, Peirce manifestava azioni comandate, paranoiche e impulsive; una grave insonnia; mania di grandezza estatica ed espansività visionaria; ipersessualità; un’energia quasi sovrumana e conduceva affari finanziari irrazionali, tra cui una certa compulsione a spendere e investimenti disastrosi. Per quanto riguarda la fase depressiva, manifestava attacchi di grave melanconia o depressione caratterizzati da istinti suicidi o da apatia, a cui si aggiungevano una certa indolenza della mente, un’incapacità di provare emozioni e un senso di futilità intollerabile. Da adolescente Peirce provò droghe e nel corso della sua vita le usò in modo sempre più sofisticato, sia per
He was probably addicted to caffeine, alcohol, morphine, and cocaine through much of his adult life. It was these behaviors, in a time when they were believed to be explained only by moral failure, that ruined his personal and professional life.

Peirce was surprisingly unreflective about his own character and did not begin to ponder seriously on the reasons for his disastrous personal and professional failures until his mid-sixties, when he concluded, rightly, that much of the cause was “the poison of biology”. He blamed his genetic inheritance for his uncontrollable emotionality, what he called “the criminal trait in the blood”, and wrote: “For long years I suffered unspeakably, being an excessively emotional fellow, from ignorance of how to go to work to acquire sovereignty over myself” (MS 848, 905).

Surprisingly, while Peirce gave his uncontrollable emotions and facial neuralgia salient roles in his failure, he gave his left-handedness the most important part to play. In this third diagnosis he proposed – with considerable modern support for his hypothesis – that his left-handedness was and element in a pathological condition caused by differences from the normal in the structure of his brain, which he thought had its most unfortunate effect in his “incapacity for linguistic expression”. He speculated that “the connections between different parts of my brain must be different from the usual and presumably best arrangement; and, if so, it would necessarily follow that my thinking should be gauche” (MS 632). Peirce always had the greatest difficulty with language of any kind and was constantly reminded that the basis of this way of thinking was diagrammatic, not linguistic. He made it his intention, in all his labored writing, to have the process of thinking laid open to view as “a moving picture of the action of thought” (MS 296, 298, 905; Geschwind and Galaburda 1987). For Peirce, thinking was best represented as the manipulation of diagrams and, in this respect, mathematics was at the root of his philosophy.

In addition to these neurological factors, three other factors deeply influenced his life: his father, Benjamin; his obsession with logic; and religion. Benjamin Peirce was brilliant, profound, facile, and given to outbursts of rage and long bouts of depression.
sopportare il dolore e la depressione sia per aumentare la creatività estatica delle fasi maniacali. Nella maggior parte della sua vita adulta fu probabilmente dipendente da caffeina, alcol, morfina e cocaina. Furono questi comportamenti, in un’epoca in cui erano considerati nient’altro che cause di un fallimento morale, a rovinare la sua vita personale e professionale.

Peirce fu sorprendentemente incurante del suo carattere e iniziò a riflettere seriamente sulle ragioni dei suoi disastrosi insuccessi personali e professionali solo verso i sessantacinque anni, quando arrivò alla conclusione, giusta, che la causa principale fosse «il veleno biologico». Attribuì all’eredità genetica lo scarso controllo emozionale, che chiamò «il tratto criminale del sangue» e scrisse: «Per lunghi anni ho sofferto in modo indicibile, poiché ero un tipo eccessivamente emotivo, per la mia incapacità di acquisire controllo su me stesso» (MS 848, 905).

Sorprendentemente, se da un lato attribuì solo un ruolo saliente nei suoi insuccessi alle emozioni incontrollabili e alla nevralgia facciale, Peirce attribuì il ruolo più importante al suo mancinismo. In questa terza diagnosi propose – con una tesi moderna a sostegno della sua ipotesi – che il suo mancinismo fosse l’elemento di una condizione patologica causata da alcune differenze nella struttura del suo cervello rispetto alla normalità, le quali, sosteneva, avevano come effetto più spiacevole «l’incapacità di espressione linguistica». Ipotizzò: «le connessioni tra le diverse parti del mio cervello devono differenziarsi dalla disposizione normale e presumibilmente migliore; e se così fosse sarebbe conseguenza necessaria che il mio modo di pensare sia gauche» (MS 632). Peirce ebbe sempre grandissime difficoltà con tutti i tipi di lingue e gli fu costantemente ricordato che la base del suo modo di pensare era diagrammatica, non linguistica. In tutti i suoi difficili scritti si prefisse come scopo di mettere a nudo il processo del pensiero per poterlo vedere come «un’immagine in movimento dell’azione del pensare» (MS 296, 298, 905; Geshwind e Galaburda 1987). Secondo Peirce il pensiero poteva essere descritto al meglio come manipolazione di diagrammi e, sotto questo punto di vista, la matematica fu alla radice della sua filosofia.

Oltre a questi fattori neurologici, altri tre fattori influenzarono enormemente la sua vita: il padre Benjamin, l’ossessione per la logica e la religione. Benjamin Peirce era un uomo brillante, serio, superficiale e soggetto a scatti di rabbia e lunghi attacchi di
He was powerfully attractive eloquent, and successful – a loving and overwhelming father, who, from Charles’s childhood on, trained his son’s intellect for genius, paying little attention to standard curricula, whether it was that of grade school or Harvard University. Recognizing his son’s precocity in mathematics, Benjamin concentrated his demanding regimen in that subject, sometimes forcing Charles to play continuous games of double dummy whist through the night, while he criticized every error and its nature. Benjamin rarely provided young Charles with a theorem in mathematics, instead giving him examples or outcomes and requiring him to work out the mathematical principles for himself by the use of diagrams alone. Benjamin also set his son, as an adolescent, to reading such philosophers as Kant, Spinoza, Hegel Hobbes, Hume, and James Mill. He would then induce Charles to tell him about the “proofs offered by the philosophers, and in a very few words would almost invariably rip them up and show them to be empty” (MS 823). Benjamin was an overpowering and often cruel taskmaster who believed he had sired a genius. He fully intended to make his son a major intellect and the means to the perpetuation of his own philosophical system. When Charles was forty years old, Benjamin declared publicly that “it was a great gratification for [Benjamin] to know that his son would prosecute the work to which he had devoted the latter part of his own life” (Sergeant 1880).

At the same time, the father otherwise allowed the son free rein and even encouraged him to become a connoisseur of wines and to refine his taste for the good things in life. As long as he could afford it, Charles lived an extravagantly luxurious life, in large part to meliorate his suffering. After Charles’s death, his nephew wrote, in what the family considered an accurate account, that he became a highly emotional, easily duped, and rather snobbish young dandy who went his own way, indifferent of the consequences (MS 1644). Largely because of his neurological and nervous disorders, his family, particularly his father, indulged and protected him, even when he was in his forties. It is not surprising that this heavily burdened youth publicly avowed his advocacy of the obscure ontological atheism of the nineteenth-century French positivist historian Etienne Vacherot and in other ways paraded his contempt for the hierarchs of Cambridge and Boston. Nor is it unexpected that his wives from both his disastrous marriages became nurses, failed disciplinarians, and scapegoats, as his mother had been.


depressione. Era molto attraente, loquace e di grande successo – un padre affettuoso e travolgente, che, fin dall’infanzia di Charles, allenò la mente geniale del figlio, dando poca attenzione ai curricula, che si trattasse della scuola elementare o della Harvard University. Rendendosi conto della precocità del figlio per la matematica, Benjamin Peirce concentrò il suo severo programma educativo su quella materia, costringendo a volte Charles a giocare estenuanti partite di double dummy whist per tutta la notte, sottoponendo ogni suo errore e la sua natura a giudizio critico. Rare volte procurò a Charles teoremi di matematica; gli fornì invece esempi o risultati dai quali estrapolare da solo i princìpi matematici attraverso il solo uso di diagrammi. Inoltre Benjamin Peirce iniziò il figlio, fin da adolescente, alla lettura di filosofi come Kant, Spinoza, Hegel, Hobbes, Hume e James Mill. Poi insisteva perché Charles gli ripetesse «le prove offerte dai filosofi e con poche parole le distruggeva immancabilmente dimostrando la vacuità dei loro ragionamenti» (MS 823). Benjamin Peirce fu un maestro opprimente e spesso crudele che credeva di aver generato un genio. Aveva sempre avuto l’intenzione di fare di suo figlio una delle menti più importanti e il mezzo per la perpetuazione del proprio sistema filosofico. Quando Charles aveva quarant’anni, Benjamin dichiarò pubblicamente che «era una grande gratificazione per [Benjamin] sapere che suo figlio avrebbe portato avanti il lavoro al quale aveva dedicato l’ultima parte della sua vita» (Sargent 1880).

Allo stesso tempo il padre permise al figlio libero sfogo e addirittura lo incoraggiò a diventare un esperto di vini e a raffinare il gusto per le cose belle della vita. Fino a quando poté permetterselo, Charles condusse una vita lussuosa e stravagante, principalmente per mitigare le sue sofferenze. Dopo la morte di Charles, il nipote scrisse, in quello che la famiglia considerava un resoconto accurato, che era diventato un giovane dandy estremamente emotivo, facilmente ingannabile e snob che andava avanti per la sua strada incurante delle conseguenze (MS 1644). In gran parte a causa dei suoi disturbi neurologici e nervosi, la famiglia, in particolare suo padre, lo viziò e lo protesse, anche quando aveva ormai raggiunto la quarantina. Non sorprende che questo giovane pesantemente oppresso confessasse pubblicamente il suo appoggio all’oscuro ateismo ontologico dello storico positivista francese dell’Ottocento Etienne Vacherot e in altri modi ostentasse il suo disprezzo per gli alti prelati di Cambridge e Boston. Non è nemmeno inaspettato che le mogli dei due matrimoni disastrosi gli facessero da
Charles Peirce began his lifelong obsession with logic when, at twelve, he read his older brother’s copy of Archbishop Richard Whately’s Logic. Apparently what first fascinated him was the uncanny directionality of inference and, later, its puzzling ability to provide and preserve meaning. Around the same time, he discovered his method of constructing a philosophy, which he called “pedestrianism” and later described (at twenty-five), after having mastered the works of Immanuel Kant: “It is necessary to reduce all our actions to logical processes so that to do anything is but to take another step in the chain of inference. Thus only can we effect that complete reciprocity between Thought & its object which it was Kant’s Copernican step to announce” (MS 339).

Despite this apparently restricted and inchmeal description, logic is, for Peirce, far more than the cut-and-dried academic discipline: it is the connective tissue of the universe. It is the basis of any thinking having a broadly scientific character, which is to say, of inquiry, generally – which, in Peirce’s extended conception of inference, includes not only the deductive and inductive elements usually thought of as making up the discipline but hypothesis, which he calls abduction, as well. Hypothesis is, for Peirce, a form of inference subject to its own rule, which originates knowledge and is how we manage to guess, often fruitfully, the way our world is. Peirce believed this ability to understand our world to be founded in the continuity of mind and nature, in the presupposition that we “have a capacity for ‘guessing’ right. We shall do better to abandon the whole attempt to learn the truth however urgent may be our need of ascertaining it, unless we can trust the human mind’s having such power of guessing right that before very many hypotheses shall have been tried, intelligent guessing may be expected to lead us to the one which will support all test, leaving the vast majority unexamined” (CP 6.530).

This step-by-step inferential process also describes Peirce’s lifelong manner of philosophizing. He kept at it, scribbling away abstractedly at odd moments, or working with his extraordinary powers of concentration almost without sleep for days,
infermiere e capri espiatori, incapaci di imporre una disciplina, come era stata sua madre.

L’ossessione di Charles Peirce per la logica, che durò tutta la sua vita, cominciò all’età di dodici anni, quando lesse il libro Elements of Logic dell’arcivescovo Richard Whately appartenente al fratello maggiore. Probabilmente fu affascinato in primo luogo dalla direzionalità delle inferenze e, in secondo luogo, dalla sconcertante capacità di produrre e preservare il significato. Nello stesso periodo si creò un metodo per costruire una filosofia, che chiamò «Pedestrianism» e più tardi scrisse (all’età di venticinque anni), dopo aver studiato con accuratezza le opere di Immanuel Kant: «È necessario ridurre tutte le nostre azioni a processi logici così che tutto quello che si fa non è altro che una tappa nella catena delle inferenze. Solamente in questo modo possiamo determinare quella reciprocità completa tra il pensiero e il suo oggetto che è la rivoluzione copernicana proclamata da Kant» (MS 339).

Nonostante questa descrizione apparentemente ristretta e frammentata, la logica, secondo Peirce, va oltre la disciplina accademica prestabilita: è il tessuto connettivo dell’universo. È alla base di tutti i ragionamenti che hanno un carattere scientifico generale, è quindi alla base della ricerca – che, nella concezione estesa di «inferenza» di Peirce, comprende non solo gli elementi deduttivi e induttivi che normalmente vengono ricondotti a tale disciplina, ma anche l’ipotesi che egli chiama «abduction» [abduzione]. L’ipotesi è, secondo Peirce, una forma di inferenza soggetta a regole proprie, che genera conoscenza e permette di fare congetture su come funziona il mondo, spesso con successo. Peirce riteneva che tale capacità di capire il mondo si basasse sulla continuità tra mente e natura, sul presupposto che «abbiamo la capacità di fare “congetture” giuste. Dobbiamo fare il possibile per abbandonare il tentativo di conoscere la verità anche se il nostro bisogno di asserirla è urgente, a meno che non facciamo affidamento sulla capacità della mente umana di fare congetture giuste prima che siano state tentate numerose ipotesi, una congettura intelligente dovrebbe portarci all’ipotesi che sostiene tutta l’analisi, lasciandone la maggior parte incontrollata» (CP 6.530).

Questo processo inferenziale per gradi descrive anche il modo di filosofare che Peirce adottò in tutto il corso della sua vita. Si attenne sempre a tale metodo, scarabocchiando distrattamente a tempo perso o lavorando con una grande capacità di
sometimes weeks, even months at a time, a practice he could sustain only with the help of drugs, which included alcohol, morphine, cocaine, and caffeine made from very strong coffee reduced to a syrup. He continued to work this way from the time he was about twenty until the week of his death at seventy-four, despite illness, poverty, and the constant reverses of his life. In 1905, at age sixty-six, he described to the Italian pragmatist Mario Calderoni how he had worked at twenty-eight: “It was in a desperate endeavor to making a beginning of penetrating into that riddle [of human existence, conduct, and thinking, and their relation to God and Nature] that on May 14, 1867, after three years of almost insanely concentrated thought, hardly interrupted even by sleep, I produced my one contribution to philosophy in the ‘New List of Categories’” (Peirce 1982).

Three years earlier, in 1902, he had written William James’s wife, Alice, while working on his phenomenology: “During the interval, I had not more than a dozen chats with my wife … and otherwise hadn’t spoken two consecutive sentences to anybody. There were four or five months’ silence. It is not an exceptional period. I live always so” (Letter to Alice James [1902]). These illustrations indicate the lifelong interplay of creative obsession and bipolar disorder.

Being born and raised in the long shadow of the Puritan oligarchy made religion a matter of daily importance for the young Peirce, diluted as it was in Benjamin’s devout Unitarian faith. Charles’s first clear expression of its impact on him was the defiant announcement of his atheism, mad when he was an undergraduate. By his mid-twenties, his father’s deeply held belief in the underlying harmony of religion and science and his marriage to a clergyman’s devout and feminist daughter had convinced Charles of the seriousness, if not the truth, of religion to the point that he joined his first wife in the Episcopal church as her condition for the marriage. Thereafter, his reservations on the subject were largely focused on what he judged to be the dangerous nonsense of theological metaphysics. In 1892, at fifty-three, Peirce had a mystical experience that changed his life. He reported that, after many years of absenting himself from church and communion, in the midst of great personal crisis he felt driven to attend,
concentrazione quasi senza dormire per giorni, a volte settimane, altre volte persino mesi, una pratica che riusciva a sostenere solo con l’aiuto di droghe, tra cui alcol, morfina, cocaina e caffeina prodotta da un caffé molto forte ridotto a sciroppo. Continuò a lavorare in questo modo dall’età di vent’anni fino alla settimana della sua morte a settantaquattro, malgrado la malattia, la povertà e le continue disgrazie della sua vita. Nel 1905 all’età di sessantasei anni scrisse al pragmatico italiano Mario Calderoni come lavorava a ventotto anni: «Fu in uno sforzo disperato di tentare di risolvere l’enigma [dell’esistenza, del comportamento e del pensiero dell’uomo e della loro relazione con Dio e la Natura] che il 14 maggio 1867, dopo tre anni di riflessione profonda e quasi insana, interrotta raramente dal sonno, ho prodotto il mio contributo alla filosofia nella New List of Categories[1]» (Peirce 1982).

Tre anni prima, nel 1902, aveva scritto alla moglie di William James, Alice, mentre lavorava alla sua fenomenologia: «Durante le pause ho parlato solo una dozzina di volte con mia moglie […] e del resto non ho pronunciato due frasi consecutive con nessuno. Ci sono stati quattro o cinque mesi di silenzio. Non è un periodo fuori dal normale. Vivo sempre così» (Lettera a Alice James [1902]). Questi esempi dimostrano l’alternanza tra ossessione creativa e disturbo bipolare che caratterizzarono l’intera esistenza di Peirce.

La religione, stemperata dalla devozione di suo padre per la fede unitariana, fu per il giovane Peirce – nato e cresciuto all’ombra dell’oligarchia puritana – un elemento molto importante. La prima espressione chiara dell’impatto della religione su Charles fu l’ardito annuncio, da studente universitario, del suo ateismo. All’età di venticinque anni la fede profonda e costante del padre nell’armonia basilare tra religione e scienza e il suo matrimonio con la figlia devota e femminista di un pastore convinsero Charles della serietà, se non della verità, della religione al punto che entrò a far parte della chiesa episcopale insieme alla sua prima moglie come condizione per il loro matrimonio. In séguito le sue riserve sull’argomento si concentrarono su quello che lui definì l’assurdità pericolosa della metafisica teologica. Nel 1892 all’età di cinquantatré anni Peirce ebbe un’esperienza mistica che cambiò la sua vita. Raccontò che, dopo molti anni di assenza dalla chiesa e dalla comunione, nel mezzo di una crisi personale molto
and one morning, after wandering aimlessly, he entered St. Thomas’s Episcopal Church in New York City:

 

I seemed to receive the direct permission of the Master to come [to communion] … when the instant came I found myself carried up to the altar rail, almost without my own volition. I am perfectly sure that it was right. Anyway, I could not help it.

I may mention as a reason why I do not offer to put my gratitude for the bounty granted to me into some form of church work, that which seemed to call me today seemed to promise me that I should bear a cross like death for the Master’s sake, and he would give me strength to bear it. I am sure it will happen. My part is to wait.

I have never before been mystical, but now I am. [MSL 483]

 

For Peirce, the experience was so important that he said of it, “If … a man has had no religious experience, then any religion not an affectation is as yet impossible for him; and the only worthy course is to wait quietly till such experience comes. No amount of speculation can take the place of experience” (CP 1.654).

For the mystic, the real is not itself sensible; it is represented by means of sense, in the same manner as an idea is represented by a word, say, sign. The word is heard with the ear, but the meaning that it signifies has no more physical properties than a character in A Midsummer Night’s Dream. From the publication of his first papers in 1867, Peirce held in his doctrine of signs, which he called semiotic, that “we have no power of thinking without signs” (CP 285) and that “all thought whatsoever is a sign, and is mostly of the nature of language” (420). After his mystical experience, he increasingly treated semiotic as an interpretation of the logos, the idea of the world perceived to be God’s utterance, the action of signs, or semiosis. In five articles published in the Monist in 1891-93 (CP 6.7-34, 35-65, 102-63, 238-317), which bracket his religious experience, those published before and after it show very clearly in their differences the experience’s effect on his thinking. In 1908, Peirce reinterpreted his pragmatism as “A Neglected Argument for the Reality of God” (CP 6.452-93).

The mystic will often speak of “the Master” or a similarly reverenced being as the guide to the real. In Peirce’s case the “cross like death” was the iron duty “the Master” had bound him to do – the completion of his architectonic philosophy. After his
grave, una mattina, dopo aver vagato senza meta, entrò nella chiesa episcopale St. Thomas di New York:

 

Mi sembrò di ricevere il permesso direttamente dal Signore di andare [a prendere la comunione] […] quando arrivò il momento, mi trovai spinto fino alla barra dell’altare, quasi senza una mia volontà. Sono del tutto sicuro che fosse giusto. In ogni caso non potevo evitarlo.

Come ragione del motivo per cui non offro di mettere la mia gratitudine per la ricompensa offertami in una qualche forma di lavoro per la chiesa, posso addurre che ciò che sembrò chiamarmi oggi sembrava promettermi che avrei dovuto sopportare una morte di croce per il volere del Signore e che mi avrebbe dato la forza per sopportarla. So che accadrà. Devo solo aspettare.

Non sono mai stato mistico, ma ora lo sono [MSL 483].

 

Per Peirce l’esperienza fu così importante che scrisse: «Se […] un uomo non ha avuto nessuna esperienza religiosa, qualsiasi religione che non sia un’affettazione è al momento per lui impossibile, e il solo atteggiamento che può valere è attendere tranquillamente finché tale esperienza arriva. Nessuna quantità di speculazione può prendere il posto dell’esperienza» (CP 1.654).

Per il mistico il reale non è sensoriale; è rappresentato per mezzo del senso, come un’idea è rappresentata da una parola, cioè da un segno. Il mondo si ascolta con l’orecchio, ma il suo significato non ha maggiori proprietà fisiche di un personaggio del Sogno di una notte di mezza estate. Dalla pubblicazione dei suoi primi scritti nel 1867, Peirce sostenne con la sua dottrina dei segni, che chiamò «semiotic», che «non abbiamo nessun potere di pensare senza segni» (CP 5.285) e che «qualsiasi pensiero è un segno e ha soprattutto natura di linguaggio» (420). Dopo l’esperienza mistica, trattò sempre di più la semiotica come interpretazione del logos, l’idea del mondo come parola di Dio, l’azione dei segni, o semiosi. In cinque articoli pubblicati sul Monist nel 1891-93 (CP 6.7-34, 35-65, 102-63, 238-71, 287-317), che raggruppano la sua esperienza religiosa, quelli pubblicati prima e dopo mostrano con le loro differenze l’effetto di tale esperienza sul suo pensiero. Nel 1908 Peirce reintepretò il suo pragmatismo come A Neglected Argument for the Reality of God [2] (CP 6.452-93).

Il mistico si riferirà spesso al «Signore» o a un’entità simile come alla guida della realtà. Nel caso di Peirce la «morte di croce» fu il compito ferreo che «il Signore» gli
mystical experience of 1892, Peirce, poor, isolated, increasingly sick, and often profoundly depressed and suicidal, wrote more than 80,000 pages of difficult, often brilliant, and sometimes superb philosophical thinking, very little of it published, in trying to do what “the Master” demanded. He died, in 1914, virtually pen in hand.

This volume assumes that Peirce’s thought can provide a fruitful basis for the development of psychoanalytic theory. I will now provide an introduction to what is a thoroughly American foundation for a very different way of looking at human psychology, beginning with pragmatism, his theory of inquiry.

Peirce uses the word inquiry very broadly to mean the many ways we go about trying to find things out by means of signs and symbols, which are then subjected to logical criticism. He uses the word inference, not to stand for the way we presume to think logically, but to point to the fact that when we infer, we are usually giving a reason for what it is that we are asserting. We do this, Peirce held, by using – in various combinations – the three types of inference he distinguishes: deduction, induction, and hypothesis, which Peirce preferred to call abduction. Of the first, he agrees that every deductive inference is already contained in the premises, but he also contends that, even in something so apparently cut-and-dried, there is an experimental element. Induction he calls that type of inference which is concerned with testing, not, as so many philosophers of science have insisted, originating knowledge. But it is Peirce’s revolutionary claim that hypothesis or abduction is a third type of inference that is the truly interesting element of his theory of inquiry. Only abduction can originate or advance knowledge, and the difference between induction and abduction is that in induction “we conclude that facts, similar to observed facts are true in cases not examined [while in abduction] we conclude the existence of a fact quite different from anything observed … The former classifies, and the latter explains” (CP 2.636). Peirce provides a simple diagram of abductive inference:

 

The surprising fact, C, is observed;

But if A were true, C would be a matter of course,

Hence, there is reason to suspect that A is true. [CP 5.189]

 


assegnò: il compimento della sua filosofia architettonica. Dopo l’esperienza mistica del 1892 Peirce, povero, isolato, sempre più malato e spesso molto depresso e con istinti suicidi, scrisse più di 80.000 pagine di speculazioni filosofiche difficili, spesso geniali e a volte superbe, poche delle quali vennero pubblicate, nel tentativo di fare quello che «il Signore» gli aveva chiesto. Morì nel 1914 quasi con la penna in mano.

In questo libro si assume che il pensiero di Peirce fornisca una base fertile allo sviluppo della teoria psicoanalitica. Propongo ora un’introduzione a quello che è il fondamento puramente americano di una nuova visione della psicologia umana, iniziando dal pragmatismo, la teoria dell’indagine di Peirce.

Peirce usa la parola «inquiry» in senso generale per significare i molti modi in cui affrontiamo il tentativo di comprendere le cose attraverso i segni e i simboli, che sono poi soggetti a una critica logica. Usa il termine «inference» non per designare il modo in cui presumiamo di pensare con logica, ma per indicare il fatto che, quando inferiamo, generalmente diamo una ragione a quello che stiamo affermando. Lo facciamo, sostiene Peirce, usando – con varie combinazioni – i tre tipi di inferenza da lui identificati: deduzione, induzione e ipotesi, che Peirce preferiva chiamare «abduction». Della prima concorda sul fatto che ogni inferenza deduttiva sia già contenuta nelle premesse, ma allo stesso tempo sostiene che, anche in una situazione così apparentemente ovvia, ci sia un elemento sperimentale. Chiama «induzione» quel tipo di inferenza che riguarda la prova [testing], e non la creazione di una conoscenza, come molti filosofi della scienza sostengono. Ma è la tesi rivoluzionaria di Peirce secondo cui l’ipotesi o abduzione sarebbe un terzo tipo di inferenza a rappresentare l’elemento veramente interessante della sua teoria dell’indagine. Solo l’abduzione può originare o far avanzare la conoscenza, e l’induzione e l’abduzione di differenziano perchè con l’induzione «concludiamo che fatti simili ai fatti osservati sono veri in casi non esaminati [mentre con l’abduzione] concludiamo l’esistenza di un fatto completamente differente da alcunché osservato […]. La prima classifica, la seconda spiega» (CP 2.636). Peirce propone un semplice diagramma dell’inferenza abduttiva:

 

Si osserva il sorprendente fatto C;

Ma se fosse vero A, C sarebbe spiegato come fatto normale,

Perciò c’è ragione di sospettare che A sia vero. [CP 5.189].

 


What first strikes the attention is the entirely tentative nature of the conclusion – it is a guess worth considering. Secondly, the schema shows what makes a hypothesis worthwhile or reasonable, whether in everyday life or in science. The diagram says nothing about what would justify or validate the hypothesis. That will be a matter of elaborating the consequences of the hypothesis deductively and then testing it inductively. The only important question concerning any hypothesis is, does it open up a new and unexpected line of thought that leads us to more detailed exploration and test? Here the special importance Peirce attaches to abduction becomes clear; it is the only form of inference which originates knowledge, unlike deduction and induction, which reiterate and test knowledge we already have.

We can now summarize Peirce’s view of inquiry as the statement of his pragmatism: it is the logical rule that requires that any genuine hypothesis will lead deductively to consequences that can be tested inductively by experience. Peirce generalized this framework to encompass thought of any kind – perception, emotion, action, inquiry, deliberation, science – and to insist that thought always exhibits the same pattern: the mutual interplay, interaction, and support of the three types of inference he distinguishes. The life of thought he characterizes as the constant formation, reformation, and exercise of habits of inference.

For Peirce, habits of inference take three forms. The first is reasoning proper, the making of fully conscious and, at least in intention, fully worked-out inferences, such as those made by a biologist or clinical psychoanalyst. Reasoning, in this critical sense, is what logicians usually investigate and formalize. The second is what Peirce called acritical reasoning (CP 5.440). It is the sort of inference that we regularly make in our everyday lives, in conversation, in disciplining our children, in making plans, in arguing for a political candidate, or in any other ordinary pattern of thinking in which we seldom provide our premises or complete an argument. The third form, of particular interest to psychoanalysis, is what Peirce calls “operations of the mind which are logically analogous to inference excepting only that they are unconscious and therefore uncontrollable and therefore not subject to logical criticism” (CP 5.108). For Peirce, the
Ciò che colpisce in primo luogo è la natura del tutto ipotetica della conclusione: è una supposizione che vale la pena di prendere in considerazione. In secondo luogo lo schema mostra ciò che rende un’ipotesi utile o ragionevole, che si tratti della vita quotidiana o della scienza. Il diagramma non dice niente su cosa giustificherebbe o renderebbe valida l’ipotesi. Tale sarebbe il modo di procedere nell’elaborazione delle conseguenze dell’ipotesi attraverso la deduzione e la prova induttiva. L’unica domanda importante che riguarda qualsiasi ipotesi è: apre una nuova e inaspettata linea di pensiero che ci conduce a scoperte e prove più dettagliate? Diventa quindi chiara la grande importanza che Peirce attribuisce all’abduzione; è la sola forma di inferenza che origina conoscenza, al contrario di deduzione e induzione che reiterano e testano conoscenze che noi già possediamo.

Possiamo riassumere la visione di Peirce sull’indagine come l’espressione del suo pragmatismo: è la regola logica a stabilire che qualsiasi ipotesi sincera conduce deduttivamente a conseguenze che possono essere testate induttivamente dall’esperienza. Peirce estese questo concetto a tutti i tipi di pensiero – percezione, emozione, azione, indagine, deliberazione, scienza – insistendo che il pensiero segue sempre lo stesso schema: la reciprocità, l’interazione e il sostegno dei tre tipi di inferenza distinti da Peirce. Definisce l’esistenza del pensiero come la continua formazione, riformazione e applicazione delle abitudini inferenziali.

Secondo Peirce esistono tre forme di abitudine inferenziale. La prima è il ragionamento vero e proprio, la formulazione di inferenze in modo completamente consapevole e, almeno nelle intenzioni, in modo completamente calcolato, come quelle fatte da un biologo o da uno psicoanalista clinico. Il ragionamento, in questo senso critico, è quello che i logici di solito esaminano e formalizzano. Il secondo è quello che Peirce definì ragionamento «acritical» (CP 5.440). È il tipo di inferenza che facciamo regolarmente nella vita di tutti i giorni, quando conversiamo, quando insegniamo la disciplina ai nostri figli, quando ci organizziamo, quando discutiamo su un candidato politico o in qualsiasi altro schema di pensiero nel quale forniamo raramente le nostre premesse o una tesi completa. La terza forma, di particolare interesse per la psicoanalisi, è quella che Peirce definisce «operazioni della mente che dal punto di vista logico sono analoghe a inferenze, eccetto solo che sono inconsce e perciò incontrollabili e perciò non soggette a critica» (CP 5.108). Secondo Peirce quelle più
most easily identified of these are our perceptual judgments of shape and color, spatial and temporal relations, which are unconscious hypotheses and, therefore, beyond our control.

One way to appreciate the range of Peirce’s thought and its application to psychoanalytic theory and practice is to begin with his assault on Cartesianism, one of the origins of modern thinking about inquiry. Peirce understood clearly that Descartes was, as he was himself, trying to grasp the underlying reasons for the success of modern scientific method, and, in his thoroughgoing rejection of Descartes, he invented contemporary logic of science in both its broad and narrow senses. Peirce’s criticisms of Descartes also provide the best introduction to his architectonic system of thought. These criticisms are to be found in two papers Peirce wrote in 1868, when he was not yet thirty, “Concerning Certain Faculties Claimed for Man” and “Some Consequences of Four Incapacities”, which remained virtually ignored for al least sixty years (CP 5.213-63, 264-317).

Descartes put forward the now familiar idea that we know by means of direct acts of knowledge called intuitions, which are self-evident truths we cannot doubt. These intuitions are absolutely simple, dyadic relations between the knowing mind and what is known, such that the intuition presents a whole truth perfectly circumscribed. Once achieved, the intuition is independent and requires no accounting. Descartes claimed that his methods of investigation give results. He thought that since some of our beliefs may have been constituted nonintuitively, if we are serious inquirers, we must rigorously, at least once in our lives, make the experiment of doubting all our beliefs. What survives will be those simple beliefs that have proved themselves to be intuitions – direct, self-evident knowledge of truth. We, then, individually, build our general knowledge, piece-by-piece in the right order, from these simple intuitions, as in geometry. But it is absurd to ask for justifications of these intuitions, since all investigations depend on them as ultimates beyond explanation.


facili da identificare sono i giudizi percettibili della forma e del colore, le relazioni spazio-temporali, le quali sono ipotesi inconsapevoli e, quindi, al di fuori del nostro controllo.

Un modo per apprezzare la gamma del pensiero di Peirce e le sue applicazioni alla teoria e alla pratica psicoanalitica è cominciare con la sua battaglia al cartesianismo, una delle origini del pensiero moderno sull’indagine. Peirce capì chiaramente che Cartesio stava cercando, come lui, di comprendere le ragioni alla base del successo del metodo scientifico moderno, e, nel suo risoluto rigetto per Cartesio, inventò la logica della scienza contemporanea in senso generale e specifico. Le critiche di Peirce a Cartesio costituiscono inoltre la migliore introduzione al suo sistema architettonico del pensiero. Tali critiche si ritrovano in due saggi del 1868 del non ancora trentenne Peirce, intitolati Concerning Certain Faculties Claimed for Man[3] e Some Consequences of Four Incapacities[4], che vennero quasi ignorati per almeno sessant’anni (CP 5.217-63, 264-317).

Cartesio propose l’idea, ora familiare, secondo la quale apprendiamo attraverso atti diretti della conoscenza chiamati «intuizioni», che sono verità lapalissiane di cui non possiamo dubitare. Tali intuizioni sono molto semplici, rapporti bivalenti tra la mente intelligente e ciò che si deve apprendere, così che l’intuizione presenta una verità completa perfettamente circoscritta. Una volta raggiunta, l’intuizione è indipendente e non richiede alcuna spiegazione. Cartesio sosteneva che i suoi metodi d’indagine davano dei risultati. Pensava che, poiché alcune delle nostre convinzioni possono essere state costruite in modo non intuitivo, se siamo dei ricercatori seri dobbiamo rigorosamente, almeno una volta nella vita, sperimentare la messa in dubbio di tutte le nostre convinzioni. Rimarranno quelle convinzioni semplici che si riveleranno intuizioni – conoscenza diretta ed evidente della verità. Costruiremo poi, individualmente, la nostra conoscenza generale, pezzo dopo pezzo nel giusto ordine, partendo da queste semplici intuizioni, come in geometria. Ma è un’assurdità cercare di giustificare tali intuizioni, poiché qualsiasi indagine dipende dalle intuizioni in quanto fatti fondamentali al di là di qualsiasi spiegazione.


For Peirce, Descartes’ theory of knowledge is an abduction whose consequences must be deduced and then tested inductively. He rejects the Cartesian model of inquiry on several grounds, beginning:

 

We cannot begin with complete doubt. We must begin with all the prejudices we actually have … These prejudices are not to be dispelled with a maxim, for they are things which it does not occur to us can be questioned … A person may, it is true, in the curse of his studies, find reason to doubt what he began by believing; but in that case he doubts because he has a positive reason for it, not on account of the Cartesian maxim. Let us not pretend to doubt in philosophy what we do not doubt in our hearts. [CP 5.265]

 

He goes on to point out that it is a profound mistake to take individual consciousness as our final standard of knowledge. Instead, he holds up the community of inquirers, who can question each other and work toward some agreement as a more appropriate criterion. In practice, Peirce replaces Cartesian intuition with the community of scientific inquirers, who have the hope that, in time, for a given inquiry, one solution will be established as the superior one. Such a tentative, but justifiable outcome is what truth means in science. Finally, Peirce denies that inquiry can be held to justify the Cartesian reliance upon “absolutely inexplicable” intuitions: these, by their very nature, block the road of inquiry.

Peirce deepens his attack on intuition by denying that we have direct intuitive knowledge either of ourselves as unique individuals or of our own inner states and attitudes. He holds that we come to know the important facts about ourselves inferentially; that we first form a definite idea of ourselves as a hypothesis to provide a place in which our errors and other people’s perceptions of us can happen. Furthermore, this hypothesis is constructed from our knowledge of “outward” physical facts, such things as the sounds we speak and the bodily movements we make, which Peirce calls signs. The strangeness of such signs is that, while they are purely physical, in order for them to act as sings they must stand in relation to other physical things, and that relation is not physical, but intelligible. This state, in which the suprasensible exists in the sensible, is the commonplace, but seldom noticed, origin of our experience. Peirce, fascinated since boyhood by the intelligibility of relation – by logic and meaning –
Secondo Peirce, la teoria della conoscenza di Cartesio è un’abduzione le cui conseguenze devono essere dedotte e in seguito testate induttivamente. Rifiuta il modello di indagine di Cartesio per varie ragioni; la prima:

 

Noi non possiamo cominciare con il dubbio totale. Dobbiamo cominciare con tutti i pregiudizi che agiscono in noi […]. Questi pregiudizi non li possiamo eliminare con una massima, poiché sono tali che non ci è mai venuto in mente di poterli mettere in discussione […]. È vero che nel corso dei suoi studi una persona può trovare ragione di dubitare di cose a cui in principio credeva, ma in questo caso dubita perché ha una ragione positiva per farlo, e non certo in considerazione della massima cartesiana. Non si pretenda dunque di dubitare in filosofia ciò di cui non dubitiamo dentro di noi [CP 5.265].

 

Continua sottolineando che è un grave errore considerare la conoscenza individuale schema finale della conoscenza. Al contrario, chiama in causa la comunità dei ricercatori, che, come criterio più appropriato, possono interrogarsi tra loro e lavorare per arrivare a un accordo. In pratica Peirce sostituisce l’intuizione cartesiana con la comunità dei ricercatori scientifici, che sperano che, presto, per una data ricerca, si arrivi a stabilire la soluzione migliore. Questo risultato ipotetico ma legittimo è ciò che la scienza considera «verità». Infine Peirce nega che l’indagine possa essere condotta al fine di giustificare la dipendenza cartesiana dalle intuizioni «assolutamente inspiegabili»: queste, per loro stessa natura, bloccano la strada alla ricerca.

Peirce rafforza il suo attacco contro l’intuizione negando l’idea secondo la quale noi possediamo una conoscenza intuitiva diretta sia di noi stessi come unici individui sia dei nostri stati e atteggiamenti mentali. Afferma che noi giungiamo a conoscere i fatti importanti su di noi attraverso un processo inferenziale; ci facciamo una prima idea chiara di noi stessi come ipotesi per costituire un luogo dove possano trovare spazio i nostri errori e ciò che gli altri percepiscono di noi. Inoltre tale ipotesi prende forma dalla nostra conoscenza dei fatti fisici “esterni”, come i suoni che produciamo parlando e i gesti che facciamo, che Peirce chiama «segni». La stranezza di questi segni risiede nel fatto che, anche se sono segni puramente fisici, per funzionare come segni devono mettersi in relazione con altre cose fisiche e tale interazione non è fisica ma intelligibile. Tale condizione, nella quale il soprasensibile esiste nel sensibile, è la banale origine della nostra esperienza, anche se raramente ce ne rendiamo conto. Peirce, affascinato sin
claims, in W. B. Gallie’s words, that “to know, with regard to a succession of physical events, that they make up a series of signs, is to know of the existence of and operation of a mind (or number of minds); and that to be engaged in making or manifesting or reacting to a series of signs is to be engaged in ‘being a mind’ or, more simply and naturally, to be engaged in thinking intelligently” (1952, 80-81).

We will not see ourselves exactly as others see us, or see them exactly as they see themselves, but we surely see ourselves through our own speech and other interpretable behavior, just as others see us and themselves in the same way. What is important is the commonality of the process, so that whatever else it may be, as Peirce says, “all thinking is dialogic in form” (CP 6.338), whether it is intrasubjective or intersubjective. For Peirce, then, the self is a form of dialogue: “One’s thoughts are what he is ‘saying to himself’, that is, saying to that other self that is just coming to life in the flow of time. Then one reasons, it is that critical self that one is trying to persuade; and all thought whatsoever is a sign, and is mostly in the nature of language” (CP 5.421). In metaphor, the human self is a nexus actively embodied in an infinite labyrinth of intelligible signs.

In summary, Peirce sets forth the semiotic doctrine that all thought is in signs and, more generally, that in any situation where knowledge is possible, sign action, or semiosis, is its vehicle. While the Cartesian tradition holds that knowledge is essentially direct and dyadic, a two-sided relation between knowing mind and known fact, Peirce insists that knowledge is inferential and triadic in that it always requires three elements, a sign, the object signified, and the interpretant, which may be expressed broadly for any intelligible assertion in the form “A signifies B to C,” or, more narrowly, in psychoanalysis, as “A transfers B to C”.

Now, a long-acknowledged problem with psychoanalytic theory – its open secret – is that it cannot provide a theoretical basis for “symbol formation”, even though analysis is itself carried on exclusively by means of symbols. This failure has meant that the revolutionary discoveries that have been made in clinical practice are disconnected from the theory that is presumed to underlie them. Nevertheless, the language in which such
dall’adolescenza dall’intelligibilità delle relazioni – dalla logica e dal significato – sostiene, usando le parole di W. G. Gallie, che «conoscere, riguardo a una successione di eventi fisici, che costituiscono una serie di segni, vuol dire venire a conoscenza dell’esistenza e del funzionamento di una mente (o di diverse menti); e che produrre o rivelare o reagire a una serie di segni significa “essere una mente” o, più semplicemente e naturalmente, pensare con intelligenza» (1952, 80-81).

Forse non vedremo noi stessi esattamente come ci vedono gli altri, o non vedremo gli altri esattamente come vedono sé stessi, ma sicuramente vediamo noi stessi attraverso le nostre stesse parole e altri comportamenti interpretabili, così come gli altri vedono noi e sé stessi. La cosa importante è la condivisione del processo, così che qualunque sia il pensiero, come afferma Peirce, risulti «dialogico nella forma» (CP 6.338), che si tratti di pensiero intrasoggettivo o intersoggettivo. Secondo Peirce, inoltre, il Sé è una forma di dialogo: «I pensieri di un individuo sono ciò che egli va “dicendo di sé stesso”, ovvero ciò che va dicendo a quell’altro sé stesso che sta appunto venendo alla vita nel flusso del tempo. Quando l’individuo ragiona, è proprio questo [Sé] critico che cerca di persuadere; e così qualsiasi pensiero è un segno e ha soprattutto natura di linguaggio» (CP 5.421). Metaforicamente il Sé umano è un nesso incorporato attivamente in un labirinto infinito di segni intelligibili.

In sintesi Peirce spiega con la dottrina semiotica che qualsiasi pensiero risiede nei segni e che, più genericamente, in qualsiasi situazione in cui è possibile una conoscenza, l’azione segnica, o semiosi, ne costituisce il mezzo. Mentre la tradizione cartesiana afferma che la conoscenza è essenzialmente diretta e diadica, una relazione bidirezionale tra la mente che conosce e il fatto conosciuto, Peirce sottolinea che la conoscenza è inferenziale e triadica poiché richiede sempre la presenza di tre elementi, un segno, l’oggetto significato e l’interpretante, concetto che può essere espresso in senso più generale attraverso qualsiasi affermazione intelligibile del tipo «A significa B per C», o, in senso più ristretto, in psicoanalisi, «A trasferisce B su C».

Ora, un problema storico della teoria psicoanalitica – un segreto di Pulcinella – è il fatto che tale teoria non può apportare una base teorica alla «formazione del simbolo», sebbene l’analisi stessa sia portata avanti esclusivamente per mezzo di simboli. Da questa mancanza consegue che le rivoluzionarie scoperte fatte nella pratica clinica sono staccate dalla teoria che si presume ne sia alla base. Eppure il
clinical discoveries are expressed is usually the inappropriate language of orthodox psychoanalytic theory. The consequence is fundamental confusion.

Briefly, Sigmund Freud’s research, typical of the nineteenth century’s obsession with mechanism, was founded on the concept of biological drive, on the presumption that such a foundation would illuminate the depths of human experience by showing how bodily functions generate the energy for and goals of all mental activity. This concentration generally excluded concern with the world of objects and relations between human individuals. Later, when Freud turned to the psychology of the ego as an important part of the problem of relations among object, he developed a theory of object relations which attempted to preserve his original drive theory by treating the role of objects as the targets of discharge and the inhibition or facilitation of drives. The mind is, thus, an epiphenomenon incapable of causing anything, perhaps even repression, a conclusion that completely vitiates the purposes of psychoanalysis.

The realization that even the most ingenious variations of strictly Freudian ego psychology cannot explain symbol formation (which is to say, effective thought) and are consequently useless in justifying “the talking cure” has led to a profusion of object relations models. In these models, drive theory is either drastically modified or rejected outright by conceptual frameworks in which relations with others are taken to constitute the fundamental elements of mental life. The great clinical significance of object relations, unexplainable by orthodox theory, is that it has been the central conceptual issue in psychoanalysis since 1919, with the early work of Melanie Klein, and became more explicit in the 1940s with the writings of H. S. Sullivan and W.R.D. Fairbairn.

Yet the idea of object relations, although it makes possible significant human intercourse, because of its often explicitly Cartesian dyadic structure represented by the patient-therapist relation and by the generally reductionist tendency of positivism, has proved unable to provide the theory of meaning – “symbol formation” – its clinical findings demand. A few independent theorists, such as Jacques Lacan, have proposed a
linguaggio attraverso il quale sono espresse tali scoperte cliniche è solitamente il linguaggio inappropriato della teoria della psicoanalisi ortodossa. La conseguenza è una fondamentale confusione.

In breve, le ricerche di Sigmund Freud, tipiche dell’ossessione ottocentesca per il meccanicismo, si basavano sul concetto di pulsione biologica, sulla supposizione secondo la quale tale fondamento avrebbe illuminato gli abissi dell’esperienza umana mostrando come le funzioni corporee generano l’energia per tutte le attività mentali e ne stabiliscono il fine. Tale limitazione escludeva generalmente il problema del mondo degli oggetti e le relazioni tra gli individui. In séguito, quando indirizzò i suoi studi verso la psicologia dell’Io come parte importante del problema delle relazioni tra gli oggetti, Freud sviluppò una teoria delle relazioni oggettuali che tentava di mantenere la teoria originale delle pulsioni considerando gli oggetti obiettivi della scarica, dell’inibizione o dell’agevolazione delle pulsioni. La mente è quindi un epifenomeno incapace di produrre qualcosa, forse nemmeno la rimozione, conclusione che distrugge completamente gli obiettivi della psicoanalisi.

La consapevolezza che persino le variazioni più ingegnose della rigorosa psicologia freudiana dell’Io non sono in grado di spiegare la formazione del simbolo (cioè del pensiero efficace) e sono di conseguenza inutili per giustificare la “guarigione per via verbale” ha portato alla sovrabbondanza di modelli di relazioni oggettuali. In tali modelli la teoria delle pulsioni viene inoltre modificata drasticamente o scartata direttamente da strutture concettuali nelle quali le relazioni con gli altri sono interpretate come elementi fondamentali della vita mentale. La grande importanza clinica delle relazioni oggettuali, che la teoria ortodossa non era riuscita a spiegare, è data dal fatto che rappresenta il principale tema concettuale della psicoanalisi dal 1919, con le prime opere di Melanie Klein, e si è delineata più chiaramente negli anni Quaranta con gli scritti di H. S. Sullivan e W. R. D. Fairbairn.

Tuttavia l’idea delle relazioni oggettuali, sebbene renda possibile rapporti umani significativi, grazie alla sua struttura diadica cartesiana rappresentata dalla relazione paziente-terapeuta e alla generale tendenza riduttiva al positivismo, si è dimostrata incapace di produrre la teoria del significato – “la formazione dei simboli” – richiesta dalle scoperte cliniche. Alcuni teorici indipendenti, come Jacques Lacan, hanno
linguistic psychoanalytic model, but these are the limited beginnings of a semiotic theory.

On the other hand, Peirce’s semiotic provides a well-conceived theory of thought-signs, which provides a broad and adequate basis for and development of symbol formation. For Peirce, the universal character of a sign is its triadicity. He holds this position in opposition to the many, originating with Ferdinand de Saussure, who believe that a sign can stand in an essentially dyadic relation, called its meaning, to its object. Peirce points out that this is a fundamental misconception of the nature of a sign because it overlooks that a sign can function only as an element in a working system of signs, which is triadic in nature.

According to Peirce, the irreducibly triadic property of the sign always has three elements: sign (first term), standing for object (second term) to interpretant (third element). Nevertheless, Peirce conceded that, for the sake of analysis, he would allow a sign to be treated only in its relation to the second term its object. Taken this way, signs are of three kinds: icons, indexes, and symbols. An icon is a sign whose particular way of signifying is by likeness; thus, an ape may serve as an icon of a human. An index signifies by means of an actual dynamic relation to its object. For example, a certain grimace indicates the presence of pain. A symbol is any artificial or conventional sign, so a rose is a symbol of love. Almost all words in a language are symbols in this sense. But neither icon, index, nor symbol actually functions as a sign until it is interpreted, unless semiosis, the action of signs, occurs. It is the fact of evolutionary kinship that makes the ape an icon of the man. Taken by itself, the similarity in appearance of the two beasts means nothing. The independent existence of the grimace and the pain are simply two brute facts, unless we add the doctor’s palpating the abdominal lower right quadrant looking for the possibility of appendicitis. And as for the symbol “A rose is a rose is a rose”, we may add “sometimes a cigar is just a cigar”.

Peirce’s idea of the interpretant requires a brief elucidation. We might think wrongly that Peirce intends the word to refer to a person or mind – an actual interpreter.
proposto un modello psicoanalitico basato sul linguaggio, ma si tratta solo di inizi circoscritti di una teoria semiotica.

La semiotica di Peirce, invece, propone una teoria dettagliata dei pensieri-segni, che dà una base ampia e adeguata per la teoria della formazione del simbolo e il suo sviluppo. Secondo Peirce, il carattere universale di un segno è il suo stato triadico. Peirce sostiene tale posizione opponendosi ai molti che, prendendo spunto da Ferdinand de Saussure, credono che un segno faccia parte di una relazione essenzialmente diadica con il suo oggetto, chiamata «significato». Peirce fa notare che si tratta di un fraintendimento della natura del segno perché trascura il dato fondamentale che un segno può funzionare solo come elemento in un sistema operativo di segni, che è di natura triadico.

Secondo Peirce, l’irriducibile proprietà triadica del segno ha sempre tre elementi: il segno (il primo termine), che sta per l’oggetto (il secondo termine) attraverso l’intepretante (il terzo termine). Ciò nonostante Peirce ammise che, per il bene dell’analisi, avrebbe permesso la riflessione sul segno solo in relazione al secondo termine, il suo oggetto. Secondo tale concezione, i segni sono di tre tipi: icone, indici e simboli. L’icona è un segno il cui atto di significazione avviene per somiglianza; perciò un gorilla può servire da icona per un umano. Un indice acquista significato attraverso un’effettiva relazione dinamica con il suo oggetto. Per esempio, una certa smorfia indica la presenza di dolore. Un simbolo è qualsiasi segno artificiale o convenzionale; così una rosa è simbolo d’amore. Quasi tutte le parole di una lingua in questo senso sono simboli. Ma né un’icona né un indice e neppure un simbolo funzionano davvero come segni se non vengono interpretati, se non avviene una semiosi, un’azione segnica. È l’evoluzione della consanguineità a fare del gorilla un’icona dell’uomo. Presa in sé, la somiglianza d’aspetto tra le due bestie non significa niente. Le esistenze indipendenti della smorfia e del dolore sono due semplici fatti spiacevoli, a meno che si aggiunga una palpazione del medico della parte addominale in basso a destra alla ricerca di una possibile appendicite. E come per il simbolo «a rose is a rose is a rose», si potrebbe aggiungere «a volte un sigaro è solo un sigaro».

L’idea dell’interpretante di Peirce richiede una breve delucidazione. Si potrebbe ritenere, erroneamente, che Peirce intendesse riferire la parola a una persona o a una
This is wrong because, in the first place, there are kinds of semiosis or sign action that do not involve what we usually mean by minds, such as the communication to be found in a beehive, where one bee is able, by means of signs, to show other bees exactly where nectar is to be found. But more important, this is an incorrect assumption because, as Peirce points out, we do not recognize that a sign has been interpreted by observing a mental action but by observing another sign. To give an example, a person points (index) up at the sky and his companion looks up (interpretant) to see the object of the sign. Someone else might call out, “What do you see up there?” which is also an interpretant of the original sign. For Peirce, any appropriate response to a sign is acting as another sign of the object originally signified. A sunflower following the sun across the sky with its face is also an interpretant. Peirce uses the word interpretant to stand for any such development of a given sign.

Freud often gives descriptions of analysis in which he recognizes the actions of signs without naming them as such or considering the possibility of a sign system. In one case of a hysterical patient, Elizabeth Von R., he writes:

 

The discovery of the reason for the first conversion opened a second, fruitful period of treatment. The patient surprised me soon afterwards by announcing that she now knew why it was that the pains [sign] always radiated from that particular area of her right thigh [object] and were their most painful there: it was in this place that her father used to rest his leg every morning, while she renewed the bandage around it, for it was badly swollen [interpretant]. This must have happened a good hundred times, yet she had not noticed the connection till now. In this way she gave me the explanation that I needed of the emergence of what was an atypical hysterogenic zone [second interpretant of the original sign]. Further, her painful legs began to “join in the conversation” [semiosis, the action of signs] during our analyses. [S. E. 2:148]

 

Here Freud is clearly aware of the semiotic character of analysis, in particular of its indexical form as symptom, but he develops this thought to further encompass the idea of what I will call therapeutic semiosis:


mente: un interprete reale. È falso perché, in primo luogo, ci sono tipi di semiosi o di azioni segniche che non implicano quello che normalmente intendiamo per «mente», come la comunicazione che avviene in un alveare, dove un’ape è in grado, attraverso segni, di mostrare alle altre api dove si trova esattamente il nettare. Ma, ancora più importante, è un presupposto erroneo perché, come sottolinea Peirce, non riconosciamo che un segno è stato interpretato osservando un’azione mentale, ma osservando un altro segno. Per fare un esempio, una persona indica (indice) il cielo e il suo amico guarda (interpretante) per vedere l’oggetto del segno. Qualcun altro può chiedere ad alta voce «Cosa vedi lassù?», che è quindi un altro interpretante del segno originale. Secondo Peirce qualsiasi reazione appropriata a un segno è agire come altro segno dell’oggetto originariamente significato. Un girasole che segue con la corolla il sole nella traiettoria in cielo è pure un interpretante. Peirce usa la parola «interpretant» per indicare qualsiasi consimile sviluppo di un dato segno.

Freud fa spesso descrizioni di analisi in cui riconosce le azioni dei segni senza però indicarli con tale nome e senza considerare la possibilità di un sistema di segni. A proposito del caso della paziente isterica Elizabeth Von R. scrive:

 

Con la scoperta del motivo della prima conversione iniziò un secondo periodo, fruttuoso, della cura. Anzitutto l’ammalata mi sorprese, poco dopo, annunciandomi di sapere ormai perché i dolori [segni] partissero sempre proprio da quel determinato punto della coscia destra [oggetto] e fossero lì più violenti. Era questo, infatti, proprio il punto in cui ogni mattina veniva poggiata la gamba del padre, mentre essa rinnovava le bende che avvolgevano la gamba tutta gonfia [interpretante]. Era una cosa che aveva dovuto prodursi un centinaio di volte ed era strano ch’essa fino a oggi non avesse pensato a questo nesso. Mi fornì in tal modo l’attesa spiegazione del formarsi di una zona isterogena atipica [secondo interpretante del segno originale]. Inoltre le gambe dolenti cominciarono regolarmente nelle nostre analisi a “partecipare al discorso” [semiosi, l’azione segnica] (Freud 1984: 302).

 

Qui Freud è chiaramente consapevole del carattere semiotico dell’analisi, in particolare della forma indicale del sintomo, ma sviluppa tale pensiero per delucidare l’idea che chiamerò «semiosi terapeutica»:


What I have in mind is the following remarkable fact. As a rule the patient was free from pain when we started work. If, then, by a question or by pressure upon her head I called up a memory, a sensation of pain would make its first appearance, and was usually so sharp that the patient would give a start and put her hand to the painful spot. The pain that was thus aroused would persist so long as she was under the influence of the memory; it would reach a climax when she was in the act of telling me the essential and decisive part of what she had to communicate, and with the last word of this it would disappear. I came in time to see such pains as a compass to guide me; if she stopped talking but admitted that she still had a pain, I knew that she had not told me everything, and insisted on her continuing her story till the pain had been talked away. Not until then did I arouse a fresh memory. [148]

 

In this passage, the sing is pain, the object is memory, and the interpretant is the therapeutic dialogue between the analyst and patient leading to subsequent semiosis, ending only when the original sign becomes an interpretant and the therapy is complete.

I have only mentioned in passing Peirce’s doctrine of universal categories, which underlies his theory of signs and which can be shown to provide a means toward the development of a theory of the unconscious as a system of signs and to account for the development of self-consciousness. This brief and incomplete outline will serve to introduce the man and his thought, so that the essays in this volume may be understood within a framework of connected ideas – the structure of Peirce’s architectonic philosophy of inquiry and the problems associated with orthodox psychoanalytic theory.

 

 

References

 

I use the conventional designations to refer to Peirce’s works: CP 1.1 means Collected Papers, volume one, paragraph one; MS and MSL, followed by a number means the manuscript or manuscript letter as identified in Robin’s Annotated Catalogue, cited below.


Intendo riferirmi alla strana circostanza seguente: di solito l’ammalata, all’inizio del nostro lavoro, era libera dal dolore; quando invece con una domanda o con una pressione sul capo provocavo un ricordo, si faceva subito notare una sensazione dolorosa, per lo più con tale vivacità da far sussultare l’ammalata e da farle portar la mano sul punto dolente. Il dolore in tal modo destato permaneva per tutto il tempo durante il quale la malata era dominata dal ricordo, raggiungeva il suo culmine quando stava per pronunciare la parte essenziale e decisiva della sua comunicazione, e scompariva con le ultime parole della comunicazione stessa. Gradualmente appresi a utilizzare questo dolore risvegliato come una bussola; quando essa taceva ma ammetteva di sentire ancora dolori, sapevo che non aveva detto tutto e insistevo per la continuazione della confessione sino a che il dolore non fosse trascinato via dalle parole. Soltanto allora risvegliavo un nuovo ricordo (Freud 1984: 302).

 

In questo passo il segno è il dolore, l’oggetto è la memoria e l’interpretante è il dialogo terapeutico tra l’analista e il paziente che porta a semiosi successive, che finiscono solo quando il segno originale diventa un interpretante e la terapia è completa.

Ho citato solo di passaggio la dottrina delle categorie universali di Peirce, che sta alla base della sua teoria dei segni e che, come si può mostrare, è un mezzo per lo sviluppo della teoria dell’inconscio come sistema di segni e spiega lo sviluppo dell’autocoscienza. Questo abbozzo breve e incompleto serve a introdurre l’uomo e il suo pensiero, così che i saggi contenuti in questo volume possano essere capiti all’interno di una cornice di idee connesse tra loro: la struttura della filosofia architettonica dell’indagine di Peirce e i problemi associati alla teoria psicoanalitica ortodossa.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Per riferirmi alle opere di Peirce uso le sigle convenzionali: CP 1.1 significa Collected Papers, volume uno, paragrafo uno; MS o MSL seguiti da un numero indicano il manoscritto o la lettera manoscritta come indicato nell’Annotated Catalogue di Richard S. Robin citato qui di seguito.


Brent, Joseph. Charles Sanders Peirce: A life. Bloomington: Indiana University Press, 1993.

Descartes, René. René Descartes: Discourse on Method, Optics, Geometry, Meteorology. Translated by Paul J. Olscamp. Indianapolis: Bobbs-Merrill, 1965.

Fairbairn, W.R.D. An Object Relations Theory of the Personality. New York: Basic Books, 1954.

Freud, Sigmund. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. Edited and translated by James Strachey. 24 vols. London: Hogarth, 1953-74.

Gallie, W.B. Peirce and Pragmatism. Harmonsdsworth: Penguin Books, 1952.

Geshwind, N., and Galaburda, A. M. Cerebral Lateralization: Biological Mechanisms, Associations and Pathology. Cambridge: MIT Press, 1987.

Goodwin, F. K., and Jamison, K. R. Manic-Depressive Illness. New York: Oxford University Press, 1990.

Grattan-Guinness, Ivor. “Beyond Categories: The Lives and Works of Charles Sanders Peirce”. Annals of Science 51 (1994): 531-38.

Jamison, Kay Redfield. Touched with Fire: Manic-Depressive Illness and the Artistic Temperament. New York: Free Press, 1993.

Kant, Immanuel. The Critique of Judgment. Translated by J.C. Meredith. Oxford: Oxford University Press, 1952.

Lacan Jacques. The Four Fundamental Concepts of Psycho-analysis. New York: Norton, 1978.

Murphey, Murray. Review of Charles Sanders Peirce: A Life, by Joseph Brent. Transactions of the Charles S. Peirce Society 29 (1993): 723-28.

Peirce, Charles Sanders. Collected Papers of Charles Sanders Peirce. Edited by Charles Hartshorne, Paul Weiss, and Arthur W. Burks. 8 vols. Cambridge: Harvard University Press, 1931-58.

. Draft letter to Calderoni, late 1905. in “Peirce and the Florentine Pragmatists: His letter to Calderoni and a new edition of his writings”, by M. Fisch, and C.J. Kloesel. Topoi 1 (1982): 68-73.

. Letter to Alice James, February 12, 1902. William James Collection. Houghton Library, Harvard University, Cambridge.


Bonfantini, Massimo A. e Prani, Giampaolo, Opere di Charles Sanders Peirce, Milano, Bompiani, 2003

Brent, Joseph. Charles Sanders Peirce: A life. Bloomington: Indiana University Press, 1993.

Descartes, René. Discorso sul metodo. Traduzione di Maria Garin, introduzione di Tullio Gregory, Bari-Roma, Laterza, 2005.

Fairbairn, W.R.D. An Object Relations Theory of the Personality. New York: Basic Books, 1954. Studi psicoanalitici sulla personalità, traduzione di Alda Bencini Bariatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

Freud, Sigmund. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. A cura di James Strachey. 24 volumi. London: Hogarth, 1953-74.

Freud, Sigmund. Opere, a cura di Cesare Musatti, Torino, Boringhieri, 1984.

Gallie, W.B. Peirce and Pragmatism. Harmonsdsworth: Penguin Books, 1952. Introduzione a Peirce e il pragmatismo, traduzione di Roberto Tettucci, Firenze, Universitaria G. Barbera, 1965.

Geshwind, N., Galaburda, A. M. Cerebral Lateralization: Biological Mechanisms, Associations and Pathology. Cambridge (Massachusetts): MIT Press, 1987.

Goodwin, F. K., Jamison, K. R. Manic-Depressive Illness. New York: Oxford University Press, 1990. Malattia maniaco-depressiva, edizione italiana a cura di A. Carlo Altamura, Milano, McGraw-Hill Italia, 1994.

Grattan-Guinness, Ivor. “Beyond Categories: The Lives and Works of Charles Sanders Peirce”. Annals of Science 51 (1994): 531-38.

Jamison, Kay Redfield. Touched with Fire: Manic-Depressive Illness and the Artistic Temperament. New York: Free Press, 1993. Toccato dal fuoco: Temperamento artistico e depressione, prefazione di Giovanni B. Cassano, traduzione Antonio Serra, Milano, Longanesi, 1994.

Kant, Immanuel. Critica del giudizio, Roma-Bari, Laterza, 1997.

Lacan Jacques. Il seminario: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, testo stabilito da Jacques Alain Miller, Torino, Einaudi, 1974.

Murphey, Murray. Review of Charles Sanders Peirce: A Life, by Joseph Brent. Transactions of the Charles S. Peirce Society 29 (1993): 723-28.


Robin, Richard S. Annotated Catalogue of the Papers of Charles S. Peirce. Amherst: University of Massachusetts Press, 1967.

Saussure, Ferdinand de. Course in General Linguistics. Translated by Roy Harris. La Salle, Ill.: Open Court Press, 1986.

Segal, H. Introduction to the Works of Melanie Klein. 2d ed. London: Hogarth Press and Institute of Psychoanalysis, 1973.

Sergeant, Mrs. John T., ed., Sketches and Reminiscences of the Radical Club. Boston: James Osgood, 1880.

Sullivan, H.S. Clinical Studies in Psychiatry. New York: W.W. Norton, 1973.

Vacherot, Etienne. La Metaphysique et La science. Paris, 1858.

Whately, Richard. Elements of Logic: Comprising the Substance of the Articles in the Encyclopedia Metropolitana. London: J. Mawman, 1926.


Peirce, Charles Sanders. Collected Papers of Charles Sanders Peirce, a cura di Charles Hartshorne, Paul Weiss, e Arthur W. Burks. 8 volumi. Cambridge (Massachusetts): Harvard University Press, 1931-58.

. Bozza di lettera a Calderoni, fine 1905, contenuta ne“Peirce and the Florentine Pragmatists: His letter to Calderoni and a new edition of his writings”, di M. Fisch, e C.J. Kloesel. Topoi 1 (1982): 68-73.

. Lettera ad Alice James, 12 febbraio 1902. William James Collection. Houghton Library, Harvard University, Cambridge (Massachusetts).

Robin, Richard S. Annotated Catalogue of the Papers of Charles S. Peirce. Amherst: University of Massachusetts Press, 1967.

Saussure, Ferdinand de. Corso di linguistica generale, introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 1985.

Segal, H. Introduction to the Works of Melanie Klein. seconda edizione. London: Hogarth Press e Institute of Psychoanalysis, 1973. Introduzione all’opera di Melanie Klein, traduzione e presentazione di Eugenio Gaddini, Firenze, Martinelli, 1990.

Sergeant, Mrs. John T., a cura di, Sketches and Reminiscences of the Radical Club. Boston: James Osgood, 1880.

Sullivan, H.S. Clinical Studies in Psychiatry. New York: W.W. Norton, 1973. Studi clinici, Milano, Feltrinelli, 1976.

Vacherot, Etienne. La Metaphysique et La science. Paris, 1858.

Whately, Richard. Elements of Logic: Comprising the Substance of the Articles in the Encyclopedia Metropolitana. London, Mawman, 1926.

 

 


 

Postfazione


Analisi testuale del prototesto

Il testo scelto come tesi del biennio di specializzazione in traduzione letteraria è un saggio tratto dalla raccolta intitolata Peirce, Semiotics, and Psychoanalysis edita da The Johns Hopkins University Press nel 2000 a cura di John Muller e Joseph Brent. La raccolta contiene in totale dieci saggi: A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce di Joseph Brent; Peircean Reflections on Psychotic Discourse di James Phillips; Protolinguistic Phenomena in Psychoanalysis di John E. Gedo; Hierarchical Models in Semiotics and Psychoanalysis di John Muller; Feeling and Firstness in Freud and Peirce di Joseph H. Smith; Peirce and Freud: The Role of Telling the Truth in Therapeutic Speech di Wilfried Ver Eecke; Peirce and Psychopragmatics: Semiosis and Performativity di Angela Moorjani; Peirce and Derrida: From Sign to Sign di David Pettigrew; Further Consequences of a Singular Capacity di Vincent Colapietro; Gender, Body, and Habit Change di Teresa de Lauretis. Il testo scelto per la traduzione è il primo saggio introduttivo dal titolo A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce scritto da Joseph Brent.

 

Presentazione dell’autore

L’autore del saggio è lo studioso Joseph Brent, docente al Dipartimento di Storia della University of California, Los Angeles. Il suo interesse per Charles Sanders Peirce iniziò alla fine di giugno del 1958 quando si recò a Cambridge per consultare la raccolta dei libri di Peirce, che ammontano a circa 12.000 volumi, contenuta nella Widener Library. Contemporaneamente cominciò a raccogliere informazioni su questo grande erudito a diverse persone legate alla Harvard University, l’università in cui Peirce aveva ottenuto la laurea. Brent scrive a proposito di questi incontri: «What I discovered astonished me. Most of those I questioned thought of Peirce as an eccentric and debauched genius who was a rich source of unrelated and unformed ideas, significant, if at all, only for having thought of the bright glimmer of ideas like pragmatism […]». Molte tra queste persone menzionarono alcuni comportamenti ritenuti deprecabili di Peirce, nonostante la sua riconosciuta mente geniale. Brent riassume le varie dicerie sul suo conto:

 

Did I know that he was a drunkard, a drug addict, a homosexual, a libertine who had died of syphilis; that he was an atheist who had married the granddaughter of an esteemed Episcopal bishop, who fled him when he tried to seduce her into sexual perversion; that he then had a long adulterous affair with a French whore, whom he married for her money; that he had several bastard children by several women, one a Negress? (Brent 1996: par. 8)

 

Pochi tra loro manifestarono interesse per il progetto di Joseph Brent di scrivere una biografia di Peirce. I più erano preoccupati per un possibile attacco alla reputazione della Harvard University. Del resto il cognome Peirce è fortemente legato a tale università: Charles Peirce si laureò lì nel 1859, il padre Benjamin fu un eminente docente di matematica e astronomia alla Harvard University e il nonno di Charles Peirce fu il primo bibliotecario dell’università e il primo a scrivere la storia della Harvard University.

Brent rimase comunque convinto della genialità di Peirce e continuò le ricerche. Entrò a far parte della Charles S. Peirce Society, fondata nel 1946 da Frederic H. Young. Entrò inoltre in contatto con vari studiosi di Peirce per raccogliere le informazioni più ampie. Attraverso queste fonti, Brent venne a conoscenza del fatto che la Harvard University aveva ristretto l’accesso ai manoscritti biografici di Peirce in suo possesso. L’unico libro che raccogliesse la vita e le idee di Peirce era fino a quel momento The Development of Peirce’s Philosophy dello studioso Murray Murphey pubblicato nel 1961. La censura della Harvard University finì solo nel 1991, e solo dopo quella data Brent ebbe accesso ai manoscritti di Peirce, trentuno anni dopo che Brent ebbe completato la sua dissertazione su Peirce:

 

Then, in 1990, entirely unexpectedly, long after I had moved into other fields of interest and had given up on the biography, Thomas A. Sebeok, a distinguished semiotician, linguist and Peirce scholar (who is not an academic philosopher), found my dissertation and asked me to revise it for publication, including in my text, where I thought it appropriate, the results of Peirce scholarship since 1960. In December, 1991, at the request of Indiana University Press, the Harvard philosophers, who could no longer find sufficient reason to deny it, gave me permission to publish selections from their Peirce Collection. In January, 1993, the Press published my biography and Houser, the new director of the Project, allowed me to study the restricted papers, which I had vainly asked to see thirty-five years before […] (Brent 1996: par. 32).

 

Brent pubblicò la sua biografia di Peirce nel 1993 col titolo Charles Sanders Peirce: A Life.

I manoscritti biografici di Peirce sono ora aperti allo studio e alle analisi degli studiosi.

 

Biografia di Charles Sanders Peirce

Il saggio A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce tratta la vita e il pensiero dello studioso americano Charles Sanders Peirce, il quale nacque il 10 settembre 1857 a Cambridge nel Massachusetts e morì il 19 aprile 1914 a Milford in Pennsylvania. Suo padre, Benjamin Peirce, fu docente di matematica alla Harvard University e fu uno dei fondatori dello United States Coast Survey. Il padre fu per Peirce una figura essenziale; Benjamin Peirce si occupò infatti personalmente dell’educazione e della formazione del figlio. Peirce si laureò alla Harvard University nel 1859 e in quello stesso anno iniziò a lavorare allo United States Coast Survey. Vi lavorò fino al 1891. Dal 1879 al 1884 Peirce insegnò logica al Dipartimento di matematica della Johns Hopkins University. Rimase comunque una collaborazione temporanea perché non riuscì mai a ottenere la cattedra universitaria di logica. Ottenne incarichi temporanei oltre alla Johns Hopkins University di Baltimora anche al Lowell Institute di Boston e alla stessa Harvard University. La collaborazione con le università si concluse presto a causa dei comportamenti giudicati immorali di Peirce. Non gli rimase che il lavoro allo United States Coast Survey che però terminò nel 1891. Per il resto della sua vita Peirce si dedicò a lavori di consulenza (principalmente in ingegneria chimica) e si ritrovò spesse volte in grave crisi finanziaria. Essenziale fu l’aiuto anche economico dei parenti e degli amici che lo sostennero fino alla morte.

Durante la sua vita non riuscì mai a pubblicare un libro; l’unica opera che riuscì a portare a termine fu La grande logica che rimase comunque inedita. Fu molto prolifico e i suoi articoli pubblicati ammontano a circa 12.000 pagine. Lasciò inoltre un’immensa mole di manoscritti, circa 80.000 pagine che, dopo la sua morte, la vedova Juliette, sua seconda moglie, vendette al Dipartimento di filosofia della Harvard University.

 

Tesi del saggio

Nel suo saggio Joseph Brent si pone l’obiettivo di diffondere il pensiero di Charles Sanders Peirce illustrandone la vita e i punti cardine della filosogia. Brent analizza la figura di Peirce dal punto di vista sia biografico che scientifico. Nel raccontare gli episodi spesso deplorevoli della sua vita, Brent vuole ricordare al lettore come mai una figura così importante del pensiero americano sia stata ignorata per quasi un secolo. Per quanto riguarda l’analisi delle sue teorie innovative, l’autore pone l’accento sull’importanza che le idee di Peirce hanno non solo a livello generale per la scienza, ma anche la loro applicazione nel campo della psicoanalisi.

Il saggio di Brent aiuta il lettore a comprendere a fondo il personaggio storico di Peirce e le sue idee. Dà al lettore una chiave di lettura degli altri saggi della raccolta.

 

Struttura del saggio

Joseph Brent divide il saggio essenzialmente in due parti. Nella prima parte presenta la vita di Charles Sanders Peirce rivelando elementi poco conosciuti della sua esistenza. Parte da una citazione di Grattan-Guinness che non è altro che un elenco di attività o di caratteristiche della personalità di Peirce. Caratteristiche che sono sia positive, le quali accentuano la genialità della persona, sia negative, come ad esempio «subject of police inquiries» o «unfaithful husband». Questa parte dedicata alla biografia di Peirce non si sofferma sulle tappe della sua esistenza, ma ha lo scopo di spiegare l’assenza di tale studioso dalla storia del pensiero americano. L’autore infatti è fortemente critico nei confronti della Harvard University, la quale, sostiene Brent, abbia censurato gli scritti di Peirce dei quali è detentrice. Più precisamente il proprietario degli scritti di Peirce è il Dipartimento di Filosofia della Harvard University, la quale ha permesso l’accesso agli scritti di Peirce solo nel 1991 permettendo così a Brent di scrivere la biografia di Peirce pubblicata nel 1993 col titolo Charles Sanders Peirce: A Life. Questa avversione dell’ambiente universitario americano nei confronti di Peirce si spiega con i comportamenti considerati all’epoca deplorevoli che caratterizzarono la sua vita.

Brent ipotizza nel saggio che lo studioso americano fosse affetto da tre patologie neurologiche. La prima malattia che l’autore analizza è la nevralgia del trigemino i cui primi sintomi si manifestarono in Peirce durante gli anni dell’adolescenza. Per «nevralgia del trigemino» s’intende quella malattia che si manifesta attraverso dolori repentini e intensi al viso. L’insorgenza dei dolori è improvvisa e impedisce qualsiasi utile reazione. Il malato non ha mezzi di contrasto e rimane impotente di fronte al dolore. Gli attacchi possono avere una durata variabile e, come nel caso di Peirce, possono durare giorni o perfino settimane. Numerose sono le conseguenze di tale malattia, a causa della quale il paziente si isola sempre più dai contatti sociali e dal lavoro; può perder peso per rifiuto di masticare e ridursi in uno stato di grave denutrizione e depressione.

La seconda malattia che Peirce manifestò in vita e i cui primi sintomi iniziarono quando aveva circa vent’anni è il disturbo bipolare. Con «disturbo bipolare», altrimenti detto psicosi maniaco-depressiva, ci si riferisce a quella patologia nella quale i normali stati dell’umore, tristezza e felicità, si presentano ciclicamente amplificati e alternati a periodi di normalità. La malattia è composta da due fasi alterne: la fase depressiva e quella maniacale. Nella fase depressiva la normale tristezza si trasforma in depressione acuta e la fatica in grande stanchezza; si soffre di insonnia o ipersonnia (aumento del sonno) e la concentrazione diventa difficile e i pensieri e le parole si fanno più lenti. Come nel caso di Peirce, si possono manifestare anche istinti suicidi. Nella fase maniacale la normale felicità diventa euforia, con ottimismo eccessivo, espansività delle idee e delle azioni ed estrema irritabilità. Nella fase maniacale l’impulsività è molto accentuata e il malato può prendere decisioni spesso avventate, può essere portato per esempio a spendere in modo incontrollato o ad avere comportamenti sessuali insoliti, come spiega Brent nel suo saggio.

La terza patologia di cui Peirce soffrì e che egli stesso analizzò nei suoi scritti è legata al suo modo di pensare e al funzionamento del cervello. Peirce infatti ipotizzò che la struttura del suo cervello differisse dalla normalità. Peirce ritenne che questa differenza a livello cerebrale fosse la causa del suo mancinismo e del suo modo di pensare non linguistico ma diagrammatico. Questo disturbo rese difficile per Peirce qualsiasi espressione linguistica e del ragionamento.

Dopo l’analisi delle patologie che caratterizzarono la vita di Peirce, Brent presenta altri tre elementi che influenzarono lo studioso nel corso della sua esistenza. Il primo elemento è il padre: Benjamin Peirce. Benjamin Peirce nacque il 4 aprile 1809 e morì il 6 ottobre 1880 e fu un importante matematico americano. Insegnò alla Harvard University per quarant’anni. Come spiega Brent nel saggio, Benjamin Peirce fu un padre molto presente nella vita del figlio. Consapevole delle potenzialità di Charles, cercò di fornirgli gli stimoli giusti per allenare la sua mente geniale. Si preoccupò della sua formazione scolastica preferendo ai programmi convenzionali gli scritti di grandi filosofi e affidando al figlio il compito di risalire da solo alle dimostrazioni dei teoremi matematici.

Benjamin Peirce ebbe una grande influenza non solo sull’educazione del figlio ma anche sulla sua salute. Il padre era anch’egli affetto da una grave malattia: il morbo di Bright. Con il termine «morbo di Bright» si indica quella patologia, anche chiamata «glomerulonefrite acuta», che colpisce i reni. Si tratta di un’infiammazione dei reni che provoca una riduzione della quantità di urina, la formazione di edemi, cioè un aumento dell’acqua contenuta nei tessuti, e l’aumento della pressione sanguigna. Se non viene curata può portare all’anemia e alla morte. Benjamin Peirce soffriva di tale malattia in forma cronica e per contrastare il forte dolore faceva uso di oppio e altre droghe. Ben consapevole dei dolori di cui soffriva anche il figlio, Benjamin indusse fin da subito Charles a fare grande uso di droghe come palliativi per il forte dolore.

Un altro elemento che Brent ci presenta e che caratterizzò la vita di Charles Peirce è la sua ossessione per la logica. Questa passione, ci spiega Brent, nacque in Peirce quando lesse il libro Elements of Logic dell’arcivescovo Richard Whately. La logica rimase come elemento costante della sua vita e del suo pensiero. Infatti Peirce basò la sua teoria dell’indagine sulla logica.

Il terzo elemento che Brent analizza è la religione e la sua influenza sulla vita di Peirce. Charles Peirce non manifestò fin da subito un interesse per la religione, anzi da giovane dichiarò apertamente il suo ateismo. Da adulto però si riavvicinò alla religione ed entrò a far parte della chiesa episcopale con il suo primo matrimonio. Evento più importante della sua vita fu però l’esperienza mistica che racconta nei suoi scritti, avvenuta nel 1892 all’età di cinquantatré anni e che nel saggio Brent lascia raccontare proprio a Peirce inserendo ciò che scrisse nei suoi manoscritti.

Con il resoconto dell’esperienza religiosa di Peirce, termina la prima parte del saggio dedicata alla vita di questo studioso americano. Inizia quindi la seconda parte che Brent dedica alle importanti “scoperte” di Peirce che lo rendono, secondo lo stesso autore, uno dei più importanti pensatori americani. È in questa parte che l’autore sviluppa la sua tesi secondo la quale il pensiero di Peirce può essere di grande rilevanza per lo sviluppo della teoria psicoanalitica. L’autore parte introducendo la teoria dell’indagine di Peirce, secondo la quale ogni ragionamento e percezione del mondo avviene per mezzo di tre tipi di inferenza: deduzione, induzione e ipotesi o abduzione. Le prime due vengono spiegate brevemente perché non fanno parte della grande innovazione di Peirce; Brent si sofferma invece sulla terza: l’ipotesi o, come Peirce la chiamava, «abduction» [abduzione]. L’ipotesi o abduzione è l’unica tra le tre forme di inferenza che aggiunge elementi nuovi alla conoscenza e che la fa progredire. Il procedimento abduttivo è del tutto sperimentale, non segue un ragionamento analitico o sintetico, come per la deduzione e l’induzione. L’abduzione si limita a dire che qualcosa può essere.

Peirce applica l’abduzione a qualsiasi tipo di ragionamento e sottolinea che qualsiasi tipo di processo mentale segue sempre lo stesso schema e cioè l’interazione dei tre tipi d’inferenza. Questa interazione segue le abitudini dell’inferenza che Peirce sostiene si dividano in tre forme. La prima è il ragionamento vero e proprio, dove le inferenze sono del tutto consapevoli e seguono una logica prestabilita. È il ragionamento di uno scienziato. La seconda è il ragionamento «acritical», come lo definiva Peirce, dove non vengono specificate le premesse o una vera e propria tesi. È il ragionamento che qualsiasi individuo attua nella vita di tutti i giorni. Infine la terza è il ragionamento inconscio e non soggetto a una logica critica. S’identifica principalmente con le percezioni, per esempio del colore o della forma o quelle spazio-temporali.

Dopo aver spiegato la teoria dell’indagine di Peirce, Brent procede nel saggio con il confronto, più volte ostentato da Peirce nei suoi scritti, con il cartesianismo. Introduce così un’altra grande innovazione apportata da Peirce al pensiero scientifico: la semiosi o azione segnica. Cartesio affermava che la conoscenza era essenzialmente diretta e diadica, esisteva cioè un rapporto bilaterale tra la mente e il fatto conosciuto. Peirce afferma invece che la conoscenza si basi su una struttura triadica e richiede quindi la presenza di tre elementi: il segno, l’interpretante e l’oggetto. Il primo termine, il segno, indica qualsiasi percezione che suscita un’interpretazione. Qualsiasi segno produce un pensiero che interpreta il segno; si ha dunque il secondo termine, l’interpretante. Parlando di interpretante non bisogna però pensare a un individuo. Si indica con tale termine qualsiasi sviluppo del segno dato. Il terzo termine, l’oggetto, è ciò a cui l’interpretante rimanda in relazione al segno originale. Secondo la relazione segno-oggetto, esistono tre tipi di segni: le icone, il cui atto di significazione avviene attraverso la somiglianza, gli indici, che acquistano significato per mezzo di una relazione dinamica con l’oggetto, e infine i simboli, che sono i segni convenzionali.

Un chiarimento è però d’obbligo. Nel saggio, Brent sembra rivendicare una certa opposizione di Peirce verso Ferdinand de Saussure, il quale riteneva che la relazione tra segno e oggetto fosse diadica e non triadica come afferma invece Peirce. Tale opposizione alle idee di Saussure è però impensabile da parte di Peirce poiché i due non entrarono mai in contatto e non lessero mai i rispettivi scritti. Peirce pertanto non poteva conoscere il pensiero di Saussure. La sua rivendicazione di una relazione triadica in contrapposizione con quella diadica si rivolge invece a Cartesio, come lo stesso Brent aveva spiegato in precedenza nel saggio. Cartesio infatti aveva già parlato di una relazione diadica tra segno e oggetto.

Nel corso dell’analisi e come conclusione del saggio, Brent applica l’azione segnica o semiosi alla psicoanalisi, spiegando come già Freud procedesse nel suo lavoro attraverso un processo semiotico. Brent individua negli scritti di Freud relativi a un caso di isteria da lui curato, quello di Elizabeth Von R., i tre termini della semiosi e cioè il segno, l’oggetto e l’interpretante. Brent individua nel dolore della donna il segno, il punto in cui prova dolore è l’oggetto e l’interpretante è il motivo per cui il dolore si produce sempre in quel determinato punto. Nel caso di Elizabeth Von R., l’interpretante è il ricordo di quando suo padre ogni mattina appoggiava la gamba sulla sua coscia mentre lei gli cambiava la benda della ferita. Secondo Brent, Freud è consapevole del carattere semiotico della sua analisi. Inoltre Brent sostiene che dal primo segno nasca una seconda semiosi che egli chiama «semiosi terapeutica» dove il segno è il dolore, l’oggetto la memoria e l’interpretante il dialogo tra l’analista e il paziente. Da questa semiosi ne nasce un’altra e un’altra ancora finché il segno originale non diventa interpretante e quindi la terapia arriva alla conclusione.

Dopo aver presentato alcuni dettagli biografici di Peirce e alcune delle teorie fondamentali da lui proposte, Brent termina il saggio rivolgendosi direttamente al lettore, come ha ripetuto più volte durante il saggio, sottolineando il carattere introduttivo del suo scritto. Il suo saggio ha lo scopo di presentare una panoramica delle idee di Peirce e la loro applicazione alla teoria psicoanalitica, tema che verrà poi affrontata dai singoli saggi presenti nella raccolta.

Al termine del saggio e prima dei riferimenti bibliografici, l’autore dà al lettore una breve spiegazione delle sigle da lui usate all’interno del saggio. Sono sigle che indicano convenzionalmente gli scritti di Peirce così come sono catalogati. Secondo questa convenzione per CP si intendono i Collected Papers e con la sigla MS o MSL i manoscritti o le lettere manoscritte di Peirce.

Le due parti in cui si divide il saggio, quella che narra la vita di Peirce e quella che ne racconta le idee, seguono regole narratologiche differenti proprio per la diversità nello scopo che l’autore si è prefisso nelle due fasi del saggio. Nella prima parte il racconto segue una struttura più romanzata in cui l’autore presenta attraverso una serie di analessi o flashback gli avvenimenti salienti che hanno caratterizzato la vita di Peirce. Ritorna quindi al rapporto con il padre Benjamin e racconta aneddoti sul suo modello educativo spesso opprimente: «Benjamin concentrated his demanding regimen in [mathematics], sometimes forcing Charles to play continuous games of double dummy whilst through the night, while he criticized every error and its nature. Benjamin rarely provided young Charles with a theorem in mathematics, instead giving him examples or outcomes and requiring him to work out the mathematical principles for himself by the use of diagrams alone».

Oltre al rapporto col padre che ha un ruolo saliente nel racconto biografico, Brent si sofferma anche sul rapporto tra Peirce e la religione. Anche qui torna indietro nel tempo con un’analessi ma in questo caso lascia spazio alle parole di Peirce contenute nei manoscritti, nei quali racconta la sua esperienza mistica avvenuta nel 1892 all’età di cinquant’anni nella chiesa episcopale St. Thomas a New York.

La seconda parte del saggio, dedicata all’esposizione delle principali idee di Peirce, segue un altro schema narrativo. Se prima il tempo verbale più usato era il passato, ora Brent attualizza l’analisi del pensiero di Peirce ricorrendo, nella maggior parte dei casi, al presente. L’uso di questo tempo verbale rende ancora più attuali le idee innovative di Peirce nonostante risalgano a circa un secolo fa. Nella seconda parte Brent usa il passato solo nel presentare il pensiero di Cartesio in contrapposizione a quello di Peirce.

Nel saggio è molto importante il rapporto con il lettore. L’autore del saggio predilige un contatto diretto con il lettore piuttosto che una narrazione impersonale. Lo dimostra l’uso del pronome «I» nel testo originale: «Germane to the subject of this volume, I add experimental psychology and psychology of the conscious and unconscious mind and of the self and self-consciousness» o nell’introduzione alla seconda parte del saggio «[…] I will now provide an introduction to what is a thoroughly American foundation for a very different way of looking at human psychology, beginning with pragmatism, his theory of inquiry». Un altro elemento che dimostra questa presenza dell’autore è l’aggettivo «my»: «Before December 1991, when the department ended censorship of its biographical Peirce material by permitting publication of my biography […]». Qui Brent si riferisce alla pubblicazione della sua biografia su Peirce apparsa nel 1993 dal titolo Charles Sanders Peirce: A Life.

 

Il linguaggio

Il linguaggio utilizzato da un autore dipende fortemente dal tipo di lettore che l’autore si è prefissato durante lo svolgimento del suo lavoro. Il saggio scritto da Joseph Brent dal titolo A Brief Introduction to the Life and Thought of Charles Sanders Peirce è il testo introduttivo alla raccolta di saggi dal titolo Peirce, Semiotics, and Psychoanalysis edita dalla The Johns Hopkins University Press e i diritti della raccolta sono in possesso del Forum on Psychiatry and the Humanities. Si tratta quindi di una pubblicazione specialistica riservata a un pubblico ristretto, molto competente in materie quali psicologia, psicoanalisi e semiotica.

Joseph Brent usa un linguaggio specialistico dando per scontati molti concetti, consapevole della competenza del lettore del suo saggio. I termini settoriali sono molti, principalmente legati alla psicoanalisi e alla medicina. Brent parla di nevralgia del trigemino, di disturbo bipolare e di morbo di Bright. Li introduce nel testo senza fornire una spiegazione del loro significato. In questo caso la spiegazione sarebbe stata superflua visto che il pubblico di destinazione del saggio ha uno spettro di conoscenze che ingloba la medicina ed è sicuramente a conoscenza del significato di tali parole.

I termini medici non sono gli unici a comparire nel testo senza un inciso esplicativo. Brent introduce concetti di psicoanalisi e di semiotica. Parla per esempio di «modo di pensare diagrammatico e non linguistico», di deduzione induzione e abduzione.

La lingua usata da Brent non è di immediata comprensione, non solo per i termini specialistici, ma anche per una sintassi ricca di subordinate. A una complessità dei concetti corrisponde quindi una complessità del linguaggio. Brent fa ampio uso di “connettori” come while, despite e nor. Riccorre molto spesso alla forma -ing preceduta da by. Es.: «by permitting publication of my biography», «by using […] the three types of inference», «by denying that we have direct intuitive knowledge», «by showing how bodily functions generate the energy».

Nel saggio Brent ricorre spesso alle citazioni. Le concentra principalmente sui Collected Papers di Peirce e sui suoi manoscritti, per dare spazio alle parole del pragmatico stesso, tema del suo saggio. Poiché le citazioni sono tante, il loro stile e linguaggio meritano una certa considerazione e analisi. Peirce è vissuto a cavallo tra il xix e il xx secolo; il suo inglese rispecchia quindi la lingua del tempo. Anche il suo linguaggio non è di facile comprensione. La sintassi è ipotattica, ricca di subordinate; le frasi sono lunghe.

 

I may mention as a reason why I do not offer to put my gratitude for the bounty granted to me into some form of church work, that which seemed to call me today seemed to promise me that I should bear a cross like death for the Master’s sake, and he would give me strength to bear it (Brent 2000: 6).

 

La frase qui sopra è un esempio del linguaggio di Peirce. La frase è molto lunga, si estende su tre righe e la sola forma di punteggiatura è la virgola.

Nell’ultima parte del saggio Brent, affrontando il tema dell’applicazione della teoria semiotica di Peirce in psicoanalisi, inserisce due citazioni di Freud. Anche qui la sintassi è ipotattica, le frasi lunghe e spezzate solo da virgole o punti e virgola.


Analisi traduttologica dell’originale

 

Il lettore modello

L’autore, Joseph Brent, nello scrivere il saggio si è immaginato il possibile lettore del suo testo. Si instaura tra autore e lettore una cooperazione testuale. Perché la cooperazione testuale avvenga in modo corretto, il lettore reale o empirico deve rispecchiare il lettore immaginato dall’autore reale, o autore empirico. Tale lettore immaginato o lettore modello influenza le scelte dell’autore il quale, a seconda delle caratteristiche del lettore modello, sceglierà quali elementi lasciare impliciti e quali invece spiegare nel testo.

Il saggio di Joseph Brent si rivolge a un lettore modello colto, studente o studioso di psicoanalisi e semiotica. Infatti Brent introduce concetti legati alla medicina psicoanalitica. Parla di nevralgia del trigemino e di disturbo bipolare. Non dà una spiegazione di tali espressioni perché Brent sa che il suo lettore modello conosce tali malattie. Se il lettore modello è a conoscenza di tali malattie la cooperazione testuale tra autore empirico e lettore empirico è andata a buon fine.

Il lettore modello immaginato dall’autore non deve avere solo conoscenze mediche ma anche di psicoanalisi. Introduce concetti come «modo di pensare diagrammatico» o idee appartenute a Freud come «psicologia del Sè», «teoria delle pulsioni» o «relazioni oggettuali». Il lettore modello è quindi un esperto di psicoanalisi. Infatti nonostante il saggio di Brent non sia prettamente incentrato sulla psicoanalisi ma sulla figura di Peirce, gli altri nove saggi della raccolta si concentrano sull’applicazione delle teorie di Peirce, e principalmente della sua teoria segnica o semiotica, alla psicoanalisi.

Brent immagina un lettore modello esperto di psicoanalisi, ma prevede che il lettore implicito sia probabilmente carente in nozioni di semiotica o comunque non conosce alla perfezione le idee e la vita di Peirce. Infatti, come l’autore spiega alla fine del saggio:

 

This brief and incomplete outline will serve to introduce the man and his thought, so that the essays in this volume may be understood within a framework of connected ideas – the structure of Peirce’s architectonic philosophy of inquiry and the problems associated with orthodox psychoanalytic theory (Brent 2000: 14).

 

Il lettore modello quindi ha una conoscenza più ampia di nozioni di psicoanalisi che di semiotica.

Il lettore modello immaginato dal lettore è generalmente colto. Ha quindi una cultura generale molto ampia. Lo dimostrano due elementi del testo. Il primo è il riferimento alla pièce teatrale di Shakespeare A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezza estate). Brent scrive «The word is heard with the ear, but the meaning that it signifies has non more physical properties than a character in A Midsummer Night’s Dream». Consapevole dell’ampia cultura del suo lettore modello, Brent non specifica di chi sia l’opera. Certamente si tratta di un’opera famosissima che ha fatto la storia della letteratura inglese, ma è comunque da considerarsi come un non-detto da parte dell’autore che instaura una cooperazione testuale con il lettore modello. Il secondo elemento è la citazione dalla poesia di Gertrude Stein: «And as for the symbol “A rose is a rose is a rose”, we may add “sometimes a cigar is just a cigar”». La prima citazione è tratta da una poesia di Gertrude Stein, famosa esponente della letteratura americana dell’Ottocento. Anche questo elemento indica la presenza di un non-detto. La cooperazione testuale non viene meno se il lettore empirico, cioè il lettore reale, riconosce la citazione. La seconda citazione è invece una frase di Freud, il che indica, come già detto in precedenza, che tra le conoscenze del lettore modello ci devono essere nozioni di psicoanalisi.

 

Dominante e sottodominanti

Essenziale per la traduzione interlinguistica di un testo è l’individuazione della dominante e delle sottodominanti, le quali influenzano le scelte del traduttore che deve mantenere la stessa dominante nel testo tradotto.

Nel saggio scritto da Joseph Brent la dominante è influenzata dalla natura del testo. Trattandosi di un testo saggistico, l’elemento che ha la maggiore importanza è la trasmissione della tesi e della logica delle argomentazioni a sostegno di tale tesi. La dominante è quindi la facile trasmissione delle informazioni al pubblico che legge. Tale dominante indica che la funzione più rilevante di questo testo è la funzione informativa.. Lo scopo dell’autore è comunicare al lettore la sua tesi e sostenerla con varie argomentazione per convincere il pubblico della sua validità. Inoltre, nel caso di questo saggio che ha un carattere introduttivo a una raccolta di saggi, la funzione informativa è ancora più evidente ed è spiegata anche dallo stesso autore all’interno del testo. Il saggio, infatti, spiega Brent alla fine del testo, si prefigge l’obiettivo di introdurre l’uomo e le sue idee di modo che i successivi saggi raccolti nel volume possano essere interpretati all’interno di una cornice che non è altro che la struttura della filosofia dell’indagine di Peirce e il suo legame con la teoria psicoanalitica ortodossa.

La funzione informativa è la funzione principale del saggio; la funzione estetica rimane invece in secondo piano. Per quanto riguarda le caratteristiche legate al suono come il ritmo, le alliterazioni, le assonanze non seguono una scelta stilistica particolare.

Se la dominante è la funzione informativa del testo, esistono comunque sottodominanti di cui bisogna tenere conto. Nonostante la funzione estetica sia in secondo piano, alcune categorie di tale funzione sono comunque importanti nella trasmissione delle informazioni al lettore del saggio. La funzione estetica infatti non include soltanto il suono ma anche la sintassi, la grammatica e il registro. Quest’ultima è una delle sottodominanti. Poiché il lettore modello è un lettore colto, con una formazione sicuramente universitaria, esperto di psicoanalisi e con un’ampia cultura generale, il registro tenuto da Brent è alto. Tale registro deve rimanere invariato nella traduzione. Il registro alto è dato da marche sia sintattiche che linguistiche. La costruzione sintattica è ricca di subordinate, di frasi lunghe. Ne è un esempio la seguente frase:

 

By his mid-twenties, his father’s deeply held belief in the underlying harmony of religion and science and his marriage to a clergyman’s devout and feminist daughter had convinced Charles of the seriousness, if not the truth, of religion to the point that he joined his first wife in the Episcopal church as her condition for the marriage (Brent 2000: 5-6).

 

Un’altra sottodominante è legata sempre alla funzione estetica. Non riguarda più il registro o la sintassi ma le marche grammaticali del testo. Questa sottodominante è strettamente collegata alla dominante principale, cioè la funzione informativa del testo. La presenza di marche grammaticali, come neologismi o termini settoriali, influiscono sulla trasmissione delle informazioni. Infatti aiutano la comprensione del messaggio del testo perché essendo termini settoriali aiutano a inquadrare il tema del saggio. Sono un esempio di queste marche grammaticali termini come «hypersexuality», «abduction», «interpretant» e «Cartesianism». I termini «abduction» (abduzione) e «interpretant» (interpretante) rivestono un ruolo importante nel saggio. Trattandosi di concetti introdotti proprio da Peirce la loro traduzione è di vitale importanza per la comprensione del saggio.

La ricerca terminologica ha un’importanza particolare nel testo e occupa un’altra sottodominante. Concetti come «theory of inquiry», «habits of inference», «acritical reasoning» e «therapeutic semiosis» sono entrati nella terminologia settoriale scientifica grazie a Peirce e poichè sono nozioni ormai universali la traduzione deve essere riconosciuta dal pubblico.

 

Strategia traduttiva

Per un’analisi traduttologica adeguata e approfondita è necessaria un’attenta lettura del prototesto. La lettura deve essere finalizzata alla comprensione della tesi che l’autore propone nel testo; all’individuazione del lettore modello, della dominante e delle sottodominanti, già analizzate nei paragrafi precedenti; alla formulazione di una strategia traduttiva adeguata al testo.

Dopo un’attenta lettura del prototesto, ripetuta più volte, e dopo l’individuazione della tesi, della dominante, delle eventuali sottodominanti, la strategia traduttiva impostata è cominciata con il reperimento dei testi citati nel saggio. La traduzione dei riferimenti bibliografici è quindi stata la prima tappa del processo traduttivo. La maggior parte dei testi inclusi nei riferimenti bibliografici, inseriti alla fine del saggio, appaiono in una traduzione italiana. Alcuni di loro sono studiosi molto noti, come Kant, Lacan, Freud, Cartesio e Saussure.

Nel saggio non compaiono comunque citazioni da tutti i testi inclusi nei riferimenti bibliografici. La citazione che compare nella prima pagina del saggio è tratta dal testo “Beyond Categories: The Lives and Works of Charles Sanders Peirce” di Grattan-Guinness, testo del quale non esiste una traduzione italiana ufficiale. Tale citazione è una delle più difficili del testo poiché si tratta di un elenco di attività di Peirce o di caratteristiche legate alla sua vita. Risulta difficile da tradurre per via della mancanza di un contesto in cui inserire i termini. Per cui ho privilegiato nella traduzione di tali termini l’immediata comprensione dell’espressione. Per esempio l’espressione, con cui inizia la citazione, «a first ranker in western civilization» è stata tradotta «avanguardia della civiltà occidentale». Anche le altre citazioni del cui testo originale non esiste una traduzione italiana ufficiale sono state tradotte.

Le citazioni di Peirce meritano un capitolo a parte. I testi da cui Brent ha preso le citazioni sono due: i Collected Papers e i manoscritti o le lettere manoscritte. I primi sono da lui indicati con la sigla CP, i secondi con la sigla MS o MSL. Dei manoscritti non esiste una traduzione italiana ufficiale per cui le citazioni nel testo sono state trattate come tutte le altre citazioni di cui non esiste una traduzione ufficiale italiana. Dei Collected Papers esiste invece una traduzione italiana che però racchiude solo una parte di essi. Ho pertanto ripreso tale traduzione quando possibile. Prima di inserire la traduzione italiana delle citazioni ho però verificato che le citazioni di Brent riprendessero il numero corretto di volume e paragrafo dei Collected Papers e ho corretto gli eventuali errori. La citazione “If … a man has had no religious experience, then any religion not an affectation is as yet impossible for him; and the only worthy course is to wait quietly till such experience comes. No amount of speculation can take the place of experience” non è tratta da CP 1.654 bensì da CP 1.655. Come le citazioni “we have non power of thinking without signs” e “all thought whatsoever is a sign, and is mostly of the nature of language” non sono tratte rispettivamente da CP 5.285 e 420 ma da CP 5.265 e 421.

Un altro errore era presente invece nei riferimenti bibliografici. Il nome del curatore del libro Sketches and Reminiscences of the Radical Club non è, come ha erroneamente scritto Brent, Sergeant ma Sargent.

Infine le citazioni presenti nell’ultima pagina sono tratte dalla raccolta in lingua inglese che racchiude tutte le opere di Freud intitolata The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. Per la traduzione italiana ho seguito invece la raccolta di tutte le opere di Freud raccolte in 12 volumi pubblicati da Boringhieri.

Prima di iniziare la traduzione vera e propia del testo, oltre alla ricerca dei libri di cui appaiono le citazioni e di quelli inclusi nei riferimenti bibliografici, ho fatto una ricerca terminologica. Ricerca che è stata mirata a quelle espressioni o termini specialistici. Si tratta di termini medici, semiotici o legati alla teoria psicoanalitica. La traduzione di tali termini o espressioni deve essere coerente con i termini e le espressioni che vengono usate in questi ambiti, medicina semiotica e psicoanalisi, dagli esperti. Alcuni esempi di tali parole sono «trigeminal neuralgia» tradotta con «nevralgia del trigemino»; «Bright’s disease» che poteve essere tradotta con «malattia di Bright» mentre la forma più diffusa è «morbo di Bright»; «bipolar disorder» resa con «disturbo bipolare»; «pedestrianism» della quale ho mantenuto la versione inglese; «theory of inquiry» tradotta con «teoria dell’indagine» in quanto è una delle espressioni introdotte da Peirce e la traduzione riconosciuta è proprio questa; «inference» «deduction» «induction» e «abduction» sono state tradotte rispettivamente con «inferenza» «deduzione» «induzione» e «abduzione»; «habits of inference» con «abitudini inferenziali»; «acritical reasoning» con «ragionamento acritical» con il corsivo inglese reso con le virgolette caporali a racchiudere la parola «acritical»; «Cartesianism» con il termine «cartesianismo» con la lettera minuscola; i termini «sign» «object» «interpretant» introdotti proprio da Peirce sono stati tradotti con «segno» «oggetto» e «interpretante»; le parole «icons» «indexes» e «symbols» con «icone» «indici» e «simboli»; l’espressione introdotta da Brent «therapeutic semiosis» con «semiosi terapeutica».

Per i termini semiotici alla base del suo pragmatismo ho usato come fonte di riferimento la traduzione italiana dei Collected Papers e il volume Storia della traduzione di Bruno Osimo edito da Hoepli.

Il termine «inquiry» ha sollevato un problema nella traduzione. Se per l’espressione «theory of inquiry» la traduzione più appropriata è «teoria dell’indagine», il problema si pone nella resa in italiano del termine «inquirers» che in inglese pone un chiaro legame con la parola «inquiry». Il termine italiano «indagatori», anche se mantiene il rimando alla «teoria dell’indagine», non racchiude il vero significato della parola inglese. Quando Brent afferma nel saggio che «Peirce replaces Cartesian intuition with the community of scientific inquirers», la parola italiana «indagatori» non può comprendere la comunità scientifica. Pertanto ho deciso di usare il termine «ricercatori» a discapito del rimando con la parola «indagine».

Riguardo all’approccio verso la terminologia presente nel testo, resta da fare un’altra considerazione a livello grafico. I termini tipici della filosofia di Peirce, che in inglese risultavano scritti in corsivo, sono stati scritti in tondo e racchiusi tra le virgolette caporali. Inoltre tali parole sono state lasciate in inglese poiché termini originari della filosofia di Peirce e che pertanto lo studioso usava in inglese. Per esempio il termine interpretant che appare in corsivo in inglese, nella traduzione italiana è stato reso nella forma grafica «interpretant».

Dopo aver affrontato la ricerca terminologica, ho potuto iniziare la traduzione vera e propria. Per la traduzione ho tenuto a mente i risultati delle due analisi: quella testuale e quella traduttologica. Ho considerato quindi il registro e la sintassi del prototesto dal punto di vista formale e il lettore modello che Brent si era prefissato e la dominante che avevo individuato in precedenza.

Brent si era immaginato, nella stesura del saggio, un lettore modello colto, esperto di psicoanalisi, con nozioni non approfondite di semiotica. Il lettore modello non aveva come qualità necessaria una conoscenza approfondita della figura di Peirce. Nel tradurre mi sono prefissata lo stesso lettore modello di Brent. Pertanto ho immaginato come possibili lettori modelli studiosi di psicoanalisi, praticanti di tale disciplina o studenti universitari.

L’identificazione del lettore modello ha portato a una scelta del registro del saggio e della sua struttura sintattica. Poiché il lettore modello ha un livello di cultura molto elevato ho deciso di mantenere un registro alto anche nella traduzione. Per innalzare il registro si sono preferiti, per esempio, deittici come «tale» al posto di «questo»; per tradurre il verbo «assumes» si è optato per la forma «si assume» rara nell’italiano quotidiano ma utilizzabile nei testi saggistici specialistici.

Il registro alto non è dato solo da scelte terminologiche, ma anche da costruzioni sintattiche. Anche in questo caso ho deciso di seguire l’originale mantenendo la lunghezza delle frasi e quindi rispettando la punteggiatura del prototesto. Le frasi che occupavano nel saggio inglese anche sei righe, nell’italiano mantengono la stessa lunghezza. Le subordinate del testo originario rimangono numerose anche nel testo italiano. Questa scelta non va però a discapito del senso. Oltre al registro, alla struttura sintattica e al lettore modello, ho tenuto bene a mente nella traduzione anche la dominante. Dominante che coincide con la funzione informativa del testo. Poiché la trasmissione delle informazioni, più precisamente della tesi del saggio, è l’obiettivo fondamentale del testo, la struttura sintattica non ostacola tale comunicazione del senso. Ho mantenuto la stessa struttura sintattica modificando quegli elementi che potessero rendere le frasi poco comprensibili o che potessero inficiare la trasmissione del significato. Per esempio la frase «Germane to the subject of this volume, I add experimental psychology and psychology of the conscious and unconscious mind and of the self and self-consciousness» poteva creare equivoci nella comprensione del senso. Brent fa un riferimento al titolo del libro e afferma di aggiungere a tale argomento, che comprende «Semiotics and Psychoanalisis», anche «experimental psychology and psychology of the conscious and unconsciuos mind and of the self and self-consciousness». Tale frase però appare dopo l’elenco di aggettivi e qualità positive e negative attribuite a Peirce da Grattan-Guinness. Poteva quindi crearsi un’ambiuguità della frase. Per questo motivo ho deciso di trasformare i sostantivi indicanti le scienze con sostantivi che si riferissero ancora una volta alla persona di Peirce seguendo l’elenco precedente. Ho pertanto tradotto la frase «In attinenza con l’argomento di questo libro aggiungo psicologo sperimentale e psicologo della mente conscia e inconscia e del Sè e dell’autocoscienza».

Per quanto riguarda l’aspetto grafico non ci sono stati cambiamenti particolari, ma solo un adattamento alle norme redazionali più comuni in italiano. Seguendo tali norme i tre puntini «…» che in inglese indicano un salto nel testo sono stati sostituiti con […]. Le citazioni che in inglese vengono introdotte con le virgolette alte, “ ”, in italiano sono state racchiuse tra virgolette caporali, « ». Il corsivo è stato usato per le parole straniere nel testo come nel caso di gauche, per i titoli di saggi e libri citati nel testo e per quelle parole o espressioni di particolare importanza che si è voluto mettere in risalto. Le parole che assumono la connotazione di termini e di cui si fornisce una spiegazione sono invece state racchiuse dalle virgolette caporali « ». In alcuni casi tali parole, poiché frutto della filosofia di Peirce, sono state lasciate in inglese. Per esempio nella frase «The second is what Peirce called acritical reasoning», l’ultima espressione è stata resa nella forma grafica ragionamento «acritical».

 

Potenziale residuo e residuo effettivo

Nel saggio di Joseph Brent il potenziale residuo può essere analizzato sotto due punti di vista: l’aspetto terminologico e scientifico e l’aspetto culturale. Dal primo punto di vista, quello terminologico e scientifico, non ho evidenziato un probabile residuo potenziale. Pertanto non vi è un residuo effettivo nella traduzione. Certamente tale residuo può crearsi se il lettore reale o effettivo non corrisponde con il lettore modello che mi sono immaginata nel tradurre il testo originale. Requisito principale del lettore modello è un’ottima conoscenza della psicoanalisi e della sua terminologia e una sufficiente conoscenza di termini semiotici. Se tale requisito viene meno è evidente che si creerà un residuo che spetterà al lettore colmare.

Dal punto di vista culturale ho riscontrato un probabile residuo. Nonostante la sfera culturale sembri limitata, nel saggio di Brent, che appare più incentrato sull’aspetto scientifico, si coglie la presenza, inevitabile, di una determinata cultura: quella statunitense. Inevitabile perché l’autore, Joseph Brent, è americano e perché la figura principale da lui analizzata è Charles Sanders Peirce, uno dei più importanti studiosi statunitensi. La presenza di elementi che indicano la rilevanza di tale cultura non sono elementi di disturbo per il lettore modello di Brent. Infatti tale lettore modello proverrà in gran parte dal mondo universitario americano. Il lettore modello della mia traduzione invece di fronte a elementi ricollegabili alla cultura statunitense universitaria potrebbe risentire di un effetto di straniamento. Il lettore statunitense con una buona formazione universitaria ha un rapporto familiare con i nomi delle università americane, che appaiono molto spesso nel saggio di Brent. Il lettore italiano invece nel leggere «Harvard University» o «Johns Hopkins University» sente la connotazione esotica delle parole. Inoltre il lettore statunitense può sicuramente conoscere la figura di Charles W. Eliot che Brent nomina citando una frase di Murphey. Charles W. Eliot è stato nominato rettore della Harvard University nel 1869; il lettore modello di Brent ha sicuramente già sentito tale nome. Il lettore italiano, anche se con una buona formazione universitaria, non è tenuto a conoscere la figura di Charles W. Eliot e il ruolo che ha potuto avere nella censura dei manoscritti di Peirce.

Un altro aspetto legato alla predominanza nel prototesto della cultura statunitense è la religione. Il lettore italiano, per motivi storici, ha probabilmente una formazione cattolica; potrebbe non avere familiarità con parole o espressioni come «nominalmente episcopaliano», «oligarchia puritana» e «fede unitariana».

Infine un residuo può essere causato dai titoli inglesi dei saggi o articoli che Brent cita nel suo saggio. Se a un lettore statunitense il tema di tali saggi è istantaneamente compreso, per il lettore italiano potrebbe risultare più arduo da capire.

 

Gestione del residuo traduttivo

Nel paragrafo precedente ho esposto il possibile residuo che si è creato traducendo il prototesto in italiano. Per quanto riguarda i nomi delle università, il riferimento al rettore Charles W. Eliot della Harvard University e al riferimento a determinate religioni poco diffuse in Italia, il residuo è rimasto tale. Tale decisione dipende dal lettore modello prefissato in partenza: poiché uno dei suoi requisiti è un’ampia conoscenza generale tali nozioni possono far parte di tale conoscenza. Per quanto riguarda i titoli dei saggi inseriti nel testo, ho deciso di inserire delle note con una traduzione italiana. Tale scelta dipende dalla dominante: poiché la funzione informativa è quella prevalente nel testo, il lettore deve poter accedere alle informazioni in maniera eguale al lettore statunitense.

 


Riferimenti bibliografici

 

 

AA.VV., Enciclopedia medica di selezione per la famiglia, Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1977.

Associazione Laura Saiani Consolati, Psichiatria Brescia, disponibile in internet all’indirizzo www.psichiatriabrescia.it/disturbobipolare.html, consultato nel maggio 2008.

BONFANTINI, Massimo A. e PRANI, Giampaolo, Opere. Charles Sanders Peirce, Milano, Bompiani, 2003

BRENT, Joseph, The Singular Experience of Peirce Biographer, in  Joseph Ransdell Arisbe, The Peirce Gateway, disponibile in internet all’indirizzo http://www.cspeirce.com/menu/library/aboutcsp/brent/singular.htm, consultato nel maggio 2008.

Center for the Study of Language and Information della Stanford University (USA), Stanford Encyclopedia of Philosophy, disponibile in internet all’indirizzo http://plato.stanford.edu/entries/peirce/#bio, consultato nel maggio 2008: dizionario di filosofia on-line creato dal Center for the Study of Language and Information della Stanford University (USA).

CHINES, Loredana e VAROTTI, Carlo, Che cos’è un testo letterario, Roma, Carocci, 2001.

ECO, Umberto, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979.

GANDOLFI, Angelo, Centro virtuale per la nevralgia del trigemino, disponibile in internet all’indirizzo www.nevralgiatrigemino.it/diagnostica/int.htm, consultato nel maggio 2008.: centro virtuale per la nevralgia del trigemino a cura del prof. Angelo Gandolfi, Neurochirurgo e Otoneurochirurgo presso il Rome American Hospital, Roma.

OSIMO, Bruno, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2005.

OSIMO, Bruno, Storia della traduzione. Riflessione sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2006.

RAI, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, disponibile in internet all’indirizzo http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=53:, consultato nel maggio 2008.

 



[1] Una nuova lista di categorie [n.d.t.]

[2] Un argomento trascurato per la realtà di Dio [n.d.t.].

[3] Questioni concernenti certe pretese facoltà umane [n.d.t.].

[4] Alcune conseguenze di quattro incapacità [n.d.t.].