Monthly Archives: May 2016

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick NADIA QUARTINI

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

NADIA QUARTINI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 3 novembre 2005

ABSTRACT IN ITALIANO

Il presente lavoro intende mostrare ed approfondire alcuni problemi e riflessioni di carattere traduttologico inerenti all’analisi del processo della trasposizione cinematografica, divenuto da tempo nuovo oggetto di studio.

Poiché il processo della trasposizione cinematografica, in quanto esempio di traduzione intersemiotica, avviene coinvolgendo un altro sistema di segni, nel quale il prototesto è costituito da segni verbali laddove il metatesto è composto da segni non soltanto verbali – come immagini e suoni –, la strategia traduttiva dovrà partire dalla scomposizione ed analisi degli elementi del prototesto per approdare in seguito alla ricerca di elementi di nuova sintesi e di mezzi espressivi attraverso i quali tali elementi possono essere raffigurati all’interno del metatesto.

Sulla base di tali osservazioni e prendendo spunto dalle valutazioni fino ad ora condotte da alcuni studiosi appartenenti a differenti scuole di pensiero, si è cercato di ricavare un metodo generalmente valido che possa essere applicato nel modo più ampio possibile.

A tal scopo, è stato preso ad esempio, scomposto ed esaminato un caso concreto di trasposizione cinematografica – ovvero la trasposizione cinematografica di Doppio Sogno di Arthur Schnitzler in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick – con particolare attenzione all’analisi del tema dominante della vicenda narrata: il ruolo delle dinamiche di coppia e la loro rappresentazione all’interno di entrambe le opere.

Il primo capitolo si propone di analizzare il prototesto nei suoi tratti caratteristici e distintivi, ovvero fabula e intreccio, personaggi, temi principali, tempo e spazio; vengono inoltre delineate le dominanti che costituiranno l’asse portante del metatesto.

Il secondo capitolo affronta la vera e propria analisi traduttologica della

2

trasposizione cinematografica dal romanzo al film e presenta un esame dettagliato sia della riproduzione e rappresentazione dei temi del prototesto all’interno del metatesto sia dei fondamentali tagli e cambi operati alla vicenda stessa.

Il terzo capitolo, infine, si propone di approfondire l’analisi di una sola sequenza, rappresentativa del tema dominante di entrambe le opere, attraverso un accurato raffronto fra le pagine contenute all’interno del racconto e la loro rappresentazione nel film: il confronto iniziale fra i due protagonisti, grazie al quale si apre la vicenda stessa, nel quale al meglio vengono delineate le contraddittorietà che caratterizzano il rapporto di coppia.

3

ABSTRACT IN ENGLISH

The aim and purpose of this thesis is to discuss a special type of translation: the intersemiotic, extratextual translation.

When we think about translation we generally think about the translation of a verbal text into another language. But the phenomenon of verbal textual translation is more complex because translation covers a much wider and more varied range of texts.

Semiology has made the concept of text wider and more comprehensive. In fact, the notion of language has been extended to non-verbal languages as well. As a result the notion of text implies a coherent system of utterances in every language. In light of this new, expanded definition, films and advertisments can also be considered texts and the transferring of literature into film or theatre can be treated as an act of translation. In translating text into visual performance, the prototext – source text – is a verbal text and the metatext – target text – is a non-verbal text, made up of visual images. Conversion from the prototext into the metatext involves two different sign systems. This type of translation is called intersemiotic extratextual translation.

When a translator works on the dramatization of a novel, he first tries to take the prototext apart in its elements and then chooses an appropriate translation strategy, based on the search for charcateristics existing in common between the two texts. He keeps these aspects and develops a technique aimed at transferring the other aspects.

The analysis of Arthur Schnitzler’s novel and Stanley Kubrick’s masterpiece leads to the conclusion that novel and film are not two completely different, parallel texts. Although there are some essential differences between the two works – such as in time and space –, the dominant messages and themes of the novel have been maintained and very well represented in the film.

4

The paper is divided into three main chapters.

The first chapter deals with the analysis of Schnitzler’s novel. Particular attention is given to the main components of the plot, including the novel’s themes and characters as well as its particular use of space and time.

The second chapter focuses on the comparison between the text of the novel and the filmic text. Particular attention is given to the dominant messages and themes of the two texts, as well as to cuts and changes to Schnitzler’s novel.

The third and last chapter concentrates on a special aspect of the filmic text: the representation of the relationship between the two main characters. Attention is focused on an important scene that is compared with the corresponding pages of the book.

5

ABSTRACT AUF DEUTSCH

Ziel dieser Diplomarbeit ist es, die intersemiotische extratextuelle Übertragung von einem Buch in einen Film zu zeigen.

Wir unterscheiden drei Arten der Wiedergabe eines sprachlichen Zeichens: die innensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen mittels anderer Zeichen derselben Sprache, die zwischensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch eine andere Sprache, während die intersemiotsche Übersetzung eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch Zeichen nicht-sprachlicher Zeichensysteme ist.

Die extratextuelle Übersetzung fällt in die Sphäre der intersemiotischen Übersetzung und die Verfilmung eines Buches ist ein Beispiel von der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung. In diesem Fall bestehen der Prototext – d.h. der Ausgangtext – aus verbalen Zeichen und der Metatext – d.h. der Zieltext – aus nicht-verbalen Zeichen.

Der Übersetzungsprozess betrifft zwei verschiedene Zeichensysteme. Der Übersetzer führt eine Textanalyse durch und untersucht den Prototext in bezug auf die darin enthaltenen dominierenden Merkmale; er muss demnach die richtige Strategie anwenden, um die dominierenden Elemente und die Ausdrucksmittel des Prototextes in einem anderen Zeichensystem wiederzugeben und miteinander zu kombinieren. Im Film liegt es auch sehr an der Kreativität des Filmmachers, aus den unterschiedlichen, ihm zur Verfügung stehenden Ausdrucksformen jene auszuwählen, die sich mit dem nicht- sprachlichen Zeichensystem am besten kombinieren.

In dieser Diplomarbeit geht es um die Analyse der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung von dem Buch Traumnovelle von Arthur Schnitzler in dem Film Eyes Wide Shut von Stanley Kubrick. Obwohl beide Werke wichtige Unterschiede zeigen – z.B. im raumzeitlichen Chronotops –, werden

6

die dominierenden Elemente und Themen der Novelle im Film bewahrt und sehr gut ausgedrückt.

Die Diplomarbeit ist in drei Kapitel unterteilt.

Das erste Kapitel handelt von der Analyse der Traumnovelle. Eine wichtige Rolle spielt die Analyse der bedeutsamsten Elemente der Geschichte, bzw. Zeit, Raum, Gestalten und Themen.

Im zweiten Kapitel geht es um die intersemiotische extratextuelle Übersetzung und den Vergleich zwischen dem Text des Buches und dem Text des Filmes. Eine wichtige Rolle spielen dabei sowohl die dominierenden Motive beider Texte als auch die im Film, im Vergleich zum Buch, enthaltenen Streichungen und Veränderungen.

Im dritten Kapitel wird eine einzige Szene analysiert, die eine entscheidende Rolle sowohl im Buch als auch im Film spielt, welche ein sehr wichtiges Thema in beiden Werken darstellt, bzw. die Dualität und die Widersprüche in der Partnerbeziehung.

7

SOMMARIO

1.

1.1.

Abstract in Italiano 2 Abstract in English 4 Abstract auf Deutsch 6

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA 10

DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE 17

Doppio Sogno di Arthur Schnitzler 17

  1. 1.1.1.  Breve sintesi 18
  2. 1.1.2.  Analisi dell’opera 20

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick 26

  1. 1.2.1.  Temi del cinema di Kubrick 27
  2. 1.2.2.  Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick 28

2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA 30

  1. 2.1.  Due trame a confronto 30
  2. 2.2.  Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca 37

8

  1. 2.3.  Temi a confronto 40
  2. 2.4.  Strutture a confronto 48
    1. 2.4.1.  Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina 48
    2. 2.4.2.  Figura della geminazione simmetrica 55
    3. 2.4.3.  Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del

3. 3.1.

personaggio 62

ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT 68 Analisi della traduzione intersemiotica 70

CONCLUSIONI

Riferimenti Bibliografici Bibliografia

84

91 93

9

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA

Quando si riflette sul significato di «traduzione», normalmente si pensa ad un processo di ricodifica e riespressione di un testo scritto in una lingua, ovvero un codice naturale, differente da quella del testo originario: questo tipo di traduzione viene denominata «traduzione interlinguistica»1; il testo d’origine viene chiamato «prototesto» e il testo d’arrivo viene chiamato «metatesto». Per «testo» si intende comunemente un insieme di parole con una forma grafica, dotato di una struttura interna che lo rende coerente e coeso2.

Tuttavia, se scindiamo il concetto di «testo» dalla sua accezione più comune ed intendiamo con esso semplicemente un sistema di segni qualsiasi, dotato di una struttura interna coerente e coesa, e diamo credito all’estensione del concetto di «lingua» in semiotica a tutti i tipi di linguaggio extraverbale – come la musica, le arti figurative, il cinema o la pubblicità –, se ne evince che il concetto di «traduzione» può essere esteso ad un campo decisamente più ampio rispetto a quello della sola traduzione interlinguistica ed assume il significato di un processo che implica la presenza di un testo inteso come insieme coerente degli enunciati di qualsiasi linguaggio.

Così, il racconto di un sogno, la trasposizione cinematografica di un romanzo, la lettura di un testo o anche la scrittura sono esempi di traduzione, nei quali il processo di trasferimento dal prototesto al metatesto avviene coinvolgendo un sistema di segni diversi, di linguaggi diversi: essi sono tutti esempi di «traduzione intersemiotica»3. In particolare, la traduzione extratestuale riguarda i casi di traduzione intersemiotica nei quali il prototesto è generalmente un

1 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000 2 B. Osimo, 2001
3 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000

10

testo scritto e quindi verbale, mentre il metatesto appartiene ad un codice non verbale, ad esempio un’immagine. Dunque, la trasposizione cinematografica di un romanzo costituisce un caso di traduzione intersemiotica extratestuale.

Per quanto la letteratura venga tradotta in film da moltissimo tempo, il processo della trasposizione cinematografica è stato paragonato al processo della traduzione interlinguistica relativamente da poco tempo, ed in questo senso è divenuto nuovo oggetto di studio. Di conseguenza, mentre nel campo della traduzione interlinguistica molti studiosi si sono espressi nel tentativo più o meno riuscito di apportare il loro contributo allo sviluppo di un metodo scientifico dei principali cambiamenti traduttivi secondo criteri condivisibili ed applicabili nel modo più ampio possibile, il campo della traduzione filmica resta tuttora costellato di numerosi quesiti senza risposta e di numerose insufficienze nell’analisi del suo linguaggio.

A ciò va aggiunta, a mio avviso, un’altra fondamentale considerazione: mentre la traduzione interlinguistica viene solitamente affrontata da traduttori professionali, che sono ben consci del loro ruolo di mediatore linguistico e culturale e dei problemi inerenti all’analisi traduttologica e all’individuazione di una strategia traduttiva da adottare per ogni singolo caso, la traduzione cinematografica viene affrontata da persone – sceneggiatori e registi – che sono da considerarsi innanzitutto artisti – come gli scrittori – e non certo traduttori: essi compiranno certamente la loro traduzione filmica in base a dei criteri razionali, ma, più sovente, saranno soggetti alle loro ispirazioni o saranno influenzati dal loro personale estro artistico.

Dunque, la vera e propria analisi traduttologica nel predetto campo viene svolta per lo più a posteriori, da studiosi della materia che tentano di ricavare una teoria dal caso concreto, ovvero un metodo scientifico valido nel modo più ampio possibile al fine di catalogare i fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella trasposizione dal romanzo scritto al film.

Così, ad esempio, lo studioso di semiotica all’università di Tartu Peeter Torop

11

ha riconosciuto che nella trasposizione cinematografica di un testo il punto di partenza va ricercato nella scomposizione del testo stesso in parti4. In questo modo, il traduttore dovrà razionalmente intraprendere un processo di scomposizione e di analisi dei singoli elementi che compongono il prototesto, oltre che di ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi che condurranno alla creazione del metatesto, nel caso in oggetto rappresentato dal film.

Ma, poiché nella traduzione intersemiotica extratestuale il tipo di codice del prototesto è differente rispetto a quello del metatesto, il traduttore sarà costretto a scomporre il prototesto – ovvero il romanzo – nei suoi elementi costituivi e a convertire tali elementi nel tipo di codice del quale è composto il metatesto – ovvero il film. Infatti, mentre il romanzo viene fissato sotto forma di parola scritta, il film è costituito dall’immagine, sostenuta dal suono sotto forma di parole o di musica5. Inoltre, a causa delle proprietà intrinseche delle quali è formato il testo filmico, la quantità di sistemi segnici esistenti in un film è davvero notevole. Di conseguenza, l’analisi traduttologica sarà ancora più complessa ed irta di ostacoli.

Dunque, il romanzo è composto da elementi verbali, sintagmatici, paradigmatici, prospettici, ed è inoltre caratterizzato dalla creazione e descrizione di personaggi e temi che si esplicano attraverso fabula, intreccio e spazio, raffigurati però mediante le parole in forma scritta, mentre il film è costituito sì da elementi verbali e dalla ricreazione dei temi, del tempo, dello spazio e dei personaggi con la loro psicologia, i quali però non vengono descritti bensì rappresentati in modo visibile e dunque iconico, ma è anche costituito dall’immagine, che si esplica nelle inquadrature, nei movimenti di macchina – le carrellate –, negli effetti speciali – come la dissolvenza incrociata –, nella fotografia – luci e colori – e poi dal suono sotto forma di dialogo o musica o rumore, ed ancora dal montaggio, col quale viene operata una

4 P. Torop, 2000 5 P. Torop, 2000

12

selezione e combinazione degli elementi filmici in relazione allo spazio e alla durata del tempo della vicenda narrata, ed ancora da elementi scenografici e recitativi6. Infine, così come il romanzo è scritto sulla base dello stile e del pensiero dell’autore, il film viene costruito in base allo stile ed al pensiero del regista che, in tal senso, non è un traduttore ma un vero e proprio artista, ovvero uno scrittore e creatore di testi.

Tutti questi elementi possono essere in altre parole e più brevemente espressi, unificati e spiegati, secondo Torop, nei tre tipi di cronotopo sui quali si fonda e si concretizza l’analisi traduttologica del film: il cronotopo topografico, ovvero le coordinate spazio-temporali all’interno delle quali si muovono sia la storia sia i personaggi, il cronotopo psicologico, che include sia la psicologia dei personaggi sia la psicologia di gruppo, e, infine, il cronotopo metafisico, che corrisponde alla poetica autoriale7.

Da tutto ciò si evince quanto sia difficile, ancor più che in qualsiasi altro tipo di traduzione, creare un metodo scientifico di analisi della traduzione intersemiotica coeso e coerente ed applicabile nel modo più ampio possibile.

Di volta in volta ed a seconda dei singoli casi, nella trasposizione cinematografica il traduttore analizza e scompone il prototesto nei suoi elementi costitutivi e in quelli potenziali, decidendo poi per ognuno se sopprimerlo o se e come mantenerlo, ridurlo, modificarlo, amplificarlo o se aggiungere degli elementi nuovi all’interno del nuovo testo8. Si tratta di una vera e propria opera creativa, nella quale è difficile stabilire a priori che cosa corrisponda a che cosa.

Ogni elemento del prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, ma secondo modalità diverse per ogni film e per ogni regista, il quale, come già detto, sceglierà le caratteristiche dominanti da conservare –

6 A. Costa, 1985 7 P. Torop, 2000

13

magari anche modificandole – nel suo metatesto.

Nella seguente tabella mi sono proposta di riassumere, in modo schematico e stilizzato, le fondamentali tecniche cinematografiche ed i principali elementi che intervengono alla raffigurazione e realizzazione dei cronotopi, individuati da Torop, all’interno dell’opera filmica:

CRONOTOPO

SCELTA DOMINANTI

MEZZO ESPRESSIVO

1) Topografico

Soppressione Conservazione Aggiunta Storicizzazione Modernizzazione Riduzione Amplificazione Teatralizzazione

tempo

fabula

trama, ambientazione

intreccio

flashback, flashforward, dissolvenze, didascalie, salti, blocchi, montaggio

spazio

ambientazione

scenografia, paesaggio, inquadrature, movimenti di macchina, fotografia, suoni, montaggio, colori

2) Psicologico

psicologia personaggio

attore, mimica, gestualità, recitazione, abbigliamento, dialogo, voce, inquadrature soggettive-oggettive, voce over, linguaggio e campi espressivi, colori

psicologia gruppo

ambientazione, linguaggio, realia, intertesti, posizione e valori sociali, campi espressivi, colori

temi

gli altri cronotopi

3) Metafisico

poetica autoriale

interpretazione, stile e concezione cinematografica del regista

8 B. Osimo, 2001

14

Certamente, tale tabella non ha alcuna pretesa di esaustività, semplicemente si propone come schema di orientamento all’interno del “viaggio” che mi accingo ad intraprendere con questo mio lavoro. D’altronde, come accennato precedentemente, la quantità di sistemi segnici in un film è davvero notevole e, di conseguenza, difficilmente può essere ridotta a tabella. Nel caso della traduzione filmica, è arduo prendere in considerazione anche la ritraduzione nella lingua dell’originale9.

Il presente lavoro si propone di analizzare la trasposizione cinematografica dalla famosa novella Doppio Sogno dello scrittore viennese di inizio Novecento Arthur Schnitzler nell’altrettanto celebre e controverso film Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick.

Sulla base delle precedenti osservazioni, nella mia analisi traduttologica ho preso in considerazione innanzitutto il prototesto, che ho analizzato cercando di cogliere le sue dominanti all’interno dei cronotopi rilevati da Torop, per poi focalizzare la mia attenzione sul metatesto ed il modo in cui le predette dominanti ed i cronotopi sono stati ricreati e rappresentati nel metatesto stesso. Inoltre, ho deciso di concentrare e far quindi ruotare la mia analisi principalmente sul tema dominante della novella, ovvero la rappresentazione dei temi dell’opera e delle dinamiche di coppia che caratterizzano i due protagonisti.

Nel primo capitolo, dunque, ho esaminato ed approfondito maggiormente Doppio Sogno di Arthur Schnitzler sia dal punto di vista della trama – fabula e intreccio – sia dal punto di vista delle sue tematiche, cercando di individuare il tema dominante, sul quale anche il regista Kubrick ha basato la sua trasposizione cinematografica. Ho poi brevemente presentato la concezione cinematografica e le tematiche predilette da Kubrick nell’arco della sua carriera

9 P. Torop, 2000

15

di regista filmico, nonché Eyes Wide Shut unicamente considerando la sua valenza filmica.

Nel secondo capitolo mi sono concentrata sulla vera e propria analisi traduttologica dell’intera opera, prendendo in considerazione il modo in cui gli elementi caratteristici dei quali era composto il prototesto – ovvero la trama, i temi, l’ambientazione, i personaggi principali, il tempo e lo spazio – sono stati trasferiti e riprodotti nel metatesto. In particolare, ho prestato attenzione alla riproduzione del tema principale del racconto di Schnitzler, con le sue problematiche.

Nel terzo ed ultimo capitolo ho approfondito l’analisi traduttologica di una sola sequenza del film, ossia quella che, a mio avviso, raffigura e tratteggia con maggiore lucidità il tema dominante sia dell’opera stessa sia del mio lavoro: si tratta della scena del confronto iniziale fra i due protagonisti in seguito al veglione mascherato – una festa natalizia nel film; tale sequenza rappresenta nella novella la vera e propria apertura della vicenda, nella quale si delineano con chiarezza sia le dinamiche che scandiscono, muovono e caratterizzano la coppia dei due personaggi sia il tema che funge da asse portante dell’intero racconto, ovvero la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplicherà in un continuo ritorno di doppi ed alternanze, oltre che nel diagramma dei turbamenti paralleli vissuti dai protagonisti dell’opera. Ho cercato, in particolar modo, di sottolineare le differenze con le quali la sequenza è stata descritta nel racconto ed invece rappresentata nel film.

16

1. DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE

Doppio Sogno costituisce un soggetto ideale per il cinema: Schnitzler stesso nel 1930 ne abbozzò una sceneggiatura di trenta pagine, compiendo interventi di sviluppo e semplificazione del racconto.

Stanley Kubrick, senza successo, cercava di realizzare questo progetto sin dai primi Anni Settanta; vi riuscì soltanto nel 1999, a distanza di un quarto di secolo, dopo quasi due anni impiegati a scrivere la sceneggiatura, dopo 19 mesi di riprese, dopo più di un anno nel quale curò personalmente le fasi di montaggio e di postproduzione.

1.1. Doppio Sogno di Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, studioso della psicoanalisi e soprattutto scrittore, vissuto a cavallo tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo, contemporaneo a Sigmund Freud, pubblicò opere caratterizzate da un’analisi profonda e spietata delle motivazioni all’origine della azioni umane, distintive di un’incomparabile capacità di lettura psicologica della natura umana. I temi principali riguardano i rapporti sentimentali, le complicazioni della vita erotica e la paura della morte.

Il suo confronto con la psicoanalisi si è articolato attraverso una ricerca squisitamente artistica che, mediante l’assorbimento e l’elaborazione degli studi di Freud e della neonata psicoanalisi, ha ipotizzato l’esistenza del medioconscio (Mittelbewusstsein), una specie di territorio intermedio fluttuante fra la superficie del conscio e la profondità dell’inconscio, territorio in direzione del quale si attua il processo di rimozione degli elementi nella loro ascesa verso il

17

conscio o discesa verso l’inconscio10.

Traumnovelle, nella versione italiana Doppio Sogno, è un’opera in bilico fra sogno e realtà. Fu scritta fra il 1921 e il 1925 e si articola in sette parti che scandiscono le alterne e tormentate fasi della crisi di una giovane coppia viennese: in particolare, l’autore si concentra sul problema di incomunicabilità che, innescato da un qualsiasi motivo occasionale, viene improvvisamente a turbare e a minare l’equilibrio del rapporto tra l’uomo e la donna, descrivendo così lo sgomento dell’individuo di fronte alla enigmatica ed instabile realtà dell’esistenza. Mentre però nelle novelle precedenti Schnitzler tendeva ad evidenziare la conflittualità di uno solo dei due partner, in quest’opera la crisi appartiene ad entrambi e si sviluppa in modo parallelo, tanto che inizialmente il titolo pensato per la novella era Doppelnovelle (Doppia novella)11.

1.1.1. Breve sintesi

Il racconto di Schnitzler è incentrato in soli due giorni della vita di una giovane coppia viennese e si apre con il dialogo nella loro camera da letto, dove, a seguito di un ballo in maschera svoltosi la sera precedente nel corso del quale ad entrambi sono state rivolte profferte amorose, i due protagonisti si scambiano reciprocamente le proprie impressioni, le proprie incertezze, finendo però con lo svelare e confessarsi vicendevolmente i desideri e le angosce della loro vita più intima, in particolar modo un tradimento mai consumato da parte di entrambi durante una passata vacanza estiva in Danimarca, e col minare la stabilità del loro rapporto.

Inizia così il viaggio parallelo onirico-reale-surreale dei due: quello fisico di Fridolin tra assassini, prostitute e orge e quello mentale di Albertine tra sogni, incubi e preoccupazioni.

10 A. Schnitzler, 2001 11 G. Farese, 1977

18

Al termine delle reciproche rivelazioni, Fridolin viene chiamato al capezzale di un paziente, che però trova già morto. Lì incontra la figlia Marianne, la quale, pur essendo in procinto di nozze, gli confessa di averlo sempre amato. In strada, turbato dall’inaspettata rivelazione, Fridolin decide di accettare l’invito di una giovane prostituta, tuttavia, entrato in casa di lei, parlano soltanto, a lungo. Ormai è notte fonda e Fridolin decide di non rientrare a casa ed entra in un locale dove incontra un suo vecchio compagno di università che lavora come pianista. Da lui apprende l’esistenza di una strana setta che si riunisce in luoghi sempre differenti, dove avvengono raffinatissime e sontuose orge in maschera. Incuriosito, eccitato ed allo stesso tempo sconvolto dagli accadimenti della giornata, Fridolin, dopo essersi procurato un travestimento da monaco nel negozio dell’ambiguo mascheraio Gibiser, si fa dare dall’amico l’indirizzo e la parola d’ordine, che è Danimarca, e si intrufola, senza invito, nella villa della festa mascherata. Si ritrova così fra uomini e donne di grande bellezza che sembrano riconoscersi l’un l’altro il diritto di essere presenti. Solo una magnifica donna dal corpo fiorente e profumato sembra intuire che Fridolin è un intruso e più volte gli intima di fuggire prima che sia troppo tardi. Tuttavia, Fridolin viene scoperto dalla setta e catturato: solo l’intervento ed il sacrificio della misteriosa donna che in precedenza lo aveva supplicato di andarsene gli regalano la libertà e, forse, gli salvano la vita. Confuso ed esausto, rientra a casa dalla moglie, che in quel momento si sta svegliando da un lungo ed inquietante sogno, che si rivela speculare rispetto alle avventure notturne di Fridolin: infatti, in sogno Albertine si concede prima al giovane danese e subito dopo a molti altri uomini mentre assiste, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta il sacrificio pur di restarle fedele. L’infedeltà e l’indifferenza sognate da Albertine generano in Fridolin un moto di indignazione, che diviene il pretesto ed un’autogiustificazione a ritrovare la bella sconosciuta che si è offerta di essere punita o uccisa al suo posto.

Da questo momento, secondo un diagramma speculare e simmetrico rispetto a quanto accaduto prima del racconto del sogno da parte di Albertine, Fridolin

19

rincontra le stesse persone e rivive le stesse situazioni, o meglio tenta di rincontrare le stesse persone e tenta di rivivere le stesse situazioni, del giorno precedente. Così, cerca di rimettersi in contatto con l’amico pianista senza tuttavia riuscirci, va a trovare la figlia del paziente morto la quale, però, si mostra poco disponibile e si reca dalla giovane prostituta senza però trovarla in casa.

Poi, dopo avere letto su un giornale della tragica morte per avvelenamento di una giovane donna dalla straordinaria bellezza, Fridolin, sconvolto ed insospettito, si reca all’obitorio dove esamina il corpo della donna, senza tuttavia raggiungere la certezza che si tratti della sconosciuta che si è sacrificata per lui.

Tornato a casa, Fridolin trova con orrore sul suo cuscino, accanto alla moglie addormentata, la maschera che ha indossato durante la festa la notte precedente. Racconta allora ad Albertine la sua esperienza-incubo, come se fosse l’unico modo per salvare il loro matrimonio.

1.1.2. Analisi dell’opera

L’immediatezza con la quale Schnitzler presenta, con pochi tratti essenziali, situazioni e personaggi è caratteristica dello scrittore viennese e tocca ancora una volta in Doppio Sogno il culmine della maestria narrativa. Quella della tranquilla famiglia borghese è solo una maschera, una facciata illusoria che cela un groviglio di dubbi, di angosce, di aggressività, di desideri repressi che, una volta svelati e liberati, coinvolgeranno i personaggi in una ridda di avventure reali e sognate, costringendoli a percorrere le stazioni della loro crisi alla ricerca di una verità che non esiste se non nel tentativo della reciproca comprensione. Nessuna delle avventure erotico-surreali di Fridolin giungerà a compimento e l’orgia di piacere e di libidine incontrollata di Albertine è solo un sogno, così come il tradimento dei due coniugi, motivo scatenante dei turbamenti paralleli dei protagonisti, è solo frutto di una fantasia erotica.

20

La trama della novella si struttura e si dipana secondo il filo dell’alienazione e della vicendevole estraniazione dei due personaggi principali. Il simbolo di tale alienazione è la maschera ed il mistero che ad essa si accompagna: la storia si apre con il racconto delle vicende della festa mascherata della sera precedente, preludio di quello che accadrà in seguito. Ed infatti, è soprattutto la partecipazione notturna di Fridolin alla festa orgiastica mascherata, caratterizzata dall’assoluta assenza di volti e quindi di identità, e conclusasi con l’allucinante confronto con il corpo della donna morta nella sala anatomica, a segnare e a simboleggiare la perdita di identità che connota la crisi dei due personaggi.

Doppio Sogno, quindi, rappresenta la storia del progressivo allontanarsi affettivo e del progressivo ricongiungersi di Albertine e di Fridolin. La loro condizione psicologica lascia pensare a quella specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio che Schnitzler definiva «medioconscio», e che consente di inquadrare in una nuova prospettiva il turbamento interiore dei due personaggi, sospesi in bilico fra comprensione ed incomprensione12. Infatti, se è vero che il medioconscio costituisce «il campo più vasto della vita psichica e spirituale, [e da esso] gli elementi emergono incessantemente al conscio o precipitano nell’inconscio»13, allora anche la ritrovata intesa finale di Fridolin e Albertine dopo la turbinosa notte dei desideri inappagati rappresenta una sorta di ascesa al conscio, un ritorno alla normalità, dove però nulla sarà più come prima.

Il medioconscio dunque è la grande regione nella quale si muovono le ricognizioni analitiche di Schnitzler – basti pensare alle riflessioni ed ai monologhi interiori dei suoi personaggi –, una sorta di regno delle percezioni e dei ricordi che sfugge al dominio della razionalità e che tuttavia non è riconducibile all’inconscio. «Il medioconscio è la zona della psiche dove appare visibile la fragilità della condizione umana, l’autoillusione dell’individuo che si

12 S. Ciaruffoli, 2003
13 A. Schnitzler, 2001, p. 18

21

sottrae alla propria responsabilità etica, il carattere di maschera dei ruoli sociali»14.

L’accenno di Albertine al destino nel colloquio finale con il marito è un richiamo a quello iniziale dei due coniugi, ovvero il primo momento di dubbio ed incertezza reciproci e preludio al successivo sbandamento affettivo. In questo primo colloquio Schnitzler fissa e sintetizza la tematica della novella, preannunciandone allo stesso tempo lo sviluppo narrativo:

Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino.15

Schnitzler delinea subito la possibilità e l’intento di utilizzare il sogno come regione dell’anima nella quale è possibile la realizzazione dei desideri repressi; e sarà proprio Albertine ad intraprendere un viaggio liberatorio all’interno degli abissi della coscienza. Il suo sogno, però, non rappresenta unicamente la soddisfazione di un desiderio represso e non ha un contenuto latente, non ha bisogno di essere decodificato. È vero che il materiale onirico è costituito dai resti diurni e dal ricordo della conversazione con Fridolin in camera da letto – in sogno appaiono gli schiavi mori della fiaba raccontata alla figlioletta, il giovane ufficiale danese che aveva ammaliato Albertine durante la vacanza in Danimarca, la bella fanciulla che aveva avvinto Fridolin nella stessa occasione – ma l’azione onirica, così come descritta da Schnitzler attraverso le parole di Albertine, ha una funzione ben precisa ed ha carattere speculare rispetto alle fantastiche avventure reali di Fridolin: infatti, mentre Fridolin non riuscirà a

14 L. Reitani, 2001, p.119
15 A. Schnitzler, 1977, p. 13

22

possedere la bella sconosciuta durante la festa in maschera e, una volta scoperto, riuscirà a sfuggire ad una dura punizione, e forse alla morte, soltanto grazie al sacrificio della donna misteriosa, Albertine si concederà al giovane danese e assisterà poi, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta di morire pur di restarle fedele.

Nelle sue stesse trascrizioni ed osservazioni riguardanti i propri sogni16 Schnitzler non appare interessato ad una analisi del fenomeno onirico. Per quanto riveli una assimilazione di alcuni concetti fondamentali del pensiero freudiano – come il valore dei resti diurni o la nozione di «spostamento» – egli rimane ancorato al contenuto onirico manifesto, affascinato dalla simbologia dei sogni, dagli spazi e dalle dimensioni che in essi si aprono, dalla stessa ricorrenza di temi chiaramente ossessivi – come l’idea della morte legata al sogno, che richiama alla mente l’immagine dell’obitorio in Doppio Sogno. È dunque all’individuo ed alla sua crisi psicologica ed esistenziale che Schnitzler presta la sua attenzione, e non alla psiche in quanto tale17.

La risata sinistra e al contempo isterica con la quale Albertine si desta dall’inquietante sogno e l’orrore di Fridolin di fronte al volto estraneo della moglie che lo guarda terrorizzata segnano il culmine della loro estraniazione e del loro allontanamento affettivo. Mentre la fine del racconto del sogno da parte di Albertine costituisce il primo momento del loro successivo riavvicinamento18. Infatti, se da un lato il sogno ha assorbito tutti gli impulsi aggressivi di Albertine ed ha permesso il soddisfacimento di un inconscio desiderio di vendetta per l’incomprensione del marito, dall’altro ha costretto Fridolin, sgomento per l’infedeltà sognata dalla moglie e per la straordinaria coincidenza di fantasmi onirici e realtà da lui vissuta, a riflettere, seppure

16 È possibile prendere visione delle trascrizioni e valutazioni dei suoi stessi sogni in A. Schnitzler, 2001, p. 35-58
17 L. Reitani, 2001
18 G. Farese, 1977

23

inconsciamente, sulla sua stessa infedeltà, che solo per un singolare gioco del destino non si è mai tramutata in realtà. È da questo momento che Fridolin intraprenderà il viaggio che lo riporterà dagli abissi della sua stessa anima verso la superficie, ossia la normalità.

L’attenzione di Schnitzler è rivolta principalmente alla figura del protagonista maschile, Fridolin, il cui viaggio interiore alla ricerca di una soluzione al proprio smarrimento esistenziale è più lungo, complesso e travagliato rispetto a quello della moglie, che, sotto questo aspetto, diviene un personaggio secondario sebbene di fondamentale importanza per lo sviluppo della trama e del parallelismo delle vicende oniriche e reali della novella.

Anche la dicotomia fedeltà-tradimento, che costituisce l’asse portante della storia, si esplica maggiormente nelle contraddittorietà del personaggio maschile, ben rappresentate a partire dalla reazione di Fridolin alla reciproca confessione, in camera da letto, dei pericoli cui entrambi i partner sono sfuggiti durante la vacanza estiva in Danimarca19. All’affermazione di Fridolin: «in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te» Albertine replica: «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?». Emblematica è la reazione immediata di Fridolin: «Fridolin abbandonò le sue mani quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva»20. Alla base della debolezza e dell’indecisione di Fridolin vi è dunque l’ipocrita ed assurdo pregiudizio borghese che concede agli uomini il diritto ad una morale e relega la donna in una degradante posizione subalterna21. Diviso fra la morale borghese e l’amore per Albertine, incapace di risolvere razionalmente le proprie contraddizioni, Fridolin intraprende il proprio viaggio all’insegna dell’evasione erotica e di un illusorio senso di liberazione dalle proprie responsabilità, oltre che del desiderio di vendicarsi della moglie, che si rivela però vano tanto quanto il tentativo di

19 G. Farese, 1977
20 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 21 G. Farese, 1977

24

liberarsi dalla presenza stessa della moglie. Infatti, sebbene Fridolin sia fisicamente presente in tutti e sette i capitoli e il narratore lo segua passo passo nei suoi spostamenti, mentre Albertine sia realmente presente soltanto in quattro capitoli, di fatto la sua presenza viene percepita in ogni capitolo e la sua immagine, apparentemente rimossa, non ha mai abbandonato Fridolin. Egli se ne accorge proprio quando, nel tentativo disperato di svelare il mistero e dare un volto alla bella sconosciuta che si è sacrificata per lui, si reca all’obitorio:

[…] che cercava? Conosceva solo il suo corpo, il viso non l’aveva mai visto, ne aveva avuto solo un’immagine fugace la notte scorsa nell’attimo in cui aveva lasciato la sala da ballo o, per meglio dire, quando ne era stato cacciato. Eppure il non avere fino ad allora considerato quella circostanza derivava dal fatto che per tutto il tempo trascorso dal momento in cui aveva letto quella notizia sul giornale si era rappresentata la suicida, il cui volto gli era sconosciuto, con i lineamenti di Albertine e che, come si accorse solo ora rabbrividendo, aveva continuamente avuto davanti agli occhi l’immagine della moglie, identificandola con colei che cercava.22

Da un lato, dunque, l’immagine di Albertine non ha mai abbandonato Fridolin nella sua disperata ed assurda corsa verso l’evasione erotica, dall’altro quest’improvvisa rivelazione potrebbe essere interpretata come un nuovo segno di parallelismo e capovolgimento della situazione fra il sogno di Albertine e l’avventura di Fridolin: se si è sempre figurato il volto della suicida coi lineamenti della moglie, anche Fridolin si è in qualche modo vendicato dell’infedeltà e dell’incomprensione di Albertine facendo sì che, almeno nella sua immaginazione, Albertine stessa si sia sacrificata per lui e per la sua salvezza. La discesa agli inferi, nelle profondità dell’inconscio, è terminata e a chiunque appartenga quel corpo enigmatico di donna che lo ha magicamente attratto, esso non rappresenta oramai altro che «il cadavere pallido della notte

22 A. Schnitzler, 1977, p. 104

25

passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione»23.

Il ritorno a casa e la vista della maschera che ha indossato durante la festa nella misteriosa villa e che, trovata da Alberatine, è stata significativamente posta sul cuscino del marito, come a rappresentare la perdita di identità, lo straniamento e lo smarrimento del personaggio, è sufficiente a causare il crollo di Fridolin: caduta la maschera dietro la quale aveva creduto di poter celare le proprie contraddizioni, riaffiora in lui la coscienza del proprio rapporto con Albertine, e si profila la possibilità di una ripresa sulla base della reciproca comprensione24. Se, da un lato, l’affermazione conclusiva di Albertine, che sentenzia: «Non si può ipotecare il futuro»25 è indicativa del determinismo e dello scetticismo che caratterizza il pensiero di Schnitzler e che ha orientato anche l’amara tematica di Doppio Sogno, dall’altro i riferimenti al vittorioso raggio di luce che annuncia il nuovo giorno e il riso della bambina che si avverte dalla stanza accanto lasciano presagire una rinnovata speranza in un mondo in declino.

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick è stato definito un regista eccentrico, un genio, un maestro, un autore fortemente concettuale; certamente, non è un regista di immediata comprensione. Ma, in qualsiasi modo lo si voglia considerare, non si può non riconoscere l’importanza della sua arte, uno sguardo sul mondo e sull’uomo.

Nato a New York, ha vissuto per anni lontano dal mondo del cinema, isolato nella sua casa in Inghilterra, producendo capolavori ad intervalli di tempo sempre maggiori; ossessionato dal bisogno di esercitare un controllo assoluto su tutti gli aspetti del proprio lavoro, curava personalmente il montaggio e la

23 A. Schnitzler, 1977, p. 111 24 G. Farese, 1977
25 A. Schnitzler, 1977, p. 114

26

postproduzione, nonché i sottotitoli ed il doppiaggio per ogni edizione originale e straniera dei propri film.

1.2.1. Temi del cinema di Kubrick

Le sue opere raccolgono storie riconducibili ad un unico nucleo tematico, costituito dalla «rappresentazione della crisi del modello della ragione occidentale»26, tema affrontato da Kubrick mediante mezzi esclusivamente cinematografici, basandosi sulla forza delle immagini e dei suoni. Egli rappresenta tale crisi attraverso la crisi del controllo sulle azioni e sulle identità dei singoli soggetti, mediante un uso distorto dello spazio e del tempo e, infine, rappresentando la crisi del sistema sociale.

I personaggi di Kubrick si muovono in un universo che sfugge alla loro comprensione, in un mondo fatto di menzogne, di inganni e di false rappresentazioni. Questa perdita di controllo e di comprensione da parte dei singoli personaggi si riflette da un lato nella crisi dell’uso del linguaggio, che regredisce fino a divenire quasi grottesco nella sua povertà ed inadeguatezza, dall’altro nella progressiva spersonalizzazione dei personaggi, che divengono soggetti privi di un’identità salda, sicura, completa. Spesso i personaggi kubrickiani sono portatori di identità differenti ed inconciliabili fra di loro. L’uso insistito dei primi o primissimi piani delinea non tanto la volontà di esplorare reazioni psicologiche o di fissare stati d’animo soggettivi, quanto quella di indagare l’animo umano nella sua perdita e scissione di identità, attraverso la presentazione di smorfie grottesche, maschere distorte dei volti27. A tale proposito, la maschera è anch’essa un tema ricorrente nel cinema di Kubrick, così come la sua ossessione per il tema del doppio. In un quadro più ampio, la crisi dell’individuo si presenta come lo specchio di una più vasta crisi sociale. Altri espedienti per la rappresentazione della crisi della ragione sono un

26 R. Eugeni, 1995, p. 135 27 R. Eugeni, 1995

27

uso distorto dello spazio e del tempo, che perdono la loro neutralità per divenire espressioni della soggettività ed emotività dei personaggi. Ad esempio, l’uso del labirinto e dei corridoi indica uno svuotamento dello spazio e la mancanza di punti di riferimento, così come l’utilizzo dei carrelli in avanti o all’indietro che accompagnano il personaggio in una sorta di corridoio-tunnel assumono il significato di una realtà che risucchia i protagonisti, senza dar loro la possibilità di prevedere quale possa essere il punto d’arrivo. Alla crisi dello spazio di solito si accompagna la crisi del tempo, che perde la sua linearità per assumere fattezze soggettive, caratterizzate dalla presenza di ciclicità e ritorni, simmetrie inquietanti di eventi che si riproducono con ossessiva similitudine e che costringono i personaggi ad una coazione a ripetere, proiettando le loro azioni in un non-divenire.

1.2.2. Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick

Nel dicembre 1995 viene ufficialmente annunciato che il nuovo film di Stanley Kubrick sia chiamerà Eyes Wide Shut, e che avrà come protagonisti Tom Cruise e Nicole Kidman. Il film, sceneggiato dallo stesso Kubrick assieme a Frederic Raphael, affermato intellettuale, scrittore, saggista nonché sceneggiatore, è tratto dal racconto Doppio Sogno di Arthur Schnitzler. Le riprese iniziano nell’estate del 1996 e si svolgono nella massima segretezza: gli attori e i tecnici sono tenuti per contratto a non far trapelare il minimo particolare della vicenda e della lavorazione. Le riprese si protraggono ben oltre il previsto, anche a causa dell’ormai leggendaria meticolosità del regista che ripete la stessa scena anche fino a settanta volte, e si concludono ufficialmente il 31 gennaio 1998. Kubrick comincia a curare il montaggio e la fase di postproduzione del film. Il 5 marzo 1999 invia una copia di Eyes Wide Shut, finito di montare e sonorizzare il giorno prima, ai responsabili della Warner Bros. di New York, che ne effettuano una proiezione riservatissima. Alle prime ore del 7 marzo Kubrick muore nel sonno nella sua casa presso Londra, aprendo laceranti dubbi sulla completezza dell’ultima sua opera, nella quale molti hanno ravvisato

28

imprecisioni ed imperfezioni, soprattutto, per l’appunto, a livello di montaggio.

Il montaggio che possediamo, tuttavia, è l’ultimo sul quale ha lavorato Kubrick: i suoi collaboratori hanno preferito non intervenire per rispetto nei confronti del maestro. E se a molti può apparire incompiuto da un punto di vista produttivo, l’ultimo film di Kubrick appare a me invece come un’opera pienamente kubrickiana, caratterizzata da una forte coesione interna ed esplicativa dei motivi narrativi, tematici e stilistici che hanno contraddistinto tutto il cinema di Kubrick.

A tal proposito, Eyes Wide Shut diviene il testamento involontario di Stanley Kubrick sotto due aspetti: da un lato riprende quasi in forma di ricapitolazione i nuclei tematici ed i procedimenti stilistici del suo cinema, dall’altro sembra condensare in sé la filosofia cinematografica di Kubrick, nella quale il cinema diviene alter-ego del sogno ed il suo linguaggio, come quello dell’inconscio, diviene uno sguardo sulla realtà.

29

2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA

Alla luce dei temi prediletti di Kubrick e ricorrenti, seppure in modi e misure differenti, in pressoché tutti i suoi capolavori, credo giunga immediata una constatazione della simmetria perfetta fra il pensiero cinematografico del noto regista e la filosofia che ha orientato l’opera di Schnitzler. A questo punto, non solo Doppio Sogno si presenta come un soggetto ideale per il cinema, come sopraccitato, ma diviene anche e soprattutto un soggetto ideale per il cinema di Kubrick nello specifico.

2.1. Due trame a confronto

Sebbene Stanley Kubrick rimanga sostanzialmente fedele alla lettura di Doppio Sogno, nel film vi sono alcune importanti differenze narrative.

Innanzitutto, la storia è incentrata in quattro giorni della vita della giovane coppia anziché due ed è proiettata nella New York odierna durante il periodo natalizio. I protagonisti sono il medico Bill Harford e la bella moglie Alice in luogo del medico Fridolin e della moglie Albertine.

Il film si apre con la scena in cui i due coniugi si recano, come ogni anno, ad una sontuosa festa natalizia a casa del loro amico Victor Ziegler.

A tal proposito, vorrei sottolineare che questa festa, che nel racconto di Schnitzler rappresenta non più di una fuggevole parentesi unicamente funzionale allo sviluppo della storia stessa, occupa invece nel film una buona parte della scena ed assume una notevole importanza nel delineare sia lo sviluppo della vicenda sia alcuni dei temi fondamentali della storia

30

rappresentata da Kubrick. Inoltre, la sostanziale quanto implicita differenza strutturale tra un’opera letteraria, che viene fissata sotto forma di parola scritta, ed un film, che viene invece sostenuto dall’immagine, dalla parola sotto forma di dialogo o voce over, nonché dal suono, rende necessario mostrare attraverso l’immagine, appunto, ciò che nel libro ci viene invece solo riferito28. Oltre a ciò, è necessario aggiungere che, a differenza di molti altri suoi prodotti cinematografici, in Eyes Wide Shut Kubrick ha preferito lasciar scorrere le immagini e non affidarsi, ad esempio, alla voce fuori campo per descrivere determinate scene o situazioni, onde evitare di sovraccaricare troppo l’ambientazione onirico-reale-surreale della vicenda: anche questo spiega la necessità e la decisione di dar vita, nel film, alla festa soltanto accennata da Schnitzler mediante lunghe sequenze di musica e di immagini.

Anche il personaggio di Victor Ziegler rappresenta una novità rispetto al racconto di Schnitzler e costituisce una sorta di deus ex machina; in un confronto finale fra il protagonista Bill e Ziegler, Kubrick ha l’occasione di inserire una riflessione su due diversi tipi di morale: quella accomodante e superficiale di Ziegler e quella più problematica ma anche più consapevole di Bill. Inoltre, se da un lato l’introduzione di questo personaggio è stata una scelta in un certo senso obbligata, in quanto è colui che invita Bill e Alice alla festa di Natale, dall’altro il suo ritorno nel dialogo con Bill in merito all’altra festa, quella mascherata e segreta, è un espediente prima voluto dallo sceneggiatore Raphael e poi approvato ed utilizzato da Kubrick per conferire al film un maggiore senso di realtà, poiché «se non c’è realtà non c’è film»29.

Tornando alla trama del film, durante la festa a casa Ziegler, Alice viene corteggiata da un attempato ma seducente ungherese, Sandor Szavost, mentre Bill ritrova un vecchio compagno di università, che lavora ora come pianista e che lo invita, più tardi, a raggiungerlo in un locale nel quale si dovrà esibire.

28 P. Torop, 2000
29 F. Raphael, 1999, p. 40

31

Kubrick anticipa l’incontro fra il protagonista maschile e il vecchio amico rispetto a Schnitzler, eliminando quindi da un lato la casualità del successivo e determinante incontro fra i due personaggi e dall’altro, secondo una mia impressione, quell’immagine di predeterminazione che assume il viaggio di Fridolin in Doppio Sogno, quasi preannunciato ed evocato dal narratore quando fa riferimento all’«inafferrabile vento del destino»30.

Tornando alla trama, mentre anche Bill flirta con due modelle, il padrone di casa richiede il suo intervento: Mandy, una giovane modella con la quale Ziegler si era appartato nel bagno di casa, ha avuto una crisi di overdose. Bill salva la ragazza. Una volta a casa, Bill e Alice fanno l’amore.

La giornata successiva si svolge all’insegna della normalità.

A questo punto Kubrick riprende nel film la scena di apertura di Doppio Sogno.

La sera Bill e Alice fumano assieme della marijuana: resa eccitata ed aggressiva dalla droga, Alice dà il via ad un gioco della verità che la porta a confessare a Bill di avere provato tempo prima una forte ed irresistibile attrazione per un giovane ufficiale di marina durante una vacanza trascorsa a Cape Cod. Una telefonata interrompe il dialogo: il medico è chiamato al capezzale di un cliente appena deceduto.

Interessante e non comprensibile in questa scena è la decisione, da parte dello sceneggiatore Raphael e dello stesso Kubrick, di eliminare la reciprocità della confessione del mancato tradimento: nel racconto di Schnitzler, infatti, i due coniugi si erano trovati entrambi coinvolti da una forte attrazione per un’altra persona durante la vacanza; in tal modo, nel film si verifica uno sbilanciamento rispetto alla struttura originaria dell’opera, che perde sia parte della sua doppiezza, sia efficacia nel mostrare il parallelismo dei turbamenti dei due protagonisti, creando così un notevole residuo traduttivo. Oserei dire che, se Schnitzler concentra la propria attenzione prevalentemente sull’analisi del

30 A. Schnitzler, 1977, p. 13

32

personaggio maschile, nel quale si esplicano con maggiore forza le contraddittorietà dell’animo umano, Kubrick fa dell’emblematicità dello stesso l’asse portante della vicenda.

Da notare, inoltre, che la scelta di cambiare il luogo nel quale si è svolta la vacanza dei due protagonisti comporterà poi anche la modifica della parola d’ordine per accedere alla festa mascherata: infatti, non avrebbe avuto senso mantenere la parola Danimarca nel film, poiché nel racconto essa aveva una chiara funzione evocativa, che accentuava il carattere onirico-surreale del viaggio di Fridolin.

Uscito di casa, ha inizio l’odissea notturna di Bill, ossessionato dall’idea del tradimento non consumato della moglie con l’ufficiale.

A casa del defunto, la figlia di questi, Marion, nonostante sia in procinto di nozze, in un momento di intimità gli confessa il suo amore per lui. Sconvolto dall’inaspettata rivelazione, una volta in strada Bill decide di accettare l’invito di una giovane prostituta a seguirla nel suo appartamento, ma una telefonata di Alice gli impedisce di consumare il rapporto con la ragazza.

Nel racconto di Schnitzler, la presenza di Albertine viene percepita anche nei capitoli in cui non compare fisicamente, grazie al pensiero di Fridolin, spesso rivolto nei suoi confronti, sia quando pensa a lei teneramente sia quando rivive il mancato tradimento ed è mosso da moti di indignazione. Data la naturale differenza strutturale fra racconto scritto e film, che non può avvalersi della parola per indagare e descrivere il pensiero o la psicologia dei personaggi, e data la scelta da parte del regista di rinunciare all’utilizzo della voce fuori campo, Kubrick ha probabilmente deciso di rivelare la suddetta presenza della moglie attraverso altri espedienti, come la tecnologia, ovvero una telefonata che interrompe il flusso delle azioni e dei pensieri del medico. Anche il turbamento interiore di Bill viene mostrato, e non riferito come nel libro, oltre che mediante la gestualità e la mimica facciale, anche attraverso l’uso di immagini accompagnate da una inquietante musica di sottofondo che, simili a

33

fotogrammi che si inseriscono improvvisamente nel naturale svolgimento della storia, raffigurano la moglie assieme all’ufficiale di marina, così come avviene nei pensieri di Bill.

Nuovamente in strada, Bill si reca nel locale in cui si esibisce il vecchio compagno di università incontrato a casa di Ziegler. Intrattenendosi con l’amico, il medico viene a sapere dell’esistenza di una setta misteriosa, popolata da bellissime donne, che si riunisce in luoghi sempre differenti e dove avvengono sontuose orge. Incuriosito, Bill si fa dare l’indirizzo e la parola d’ordine, che è non più Danimarca bensì Fidelio, per accedere alla festa, e si reca poi dall’ambiguo mascheraio Milich per procurarsi un adeguato travestimento. Mentre si trova ancora nel negozio, Bill ed il proprietario scoprono la figlia di quest’ultimo in compagnia di due giapponesi seminudi e travestiti.

Un lungo ed imprecisato viaggio in taxi conduce Bill a Somerton, la villa in cui si svolge la festa mascherata. Tra una folla di individui incappucciati e protetti da maschere grottesche, prende avvio una sontuosa orgia. Bill viene avvicinato da una donna, anch’ella mascherata, che gli intima più volte di fuggire, pena un terribile castigo. Bill rifiuta e viene scoperto, sottoposto ad un processo, minacciato e costretto a confessare la sua intrusione. Improvvisamente, tuttavia, interviene la misteriosa donna mascherata che aveva cercato di avvertirlo poco prima, la quale si offre di sacrificarsi al suo posto. Bill viene liberato.

Tornato a casa, sente Alice che ride sfrenatamente nel sonno. Svegliatasi, la moglie gli racconta angosciata un sogno nel quale si concede prima all’ufficiale di marina e poi ad una grande moltitudine di uomini all’interno di un’orgia.

Così come nella confessione iniziale fra i due coniugi, anche nel racconto del sogno da parte della protagonista femminile Kubrick elimina una parte importante della storia originale: infatti, nella novella di Schnitzler Albertine, dopo essersi concessa al giovane ufficiale, assiste, ridendo, alla crocifissione del

34

marito, che accetta il sacrificio pur di rimanerle fedele. In effetti, la scelta da parte di Kubrick di eliminare, nella confessione del reciproco tradimento non consumato, la parte che vedeva coinvolto il protagonista maschile giustifica pienamente la decisione di eliminare anche questa parte del racconto. Nella novella di Schnitzler la reciproca confessione di un tradimento non consumato da parte dei due protagonisti è la causa dello smarrimento, dell’alienazione e anche del desiderio di vendetta di entrambi i partner: questo desiderio verrà soddisfatto da Albertine attraverso la crocifissione del marito mentre lei si concede ad altri uomini, e da Fridolin nell’abbandono all’evasione erotica. Poiché nel film manca la confessione del tradimento non consumato da parte di Bill, non avrebbe probabilmente avuto senso la rappresentazione del desiderio di vendetta da parte di Alice in sogno. In tal modo, il sogno di Alice perde del tutto la connotazione freudiana di soddisfacimento di un desiderio represso per svolgere unicamente una funzione simmetrica e speculare rispetto all’avventura notturna di Bill.

Come nel racconto di Schnitzler, anche nel film prodotto da Kubrick la confessione del sogno di Alice segna l’inizio di un nuovo viaggio, intrapreso da Bill, che si rivelerà speculare rispetto a quanto accaduto nella notte precedente.

Il mattino, prima di andare al lavoro, Bill tenta di mettersi in contatto con l’amico pianista, ma questi è scomparso in circostanze ambigue. Si reca quindi da Milich: i due giapponesi appaiono ora distintamente vestiti e salutano affabilmente il proprietario, col quale hanno raggiunto un “accordo”.

Bill si accorge di avere perduto la maschera che indossava alla festa notturna.

Mentre in Doppio Sogno non viene fatto cenno alcuno ad un eventuale smarrimento della maschera e non viene spiegato in maniera esplicita come, al termine del racconto, essa appaia sorprendentemente sul cuscino di Fridolin, lasciando così aperta l’interpretazione secondo cui la maschera non sia stata trovata e posta significativamente sul cuscino da Albertine, ma semplicemente sia riapparsa, quasi per magia – e, forse, viene vista e percepita soltanto da

35

Fridolin –, a significare, da un lato, la perdita di identità da parte del medico e, dall’altro, il superamento del confine fra sogno e realtà, in Eyes Wide Shut Kubrick si premura di fornire – o cercare di fornire – un senso ed una possibile spiegazione al ritrovamento della maschera al termine della storia, alla luce della sua volontà di impregnare la vicenda di un maggiore realismo.

Incapace di lavorare, Bill annulla tutti gli appuntamenti e si reca nuovamente alla villa, dove però gli viene consegnato un biglietto che gli intima di desistere da ogni ulteriore indagine. La sera esce e tenta di mettersi in contatto prima con Marion, poi con la prostituta della sera precedente, ma senza riuscirvi. Per strada Bill si accorge di essere pedinato; compra un giornale e si introduce in un caffè, dove legge della morte per overdose di una ex reginetta di bellezza, Amanda Curran, la stessa ragazza che aveva salvato nel bagno di casa Ziegler. Insospettito dalla coincidenza della morte di Amanda e della misteriosa donna mascherata durante da festa, Bill si reca all’obitorio dove fissa a lungo il corpo della ragazza. Una telefonata lo distoglie dai suoi pensieri e lo chiama a casa di Victor Ziegler, dove lo attendono alcune spiegazioni.

Anche il ricco cliente di Bill era all’orgia in maschera, destinata ad ospitare un gruppo selezionato di potentissimi personaggi. Il pianista è stato semplicemente allontanato. Amanda, anch’ella presente alla festa notturna, è morta poco dopo per la droga assunta volontariamente: non c’è stato nessun omicidio e il processo era solo una messa in scena per spaventare Bill.

All’uscita del film nelle sale cinematografiche, furono in molti quelli che trovarono nell’introduzione di questa scena, assolutamente innovativa rispetto al racconto di Schnitzler, nella quale Kubrick sembra insolitamente concedersi alla spiegazione, un motivo di critica: infatti, in nessuno dei suoi precedenti film il regista aveva mai ceduto ad un commento esplicativo, anzi, semmai aveva sempre cercato di oscurare anche il minimamente percettibile31. In verità,

31 S. Ciaruffoli, 2003

36

questa scena, voluta in origine principalmente dallo sceneggiatore Frederic Raphael, che sentiva la necessità di conferire alla storia una struttura narrativa concreta e il più possibile reale, e solo in extremis approvata e adottata da Kubrick, non solo non chiarisce nulla, ma, come avrò modo di spiegare più avanti, ad una più accurata analisi colpisce per il senso di teatralità che riesce a trasmettere e, di conseguenza, di falsità.

Tornato a casa, esausto e sconvolto per le rivelazioni della giornata e per gli accadimenti delle due giornate trascorse, il medico trova la maschera che aveva smarrito adagiata sul suo cuscino a fianco di Alice. La sola vista della maschera è sufficiente per provocare il crollo di Bill. Travolto da un incontenibile pianto liberatorio, egli decide di raccontare alla moglie quanto accaduto.

Il mattino dopo trova i coniugi Harford reduci da un lungo e sofferto racconto. Poi, i due si recano con la figlioletta Helena ad acquistare dei giocattoli. Nel negozio ha luogo un breve ma intenso dialogo conclusivo.

2.2. Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca

Stanley Kubrick, come attestato anche dalla testimonianza dello sceneggiatore Frederic Raphael32, desiderava rimanere il più possibile fedele al canovaccio di Doppio Sogno. Ed infatti, sebbene vi siano alcune sostanziali differenze fra la trama del film e quella del racconto, che lascerebbero supporre un totale stravolgimento da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad una più accurata analisi è possibile notare come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga rivestita e travestita dalla storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento sia sufficientemente sottile affinché la trama originale continui ad affiorare. Tutta l’ambientazione è volutamente ambigua sotto questo punto

32 F. Raphael, 1999

37

di vista.

Alla Vienna di inizio Novecento viene sostituta la New York odierna durante il periodo natalizio: tuttavia, «la New York descritta da Kubrick è uno strano ibrido tra la Grande Mela della fine del XX secolo e la Vienna di inizio ‘900 in cui è ambientato il racconto di Schnitzler»33. Per quanto si svolga in una città tanto multietnica e moderna, Eyes Wide Shut è costellato di personaggi e nomi europei centro-orientali: il seduttore ungherese Sandor Szavost; il signor Milich, proprietario del negozio di costumi, di provenienza balcanica; lo stesso Ziegler, il quale ha un cognome di chiara origine tedesca. Oppure, appaiono ambienti come il caffè Sharky’s, nel quale Bill si rifugia nel tentativo di sfuggire al misterioso pedinatore, intonato ad un clima tardo romantico e nel quale risuona il brano Rex Tremendae dal Requiem K. 626 di Mozart. Altre scelte musicali alludono alla cultura mitteleuropea: il valzer di Šostakovič che accompagna i titoli di testa e l’inizio del film, o i brani di Liszt e di Ligeti34. O, ancora, alcuni particolari come la carrozzina antiquata che la piccola Helena indica ai genitori nella scena finale. Infine, l’abbondanza di valletti, servitori, maggiordomi sia alla festa in casa Ziegler sia alla festa mascherata, o anche la figura del portiere dell’albergo, tutti personaggi compresi nel loro ruolo di subalterni in una società dominata da rigidi rapporti gerarchici, rimandano più alla civiltà aristocratica dell’Europa precedente la Prima Guerra Mondiale che a una moderna metropoli americana.

Tuttavia, la storia originale di Schnitzler non è la sola che si sente riecheggiare nella vicenda di Bill e Alice. Il film è dominato da una forte atmosfera fiabesca.

All’inizio del film Helena è vestita come la protagonista dello Schiaccianoci e chiede ai genitori il permesso di vedere la fiaba in televisione: alla fine del film, la stessa Helena richiama l’attenzione dei genitori su una versione della Barbie ricalcata sul modello dello stessimo personaggio. Lo Schiaccianoci, un balletto del

33 G. Alonge, 2002, p. 20 34 F. Ulivieri, 2001

38

1892 di Čajkovskij della favola Lo schiaccianoci e il re dei topi di E. T. Hoffmann, è una favola natalizia nella quale si narra di viaggi fantastici, di giocattoli meccanici simili a soggetti umani e di desideri sessuali di una bambina trasfigurati in sogno35. E’ piuttosto evidente il parallelismo fra la storia della fiaba e la storia del film. Anche i riferimenti all’arcobaleno contenuti nel dialogo fra Bill e le due modelle e poi nel nome del negozio di Milich – nella sceneggiatura originaria anche la parola d’ordine della festa orgiastica doveva essere «Fidelio rainbow» – rimandano alla storia del Mago di Oz, la favola di una viaggio fantastico di una ragazzina verso un paese incantato36. Infine, la sequenza iniziale del film, nella quale Bill cerca il portafoglio smarrito prima di recarsi alla festa di Ziegler, può essere paragonata alla scena iniziale di Peter Pan, così come rappresentata dalla versione disneyana del 1952, nella quale i signori Darling si preparano per andare ad una festa ed il padrone di casa reclamerà affinché qualcuno gli cerchi i gemelli che ha smarrito e coi quali deve completare il suo abbigliamento. La figura di Peter Pan raffigura nella riflessione psicoanalitica l’istanza dell’irrazionale, del sognante che si fa tentare dall’immaginazione e che non teme il paradosso, non si sottrae agli impulsi37.

Ma oltre ai rimandi di precise storie di viaggi e di sogni, la gamma di riferimenti culturali disseminati in Eyes Wide Shut è estremamente ampia a complessa. In particolar modo, vorrei sottolineare che mentre la parola d’ordine per accedere alla festa segreta in Doppio Sogno è Danimarca, con una chiara allusione ed un rimando alla confessione del mancato tradimento da parte di Albertine con il giovane ufficiale intravisto durante la vacanza estiva, nel film la stessa è Fidelio, titolo dell’opera di Beethoven che si conclude con un inno all’amore coniugale dopo avere esaltato l’idea di libertà38.

35 R. Eugeni, 1995
36 R. Eugeni, 1995
37 G. P. Caprettini, 2002 38 G. Alonge, 2002

39

2.3. Temi a confronto

Nelle sue opere precedenti Doppio Sogno, Schnitzler aveva già affrontato il tema della coppia e dei turbamenti che possono scuotere e minare un felice ed apparentemente tranquillo rapporto, tuttavia analizzando il punto di vista di un solo partner. Allo stesso modo, anche Kubrick, in alcuni suoi film precedenti Eyes Wide Shut, aveva già rappresentato questo tema: si trattava però di coppie anomale, come quella di Humbert e Lolita in Lolita, oppure il motivo apparteneva ad un più ampio affresco e riguardava coppie già in crisi, come in Barry Lindon o in Shining. Con Eyes Wide Shut, invece, il regista pone al centro del racconto l’esplorazione, da parte di una coppia adulta che vive in una sfera di normalità, quella di una tranquilla famiglia borghese, entro i gorghi della psiche, laddove il confine fra realtà materiale e realtà psichica, fra vero e falso, è costantemente rimesso in discussione, e la notte e il giorno si incontrano di continuo, «facendo del viaggio “reale” del marito un’esperienza più onirica e incompiuta del sogno della moglie»39.

L’aspetto saliente della coppia di Bill e Alice, dunque, è la dualità fra aspetto diurno e aspetto notturno, l’apparente normalità di una relazione felice e l’effettivo gorgo di desideri, di gelosie, di ossessioni che essa nasconde e che vengono richiamati alla superficie e liberati solo grazie ad un evento qualunque – la discussione dei due protagonisti in camera da letto, caratterizzata dalla reciproca incomprensione –, come meglio rappresentato nel racconto di Schnitzler. Ma, come sempre avviene nei film di Kubrick, i due aspetti sono separati solo all’inizio della rappresentazione e tendono poi a sovrapporsi. Sintomatico è il rientro di Bill a casa nel corso della terza giornata: un carrello in avanti accompagna il protagonista verso il tinello nel quale si svolge una pacata scena di vita famigliare: Helena sta facendo i compiti con la mamma. Ma quando Bill si reca in cucina e guarda Alice assistiamo al sovrapporsi di due

39 R. De Gaetano, 2002, p. 65

40

soggettive del medico: quella visiva ci mostra, con uno zoom in avanti, la donna tranquilla che sorride al marito, quella sonora ci fa ascoltare la voce sconvolta di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno.

Così, gli elementi inquietanti, perturbanti ed inattesi affiorano all’interno della vita domestica, rivelando il fondo oscuro, orrendo e crudele della quotidianità: «la persona che si credeva ben conosciuta diventa inquietante e ignota, il consueto si rivela misterioso»40. Kubrick mostra l’ambiente domestico come un luogo caldo, accogliente, piacevole, conferendogli la stessa atmosfera ovattata e rassicurante con la quale Schnitzler ha aperto il racconto in Doppio Sogno:

[…] La piccola aveva letto [la fiaba] fin lì ad alta voce; ora, quasi all’improvviso, le si chiusero gli occhi. I genitori si guardarono sorridendo, Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che si trovava sulla tavola non ancora sparecchiata. La bambina lo guardò come sorpresa.

«Sono le nove», disse il padre «è ora di andare a letto». E poiché anche Albertine si era accostata alla bambina, le mani dei genitori si incontrarono sulla fronte amata mentre i loro sguardi si scambiavano un tenero sorriso, che non era più rivolto solo alla bambina.41

Nella maggior parte delle sequenze, ambientate di sera e di notte, l’interno domestico viene posto in netto contrasto visivo con l’esterno mediante una scelta cromatica precisa: le stanze sono illuminate da una luce rossastra e contengono molti elementi scenografici rossi, come tende, tappeti, tovaglie, copriletti o divani, mentre dalle finestre entra una luce bluastra che contrasta sensibilmente con l’altra. Le tonalità rosse denotano un luogo caldo ed accogliente, ma allo stesso tempo rappresentano la tentazione ed il desiderio e indicano una situazione esistenziale in cui è presente il perturbante, il demoniaco, il misterioso. Le tonalità bluastre, oltre a raffigurare il buio della

40 F. Prono, 2002, p. 58

41

notte e a conferire al film un’atmosfera onirica, conferiscono una sensazione di pericolo proveniente dal mondo esterno, dall’ignoto. Secondo i diversi momenti della vicenda, queste due dominanti cromatiche si fronteggiano e coesistono l’una accanto all’altra in modo equilibrato, oppure una delle due prevale fino ad annullare l’altra. Ad esempio, nella sequenza in cui Bill, rientrato in casa dopo avere assistito all’orgia notturna, nasconde in un armadietto l’abito noleggiato, oppure in quella in cui il medico trova sul letto la maschera misteriosamente perduta, la semioscurità affogata nel blu segnala l’invasione del mondo esterno dentro il mondo domestico42.

Nel racconto di Schnitzler non vi sono indicazioni né descrizioni dettagliate che prendano in considerazione l’ambientazione, i colori o la fisionomia dei personaggi, o, ancora, che rendano concreto l’aspetto ambivalente della coppia di Fridolin e Albertine. L’intero racconto è permeato da un’atmosfera onirico- surreale che lascia ampio spazio all’immaginazione: ciò che più conta in Schnitzler, suppongo, sono le parole che vengono utilizzate per penetrare la mente, le sensazioni ed i sentimenti più intimi dei protagonisti. Nella mente del lettore che scorre le pagine si cela la costante ed insidiosa domanda sulla veridicità di quanto si sta leggendo: forse, l’intera storia è un sogno. Tale scarsità di particolari ha permesso, a maggior ragione ad un regista tanto eccentrico, indipendente ed innovativo quale è stato Kubrick, da un lato di aderire alla trama e alle tematiche di Doppio Sogno, facendo in modo che la storia originale emergesse costantemente, dall’altro di marchiare il film con la propria inconfondibile firma e con le proprie preferenze stilistiche, senza stravolgere il senso della vicenda.

Dunque, non è soltanto l’ambiente domestico nel quale vivono i due protagonisti e dal quale prendono avvio sia la storia in generale sia, nello specifico, la storia del doppio viaggio di Bill e Alice ad essere caratterizzato

41 A. Schnitzler, 1977, p. 11 42 F. Prono, 2002

42

dalla dualità del giorno e della notte, dell’istinto e della ragione, dell’amore e delle pulsioni sessuali. Sul piano cromatico tutto il film è giocato sul contrasto fra questi due colori, il rosso e il blu, costantemente giustapposti: Alice in vestaglia blu mentre pettina la figlia vestita di rosso, la tenda rossa contro la luce azzurra della finestra nella scena del litigio tra i due coniugi, la luce blu e i drappi rossi nel negozio di Milich, i due giapponesi che indossano rispettivamente una camicia blu ed una rossa, e via dicendo. Il contrasto cromatico è inoltre evidente nell’alloggio della prostituta, nel Sonata Cafe, dove Bill incontra l’amico pianista che gli fornisce poi l’indirizzo e la parola d’ordine per accedere all’orgia, nella sala da biliardo di Ziegler, nel palazzo della festa mascherata: in questi luoghi il rosso perde ogni connotato caldo, mantenendo solamente quello che suggerisce un senso di inquietudine e di morte. Un presentimento negativo, infatti, emerge dal rosso intenso di vari oggetti: la pedana sulla quale l’amico suona il pianoforte nell’abitazione di Ziegler, la poltrona sulla quale è distesa Mandy mentre si sente male, le pareti del Sonata Cafe e del bar dove Bill legge il giornale, il portone d’ingresso della casa della prostituta, le tende ed i tappeti della villa nella quale ha luogo l’orgia, così come il mantello rosso che indossa l’officiante, il panno del biliardo di Ziegler, ed anche le pareti e gli scaffali nel negozio di giocattoli, o la maglia con cui è vestito Bill nel finale, vari oggetti e decorazioni che alludono al Natale. La festività natalizia, in effetti, non mostra alcun aspetto autenticamente gioioso e positivo, ma sembra in qualche modo il raddoppiamento dell’orgia – caratterizzata da movimenti altamente coreografici ed impostati, sincopati, per nulla naturali –, un rito sociale e famigliare che a quella corrisponde43.

A questo proposito, la coppia di Bill e Alice appare come frammento e specchio del più ampio sistema sociale in cui è inserita. Anche la società nel suo complesso vive sul filo che separa due dimensioni, l’una diurna e l’altra notturna, sempre pronte a richiamarsi fra di loro e a sovrapporsi. Rivelatore di

43 F. Prono, 2002

43

questo aspetto è il ruolo espressivo e narrativo che rivestono all’interno del film le due feste in cui è coinvolto il protagonista: la festa iniziale a casa di Ziegler, caratterizzata dalla presenza di una luminosità diffusa e insistente, e quella notturna nella villa isolata, festa di ombra ammantata dal mistero44. Le sequenze di entrambe le feste durano esattamente diciassette minuti ed appaiono l’una come l’inverso ma anche il completamento dell’altra. La festa di Ziegler presenta un affiorare del desiderio nelle situazioni di corteggiamento in cui vengono coinvolti sia Bill sia Alice, entrambi si sentono sfiorati da «un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo»45 che li spingerà poi verso quel territorio nascosto, fluttuante e misterioso della parte più intima della loro anima: il medioconscio. Questa festa prevede inoltre un “fuori scena” – il bagno in cui Ziegler stava consumando il suo rapporto sessuale con la giovane modella prima che quest’ultima si sentisse male –, apparentemente immotivato, e che invece prepara narrativamente all’altra festa. Sintomatico è il codice vestiario: all’inappuntabile smoking di Ziegler fa riscontro la sua seminudità nella sequenza del bagno. In merito a tale sequenza, vorrei aggiungere l’acuta osservazione di Prono:

Nel Dottor Stranamore come in Shining e in Full Metal Jacket vediamo che il corpo umano da un lato soffre del mascheramento, dell’annullamento prodotti su di lui dalla civiltà, dalla razionalità, dalla macchina; dall’altro rivela a tratti la propria debolezza organica e la grande vulnerabilità, mostra il bisogno di consumare cibo e di ottemperare a tutte le necessità fisiologiche.46

Questo spiega il fatto che svariate sequenze nei film di Kubrick siano ambientate in cucine e in stanze da bagno, dove spesso vengono rappresentati con efficacia la malattia, la follia o la morte, come nel caso preso in esame in

44 R. Eugeni, 2002
45 A. Schnitzler, 1977, p. 14 46 F. Prono, 2002, p. 48

44

Eyes Wide Shut.

La festa a casa Ziegler, così luminosa, caratterizzata da un ambiente nel quale le persone vestono abiti elegantissimi e stupendi e chiacchierano secondo le convenzioni della morale borghese, dove nulla viene lasciato al caso o dichiarato in modo esplicito – le due modelle che corteggiano Bill utilizzano numerosi doppi sensi e non sono mai chiare: ad esempio, il significato del loro invito, rivolto a Bill, a seguirle «là dove finisce l’arcobaleno»47 è lasciato in sospeso e l’allusione alla successiva festa può essere colta dallo spettatore solo molto più avanti –, dunque, è la riproduzione ed anticipazione della successiva festa, l’orgia notturna e segreta, stilizzata e regolata come un balletto, nel quale i corpi si muovono quasi come manichini secondo la reiterazione esasperata dell’atto sessuale. La ritualità funeraria dell’orgia è possibile, peraltro, soltanto sotto una stretta copertura di segretezza e dissimulazione che comporta l’utilizzo di maschere e di mantelli sul corpo48.

Ancora una volta, la scena sociale appare in Kubrick come un luogo di rappresentazione e di travestimento. Tutte le persone che si muovono nell’ambiente benestante in cui vive Bill si coprono con le maschere delle convenzioni sociali, sono esse stesse maschere che celano la loro vera identità. Illuminante a questo proposito è la battuta con cui Bill, dopo che ha cominciato a ballare con Alice in casa di Ziegler, rispondendo alla domanda della moglie: «Non c’è nessuno che conosci qui?» le dice: «No, neanche un’anima»49. Nel film, infatti, vengono continuamente mostrati corpi, nudi o semi-svestiti, ma non si discute mai dell’interiorità delle persone. E più esplicito nell’annunciare il tema del travestimento e dell’ipocrisia borghese è il racconto di Schnitzler, poiché già la prima festa si presenta in forma mascherale – la vicenda di Doppio Sogno, in effetti, si svolge nella Vienna di inizio Novecento

47 S. Kubrick, 1999 48 F. Prono, 2002 49 S. Kubrick, 1999

45

proprio durante il periodo carnevalesco: «Quanto a Fridolin, appena entrato in sala era stato salutato come un amico atteso con impazienza da due maschere in domino rosso che non era riuscito a identificare […]»50. Inoltre, questo è l’unico momento della storia in cui Schnitzler nomina il colore rosso, che raffigura in questo caso la tentazione cui viene sottoposto Fridolin e l’affiorare del desiderio, e che è stato poi riproposto e raffigurato in modo più esteso da Kubrick nella sua personale rappresentazione della dualità fra notte e giorno in Eyes Wide Shut.

Centrale, quindi, sia nel racconto sia nel film, è il motivo della maschera: le maschere grottesche e deformate dei partecipanti dell’orgia notturna non sono altro che l’estrinsecazione di un più generale principio di mascheramento sociale. Per sua natura, la maschera si adopera in due sensi complementari e distinti:

Espropria l’individualità di chi la indossa ed al contempo gliene garantisce due ben distinte: una allegorica, che è raffigurata dalla maschera stessa, e l’altra puramente proiettiva, ideata da chi questa maschera la osserva e nell’impossibilità di scorgere il volto nascosto ne immagina uno a suo discernimento. Sta qui l’eyeswideshut kubrickiano, l’inintelligibilità di un volto, di uno sguardo, di un’espressione nascosti dietro l’infinita gamma di maschere tutte diverse per se stesse ma tutte drammaticamente uguali per chi le guarda.51

Esemplare sotto questo aspetto è il lavoro compiuto da Kubrick con il volto e gli stili mimici di Tom Cruise. Le espressioni tipiche dell’attore – il sorriso seducente, lo sguardo brillante ed allusivo, un certo sollevare le sopracciglia per sottolineare i buoni intendimenti e la sincerità – vengono fissate e serializzate in una piccola galleria di smorfie ricorrenti, buone per ogni occasione ed al

50 A. Schnitzler, 1977, p. 12 51 S. Ciaruffoli, 2003, p. 93

46

tempo stesso suscettibili di improvvisi svuotamenti52. Un esempio è la sequenza nella quale Bill si reca nuovamente a casa della prostituta, dove però trova la coinquilina che gli parla della malattia dell’amica: il volto inespressivo ed impassibile, il sorriso seducente e al contempo imbarazzato, i movimenti legnosi del corpo mirano a mascherare in modo ridicolo la sua incapacità di rispondere in modo adeguato alle sorprese che la vita gli riserva, nascoste oltre la superficie dei riti sociali quotidiani.

I suoi rapporti col mondo circostante si rifugiano continuamente in un cerimoniale meccanico e perbenista, che riduce la comunicazione a puro esercizio fatico: all’inizio del film, quando i due coniugi si stanno preparando per recarsi alla festa di Ziegler e lui dice alla moglie che è bellissima, lei protesta che in realtà non l’ha nemmeno guardata. E della comunicazione fatica fanno parte anche le sue abitudini di ripetere sempre, in forma di domanda, l’ultima parte del precedente discorso dell’interlocutore53.

D’altro canto, il principio del mascheramento è pervasivo e coinvolge gli stessi ambienti: questi sono tutti decorati con le stesse luci natalizie, ora bianche – nella casa di Ziegler e successivamente in una parte del negozio di Milich – ora colorate – nell’abitazione di Bill e Alice, nel negozio di giocattoli, nella casa della prostituta –, come se una seconda pelle uniformante si stendesse sugli ambienti più diversi. Occorre attendere l’orgia mascherata della villa per scoprire, finalmente, uno spazio spoglio di questa patina colorata e luminescente e tale dunque da rivelare la verità delle proprie superfici, laddove la società si mostra per quella che è: una messinscena nella quale le identità sono andate perdute.

Di fondamentale importanza, sia nel racconto di Schnitzler sia nel film di Kubrick, è la scena nella quale il protagonista, rientrando a casa, trova la maschera sul suo cuscino accanto alla moglie addormentata. La maschera,

52 R. Eugeni, 1995 53 F. Prono, 2002

47

situata nel luogo occupato durante il sonno – il sogno – del/dal medico, lo raffigura e lo sdoppia, risvegliandolo dal suo torpore e ponendolo di fronte al suo Es onirico. Al contempo, la stessa è la prova che gli avvenimenti vissuti hanno in qualche modo valicato il confine fra sogno e realtà, guadagnandosi una forma concreta. Diviene la prova tangibile del mondo immaginario del protagonista maschile: in questo frangente il fantastico risale «la gora dell’irreale su fino alla luce e assurge il simbolo dello smascheramento della messinscena»54.

Come spiega anche Eugeni55, poi, il gioco della rappresentazione sociale appare nel suo complesso tenue, fragile, sempre pronto a rivelare le sue trame e la sua artificiosità; e finisce così per affiorare il principio che muove effettivamente le azioni e le scelte dei soggetti: il principio del desiderio e la ricerca della verità, il cui statuto rimane incerto e sfuggente. La storia di Bill, dunque, consiste in un continuo rinvio non solo nel possedere una donna, ma anche e soprattutto nel possedere in forma definitiva una verità. Significative sono allora le parole di Alice nelle battute finali: il fatto che la coppia sia uscita indenne dalle avventure della notte viene legato alla possibilità che la realtà di tali esperienze corrisponda ad una verità.

2.4. Strutture a confronto

2.4.1. Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina

Dal punto di vista dei procedimenti di scrittura cinematografica Eyes Wide Shut conferma l’attrazione di Kubrick per un utilizzo insistito dei movimenti di

54 S. Ciaruffoli, 2003, p. 107 55 R. Eugeni, 1995

48

macchina. Carrelli e steady cam sono presenti per tutto il film. Più in particolare, lo spazio viene rappresentato secondo due modalità. Alcuni spazi sono resi dinamici grazie all’uso di carrelli all’indietro – a casa di Ziegler o nel negozio di giocattoli –, o in avanti – nel negozio di costumi o nei ritorni di Bill a casa –, o laterali – nelle scene in strada –, oppure mediante movimenti più complessi ed elaborati, di andamento circolare – durante il ballo alla festa di Ziegler o all’ingresso nella villa dell’orgia. Altri spazi, invece, sono resi statici da inquadrature fisse, che insistono spesso sui primi o primissimi piani dei soggetti lasciando fuori fuoco il resto dello spazio: in questo caso viene utilizzato lo zoom, che sottolinea la volontà di indagare da vicino i volti: ad esempio, nella scena del bagno in casa Ziegler, nell’abitazione della prostituta, o, ancora, nella camera da letto dei coniugi durante il litigio, all’interno del taxi che conduce Bill alla villa dell’orgia, nel caffè dove Bill legge il giornale e nell’obitorio56.

In particolare, però, è la figura della carrellata, e nello specifico quella all’indietro, a dominare il dipanarsi della vicenda in Eyes Wide Shut.

Come Schnitzler nella sua novella Doppio Sogno, anche Kubrick preferisce entrare subito nel vivo della vicenda, presentando con pochi tratti essenziali situazioni e personaggi. Dunque, sia nel romanzo sia nel film si avverte sin dalle prime battute un sensibile sbilanciamento verso la parte centrale del racconto, ovvero verso il culmine del viaggio onirico-surreale dei due protagonisti, in particolare quello del medico, che rappresenta sia per lo scrittore viennese sia per il regista il vero protagonista della vicenda. La stessa forza che richiama Bill in avanti verso la profondità dell’immagine – e quindi verso la macchina da presa che simultaneamente carrella all’indietro – è sia una sorta di coazione narrativa che accompagna il suo percorso verso il centro della storia sia la cifra stilistica che permette allo spettatore di avvertire lo stesso

56 R. Eugeni, 1995

49

senso di smarrimento che permea il personaggio interpretato da Cruise57.

Ecco l’elenco dei movimenti di macchina al seguito di Bill Harford contenuti nel film.

Carrellate all’indietro:

  1. IconiugiHarfordesconodallacameradalettoesalutanolafigliaprima di recarsi al ricevimento della famiglia Ziegler.
  2. Giunti alla festa, percorrono il corridoio che li conduce alla scalinata illuminata di fronte alla quale li attendono i coniugi Ziegler.
  3. Bill, sempre al ricevimento, intrattiene un dialogo con l’amico pianista.
  4. Bill passeggia a braccetto con le due modelle.
  5. Victor Ziegler e Bill si accingono ad uscire dal bagno dopo che quest’ultimo ha prestato le sue cure a Mandy.
  6. Bill passeggia in strada dopo avere lasciato il paziente deceduto e prima di incontrare la prostituta.
  7. Bill scende le scale del Sonata Cafe.
  8. Assieme a Milich percorre il corridoio del negozio Rainbow Fashion.
  9. Nella villa passeggia a braccetto della donna misteriosa mentre questa lo avverte di abbandonare la festa.
  10. Bill sfila osservando le scene dell’orgia.
  11. Lo stesso viene accompagnato di fronte all’officiante.
  12. Bill entra nell’albergo per cercare l’amico pianista.
  13. Torna per la seconda volta al negozio di costumi.
  14. Torna in automobile alla villa dell’orgia.

57 S. Ciaruffoli, 2003

50

15. Rientra a casa mentre la figlia sta facendo i compiti assieme ad Alice. 16. Si ripresenta a casa della prostituta.
17. Bill, accortosi di esser pedinato, entra nel caffè Sharky’s.
18. Percorre il corridoio che lo conduce all’obitorio.

19. Esce dall’obitorio.
20. Torna per la seconda volta a casa di Ziegler.
21. Nella sala del biliardo Bill sia allontana da esso per sedersi sul divano. 22. Rientra a casa, dove ritrova la maschera sul cuscino.
23. Bill passeggia assieme ad Alice nel negozio di giocattoli.

Carrellate in avanti:

  1. Bill, entrato nell’abitazione del paziente defunto, si dirige verso la camera da letto.
  2. Uscito dalla predetta abitazione viene importunato da un gruppo di facinorosi.
  3. Rientra a casa nel cuore della notte dopo essere stato alla villa della festa mascherata.

Carrellate laterali:

  1. Bill passeggia per strada prima di essere importunato dai facinorosi.
  2. Si dirige verso l’abitazione della prostituta.

3. SiavvicinaalSonataCafe.

È evidente la prevalenza numerica dei movimenti di macchina rivolti verso la profondità della scena piuttosto che quelli laterali.

Il regista, infatti, non ha bisogno di rappresentare la discesa verso l’inconscio da parte del protagonista attraverso l’utilizzo degli espedienti formali più classici del cinema: l’arretramento della macchina da presa assieme all’avanzare

51

pletorico di Bill diviene anche e soprattutto architettura e territorio dell’inconscio58.

Questo movimento di macchina è quello che più si avvicina al tipo di osservazione e di indagine da parte del protagonista. Con la carrellata all’indietro ci situiamo al vertice del punto di fuga dello sguardo di Bill: siamo qualche istante prima di lui nel luogo del suo percepito, tuttavia percependolo qualche istante dopo. Con la carrellata in avanti, invece, scorgiamo simultaneamente il dipanarsi della visione del protagonista, tuttavia raggiungendo brevemente in ritardo la sua prospettiva59. In entrambi i casi noi spettatori siamo con Bill e siamo in grado di seguire il flusso della narrazione grazie all’estensione del suo sguardo. Questo tipo di narrazione viene denominato «a focalizzazione interna» ed è lo stesso espediente narrativo utilizzato da Schnitzler, che ci consente di leggere il racconto Doppio Sogno dal punto di vista di Fridolin, attraverso i suoi pensieri, senza tuttavia utilizzare il flusso di coscienza. In altri film, come in Full Metal Jacket e in Arancia Meccanica, era compito del voce over, appartenente in entrambi i casi al protagonista, guidare lo spettatore all’interno della vicenda; in Eyes Wide Shut, invece, la parola è soppressa a favore dell’immagine: essendo la storia densa di ingerenze oniriche, la fluidità del racconto unita alla struttura particolare dei sogni sarebbe risultata sovraccaricata se fosse stata molestata da un’oratoria extra- filmica.

Il film ospita soltanto due momenti che rifuggono l’espediente della focalizzazione interna a favore del punto di vista della macchina da presa e del regista, che finalmente annuncia la sua presenza e pone la sua firma: la scena dell’obitorio e quella nella sala da biliardo a casa di Ziegler.

Nella prima sequenza, Bill, entrato in obitorio, si appresta a distinguere – o a tentare di distinguere – in Amanda Curran la donna misteriosa che si è

58 S. Ciaruffoli, 2003 59 S. Ciaruffoli, 2003

52

sacrificata per lui durante la festa mascherata. Ma, appena estratto il lettino dalla cella, avviene un cambio brutale di prospettiva: una plongée sul corpo della donna ci scosta da Bill confinandolo al margine dell’inquadratura. Ora ci troviamo nel punto di vista della macchina da presa, che ci regala un ampliamento del nostro orizzonte interpretativo: Mandy non è la donna misteriosa. Ella, infatti, ha gli occhi aperti – solo per lo spettatore – e ci è dato conoscere il suo aspetto grazie alla plongée adottata. Nell’inquadratura successiva, nuovamente secondo il punto di vista di Bill ed il suo mondo, la donna ha le palpebre abbassate: così, egli non riesce a raggiungere la certezza che Amanda possa essere la donna misteriosa o che, viceversa, non lo sia. Per un solo istante, dunque, il viaggio dello spettatore si è congiunto a quello del regista e si è separato da quello del personaggio e, proprio come recita il titolo, anche lo sguardo si è scisso in due: occhi aperti per lo spettatore, serrati per Bill60.

Nella seconda sequenza presa in esame, Bill, uscito dall’obitorio e ancora immerso nei suoi pensieri, viene interrotto da una telefonata e chiamato a casa di Ziegler, dove sembra lo attendano alcune spiegazioni: si tratta della famosa scena nella sala del biliardo, da molti criticata e contestata, che denota la massima riconoscibilità nell’impostazione simmetrica, frontale, e nell’impronta teatrale tipiche del cinema di Kubrick.

L’avvenimento narrato in questa sequenza, così come la sua struttura simmetrica, inoltre, sembrano rifarsi ad una scena di un celebre film di Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte (titolo originale: Vertigo), nella quale Tom Helmor si confida con James Stewart sulle stranezze della moglie pregandolo, in qualità di ex compagno di scuola ed ex poliziotto, di pedinarla61. In verità, lo spettatore intuisce che la confessione di Helmor è pura invenzione, uno stratagemma per impossessarsi e godere indisturbato i soldi dell’eredità della

60 S. Ciaruffoli, 2003 61 S. Ciaruffoli, 2003

53

moglie: Hitchcock non lo nasconde del tutto e l’evoluzione della scena non fa altro che svelarlo attraverso un uso teatrale dello spazio. Così, Helmor diviene attore della rappresentazione nella rappresentazione. Al momento della confessione menzognera, infatti, l’impresario Helmor va a porsi su un piano rialzato della stanza e al contempo Stewart si distacca da esso andando a sedersi in una poltrona. Magistralmente Hitchcock riproduce la situazione teatrale che vede lo spettatore seduto in platea e l’attore sul palco.

Col medesimo procedimento Kubrick ritrae il suo protagonista, Bill, in un ambiente teatrale che si rifà a quello falso di La donna che visse due volte, denunciando a maggior ragione la finzione nell’interazione fra i due personaggi. Così, non è solamente la sua impostazione teatrale – l’aumento spropositato della profondità di campo, Bill che si rivolge allo spettatore di un’ipotetica platea dando le spalle a Ziegler, la comunione dei punti di fuga della stanza con quello dello schermo – a ricordare la stanza del predetto film, ma soprattutto il suo arredamento. Rifacendosi in maniera indubitabile alla sequenza ed alla stanza del film di Hitchcock, Kubrick pone immediatamente in discussione e rende ambiguo il recitato di Bill e Ziegler. Inoltre, tale sequenza è ambientata attorno ad un biliardo ricoperto di un panno rosso, che ricorda e rinnova quello sul quale si svolge la cerimonia, il rito di iniziazione delle ancelle mascherate durante l’orgia nella villa segreta. Inoltre, il biliardo è la traslazione di un gioco che alla sua nascita si svolgeva all’aperto, o comunque su di un ampio spazio calpestato fisicamente dai suoi partecipanti – e di quello spazio rimane infatti il verde che richiama il colore del prato. Nelle due sequenze dell’orgia e del biliardo il colore protagonista non è il verde bensì il rosso ed il rito, con le sue regole, viene disciplinato rispettivamente dall’officiante vestito anch’egli di rosso e da Victor Ziegler, i quali divengono registi dell’artificio ludico62. Emblematico, poi, è il momento in cui Bill, esausto, mostra a Ziegler il ritaglio di giornale, domandandogli se la Amanda

62 S. Ciaruffoli, 2003

54

dell’articolo corrisponda alla donna misteriosa che si è sacrificata per lui. Ziegler, che in questo momento è vicino a Bill, si allontana per recarsi di fianco al biliardo, lo tocca e solo dopo risponde, con spudorata falsità evidenziata da uno stacco che ci mostra un suo primo piano illuminato dalle lampade: «Era lei»63. Ma è una menzogna. Amanda è sì la ragazza morta per overdose dell’articolo di giornale, ma non è la donna misteriosa: basta guardare i titoli di coda. I due personaggi sono stati recitati da due attrici diverse. Inoltre, Ziegler confessa a Bill, ancora a ridosso del biliardo, che Amanda non sarebbe stata uccisa durante l’orgia, bensì sarebbe stata accompagnata a casa da due partecipanti alla festa notturna: questo dettaglio non coincide con quanto scritto nell’articolo di giornale, secondo il quale la ragazza sarebbe stata accompagnata sì da due signori, ma in un albergo64. Dunque, la spiegazione offerta nella scena della sala del biliardo è falsa e la storia rimane enigmatica e senza soluzione.

2.4.2. Figura della geminazione simmetrica

Eyes Wide Shut si configura dunque come una sorta di lungo, ininterrotto viaggio che passa attraverso strade, stanze, corridoi per arrestarsi solo provvisoriamente in alcuni luoghi, dove pure continua una sorta di avanzamento all’interno degli individui – mediante l’utilizzo dello zoom.

A prima vista, questo viaggio sembra possedere un andamento continuo ed una perfetta forma circolare: esso parte da casa Harford e lì è destinato a terminare dopo avere toccato nuovamente, nella seconda parte, tutte le tappe della prima.

Effettivamente, il racconto di Schnitzler regala con maggior forza questa impressione di complessiva coerenza ed è strutturato secondo un andamento

63 S. Kubrick, 1999
64 È possibile prendere visione dell’articolo di giornale scritto in inglese e della sua traduzione in italiano in F. Ulivieri, 2001

55

circolare, diviso al suo interno in due parti disposte simmetricamente fra di loro. Le peregrinazioni di Fridolin sono strutturate secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Strada: facinoro si

Casa prostitui ta

Caffè del pianista

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Giorno 2

Casa Fridolin e Albertin e

Caffè del pianista e albergo

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Sera 2

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Casa prostitut a

Caffè del giornale e obitorio

Casa Fridolin e Albertin e

Come si può notare, l’abitazione di Fridolin e di Albertine rappresenta il punto di partenza e di arrivo di ciascun segmento narrativo. Viceversa, la villa dove si svolge l’orgia mascherata rappresenta il punto di massima lontananza prima del ritorno a casa da parte di Fridolin. Inoltre, la sequenza percorsa dal medico durante la notte del primo giorno viene ripercorsa dallo stesso il secondo giorno, ma in un ordine differente: di giorno Fridolin ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre di sera ripercorre le tappe iniziali, secondo una struttura simmetrica A-B-B-A. Il racconto termina nuovamente nell’abitazione dei due protagonisti, laddove era iniziato.

Al contrario, un’analisi più attenta della struttura del film rivela che il viaggio

56

del medico qui rappresentato è tutt’altro che circolare, coerente e continuo.

In primo luogo, la forma delle sue peregrinazioni non è affatto circolare, ma è caratterizzata da una struttura più complessa che si dipana secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Harford

Casa Ziegler

Sera 2

Casa Harford

Casa paziente defunto

Strada: facinorosi

Casa prostituta

Sonata Cafe

Rainbow Fashion

Somerton

Giorno 3

Casa Harford

Sonata Cafe e albergo

Rainbow Fashion

Somerton

Sera 3

Casa Harford

Ambulat orio: telefonata a Marion

Casa prostituta

Strada: pediname nto

Sharky’s e obitorio

Casa Ziegler

Giorno 4

Casa Harford

Negozio giocattoli

Come nel racconto di Schnitzler, l’abitazione dei due protagonisti rappresenta anche nel film il punto di partenza e di arrivo di ciascuno dei segmenti narrativi, mentre il punto di massima lontananza raggiunto prima del ritorno è qui rappresentato dalla casa di Ziegler e dalla villa a Somerton, in una disposizione a geminazione simmetrica A-B-B-A. Questo mostra una piccola

57

variazione rispetto alla struttura del libro. Anche nel film, poi, la sequenza percorsa la notte del secondo giorno – la storia del film è incentrata in quattro giorni anziché due – viene ripercorsa il terzo giorno in un ordine particolare: di giorno Bill ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre durante la sera torna sui luoghi della prima parte, con alcune modifiche. La struttura A-B-B-A appare quindi anche nell’alternanza dei posti toccati da Bill tra il secondo ed il terzo giorno.

A guidare gli spostamenti di Bill, dunque, non è una figura circolare, bensì la figura della geminazione simmetrica, rafforzata nel film dai cambiamenti alla trama apportati da Raphael e Kubrick, la quale possiede una logica speculare: essa presenta della seconda parte – B-A – il riflesso speculare della prima – A- B. Il percorso nel negozio di giocattoli è l’unico momento del film a uscire da tale logica, quasi ad evidenziare il fatto che i protagonisti sono usciti dal sistema spaziale che li aveva fin qui tenuti avvinti65.

Questa logica della specularità, d’altra parte, assieme all’iterazione di elementi identici o simili che mette in crisi il meccanismo della progressione lineare, attraversa per intero sia il racconto di Schnitzler sia, in maniera più evidente e con un impatto molto più forte anche grazie alle proprietà intrinseche delle immagini che mostrano ciò che le parole scritte possono solo riferire ed evocare, il film di Kubrick, costituendo effetti di eco e di corrispondenza fra le parti che li compongono.

Doppio Sogno è caratterizzato dalla figura del doppio, che si presenta sia in motivi figurativi come le «due maschere in domino rosso»66 conosciute da Fridolin durante la festa iniziale, i due uomini coi quali viene scoperta la figlia del mascheraio nel negozio di costumi, i due uomini che prelevano l’amico pianista dal suo albergo durante la notte o le due prostitute con le quali il medico si intrattiene prima e dopo gli avvenimenti del suo viaggio notturno, sia

65 R. Eugeni, 1995
66 A. Schnitzler, 1977, p. 12

58

in una fitta serie di richiami fra momenti differenti dell’opera: la confessione di Albertine in merito alla sua attrazione per il giovane ufficiale di marina viene richiamata da quella di Marianne, che confessa il suo amore represso a Fridolin accanto al padre deceduto; la scena nell’orgia notturna viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Albertine al ritorno a casa del marito, così come l’intero sogno rappresenta la reiterazione del viaggio compiuto da Fridolin durante la notte, sebbene di segno opposto. Come già accennato, il racconto stesso è costituito da due parti speculari, dove la seconda parte rappresenta la ripetizione della prima, ma di carattere opposto.

I temi del doppio e della reiterazione di elementi e di avvenimenti identici o simili fra di loro, così come la logica della specularità che attraversa e permea l’intera storia, sono stati ripresi e riproposti da Kubrick in modo quasi ossessivo e sanciscono la struttura labirintica, inestricabile e misteriosamente sempre uguale a se stessa che è propria della vita umana, per cui sia i desideri di fuga sia la ricerca della novità e del cambiamento sono puramente illusori. I raddoppiamenti continui, inoltre, raffigurano i diversi aspetti e le diverse facce delle persone che popolano la trama del libro e del film67.

Dunque, i motivi figurativi del doppio tornano insistentemente: le due modelle che accompagnano Bill durante la festa a casa Ziegler, i due giapponesi nel negozio di costumi, le due prostitute, le quali vivono in un appartamento la cui porta d’ingresso combacia con una porta gemella – tant’è che quando Bill torna per la seconda volta a casa della prostituta, inizialmente non sa a quale porta bussare –, le due donne misteriose alla festa orgiastica, delle quali una cerca di avvertire Bill del pericolo cui si sta sottoponendo restando lì, mentre l’altra cerca di coinvolgere e trattenere Bill alla festa. Il doppio viene rappresentato nel film anche grazie all’utilizzo di specchi presenti in numerosi contesti: ad esempio, il film si apre proprio con l’immagine di Alice di fronte ad uno specchio; e quando, al ritorno a casa dopo la festa di Ziegler, i due

67 F. Prono, 2002

59

protagonisti si accingono a fare l’amore di fronte allo specchio, la macchina da presa stringe su quest’ultimo, escludendo dal campo i corpi reali a favore del loro simulacro riflesso nel vetro. Vi sono poi elementi iconografici identici: l’immagine dell’arcobaleno chiamata in causa dalle due modelle alla festa di Ziegler viene successivamente incarnata dal nome del negozio di Milich. Ma in Eyes Wide Shut spesso le coppie non sono formate da elementi identici. Nella prima inquadratura, mentre ancora scorrono i titoli di testa, Alice viene ripresa di fronte allo specchio mentre si lascia cadere il vestito e rimane completamente nuda; poi, dopo un inserto che mostra una strada cittadina percorsa da uno scarso traffico notturno, appare Bill perfettamente vestito in smoking di fronte allo stesso specchio. Lo spazio è il medesimo, però ha subito alcune modifiche: nell’inquadratura con Bill è comparso un tappeto ed è scomparsa la lampada nell’angolo della stanza. Inoltre all’inappuntabile smoking del medico fa riscontro la nudità intergale di Alice nella scena precedente. Come in Doppio Sogno, poi, rimane nel film una fitta serie di richiami tra scene differenti: la confessione di Alice circa la sua attrazione per l’ufficiale di marina viene richiamata dalla scena nella quale la figlia del paziente deceduto confessa il suo amore represso a Bill; la telefonata che interrompe il dialogo fra Bill e Alice durante il litigio in camera da letto ritorna a interrompere Bill e la prostituta e nel sottofinale richiama Bill a casa di Ziegler. La scena dell’orgia a Somerton viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Alice a Bill al suo rientro. Vi sono, inoltre, inquadrature simili o identiche che appaiono nel corso del film: ad esempio, l’inserto che mostra la strada di fronte all’abitazione dei due protagonisti appare sia all’inizio del film, durante lo scorrimento dei titoli di testa, sia, identica, prima del rientro a casa di Bill subito dopo il dialogo nella sala del biliardo con Ziegler. Anche alcune espressioni verbali tornano in situazioni differenti della vicenda: per esempio, la frase «devo proprio essere sincero»68 (nell’originale «to be perfectly honest»)

68 S. Kubrick, 1999

60

viene pronunciata per tre volte: prima da Bill, mentre parla con la cameriera del bar di fianco al Sonata Cafe, poi dal concierge dell’albergo quando Bill tenta di ritrovare l’amico pianista, infine dalla coinquilina della prostituta quando questa rivela al medico la malattia dell’amica. Tale frase viene riecheggiata anche nel «devo proprio essere sincero» (nell’originale «I have to be completely frank») pronunciato da Ziegler nella scena della sala del biliardo. Come già detto, sul piano cromatico l’intero film è caratterizzato dalla presenza dei colori rosso e blu costantemente giustapposti. Infine, vi sono alcuni ambienti che si richiamano: in particolare, negli esterni la strada che si innesta a T sull’altra strada e presenta in fondo una vetrina aggettante – di volta in volta un locale anonimo, il Rainbow Fashion o lo Sharky’s – sembra tornare identica in situazioni e punti differenti del film: nella scena dell’aggressione da parte dei facinorosi, in quella del pedinamento, e via dicendo. A tale proposito, sottolineerei un ulteriore fatto: le strade dispiegate di fronte agli occhi di Bill non appartengono alla vera New York, ma appartengono in realtà a set ricostruiti negli studi Pinewood a Londra. Giacché «Ricostruire un ambiente in studio determina così la possibilità di modificarne degli aspetti per rendere più espressivo e funzionale il contributo significante dell’ambiente stesso all’opera come intero»69. Ed infatti, la permanente impronta di artificiosità delle strade è costantemente messa in ostentazione da Kubrick, che conduce il suo protagonista in un viaggio della mente, in una New York labirintica che rappresenta la proiezione della stessa da parte della mente di Bill nel suo viaggio all’interno dei meandri dell’inconscio70, esattamente come Schnitzler in Doppio Sogno insiste nel descrivere la spettralità dell’ambiente circostante Fridolin, improvvisamente a lui ignoto, così come l’ingannevole ed artificiosa vicinanza della primavera che viene ad un tratto ad interrompere il freddo della bianca notte invernale:

69 G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film, citato in S. Ciaruffoli, 2003, p. 66 70 S. Ciaruffoli, 2003

61

In strada dovette aprire la pelliccia. Era cominciato improvvisamente il disgelo, la neve sul marciapiede si era quasi sciolta e spirava un venticello che annunziava la primavera.71

Ed ancora:

Ad un tratto, superata ormai la sua meta, si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute a caccia notturna di uomini. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia, che ora immaginò tenersi per mano attorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca – persino la bambina, che a quell’ora dormiva raggomitolata nel lettino bianco, e la governante dalle guance rubiconde con la voglia sulla tempia sinistra – tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali.72

Il progressivo distaccarsi dalla quotidianità del suo viver borghese e la proiezione, inconscia, del proprio stato d’animo sul mondo esterno fa apparire a Fridolin ogni cosa avvolta in un’atmosfera spettrale, assolvendolo da ogni responsabilità e conducendolo poi nel viaggio di illusoria liberazione all’interno della propria anima e del proprio medioconscio:

[…] dopo la conversazione serale con Albertine si stava allontanando sempre più dalla normale sfera della sua esistenza, addentrandosi in un altro mondo, lontano ed estraneo.73

2.4.3. Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del personaggio

71 A. Schnitzler, 1977, p. 21 72 A. Schnitzler, 1977, p. 33

62

La logica che domina il viaggio di Bill – e prima di lui quello di Fridolin –, dunque, è una molteplice specularità caratterizzata da una serie di ripetizioni e da un’ambientazione surreale che indeboliscono la coerenza e la continuità del viaggio stesso del protagonista, producendo inoltre un’inquietante sensazione di déja-vu e dunque un senso di costante smarrimento. Lo spettatore è portato a dubitare dello statuto di realtà di quanto sta guardando e ascoltando, così come, nel caso del racconto di Schnitzler, il lettore è portato a fare lo stesso nei confronti di quanto sta leggendo. Il viaggio di Bill è reale o è un suo sogno ad occhi aperti?

Ritengo molto importante ricordare e rilevare, a questo proposito, l’utilizzo che Kubrick fa nel film delle inquadrature soggettive. Eyes Wide Shut è costantemente punteggiato da inquadrature che riferiscono le percezioni di Bill: oltre alle numerose soggettive visive, che si esplicano nell’utilizzo insistito delle carrellate all’indietro e che ho approfondito in precedenza, si presentano anche soggettive allucinatorie – i cinque flash che ritraggono Alice con l’ufficiale di marina – e sonore – della voce di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno nella quiete casalinga; e della donna misteriosa che durante la festa mascherata lo avvisa del pericolo imminente, nell’obitorio mentre fissa il corpo di Amanda. In alcune occasioni il regista ricorre poi ad un procedimento caratteristico: un’inquadratura apparentemente oggettiva si rivela a posteriori una soggettiva di Bill. Ad esempio, nella festa iniziale a casa di Victor Ziegler vediamo per la prima volta l’amico pianista mentre sta suonando sul palco e l’inquadratura successiva mostra Bill intento ad osservare questa scena. L’intero percorso che compiamo assieme al medico e attraverso i suoi sguardi durante il film si rivela un percorso labirintico: al di là di un apparente ordine, esso conduce in una rete di ricorrenze nelle quali non è più possibile orientarsi ad un certo punto e l’intero film viene permeato da una sensazione di perplessità e

73 A. Schnitzler, 1977, p. 37

63

di incertezza che si riflettono negli occhi dello spettatore74.

Questa sensazione è rafforzata da un altro procedimento: il particolare uso della dissolvenza incrociata. Nel linguaggio cinematografico classico la dissolvenza incrociata, nata come trucco di trasformazione – ovvero come procedimento ottico utilizzato per ottenere straordinarie metamorfosi di personaggi – è andata poi codificandosi come procedimento enunciativo usato per contrassegnare un mutamento spaziale e temporale: essa indica una transizione fra due sequenze e dunque un’ellissi temporale e spaziale; tale ellissi, tuttavia, non è quella istantanea e trascurabile dello stacco netto, né quella consistente della dissolvenza in nero. Si tratta piuttosto di un’ellissi temporale- spaziale dalla durata indefinita75. In Eyes Wide Shut Kubrick utilizza la dissolvenza incrociata in alcuni passaggi nei quali sarebbe sembrato più opportuno uno stacco netto oppure un’inquadratura di raccordo: ad esempio, il viaggio, relativamente breve, di Bill dal negozio di costumi fino alla villa nella quale si svolge l’orgia è marcato da ben quattro dissolvenze incrociate. Oppure, nella scena in cui Bill rientra a casa dopo il colloquio con Ziegler, una dissolvenza segna il suo passaggio dalla cucina dove beve una birra alla camera da letto dove Alice sta dormendo. Si tratta in entrambi i casi di una scelta anomala, perché l’ellissi che divide le azioni è minima. E la natura perturbante di quest’ultima dissolvenza nello specifico è tanto più forte quanto il salto temporale – dalla notte al giorno – immediatamente successivo, ovvero lo iato fra l’inizio e la fine della confessione da parte di Bill che racconta ad Alice tutte le sue avventure, segnato unicamente da uno stacco, sul primo piano di Nicole Kidman che, accovacciata sul divano, fuma con gli occhi gonfi di lacrime. Un uso reiterato ed incongruente della dissolvenza finisce col privare questa figura del montaggio cinematografico del suo significato canonico, contribuendo così al prevalere del tempo non-lineare della coscienza su quello vettoriale della

74 R. Eugeni, 1995 75 A. Costa, 1985

64

cronologia oggettiva76. Ne deriva un’incertezza che coinvolge al tempo stesso l’effettiva durata dello svolgimento temporale di tali segmenti della vicenda e le connessioni spaziali coinvolte: all’interno del film, dunque, la dissolvenza incrociata viene utilizzata anche per destabilizzare la continuità temporale- spaziale e per rafforzare la continua sensazione del passaggio dalla sfera della realtà a quella del sogno.

In Eyes Wide Shut, dunque, troviamo un tempo che si disgrega, un tempo interno alla mente del protagonista. Questo vanificarsi della cognizione del tempo e il cupio dissolvi che ne segue scandiscono con spietata crudeltà anche lo smarrimento del personaggio di Doppio Sogno:

Ma che fare ora? Andare a casa? E dove se no! Oggi non poteva ormai fare più nulla. E domani? Cosa? E come? Si sentiva impacciato, incerto, ogni cosa gli si vanificava tra le mani; tutto diventava irreale, persino la casa, sua moglie, la sua bambina, la sua professione, sì, persino lui stesso, mentre continuava a camminare meccanicamente nella sera coi suoi pensieri senza meta.

L’orologio della torre del municipio scoccò le sette e mezzo. D’altronde non importava che ora fosse; il tempo gli era completamente indifferente. Non provava interesse per nulla e per nessuno. Sentì una leggera compassione per se stesso. Molto fuggevolmente, non proprio come un proposito, gli venne l’idea di recarsi a una qualsiasi stazione, partire, non importava per dove, sparire per tutti coloro che lo avevano conosciuto, ricomparire in qualche luogo all’estero e incominciare una nuova vita, sotto spoglie diverse.77

C’è un altro aspetto, infine, che rivela l’incoerenza e la discontinuità della rappresentazione in Eyes Wide Shut. Kubrick adotta nel film uno stile modellato sul regime cinematografico classico, che fa della continuità e della coerenza il

76 G. Alonge, 2002
77 A. Schnitzler, 1977, p. 95-96

65

suo punto di forza. Tuttavia, in alcuni punti il regista fa inceppare questo meccanismo fluido e scorrevole. Questo avviene mediante tre espedienti78.

In primo luogo Kubrick viola deliberatamente alcune regole del montaggio classico. Durante il primo incontro fra Bill e l’amico pianista alla festa di Ziegler ed il primo colloquio fra il medico e Milich nel negozio di costumi viene attuato quello che tecnicamente si chiama uno scavalcamento dell’asse, per cui uno stacco di montaggio collega due punti di vista specularmente opposti: in entrambe le sequenze vediamo i personaggi inquadrati prima da una prospettiva, poi da quella diametralmente opposta, in modo che lo spazio si apra alla sua metà nascosta, proibita, con un effetto fortemente straniante per lo spettatore79. Infatti, questi raccordi “sbagliati” procurano a chi guarda una lieve ma insistente idea di salto nella linea di continuità della rappresentazione classica per il resto seguita.

Il secondo espediente consiste nell’introduzione di un numero molto alto di ripetizioni verbali. Queste possono avere luogo all’interno della battuta di un solo personaggio: nella sequenza del bagno a casa di Ziegler, Bill ripete a Mandy ben sei volte la parola «guardami» mentre cerca di rianimarla; l’amico pianista ripete «io suono» due volte, e via dicendo fino al «ti racconterò tutto»80 finale di Bill ad Alice, anch’esso ripetuto due volte. Le ripetizioni hanno luogo altrettanto spesso nei dialoghi fra due soggetti, uno dei quali ripete testualmente la battuta finale dell’altro come per un generale senso di perplessità e di incomprensione, riducendo la comunicazione a puro esercizio fatico: in particolare, questo si verifica nel protagonista, che ripete di volta in volta le battute della prostituta, dell’amico pianista o della moglie; ma avviene anche per altri personaggi, ad esempio nel negozio di costumi il mascheraio Milich ripete le battute di Bill. Ne risulta l’impressione che la macchina

78 R. Eugeni, 1995
79 G. Carluccio, 2002 80 S. Kubrick, 1999

66

rappresentativa si incanti, come un disco rotto che non sappia più rispondere ai comandi.

Il terzo ed ultimo espediente è l’uso dell’interruzione: in alcuni casi le immagini del film vengono bruscamente interrotte e sottratte allo sguardo dello spettatore. Fin dall’inizio il corpo nudo di Nicole Kidman è presentato per essere immediatamente riconsegnato al fondo nero dei titoli di testa. La scena del processo alla festa notturna a Somerton viene interrotta bruscamente con uno stacco sul ritorno di Bill a casa. Ed anche la conclusione del film, con la battuta finale di Alice sulla necessità per la coppia di «scopare»81, fa appena in tempo ad essere pronunciata che i titoli di coda interrompono bruscamente la scena del negozio di giocattoli.

Dunque, attraverso salti, ripetizioni e blocchi improvvisi la continuità della rappresentazione classica non viene esplicitamente distrutta, bensì sottilmente minata, sottoposta a piccole crisi locali e perdite di controllo infinitesimali, ma pure sensibilmente presenti.

81 S. Kubrick, 1999

67

3. ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT

Trovare il centro di un film quale Eyes Wide Shut e, ancor prima di esso, di un racconto della portata di Doppio Sogno non è semplice. Molte analisi, fra le quali la presente, hanno rivelato numerose simmetrie, ritorni di scene analoghe, spazi e personaggi che si ripresentano puntuali nel tessuto narrativo: entrambe le opere si porgono come un gioco di specchi e di rimandi potenzialmente infinito, un labirinto del senso che può essere percorso e ripercorso ma difficilmente dominato e posseduto.

Sono parecchi, sia nel racconto sia, in special modo, del film gli elementi, i temi ed i passi che meriterebbero un’attenzione tale da renderli, in qualche modo, il fulcro attorno al quale ruota l’intera storia: così, sono importanti i temi della coppia, dell’incomunicabilità, del tradimento, della maschera, dell’ipocrisia borghese, dello smarrimento esistenziale, nonché del sogno e del viaggio onirico-reale-surreale vissuto dai due protagonisti. Altrettanto importanti sono diversi passi, sia nel film sia nel libro, che raffigurano e sottolineano di volta in volta un tema piuttosto che un altro: così, diventano particolarmente significative le scene delle due feste – l’una l’opposto eppure anche il completamento dell’altra –, la scena del primo confronto fra i due coniugi, la scena del racconto del sogno da parte di Albertine/Alice al marito, il dialogo finale fra i due protagonisti ed infine, solo nel film, la scena del dialogo fra Bill e Ziegler nella sala del biliardo.

La maggior parte dei critici ha ravvisato nella scena dell’orgia notturna il perno e la parte centrale della storia82: essa non solo rappresenta sia il momento culminante della vicenda, nella quale si delinea con assoluta chiarezza

82 F. Villa, 2002

68

l’alienazione che connota la crisi e la perdita d’identità da parte del protagonista maschile, sia il momento nel quale quest’ultimo discende e, finalmente, giunge nella parte più nascosta ed intima di se stesso, il medioconscio, ma rappresenta anche, a livello narrativo, il vero e proprio centro della storia, che separa il “prima” e il “dopo”.

Tuttavia, a mio avviso, l’asse portante dell’intera vicenda, come detto in precedenza, è la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplica sia nella conflittualità dei due protagonisti, causata da una situazione di incomunicabilità innescata da un motivo occasionale, che li porterà a vivere una crisi strutturata secondo un diagramma di turbamenti paralleli, sia, più esplicitamente, nelle contraddittorietà del personaggio maschile, la cui fragilità psicologica e i cui pregiudizi derivanti dalla morale borghese nei quali è imprigionato lo condurranno verso uno smarrimento esistenziale molto più complesso e travagliato rispetto a quello vissuto dalla moglie.

Partendo da questo presupposto, dunque, ritengo che il centro non tanto del testo in quanto tale, quanto dell’opera complessiva di Doppio Sogno e di Eyes Wide Shut, sia la lunga sequenza del confronto iniziale fra i due protagonisti83, nella quale meglio vengono raffigurati e rappresentati i problemi che muovono e scandiscono le dinamiche di coppia, e grazie alla quale prende avvio la vicenda stessa. Inoltre, questo è uno di quei passi contenuti nel racconto di Schnitzler in cui lo sceneggiatore Raphael ed il regista Kubrick hanno operato un vero e proprio lavoro di trasposizione e rielaborazione cinematografica, compiendo tagli significativi ed apportando numerose modifiche, pur mantenendo, nel complesso, il senso globale di ciò che lo scrittore viennese ha voluto trasmettere all’interno dello stesso passo nel suo libro.

Mi accingo ora ad analizzare tale sequenza dal punto di vista della sua trasposizione cinematografica dal racconto di Schnitzler al film di Kubrick:

83 Nel racconto di Schnitzler a partire da p. 13, nel film di Kubrick a partire dal minuto 22

69

approfondirò quindi l’analisi della traduzione intersemiotica di tale sequenza.

3.1. Analisi della traduzione intersemiotica

All’interno di Doppio Sogno la sequenza della lunga e reciproca confessione di Albertine e Fridolin in merito ai pericoli cui sono sfuggiti durante una passata vacanza estiva in Danimarca, nella quale entrambi hanno provato una forte ed irresistibile attrazione verso due sconosciuti – rispettivamente nei confronti di un giovane ufficiale di marina visto in albergo e di una giovanissima fanciulla su di una spiaggia –, prende avvio in seguito ad uno scambio, apparentemente innocente e quasi disinteressato all’inizio, di impressioni sul veglione mascherato al quale i due coniugi hanno partecipato la notte precedente:

[…] e quegli avvenimenti irrilevanti furono ad un tratto magicamente e penosamente avvolti dall’ingannevole parvenza di occasioni perdute. Si scambiarono domande ingenue eppure insidiose e risposte maliziose e ambigue; a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era in fondo sincero e si sentirono, così, inclini a una moderata vendetta.84

Ben presto la gelosia prende il sopravvento e dalle conversazione sulle futili avventure della notte precedente i due protagonisti cominciano a discutere di quei desideri nascosti ed intimi, talvolta appena presentiti e per lo più sconosciuti, insiti nel profondo dell’animo umano, che, se riconosciuti, svelati e liberati, sono in grado di generare pericolosi vortici e scuotere e minare anche il rapporto più maturo e sincero:

Sebbene la loro unione si fondasse su una perfetta compenetrazione di sentimenti e di idee, sapevano tuttavia che ieri li aveva sfiorati, e non per la prima volta, un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo; trepidamente, tormentandosi, cercarono con sleale curiosità di carpirsi confessioni e, concentrandosi con angoscia sulla loro vita intima, ognuno

84 A. Schnitzler, 1977, p. 13

70

ricercò in sé qualche fatto anche insignificante, qualche avvenimento anche inconsistente, che potesse esprimere l’ineffabile e la cui sincera confessione riuscisse a liberarli da una tensione e da una diffidenza che cominciavano a diventare a poco a poco insopportabili.85

Segue la confessione da parte di Albertine al marito, la prima fra i due che, per ingenuità, indulgenza o forse anche coraggio e necessità di chiarezza, mette in gioco se stessa.

In Eyes Wide Shut la stessa sequenza si apre con l’immagine di Alice, riflessa nello specchio del bagno, che si accinge a prelevare da un armadietto posto sopra il lavandino un contenitore con della marijuana al suo interno e, di seguito, un primo piano sulle sue mani mostra la protagonista mentre arrotola la sigaretta.

Rilevante, in quest’apertura di sequenza, è la presenza ed il ruolo nuovamente giocato dallo specchio: simbolo del doppio e di ciò che si cela oltre la facciata illusoria della realtà, lo specchio mostra il riflesso e quindi la parte nascosta e speculare di chi gli si pone di fronte e gli dà la possibilità di studiare e comprendere se stesso. Questo specchio nasconde al suo interno ed oltre la sua superficie riflettente la sostanza, e di conseguenza il mezzo kubrickiano, che «per la prima volta libera la parola dal suo statuto […] di inanità e di indeterminatezza»86 e la presenta come raggiungimento di un fine e di uno snodo narrativo.

La marijuana posta a questo punto del film dà inizio ad uno stato alterato di coscienza: attraverso di essa, infatti, si attua un processo di iperstimolazione sensoriale, sancendo così un allontanamento dalla consueta capacità di percezione, che rappresenta il preludio alla successiva fase onirica ed alterazione che permea l’intero film. La marijuana, triplamente protetta – dalla

85 A. Schnitzler, 1977, p. 13-14 86 S. Ciaruffoli, 2003, p. 59

71

bustina di plastica, dalla scatola di cerotti e dall’armadietto – e dunque segno e simbolo di una difficoltà a raggiungere una meta – del resto, come già detto, l’intera vicenda, soprattutto di Bill, che prende avvio da questa sequenza consiste nel continuo rinvio nel possedere in forma definitiva e stabile una verità – viene usata da Alice per preparare uno spinello. A questo proposito, è curiosa e interessante l’inquadratura con la quale Kubrick segue la prima inalazione di Alice: mentre la donna aspira la sua boccata di fumo, lo spettatore è portato, metaforicamente parlando, a fare simultaneamente lo stesso. Con un’armoniosa zoomata all’indietro, infatti, Kubrick unisce specularmente lo spettatore con il suo personaggio e con il suo tiro di spinello. Questo espediente è molto interessante, perché per la prima volta il regista sottolinea con una sorta di rituale arcaico la comunione dello spettatore con il film e lo stato di alterazione che ne seguirà87.

Come i due protagonisti di Doppio Sogno, anche Bill e Alice si scambiano le proprie impressioni e si pongono domande insidiose sulla festa natalizia alla quale hanno partecipato la notte precedente. Tuttavia, mentre nel racconto di Schnitzler la gelosia ed il turbamento che accompagnano il dialogo fra i due coniugi sono vicendevoli sin dall’inizio, tant’è che condurranno alla reciproca confessione dei due tradimenti non consumati, in Eyes Wide Shut si avverte, fin dalle prime battute, come i moti di gelosia, di irritazione e di incomprensione che generano il litigio ed il successivo allontanamento emotivo dei due personaggi siano concentrati principalmente nella figura femminile, alla quale è riservato il ruolo di protagonista assoluta in questa scena, assieme alla confessione univoca del tradimento non consumato. Il protagonista maschile si fa qui spettatore dello “spettacolo” messo in atto dalla moglie, la quale, grazie all’aiuto della marijuana, nonché spinta dall’insensibilità e dalla mancanza di comprensione del marito, decide di togliersi la maschera delle buone convenzioni borghesi e di rivelare il suo contraddittorio, ambiguo e misterioso

87 S. Ciaruffoli, 2003

72

mondo interiore.

Nella sua novella, Schnitzler non fornisce alcuna indicazione sulle movenze o sullo spazio occupato dai personaggi all’interno di questa sequenza, per cui Kubrick ha avuto modo di realizzare la sua personale rielaborazione di tale sequenza in piena libertà, costruendo un ambiente a lui congeniale al fine di sottolineare l’ambiguità e la dualità fra ragione e istinto, fra l’aspetto diurno, solare, di ciò che appare normale e l’aspetto notturno, che racchiude in sé quei «desideri nascosti»88 ai quali accenna Schnitzler nel suo racconto.

L’estensione di questa sequenza in Eyes Wide Shut è di quattordici minuti e si apre, come già detto, con un prologo risolto in due inquadrature che mostrano Alice mentre preleva e poi prepara la marijuana, seguito da una lunga scena, ambientata interamente nella camera da letto dei due coniugi, nella quale marito e moglie discutono prima della festa natalizia a casa Ziegler e finiscono poi per litigare, fino alla rivelazione del mancato tradimento da parte di Alice. Questa scena può essere suddivisa in cinque segmenti narrativi89.

Primo segmento: dal primo piano di Alice che compie la prima inalazione di marijuana la macchina da presa allarga fino ad inquadrare la coppia sdraiata sul letto, lui alle spalle di lei. Lo sguardo di Bill è rivolto al corpo della moglie, mentre lei guarda fuori campo in direzione della macchina da presa. Le inquadrature risultano qui sostanzialmente oggettive, anche se il punto di vista varia sensibilmente, riprendendo ora un solo elemento ora entrambi gli elementi della coppia, e restando ancorato ad uno spazio posto al di qua del letto matrimoniale. In questa situazione visiva i due coniugi si perdono, assecondando i poteri del fumo, nel ricordo della festa a casa Ziegler avvenuta la sera precedente e rimproverandosi i reciproci corteggiatori.

Da notare che in questo frangente appare per la prima volta il colore blu,

88 A. Schnitzler, 1977, p. 13 89 F. Villa, 2002

73

trattenuto entro il vano della finestra del bagno di fronte al quale i due coniugi si stanno fronteggiando. Oltre a farsi sfondo di un personaggio nei momenti cruciali e più dissoluti, questo colore dona al film una tinta palesemente onirica e surreale, sottolineando così maggiormente l’architettura filmica imprigionata entro i confini della psiche. Inoltre, come riferito in precedenza, il dipanarsi della vicenda all’interno di un bagno o nelle sue immediate vicinanze assume nei film di Kubrick una forte valenza simbolica, in quanto rivela una manifestazione peggiorativa dell’attività umana: spesso il regista, nelle sue opere, ha rappresentato il bagno come luogo nel quale vengono inscenate la malattia, la morte, la follia e la crisi d’identità, l’alterità dell’animo umano90. Di conseguenza, lo stesso colore blu, ospite emblematico di questo ambiente, si connota d’ora in avanti nella medesima valenza negativa: raffigura il pericolo del mondo esterno che penetra nella sicurezza ovattata dell’ambiente domestico, la notte oscura che, con i suoi segreti ed i suoi misteri, si insidia nella luce del giorno e, con le parole di Schnitzler nel suo Doppio Sogno, viene a rappresentare «quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura»91.

Secondo segmento: Alice, profondamente irritata dalla leggerezza con la quale Bill dichiara di non meravigliarsi di fronte all’esistenza di un potenziale corteggiatore della moglie, si alza di scatto dal letto, indietreggia, ed arriva sulla soglia della porta del bagno contiguo alla stanza. Il corpo della donna risulta così incorniciato dagli stipiti. La macchina da presa abbandona il punto di vista per lo più oggettivo del segmento narrativo precedente, avanza lentamente fino a scavalcare il corpo di Bill e a posizionarsi di fronte a lui per contemplare appieno Alice. Dallo sguardo oggettivo si passa così ad una plausibile soggettiva del marito sulla moglie, enfatizzata dal doppio ritaglio del quadro della porta. Il dialogo, sempre più incalzante sulle eventuali differenze che

90 F. Prono, 2002
91 A. Schnitzler, 1977, p. 13

74

esistono fra uomo e donna e il corteggiamento dell’uomo rispetto a quello della donna, si scioglie in un’alternanza di inquadrature che vedono da una parte Alice in figura intera ripresa frontalmente, dall’altra Bill seduto staticamente sul letto come dall’inizio della scena, ripreso lateralmente.

In questa sequenza la figura di Alice, inquadrata dagli stipiti della porta della camera da letto, viene ad essere posizionata, per un gioco di raffinata prospettiva, al centro della porta del bagno che sta alle sue spalle ma anche al centro della finestra del bagno sullo sfondo. Inoltre, la luce bluastra proveniente dall’esterno, infiltrandosi tra le veneziane della finestra, viene ad incorniciare anche cromaticamente il corpo di Alice. «Così facendo il regista sottolinea la proprietà di un attimo e la sua riproduzione-rappresentazione in quadri che simboleggiano momenti e luoghi dissimili»92. In tutti i passi successivi Alice si troverà sempre inquadrata da una finestra posizionata sullo sfondo, dalla quale entra una luce bluastra, e le tende rosse, raccolte agli stipiti delle finestre, funzioneranno da sipario tirato per la recita che si consuma al proscenio. Inoltre, come detto in precedenza, il contrasto cromatico del blu e del rosso rappresenta anche il conflitto fra il mondo domestico – caldo ed accogliente, apparentemente sicuro – ed il mondo esterno – pieno di pericoli e contrassegnato dall’ignoto. Il rosso rappresenta anche il desiderio, la tentazione. Invece, Bill rimarrà seduto sul letto per l’intera sequenza, variando solo minimamente la propria posizione ed assumendo così il ruolo di spettatore dello spettacolo messo in scena dalla moglie. La sua staticità, posta in paragone alla dinamicità di Alice che al contrario sembra cercare ad ogni costo l’azione, assieme all’inespressività assunta dal suo viso che non lascia trapelare quasi la minima emozione se non un lieve imbarazzo e una leggera irritazione, assieme alla caratteristica abitudine di ripetere in forma di domanda l’ultima parte del precedente discorso della moglie, denotano con grande chiarezza la sua totale incapacità di affrontare la situazione e la sorpresa di fronte alla nuova

92 S. Ciaruffoli, 2003, p. 63

75

immagine della moglie, tanto sincera e diretta senza la propria maschera. Il letto diviene un palchetto d’onore dove Bill rimane pressoché immobile dinnanzi all’esibizione della moglie, che si muove, si agita, impadronendosi di tutto lo spazio possibile e soprattutto andando ad inquadrarsi da sola tra stipiti, specchi e finestre93.

Terzo segmento: Alice, sempre più infastidita dalle semplificazioni del marito, lascia nuovamente la postazione guadagnata e si dirige verso la toilette davanti al letto, posizionata a sinistra. Dopo avere speso qualche battuta sull’esposizione del marito, in quanto medico, alle eventuali lusinghe delle pazienti, crolla seduta sullo sgabello per poi alzarsi di nuovo. La macchina da presa resta sempre incollata a lei ed ai suoi movimenti, la segue di volta in volta inquadrata nella sua nuova posizione, in un costante campo/controcampo di Bill e del corpo di Alice.

Quarto segmento: il discorso sulla gelosia di coppia stringe attorno ai due protagonisti e Alice comincia a provocare il marito irridendone la sicurezza in merito alla fedeltà coniugale. La donna si sposta di nuovo, attraversa la stanza, passa ai piedi del letto, arrivando davanti ad una finestra. Di nuovo incorniciata, Alice, in figura intera, si agita cercando di spiegare le proprie ragioni, mentre Bill, sempre seduto sul letto ripreso frontalmente, sembra a tratti essere colto da afasia.

Quinto segmento: Alice attraversa nuovamente la stanza, passa per la seconda volta ai piedi del letto, si arresta in prossimità di un’altra finestra e viene inquadrata ancora una volta in figura intera. La macchina da presa non la lascia un istante in questo suo peregrinare nella stanza, al punto che quando la donna, in preda ad una risata isterica, barcolla fino ad accasciarsi a terra, lo sguardo su di lei si fa estremamente mobile, liberandosi in una macchina a mano, ed assecondando i sussulti del suo corpo, sempre secondo la soggettiva di Bill. A

93 F. Villa, 2002

76

questo punto appare un’inedita visione: la donna viene improvvisamente ripresa in primo piano e lateralmente da quel fuori campo iniziale, nello spazio al di qua della camera matrimoniale, dove la macchina da presa era posizionata all’avvio della lunga scena. Quest’ultimo segmento arriva al cuore della confessione di Alice, ripresa in primo piano di lato dall’inizio fino al termine del suo lungo monologo.

Le ultime tre sequenze prese in esame ritraggono il tentativo disperato da parte di Alice di ridestare il marito dal torpore che lo avvinghia e di risvegliare in lui la comprensione ed il desiderio che probabilmente un tempo li aveva accomunati. Ma egli risponde alle provocazioni della moglie con enorme insensibilità:

Alice: «E posso sapere perché non sei mai stato geloso di me?».

Bill: «Oh, questo non lo so Alice. Probabilmente perché sei mia moglie, può darsi perché sei la madre di mia figlia, forse perché penso che tu non mi tradiresti mai».

Alice: «Tu sei un uomo molto, molto sicuro di se stesso, vero?».

Bill: «No, sono sicuro di te».94

Dare per scontata la fedeltà della propria compagna significa essere convinto di possederla totalmente, senza riconoscerle autonomia e capacità di scelta, significa considerarla un oggetto la cui proprietà non può essere messa in discussione. Quando nascono dissidi all’interno della coppia e il clima diventa astioso e tagliente, possono generarsi all’improvviso le emozioni più imprevedibili ed intense; possono sprigionarsi anche dell’odio e dell’ostilità molto profondi che prendono il sopravvento sulle circostanze. Ecco allora screzi e dissapori, continui scontri verbali che feriscono l’anima come spade

94 S. Kubrick, 1999

77

taglienti95.

Incompresa ed insultata in questo modo, Alice cerca di sottrarsi a quella degradante posizione subalterna nella quale l’ha relegata il marito confessando e svelando ciò che si nasconde nel proprio animo: infatti, non appena Bill dichiara la propria sicurezza, una macchina a mano traballante segue la donna che scoppia a ridere e, dalla posizione eretta nella quale si trova, si abbassa progressivamente fino a sedersi sul pavimento. Analizzando unicamente lo stile, Alice si abbassa sia fisicamente sia metaforicamente e l’inquadratura traballa, ovvero la sua immagine si abbassa moralmente agli occhi del marito, il quale vede andare in frantumi le proprie certezze96.

La lunga scena della confessione viene chiusa dalla telefonata che Bill riceve da parte di Marion: il padre della ragazza è deceduto ed il medico trova così una via di fuga.

Nicole Kidman interpreta il ruolo di protagonista femminile con grande tensione emotiva e sensibilità, conferendo al personaggio profonda verità. Ella ottiene questo risultato con notevole economia di mezzi, modulando in modo raffinato le espressioni del volto, ma soprattutto movendo il proprio corpo con spontaneità e insieme con grande sapienza interpretativa, proponendolo splendidamente come strumento di comunicazione. In tal modo crea un personaggio credibile e stilizzato, inquietante ed affascinante insieme, i cui sogni e fantasie assumono connotati estremamente concreti ed emotivamente coinvolgenti.

In Doppio Sogno la confessione di Albertine non viene bruscamente interrotta da una telefonata e Fridolin non fugge. Alla confessione della moglie, il medico risponde con la sua personalissima confessione, aggiungendo tradimento a tradimento. E la donna, pur restando la prima a dichiarare segni di illecita

95 A. Carotenuto, 2003 96 F. Prono, 2002

78

passione, cede il passo al racconto dei desideri, ancor più proibiti, del marito, senza reclamare la scena. Fridolin diviene allora il protagonista del segmento narrativo, segnato dal suo improvviso dinamismo nei confronti della moglie, ora statica:

«[…] Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità. E poi anche tu hai avuto qualche avventura su quella spiaggia – lo so».

Fridolin si alzò, si mise a camminare avanti e indietro per la stanza, poi disse: «Hai ragione». Stava presso la finestra, il viso in ombra.97

Alla confessione del tradimento non consumato da parte di Fridolin, che lo vede attratto da una giovanissima fanciulla su di una spiaggia dove era solito passeggiare ogni mattino durante la vacanza danese, segue un intenso dialogo fra i due protagonisti, nel quale riemergono i fantasmi delle avventure giovanili del medico nonché il ricordo del loro primo incontro, al quale seguì il fidanzamento dei due protagonisti. Ed è solo in quest’ultimo scambio di battute che emerge, nel racconto di Schnitzler, tutta la problematica del personaggio maschile, nel quale, come già detto, si riflettono con maggiore limpidezza la debolezza e la fragilità dell’animo umano oltre che le contraddittorietà dettate dalla natura umana e dal pregiudizio borghese che, da sempre, relega la donna ad una degradante posizione subalterna mentre concede all’uomo il diritto ad una morale:

«In ogni donna – credimi, anche se può sembrare una facile affermazione – in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te; ne sono convinto più di quanto tu possa capire, Albertine».

Ella sorrise triste. «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?» disse, e il suo sguardo si trasformò e divenne freddo e impenetrabile. Fridolin abbandonò le sue mani, quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva; ma lei continuò: «Ah, se solo

97 A. Schnitzler, 1977, p. 15-16

79

sapeste!» e tacque di nuovo.98

La stessa contraddittorietà e lo stesso ipocrita pregiudizio borghese che contraddistinguono l’uomo sono rilevabili nel dialogo fra Bill e Alice prima che quest’ultima confessi al marito il suo mancato tradimento:

Bill: «Che cosa fa? Ah, ma io non lo so Alice … Che cosa fa? Ah, guarda: le donne non … non sono così, non ci pensano nemmeno a queste cose».

Alice: «Milioni di anni di evoluzione! Vero? Vero? Mentre gli uomini si preoccupano di infilarlo dovunque possono, le donne devono solo pensare alla stabilità della famiglia, alla fedeltà coniugale e a chissà quali altre cazzate!».

Bill: «Un concetto un po’ troppo semplificato, Alice. Ma di sicuro è qualcosa del genere».

Alice: «Se invece voi uomini solo sapeste …».99

Sebbene Kubrick anticipi questo momento, rendendo poi il dialogo fra i due personaggi più semplificato, molto meno verboso, meno articolato e conferendogli una modernità espressiva che naturalmente non si addirebbe allo stile di Schnitzler, e depenni la confessione del medico, eliminando in tal modo anche la duplicità e la forza della rivelazione che condurrà poi i due personaggi a vivere separatamente, seppure parallelamente, il loro viaggio onirico-reale- surreale, riesce comunque a mantenere intatte le dinamiche principali che muovono la coppia dei due protagonisti nel film: l’ipocrisia, la gelosia, le ossessioni e i turbamenti insiti nel profondo dell’anima sono ben presenti.

In Doppio Sogno, però, la gelosia che muove Fridolin viene espressa ed esternata in modo più articolato e con maggiore maestria narrativa rispetto a quanto non

98 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 99 S. Kubrick, 1999

80

abbia saputo fare Kubrick nel film, a causa dell’imponente taglio operato a questa sequenza all’interno della novella:

«Non riesco a capire» disse Fridolin. «Avevi appena diciassette anni quando ci fidanzammo». «Sedici passati, Fridolin. Eppure …» lo guardò francamente negli occhi «Non dipese da me se divenni tua moglie ancora vergine».

«Albertine …».

Ed ella raccontò:

«Fu sul Wörthersee, poco prima del nostro fidanzamento, Fridolin; una splendida sera d’estate un bellissimo giovane si fermò davanti alla finestra che guardava sull’ampia distesa del prato, ci mettemmo a parlare e durante quella conversazione pensai […]: che ragazzo simpatico e affascinante, – se dicesse ora una sola parola, quella giusta naturalmente, […] stanotte potrebbe avere da me tutto quello che vuole. […] Ma l’incantevole giovane non pronunciò quella parola; mi baciò delicatamente la mano, – e il mattino successivo mi chiese se volevo diventare sua moglie. E io dissi di sì».

Fridolin lasciò andare seccato la mano della moglie, poi disse: «E se quella sera ci fosse stato per caso un altro davanti alla tua finestra e gli fosse venuta in mente la parola giusta, per esempio …» pensò a quale nome dovesse dire […].100

È soprattutto a questo punto che Fridolin esterna la propria gelosia, quasi indifferente al fatto che il giovane indicato dalla moglie era lui. Egli, oramai confuso ed infastidito, toccato nel profondo e senza più alcuna certezza, associa la figura dell’ufficiale di marina, che l’estate precedente aveva avvinto la moglie, con quella di se stesso ventenne: in entrambi i casi, infatti, la donna è stata magicamente attratta con un semplice sguardo da un giovane, senza alcun

100 A. Schnitzler, 1977, p. 19-20

81

contenuto intimo del guardato. E scoprire, tutto d’un tratto, una parte che non conosceva, i torbidi meccanismi mentali che non credeva potessero appartenere alla figura femminile della propria moglie e madre della propria figlia, mette in discussione i meccanismi stessi e le sicurezze dell’esistenza di Fridolin. La frase «pensò a quale nome dovesse dire» lasciata così, senza soluzione, rivela come ciò che non sapeva in passato rimanga a lui ignoto anche nel presente. Egli è quel giovane che non conosceva, e non conosce tuttora, la parola magica che gli avrebbe permesso di possedere Albertine prima del matrimonio e di penetrare la sfera intima della sua compagna. Quella parola è rimasta nella mente della moglie senza che lui ne venisse a conoscenza. Questo è soltanto un indizio della separazione comunicativa che connota la crisi dei due personaggi e la considerazione iniziale della scena lo rende ancora più significativo: infatti, i due protagonisti erano rimasti soli per comunicarsi l’uno con l’altro le proprie impressioni e le proprie fantasie suscitate dall’esperienza vissuta al veglione mascherato della sera precedente, con la speranza che una sincera confessione fosse in grado di liberarli da un senso di oppressione e di incomunicabilità che cominciava a divenire insopportabile. Ma dalla successiva conversazione risulta che entrambi hanno vissuto separatamente quei momenti. Una volta rivelati mettono in crisi le certezze del medico; e poiché la sicurezza in se stesso è uno dei capisaldi sui quali si fonda l’amor proprio di Fridolin, egli sente la necessità di riscattarsi della delusione subita mediante le parole di Albertine.

Ecco, dunque, che nel film è stata notevolmente ridotta e sfilacciata una parte fondamentale del racconto di Schnitzler, cosicché la sua resa all’interno del film ne è risultata alquanto compromessa, determinando inoltre un consistente residuo traduttivo. Infatti, sebbene Kubrick riesca con notevole maestria e sapienza cinematografica, sfruttando al meglio le tecniche cinematografiche ed i mezzi espressivi caratteristici del cinema, a riprendere e a raffigurare i temi dominanti di tale sequenza e dell’intera opera sia nella riproduzione, seppure ridotta, di tale sequenza sia nella riproduzione dell’intera vicenda, la

82

soppressione di una parte tanto importante quale il racconto del tradimento non consumato da parte del protagonista maschile, contenuto nel racconto di Schnitzler, non può non determinare una sorta di sbilanciamento all’interno del film: qui in effetti, come già detto, il viaggio onirico-reale-surreale appartiene principalmente al medico, che in tal senso subisce passivamente la rivelazione della moglie; e la donna, grazie alla quale pur tuttavia prende avvio la vicenda stessa vissuta dal protagonista maschile, in seguito al racconto dei propri desideri di illecita passione, viene relegata ad una posizione subalterna di co- protagonista.

Inoltre, il momento centrale della confessione, in Doppio Sogno vera e propria apertura del racconto, viene proposto da un impeccabile narratore onnisciente ed il punto di vista sulle cose e sui personaggi resta “oggettivo”.

83

CONCLUSIONI

Riprendendo quanto affermato e considerato nell’Introduzione in merito alle valutazioni ed alle ricerche sinora condotte dagli studiosi di semiotica – ed in particolare da Torop, al quale maggiormente mi sono rifatta nella mia analisi della trasposizione cinematografica di Doppio Sogno in Eyes Wide Shut – in merito ai problemi inerenti all’analisi traduttologica del prototesto in vista della traduzione filmica e alla possibilità concreta di sviluppare un metodo scientifico per l’analisi dei fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella traduzione filmica, e ripercorrendo, a posteriori, l’intero lavoro di scomposizione ed analisi da me proposto e condotto su un caso concreto di trasposizione cinematografica, mi appare doveroso annotare alcune osservazioni finali, che si propongono come estrema sintesi di un intero percorso.

Ho già notato e segnalato quali siano le differenze intrinseche e fondamentali che intercorrono fra romanzo e film, prodotti appartenenti a due diversi sistemi segnici. Ed ho visto come l’analisi traduttologica del prototesto sia legata ad un processo di indagine e di scomposizione nei suoi elementi costitutivi e potenziali, per i quali verrà attuata una ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi al fine di trasformare – attraverso la scelta delle dominanti contenute nel prototesto – e rappresentare tali elementi mediante i mezzi espressivi caratteristici del cinema, fino alla creazione del metatesto, ovvero il testo filmico.

L’analisi e la scomposizione del prototesto nei suoi elementi costitutivi – e dei quali è formato anche il metatesto – è riconducibile all’individuazione dei tre tipi di cronotopo riconosciuti da Torop: a qualunque genere di sistema segnico appartenga, un testo è composto dal cronotopo topografico, dal cronotopo psicologico e dal cronotopo metafisico. A seconda che il testo appartenga ad un sistema di segni verbale – come il romanzo – o non soltanto verbale – come

84

il film – i tre tipi di cronotopo si esplicheranno in modi e mediante mezzi espressivi diversi. Inoltre, il dominio di un cronotopo sull’altro o, diversamente, la loro fusione armoniosa, determinerà un diverso approccio all’analisi traduttologica ed una differente rilevazione delle dominanti presenti nel testo stesso – sia nel prototesto sia nel metatesto.

Infine, ho osservato come la traduzione filmica sia una vera e propria opera creativa, in quanto non esiste ancora un metodo scientifico che stabilisca in che modo ogni traduzione deve essere condotta, semplicemente esistono delle concordanze di segni, per cui ogni elemento appartenente al prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, seppure secondo modalità diverse per ogni singolo romanzo e per ogni singolo film.

Per quanto concerne il caso preso in esame è possibile riscontrare, in fase di analisi, come il regista si sia sostanzialmente concentrato sulla lettura ed in particolare sui temi del romanzo. Infatti, sebbene vi siano delle notevoli differenze fra le due opere, che lascerebbero supporre uno stravolgimento totale da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad un esame più accurato è possibile notare, invece, come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga semplicemente rivestita della storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento lasci continuamente affiorare l’intreccio, i temi e gli elementi costitutivi originali del prototesto.

Il viaggio onirico-reale-surreale viene proposto e ricreato sia mediante l’utilizzo di un contrasto cromatico – rosso e blu – che delinea il conflitto fra realtà psichica e realtà materiale, fra il giorno e la notte, fra il rassicurante e noto mondo domestico e il misterioso, ignoto e dunque perturbante mondo esterno – che si insinua del mondo interno –, sia mediante l’utilizzo di movimenti di macchina che sembrano inghiottire, avviluppare e condurre il protagonista maschile verso un “laddove” proibito, una discesa entro i gorghi della sua stessa psiche – in quel territorio intermedio e fluttuante che si cela fra conscio e inconscio e che Schnitzler definiva «medioconscio» –, sia mediante la

85

ricostruzione in studio di una New York quasi irreale e labirintica, che viene percorsa e ripercorsa sino allo sfinimento, con la costante impressione da parte dello spettatore di trovarsi, invece, sempre nello stesso punto.

La dualità della coppia di protagonisti viene rappresentata, ancora, dal contrasto cromatico, dalla contrapposizione fra il calore dell’ambiente domestico e la freddezza del mondo esterno, dall’impiego di luci soffuse in opposizione a luci diffuse, dall’ampio utilizzo di inquadrature soggettive che si sovrappongono, in taluni casi, a quelle sonore, fornendo così ulteriormente un’impressione di scissione fra ciò che viene visto – la realtà materiale – e ciò che, al contrario, viene percepito – la realtà psichica.

Il tema del doppio, più in generale, viene ricostruito attraverso l’uso di specchi – simboli del doppio per eccellenza –, di luoghi, elementi e personaggi identici o analoghi, di situazioni simili fra loro oppure di carattere opposto, e di una struttura filmica caratterizzata dalla specularità.

Lo smarrimento interiore del personaggio, in special modo di quello maschile, viene raffigurato da una mimica facciale e da una recitazione volutamente goffe e ricercate, talvolta artificiose, che tendono a evidenziare le insicurezze e tutta l’inadeguatezza, da parte protagonista, nell’affrontare situazioni nuove ed impreviste, nonché dalla rappresentazione di un tempo – interno alla mente del protagonista – che si disgrega, grazie all’uso di numerose soggettive, di ripetizioni, di blocchi e di un insolito impiego della dissolvenza incrociata.

Il mascheramento sociale e l’ipocrisia della morale borghese affiorano continuamente durante la rappresentazione e sono evidenziare sia dai dialoghi sia dai comportamenti perbenisti e allo stesso tempo vuoti, meccanici, fatici, dei personaggi – inclusi i due protagonisti – sia dal raffronto di alcune scene e situazioni apparentemente opposte eppure complementari fra loro, come le due feste, o, ancora, dall’uso delle luci, dei colori, nonché, in modo molto più esplicito, dall’utilizzo delle stesse maschere. La famiglia, l’istituzione rappresenta una facciata illusoria dietro la quale si nasconde un groviglio di

86

dubbi, di angosce e di desideri repressi, diviene il luogo nel quale con maggiore lucidità si insidia e si sprigiona d’improvviso, travolgendo ogni certezza, il perturbante.

Tale lettura filologica, rivista in chiave moderna dovuta alla trasposizione cronotopica della storia di Doppio Sogno in una New York contemporanea, è stata possibile anche grazie alla comunione dei temi prediletti dal regista e quelli affrontati dallo scrittore viennese sia nel romanzo in oggetto sia nel corso della carriera artistica di entrambi gli autori. Questa similarità fra Schnitzler e Kubrick ha fatto sì che la novella schnitzleriana figurasse come un soggetto ideale per il regista statunitense.

Le principali differenze traduttive apportate da Kubrick alla novella di Schnitzler riguardano in special modo la scelta dell’ambientazione e alcune scelte in merito all’intreccio.

Per quanto riguarda l’ambientazione, mentre la storia di Doppio Sogno si svolge nella Vienna di inizio Novecento, quella di Eyes Wide Shut si svolge nella New York contemporanea; di conseguenza, la storia intera è stata completamente trasposta e modernizzata, con una conseguente modernizzazione anche dei realia e di alcuni motivi appartenenti alla cultura e all’epoca nella quale ha luogo la vicenda del prototesto – ad esempio, nel romanzo il protagonista maschile esprime il timore di contrarre una malattia venerea laddove nel film lo stesso timore viene espresso nei confronti dell’Aids; o, ancora, se il mezzo di trasporto utilizzato nel romanzo è la carrozza, nel film viene utilizzata l’automobile. Tuttavia, la New York descritta e rappresentata da Kubrick si discosta di gran lunga da quella vera: infatti, essa appare quasi un ibrido fra la reale città odierna e la Vienna di inizio Novecento, poiché costellata di nomi, personaggi, luoghi nonché musiche che si ricollegano al mondo mitteleuropeo e ricordano e regalano un clima tardo romantico.

Per quanto riguarda l’intreccio, nella storia di Eyes Wide Shut si possono rilevare numerose differenze narrative rispetto a quella originale: sia perché presenta

87

una dilatazione temporale – la vicenda di Doppio Sogno si svolge in due giorni mentre quella del film in quattro giorni – sia perché la storia stessa, come appena descritto, è stata ambientata in uno spazio ed in un’epoca differenti, sia e soprattutto perché alla trama nel film sono state apportate svariate modifiche, riguardanti vari fattori: in primo luogo la scelta di nomi di luoghi, personaggi, nonché della parola d’ordine per accedere alla festa orgiastica diversi rispetto al romanzo; in secondo luogo la modifica e l’amplificazione di alcune scene – in particolare, mi riferisco alla scena della prima festa alla quale partecipano entrambi i protagonisti: mentre nel racconto di Schnitzler questi impiega soltanto poche righe per descriverla, nel film viene dato ampio spazio alla rappresentazione della stessa sequenza –, che determinano anche l’assegnazione di un diverso peso delle stesse situazioni nel film rispetto al romanzo; in terzo luogo l’aggiunta ex novo di alcune sequenze e personaggi – ovvero l’introduzione del personaggio di Victor Ziegler nonché, nel sottofinale, il confronto fra quest’ultimo e il protagonista maschile nella sala del biliardo –; in quarto ed ultimo luogo, la soppressione di alcune scene, a mio avviso molto importanti, contenute invece nel romanzo – la reciproca confessione del tradimento non consumato da parte di entrambi i coniugi viene ridotta alla confessione di un desiderio di illecita passione unicamente da parte della protagonista femminile, cosicché la confessione del medico viene interamente depennata; allo stesso modo, il racconto del sogno da parte della donna, al rientro in casa del medico in seguito alle sue avventure notturne, viene notevolmente ridotto e alcuni suoi aspetti non vengono del tutto menzionati –, che determinano dunque, all’interno del film, un sensibile sbilanciamento di un tema fondamentale del romanzo di Schnitzler: la rappresentazione del doppio, nonché la doppia valenza del viaggio onirico-reale-surreale vissuto da entrambi i protagonisti.

Tale sbilanciamento si esplica più precisamente nel cosiddetto «residuo

88

traduttivo»101. Ogni tipo di traduzione – interlinguistica, intralinguistica e dunque anche quella intersemiotica extratestuale – comporta un residuo traduttivo, ossia un insieme di elementi che, in base alla strategia traduttiva adottata, non vengono trasferiti nel metatesto, poiché sono difficilmente riproducibili o perché non costituiscono una dominante del prototesto e vengono di conseguenza ignorati oppure spiegati in altro modo – ad esempio, nella traduzione metatestuale attraverso l’impiego di note.

Nel caso specifico, ovvero nella trasposizione cinematografica presa in esame, la scelta di depennare nel metatesto due sequenze tanto importanti – che contribuiscono alla costituzione di una dominante del prototesto, ovvero la dualità della coppia e la dicotomia fedeltà-tradimento – risulta difficilmente condivisibile e comprensibile e non appare dovuta né ad una possibile difficoltà di rappresentazione da parte del regista mediante le tecniche cinematografiche né, tanto meno, alla scarsa significatività delle due sequenze stesse. Purtroppo, la morte prematura e repentina di Kubrick ha lasciato un alone di mistero attorno all’ideazione del film e, soprattutto, alla sua effettiva rappresentazione. Infatti, sebbene determinate scelte siano state ampiamente commentate – da critici e studiosi, nonché dagli stessi attori e aiutanti del regista e, in ultimo, dallo sceneggiatore – nel vano tentativo di fornire delle spiegazioni esaustive e interpretazioni su di esse, tale tentativo si perde in una girandola di delucidazioni e dichiarazioni che altro non sono che ipotesi.

Dunque, non resta altro che questo: formulare congetture.

Anche in Doppio Sogno i temi dominanti si sviluppano maggiormente nella figura del medico, nella quale meglio si esplicano le contraddittorietà racchiuse nell’animo umano. Nel film, tuttavia, viene totalmente privilegiata la raffigurazione dello smarrimento interiore e del viaggio vissuto dal personaggio maschile a discapito di quello femminile. Inoltre, mentre nel romanzo la parola

101 B. Osimo, 2001

89

scritta consente allo scrittore di descrivere – e al lettore di penetrare – con più acume le profondità del pensiero e della psiche dell’uomo, nel film l’assoluta quanto naturale mancanza della parola scritta priva la storia di tanta interiorità e profondità. Kubrick cerca di ovviare sia alla soppressione da lui apportata alla vicenda sia all’impossibilità di utilizzare la parola scritta per raffigurare il tema della dualità e del parallelismo attraverso l’uso insistito di elementi iconici che rinviano lo spettatore all’immagine del doppio: ad esempio, viene fatto ampio uso di specchi o di figure identiche o simili; inoltre, il film ha una struttura più marcatamente simmetrica rispetto al romanzo e la dualità del viaggio, fra conscio e inconscio, viene rappresentata mediante diversi espedienti, come il contrasto cromatico.

Quel che è certo, però, è che Eyes Wide Shut si presenta come un capolavoro, l’ennesima, oltre che ultima, odissea kubrickiana che abbatte ogni confine fra realtà e sogno, e penetra in profondità nell’animo umano, rivelando, con la freddezza cinematografica che ha contraddistinto tutto il cinema di Kubrick, le più inconfessate debolezze e le più intime pulsioni dell’uomo.

90

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • AlongeGiaime,«Tobeperfectlyhonest…»or:MrHarfordandthevicious circle, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 17-27.
  • Caprettini Gian Paolo, Un malinconico incantesimo. Peter Pan e il modello fiabesco, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 9-12.
  • Carluccio Giulia e Villa Federica (a cura di), Dossier Eyes Wide Shut, numero monografico di La Valle dell’Eden. Quadrimestrale di cinema e audiovisivi, Anno III/IV, n° 8/9, Settembre-Dicembre 2001, Gennaio- Aprile 2002, Torino, Lindau, 2002, ISBN 88-7180-383-3.
  • Carluccio Giulia, Somewhere under the rainbow, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 29-37.
  • Carotenuto Aldo, Il gioco delle passioni amorose. Dinamiche dei rapporti amorosi, Milano, Bompiani, 2003, ISBN 88-452-5206-X.
  • Ciaruffoli Simone, Stanley Kubrick. Eyes Wide Shut, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2003, ISBN 88-87011-59-1.
  • Costa Antonio, Saper veder il cinema, Milano, Bompiani, 1985, ISBN 88- 452-1253-X.
  • De Gaetano Roberto, Le fluttuazioni del «semiconscio», in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 63-69.
  • EugeniRuggero,EyesWideShutolascuoladelladifferenza,inG.Carluccio e F. Villa, 2002, p. 71-77.
  • Eugeni Ruggero, Invito al cinema di Kubrick, Milano, Mursia, 1995, ISBN 88-425-1940-5.
  • FareseGiuseppe,PostfazioneaDoppioSogno,inA.Schnitzler,1977,p. 117-131.
  • Kubrick Stanley, Eyes Wide Shut, Gran Bretagna, Warner Bros, 1999.
  • Osimo Bruno, Corso di traduzione [online] [Modena, Italia], Logos, gennaio 2000 [citato ottobre 2005]. Disponibile dal world wide web:

91

http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.traduzione?lan

g=it>.

  • Osimo Bruno, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavolesinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.
  • Raphael Frederic, Eyes Wide Open, a cura di M. Giusti, traduzione di N.Gobetti, Torino, Einaudi, 1999, ISBN 88-06-15318-8.
  • ReitaniLuigi,Postfazione,inA.Schnitzler,2001,p.111-121.
  • Schnitzler Arthur, Doppio Sogno, a cura di G. Farese, Milano, AdelphiEdizioni, 1977, ISBN 88-459-1379-1.
  • Schnitzler Arthur, Sulla psicoanalisi, a cura di L. Reitani, Milano, SE,2001, ISBN 88-7710-504-6.
  • Torop Peeter, La traduzione extratestuale, in Torop Peeter, La traduzionetotale, a cura di B. Osimo, Modena, Guaraldi Logos, 2000, ISBN 88-

    8049-195-4, p. 299-343.

  • Ulivieri Filippo, Archivio Kubrick [online], [Roma, Italia] 2001 [citatosettembre 2005]. Disponibile dal world wide web:

    http://www.archiviokubrick.it/film/ews/index.html?main=mainews.

  • Villa Federica, Confessare lo sguardo, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p.39-45.

92

BIBLIOGRAFIA

  • Baracco Aldo, Eyes Wide Shut: la realtà del sogno, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 89-96.
  • DacquinoGiacomo,Checos’èl’amore.L’affettoelasessualitànelrapportodi coppia, Milano, Mondadori, 1994, ISBN 88-04-41845-1.
  • Del Ministro Maurizio, Eyes Wide Shut: una nuova odissea nel tempo e nello spazio, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 13-15.
  • Dinoi Marco, La danza di Mercurio. La visione e il movimento, il corpo e il mondo in Eyes Wide Shut, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 79-87.
  • Freud Sigmund, L’interpretazione dei sogni, traduzione di A. Ravazzolo, Roma, Newton Campton Editori, 1970, ISBN 88-7983-075-9.
  • Osimo Bruno, Traduzione e qualità. La valutazione in ambito accademico e professionale, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203-3386-4.
  • Rank Otto, Il doppio. Uno studio psicoanalitico, traduzione di I. Bellingacci con uno scritto di M. Dolar, Milano, SE, 2001, ISBN 88-7710-489-9.

93

Il meccanismo di realizzazione della traduzione: Lûdskanov Aleksand ̋r LÛDSKANOV, Le mécanisme de réalisation de la traduction FRANCESCA PICERNO Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Il meccanismo di realizzazione

della traduzione: Lûdskanov Aleksand ̋r LÛDSKANOV, Le mécanisme de réalisation de la traduction

FRANCESCA PICERNO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica estate 2006

© Aleksand ̋r Lûdskanov & Association Jean-Favard pour le développe- ment de la linguistique quantitative 1969

© Francesca Picerno per l’edizione italiana 2006

Abstract in italiano

L’obiettivo di questa tesi è tradurre e analizzare la terza parte del libro Traduction humaine et traduction mécanique scritto dal traduttologo e semiotico bulgaro Aleksand ̋r Lûdskanov nel 1969. L’opera è un’indagine sul meccanismo di realizzazione del processo traduttivo effettuato da un traduttore umano e della nascente traduzione meccanica. Nel primo capi- tolo viene effettuata un’analisi degli aspetti peculiari del prototesto. In primo luogo si mette in luce il fatto che l’autore scrive in una lingua di- versa dalla sua lingua madre (il francese) e si illustrano le conseguenze che ne derivano, soprattutto l’imprecisione lessicale, e quindi le difficoltà di comprensione e il conseguente residuo traduttivo. Si evidenzia poi la difficoltà di coniugare una concezione nuova e moderna del processo tra- duttivo con quella di coniare una terminologia adeguata e coerente con tale concezione. L’analisi traduttologica prende in esame la dominante del testo, il lettore modello, la strategia traduttiva e il residuo traduttivo. In chiusura vengono presentati esempi di calchi francesi sul bulgaro e termini che sono risultati problematici nella resa italiana. Il secondo ca- pitolo contiene la traduzione in italiano con il testo a fronte dell’originale di cui si è voluto mantenere la peculiare forma editoriale, ossia la stampa anastatica del testo originale redatto con la macchina da scrivere.

3

Résumé en français

L’objectif de ce mémoire est de traduire et analyser la troisième partie du livre Traduction humaine et traduction mécanique écrit par le chercheur bulgare en traductologie et sémiotique Aleksand ̋r Lûdskanov en 1969. Cet ouvrage présente une enquête sur le mécanisme de réalisation de l’opération traduisante effectuée par un traducteur humain et de la nais- sante traduction automatique. Dans le premier chapitre on a effectué une analyse des traits caractéristiques du texte source. Tout d’abord on fait remarquer que l’auteur s’exprime dans une langue différente de sa langue maternelle et on met en lumière les consequences qui en découlent, sur- tout l’imprécision lexicale et donc les difficultés de compréhension et le résidu traductif. En suite on souligne le problème de conjuguer une conception nouvelle et moderne de la traduction avec la nécéssité de for- ger un vocabulaire convenable et cohérent avec cette conception. L’ana- lyse traductologique examine la dominante du texte, son lecteur modèle, la stratégie traductive et le résidu traductif. À la fin du chapitre on pro- pose des exemples de calques français sur le bulgare et des termes qui on posé des problèmes de traduction. Le deuxième chapitre contient la tra- duction en italien avec le texte original en regard dont on a conservé l’aspect typographique caractéristique, c’est-à-dire la reproduction anas- tatique du texte original tapé à la machine.

4

English abstract

The object of this dissertation is the translation and analysis of the third part of the book Traduction humaine et traduction mécanique written in 1969 by the Bulgarian translation theorist and semiotician Aleksand ̋r Lûdskanov. The work carries out a study on the mechanism of human translation and the emerging automatic translation. The first chapter of the dissertation provides an analysis of the main features of the source text. First of all it highlights the fact that the book is written in a different language from the author’s mother tongue and shows its consequences, such as lexical inaccuracy and therefore comprehension difficulties and translation loss. Then it points out the difficulty in combining a new and modern view of translation with the creation of a proper and coherent vo- cabulary. The analysis of the text’s translatability considers its dominant, the target reader, the translation strategy and the translation loss. At the end of the chapter some examples illustrate loan-words and calques from Bulgarian and some vocabulary problems. The second chapter includes the Italian translation and the French source text maintaining its peculiar form, i.e. the anastatic reproduction of the original typewritten copy.

5

Sommario

Abstract in italiano …………………………………………………………………………………………. 3 Résumé en français…………………………………………………………………………………………. 4 English abstract ……………………………………………………………………………………………… 5 Sommario ………………………………………………………………………………………………………. 6 1 – Prefazione………………………………………………………………………………………………….. 7

1.1 Analisi traduttologica ………………………………………………………………………………. 9 1.2 I calchi sul bulgaro ………………………………………………………………………………… 12 1.3 Problemi di terminologia ………………………………………………………………………… 15 1.4 Legenda delle sigle ………………………………………………………………………………… 17 1.5 Riferimenti bibliografici …………………………………………………………………………. 19

2 – Traduzione con testo a fronte……………………………………………………………………. 21 2.0 Terza parte – Alcuni problemi della traduzione tradizionale………………………… 22 2.1 Capitolo 1 – La traduzione tradizionale …………………………………………………….. 22 2.2 Capitolo 2 – Il meccanismo di realizzazione della traduzione da una lingua naturale a un’altra ……………………………………………………………………………………….. 26

2.2.1 L’informazione necessaria alla traduzione …………………………………………. 26 2.2.2 Il principio funzionale ……………………………………………………………………… 32 2.2.3 L’approccio linguistico e letterario……………………………………………………. 40

2.3 Riferimenti bibliografici …………………………………………………………………………. 45

6

1 – Prefazione

Questa tesi consiste nella traduzione e l’analisi di un passo del libro Traduction humaine et traduction mécanique scritto da Aleksand ̋r Lûdskanov, già professore all’Università di Sofia e direttore del Progetto di traduzione meccanica e di linguistica matematica, presso l’Istituto di matematica dell’Accademia Bulgara delle Scienze. L’opera, dapprima scritta in bulgaro, (Preveždat čovekat i mašinata, Sofia, Nauka y Izkustvo, 1968), fu successivamente tradotta dall’autore stesso in lingua francese e pubblicata nel 1969 dalla casa editrice parigina Dunod. Ne esistono inoltre una tradu- zione tedesca e una polacca.

L’estratto da me tradotto corrisponde alla parte terza (capitoli 1 e 2) del secon- do volume dell’opera.

La peculiarità di questo testo, e dell’intera opera da cui è tratto, risiede nel fatto che è stato redatto in una lingua diversa dalla lingua madre dell’autore, il che comporta non solo imprecisioni e talvolta veri e propri errori di tipo ortografico, grammaticale ecc., ma soprattutto difficoltà nella comprensione di alcune espressioni e termini, e nella loro traduzione, poiché la precisione terminologica – fondamentale trattandosi di un testo settoriale, un saggio scientifico – è qui compromessa dalla non totale padro- nanza della lingua da parte di chi scrive. La difficoltà di comprensione di alcune e- spressioni talvolta è stata superata ricostruendo il probabile significato risalendo alla

7

lingua bulgara (attraverso la consultazione di un dizionario bulgaro-francese), il che ha permesso di svelare calchi francesi sulla lingua bulgara. Altre volte l’imprecisione terminologica e le inesattezze lessicali sono state superate analizzando il significato e riformulando in italiano secondo il canone di questo genere e secondo la terminologia propria della traduttologia (si vedano gli esempi pratici).

Un altro tratto peculiare del testo di Lûdskanov è rappresentato dal suo aspetto editoriale: l’opera è stata infatti redatta con la macchina da scrivere e la stampa è ana- statica, le conseguenze sono evidenti: scarsa qualità grafica del testo, limiti di impagi- nazione e una serie di imprecisioni redazionali (mancanza delle parentesi, del carattere corsivo, impossibilità di inserire le note a piè di pagina ecc.). Questo aspetto è in evi- dente contrasto con l’importanza teorica delle argomentazioni esposte nell’opera, so- prattutto se si considera l’epoca in cui il volume è stato pubblicato.

Non dimentichiamo infatti la novità rappresentata dai concetti elaborati da Lû- dskanov nella sua opera. Nella prima metà del Novecento gli studi relativi alla tradu- zione sono caratterizzati da una divisione, una scarsa comunicazione tra i ricercatori occidentali e quelli dei paesi “socialisti”. In questi anni, proprio nei paesi dell’Europa dell’est, che sono stati in un certo senso precursori dei progressi fondamentali conse- guiti dalla moderna disciplina della traduzione, si va definendo il nuovo concetto di «scienza della traduzione» (in opposizione alla precedente teoria della traduzione); gli studi sulla traduzione non vengono più intesi come una branca della linguistica ma bensì orientati verso la semiotica. Negli anni Settanta-Ottanta verrà riconosciuto mag- giormente l’aspetto extralinguistico e culturale della traduzione e postulato l’anisomor-

8

fismo delle lingue naturali. La traduzione non viene più intesa come la sostituzione di materiale con del materiale equivalente, un reperimento di corrispondenze, ma bensì come un lavoro di trasposizione che deve necessariamente tenere conto di elementi e- xtralinguistici e culturali. Di conseguenza è in questo momento che si va coniando e poi traducendo da una lingua all’altra una serie di termini nuovi nel campo della tradu- zione (a volte mutuati dall’inglese), tra i quali ad esempio source language e target language, e lo stesso termine di «scienza della traduzione». Lûdskanov ne utilizza al- cuni arrischiando delle traduzioni francesi talvolta arbitrarie (si veda negli esempi lan- gue de départ e langue d’arrivée); altri vocaboli, allora nuovi, sono poi entrati stabil- mente a far parte del lessico proprio della traduttologia e sono stati canonizzati nelle diverse lingue.

1.1 Analisi traduttologica

Traduction humaine et traduction mécanique è un testo tecnico, settoriale, ca- ratterizzato dal lessico e il registro propri delle pubblicazioni scientifiche, si distingue quindi per la ricchezza di termini tecnici (soprattutto terminologia semiotica), per la precisione terminologica e i lunghi periodi argomentativi. È annoverabile fra i cosid- detti «testi chiusi» (Eco 1979), i cui termini hanno valore puramente denotativo e in- formativo e il cui scopo è trasmettere delle informazioni precise a un lettore modello preciso; è un testo che non ammette molteplici possibilità interpretative. Tuttavia, per quanto normalmente il linguaggio settoriale possa essere definito quasi isomorfo se pa-

9

ragonato a quello dei testi aperti, in questo caso, a causa del fatto che l’autore si espri- me in una lingua diversa dalla sua lingua madre, questo isomorfismo è intaccato dalla sua conoscenza linguistica imperfetta (si vedano gli esempi). Di qui le difficoltà di comprensione di alcuni passi del testo e di alcuni termini tecnici usati a volte impro- priamente.

La dominante del prototesto – ovvero la componente essenziale attorno alla quale è focalizzato un testo e che ne assicura l’integrità (Jakobson) – è dunque di tipo informativo ed è esplicitata fin dal titolo: si tratta di un testo tecnico che approfondisce il tema della realizzazione della traduzione umana e della neonata traduzione automati- ca. La funzione informativa prevale senza dubbio su quella estetica, cioè la forma, che è qui assolutamente secondaria, e anzi talvolta rappresenta un ostacolo alla compren- sione del testo.

Allo stesso modo, il lettore modello del testo di Lûdskanov è senza dubbio un “addetto ai lavori”, uno specialista del settore, uno studioso di traduttologia. È ipotiz- zabile anche uno studente di un corso avanzato di traduttologia. Inoltre la scelta di scrivere in francese è riconducibile alla volontà dell’autore di raggiungere con la sua opera un pubblico più vasto di quello raggiungibile con la versione originale in bulgaro, e più precisamente un pubblico occidentale. Come si è già detto, in questi anni gli studi sulla traduzione avevano preso corsi diversi nei paesi dell’Europa dell’est e in quelli occidentali, e probabilmente l’intenzione dell’autore era quella di rendere note le sue indagini anche fra i ricercatori occidentali.

10

Se la mia traduzione fosse finalizzata alla pubblicazione (e non fosse la mia tesi di laurea), il lettore modello postulato potrebbe essere lo stesso del prototesto, cioè uno scienziato della traduzione o uno studente ad alti livelli. Tuttavia, non bisogna trascu- rare che una traduzione effettuata dopo un lasso di tempo così ampio dalla comparsa dell’originale (quasi quarant’anni), visti gli enormi cambiamenti e i progressi conse- guiti nell’ambito della scienza della traduzione, comporta un cambiamento quantome- no parziale del lettore modello e della strategia traduttiva. Come si è detto sopra, nella seconda metà del secolo scorso la terminologia della disciplina traduttologica si è evo- luta e infine definita nelle diverse lingue ed è assolutamente necessario tenere conto di questi cambiamenti. Inoltre la traduzione in italiano implica un restringimento del nu- mero dei possibili lettori empirici ai soli studiosi italiani. E in secondo luogo una tesi ha come lettore modello i docenti della Commissione di Laurea.

Il residuo comportato dalla mia traduzione in italiano è essenzialmente imputa- bile ai problemi di comprensione di alcune espressioni e alla difficoltà di renderle in i- taliano utilizzando un lessico corretto e coerente con il linguaggio semiotico in uso og- gigiorno. Inoltre il francese di Lûdskanov, caratterizzato da periodi lunghi, contorti, e- laborati, spesso ridondanti, non agevola certo la comprensione globale del prototesto. Del resto il residuo prodotto dalla traduzione in italiano non è altro che una conse- guenza ulteriore dell’uso da parte dell’autore di una lingua diversa dalla sua lingua madre. Questo fatto di per sé ha già comportato un primo residuo nella stesura del pro- totesto, ovvero la perdita di tutto quel materiale che l’autore non è riuscito a convoglia-

11

re nel suo scritto a causa della conoscenza incompleta della lingua francese. La tradu- zione di una traduzione poi non può che comportare un’ulteriore perdita di senso.

Un altro aspetto che rientra nel residuo traduttivo è costituito dagli esempi di corrispondenza tra parole bulgare, russe e francesi che Lûdskanov porta a sostegno delle sue argomentazioni (si veda ad esempio la tabella a pagina 36) e che ho deciso di non tradurre per non alterare la loro valenza autonimica. Il lettore che non conosca tali lingue non ha la possibilità di comprendere gli esempi e di conseguenza ne deriva una nuova perdita di senso.

1.2 I calchi sul bulgaro

CONDITIONNELLEMENT

A una prima lettura l’avverbio conditionnellement (pagina 70 del testo francese) risultava alquanto incomprensibile; per tradurlo correttamente in italiano si è reso dun- que necessario effettuare una ricerca. Consultando il world wide web eurodict.com ho reperito i seguenti traducenti bulgari per la parola francese conditionnel:

conditionnel, le

adj. et m. (lat. conditionalis)
1 условен, зависещ от условие; mode ~ условно наклонение; réflexe ~ псих.,

физиол. условен рефлекс;

12

2 m. грам. условно наклонение. ◊ Ant. absolu, catégorique, formel, incondi- tionnel, net.

Ecco ora i significati francesi che ho trovato cercando la parola bulgara условен (quel- la che viene riportata come primo significato di conditionnel):

условен

прил

  1. 1  conditionné, e; условни рефлекси réflexes conditionnés;
  2. 2  convenu, e; ~ сигнал signal convenu;
  3. 3  грам conditionnel, elle; условно наклонение mode conditionnel; условна пр- исъда condamnation avec sursis.In questo modo ho potuto verificare con certezza che, come già intuibile dal

contesto della frase in cui si presentava il termine in questione, nella lingua bulgara la parola corrispondente al francese conditionnel possiede anche l’accezione di convenu (si veda il significato 2), che in italiano vuol dire convenuto, stabilito, e quindi con- venzionale.

A questo punto ho potuto tradurre l’avverbio conditionnellement con la parola italiana convenzionalmente:

«[…] ce que nous avons désigné conditionnellement par le terme d’analyse extralin- guistique».
«[…] quello che abbiamo definito convenzionalmente con il termine analisi extralin- guistica».

13

CARACTÉRISTIQUE

«La similitude générique de ces deux notions d’opérations traduisantes (en d’autres termes la caractéristique par le genus proximum de Lin→ Ljn) réside […]»
(pagina 51 del testo francese).

In questa frase il sostantivo caractéristique risultava incomprensibile e appa- riva evidente non solo che non era traducibile con l’italiano «caratteristica» ma che an- che in francese era scorretto in quanto seguito dalla preposizione par (per mezzo di, at- traverso, mediante). Nuovamente è sorto il dubbio di un possibile calco sul bulgaro e inferendo dal contesto si è ipotizzato che caractéristique stesse in realtà per il sostanti- vo dalla stessa radice caractérisation. Nel sito http://sa.dir.bg/sa.htm si è consultato il dizionario inglese-bulgaro SA Dictionary 2005 e cercando il termine characterization si sono reperiti i seguenti traducenti bulgari:

characterization

  1. 1  характеристика, охарактеризиране;
  2. 2  обрисовка на характер в роман, пиеса и пр.

Cercando poi il primo significato di characterization sul dizionario bulgaro-francese ho trovato la seguente definizione:

характеристика

ж
caractéristique f; (атестация) références fpl; имам добра ~ avoir de bonnes références.

14

In questo modo ho avuto la conferma che caractéristique può essere un calco involon- tario sul bulgaro e ho deciso di tradurre la frase in questione come segue:

«La similitudine generica fra questi due tipi di processo traduttivo (in altre parole, la caratterizzazione in base al genus proximum di Lin→ Ljn) risiede […]».

1.3 Problemi di terminologia

LANGUE D’ENTRÉE, LANGUE DE DÉPART LANGUE DE SORTIE, LANGUE D’ARRIVÉE

Come si è detto, fino agli anni Settanta la traduzione era intesa come un repe- rimento di equivalenti e il loro trasporto dal testo originale a quello di destinazione. Quest’idea era consolidata dalla metafora dello spostamento nello spazio, del “traslo- co”, rappresentata dall’utilizzo delle espressioni «lingua di partenza» e «lingua d’arrivo» (Osimo 2004b).

Se l’opera di Lûdskanov è innovativa per la concezione della traduzione che propugna (intesa in termini semiotici e non linguistici, come processo di trasposizione di un’informazione invariante, che deve tener conto del contesto extralinguistico), non lo è tuttavia sul fronte della terminologia francese. Nel testo infatti sono presenti i ter- mini langue d’entrée e de départ e langue de sortie e d’arrivée, che sono molto proba- bilmente traduzioni imprecise ma molto diffuse dell’inglese source e target language e che sembrano accreditare la concezione della traduzione come trasporto.

15

Coerentemente con la strategia traduttiva messa in atto, queste espressioni sono state tradotte con «emittente» e «ricevente»; questi termini, nati con l’avvento della moderna scienza della traduzione, tengono infatti conto dell’aspetto extralinguistico e culturale del processo traduttivo. Altrettanto coerenti con questo aspetto sono i termini «prototesto» (cioè il testo originale, il testo della cultura emittente, da cui si avvia il processo traduttivo) e «metatesto» (cioè il testo della traduzione, il testo della cultura ricevente, a cui si giunge mediante il processo traduttivo) coniati dal testologo slovac- co Anton Popovič nel 1976 e entrati ormai a pieno titolo nel gergo della moderna tra- duttologia.

SIGNIFIANT/SIGNIFIÉ; SIGNIFICATION

Nel prototesto occorrono spesso i termini signifiant e signifié. Tali vocaboli (coniati dal linguista svizzero Saussure nel 1906) sono entrati stabilmente a far parte della terminologia della linguistica. Il signifié è la parte del segno linguistico che per Saussure coincide con il concetto, mentre il signifiant costituisce l’aspetto grafico o fonico, la manifestazione materiale di una parola, che insieme al signifiant costituisce il segno linguistico.

Si è deciso di non tradurre questi termini con le parole italiane «significato» e «significante» perché si è tenuto conto del fatto che in francese esistono due vocaboli: signifié e signification (anch’esso presente nel testo) che possiedono un unico tradu- cente italiano: «significato» e si è voluto evitare che «significato» coincidesse sia con

16

signifié che con signification. Nella terminologia infatti è assolutamente necessario che non ci siano confusioni di questo tipo tra termini e parole. Signifié si riferisce esclusi- vamente al termine saussuriano che significa una parte del signe e quindi ha una valen- za prettamente settoriale. Signification invece è la parola generica usata in ambito an- che linguistico per indicare quello che Peirce chiama «oggetto».

1.4 Legenda delle sigle

Nel testo di Lûdskanov sono presenti numerose sigle e abbreviazioni, eccone una lista con relativa illustrazione:

I

q (t)

I (Tn)

I (Td)

L

Li (i = 1,2,3…)

L1 Ln

Lni (i = 1,2,3…)

Ln1 La

Lai (i = 1,2,3…)

La1 Lint

Linti (i = 1,2,3…)

informazione;
quantità d’informazione;
informazione necessaria alla traduzione;
informazione necessaria alla traduzione, disponibile;
codice in generale (concetto sovraordinato);
un codice qualunque;
un codice dato;
lingua umana naturale in generale (concetto sovraordinato);
una lingua umana naturale qualunque;
una lingua umana naturale data;
linguaggio artificiale;
un linguaggio artificiale qualunque;
un linguaggio artificiale dato;
linguaggio d’intermediazione in generale (concetto sovraordina- to);
un linguaggio d’intermediazione qualunque;

17

Lint1 un linguaggio d’intermediazione dato;
Li→Lj concetto generale di traduzione da un codice qualunque a un al-

tro codice qualunque;
L1→L2 traduzione da un codice dato a un altro codice dato;

Lni→Lnj concetto generale di traduzione da una lingua umana naturale qualunque a un’altra lingua umana naturale qualunque;

Ln1→Ln2 traduzione da una lingua umana naturale data a un’altra lingua umana naturale data;

Lai→Laj concetto generale di traduzione da un linguaggio artificiale qua- lunque a un altro linguaggio artificiale qualunque;

La1→La2 traduzione da un linguaggio artificiale dato a un altro linguaggio artificiale dato.

18

1.5 Riferimenti bibliografici

ANGELOV S. B ̋lgarskiât kompûteren rečnik. SA Dictionary 2004-2005. Disponibile in internet all’indirizzo http://sa.dir.bg/sa.htm. Consulta- to nel maggio 2006.

ECO U. 1979 Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani.

ECO U. 1997 Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani.

EURODICT 2004 – Eurodict Free Online Dictionary Bulgarian English Turkish, Varna (Bulgaria), KoralSoft, 2004. Disponibile in internet all’indirizzo http://www.eurodict.com/. Consultato nel maggio 2006.

JAKOBSON R. 1959 On linguistic aspects of translation, in Jakobson 1987: 428-435. Traduzione: Aspetti linguistici della traduzione, 1959, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966: 56- 64.

LÛDSKANOV A. 1969 Traduction humaine et traduction mécanique, Parigi, Dundod.

OSIMO B. 2001 Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2002 Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2004a Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario. Seconda edizione, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2004b La traduzione totale: spunti per lo sviluppo della scienza della traduzione, Udine, Forum.

19

POPOVIČ A. 2006 La scienza della traduzione. Aspetti metodologici – La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

TOROP P. 1995 Total ́nyj perevod, Tartu, Tartu University Press; trad. it. La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo, Modena, Logos, 2000.

20

2 – Traduzione con testo a fronte

21

2.0 Terza parte – Alcuni problemi della traduzione tradizionale

Quanto abbiamo illustrato nella parte precedente ci ha permesso di constatare l’analogia di principio esistente fra tutti i tipi di processo traduttivo indipendentemente dai codici da e verso i quali si traduce, dal genere di messaggio e dalla natura del sog- getto che effettua questa operazione – un uomo o una macchina. In questa parte, limi- tando per necessità la nostra trattazione, tenteremo, naturalmente senza alcuna pretesa di esaustività, di descrivere alcuni aspetti specifici del meccanismo linguistico della traduzione tradizionale (TT) di testi scritti (ovvero la traduzione dalla forma scritta di una lingua naturale alla forma scritta di un’altra lingua naturale – Lni → Lnj – realizzata da un traduttore umano), di analizzare alcuni momenti essenziali della realizzazione di questo tipo di processo traduttivo e di formulare alcune riflessioni sulla polemica acce- sissima nell’ambito della traduzione letteraria fra i fautori dell’approccio linguistico e quelli dell’approccio letterario. Lo studio di questi problemi e soprattutto del carattere creativo del processo traduttivo ci permetterà di descrivere in modo più chiaro la gene- si e la natura dei problemi linguistici fondamentali della TA.

2.1 Capitolo 1 – La traduzione tradizionale

Il concetto di traduzione da una lingua naturale a un’altra, effettuata da un tra- duttore umano (indipendentemente dal genere testuale che si traduce – scientifico, giornalistico, letterario o politico) non è, come si è già visto, che un tipo, una specie,

22

un caso particolare del concetto generico di traduzione da un codice qualsiasi e a un altro codice qualsiasi (Li → Lj ). La similitudine generica fra questi due tipi di pro- cesso traduttivo (in altre parole, la caratterizzazione in base al genus proximum di Lni → Lnj) risiede , come si è già visto, nella loro natura semiotica comune, nel fatto che, sempre e in tutti i casi, queste operazioni consistono in trasformazioni e sostitu- zioni di segni che conservano un’informazione invariante. Ma è evidente che il pro- cesso traduttivo Lni → Lnj, proprio in quanto specie, deve definirsi non soltanto in ba- se al genus proximum ma anche in base alla differentiam specificam. Dalla defini- zione generica di traduzione (Li → Lj) e dalla classificazione proposta sopra risulta che ogni tipo di traduzione o piuttosto di processo traduttivo si distingue per i tratti specifici dei codici (le lingue) tra i quali viene effettuato. La traduzione Lni → Lnj consiste in un passaggio da una lingua naturale data a un’altra lingua naturale data e di conseguenza è logico desumere i suoi tratti specifici proprio dai tratti specifici delle lingue umane naturali (Ln). Dal punto di vista che ci interessa il modo migliore di met- tere in luce questi tratti specifici delle lingue naturali (Ln) è confrontarle con i linguag- gi artificiali (La).

Gli elementi degli La si fondano su una convenzione totale, ovvero il significato di ognuno di essi è preliminarmente e rigorosamente determinato. Gli La si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca – ogni signifié è riconducibile a uno e un solo signifiant e viceversa; ne consegue che i loro elementi (che non hanno mai valore con- notativo) non possono essere polisemici; inoltre non possono essere né omonimici né sinonimici. D’altronde, in teoria, il sistema di queste lingue non è strutturato in diversi livelli. Questi tratti specifici degli La semplificano al massimo la comprensione dei messaggi concretizzati nei loro segni e di conseguenza anche i processi di analisi, pro- duzione e sintesi. Secondo la definizione adottata nella seconda parte della nostra trat- tazione, la comprensione di un messaggio presuppone l’identificazione univariante dei

23

significati attualizzati degli elementi linguistici. Ma, come abbiamo già fatto notare, gli elementi degli La (così come le relative regole grammaticali) hanno sempre uno e un solo significato, il quale è del tutto indipendente dal contesto. D’altronde, poiché abbiamo a- dottato il punto di vista secondo il quale i significati delle espressioni linguistiche (o piut- tosto le loro descrizioni) coincidono con le loro traduzioni (le corrispondenze), è evidente che la comprensione dei messaggi formulati nei termini degli La si riduce all’identificazione della corrispondenza di ogni elemento. Di conseguenza, la compren- sione degli elementi di questi linguaggi combinati in un messaggio coincide con la loro traduzione. Tenendo a mente che i significati, le corrispondenze, degli elementi degli La sono sempre determinati preliminarmente (nella memoria dell’uomo o nel cosiddetto «codice»), non è difficile giungere alla conclusione che la loro comprensione, così co- me il processo traduttivo di cui possono essere oggetto, si riduce a una sostituzione meccanica (cioè a una scelta preliminarmente regolamentata – si veda la quarta parte) di un elemento con un altro secondo le regole del codice. In virtù del fatto che le corri- spondenze sono stabilite dal codice e che sono la descrizione degli unici significati che possiedono gli elementi del messaggio immesso, questa sostituzione permette di otte- nere in uscita la stessa informazione veicolata dal corrispondente messaggio immesso. Così, se abbiamo a disposizione un codice nel quale ad ogni lettera dell’alfabeto bulga- ro viene fatta corrispondere una cifra intera decimale seguendo la successione delle let- tere dell’alfabeto (a – 0, b – 1, v – 2 ecc.), possiamo “tradurre” ogni parola bulgara in codice decimale con una semplice sostituzione meccanica delle lettere secondo quanto indicato dal codice; così la parola kibernetika verrà tradotta 10 8 1 5 16 13 5 18 8 10 0.

Non è necessario sottolineare che questi problemi si porranno in modo comple- tamente diverso nel caso delle lingue naturali: esse infatti non sono (e non possono es- sere) fondate sul principio della corrispondenza biunivoca; la maggior parte dei loro elementi (che possono avere valore connotativo) sono polisemici e si distinguono per omonimia, sinonimia e talvolta per una convenzionalità imperfetta, e i loro sistemi so-

24

no strutturati in vari livelli. Inoltre, il confronto fra due lingue naturali da un punto di vista formale, cioè della corrispondenza dei signifiant, mostra che una data lingua na- turale può disporre di elementi che non esistono nell’altra, che hanno strutture diverse ecc. Osserviamo anche i casi di diversa segmentazione della realtà a seconda delle lin- gue. In conseguenza di tutti questi tratti specifici delle lingue naturali, la comprensione di un messaggio concretizzato nella forma di una qualsiasi Lni e i processi di analisi, sintesi, produzione e traduzione differiscono profondamente dagli stessi processi quando hanno per oggetto un messaggio concretizzato nella forma di un qualsiasi Lai, e presuppongono un’identificazione preliminare dei significati attualizzati (cioè i signifié) degli elementi linguistici del messaggio immesso, nel corso del processo di compren- sione (analisi), e dei corrispondenti mezzi d’espressione (cioè i signifiant), durante il processo di produzione (sintesi). Ma poiché è possibile che un signifiant possa avere più signifié e viceversa, questa identificazione presuppone che la scelta del signifié o del signifiant attualizzato venga realizzata facendo riferimento a un linguaggio di in- termediazione dato (si veda di seguito) e al contesto.

Abbiamo evidenziato sopra che il processo di comprensione e il processo tra- duttivo che hanno per oggetto messaggi concretizzati nei termini degli La non presup- pongono scelte preliminarmente non regolamentate e hanno carattere meccanico. Al contrario, in virtù dello specifico delle Lni, il processo di comprensione e il processo traduttivo che hanno per oggetto messaggi concretizzati nei termini di queste lingue presuppongono una scelta di questo tipo (si veda di seguito una trattazione più appro- fondita nel capitolo IV). Designeremo con il termine «creativo» (in opposizione a meccanico) qualsiasi processo che presupponga una o più scelte preliminarmente non regolamentate (si veda la quarta parte). Il tratto più specifico del processo traduttivo Lni→ Lnj consiste appunto nel suo carattere creativo. Vedremo in seguito che i principali problemi della TA sono condizionati dalla necessità di formalizzare e automatizzare

25

proprio il carattere creativo del processo traduttivo fra due lingue naturali.
Muovendo dalla definizione generica Li → Lj proposta e dai tratti specifici delle Ln menzionati, possiamo precisare che la traduzione tradizionale Lni → Lnj consiste in un insieme di trasformazioni creative che un traduttore umano effettua dai segni del messaggio immesso a quelli di un’altra lingua naturale, conservando un’informazione

invariante rispetto a un sistema di riferimento dato.
Quanto abbiamo detto finora mostra che il tratto più caratteristico della tradu-

zione tradizionale è costituito dalla sua natura linguistica creativa. Alcuni aspetti di questo problema sono oggetto del capitolo successivo.

2.2 Capitolo 2 – Il meccanismo di realizzazione della traduzione da una lingua naturale a un’altra

Il modo più razionale di mettere in evidenza la natura linguistica e creativa del processo traduttivo Lni → Lnj consiste nell’analizzare il meccanismo di realizzazione di tale operazione da parte di un traduttore umano nelle sue due fasi – l’analisi e la sintesi. Alcuni dei problemi che si incontrano durante la realizzazione di queste due fasi sono oggetto dei tre paragrafi di questo capitolo.

2.2.1 L’informazione necessaria alla traduzione

Muovendo dai tratti specifici delle lingue naturali, introdurremo qui un concet- to di capitale importanza sia per la teoria della traduzione tradizionale che per quella della traduzione automatica (che, per quanto ne sappiamo, finora non è mai stato for- mulato dalla letteratura teorica): il concetto di informazione necessaria alla traduzio- ne – I (Tn ) (si veda Lûdskanov 1964: 310).

Chiunque si sia trovato a effettuare una traduzione (così come è sempre stato messo in luce da coloro che hanno trattato i problemi della traduzione) sa bene che nel-

26

la maggior parte dei casi un’espressione linguistica o un mezzo linguistico è in sé in- traducibile fuori dal contesto. Cerchiamo di osservare ciò che sta dietro a questa verità elementare. Per tradurre un messaggio61 concretizzato nella forma di una data Lni in un’altra lingua naturale data, tale messaggio deve essere compreso. Questa compren- sione (in altre parole l’identificazione del senso, dell’informazione veicolata dal mes- saggio, inclusi tutti i fattori di tipo emozionale, stilistico ecc. – livello l1) che presup- pone un’analisi e dei passaggi successivi dal livello più superficiale a quello più pro- fondo della lingua data, si riduce in ultima istanza a un’identificazione univariante (u- na scelta) dei significati attualizzati degli elementi linguistici del messaggio immesso. Questa scelta, che non è stata preliminarmente regolamentata (si veda di seguito la quarta parte), presuppone, come d’altronde qualsiasi scelta, non solo la conoscenza de- gli elementi (dei dati) tra i quali verrà operata e delle relative regole, ma innanzitutto la presenza di una certa informazione, la quale deve permettere di effettuare la scelta data attenendosi alle regole date.

Ed è proprio alla luce di questo fatto che è possibile comprendere l’importanza dell’affermazione comune secondo la quale gli elementi delle Ln sono intraducibili fuo- ri dal contesto: nella maggior parte dei casi sono intraducibili fuori dal contesto (nel senso più ampio del termine) poiché, se analizzati singolarmente e indipendentemente dagli altri, generalmente non permettono di estrapolare una quantità sufficiente di in- formazione necessaria a effettuare la scelta corrispondente e di conseguenza alla loro comprensione e traduzione. Se si opera un confronto con i linguaggi artificiali è possi- bile osservare in modo ancora più chiaro questo aspetto fondamentale del processo tra- duttivo tra le lingue naturali.

Supponiamo che un dato individuo conosca il bulgaro, il linguaggio Morse e il russo. Di conseguenza sa che alla lettera a dell’alfabeto bulgaro corrisponde . – del lin-

61 Per semplificare il nostro lavoro, con l’espressione messaggio immesso intenderemo una frase. Ma pur ammettendo questa semplificazione, non dobbiamo dimenticare che molto spesso, e soprattutto quando oggetto del processo traduttivo sono testi letterari, la comprensione di una data frase dipende dalla comprensione del paragrafo, dell’intero capitolo dell’opera, dei suoi legami col mondo esterno, ecc.

27

guaggio Morse (ovvero il significato di a = . -) e che la parola bulgara d ̋rvodelec ha due significati in russo: stolâr (falegname) e plotnik (carpentiere). Nel primo caso l’in- formazione che si ricava analizzando il singolo elemento (cioè lo stabilire o il sapere che a = . -) è sufficiente per poterlo comprendere e tradurre (in quanto non si pone nes- suna scelta) in virtù del fatto che gli La si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca e non sono mai polisemici. Ma nel secondo caso le cose stanno diversamen- te: l’informazione ricavata dall’analisi del singolo elemento (ovvero lo stabilire o il sa- pere che d ̋rvodelec → stolâr o plotnik) non è sufficiente per effettuare la scelta neces- saria, cioè per stabilire se il vero significato è rappresentato dalla prima o dalla seconda corrispondenza. Se teniamo a mente questo fatto, non è difficile constatare che per es- sere in grado di operare la scelta necessaria e quindi di capire e tradurre una data e- spressione linguistica, il traduttore deve disporre di (o essere in grado di estrapolare) una quantità di informazione maggiore di quella che può essere ricavata dall’elemento corrispondente stesso. Indicheremo l’insieme di informazioni su un’espressione o su una data struttura linguistica che il traduttore umano deve essere in grado di accumula- re per poterla comprendere e quindi tradurre con il termine «informazione necessaria alla traduzione» – I (Tn). La quantità e la composizione di questa I (Tn) sono sempre condizionate dai tratti peculiari di una coppia di lingue naturali date (per esempio Ln1 e Ln2 ) e di conseguenza variano per le diverse coppie di lingue, così come per la tradu- zione dei diversi tipi di testo da una lingua naturale data a un’altra lingua naturale data (si veda anche Lûdskanov 1964).

Detto questo è opportuno porsi la seguente domanda: in che modo e da che fon- te il traduttore umano può accumulare l’I (Tn)? Muovendo da quanto affermato sopra in merito al problema della determinazione dei significati delle espressioni linguistiche, possiamo a grandi linee rispondere come segue: il traduttore può accumulare tale in- formazione attraverso un’analisi linguistica, facendo riferimento in primo luogo al

28

contesto linguistico dell’espressione da tradurre nel messaggio immesso, e in secondo luogo riferendosi al sistema della lingua stessa del messaggio impressa nella sua me- moria (in questo caso il Lint1, cioè il sistema di riferimento, coincide con la Ln1). Tutta- via (come si mette in evidenza sempre e a ragione nei trattati dedicati ai problemi della traduzione letteraria), talvolta l’informazione ricavata attraverso l’analisi linguistica non è sufficiente, in quanto la scelta del traduttore deve essere condizionata anche dal- la conoscenza dell’epoca, dei tratti peculiari dell’opera, del punto di vista letterario e estetico dell’autore, ecc. In tutti questi casi si usa dire, in modo non del tutto esatto, che il traduttore compie un riferimento alla realtà. Questo tipo di riferimento è un ele- mento imprescindibile della cosiddetta «analisi extralinguistica».62

Quanto abbiamo affermato finora ci permette di tracciare le seguenti linee generali del meccanismo linguistico del processo traduttivo: la realizzazione della pri- ma fase di questa operazione – l’analisi – è finalizzata a estrapolare l’informazione veicolata dal messaggio immesso; tale estrapolazione presuppone la comprensione. Il processo di comprensione consiste in un’identificazione univariante (una scelta) dei si- gnificati attualizzati degli elementi linguistici del messaggio immesso. Grazie allo spe- cifico delle lingue naturali (e soprattutto al fatto che esse non si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca), questa identificazione, o meglio questa scelta, che è di natura creativa, può essere effettuata soltanto disponendo di una serie di dati com- plementari. L’insieme dei dati che è possibile ricavare dall’analisi del singolo elemento linguistico, di questi dati complementari (compresa la conoscenza della coppia di lin-

62 Non dimentichiamo che il modo in cui stiamo descrivendo i fatti è ancora molto semplificato perché in verità il traduttore non opera un confronto direttamente con la realtà stessa, bensì con le sue cono- scenze sulla realtà, le quali possono esistere nella sua memoria solo nella forma di un dato codice. Di conseguenza, anche qui ci troviamo di fronte a un’analisi linguistica. D’altra parte, il traduttore si trova talvolta obbligato a sforzarsi di “vedere”, di immaginare i fatti a cui ha assistito l’autore, e questo pro- cesso d’immaginazione è di fatto una traduzione dal secondo sistema di segni al primo e viceversa. Infi- ne, nel caso in cui tale procedimento non dia i risultati sperati, il traduttore può vedersi obbligato a esa- minare le “cose” stesse. Di conseguenza, l’analisi che abbiamo definito «extralinguistica» presuppone dei riferimenti non solo alla realtà stessa ma anche ai due sistemi di segni.

29

gue naturali date), costituisce l’informazione necessaria alla traduzione I (Tn). In virtù dello specifico delle lingue naturali tale I (Tn) può in teoria essere ricavata attraverso due tipi di analisi – l’analisi linguistica e l’analisi extralinguistica. Per quanto concerne l’ana- lisi linguistica, può basarsi soltanto sui signifiant (analisi linguistica formale) e/o sui si- gnifié (analisi del contenuto). La realizzazione di questi due tipi di analisi presuppone passaggi successivi tra i vari livelli della lingua data e riferimenti a un linguaggio d’intermediazione dato Lint1 che è impresso nella memoria del traduttore (o che si concre- tizza sotto forma di vocabolario, manuali, regole ecc.). Questo linguaggio d’intermedia- zione contiene in primo luogo la Ln1 nella quale sono espressi i significati degli elementi linguistici del messaggio immesso (per un lettore che non conosce altre lingue è la lingua dell’originale, mentre per il traduttore sono la lingua del messaggio immesso e la lingua ricevente messe in relazione da un sistema semiotico sovrastante) e in secondo luogo un insieme di dati sulla realtà, codificati attraverso il primo e il secondo sistema di segni. L’immagine che abbiamo appena delineato è sicuramente molto semplificata, cionono- stante, da un lato è in grado di dare un’idea dell’ampiezza e la complessità dei problemi che la teoria della traduzione dovrebbe ma non ha finora affrontato, e dall’altro permette di formulare delle considerazioni di grande importanza per la teoria della traduzione u- mana e per la teoria della TA: la necessità di realizzare nel corso del processo traduttivo l’analisi linguistica ed extralinguistica è condizionata dalla natura stessa delle lingue na- turali e della traduzione medesima; la determinazione della quantità, della composizione e degli elementi costitutivi dell’I (Tn) per delle coppie di lingue date deve rappresentare una delle preoccupazioni fondamentali di qualsiasi teoria non generale della traduzione; la formalizzazione dell’analisi extralinguistica e la “trasformazione” dell’analisi lingui- stica fondata sui signifié in analisi linguistica formale costituiscono la conditio sine qua non della TAe ne determinano i problemi linguistici fondamentali.63

63 Dobbiamo notare che l’introduzione del concetto di I (Tn) permette di formulare

30

Questa sommaria descrizione di alcuni degli aspetti del meccanismo di analisi ci ha permesso di constatare che il carattere creativo del processo traduttivo tra due lingue naturali si manifesta nella necessità di effettuare delle scelte preliminarmente non regolamentate tra i significati (signifié) attualizzati degli elementi linguistici del messaggio immesso. A questo punto ci apprestiamo ad esaminare in che modo tale problema si pone durante il processo di sintesi.

un’ipotesi che dovrebbe essere oggetto di un’analisi approfondita. Per semplificare le cose possiamo affermare che l’I (Tn) comprende tutto quello che il traduttore deve sa- pere per realizzare una comunicazione totale, cioè per essere in grado di individuare, sia durante il processo di comprensione sia durante il processo traduttivo, un’informa- zione invariante (ovviamente nella misura in cui questo è possibile). Tuttavia può ac- cadere che per diverse ragioni il traduttore non sia in grado di estrapolare l’I (Tn) (a causa della scarsa conoscenza delle lingue, della realtà ecc.) e che nel corso dell’analisi egli estrapoli una quantità minore d’informazione. Questo fatto evidente, a cui inoltre sono imputabili gli innumerevoli e deplorevoli insuccessi nella pratica della traduzione, ci obbliga a vedere, oltre al lato soggettivo, il lato oggettivo del problema, e ci porta a formulare la seguente conclusione: lo studio del meccanismo linguistico del processo traduttivo tra due lingue naturali condiziona non solo l’introduzione del concetto di I (Tn), ma anche del concetto di «informazione traduttiva disponibile» – I (Td). L’introduzione e l’analisi logica di questo concetto prospettano le seguenti possibilità: si dovrebbero ricercare le cause dell’intraducibilità fra due lingue date proprio nel rap- porto fra l’informazione necessaria e l’informazione disponibile. È possibile variare in modo consapevole la quantità e la composizione dell’I (Td) e ottenere di conseguenza delle traduzioni aventi gradi di approssimazione diversi. È soprattutto il caso della co- siddetta traduzione scolastica, della traduzione parola per parola ecc. Allo stesso modo, è proprio alla luce di queste considerazioni che si dovrebbe ricercare la spiegazione te- orica dei numerosi e ben noti casi di pratica della traduzione nei quali, per motivi di ti- po sociale (si veda Meteva 1963), il traduttore si allontana più o meno dal testo origi- nale. Analogamente constatiamo l’esistenza di rapporti diversi tra l’informazione ne- cessaria e quella disponibile nel cosiddetto approccio 95% della teoria e della pratica della TA, nei diversi tipi di traduzione automatica semplificante ecc.

31

2.2.2 Il principio funzionale

La realizzazione della prima fase del processo traduttivo, cioè l’analisi (analisi linguistica formale, del contenuto e extralinguistica, passaggi successivi dal livello su- perficiale a quello profondo, riferimento al Linti dato) deve permettere al traduttore di effettuare le scelte necessarie, di individuare i significati da attualizzare (signifié) degli elementi linguistici del messaggio immesso, in altri termini, di comprenderlo, ricavar- ne l’informazione che veicola e raccogliere di conseguenza l’I (Tn). È evidente che l’informazione che il traduttore ha estrapolato dal messaggio immesso, come del resto qualsiasi altra informazione, esiste soltanto nella forma di un dato codice. Questa con- statazione ci induce a formulare un’altra importante conclusione: il Linti dato serve so- litamente non solo da sistema di riferimento nel processo di comprensione, ma anche da codice nei cui simboli l’informazione che il traduttore ha estrapolato dal messaggio immesso si concretizza nella sua memoria. Di conseguenza, la prima fase del processo traduttivo tra due lingue naturali date può essere rappresentato come Lni → Linti, ovvero come una traduzione dalla lingua naturale emittente a un linguaggio d’intermediazione dato, come una scelta dei signifié degli elementi linguistici del messaggio immesso e la loro rappresentazione attraverso i mezzi del Lint dato.

Ci accingiamo ora ad analizzare alcuni aspetti della seconda fase del processo traduttivo Lni → Lnj, cioè la sintesi.64 È evidente che se è possibile rappresentare la fase

64 È opportuno sottolineare ancora una volta che nella mente del traduttore queste due fasi non si susseguono in una successione lineare ideale come le abbiamo descritte so- pra. Tenendo conto di questa osservazione dobbiamo constatare l’esistenza di un pro- blema molto importante (che fino ad ora non è mai stato oggetto di indagini scientifi- che) – il fatto che il processo di realizzazione di queste due fasi, o piuttosto il processo di realizzazione di ognuna di esse in particolare, si suddivide ulteriormente nei diversi livelli della comunicazione e nei livelli delle strutture delle rispettive lingue. Il che sol- leva inoltre un altro problema di grande interesse e rilevanza per la teoria della TA – quello di determinare la successione dei diversi tipi di analisi linguistica nel processo

32

di analisi come Lni → Linti, la fase di sintesi può essere rappresentata in modo inverso come Linti → Lnj, cioè come una traduzione dal linguaggio d’intermediazione dato alla lingua naturale ricevente, come una scelta dei signifiant degli elementi di questa lingua. Nella parte precedente della nostra trattazione abbiamo preso in esame alcuni aspetti del pro- cesso di codifica, produzione e sintesi di un messaggio linguistico, e abbiamo osservato che in linea di principio questi processi sono analoghi ai processi di analisi, decodifica e comprensione, ma avvengono in senso inverso. Anche durante il processo di sintesi il tra- duttore fa riferimento al linguaggio d’intermediazione dato, effettua passaggi successivi dal livello più profondo a quello superficiale e sceglie i signifiant (livello l5) degli ele- menti della lingua ricevente per comporre il messaggio d’uscita. Bisogna osservare che normalmente, durante la realizzazione del processo traduttivo tra due lingue naturali date, il Linti impiegato come sistema di riferimento durante la comprensione (l’analisi) coincide con il Linti impiegato durante la sintesi. Inoltre ne consegue che, come abbiamo già detto (si veda lo schema a pagina 30 e Mounin 1964), il linguaggio d’intermediazione impiega- to nel processo traduttivo deve essere un sistema semiotico sovraordinato che metta in re- lazione i mezzi e le strutture delle due lingue naturali date e che rifletta i loro modi diversi di segmentare la realtà. A questo punto non ci occuperemo più di queste questioni e prenderemo in esame un altro aspetto del meccanismo linguistico di sintesi.

Supponiamo che attraverso l’analisi il traduttore abbia estrapolato l’informazio- ne veicolata dal messaggio immesso e che adesso debba esprimere tale messaggio at- traverso i mezzi della lingua naturale ricevente (Lnj). Una delle tesi fondamentali della filosofia marxista materialista dimostra che non esistono contenuti senza forma e quin- di contenuti inesprimibili. Ma tale tesi, in linea teorica incontestabile, solleva una serie di problemi pratici nell’ambito della traduzione che sono stati a lungo causa di equivo- ci. Il traduttore legge il messaggio immesso, lo comprende e incomincia a tradurlo. Ma come dimostra lo studio del lavoro pratico del traduttore, dopo aver letto il messaggio

della TA – l’analisi lessicale, morfologica e sintattica (si veda per esempio Ânakiev 1963).

33

immesso, ad esempio un libro (ammesso che si sia preso la briga di leggerlo prima), il traduttore non lo chiude e inizia a scrivere indipendentemente dal prototesto, ma parte dai mezzi linguistici di questo testo, dalle frasi, le costruzioni, le parole, gli elementi grammaticali ecc., in altre parole sostituisce gli elementi linguistici del messaggio im- messo con elementi linguistici (o combinazioni di elementi) della lingua ricevente. Ed è proprio in questo momento e proprio al livello della forma degli elementi linguistici (signifiant) che si pone il seguente problema: in che modo il traduttore può svolgere il suo compito nella consapevolezza che gli elementi delle due lingue date non coincido- no, che una di esse può disporre di elementi che l’altra non possiede, che il numero e i campi dei loro significati sono diversi, così come sono diverse le loro valenze connota- tive e stilistiche, il modo in cui esse segmentano il mondo esterno, ecc. (si veda Lû- dskanov 1963, 1959, 1958a, 1958b in cui questo problema è esaminato in modo detta- gliato e si introducono i concetti di «equivalenza funzionale» e «principio funzionale»).

È evidente che questo problema non può essere risolto al livello della forma (l5) degli elementi linguistici, dei signifiant, ma a livelli più profondi e più precisamente al livello dei significati degli elementi linguistici (l1), dell’informazione che veicolano, cioè al livello dei signifié. Semplificando, possiamo descrivere la situazione nel se- guente modo: in virtù del suo signifié, ogni elemento linguistico veicola una certa in- formazione e possiede una certa funzionalità – quella di suscitare la comparsa di una serie di percezioni intellettuali e emozionali nella coscienza del soggetto percepente. Le stesse percezioni possono essere suscitate nella coscienza di un locutore di un’altra lingua attraverso altri mezzi linguistici che normalmente differiscono dai primi per la forma. Di conseguenza, una traduzione “mezzo linguistico per mezzo linguistico” a partire dal livello dei signifiant è impossibile (poiché generalmente essi non coincido- no), ma è invece possibile realizzare una traduzione funzionale determinando, nel cor- so dell’analisi, la funzionalità degli elementi linguistici del messaggio immesso e, a partire dai signifié determinati, è possibile esprimere questa funzionalità attraverso i

34

mezzi della lingua ricevente (Lnj ), i quali differiscono dai primi dal punto di vista for- male. D’altra parte, è evidente che la funzionalità degli elementi linguistici del mes- saggio immesso è condizionata dall’informazione che devono trasmettere, ed è proprio su questo fatto evidente che si fonda il principio funzionale della traduzione, conside- rato uno strumento fondamentale per la realizzazione del processo traduttivo tra due lingue naturali, indipendentemente dal genere testuale che si traduce. Per essere in gra- do di stabilire che l’elemento B di Lnj corrisponde all’elemento A di Lni si deve partire da qualcosa che le due lingue hanno in comune, ossia un invariante. Questo invariante deve essere cercato nella funzionalità degli elementi linguistici, nell’informazione che veicolano, ed è a questo livello che è possibile trovare una soluzione al problema che si era posto.

Osserviamo un altro aspetto di questo problema. A causa del loro diverso svi- luppo storico, le differenze tra degli elementi linguistici dati, appartenenti a coppie di lingue naturali diverse, non sono le stesse. In altre parole, la barriera linguistica fra due lingue date differisce dalla barriera linguistica che separa altre due lingue date. Analo- gamente, da un punto di vista formale, la differenza tra gli elementi appartenenti a li- velli diversi e a sottocodici diversi (livelli stilistici) di una stessa lingua non è la stessa. Per esempio, è risaputo che la differenza tra il lessico terminologico di due lingue na- turali date è molto inferiore alla differenza tra i loro elementi connotativi; questo per- mette di distinguere diversi tipi (classi) di corrispondenze sulla base della loro “distan- za” formale (al livello dei signifiant) dai rispettivi elementi immessi (si veda Lûdska- nov 1963, 1958).65 Non è difficile constatare che, vista la diversa “distanza” dai rispet- tivi elementi immessi, l’individuazione, durante il processo traduttivo, delle corrispon-

65 Così per esempio si può parlare di corrispondenze assolute (traktor – tracteur), di corrispondenze di- rette (Haus – maison), di corrispondenze indirette (stol – table), di corrispondenze ottenute attraverso sostituzioni, compensazioni e anche tramite la trasposizione di immagini letterarie, ecc.

35

denze appartenenti alle diverse classi, presuppone quantità diverse di I (Tn), per esem- pio la quantità di I (Tn) di cui si deve disporre per stabilire una corrispondenza assoluta, mettiamo tracteur – traktor, è molto inferiore a quella necessaria a effettuare una “compensazione” in un’altra parte del testo e con altri mezzi, e che l’impiego di diversi tipi di corrispondenza crea l’illusione che esistano gradi diversi di fedeltà a seconda del generale testuale che si traduce (si veda una trattazione più dettagliata in Lûdska- nov 1959 e relativa bibliografia). A partire da questa impressione illusoria alcuni autori fanno il seguente ragionamento: poiché i diversi tipi di testo da tradurre si caratterizza- no per l’impiego di elementi linguistici di un certo tipo (per esempio i testi scientifici per l’impiego di elementi terminologici e i testi letterari per l’impiego di elementi con- notativi) e poiché questi tipi di elementi linguistici hanno diversi tipi di corrispondenza, il grado di fedeltà della traduzione dei diversi tipi di testo deve variare. Questo punto di vista, a nostro parere errato (si veda Lûdskanov 1959), così come il punto di vista secondo il quale il grado di libertà66 che il traduttore può permettersi varia secondo il

66 La pratica della traduzione dimostra che il traduttore gode di una certa libertà nella scelta dei mezzi linguistici. Questo ci obbliga a fare la seguente considerazione: può apparire paradossale, ma questa libertà è la conseguenza del fatto che le lingue naturali e i loro elementi non sono descritti in modo sufficientemente preciso. Quando le relati- ve scienze saranno in grado di fornire una descrizione esatta del sistema dei segnali degli elementi emozionali ed estetici e della loro percezione nel tessuto di un’opera let- teraria, così come dei rispettivi elementi linguistici e di tutti i fattori che determinano l’equivalenza o la non-equivalenza di questi mezzi linguistici, la libertà del traduttore si trasformerà, secondo l’espressione molto azzeccata di Engels, in una necessità con- sapevole. Quindi, se il traduttore sa che nel caso in cui trovi i fattori di equivalenza x, y, z, …, può e deve scegliere per l’elemento A di Lni l’elemento B di Lnj in quanto corri- spondenti, non deve fare altro che realizzare l’operazione logica x ^ y ^ z, ^, …, ^ n → B ed è evidente che in queste circostanze non avrà alcuna libertà di scelta. Se invece, in virtù della sinonimia degli elementi di Lnj potesse scegliere la corrispondenza C, ciò significherebbe che C è l’erede della stessa implicazione x ^ y ^ z, ^, …, ^ n → C, da cui consegue che B ≈ C, cioè che sono identici e che quindi anche in questo caso non si può parlare di libertà di scelta.

36

genere testuale (per esempio libertà minima quando si traducono testi scientifici e li- bertà massima quando si traduce una poesia), sono la conseguenza delle apparenti dif- ferenze al livello della forma, dei signifiant, delle due lingue, e della mancata com- prensione del fatto che le differenze formali nascondono l’invariante comune che le unisce – la loro funzionalità comune, la stessa informazione che veicolano. Possiamo rappresentare graficamente quanto detto secondo il seguente schema:

Livelli formali (signifiant) degli elementi lin- guistici – l5

1

2

3

4

traktor

k ̋ŝa

kaka

t ̋p kato galoš

Livelli semantici (signifié) degli elementi lin- guistici

tracteur

maison

soeur ainée

bête à manger du foin

Livello della funzionalità invariante (informa- zione) veicolata dagli elementi linguistici – l1

1

2

3

4

Questo schema mostra in modo evidente che dal punto di vista dell’identità for- male (signifiant – l5) la corrispondenza di 1 è molto più vicina al rispettivo elemento lin- guistico di partenza di quanto non lo sia la corrispondenza dell’elemento 3 o dell’elemento 4. Queste differenze formali sarebbero ancora maggiori se avessimo preso in considerazione degli elementi d’immissione che esprimono simbolizzazioni letterarie o personificazioni, per esempio colori, forze della natura, venti ecc. (si veda Cary 1957 e Problèmes 1957). Eppure, nonostante le differenze formali più o meno grandi rispetto a- gli elementi immessi, i diversi tipi di corrispondenza hanno in linea teorica qualcosa in comune – il fatto di veicolare la stessa informazione dei rispettivi elementi immessi, di avere la stessa funzionalità, la quale rappresenta il loro invariante al livello l1. Possiamo

37

definire la manifestazione di questi invarianti in una data lingua con il termine «equiva- lenza funzionale» (si veda Lûdskanov 1958), e la realizzazione della sintesi attraverso una scelta fra queste equivalenze con il termine «principio funzionale».

L’introduzione del concetto di principio funzionale e di equivalenza funzionale crea le condizioni preliminari per poter risolvere non solo i problemi evidenziati sopra, ma anche altri altrettanto importanti per la teoria della traduzione, quali la fedeltà, la tra- ducibilità e lo scopo della traduzione (si veda una trattazione più dettagliata in Lûdskanov 1959, 1963). Diversamente da quanto sostengono alcuni autori, la traduzione, in quanto strumento della realizzazione di qualsiasi comunicazione bilingue, non può avere uno scopo diverso da quello della comunicazione stessa, la quale, se si osservano le cose da un certo livello di astrazione, consiste sempre e in tutti i casi nel trasmettere un’informazione invariante. Allo stesso modo la traduzione non può che avere sempre e in tutti i casi lo stesso scopo – quello di trasmettere un’informazione invariante.67 Poiché il processo tra- duttivo, in tutti i casi e applicato a tutti i generi testuali, può avere soltanto uno scopo (tranne i casi in cui questo scopo venga consapevolmente modificato con l’introduzione dei sistemi di “riferimenti complementari”), anche il grado di fedeltà della traduzione de- ve essere sempre lo stesso e non varia in base al genere testuale che si sta traducendo né in base al lettore – si tratta sempre di una fedeltà funzionale. Nel processo di traduzione di testi di generi diversi, il grado di fedeltà resta invariato, ciò che cambia invece sono le strade e i mezzi che il traduttore impiega per conseguire questa fedeltà, utilizzando in al- cuni casi delle corrispondenze assolute che danno l’illusione di un grado di fedeltà mag- giore, e in altri delle corrispondenze indirette, delle compensazioni ecc. che danno l’illusione di un grado di fedeltà minore e di conseguenza l’illusione di una maggiore li- bertà.

67 Così in certi casi il testo originale, cioè il messaggio immesso, può avere lo scopo di suscitare perce- zioni intellettuali (per esempio un trattato scientifico) e in altri percezioni emozionali (per esempio una poesia lirica), ma lo scopo della traduzione dei due testi immessi sarà sempre lo stesso: trasmettere l’in- formazione contenuta nell’originale.

38

Ma la constatazione che ci interessa maggiormente è la seguente: la realizza- zione della prima fase del processo traduttivo – l’analisi – nel corso della quale il tra- duttore passa dal livello dei signifiant a quello dei signifié, dal livello l5 al livello l1 di Lin (dalla forma grafica del messaggio immesso all’informazione che veicola e alla sua rappresentazione nei termini del linguaggio d’intermediazione dato – Liint), cioè com- prende il messaggio, presuppone, vista la natura specifica delle lingue naturali (poli- semia, omonimia, sinonimia, diversa segmentazione della realtà ecc.) una scelta fra i significati attualizzati (signifié) degli elementi linguistici del messaggio. Allo stesso modo, la realizzazione della seconda fase del processo traduttivo – la sintesi68 – nel corso della quale il traduttore passa dal livello dei signifié espressi nella forma del Liint al livello l5 di Ljn (dall’informazione rappresentata nei mezzi del linguaggio di interme- diazione al messaggio prodotto), ovvero produce il messaggio d’uscita che deve veico- lare un’informazione invariante rispetto a quella veicolata dal messaggio immesso, presuppone, in virtù dello stesso specifico delle lingue naturali, una scelta dei corri- spondenti elementi (signifiant) della lingua ricevente.

Di conseguenza, il meccanismo del processo di analisi e di sintesi, che costitui- scono le due fasi del processo traduttivo tra due lingue naturali date (Lin → Ljn ), pre- suppone la realizzazione di un dato numero di scelte.69 Non è difficile rendersi conto che la necessità di queste scelte è condizionata dalla natura stessa delle lingue natura-

68 Osserviamo che dal punto di vista linguistico uno dei problemi più interessanti del processo di sintesi è costituito dalla descrizione del meccanismo di una sintesi poliva- riante, cioè una sintesi che renda tutte le espressioni dell’informazione immessa con- template dalla lingua ricevente e la scelta della migliore variante dal punto di vista sti- listico (si veda Mel ́čuk, Žolkovskij 1968).

69 Tra l’altro, la constatazione che l’analisi e la sintesi sono due processi analoghi che avvengono in senso inverso deriva dalle stesse considerazioni che abbiamo fatto nella seconda parte del nostro saggio in relazione al processo di decodifica e di comprensio- ne da un lato, e del processo di codifica e di produzione dall’altro.

39

li (inoltre questa constatazione è avvalorata dal fatto che operazioni analoghe applicate ai messaggi formulati nei termini degli Lia non presuppongono delle scelte di questo ti- po), e che, a causa dell’attuale stato della linguistica, della teoria della letteratura, della psicologia, dell’estetica ecc., queste scelte hanno carattere creativo (si veda di seguito la quarta parte) poiché non sono preliminarmente regolamentate né descritte da un punto di vista formale, così come non lo sono tutti i fattori di equivalenza e di non- equivalenza, le regole e i criteri delle relative scelte.

Quanto abbiamo detto ci permette di formulare la seguente conclusione: il meccanismo del processo traduttivo tra due lingue naturali date (Lin → Ljn) ha sempre, indipendentemente dal genere testuale che si traduce, un carattere creativo condizio- nato dalla natura linguistica di questa operazione e dallo specifico delle lingue natu- rali che presuppone scelte preliminarmente non regolamentate fra i signifié e i signi- fiant a tutti i livelli delle lingue naturali.

La descrizione del carattere linguistico creativo del processo traduttivo Lin → Ljn effettuato da un traduttore umano e la constatazione che sia il carattere creativo che la necessità dell’analisi linguistica, extralinguistica e dell’approccio funzionale (nel processo di traduzione di testi di qualsiasi genere) sono condizionati dalla natura lin- guistica stessa di questa operazione e non da cause esterne, ci permette di esprimere delle valutazioni su un altro tema molto discusso.

2.2.3 L’approccio linguistico e letterario

Come abbiamo già osservato nella nostra breve trattazione relativa allo svilup- po storico della pratica e della teoria della traduzione (si veda sopra la prima parte), i primi passi dei fautori della concezione linguistica della traduzione hanno incontrato

40

una forte resistenza da parte dei sostenitori della concezione letteraria (soprattutto degli stessi traduttori), i quali contestavano la tesi della natura linguistica del processo tradutti- vo che, secondo loro, avrebbe carattere puramente (o almeno quasi puramente) letterario. Partendo da questo punto di vista, gli autori in causa fanno considerazioni di questo tipo:

«Purtroppo qui [cioè nel campo della traduzione letteraria] la situazione non è soddisfacente. Nella misura in cui vengono studiate, le questioni relative alla tra- duzione letteraria sono trattate in modo isolato rispetto ai grandi problemi che emergono nella letteratura del realismo socialista […] e d’altronde, per molti teo- rici della letteratura sovietica, nemmeno sussistono. Così per esempio, nelle ope- re di L. Timofeev, G. Abramovič e altri, non si trova una sola parola sulla tradu- zione letteraria […], il che dimostra una certa esitazione da parte loro di fronte a questi problemi. Analogamente, le opere degli esperti in traduzione, del resto po- co numerosi, non apportano sufficiente chiarezza in questo campo. Per esempio, A.V. Fëdorov considera la traduzione una forma di attività creativa nell’ambito della lingua e l’analizza da un punto di vista prettamente linguistico, senza mai accennare al fatto che la traduzione letteraria sia un’attività creativa nell’ambito della letteratura. La traduzione letteraria è un fenomeno della nostra letteratura nazionale e di conseguenza l’approccio ai suoi problemi deve essere letterario» (si veda Lejtes 1955: 103 e Rossel ́s 1955: 190 e sg).

L’essenza di questo tipo di punti di vista può essere riassunta come segue: poiché la traduzione letteraria è una specie, un tipo di attività letteraria, presuppone e necessita un approccio letterario, mentre l’approccio linguistico, necessario nell’ambito della tra- duzione non letteraria, se applicato alla traduzione letteraria non può che condurre al for- malismo (osserviamo che a questo proposito esistono posizioni più moderate che ammet- tono la necessità di entrambi gli approcci, ma «con un ruolo preponderante di quello lette- rario»). Opinioni di questo tipo hanno dato vita al dibattito sulla priorità dell’approccio letterario nell’ambito della traduzione letteraria. Pur non potendo qui analizzare in modo

41

approfondito la questione (si veda Lûdskanov 1963), dobbiamo sottolineare che dal no- stro punto di vista queste convinzioni sono inaccettabili. Nonostante affermino in modo categorico la necessità dell’approccio letterario, questi autori di solito non ne chiariscono l’essenza. Un’analisi dei loro scritti permette di affermare che a loro avviso l’approccio letterario avviene nel seguente modo: traducendo un’opera letteraria, ovvero scegliendo in ultima istanza gli elementi di Ljn che permetteranno al messaggio prodotto di suscitare le stesse percezioni estetiche nella coscienza del lettore (in altre parole realizzando le scelte necessarie dei signifié e dei signifiant), il traduttore deve tenere conto di un vasto numero di fatti extralinguistici. E poiché questi fatti extralinguistici sono solitamente di natura letteraria – lo stile, il credo letterario, il contesto emozionale ecc. – l’approccio ri- ceve il nome «letterario». È assolutamente incontestabile che il traduttore debba tenere conto di tutti questi fatti e di molti altri ancora. Ma affermare che ciò sia condizionato dal- la natura specifica della traduzione letteraria è un errore. In fondo, il riferirsi a tutti questi fatti è un riferirsi a dei fatti extralinguistici o, in altre parole, costituisce quello che abbia- mo definito convenzionalmente con il temine «analisi extralinguistica». Ma come questa stessa analisi e la necessità di effettuarla, tali fatti sono condizionati dalla natura delle lin- gue naturali (è incontestabile che le opere letterarie esistono solo nella forma di una data lingua naturale). Di conseguenza, dobbiamo constatare che l’approccio letterario non è che una manifestazione della necessità generale di realizzare, durante il processo tradut- tivo, un’analisi extralinguistica; tale necessità è condizionata dalla natura linguistica di questo processo e si manifesta, sebbene in altre forme, durante la traduzione di tutti i ge- neri testuali. Pensiamo a quel punto di vista molto diffuso e in sé giusto secondo il quale il traduttore di testi scientifici (per esempio di un trattato di chimica organica o di zoologia) deve possedere delle conoscenze nei relativi ambiti scientifici. Queste conoscenze però sono necessarie unicamente alla realizzazione dell’analisi extralinguistica. Ma questo

42

fatto incontestabile ci permette forse di affermare che la traduzione di testi scientifici di questo tipo ha una natura chimica o zoologica e richiede un approccio chimico o zo- ologico?

La necessità di fare riferimento alla realtà e di effettuare un’analisi extralingui- stica condizionata dalla natura stessa delle lingue naturali e del processo traduttivo, è una necessità generale che sussiste nella traduzione di tutti i generi testuali concretiz- zati nella forma delle lingue naturali. Questa necessità generale si manifesta in modo diverso nella traduzione dei diversi generi testuali, ma ciò non permette di concludere che la necessità dell’approccio letterario (manteniamo il termine solo per non scostarci dalla tradizione) sia condizionata da motivazioni letterarie e dalla natura “letteraria” di questo genere di traduzione.

Per non tornare più su questi problemi, ci sembra opportuno spendere qualche parola sull’aspetto estetico della traduzione letteraria. Quanto abbiamo enunciato fino ad ora, e soprattutto il punto di vista semiotico generale sulla traduzione che abbiamo proposto, potrebbe dare l’impressione che sottovalutiamo questo aspetto della tradu- zione letteraria. Una tale impressione sarebbe errata. Non si può negare che anche le emozioni estetiche più profonde che l’opera letteraria originale deve suscitare sono il risultato di una comunicazione emozionale, fondata su una comunicazione intellettuale (si veda sopra la seconda parte). Ne consegue che il punto di vista semiotico sulla tra- duzione non solo è lontano dal sottovalutare questo aspetto del problema della tradu- zione letteraria, ma anzi fornisce una base comune per la sua analisi scientifica. Pos- siamo parlare dell’influenza estetica dell’opera originale e soprattutto della sua tradu- zione senza conoscere il meccanismo di questa influenza? Inoltre questo punto di vista si afferma in quanto la teoria della letteratura (che secondo i fautori dell’approccio let- terario dovrebbe contemplare la teoria della traduzione letteraria) inizia a compiere tentativi sempre più sistematici di penetrare nella natura dell’atto letterario creativo e di descriverlo in modo esatto alla luce dei principi della semiotica, della teoria dell’informazione e della cibernetica.

43

Ed è proprio il coordinamento degli studi funzionali della traduzione letteraria in quanto tipo di processo traduttivo, con gli studi tradizionali della traduzione lettera- ria in quanto prodotto, che permetterà di creare le condizioni necessarie allo sviluppo della scienza, ribadiamo della scienza, della traduzione letteraria in quanto ambito di applicazione della teoria generale della traduzione, il che esclude la negazione ingiusti- ficata degli uni come degli altri.

In questa parte abbiamo cercato di fornire una descrizione di alcuni aspetti del meccanismo linguistico del processo traduttivo fra due lingue naturali realizzato da un traduttore umano. Questa trattazione, sebbene sommaria e incompleta, mostra la com- plessità di questi problemi e fa intuire le indagini approfondite e di lunga durata neces- sarie a una loro descrizione esatta e spiegazione scientifica. Non è difficile rendersi conto che questi problemi diventano sempre più complessi e difficili da risolvere quando si intende affidare la realizzazione del processo traduttivo a una macchina, cioè realizzare una traduzione automatica. Alcuni dei problemi che la riguardano sono og- getto dell’ultima parte del nostro lavoro.

44

2.3 Riferimenti bibliografici

ÂNAKIEV M. 1963 B ̋lgarsko stihoznanie, Sofiâ.
CARY E. 1957 Traduction et poésie, in Babel, n. 1.
LEJTES A. 1955 Hudožestvennyj perevod kak âvlenie rodnoj literatury, in Voprosy

hudožestvennogo perevoda, Sovetskij Pisatel ́, Moskvà.
LÛDSKANOV A. 1958a Princip ̋t na funkcionalnite ekvivalenti – osnova na teoriâta i

praktikata na prevoda, in Ezik i literatura, n. 5.
LÛDSKANOV A. 1958b Vvedenie v teoriû perevoda, A. V. Fëdorov, in Ezik i literatu-

ra, n. 6.
LÛDSKANOV A. 1959 Za stepenta na točnostta na prevoda, in Ezik i literatura, n. 1. LÛDSKANOV A. 1963 Za predmeta, mâstoto, sistematikata i metodologiâta na obŝa-

ta teoriâ na prevoda, Sofiâ, tesi di laurea, vol. 1 e 2.
LÛDSKANOV A. 1964 Osnovi na teoriâta ma mašinniâ prevod s ogled na rusko-

b ̋lgarski MP, in Godišnik na Sofiiskiâ Universitet, Filologičeski Fakultet, vol.

58, prima parte.
MEL ́ČUK I. A., ŽOLKOVSKIJ A. K. 1968 O vozmožnom metode i instrumentah se-

mantičeskogo sinteza, in Problemy kibernetiki, n. 19.
METEVA E. 1963 Nekrasov v b ̋lgarski prevod, in Godišnik na Sofiiskiâ Universitet,

Filologičeski Fakultet, vol. 57.
MOUNIN G. 1964 Les problèmes théoriques de la traduction, Gallimard, Paris. PROBLÈMES 1957 Problèmes de la couleur, Exposés et discussions du Colloque du

Centre de Recherches de Psychologie comparative, S.E.V.P.E.N. ROSSEL ́S V. 1955 Perevod i nacional ́noe svoeobrazie podlinnika, in Voprosy hu-

dožestvennogo perevoda, Sovetskij Pisatel ́, Moskvà.

45

LINGUA, TRADUZIONE E CULTURA NEL PENSIERO HUMBOLDTIANO – Analisi dell’introduzione all’Agamennone di Eschilo – Elia Rigolio Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

LINGUA, TRADUZIONE E CULTURA NEL PENSIERO HUMBOLDTIANO

– Analisi dell’introduzione all’Agamennone di Eschilo –

Elia Rigolio

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE DI MILANO Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 Milano

Relatore: Prof. Bruno Osimo Correlatrice: Prof.ssa Elisabetta Potthoff

Diploma in Scienze della mediazione linguistica 24 novembre 2003

© Elia Rigolio, 2003

ai miei genitori a mio fratello

ABSTRACT

ENGLISH VERSION

This dissertation is an analysis of what Wilhelm von Humboldt wrote in the introduction (“Einleitung” in German) to his translation of Aeschylus’ Agamemnon, first published in 1816, about languages and translation, and about the limits and usefulness of the latter.

The candidate has explained in the introduction the reasons which led him to the choice of this subject, asserting that studying the ideas of a theorist of translation means having an opportunity to increase his knowledge not only of translation techniques, but also of the author’s native culture.

In order to broaden his knowledge and understanding of the subject the examinee has studied the history of translation by reading essays on the subject as well as an anthology of some of the most important texts ever written, ranging from Cicero to Walter Benjamin (20th century). Further information about the books used can be found in the bibliography. They have been a valuable source of information, and have helped in better understanding the possible implications of what was found in the original; they have also been used to give the reader a clear idea of how modern a certain concept is.

A short biography was included in chapter 1 in order to contextualise the work of the author in his own age and culture; in addition, a brief explanation of the most relevant ideas of Romantic culture was added. A short summary of the author’s life is also given in the appendix to this abstract.

The analysis of von Humboldt’s writing resulted in the formulation of three chapters (chap. 2, 3 and 4), in which the concepts expressed in the “Einleitung” have been reorganised and expanded. The examinee has tried to clarify the keynotes and to evaluate them on the basis of the theories and cognisance both of the author’s time and of more recent years. In the first of these three chapters (chap. 2.) the central point is the nature of language and the relationship between words and concepts; von Humboldt supports the idea that in every language it is possible to express anything; he also maintains that words are only arbitrary signs of the concept they

– III –

convey, thus the impossibility of translating literally. In the following chapter the problem of “fidelity” and of its meaning is discussed; in these pages the examinee has stressed two different features of the “Einleitung”: on one hand its modernity, especially when the author criticises the habit of improving on the original and of disambiguating; on the other the vagueness of his idea of “fidelity”, the definition of which is still subject to personal interpretation. Chapter 4 deals with the utility of translating; despite its various and considerable limits, it still plays a very important role in human life, as it enables cultural exchange within the global system. In the same pages the author points out that translations can’t be eternal, and that the reader should compare a number of different versions, if he wants to have a clear idea of the original.

In the last chapter (chap. 5) the examinee has expressed his own point of view on the work analysed. After a brief comment on style and content, he subscribes to von Humboldt’s assertion when he emphasizes the importance of translations as a way for cultural intercourse: he also believes that the introduction of elements deriving from foreign cultures is the highest aim and most important advantage of the work of translating.

BIOGRAPHY

Wilhelm von Humboldt was born on 22nd June 1767 in Potsdam, where he was brought up by his father, an officer in the German army, who chose his son’s preceptors from the most brilliant personalities of the Berlin Enlightenment. He was taught the humanities, Greek, Latin and French, as well as political science and philosophy. After one semester at the university of Frankfurt an der Oder he moved to Göttingen, where he studied the humanities and classical philology, read Kant and made friends with Wilhelm Schlegel, Goethe and Schiller, who he would also assist in some of their work. Being an officer himself, he had contact with some of the leading politicians and intellectuals of Europe (among them Madame de Staël, A. W. Schlegel and S. T. Coleridge). He also studied the Basque language, which led to a breakthrough in developing his own view of language and translation. His major works deal with the problem of translating – he was a translator himself, mainly from

– IV –

Greek – and of the nature of language; he also wrote about the ancient Greek culture and took part in the political debate on the role of the state. A Liberal and Romantic, he was plenipotentiary in Rome and Vienna and Minister for Education; he was relieved of his charge when his liberal ideas clashed with a more conservative leadership. He devoted the rest of his life to research in the linguistic field.

–V–

ABSTRACT

DEUTSCHE FASSUNG

Die vorliegende Diplomarbeit beinhaltet eine Untersuchung der 1816 von Wilhelm von Humboldt in der Einleitung seiner Übersetzung des Agamemnons von Aeschylos niedergeschriebenen Äußerungen über Sprache und Übersetzung, sowie über deren Grenzen und Nützlichkeit.

Der Kandidat hat in seinem Vorwort die Gründe seiner Themenwahl erörtert. In einer gründliche Analyse des Gedankenguts eines Sprach- und Übersetzungswissen- schaftlers sieht er eine gute Gelegenheit, die eigenen Kenntnisse in diesem Hinsicht zu erweitern und sich nicht nur auf dem Gebiet der Übersetzungstechnik ein genaueres Bild zu machen, sondern auch sich im Allgemeinen mit der Kultur des Autors auseinanderzusetzen.

Um den Autor in den jeweiligen Kontext einzufügen, wurde im ersten Kapitel eine Biographie hinzugefügt; außerdem wurden die wichtigsten Punkte die Romantik betreffend kurz dargelegt. Eine Zusammenfassung der Biographie ist am Ende dieser Darstellung zu finden.

Um sich einen Überblick über das Thema zu verschaffen, hat sich der Kandidat zum einen mit der Geschichte der Übersetzungswissenschaft auseinandergesetzt und zum anderen mit den Werken namhafter Autoren wie Cicero und Benjamin zum Thema der Übersetzungswissenschaft befasst. Genauere Hinweise dazu sind in der Bibliographie zu finden. Aus diesen Texten wurden viele Informationen entnommen, die sich im Laufe der Arbeit als sehr wertvoll erwiesen, und zwar sowohl für das Verständnis der in den geäußerten Ideen möglicherweise enthaltenen Implikationen als auch, um dem Leser die Modernität derselben nahe zu bringen.

Die Inhaltsanalyse wurde in drei Kapiteln dargelegt, in denen die wichtigsten Punkte von Humboldts Einleitung neu erfasst und vertieft wurden; Ziel der Arbeit ist die grundlegenden Begriffe zu verdeutlichen und gleichzeitig zu bewerten. Dies geschah auch unter Berücksichtigung der jeweiligen Kenntnisse und Theorien sowie aktueller Äußerungen zum Thema. Im ersten dieser drei Kapitel (Kap. 2) geht es um die Natur der Sprachen, um ihre Eigenschaften, und um die Beziehung zwischen

– VI –

Wort und Begriff. Von Humboldt hält es für möglich, daß alle Sprachen alles sagen können, und vertritt im Endeffekt die Theorie der Eigenmächtigkeit der Wörter, deren Folge die Unmöglichkeit einer wörtlichen Übersetzung ist. Im darauf folgenden Kapitel wird dann die Frage behandelt, was man unter „Treue“ zu verstehen hat; zwei Eigenschaften des Textes verdienen auf diesen Seiten betont zu werden: Einerseits die Modernität einiger Prinzipien, und zwar, im Grunde genommen, des Verbots jeder „Verbesserung“ und Monosemierung, und andererseits die Unbestimmtheit des Begriffs „Treue“, die immer noch zur persönlichen Interpretation überlassen wird. In Kapitel 4. ist dann von der Nützlichkeit der Übersetzung die Rede; trotz aller Grenzen und Schwierigkeiten, kommt ihr ein sehr hoher Stellenwert zu, da sie den kulturellen Austausch zwischen den Völkern ermöglicht. Gleichzeitig wird in diesem Kapitel gezeigt, dass die Übersetzung vergänglich ist, und dass ein Leser, um sich ein genaueres Bild vom Originaltext machen zu können, sich mit mehreren Übersetzungen des gleichen Textes befassen sollte.

Im letzten Kapitel äußert der Kandidat seine eigene Meinung über das Werk: nach einigen Bemerkungen über Stil und Inhalt, pflichtet er die Idee des kulturellen Austausches bei. Er vertritt ebenso die Meinung, dass die Einführung von fremden Weltanschauungen der höchste Zweck und größte Vorzug der Übersetzung sei.

BIOGRAPHIE

Am 22. Juni 1767 in Potsdam als Sohn eines Offiziers geboren, wurde Wilhelm vonHumboldt von Privatlehrern erzogen, die aus den bedeutendsten Persön- lichkeiten der Berliner Aufklärung ausgesuchten wurden. Nach dem Studium der Naturwissenschaften und der griechischen, lateinischen und französischen Sprache erhielt er eine Einführung in die Staatswissenschaften und die Philosophie. Nach einem Semester in Frankfurt an der Oder besuchte er für drei Semester die Universität Göttingen, studierte klassische Philologie und Naturwissenschaften, setzte sich mit Kant auseinander und freundete sich mit August Wilhelm Schlegel, Goethe und Schiller an, deren Mitarbeiter er wurde. Dank seiner Karriere im Staatsdienst unterhielt er Kontakte zu Intellektuellen und führenden Politikern ganz

– VII –

Europas (wie z.B. Madame de Staël, A. W. Schlegel und S. T. Coleridge). Er studierte auch das Baskische, was für ihn einen Durchbruch zu einer eigenen Sprachauffassung und Sprachwissenschaft bedeutete. Im Rahmen seiner politischen Tätigkeit muss sein Engagement für die Modernisierung des Staates durch liberale Reformen sowie seine Rolle als Bevollmächtigter in Rom, Wien und Berlin erwähnt werden. Gerade wegen seiner liberalen Ideen entstehen Auseinandersetzungen mit führenden Köpfe des Staates, weswegen er 1819 aus dem Staatsdienst ausscheidet.

Wilhelm vom Humboldt widmet sich von da an bis zu seinem Tod am 8. April 1835 seinen wissenschaftlichen Studien in der Ruhe des Familienbesitzes in Tegel.

– VIII –

Il linguaggio è così il mezzo, se non assoluto, almeno sensibile, per il quale l’uomo dà forma allo stesso tempo a se stesso e al mondo, o, piuttosto, diviene cosciente di se stesso proiettando un mondo fuori di sé.

W. von Humboldt, Lettera a Schiller, 1816 (citato in Berman, 183)

SOMMARIO

Abstract – English version
Abstract – Deutsche Fassung
Nota introduttiva – Scelta dell’argomento e metodo di lavoro
1. Biografia e contestualizzazione storico-filosofica
2. I concetti base: lingue, oggetti e segni
3. La fedeltà
4. Utilità e limiti della traduzione
5. Conclusioni
Appendice – Il frontespizio e alcune pagine dall’edizione del 1816 Bibliografia

p. III p. VI p. 11 p. 14 p. 20 p. 27 p. 35 p. 41 p. 46 p. 57

Nota introduttiva
SCELTA DELL’ARGOMENTO E METODO DI LAVORO

L’interesse per le lingue e le culture dei Paesi stranieri e la voglia di tradurre si sono sempre accompagnate in me al timore di non saper riconoscere il limite – per citare vonHumboldt – «varcato il quale [la traduzione] diventa un errore inequivocabile», illegittima ri-creazione del traduttore. Mosso dalla volontà di approfondire l’argomento, ho voluto cogliere l’opportunità della tesi di diploma, scegliendo di analizzare il pensiero di un autore che mi permettesse di addentrarmi nella materia.

Ritengo che l’aspetto teorico della traduzione e il dibattito che si è sviluppato nei secoli siano di grande importanza per ogni professionista, data la loro utilità nello svolgimento dell’attività pratica, non solo per le risposte che offrono, ma anche per le domande che pongono; la conoscenza dei diversi modi di avvicinarsi all’attività traduttiva e la consapevolezza delle problematiche affrontate e delle soluzioni individuate dai diversi autori del passato portano infatti a una migliore coscienza delle possibili pecche del proprio lavoro, a una maggiore attenzione e, si spera, a una più alta qualità del risultato finale.

L’arricchimento derivante dallo studio di questi temi non è però solo tecnico, ma anche più generalmente culturale. Le tesi esposte nel corso della storia sono infatti specchio dei tempi, della cultura dell’autore, delle epoche che hanno segnato lo sviluppo della nostra civiltà, e affrontarle significa comprendere meglio, almeno in una certa misura, le dinamiche con cui il pensiero si è evoluto. Un piccolo tassello che si aggiunge nella comprensione dell’evoluzione storica.

La scelta è caduta su un autore romantico tedesco; per la precisione, sulle considerazioni che Wilhelm von Humboldt, intellettuale e politico d’inizio ‘800, pose a introduzione della sua versione tedesca dell’Agamennone d’Eschilo, pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1816. Ho preferito un autore di una lingua

– 11 –

curriculare per poter affrontare il testo nella versione originale e per poter muovere da un contesto culturale già conosciuto, almeno in parte: non ho ritenuto di accollarmi un lavoro eccessivo, sobbarcandomi l’analisi di un pensatore di una cultura a me più lontana, come avrebbe potuto essere quella di un autore russo o spagnolo, né di autori dalla produzione troppo vasta e vastamente affrontata nella letteratura specialistica, per non scadere nell’ovvio o in un’analisi eccessivamente superficiale. Spero d’altronde di non aver peccato di presunzione lanciandomi in una materia complessa e che certamente non padroneggio. Si tratta qui di un semplice lavoro di ricerca e analisi, senza alcuna pretesa di esaustività né di dare una valutazione obbiettiva e illuminante. Altri hanno scritto, meglio e più approfonditamene, sulla materia. Ad essi si rimanda nella bibliografia.

Non essendo il testo in esame un saggio scientifico ma l’introduzione alla traduzione di un’opera, in esso il discorso sulla teoria del tradurre è inserito nel quadro dell’opera stessa. V on Humboldt inizia con una descrizione dei pregi dell’Agamennone, descrizione che si protrae sino all’affermazione che la complessità e la bellezza del dramma lo rendono «intraducibile per sua peculiare natura»; da qui prende l’avvio tutta una serie di considerazioni sulle lingue e la traduzione, che costituisce il tema della mia analisi. È da queste pagine che ho tratto tutti i passi citati in seguito, mentre le prime, così come le ultime, relative alle scelte eminentemente tecniche di traduzione dei versi dal greco, sono assai meno rilevanti ai miei fini. Per quanto riguarda le citazioni, ho provveduto personalmente alla loro traduzione, tenendo ben presente che centro del mio lavoro, e quindi mia dominante, non è la riproduzione dello stile humboldtiano, quanto l’esplicitazione e il commento della sua teoria. Ho comunque cercato di evitare ogni disambiguazione o modifica inopportuna, poiché il commento che, di volta in volta, ne ho fatto, mi ha consentito di esprimere il mio punto di vista in merito.

Nell’affrontare il testo sono partito dall’analisi dell’originale, cui è seguita la lettura di una traduzione italiana contenuta in una raccolta di testi sulla teoria della traduzione, anch’essi esaminati. Nello stesso volume ho rintracciato preziose informazioni per una prima collocazione storica dello scritto e per una ricostruzione generica della storia del pensiero sulla traduzione. A questa analisi è seguita una

– 12 –

destrutturazione del testo e una riorganizzazione dei contenuti che ne rendesse meglio fruibili e analizzabili i concetti, la cui trattazione è quindi stata suddivisa in tre capitoli corrispondenti ai grandi nuclei del pensiero humboldtiano (cap. 2, 3, 4).

Per poterlo meglio inquadrare e al fine di individuarne con certezza i caratteri di novità, ho poi ritenuto necessario, prima di procedere alla stesura effettiva dei capitoli di cui sopra, affrontare in modo più sistematico l’intero discorso della teoria della traduzione e della sua storia; i dati ricavati dalle letture effettuate sono stati estremamente utili per fornire al lettore una corretta idea del grado di sviluppo del pensiero traduttologico a inizio Ottocento e per meglio comprendere le possibili implicazioni di quanto von Humboldt scrive.

Ho ritenuto inoltre utile fornire una biografia dell’autore e inserirla in un’analisi, per quanto sommaria, del contesto storico e culturale nel quale il suo pensiero si è sviluppato (cap. 1).

Chiude questa trattazione un capitolo di osservazioni personali, con le quali ho voluto dare il mio punto di vista, assolutamente personale e opinabile – come d’altronde non può non essere ogni analisi, essendo ogni procedimento di lettura oggetto di un’interpretazione conscia e “aconscia”, o meglio di una traduzione vera e propria. Ma perché questi concetti vengano formulati dovremo aspettare ancora quasi un secolo…

– 13 –

Capitolo 1
BIOGRAFIA E CONTESTUALIZZAZIONE STORICO-FILOSOFICA

LA VITA

Friedrich Wilhelm Christian Karl Ferdinand Freiherr von Humboldt nasce il 22 luglio 1767 a Potsdam. Figlio di un ufficiale dell’esercito prussiano, cresce nella dimora di famiglia, Palazzo Tegel. La sua istruzione primaria avviene tra le mura domestiche, ad opera di insegnanti privati scelti tra i rappresentanti dell’illuminismo di Berlino.

Insieme al fratello Alexander si iscrive, nel 1787, all’università di Frankfurt an der Oder, dove frequenta però solo un semestre, per trasferirsi poi all’università di Göttingen; qui studia filologia classica e scienze naturali, oltre al greco, al latino e al francese, e si dedica brevemente alle scienze politiche, che gli saranno necessarie nella futura carriera, e alla filosofia. Nel contempo legge Kant e Leibniz e stringe amicizia con August Wilhelm Schlegel.

Nel 1789 visita la Parigi rivoluzionaria, la Renania e la Svizzera. La sua carriera di funzionario pubblico inizia nel 1790 come consigliere di legazione, carica che lascerà poco più di un anno dopo.

Nel 1794, dopo aver vissuto per alcuni anni in Turingia, nei possedimenti della moglie Caroline von Dacheröden, figlia di un consigliere della corte suprema prussiana, si trasferisce a Jena, dove entra in contatto con i più alti rappresentanti della cultura romantica; diviene consigliere critico e collaboratore di Friedrich von Schiller (che seguirà nell’elaborazione degli Ästethische Schriften e della Gedankenlyrik) e di Johann Wolfgang von Goethe, che assiste nella stesura dell’Hermann und Dorothea, su cui scriverà anche un saggio, Über Goethe’s Hermann und Dorothea, pubblicato nel 1799. Collabora con la rivista di Schiller Horen e lavora al saggio Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des

– 14 –

Staates zu bestimmen. Insieme al fratello Alexander e a Goethe frequenta lezioni di anatomia comparata.

Nel novembre 1797 si trasferisce con la famiglia a Parigi, spinto sia dall’opportunità di proseguire in quella città i suoi studi, sia dall’interesse per l’evolversi della situazione sociale francese, dati i suoi contatti con i più importanti politici e intellettuali parigini.

È nel 1801, a conclusione di un lungo viaggio in Spagna, che si reca nei paesi baschi, dove scopre e studia la lingua basca, che lo porterà a sviluppare una concezione personale delle lingue e della linguistica.

Tornato nel 1803 al pubblico ufficio, fino al 1808 rappresenta la Prussia presso la Santa Sede a Roma; in questo periodo fa della sua residenza, Villa Gregoriana, il punto d’incontro della comunità di artisti e intellettuali, tra i quali vanno ricordati Madame de Staël, August Schlegel e Samuel Taylor Coleridge. Si occupa, tra l’altro, della lingua dei nativi d’America e inizia a tradurre dal greco.

Dopo il collasso dell’impero prussiano fa ritorno in Germania, per essere nominato, nel 1809, Direttore della Sezione per la cultura e l’istruzione del Ministero degli Interni, nel cui àmbito elabora una riforma radicale dell’istruzione pubblica, con la creazione di un ciclo completo e continuo dalla scuola elementare fino al livello universitario, con l’intento di favorire a tutti gli strati della popolazione l’accesso alle strutture educative.

Nel 1811 viene inviato a Vienna in qualità di delegato, e contribuisce in modo determinante alla partecipazione austriaca alla coalizione antinapoleonica. Prende parte come plenipotenziario al Congresso di Vienna, durante il quale si batte con successo per il riconoscimento dei diritti civili in favore degli ebrei; vani resteranno invece i suoi sforzi per dotare la Confederazione germanica di una costituzione liberale.

Tra il 1815 e il 1819 ricopre diversi incarichi politici, tra cui quelli di plenipotenziario prussiano presso la Dieta di Francoforte, direttore di una commissione per la riforma fiscale e legato prussiano a Londra. Torna poi a Berlino come Ministro degli affari corporativi; a seguito della sua opposizione ai Karlsbäder

– 15 –

Beschlüsse1 e dei tentativi di imporre una costituzione liberale alla Prussia, nonché di conflitti con alcune alte personalità dello Stato, nello stesso anno viene sollevato da tutti i suoi incarichi, col conseguente blocco definitivo di tutte le riforme.

Si ritira quindi con la famiglia a Tegel, dove vive dedicandosi agli studi di linguistica fino alla morte, avvenuta il giorno 8 agosto del 1835.

VON HUMBOLDT, INTELLETUALE ROMANTICO

L’attività traduttiva di von Humboldt si colloca in un periodo storico di grande fermento filosofico, letterario e politico. Nella Germania tra fine Settecento e inizio Ottocento è molto vivo il dibattito sul problema del tradurre, affrontato però nell’ampia ottica dei problemi ermeneutici e filosofico-linguistici. Oltre all’attività pratica – Schleiermacher traduce Platone, A.W.Schlegel traduce Shakespeare, Cervantes e Petrarca, von Humboldt traduce, oltre a Eschilo, Sofocle e Pindaro – si ha quindi anche una produzione consistente di trattati teorici, i più importanti dei quali sono Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens di Friedrich Schleiermacher, del 18132 e il saggio di Goethe Noten und Abhandlungen zu besserem Verständnis des Westöstlichen Divans del 1819.3

Questa intensa produzione riflette la tendenza tipica della cultura tedesca a valorizzare l’incontro con l’altrui come fonte di accrescimento della propria lingua e della propria cultura. Tendenza tanto più forte in quanto sostenuta da una concezione storica e ideologica come quella romantica, che, a partire dal tardo Settecento, diffonde l’amore per il diverso, frutto dell’anelito verso l’infinito e del conseguente

1 Conferenza dei Ministri indetta a seguito delle iniziative liberali promosse dalle leghe studentesche, e in particolare a seguito della festa organizzata da queste a Wartburg nel 1817, terzo centenario della Riforma e quarto anniversario della sconfitta di Napoleone a Lipsia, durante la quale vennero bruciati gli atti della Confederazione germanica, ritenuti troppo conservatori. I Karlsbäder Beschlüsse decisero l’istituzione di una polizia unitaria con sede a Magonza, lo scioglimento delle leghe studentesche, la sorveglianza delle università, la limitazione della libertà di stampa e la persecuzione dei “demagoghi”,

ovvero di quelle personalità della cultura dalle idee troppo liberali 2

Traduzione italiana in Etica e ermeneutica, a cura di Giovanni Moretto, Napoli, Bibliopolis, 1985,

p. 85-120, col titolo di Sui diversi modi del tradurre

3 Trad. it. in Divan occidentale-orientale, a cura di Giorgio Cusatelli, Torino, Einaudi, 1990, p. 364-

367, col titolo di Note e saggi sul divan orientale-occidentale

– 16 –

bisogno di evasione.1 È proprio il viaggio (altro topos, con la figura del viandante, della letteratura romantica) nei paesi baschi a scatenare in von Humboldt quell’amore per lo studio delle lingue e delle culture straniere che lo porterà a coltivare con tanta intensità l’attività di ricerca nelle materie della filologia e della linguistica, e a dire: «Die Sprache ist das bildende Organ des Gedankens»,2 formulando così un principio che, implicando che è anche la lingua a forgiare la cultura, e non solo viceversa, anticipa un pensiero che avrà grande fortuna in tempi più moderni, secondo cui la traduzione non è trasposizione di parole o frasi, ma di culture, ognuna con una sua visione del mondo.

Idee simili, pur nella diversità delle modalità espositive e degli approcci alla trattazione, si possono ritrovare nelle opere citate di Goethe e di Schleiermacher; si tratta infatti di un pensiero in perfetta sintonia con la visione romantica della storia: a seguito del fallimento della Rivoluzione francese e degl’ideali che sembravano animare l’epoca e l’impresa napoleonica, i romantici sono portati a pensare che il soggetto della storia non sia l’uomo, evidentemente incapace di gestirla, ma una potenza extra-umana e sovra-individuale. Essendo quindi la storia frutto di un soggetto provvidenziale assoluto, anche il tentativo illuministico di giudicarla è del tutto improponibile, addirittura anti-storicista. Innanzitutto perché rifiutare alcuni momenti storici, condannandoli, equivale in questa visione mistica a intentare un processo a Dio; inoltre perché tutti gli avvenimenti storici sono elementi costitutivi di un disegno divino, e come tale necessariamente positivi; in terzo luogo perché tentare un giudizio usando come metro i valori del presente «significa misconoscere l’individualità e l’autonomia delle singole epoche, che hanno ognuna una specifica ragion d’essere in relazione alla totalità della storia, e che perciò si sottraggono ad ogni giudizio critico e comparativo nei loro confronti».3

1 L’attività traduttiva nella Germania sei-settecentesca fu così forte da far ritenere a Goethe che la sua nazione avesse raggiunto, in virtù appunto delle tante e ottime traduzioni che aveva prodotto, un grado elevatissimo di cultura; essendo questo corpus di traduzioni un compendio di quelle di tanti altri Paesi sarebbe bastato esplorarlo per trarre gli stessi vantaggi dello studio delle singole letterature nazionali. (vedi Berman, 22)

2 «Il linguaggio è l’organo costitutivo del pensiero», citato da Steiner (1975, tr. it.: 79). 3 Da N. Abbagnano, G. Foriero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino.

– 17 –

Altro elemento tipicamente romantico riscontrabile nella bibliografia di von Humboldt è l’interesse per la civiltà greca. Spiccano infatti nella sua produzione, a fianco dei numerosi saggi di linguistica e di un solo trattato in materia di politica, diverse traduzioni dal greco e una Geschichte des Verfalls und Untergangs der griechischen Freistaaten (Storia della caduta e della rovina delle repubbliche greche). Si tratta di un amore riconducibile all’idea di “armonia perduta” o “immediatezza felice”, di lontana derivazione rousseauiana, secondo cui l’uomo avrebbe vissuto, in una qualche epoca più o meno remota e determinata, in uno stato di perfetta identificazione con la madre natura, da cui sarebbe poi stato allontanato a causa della società e dell’intelletto, che lo avrebbero costretto schiavo di convenzioni alienanti e reso infelice e inautentico.1 Da qui l’antitesi schilleriana tra naive Dichtung (la poesia ingenua) e sentimentalische Dichtung (poesia sentimentale), «ove la prima è propria degli artisti antichi, che erano natura, mentre la seconda è tipica degli artisti moderni, per i quali la natura è solo oggetto di ricordo, di riflessione e di aspirazione sentimentale»:2 «Il poeta o è natura o la cercherà».3 Sarà Hölderlin a collocare nell’era classica quest’epoca di perfetta unione con il Tutto della Natura;4 compito del poeta, messaggero degli dèi, essere superiore all’uomo comune, è quello di vegliare e aspettare – e riprendo qui una metafora di Novalis – nella mezzanotte del mondo, le prime luci dell’alba, che porteranno al recupero della primitiva purezza. L’arte stessa è pura, perché creatura originale, messaggio dettato dagli dèi nella sua forma perfetta; per questo le opere degli artisti romantici tentano di riprodurre – a volte, paradossalmente, attraverso un lungo labor limae5 – un carattere il più possibile spontaneo e immediato. La funzione del traduttore non può

1 Se ci si limita all’àmbito delle lingue però, l’idea di un’antica perfezione non è appannaggio della cultura romantica. Steiner, in After Babel (59-76), sottolinea che «no civilization but has its version of Babel.» Indipendentemente dalle varie spiegazioni adottate per giustificare la diaspora linguistica, tutte le culture avrebbero in comune l’idea di una lingua unica, perfetta, derivata da Dio. Per quanto riguarda la cultura giudaico-cristiana Steiner vede nella cacciata dall’Eden la prima caduta: la lingua umana perde il potere creativo che possedeva nel paradiso terrestre, in cui egli dava nomi agli esseri viventi; a questa seguirà una seconda punizione divina, quella di Babele appunto, che costringerà gli uomini alla muta incomprensione.

2 Da N. Abbagnano, G. Foriero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino.
3 Da Schiller, Poesia ingenua e poesia sentimentale, 1976.
4 Per un’analisi più dettagliata di questo punto, vedi Berman, 64-67.
5 Esemplare in questo senso è l’opera di Clemens Brentano e Achim von Armir Des Knabens Wunderhorn; presentata dagli autori come raccolta di opere popolari essa è in realtà frutto di un lungo lavoro di rielaborazione.

– 18 –

essere troppo diversa; egli, rendendo fruibili a un pubblico vasto le opere di quest’epoca di perfezione, adempie il suo compito di vate e avvicina il momento del nuovo meriggio. In questo senso è sufficiente ricordare come Schlimann partirà proprio dall’analisi della traduzione di Omero, considerata per la prima volta documento storico nel senso più stretto, per rintracciare i resti dell’antica città di Troia.

Vale infine la pena di sottolineare come l’impegno politico di von Humboldt si sia sempre identificato con la prima fiammata romantica filo-rivoluzionaria, che mutua il suo carattere dallo Sturm und Drang e che tende a un marcato liberalismo, pregno di istanze individualistiche se non anti-statalistiche. Il suo pensiero, la fedeltà al quale lo porterà in ultimo al sollevamento dagli incarichi affidatigli, si contrappone alla successiva ondata di ritorno di tradizionalismo e conservatorismo, elaborata nell’àmbito di una concezione storica sempre più provvidenzialistica; essa vedrà nella Chiesa e nell’Autorità l’unico rimedio al caos prodotto dal disordine delle forze umane, finendo così per porgere il fianco alla Restaurazione.

– 19 –

Capitolo 2
I CONCETTI BASE: LINGUE, OGGETTI E SEGNI

«A study of translation is a study of language»1

Alla base di ogni concezione della traduzione c’è sempre una serie di idee riguardanti la lingua, il rapporto tra segno e oggetto, il rapporto tra le lingue e le culture differenti, che investono in modo estremamente rilevante lo sviluppo delle diverse teorie, in tutte le loro parti. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di argomenti, in particolare per quanto concerne la diatriba sulla convenzionalità delle parole, che poco hanno a che fare con la traduzione, argomento di studio di linguisti e filologi, ma non pertinenti all’argomento qui trattato. In realtà – e il fatto che von Humboldt li inserisca nell’àmbito di queste sue osservazioni ne è la prova – essi costituiscono il fondamento di ogni teoria sulla traduzione. Idee diverse in merito alle parole, al loro rapporto con la realtà, alla significazione (ovvero al modo in cui esse smettono di essere segni per assumere nella nostra mente un significato) conducono necessariamente a conclusioni diverse in merito alla possibilità, all’utilità e al modo di tradurre. Senza di esse non solo sarebbe molto complesso comprendere appieno il contenuto del pensiero in materie più strettamente legate all’attività traduttiva, ma sarebbe anche impossibile comprendere come l’autore sia addivenuto a quelle conclusioni.

Inoltre, come anche Berman2 rileva, la teoria del linguaggio costituisce un punto di estrema importanza nel pensiero humboldtiano, che lo differenzia dagli altri poeti e traduttori della sua epoca. La sua posizione, dice Berman, è differente, perché differente è la sua idea di linguaggio: non più «postulato»

1 Steiner, p. 49
2 Berman, p. 113, 183, 184

– 20 –

(Novalis) del pensiero, non più strumento, ma ambiente, in cui l’uomo vive e da cui viene plasmato. In questo capitolo affronterò quindi un’analisi dei concetti basilari da cui muove tutto il pensiero humboldtiano.

CAPACITÀ ESPRESSIVA DELLE LINGUE

V on Humboldt sostiene che tutte le lingue posseggono le stesse capacità espressive, che sono un mezzo attraverso il quale si può esprimere qualsiasi concetto, qualsiasi sfumatura. Ciononostante rifiuta di trarre da questa considerazione la conseguenza che sembrerebbe più naturale, ovvero l’equivalenza, da un punto di vista qualitativo, delle lingue.

Es ist nicht zu kühn zu behaupten, dass in jeder [Sprache], auch in den Mundarten sehr roher Völker, die wir nur nicht genug kennen, (womit aber gar nicht gesagt werden soll, dass nicht eine Sprache ursprünglich besser, als eine andre, und nicht einige andren auf immer unerreichbar wären) sich Alles, das Höchste und Tiefste, Stärkste und Zarteste ausdrücken lässt.

Non è troppo arrischiato affermare che in ogni [lingua], anche nei dialetti di popoli molto rozzi, che semplicemente non conosciamo abbastanza, (col che non si deve intendere che una lingua non sia originariamente migliore di un’altra, e che certe altre non siano per sempre irraggiungibili) si può esprimere tutto, ciò che è più alto e ciò che è più profondo, più forte e più delicato.

In realtà, come spiega nelle righe immediatamente precedenti, si tratta di una capacità potenziale, non attualizzata pienamente; ogni lingua compirebbe insomma una sorta di cammino che la porta da uno stato di semplicità iniziale, in cui basta «agli usi comuni della vita», a uno superiore, in cui queste capacità vengono elaborate, «per poter essere elevate all’infinito dallo spirito della nazione». Si tratta evidentemente di una visione romantica, forse dettata più da convinzioni filosofiche che non linguistiche – ma la linguistica è spesso influenzata dalla filosofia –, che cerca di conciliare la pari dignità delle culture con la superiorità di una civiltà passata in perfetta armonia con il Tutto. Entrambi i concetti ritorneranno ancora nei passaggi finali dell’introduzione; vedremo nel quarto capitolo come confluiranno e troveranno compimento nella tesi dell’utilità della traduzione. Intanto però è necessario chiarire qualche altro concetto base.

– 21 –

IL RAPPORTO TRA SEGNO E OGGETTO; LE EQUIVALENZE

VonHumboldt si inserisce nel dibattito tra convenzionalisti (secondo cui il rapporto tra segno e oggetto è del tutto arbitrario, dettato esclusivamente dalle convenzioni) e naturalisti (che sostenevano che nel segno si celasse una correttezza intrinseca che lo collega per natura all’oggetto) con una posizione più vicina alla seconda teoria, ma pregna di misticismo romantico:

Alle Sprachformen sind Symbole, nicht die Dinge selbst, nicht verabredete Zeichen, sondern Laute, welche mit den Dingen und Begriffen, die sie darstellen, durch den Geist, in dem sie entstanden sind, und immerfort entstehen, sich in wirklichem, wenn man es so nennen will, mystischen Zusammenhange befinden, welche die Gegenstände der Wirklichkeit gleichsam aufgelöst in Ideen enthalten, und nun auf eine Weise, der keine Gränze gedacht werden kann, verändern, bestimmen, trennen und verbinden können.

Tutte le forme linguistiche sono simboli,1 non le cose in sé, non segni convenuti, ma suoni, che con le cose e i concetti che rappresentano stanno, attraverso lo spirito in cui sono nati e ininterrottamente nascono, in un vero, se così lo si può chiamare, mistico rapporto, e che contengono gli oggetti della realtà come disciolti in idee, e che quindi possono modificare, definire, dividere e collegare in un modo che possiamo concepire illimitato.

Parole e oggetti stanno quindi in un rapporto misterioso, sembrano prescindere dalla volontà umana. Il dibattito in materia è di vecchia data, tanto che la prima testimonianza scritta nella nostra cultura risale addirittura a Platone, che, nel Cratilo (360 a.C. circa), mette Socrate nel ruolo di mediatore tra le due teorie, e assume una posizione estremamente aperta, secondo cui esiste sì un legame naturale tra oggetto e parola, ma non sufficiente per «giungere alla correttezza dei nomi»: sarebbe quindi necessaria anche una componente di arbitrarietà, il tutto relativizzato dalla possibilità di cambiamento insita nell’idea di moto, dinamismo della realtà. Passando per Dante e William of Ockham, che nel XIV secolo sosterranno, più o meno esplicitamente, il partito dei convenzionalisti, si dovrà arrivare a Peirce, nel 1900, per giungere a una teoria che reimposti il dibattito su più ampie basi. Allargato il concetto di segno a

1 Oggi ci è possibile ravvisare una somiglianza con l’accezione di “simbolo” usata da Francis Bacon nel De dignitate et augmentis scientiarum (1605); in modo speculare rispetto alla semiotica moderna “simbolo” indica anche qui «una relazione di parziale analogia con l’oggetto». (Osimo 2002: 26)

– 22 –

tutto ciò che come tale viene percepito, Peirce distinguerà tre gradi di arbitrarietà (simbolo, indice e icona, dal più al meno arbitrario), e li inserirà in una concezione di interpretazione individuale dell’oggetto, passibile di differenze anche sostanziali a seconda delle culture personali di chi entra in contatto con il segno, e persino per lo stesso individuo, a distanza di tempo. Quasi uno sviluppo del pensiero platonico, a cui forse von Humboldt non arriva; ma nelle pagine dell’introduzione non mancano affermazioni molto moderne sul tema segno/oggetto. Vediamo fin dove si spinge in quest’affermazione:

Ein Wort ist so wenig ein Zeichen eines Begriffs, dass ja der Begriff, ohne dasselbe nicht entstehen, geschweige denn festgehalten werden kann; […]

Una parola è così poco il segno di un concetto, che già il concetto senza di essa non può nascere, per tacere della possibilità di essere fissato.

In queste poche parole si realizza una visione decisamente nuova, le cui conseguenze hanno una portata più che considerevole. Von Humboldt sostiene qui una tesi postulata per la prima volta nel 1651 da Hobbes,1 ma poi poco seguita, secondo cui le parole fungono nella nostra mente da etichette della realtà, ovvero ci mettono in grado, una volta richiamato il segno nella nostra memoria, di risalire alla categoria corrispondente; va anzi ancora più in là, suggerendo che non solo le parole ci servono per catalogare concetti già formati, ma addirittura che esse sono uno dei sistemi per riconoscere la realtà, per interpretare il mondo che ci circonda. Se non si è dato un nome a una certa entità, questa non è stata in realtà individuata come soggetto a sé, come categoria, non esiste come concetto. Riconoscimento dell’oggetto e formazione del segno che lo significa sono atti contemporanei.

E d’altronde è impossibile pensare che in questa catalogazione del mondo circostante l’uomo non sia influenzato dalle esperienze precedenti, dalla sua personalissima visione e dalla lingua che parla. Non è soltanto la realtà che forgia la lingua, ma è anche la lingua a forgiare la realtà, imponendo la propria struttura, la catalogazione del mondo percepito insita nella sua natura di sistema.

1 Thomas Hobbes, Leviathan, 1651

– 23 –

Non credo sia sbagliato individuare in questa concezione un riflesso delle teorie kantiane,1 riprese anche da Schleiermacher e da tanta parte degli studi novecenteschi. Non c’è possibilità di una percezione neutra, perché tutte le immagini vengono adattate a schemi soggettivi interni già acquisiti; la percezione è un sistema di assimilazione di percezioni nuove a modelli vecchi. (Osimo 2002: 39) Diversamente da Kant però, von Humboldt ritiene possibile la formazione di categorie del tutto nuove, che cioè non sorgono per derivazione da schemi già presenti nella nostra mente, da cui dovrebbero distaccarsi in base a determinate caratteristiche che le rendano peculiari, ma nascono in modo originario. Ecco cosa dice:

Wenn man sich die Entstehung eines Worts menschlicher Weise denken wollte, so würde dieselbe der Entstehung einer idealen Gestalt in der Phantasie des Künstlers gleich sehen. Auch diese kann nicht von etwas Wirklichem entnommen werden, sie entsteht durch eine reine Energie des Geistes, und im eigentlichsten Verstande aus dem Nichts.

Se si volesse pensare al nascere di una parola in modo umano, allora esso assomiglierebbe alla nascita di una figura ideale nella fantasia dell’artista. Anche questa non può essere desunta da qualcosa di reale, nasce da una pura energia dello spirito, e, nel senso più vero, dal nulla.

Torna il concetto di spirito come legame naturale tra parola e oggetto. In un pensiero complesso, che tratta anche della natura della lingua come «prodotto di contemporanea interazione» tra i due soggetti tra cui avviene la comunicazione, von Humboldt sembra quasi divertirsi a mischiare le carte; quello “spirito” che poco prima era il luogo della nascita del legame tra suoni e oggetti diviene qui impalpabile, sfuggente, tanto che lo si può identificare con il nulla. Il misticismo di cui sopra si risolve quindi esclusivamente in chiave estemporanea, non ha alcun effetto sulla realtà. Il passo seguente procede ancora più chiaramente in questa direzione:

1 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, 1781

– 24 –

Wie könnte daher je ein Wort, dessen Bedeutung nicht unmittelbar durch die Sinne gegeben ist, vollkommen einem Wort einer andren Sprache gleich seyn?

Come mai perciò potrebbe una parola, il cui significato non è dato direttamente dai sensi, essere completamente uguale alla parola di un’altra lingua?

Ecco che, accantonato lo spirito nel suo spazio mistico, appaiono i sensi, che soli potrebbero stabilire un legame di equivalenza tra le lingue. In realtà non c’è contraddizione in questa dicotomia spirito/sensi, l’importanza degli uni non svilisce il valore assoluto dell’altro. L’uomo, essere finito, può solo tendere all’infinito, mai raggiungerlo. La realtà che egli vive e in cui quindi la lingua si muove è quella dei sensi, del materiale, del finito. Altro è il luogo della generazione della lingua, patria dello spirito e dell’Assoluto. Sciolto il nodo filosofico possiamo continuare nella trattazione e, insieme a von Humboldt, trarre la conseguenza logica delle premesse date: se non c’è percezione neutra, se non c’è corrispondenza tra parola e oggetto insita nella realtà, è impensabile che esista una qualsiasi forma di equivalenza tra le lingue.

Verschiedene Sprachen sind in dieser Hinsicht nur ebensoviel Synonymieen, jede drückt den Begriff etwas andres, mit dieser oder jener Nebenbestimmung, eine Stufe höher oder tiefer auf der Leiter der Empfindungen aus

Diverse lingue sono, sotto quest’aspetto, solo altrettante sinonimie: ognuna esprime il concetto un po’ diversamente, con questa o quella determinazione secondaria, un gradino più in alto o più in basso sulla scala delle sensazioni.

Svanisce quindi l’illusione di poter tradurre parola per parola, ricalcando strutture e lessico dell’originale.1 La traduzione si carica così di un valore ulteriore, trasformandosi in mediazione tra culture, e non solo tra lingue. Analizzerò più approfonditamente questo aspetto nel capitolo 5. È una posizione, questa che sottolinea l’importanza dell’aspetto culturale e rifiuta le equivalenze, che avrà grande

1 Bisogna tener presente però la distinzione, esplicitata per la prima volta da Benedetto Croce nell’Estetica del 1902, tra la terminologia scientifica e le parole comuni, dal più ampio spettro semantico e quindi più difficilmente traducibili. Von Humboldt non si dilunga in merito, e si limita a scrivere che, parlando di equivalenze, bisogna astrarre «dalle espressioni designanti semplicemente oggetti fisici».

– 25 –

fortuna nel corso di tutto il XX secolo, ma che ancora oggi, a quasi due secoli di distanza, è troppo spesso negletta da tanti traduttori, specialmente da quelli che mancano di una formazione specifica, convinti di raggiungere il proprio scopo semplicemente ricalcando l’originale. Una convinzione inaccettabile e assolutamente deleteria, contro cui lo stesso von Humboldt si schiererà.

– 26 –

Capitolo 3 LA FEDELTÀ

Il dibattito sulla fedeltà è sempre stato centrale nella storia della traduzione. Ma se l’idea generale è unanimemente accettata come positiva, c’è invece grande disaccordo sulla definizione di tale concetto, poiché non dà in realtà nessuna indicazione pratica che permetta di capire quali norme seguire, quali criteri rispettare. «La fedeltà non è letteralità né alcun artificio tecnico per rendere lo “spirito”. L’intera formulazione, come l’abbiamo trovata ripetutamente nel dibattito sulla traduzione, è disperatamente vaga» (Steiner: 318). Se la teoria di von Humboldt da un lato rispecchia questa vaghezza, cosicché il limite oltre il quale non è consentito andare rimane personalissima interpretazione del traduttore, d’altra parte egli enuncia a chiare lettere alcuni princìpi molto più pratici che, in alcuni casi, sono ancora oggi di grande attualità.

CONTRO LA PEDANTERIA E PER LA COERENZA TESTUALE

Incomincerò la mia analisi proprio da uno di questi princìpi. Von Humboldt ha appena finito di dire che è impossibile che esista uguaglianza tra parole di lingue diverse. La considerazione che ne trae è la seguente:

Man kann sogar behaupten, dass eine Uebersetzung um so abweichender wird, je mühsamer sie nach Treue strebt. Denn sie sucht alsdann auch feine Eigenthümlichkeiten nachzuahmen, vermeidet das bloss Allgemeine, und kann doch immer nur jeder Eigethümlichkeit eine verschiedene gegenüberstellen.

Si può addirittura affermare che una traduzione è tanto più fuorviante quanto più tenta faticosamente di essere fedele. Perché cerca di imitare anche le più sottili particolarità, evita ciò che è semplicemente comune e tuttavia può sempre opporre a ogni particolarità solo una particolarità differente.

– 27 –

Sono due i grandi concetti qui accennati dall’autore. Per prima cosa si rifiuta ogni forma di traduzione che, per eccessiva pedanteria, tenda a ricalcare l’originale senza altra accortezza se non quella di essergli vicino. Questo modo di lavorare, pur animato dalle migliori intenzioni, ha spesso il difetto di travisare il senso dell’originale, o quantomeno di trasformarlo secondo l’interpretazione del traduttore. Scovando nel prototesto tutte le sfumature e i sottintesi e cercando di avvicinarvisi, questi sarà tentato di utilizzare forme meno consuete, che hanno l’enorme difetto di presentare a loro volta sfumature e implicazioni differenti e di non rispettare il carattere generico – o meno – dell’originale. Il traduttore, confuso dalla sua ricerca del dettaglio, perde di vista il significato primo delle parole e la diversità semantica delle parole nelle lingue, e crea un testo, per assurdo, non fedele:

Wenn man die besten, sorgfältigsten, treuesten Uebersetzungen genau vergleicht, so erstaunt man, welche Verschiedenheit da ist, wo man bloss Gleichheit und Einerleiheit zu erhalten suchte.

Se si confrontano attentamente le traduzioni migliori, più accurate, più fedeli, ci si stupisce nel constatare quale differenza ci sia dove si è cercato di raggiungere semplicemente l’uguaglianza e l’uniformità.

L’altra idea insita nel pensiero sopra riportato è quella del testo come unità minima di riferimento. Certo, von Humboldt non la formula esplicitamente, ma non credo di esagerare vedendo nelle sue parole un richiamo alla coerenza del metatesto; perché il grande rischio insito in uno studio minuzioso del particolare è proprio che il senso e lo stile del prototesto sfuggano al traduttore, e che quindi la sua opera sia fedele alle singole parole, ma non fedele al testo come entità unica.

CONTRO OGNI MODIFICA

Sulla stessa linea si collocano anche molte altre osservazioni humboldtiane circa la necessità di rispettare l’originale evitando ogni intromissione, conscia o inconscia, dello stile, delle idee e dell’interpretazione del traduttore. In pagine che meriterebbero ancora oggi di essere studiate da chi si appresta ad affrontare un lavoro di traduzione, il nostro ci mette in guardia contro tutte queste tendenze, cominciando

– 28 –

da quella di appiattire ciò che risulta estraneo, e di trasformarlo in un elemento noto alla cultura ricevente.

Man hörte wohl sonst sagen, dass der Uebersetzer schreiben müsse, wie der Originalverfasser in der Sprache des Uebersetzers geschrieben haben würde (ein Gedanke, bei dem man nicht überlegte, dass, wenn man nicht bloss von Wissenschaften und Thatsachen redet, kein Schriftsteller dasselbe und auf dieselbe Weise in einer andren Sprache geschrieben haben würde).

Si è peraltro spesso sentito dire che il traduttore dovrebbe scrivere come l’autore dell’originale avrebbe scritto nella lingua del traduttore (un pensiero in cui non si è considerato che, se non si parla di scienze o fatti concreti, nessuno scrittore avrebbe scritto la stessa cosa e nello stesso modo in un’altra lingua).

Niente trasformazione degli elementi culturospecifici dunque, che impedirebbero innanzitutto la fruizione del testo originale nella sua versione più integra, e, fattore forse ancora più importante nella visione humboldtiana, impedirebbero quell’interscambio culturale che è il prodotto migliore dell’atto traduttivo. (Tratterò più a fondo questo argomento nel corso del prossimo capitolo. Si può notare frattanto come il passo sopra citato rimandi all’idea per cui l’uomo è prodotto della sua cultura e della sua lingua, dal che si deduce quanto la traduzione sia una traduzione di culture.)

Discorso analogo vale per la riproduzione del ritmo e delle forme metriche, cui von Humboldt dice di aver prestato particolare attenzione. Egli individua nel metro della poesia greca il «fondamento d’ogni bellezza» e per questo sostiene l’importanza di riprodurlo il più esattamente possibile, senza adattarlo agli usi nazionali e senza indugiare in scelte che semplificherebbero sì il lavoro del traduttore e renderebbero forse la lettura più sciolta, ma che non sarebbero altrettanto testimoni dello splendore originale. È l’orecchio degli ascoltatori che deve essere addomesticato alle inflessioni straniere, non viceversa.

A latere di queste considerazioni ve ne sono due che riguardano proprio la questione del ritmo e che sono comunque rilevanti nel nostro discorso. La prima riguarda la superiorità della lingua greca in fatto di ritmica e espressività. Nessun’altra lingua è in grado di eguagliare questa in quanto a forma, secondo il principio già citato più volte della perfezione della cultura greca rispetto a tutte

– 29 –

quelle seguenti. Credo possa essere interessante far notare, lasciando il giudizio in merito a chi più è addentro alla questione, una dichiarazione dell’autore secondo cui solo il tedesco, tra le lingue moderne, avrebbe le qualità per avvicinarsi a riprodurre tanta bellezza.

Der Rhythmus, wie er in den griechischen Dichtern, und vorzüglich in den dramatischen, denen keine Versart fremd bleibt, waltet, ist gewissermassen eine Welt für sich, auch abgesondert vom Gedanken, und von der von Melodie begleiteten Musik. Es stellt das dunkle Wogen der Empfindung und des Gemüthes dar, ehe es sich in Worte ergiesst, oder wenn ihr Schall vor ihm verklungen ist. Die Form jeder Anmuth und Erhabenheit, die Mannigfaltigkeit jedes Charakters liegt in ihm, entwickelt sich in freiwilliger Fülle, verbindet sich zu immer neuen Schöpfungen, ist reine Form, von keinem Stoffe beschwert, und offenbart sich an Tönen, also an dem, was am tiefsten die Seele ergreift, weil es dem Wesen der inneren Empfindung am nächsten steht.

Il ritmo, com’esso domina nei poeti greci, e specialmente nei drammatici, a cui nessun tipo di verso è estraneo, è in certo qual modo un mondo a sé, distinto anche dal pensiero e dalla musica accompagnata dalla melodia. Rappresenta l’oscuro ondeggiare del sentimento e del temperamento, prima che esso sgorghi in parole o quando il loro suono si è spento. La forma di ogni grazia e nobiltà, la multiformità di ogni carattere vi è presente, si sviluppa in spontanea pienezza, si collega a creazioni sempre nuove, è pura forma, non appesantita da alcuna sostanza, e si manifesta in suoni, ovvero in ciò che più profondamente tocca l’anima, poiché è il più vicino all’essenza del sentimento interiore.

Questo breve paragrafo contiene anche una prima indicazione del valore della musica nella cultura romantica. Come un secolo più tardi per gli astrattisti, la musica, in special modo quando non è accompagnata dal canto, è considerata in questo tempo l’arte suprema, la più pura, perché non è appesantita dalla forma, dalla referenzialità; libera, immacolata manifestazione del sentimento interiore, tocca l’anima e trascende la materialità delle cose. La lingua non è altro che uno strumento che deve essere suonato in tutte le sue potenzialità; per questo sarebbe ingiusto ogni adattamento di una composizione alle orecchie degli ascoltatori, perché, oltre a non rispettare l’originale, mutilerebbe le capacità espressive della lingua.

Ma l’attenzione di von Humboldt si dirige non solo alla generalizzazione, bensì a tutti quei procedimenti che tendono a trasformare il prototesto, e, con la motivazione di renderlo meglio fruibile, ne fanno una creatura del traduttore, che diviene così colpevole di appropriazione, se così si può dire, indebita. Tre sono le categorie di

– 30 –

trasformazione citate dall’autore, quasi tre variazioni dello stesso principio: semplificazione, commento (o disambiguazione, come diremmo oggi) e «ornamentazione estranea» all’originale.

Le prime due indicano la tendenza a semplificare il testo ove questo appaia oscuro o di difficile lettura, sostituendo magari alle forme complesse un’interpretazione delle stesse; una cosa è però evitare in ogni modo quei problemi di lettura che derivano solo dalla trasposizione in un diverso codice linguistico, atto certamente giustificato e anzi necessario; altra cosa è banalizzare ciò che è particolare, e rendere chiaro ciò che non lo è.

[Man muss] nicht verlangen, dass das, was in der Ursprache erhaben, riesenhaft und ungewöhnlich ist, in der Uebertragung leicht und augenblicklich fasslich seyn solle.

[Non bisogna] pretendere che quanto nella lingua originale è sublime, portentoso e insolito debba essere nella traduzione leggero e immediatamente comprensibile.

Anche perché spesso la qualità di una produzione risiede proprio nel modo particolare in cui l’autore ha fatto uso delle regole e delle possibilità espressive offertegli dal codice che usa, a volte tralasciando dei passaggi logici, a volte infrangendo le norme retoriche o perfino le regole grammaticali stesse; sono questi gli elementi che rendono personale uno stile e che, se ben utilizzati, lo nobilitano e contribuiscono a fornire alla lingua nuove capacità espressive. Essi non sono quindi errori, non stonano, bensì riflettono il sentimento più vero. Quasi una teorizzazione dello stream of consciousness:

Die Dunkelheit, die man in den Schriften der Alten manchmal findet, und die gerade der Agamemnon vorzüglich an sich trägt, entsteht aus der Kürze, und der Kühnheit, mit der mit Verschmähung vermittelnder Bindesätze, Gedanken, Bilder, Gefühle, Erinnerungen und Ahndungen, wie sie aus dem tief bewegten Gemüthe entstehen, an einander gereiht werden.

L’oscurità che talvolta si trova negli scritti degli antichi, e che proprio l’Agamennone presenta in modo esemplare, deriva dalla concisione e arditezza con le quali, con sprezzo delle proposizioni coordinative, vengono allineati in successione pensieri, immagini, sentimenti, ricordi e presentimenti così come sgorgano dalla profonda commozione dell’animo.

– 31 –

Semplificazione e esplicitazione dei costrutti più complessi si accompagnano poi spesso alla smania di ritoccare il prototesto per migliorarlo, magari nel goffo tentativo di compensare altre bellezze che non si è riusciti a rendere adeguatamente.

Das Unvermögen, die eigenthümlichen Schönheiten des Originals zu erreichen, führt gar zu leicht dahin, ihm fremden Schmuck zu leihen, woraus im ganzen eine abweichende Farbe, und ein verschiedener Ton entsteht.

L’incapacità di raggiungere le bellezze proprie dell’originale porta fin troppo facilmente a conferirgli un’ornamentazione estranea, cosicché nell’insieme ne viene una coloritura fuorviante e un tono diverso.

Si può intravedere qui una sorta di estremismo conservatore, nel senso che von Humboldt si schiera contro quella concezione di “economia del testo”, che sebbene non sia stata ancora formulata esplicitamente, è conseguenza diretta del principio, da lui stesso in qualche modo avanzato, per cui il testo è l’unità minima di riferimento. Questo principio è quindi per lui veritiero solo nella misura in cui serve a comprendere il senso generale dell’opera, a evitare di tradire, per amore del particolare, la visione generale; rifiuta invece in toto l’idea di poter recuperare in un punto vicino del testo ciò che è stato impossibile mantenere altrove. Ci si può chiedere però se davvero la sua critica sia così intransigente da non permettere l’applicazione di questo principio almeno in piccola misura, attenendosi comunque al carattere del prototesto.

È qui che la teoria humboldtiana incappa nel suo grande problema, quello della vaghezza, cui si è fatto cenno anche nell’introduzione a questo capitolo. Von Humboldt vieta infatti ogni abbellimento eccessivo, che svii dal tono originale, ma non può non lasciare l’interpretazione di questo limite al singolo. Tutta questa esposizione di saggi princìpi – i primi due sono in effetti assolutamente ineccepibili ed evidentemente moderni – approda infatti a un’equivalenza tra fedeltà e semplicità che, se da una parte è certo veritiera, risulta dall’altra troppo indefinita per poter assurgere a principio tecnicamente valido. Vediamo i passaggi più significativi:

Mit dieser Ansicht ist freilich nothwendig verbunden, dass die Uebersetzung eine gewisse Farbe der Fremdheit an sich trägt, aber die Gränze, wo dies ein nicht abzuläugnender Fehler wird, ist hier sehr leicht zu ziehen. Solange nicht die Fremdheit, sondern das Fremde gefühlt wird, hat die Uebersetzung ihre höchsten

– 32 –

Zwecke erreicht; wo aber die Fremdheit an sich erscheint, und vielleicht gar das Fremde verdunkelt, da verräth der Uebersetzer, dass er seinem Original nicht gewachsen ist. Das Gefühl des uneingenommenen Lesers verfehlt hier nicht leicht die wahre Scheidelinie.

A questa visione è necessariamente legato il fatto che la traduzione rechi in sé un certo tono di estraneità, ma la soglia ove ciò diviene un errore incontestabile è qui molto facile da determinare. Finché non viene percepita l’estraneità, ma l’estraneo, la traduzione ha raggiunto i suoi più alti scopi; ma dove l’estraneità stessa appare, e magari addirittura oscura l’estraneo, lì il traduttore tradisce di essere inferiore al suo originale. Alla sensibilità del lettore non prevenuto difficilmente sfuggirà la vera linea di demarcazione.

e ancora:

Dieser hier eben geschilderten Einfachheit und Treue habe ich mich […] zu nähern gesucht. Bei jeder neuen Bearbeitung habe ich gestrebt immer mehr von dem zu entfernen, was nicht gleich schlicht im Texte stand.

Ho cercato di avvicinarmi alla semplicità e alla fedeltà testé descritte. […] È stata mia ambizione prendere sempre più le distanze da quanto il testo non conteneva in modo evidente.

Può essere interessante inoltre notare che il raggiungimento di tanta perfezione non deve però essere frutto di continui rimaneggiamenti, ma di una «prima felice ispirazione», concezione sicuramente influenzata dal pensiero romantico della spontaneità dell’atto artistico.

Al di là di questa osservazione, il fattore decisivo è quindi l’aderenza all’originale, che si manifesta sostanzialmente attraverso «il rigore storico» (e qui von Humboldt apre una polemica contro quei traduttori che, non seguendo un principio filologico coerente, scelgono arbitrariamente tra le diverse interpretazioni critiche e le soluzioni proposte), «l’abnegazione e la serietà con sé stessi» nel non cedere a semplificazioni e cambiamenti impropri, tesi a migliorare la leggibilità, il «semplice e non pretenzioso amore dell’originale» e lo «studio che ne segue». Sono tutti princìpi sicuramente validi, ma la cui definizione stenta a raggiungere una scientificità, un’obbiettività sufficiente a renderli soluzione dell’annoso problema.

– 33 –

Non può d’altronde non essere così, perché manca in vonHumboldt la formulazione del concetto di “dominante”,1 senza la quale qualsiasi tentativo di approccio analitico al problema della fedeltà è necessariamente destinato a naufragare. Perché la nostra trattazione di questo argomento non si concluda con un’apparente giudizio complessivo negativo, vale la pena di ricordare quanto il pensiero humboldtiano sia improntato alla conservazione degli elementi specifici del prototesto, a un decisa tendenza all’adeguatezza2 assolutamente moderna.

1 L’intuizione prima risale a Žukovskij, traduttore russo che nel saggio Sulle traduzioni in generale e in particolare sulle traduzioni poetiche (1810) ne fa implicitamente la base dell’analisi traduttologica; è però difficilmente immaginabile che il trattato avesse conosciuto già nel 1816 diffusione in Europa, e, se anche ciò fosse avvenuto, che gli eventuali lettori d’allora fossero riusciti a estrapolarla dalla sua formulazione implicita. Ad esclusione del Berchet (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, 1817), nessun altro farà riferimento esplicito a un simile principio fino al XX secolo, e solo negli anni ‘30 si avrà una sua definizione scientifica. (Jakobson, 1935: 41)

2 Toury, 57

– 34 –

Capitolo 4
UTILITÀ E LIMITI DELLA TRADUZIONE

Ma qual è dunque lo scopo di una traduzione? Ha senso tentare di riprodurre un testo sapendo che è impossibile stabilire delle equivalenze tra le lingue? Si può trarre un qualche vantaggio effettivo da questa complicata attività, o essa si riduce a un inutile tentativo di riproduzione, una brutta copia di qualcosa che non potrà mai essere presentato nella sua interezza ai lettori della traduzione?

Abbiamo visto infatti come von Humboldt metta in guardia, oltre che dai tentativi di migliorare il testo originale, anche dal ritenere possibile una traduzione che, basandosi essenzialmente su criteri filologici e di analisi delle minuzie del prototesto, arrivi a trasmettere l’interezza del messaggio. L’abbiamo anche sentito dire che le “migliori” traduzioni possono differenziarsi in modo consistente, tanto che è possibile ravvisare tra loro disuguaglianze tali da compromettere, nell’una o nell’altra versione, il significato del testo originario. Ma che senso ha allora tradurre?

L’autore, conscio delle pessimistiche conclusioni che da tali considerazioni si potrebbero trarre, ci viene subito in soccorso chiarendo che queste osservazioni circa le numerose difficoltà insite nel processo traduttivo non devono distogliere dal tradurre.

Das Uebersetzen, und gerade der Dichter, ist vielmehr eine der nothwendigsten Arbeiten in einer Literatur, theils um den nicht Sprachkundigen ihnen sonst ganz unbekannt bleibende Formen der Kunst und der Menschheit, wodurch jede Nation immer bedeutend gewinnt, zuzuführen, theils aber, und vorzüglich, zur Erweiterung der Bedeutsamkeit und der Ausdrucksfähigkeit der eigenen Sprache.

La traduzione, in special modo dei poeti, è anzi uno dei compiti più necessari per una letteratura, in parte per fornire a coloro che non conoscono la lingua forme dell’arte e dell’umanità che altrimenti resterebbero loro estranee, dal che ogni nazione trae sempre cospicuo vantaggio, ma in parte – specialmente – per accrescere l’importanza e la capacità espressiva della propria lingua.

– 35 –

Sono due le considerazioni che ritengo utile fare su questo passo. La prima, di fondamentale importanza, è quella dell’interazione tra le culture, che von Humboldt vede sempre in una luce estremamente positiva, e della traduzione come fenomeno culturale. Non si importano solo «forme dell’arte», ma anche «dell’umanità»: ciò significa che attraverso la traduzione il lettore entra in contatto con mondi diversi dal proprio, e dalla conoscenza di questi trae vantaggio in quanto approda a una migliore conoscenza di sé. È infatti principalmente attraverso l’esperienza del diverso che si diventa coscienti delle proprie peculiarità, che si riconosce la propria diversità, che è poi l’identità di ciascuno. Questo tipo di pensiero è d’altronde in linea con la filosofia romantica di equiparazione delle culture cui ho accennato più volte, tanto che sarà postulato in termini simili anche da Žukovskij, nel 1810, e da Leopardi nello Zibaldone (1820). In modo più vago l’idea di fecondità dello scambio culturale insito nella traduzione è però già presente dall’antichità, tanto che Aristotele, in Della poetica (Peri poietikes, 350 a.C. circa) si pronuncia a favore dei «barbarismi», cioè di un «elemento esotico [che] produrrà il carattere non pedestre»; sarà poi san Gerolamo, nel Liber de optimo genere interpretandi (390 circa), a entrare più specificamente nel merito, e a pronunciarsi per il mantenimento degli elementi altrui.

L’altro punto d’interesse del passo citato è quello per cui la traduzione accresce le possibilità espressive della lingua. In base a questa affermazione è possibile comprendere appieno il valore di quanto esposto nei capitoli precedenti, sia quando von Humboldt si riferiva alla lingua come a uno strumento che deve essere suonato in tutte le sue possibilità, e che quindi deve ricevere degli stimoli esterni per ampliare le proprie capacità espressive, sia quando si batteva contro la semplificazione, la disambiguazione e ogni forma di modifica che rendesse la traduzione più facilmente accessibile, ma per questo meno aderente al prototesto. Si tratta infatti di espedienti che tendono a disconoscere il valore della diversità, che tentano di spacciare il prodotto della creatività altrui per prodotto della propria cultura, rendendo così un pessimo servigio non solo all’autore dell’originale, ma anche alla cultura ricevente, che viene privata di un importante stimolo alla crescita. È l’interscambio culturale che fa progredire l’uomo, e lo sviluppo della lingua non è che un sintomo di questa evoluzione; per questo è tanto importante mantenere tutti gli elementi

– 36 –

culturospecifici. (cap. 3) Ho detto nel terzo capitolo come la lingua cresca seguendo un cammino che la porta dapprima a bastare alle esigenze più comuni, e poi a esprimere più alti concetti; questo miglioramento avviene ad opera dello «spirito delle nazioni», ovvero della capacità delle singole culture di recepire gli impulsi provenienti dall’esterno.

[Der Geist der Nation] bearbeitet [die Sprachen, die dadurch] bis ins Unendliche hinzu einem höheren, und immer mannigfaltigeren [Gebrauch] gesteigert werden können. […] so wird die Sprache, ohne eigentlich merkbare Veränderung, zu einem höheren Sinne gesteigert; zu einem mannigfaltiger sich darstellenden ausgedehnt. Wie sich aber der Sinn der Sprache erweitert, so erweitert sich auch der Sinn der Nation.

[Lo spirito della nazione] elabora [le lingue, che così] possono essere elevate all’infinito verso un uso più alto e sempre più multiforme. […] e così la lingua, senza sensibile mutamento, viene elevata a un significato più alto, viene estesa a un significato capace di raffigurarsi in modo più vario. Ma come si amplia il senso della lingua, così si amplia il senso della nazione.

Il che significa appunto che, data la reciproca influenza esistente tra lingua e realtà, insieme alla prima si modifica anche il modo di intendere la seconda, di comprendere gli altri, e, di conseguenza, sé stessi. Ecco quindi che le modificazioni della cultura non sono solo per gli eruditi, ma per tutti, perché è l’intera comunità a essere investita dalle innovazioni provenienti dall’esterno.

Wie hat, um nur dies Beispiel anzuführen, nicht die Deutsche Sprache gewonnen, seitdem sie die Griechischen Silbenmasse nachahmt, und wie vieles hat sich nicht in der Nation, gar nicht bloss in dem gelehrten Theile derselben, sondern in ihrer Masse, bis auf Frauen und Kinder verbreitet, dadurch entwickelt, dass die Griechen in ächter und unverstellter Form wirklich zur Nationallecture geworden sind?

Per fare solo un esempio, quanto vantaggio non ha tratto la lingua tedesca da quando imita la metrica greca e quanto non si è sviluppato nella nazione – non solo nella sua parte dotta, ma nella massa, fino a estendersi alle donne e ai bambini – da che i greci sono diventati, in una forma vera e priva di alterazioni, davvero lettura nazionale?

Ritorna qui il concetto di superiorità della cultura greca, per cui, attraverso la traduzione delle opere dell’antichità ellenica e l’inserimento di elementi tipici di tale civiltà, si porta grande vantaggio alla metacultura. Sembra di intravedere nel passo

– 37 –

citato una prefigurazione delle teorie di Lotman,1 semiotico della seconda metà del XX secolo, che paragona la semiosfera, ovvero l’universo della significazione, a un organismo, di cui le singole culture – nazionali, locali, personali – costituiscono le cellule, che hanno bisogno, per sopravvivere, di uno scambio di informazioni. Il rapporto proprio/altrui è quindi sempre apportatore di benefici, anzi, la sua mancanza ha conseguenze negative in termini di mancato sviluppo, di atrofia quasi.

Von Humboldt entra infatti in polemica con le traduzioni francesi di quel periodo, colpevoli secondo lui di aver sottratto alla nazione un possibile stimolo di crescita. Il riferimento qui è alle belles infidèles, ovvero a quel tipo di traduzioni, molto in voga appunto nella Francia sei-settecentesca, che eliminavano ogni intralcio alla comprensione naturalizzando tutti quegli elementi che sarebbero risultati estranei alla cultura ricevente. Nell’applicazione di tale principio si andò così in là da mantenere a volte in comune col prototesto solo l’argomento, per poi modificare la forma secondo il proprio gusto: l’originale non era altro che un pretesto per una nuova creazione.

A chi volesse confutare il suo giudizio negativo, von Humboldt chiede:

Denn woher käme es sonst, dass, da doch alle Griechen und Römer im Französischen, und einige in der gegebenen Manier sehr vorzüglich übersetzt sind, dennoch auch nicht das Mindeste des antiken Geistes mit ihnen auf die Nation übergangen ist, ja nicht einmal das nationelle Verstehen derselben (denn von einzelnen Gelehrten kann hier nicht die Rede seyn) dadurch im Geringsten gewonnen hat?

Perché come si spiegherebbe altrimenti, dato che tutti i greci e i romani sono stati tradotti in francese, e alcuni in modo eccellente secondo le modalità precisate, il fatto che ciononostante nemmeno la più piccola parte dello spirito antico sia stato trasmesso attraverso di essi alla nazione, e che neppure la comprensione nazionale degli stessi (ché qui non ci si può riferire a singoli eruditi) ne abbia tratto il minimo vantaggio?

Il compito del traduttore invece è proprio quello di mettere in comunicazione i due mondi, permettendo la reciproca fecondazione. È facile individuare in questa assunzione di responsabilità una certa somiglianza con la figura del poeta-vate. Egli vigila nel buio della notte, uomo eletto che solo può favorire, con la sua opera, l’avvicinarsi del nuovo giorno. Similmente il traduttore, essendo una particolare

1 Lotman, 1985

– 38 –

specie di artista e conoscendo più lingue, ovvero diversi universi culturali, è chiamato a portare nel buio del presente un po’ di quella luce che promana dagli scritti degli antichi. Si spiega così anche la ragione per cui von Humboldt traduce solo dal greco, lingua dell’“armonia perduta”.

D’altronde è anche perfettamente conscio dei limiti della traduzione, e non solo per i motivi tecnici che abbiamo visto. Al contrario delle opere originali, le traduzioni non possono essere eterne, perché sono solo l’attualizzazione momentanea di un’idea; se la seconda, pur nella diversità delle interpretazioni, vive finché è ricordata, la traduzione perde tutta la sua importanza nel momento in cui la lingua in cui è stata elaborata si modifica. Col decadere di un’espressione, con l’acquisizione nella lingua standard di costrutti o vocaboli precedentemente recepiti come marcati, la traduzione necessita di un rifacimento, perché la sua vitalità non vada persa. Ma proprio per questo è anche uno strumento importantissimo al fine di valutare lo stato di una lingua nel suo cammino evolutivo; la caducità delle traduzioni è in fondo un elemento positivo, poiché testimonia il fatto che la lingua, e con essa la cultura, di cui è specchio, è in continuo progresso. La traduzione è poi un atto assolutamente personale, dato che ogni traduttore opera, al di là del tentativo – da parte di alcuni – di non lasciarsi influenzare dalle idee proprie, secondo la sua interpretazione del testo, secondo la sua comprensione degli elementi che compongono l’originale. Dalla fusione delle idee di «residuo» (implicitamente espressa da von Humboldt quando scrive del tentativo di colmare con aggiunte proprie «l’incapacità di raggiungere le singole bellezze dell’originale») e di «soggettività dell’interpretazione» egli forgia, se così si può dire, quella di “soggettività della traduzione”: non c’è traduzione perfetta perché ognuno dovrà effettuare delle scelte che per forza di cose escludono determinati aspetti, ne salvano o ne amplificano altri, e forniscono dell’originale solo un’idea parziale. Anche per questo le traduzioni vanno ripetute e sono necessarie al lettore più versioni per arrivare a comprendere meglio il contenuto e la forma del prototesto.

– 39 –

[Die Uebersetzungen] sind ebensoviel Bilder desselben Geistes; denn jeder giebt den wieder, den er auffasste, und darzustellen vermocht; der wahre ruht allein in der Urschrift.

[Le traduzioni] sono altrettante immagini dello stesso spirito, poiché ognuno rende quel che ha potuto comprendere e rappresentare: il vero spirito riposa soltanto nel testo originale.

La luce irradiata da una traduzione è in realtà solo un riflesso, oscurato dalle difficoltà linguistiche e culturali e dalla limitatezza dell’uomo traduttore. Se l’Arte trascende questi limiti grazie alla sua originalità e purezza, riuscendo a raggiungere l’eterno e illuminando di luce propria il mondo, la traduzione ne è invece prigioniera, perché non è un’opera originale e perché è troppo legata alla realtà contingente della lingua e della cultura. Essa assolve il suo compito quando mostra almeno una parte di quello slancio verso l’infinito che è l’Arte; è, in perfetta armonia con lo spirito romantico, il tentativo di riprodurre ciò che vuole ascendere alla perfezione, è desiderio del desiderio.1

1 Berman tratta ampiamente questo tema. Di particolare interesse a questo proposito, sono i capitoli 6 e 7. Mi limito qui a un’osservazione: Berman sottolinea più volte come la traduzione fosse ritenuta,per esempio da Novalis, superiore all’originale,in quanto libera ciò che nel testo è più vero, sciogliendolo dalla referenzialità al reale e rendendolo autoreferenziale. Che il testo perda così in leggibilità e chiarezza è, per i romantici, del tutto secondario; bisogna anzi ricordare come l’oscurità e il mistero fossero da loro elevati a «stato di grazia» (ancora Novalis), cosicché una minore chiarezza non è più un difetto, ma un cospicuo vantaggio.

– 40 –

Capitolo 5 CONCLUSIONI

Ho già espresso nel corso dei capitoli precedenti l’alta considerazione per i molti e sapienti spunti offerti dalle pagine humboldtiane, e di aver evidenziato il principale difetto della sua trattazione. Vorrei ora trattare più ampiamente queste osservazioni, per poter dare una valutazione critica in relazione alle più moderne teorie e alle mie idee personali.

Già dalle prime letture del testo emergono chiaramente sia la sua modernità che la vaghezza nella definizione della fedeltà. In poche pagine – le osservazioni sulla teoria del tradurre occupano, nell’edizione originale, dieci pagine di un libro di piccole dimensioni – von Humboldt condensa una quantità davvero notevole di concetti relativi, come si è visto, non solo alla sua attività particolare o all’opera di cui queste pagine sono l’introduzione, ma all’attività del tradurre in generale. È già questa una scelta importante, poiché testimonia la coscienza di von Humboldt di non essere un semplice traduttore, ma un conoscitore dei sistemi linguistici in senso molto lato, tanto che sente necessario esporre quanto ha compreso ed elaborato.

È probabile che senta in qualche misura l’influenza del discorso che Friedrich Schleiermacher aveva letto solo tre anni prima all’Accademia Reale delle Scienze di Berlino, con cui gettava le basi per la moderna scienza della traduzione. Ma tale influenza sembra più di intenti che non di contenuti, nel senso che i concetti che si presentano simili in entrambe le trattazioni sono relativamente pochi. Von Humboldt si inserisce nel dibattito aperto dal collega, ma si addentra nell’argomento in modo molto più particolareggiato, scendendo più nel concreto, pur non disdegnando di affrontare problemi generali come quello dell’arbitrarietà del segno. L’approccio rimane normativo, e non descrittivo, come è d’altronde tipico di tutta la produzione fino a buona parte del XX secolo; von Humboldt cioè non si limita a descrivere funzioni e limiti delle diverse strategie traduttive, ma le giudica, bollando talune abitudini come inadeguate o fuorvianti.

– 41 –

Un tale approccio è però destinato a fallire, come ho detto a suo tempo, in mancanza di una categoria come quella della «dominante», che aiuti a determinare come e dove porre un limite al lecito; von Humboldt tenta infatti di scendere nello specifico, di indicare quali procedimenti sono necessari e quali accettabili, ma, sebbene non lo ammetta mai esplicitamente, si può riscontrare un certo imbarazzo nel determinare quale sia il confine da non oltrepassare, imbarazzo che si muove sottopelle per buona parte della trattazione, fino a sfociare in un’affermazione quantomeno goffa:

Das Gefühl des uneingenommenen Leser verfehlt hier nicht leicht die wahre Scheidelinie.

Alla sensibilità del lettore non prevenuto difficilmente sfuggirà la vera linea di demarcazione.

È un’affermazione fatta di negazioni, quasi a testimonianza formale della vaghezza del contenuto cui fa riferimento. È certo un peccato perdonabile, dato che il concetto di dominante è assolutamente nuovo per l’epoca.1 Se proprio si dovesse trovare un difetto allo scritto humboldtiano, lo si potrebbe individuare nella scarsa organicità dei contenuti. La dissertazione è talvolta frammentaria, e spesso per estrapolare i concetti espressi e poterne godere nella loro complessità e completezza è necessario un lavoro non trascurabile di interpretazione. Con questo non voglio dire che il testo non sia di piacevole lettura, anzi: forse proprio a favore di una maggiore scorrevolezza von Humboldt ha sacrificato una certa scientificità nella struttura, conferendo all’argomentazione un tono molto discorsivo; mi sembra quasi che non si sia voluto soffermare nella spiegazione dei tanti concetti appena accennati, per timore di annoiare il lettore o per il pudore di non dilungarsi troppo in un àmbito

1 Per la datazione del concetto di «dominante» si veda la nota a p. 25. A proposito invece del problema della «linea di demarcazione» rilevo con interesse le osservazioni di Berman (p. 198-199), che sottolinea il valore dell’estraneo nella cultura romantica e la conseguente posizione privilegiata della traduzione in quanto luogo dello scambio interculturale; ma soprattutto Berman propone una lettura che credo meriti un’attenta riflessione (e che è purtroppo impossibile presentare qui per esteso); egli mette in risalto il paradosso di una cultura, quella romantica, che cerca sì la crescita delle nazioni nella conoscenza dell’estraneo, esaltandone i valori, ma che al contempo vuole proteggere la propria identità dalla «mozione violenta» dell’estraneo. Berman suggerisce addirittura (e non solo in queste pagine; si vedano le p. 174-178) che una tale posizione di rifiuto di ciò che è troppo diverso sia equiparabile alle traduzioni etnocentriche della Francia sei-settecentesca.

– 42 –

– quello dell’introduzione a un libro – che forse non riteneva adatto a una trattazione più ampia.

Detto questo, è ineccepibile il fatto che von Humboldt apra nuovi orizzonti alla scienza della traduzione, dando un riferimento concreto a parte delle affermazioni che Schleiermacher aveva lasciato alla pura teoria. La sua posizione è talmente importante da poter essere considerata il punto di svolta nella storia della traduzione, almeno per quanto riguarda il concetto di fedeltà. Se il dibattito esisteva da tempo, poco si era avanzati fino a quel punto dalla posizione di Cicerone, dal suo «sdebitarsi in solido» del debito contratto col lettore del testo tradotto. Era una filosofia certamente adatta alla situazione dell’epoca, in cui le traduzioni erano più che altro un esercizio di retorica, dato che la maggior parte dei lettori di allora poteva affrontare senza fatica gli originali; ma trasportato millesettecento anni più tardi aveva condotto al fenomeno delle belles infidèles, alle traduzioni approprianti, ovvero a quanto di più lontano da una qualsiasi idea di fedeltà e di utilità della traduzione; ed era d’altronde diffusa l’idea per cui il traduttore dovesse immedesimarsi nell’autore e dargli nuova vita, idea che von Humboldt rigetta con vigore. Se però si può insinuare che abbia ricalcato questo rifiuto dal discorso di Schleiermacher, non si può invece negare che sia il nostro traduttore a entrare nel dettaglio, esprimendo concretamente quei princìpi di cui ho già sottolineato la grande attualità. Il divieto di inserire chiarimenti, ornamenti e di effettuare qualsiasi modifica allo stile e agli elementi culturospecifici sono tanto più validi oggi in quanto così spesso ancora vengono ignorati.

Un altro punto interessantissimo è, a mio parere, quello relativo alla caducità delle traduzioni. Per quanto sia riuscito a sapere dalle mie ricerche, nessuno prima di lui aveva teorizzato in modo così chiaro un concetto tanto importante; solo Benjamin, nel 1923,1 riprenderà proprio da von Humboldt l’idea – e non solo questa, se, come credo di poter dire senza timore di esagerare, sono più d’uno i punti in cui Benjamin ha tenuto presente la lezione humboldtiana, pur rielaborandola nella sua personalissima visione – secondo cui la grande differenza tra traduzione e originale è

1 Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, 1923, comparso per la prima volta come introduzione alla sua traduzione di Tableaux parisiens di Baudelaire.

– 43 –

che il secondo può aspirare all’eternità, mentre la prima è immancabilmente destinata a perdere di valore. Una tale visione s’inserisce certo perfettamente nei canoni del pensiero romantico, secondo cui l’arte è in perenne divenire, ma soprattutto è la conseguenza diretta e coerente di quanto esposto nella parte relativa alla natura della lingua: se la lingua segue un percorso che la deve portare dal bastare alle cose più semplici al poter esprimere le più grandi e complesse, è evidente che è anche insito in lei un processo di invecchiamento, per cui determinate espressioni, costruzioni o modi d’uso cambiano il loro valore nel tempo. È un ulteriore esempio di come von Humboldt sia in grado di dare concretezza alle idee da lui espresse sul piano teorico.

Ma ciò che più trovo interessante e degno di attenta riflessione sono i passaggi in cui von Humboldt si sofferma – qui sì in modo un po’ più esteso – sull’importanza dello scambio interculturale per la crescita di tutti gli elementi del sistema. Il messaggio humboldtiano è estremamente coerente: la lingua forgia la realtà e ne è forgiata, quindi non è possibile pensare di tradurre per equivalenti, e la traduzione deve conservare tutti gli elementi di estraneità per permettere alla nuova lingua di forgiare una nuova realtà. È un circolo virtuoso, quello che l’autore propugna, forte della sua convinzione di un costante progresso della civiltà dato dal fecondo interscambio culturale. Ed è una concezione assolutamente moderna (ho appositamente sottolineato la somiglianza del suo pensiero con la teoria di Lotman, p. 38) e più che mai attuale; in un mondo dominato dalla globalizzazione, anche linguistica, – e dall’abuso di questa parola – si giunge sempre più spesso all’emer- gere dei campanilismi, a loro volta anche linguistici; senza qui addentrarmi in un campo non mio, mi piace sottolineare come dei pensatori prima dei nostri giorni, e in particolare uno studioso così attento alla situazione sociale e alla realtà politica e culturale dei suoi tempi come von Humboldt, abbiano posto l’accento del loro lavoro sull’enorme vantaggio che deriva dagli scambi tra le diverse civiltà. Certo, non bisogna sottovalutare i limiti di tale interscambio: se la cultura ricevente non è preparata in alcun modo alla conoscenza dell’altrui, il rischio derivante dalla lettura di un testo che sia stato tradotto secondo il principio dell’adeguatezza è la sua difficile comprensione, fino alla compromissione, nei casi più estremi, della

– 44 –

comunicazione; ma una cultura che sia debitamente istruita su come coprire la distanza cronotopica tra sé e l’autore, magari attraverso un metatesto che accompagni la traduzione, sarà infinitamente più ricca, più conscia di sé e più pronta ad adattarsi alle mutevoli situazioni storiche di una che abbia rifiutato gli elementi di diversità presenti nelle culture altrui. E se non esiste traduzione che possa trasmettere interamente il messaggio del prototesto, tanto da far dire a Nabókov che spera di generare nel lettore una sorta di frustrazione ottimale che lo porti a voler leggere il testo nella sua versione originale, ciò non sminuisce il valore di conoscenza dell’altrui insito nel processo traduttivo, tutt’altro: se una traduzione ci porta a voler conoscere l’originale, ci porta cioè a essere curiosi di un’altra realtà, ha adempiuto il proprio compito nel più alto dei modi. La traduzione è cultura del diverso, è zona di interscambio, membrana che permette l’osmosi tra l’interno e l’esterno, «modalità dell’esperienza di sé nell’esperienza dell’altro».1

1 Hans Robert Jauss, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt, Suhrkamp. (tr. it. Teoria e storia dell’esperienza estetica, Bologna, Il mulino, 1987)

– 45 –

Appendice

IL FRONTESPIZIO E ALCUNE PAGINE DALL’EDIZIONE DEL 1816

– 46 –

– 47 –

– 48 –

– 49 –

– 50 –

– 51 –

– 52 –

– 53 –

– 54 –

– 55 –

– 56 –

BIBLIOGRAFIA

APEL, FRIEDMAR, Il movimento del linguaggio. Una ricerca sul problema del tradurre (1982), a cura di Emilio Mattioli e Riccarda Novello, Milano, Marcos y Marcos, 1997

BERMAN, ANTOINE, La prova dell’estraneo. Cultura e traduzione nella Germania romantica (1984), a cura di Gino Giometti, Macerata, Quodlibet, 1997

HUMBOLDT, WILHELM VON, Aeschylos Agamemnon metrisch übersetzt von Wilhelm von Humboldt, Leipzig, bei Gerhard Fleischer dem Jüngern, 1816

JAKOBSÓN, ROMÀN, Language in Literature, a cura di Krystyna Pomorska e Stephen Rudy, Cambridge (Massachussetts), Belknap Press, 1987

JAKOBSÓN, ROMÀN, On linguistic aspects of translation (1959), in Jakobson 1987, p. 428-435

JAKOBSÓN, ROMÀN, The dominant (1935), in Jakobson 1987, p. 41-46 LOTMAN, JURIJ MIHÀILOVIČ, O semiosfere (1984), tr. it. La semiosfera, a

cura di S. Salvestroni, Venezia, Marsilio, 1985

NERGAARD, SIRI, La teoria della traduzione nella storia – testi di Cicerone, san Gerolamo, Bruni, Lutero, Goethe, vonHumboldt, Schleiermacher, Ortega y Gasset, Croce, Benjamin, Milano, Bompiani, 1993

OSIMO, BRUNO, Propedeutica della traduzione – corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001

OSIMO, BRUNO, Storia della traduzione – riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002

PEIRCE, CHARLES SANDERS, The Collected Papers of Charles Sander Peirce, vol. 1-6 a cura di Carles Hatshorne e Paul Weiss, vol. 7-8 a cura di Arthur W. Burks, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1931-1935, 1958

STEINER, GEORGE, After Babel. Aspects of language and translation (1992), Oxford, Oxford University Press, 1998

– 57 –

TOURY, GIDEON, Descriptive translation studies and beyond, Amsterdam, Benjamins, 1995

– 58 –

Desidero innanzitutto ringraziare chi mi ha dato la possibilità di continuare fino a questo punto i miei studi; ai miei genitori e a mio fratello va anche un ringraziamento per il sostegno nelle fasi di stesura del lavoro.

Sono grato al Professor Osimo e alla Professoressa Potthoff per aver accettato il ruolo di relatore e correlatrice; le loro indicazioni pratiche e di metodo sono state indispensabili in ogni passaggio, dalla scelta dell’argomento all’impostazione della tesi fino alle ultime revisioni. Non di minore aiuto sono state la loro disponibilità e cortesia, che hanno reso la collaborazione tanto proficua e piacevole.

Un ringraziamento particolare va poi a Nina, per gli sforzi profusi in tanti modi e tante occasioni, e a Chiara: senza il suo aiuto per il reperimento del materiale il mio lavoro non sarebbe stato possibile.

Grazie infine a chi mi ha aiutato nella revisione delle bozze e in ogni altro modo, e a tutti quanti mi sono stati vicini in questi anni, sostenendomi e rendendo quest’esperienza di studio tanto feconda anche dal punto di vista umano.

Nikolaj Sergeevič Trubeckoj visto dagli occhi di Roman Jakobson ANNALISA FRANZI

Nikolaj Sergeevič Trubeckoj visto dagli occhi di Roman Jakobson

ANNALISA FRANZI

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore professor Bruno OSIMO
Correlatrice professoressa Elena BROSEGHINI

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
ottobre 2007

© Annalisa Franzi 2007, per la tesi

© eredi di Roman Jakobson 1939 per l’articolo in tedesco

ABSTRACT
La tesi si basa sulla traduzione di un articolo scientifico del semiotico russo Roman Jakobson. Il testo originale è in lingua tedesca e tratta della biografia di un altro illustre esponente dell’intelligenciâ russa vissuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo: Nikolaj Sergeevič Trubeckoj. Il lavoro traduttivo effettuato non si limita al semplice passaggio dalla lingua del prototesto a quella del metatesto: vi è sottesa, infatti, una ricerca concettuale e terminologica fondamentale per la comprensione del lessico utilizzato da Jakobson, caratterizzato da un’alta specificità settoriale e da uno stile peculiarissimo: in una trama tessuta con estrema precisione, infatti, in Jakobson ogni singola parola si intreccia a quella successiva creando un discorso finemente coeso e coerente. Durante la stesura della traduzione, questa struttura precisa e raffinata del testo originale ha rivelato la propria complessità, portando alla luce una serie di problemi traduttivi la cui analisi e risoluzione sono risultate cruciali per la compattezza e comprensione finali del metatesto.

ENGLISH ABSTRACT
This thesis is based on the translation of a scientific article written by the Russian semiotist Roman Jakobson. The original text is in German and concerns the biography of another prominent representative of the Russian intelligenciȃ who lived between the end of the nineteenth and the beginning of the twentieth century, Nikolaj Sergeević Trubeckoj. The translation work is not restricted to the elementary switch from the language of the prototext to the language of the metatext, but implies terminological and conceptual research essential for the understanding of the vocabulary used by Jakobson, which is characterized by a highly specific technical language and an absolutely distinctive style. In fact, every single word chosen by Jakobson is weaved one with the other into a finely cohesive and coherent discourse, like in a spider’s web. While drafting the translation, the precise and sophisticated structure of the original text revealed its own complexity, bringing to light a series of translation problems, the analysis and solution of which turned out to be basic and extremely important for the final cohesion and comprehension of the metatext.

ABSTRACT AUF DEUTSCH
Inhalt meiner Diplomarbeit ist ein wissenschaftlicher Artikel, dessen Autor der russische Semiotiker Roman Jakobson ist. Der ursprüngliche Text ist deutsch geschrieben, es handelt sich hierbei um die Biografie eines anderen vorzüglichen Vertreters der russischen Intelligenz, Nikolaj Sergeevič Trubeckoj, der am Ende des 19. und zu Beginn des 20. Jahrhunderts lebte. Die Übersetzungsarbeit beschränkt sich nicht nur auf das Übertragen von einer Sprache in die andere, das heisst von der Sprache des Urtextes zu der Sprache des Metatextes, sondern sie impliziert eine terminologische und konzeptuelle Untersuchung, die grundsätzlich ist, um den besonders spezifischen Fachwortschatz und den selten eigenartigen Stil von Jakobson zu verstehen. Wie in einem sorgfältig geflochtenen Spinnennetz ist jedes einzelne Wort mit dem folgenden verknüpft, so dass ihr Zusammenhang eine Rede mit feiner Kohäsion und Konsequenz erschafft. Während des Verfassens der Übersetzung hat diese genaue und feine Struktur des ursprünglichen Textes ihre eigene Komplexität gezeigt, wobei eine Reihe von Übersetzungsproblemen aufgetaucht ist, deren Analyse und Lösung für die definitive Geschlossenheit und Verständnis des Metatextes entscheidend gewesen sind.

Sommario

0 Sommario 4
Ringraziamenti 6
1 1. Prefazione 7
1.1 Terminologia 7
1.1.1 Schnaderhüpfel 8
1.1.2 Bylina 9
1.1.3 Systemzwang 9
1.1.4 Steingeburtssagen 10
1.1.5 ur-/Ur- 11
1.1.6 Und-Verbindung 12
1.2 Riferimenti bibliografici 13
2 2. Traduzione con testo a fronte 14

Ringraziamenti

I miei ringraziamenti vanno in particolare alla Professoressa Elena Broseghini, i cui consigli e il cui sostegno sono stati provvidenziali per la riuscita di questa “opera prima”. Un grazie speciale dunque a lei, che, con grande disponibilità, mi ha dedicato il Suo tempo e la Sua pazienza.
Ringrazio anche il Professor Bruno Osimo.
Non poteva però mancare un ringraziamento personale, non dovuto, ma voluto e sentito: GRAZIE a Voi, Mamma e Papà, perché, malgrado tutto, mi siete sempre stati accanto.

1. Prefazione

Questa tesi consiste nella traduzione e nell’analisi di un saggio biografico sul linguista russo Nikolaj Sergeevič Trubeckoj, sulle preziose esperienze e drammatiche vicissitudini legate alla sua vita, al suo pensiero e al suo vastissimo lavoro di studioso e ricercatore.
Questa biografia, scritta nel giugno 1939 a Charlottenlund, Danimarca, e pubblicata successivamente in quello stesso anno in Acta Linguistica, rivista specializzata nel settore linguistico, si deve a un autore d’eccezione, non solo in quanto illustrissima figura all’interno dell’universo semiotico, ma anche in quanto collega e amico molto stretto di Trubeckoj. I due erano entrambi di madrelingua russa, entrambi uniti da analoghe vicende di fuga ed esilio ed entrambi accomunati dalla stessa passione per i fatti linguistici, oggetto di innumerevoli e approfonditi studi da essi condotti. Entrambi, inoltre, sono da considerarsi tra i maggiori esponenti del Circolo linguistico di Praga che fu fondato nel 1926, sviluppando l’analisi testuale strutturalista e ispirandosi alla teoria della lingua quale sistema unitario e rigoroso di segni legati da relazioni di stretta interdipendenza.
1.1 Terminologia

L’articolo di Jakobson è stato pubblicato su una rivista scientifica ed è un testo altamente specialistico, caratterizzato da una terminologia puntuale e dai tecnicismi settoriali della linguistica. Il lettore modello tanto dell’originale tedesco quanto del metatesto italiano è uno specialista o uno studente di livello molto avanzato di glottologia, linguistica o filologia.
Nella traduzione mi sono attenuta quanto più possibile a un rigore terminologico, evitando il ricorso a “sinonimi” o simili forme perifrastiche, preferendo invece restituire le ripetizioni volute del prototesto dovute al suo carattere scientifico specializzato.
Pur avendo dotato il testo di note del traduttore per permettere al lettore di continuare la lettura anche in presenza di termini russi e tedeschi ostici, in questo apparato metatestuale riporto alcuni dei termini principali a mio parere più difficili – o impossibili – da tradurre, insieme con una spiegazione del loro significato tecnico e/o storico.
1.1.1 Schnaderhüpfel

Il termine in questione si riferisce ai componimenti regionali popolari appartenenti alla tradizione locale del Tirolo, della Baviera e della Stiria. Sono epigrammi costituiti da una strofa che vengono improvvisati e cantati seguendo una precisa melodia: due persone o dei gruppi di persone si alternano improvvisando delle strofe cantate. Generalmente si tratta di argomenti scherzosi e, a volte, canzonatòri.
Nella lingua italiana è impossibile trovare un traducente per «Schnaderhüpfel». All’interno del panorama poetico italiano, questo tipo di componimento potrebbe venire paragonato agli stornèlli o alle tenzoni, ma, seppur simili, anche questi generi popolari presentano delle caratteristiche tali da differenziarli dal soggetto in questione, proprio per la culturospecificità della parola, che si configura come appartenente alla categoria che in traduttologia è definita – con una parola latina che però curiosamente ci giunge attraverso il russo – «realia».
Come già accennato in precedenza, gli Schnaderhüpfel, inoltre, si riferiscono a un genere diffuso esclusivamente entro confini ben delimitati e l’utilizzo del termine è decisamente ristretto.
Proprio per questa peculiarità, se avessi cercato di adattare la parola utilizzata da Jakobson alla cultura ricevente, l’impossibilità di trovare un traducente nella lingua italiana mi avrebbe posto davanti alla problematica e inevitabile questione del forte residuo traduttivo. Di conseguenza, mi è sembrato consono mantenere il termine tedesco anche nella traduzione italiana, accompagnandolo però da alcune note, al fine di renderlo più familiare al mio lettore e di offrirne una comprensione più immediata.

1.1.2 Bylina

Ho esteso lo stesso discorso al termine russo bylina, e, nonostante quest’ultimo abbia un uso più diffuso e, probabilmente, una maggiore possibilità di comprensione, anche in questo caso mi è sembrato utile fornire un breve chiarimento terminologico e storico all’interno della traduzione stessa, evitando di renderlo con una parola che ne desse solo approssimativamente il senso omologico, privandola del suo essenziale contesto russo.
1.1.3 Systemzwang

La traduzione esatta italiana del sostantivo Systemzwang potrebbe essere «obbligo di sistema», o una traduzione esplicativa potrebbe essere «sistema vincolato», considerando la definizione che ne viene data all’interno del monolingue tedesco, «gebundenes System». Malgrado l’assenza di un preciso traducente nella cultura italiana di tale termine, una traduzione letterale in questo caso non risulterebbe efficace né di grande incisività.
A questo punto, il mio cómpito è stato quello di ricercare, all’interno della lingua italiana, un concetto che potesse corrispondere in modo quantomeno approssimativo a quello espresso dal composto tedesco utilizzato da Jakobson.
Ho individuato la soluzione al mio problema nell’espressione «sistema modulare», concetto che appartiene al campo dell’architettura e che fa riferimento, in modo particolare, all’architettura romanica. Il sistema modulare, difatti, consiste nel legame che si crea fra le dimensioni di un insieme, nel momento in cui queste vengono subordinate a un’unica misura comune, ovvero, il modulo, che, stabilendo delle relazioni precise tra i vari blocchi dell’edificio, apporterà un’armonia ritmica alla composizione stessa.
Ho ritrovato il termine Systemzwang, nella sua forma tedesca, anche all’interno di vari testi di linguistica.
Dopo queste osservazioni, «sistema modulare» è stato il traducente per il quale ho optato, poiché l’ho ritenuto il più adatto in quanto riconducibile sia a un àmbito architettonico, quindi al retaggio del nonno di Trubeckoj, sia a un àmbito linguistico, quindi alla peculiarità del pensiero strutturalista di Trubeckoj stesso.
1.1.4 Steingeburtssagen

La traduzione del termine Steingeburtssagen è stata uno dei nodi traduttivi più difficili da sciogliere e, solo dopo una lunga ricerca e un pizzico di fortuna, mi si sono presentate diverse interpretazioni, tutte plausibili e molto suggestive, che mi appresto a illustrare qui di séguito. Devo puntualizzare, però, che proprio per la varietà del materiale e per la mancanza di dati più precisi e dettagliati, la scelta meno fallibile mi è sembrata quella di mantenere una certa genericità semantica e utilizzare la forma «nascite ex petra», traduzione esatta del termine tedesco, anche per evitare la possibilità di incappare in un errore interpretativo dovuto al desiderio di estrema specificità e connotatività.
– La prima interpretazione della parola Steingeburtssagen mi è stata offerta da Jacob Grimm nella sua opera Mitologia tedesca. Secondo quanto egli scrive, le Steingeburtssagen sarebbero delle saghe antichissime in cui si narra che gli antenati del popolo tedesco avrebbero avuto origine da elementi naturali, piante e rocce, quindi, che gli esseri viventi nascerebbero da un regno semi-vivente e che, attraverso il legame tra questo regno e gli uomini, verrebbe rafforzata l’inviolabilità delle foreste e delle montagne primigenie.
Lo stesso Grimm continua nell’analisi del termine Steingeburt e riporta un’altra saga nella quale la pietra appare nuovamente come generatrice di vita, la saga di Deucalione. In séguito a un diluvio scatenato da Giove per distruggere la stirpe umana, degenerata nella corruzione, il giovane Deucalione, figlio di Prometeo, e sua moglie Pirra, grazie alla propria purezza d’animo, sono gli unici sopravvissuti alla punizione divina. Ai due viene data la possibilità di esprimere un ultimo desiderio: alla richiesta di ripopolare la terra, ai due venne ordinato di gettare dietro di sé «le ossa delle proprie madri» (in realtà, le pietre, ossa della Madre Terra). Fu così che dalla pietra lanciata da Deucalione nacquero gli uomini e dalla pietra di Pirra nacquero le donne.
– Un’altra interpretazione di Steingeburt è offerta dal Vangelo in Matteo 3, 9. [«E non pensate di dir dentro di voi: Abbiamo per padre Abramo; perché io vi dico che Iddio può da queste pietre far sorgere de’ figliuoli ad Abramo».]
– Ma l’ultima ipotesi è forse quella più suggestiva, tenuto conto dell’interesse di Trubeckoj per la letteratura avestica: il rapporto intercorrente fra la nascita ex petra e il mito del dio Mitra. Mitra, secondo una leggenda, sarebbe uscito da una pietra, armato di una daga in una mano e impugnando una fiaccola nell’altra. La sua incarnazione sarebbe volta alla sconfitta del male cosmico e morale e, grazie al suo eroico operato, avrebbero avuto origine il mondo vegetale e quello animale, uomini compresi.
Di origine persiana, presente nella cultura dei Veda e degli Avesti, il mistero del mito di
Mitra potrebbe essersi diffuso con facilità anche nei paesi caucasici, a causa dei molteplici
contatti tra le due culture.

1.1.5 ur-/Ur-
Il prefisso ur-/Ur-, a seconda che sia anteposto ad aggettivi o a sostantivi, presenta, all’interno della lingua italiana, vari traducenti semanticamente collegati. Nel primo caso, la particella ur- può svolgere una funzione rafforzativa e assumere il significato di «molto, completamente». Qualora il prefisso Ur- si trovasse davanti a un sostantivo, il traducente italiano verrebbe ad assumere una connotazione temporale che denota lo stato iniziale e primigenio del sostantivo a cui fa riferimento.
In italiano, la parola tedesca in questione può essere tradotta con molteplici aggettivi: originario, primigenio, atavico, etc. Il traducente generalmente più utilizzato, forse sia per corrispondenza semantica che sintattica, è comunque il prefisso italiano «proto-», che denota anteriorità temporale, una fase iniziale e l’appartenenza a uno stadio remoto e unitario.
Con una frequenza crescente, l’utilizzo della particella ur- si sta diffondendo anche all’interno del vocabolario italiano e, di conseguenza, ho pensato che, anche nella traduzione del termine da me affrontata, avrei potuto lasciare il prefisso tedesco scelto da Jakobson; seguendo queste osservazioni e consapevole di chi sia il mio lettore modello, nella mia versione si ritrovano così, alternativamente, sia la traduzione italiana del termine, che il termine tedesco originario.
1.1.6 Und-Verbindung
Anche a una persona con conoscenze elementari della lingua tedesca, appare immediatamente comprensibile, nella sua semplicità, il significato della parola Und-Verbindung. Se, da una parte, la chiarezza sembra facilitarne la traduzione, dall’altra, apre le porte a molteplici possibilità. Infatti, a causa dell’impossibilità di trovare questa espressione all’interno di dizionari monolingui, tanto meno di quelli bilingui, ho dovuto spostare il campo di ricerca a un àmbito più ristretto, sperando di individuare la parola tedesca in analisi all’interno di testi ad argomento linguistico. I risultati hanno dimostrato che Und-Verbindung non è un termine appartenente alla linguistica, ma che, probabilmente, è stato coniato da Trubeckoj e riutilizzato da Jakobson per indicare un concetto legato alla fonologia, la quale, come scrive l’autore, sarebbe «[…] un’unità, una Gestalt ordinata e improntata a delle regole […]» e non un insieme di elementi meccanicamente legati tra loro. Così, non avendo trovato un traducente italiano e prendendo spunto dalla descrizione offerta da Jakobson, ho preferito lasciare l’espressione tedesca anche nel testo italiano, includendo, come nota del traduttore, una traduzione che ne dia il senso omologico e che, eventualmente, possa dissipare qualsiasi dubbio al lettore.

1.2 Riferimenti bibliografici

ARCHITETTURA, 1996, Enciclopedia Italiana dell’Architettura, Milano, Garzanti, ISBN 88-11-50465.
BIBBIA, 1974, La sacra Bibbia, Roma, Unione Editori Cattolici Italiani, Conferenza Episcopale Italiana.
BROCKHAUS, 1934, Der große Brockhaus, Leipzig, F. A. Brockhaus.
FILOSOFIA, 1981, Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti.
GRIMM JACOB, 1854, Deutsche Mythologie, Berlin.
OSIMO Bruno, 2001, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, ISBN 88-203-2935-2.
OSIMO Bruno, 2002, «Traduzione della cultura», in Piretto, Gian Piero, Parole, immagini, suoni di Russia. Saggi di metodologia della cultura, Milano, Unicopli, 2002, ISBN 88-400-0810-1.
PEIRCE Charles Sanders, 1931-1935, 1958, The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1-6, a cura di Charles Hartshorne and Paul Weiss, vol. 7-8 a cura di Arthur W. Burks, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press.
POPOVIČ Anton, 1975, La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3511-5.
RELIGIONI, 1993, Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, ISBN 88-06-13266-0.
SCIENZE, 1950, Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani.
TOURY Gideon, 1995, Descriptive Translation Studies and Beyond, Amsterdam, Benjamins, ISBN 90-272-1606-1.

2. Traduzione con testo a fronte

NIKOLAJ SERGEEVIC TRUBETZKOY
(16. April 1890 – 25. Juni 1938)

Beim ersten internationalen Linguistenkongress sagte Meillet auf Trubetzkoy hinweisend: “Er ist der stärkste Kopf der modernen Linguistik”. – “Ein starker Kopf”, bestätigte jemand. – “Der stärkste”, widerholte nachdrücklich der scharfsichtige Sprachforscher.
In der Geschichte des hohen russischen Adels haben recht wenige Geschlechter so merkliche und dauernde Spuren im öffentlichen und geistigen Leben des Landes hinterlassen. Der Vater des Verstorbenen, Fürst Sergej Trubetzkoy (1862-1905), Professor und Rektor der Moskauer Universität, war ein hervorragender, tiefdenkender Philosoph. Der Gedanke des Logos in seinem historischen Werden und Wandeln ist sein Grundthema. Einem aufmerksamen Beobachter wird der intime Zusammenhang zwischen dieser Lehre und der Frage des Sohnes nach dem inneren Sinne der Sprachumgliederung kaum entgehen. Der Bruder des Philosophen und ebenfalls Philosoph, Evgenij Trubetzkoy, schildert kunstvoll in seinen Erinnerungen (Iz prošlogo, Wien, s. a.) das Gemeinsame und das Unterscheidende an drei Generationen seines Geschlechtes: “von einem Gedanken und einem Gefühl restlos erfasst, legt man in diesen Gedanken eine Temperaments- und Willenskraft hinein, die keine Hindernisse kennt und deshalb unbedingt das Ziel erreicht”.
Aber der Inhalt des dominierenden Gedankens wechselt mit jeder Generation. Der Urgross¬vater von Nikolaj Trubetzkoy war von selbstgenügsamen architektonischen Linien beherrscht, sein Alltag wurde ihrem strengen Stil unterworfen, “und deswegen gab es im Leben keinen grösseren Systematiker”. Im Sein des Grossvaters “verinnerlichte sich die Baukunst und verwandelte sich in eine anderartige, magische Architektur, die der Klänge” – es kam die Tonkunst. In der nächsten Generation “trat als Tochter der Musik die Philosophie auf”. Und schliesslich, fügen wir hinzu,

NIKOLAJ SERGEEVIČ TRUBECKOJ
(16 Aprile 1890 – 25 Giugno 1938)

In occasione del primo Congresso internazionale dei linguisti, Meillet si espresse nei confronti di Trubeckoj con le seguenti parole: «È la testa più brillante e tenace della linguistica moderna». «Una testa brillante e tenace», assentì qualcun altro. «La più brillante e tenace», ripeté con enfasi l’acuto linguista.
In tutta la storia dell’aristocrazia russa solo pochissime casate hanno realmente influenzato in modo così significativo e duraturo la vita pubblica e intellettuale del paese. Il padre dello scomparso, il principe Sergej Trubeckoj (1862-1905), professore e rettore all’Università di Mosca, fu un filosofo straordinario dalla grande profondità di pensiero. Il tema principale da lui affrontato è l’idea di logos, nel suo divenire e nelle sue trasformazioni storiche. Un osservatore attento non mancherà di notare l’intimo rapporto che lega la teoria del padre all’interrogativo formulato dal figlio sul significato profondo del ristrutturarsi del linguaggio. Nelle sue memorie, il fratello del filosofo, Evgenij Trubeckoj, a sua volta filosofo, tratteggia con grande maestria (Iz prošlogo, Vienna, sine anno) ciò che accomunava e divideva tre generazioni della sua stirpe: «afferràti da un unico, esclusivo pensiero e sentire, viene profusa in questi pensieri una passionalità e una volontà tali da abbattere ogni ostacolo e raggiungere, di conseguenza, senza fallo la meta».
Ma il contenuto del pensiero dominante cambia di generazione in generazione. Il bisnonno di Nikolaj Trubeckoj era profondamente attratto dalle linee architettoniche autosufficienti; tutta la sua quotidianità iniziò a ruotare intorno al loro stile severo «e, proprio per questo motivo, non esistette un sistematico più grande». Nell’esistenza del nonno, invece, «l’architettura si interiorizzò e si trasformò in un’architettura di altro tipo, un’architettura magica, l’architettura degli accordi» e divenne così arte musicale. Nella generazione successiva, «emerse come figlia della musica, la filosofia». In fine, soggiungiamo noi, nel mondo creativo di Trubeckoj, l’idea ultraterrena di logos

wird in der schöpferischen Welt Nikolaj Trubetzkoy’s die überirdische Idee des Logos durch die verkörperte, empirische Wortsprache ersetzt. Und wenn auch der Sprachgelehrte sich von jedem allzuabstrakten Philosophieren entschieden lossagte, findet man kaum in der gegenwärtige Linguistik eine andere Lehre, die dermassen von wahrem philosophischen Geist durchdrungen ist und so ergiebig die Philosophie fördert. Mit dem aufrührerischen Neuerungsgeist vereinigt Trubetzkoy eine urwüchsige Kraft der Tradition; ja es lebt in seinem Lebenswerke nicht nur die Logosproblematik seines Vaters, sondern auch der ererbte Musikgeist, der ihn zur Kunstsprache, zum Vers und zwar ausschliesslich zum Singvers lockt und seine feinen Beobachtungen über die Wechselbeziehungen zwischen dem sprachlichen und musikalischen Rhythmus lenkt. Die russischen Bylinen und Schnaderhüpfel, das mordwinische und polabische Volkslied, Puškins Nachklänge der serbischen Epen und die altkirchenslavische Hymne enthüllen ihm ihre Schallgesetze. Aber auch die architektonische Einstellung des Urahns lebt in N. S. Trubetzkoy fort. Sie kommt in Form und Inhalt zum Vorschein: einer¬seits in seinem klassisch klaren Still und besonders in der durchsichtigen, harmonischen Komposition, andererseits in seiner seltenen Klassifizier¬ungskunst, die einen genialen und leidenschaftlichen Systematiker offenbart. Man könnte nicht diesen “Systemzwang” als Grundsatz seines Schaffens genauer beschreiben, als es Trubetzkoy selbst gemacht hat. In seinem Buch K probleme russkogo samopoznanija (1927) mahnt er jeden Volksgenossen zur persönlichen und nationalen Selbsterkenntnis und insbesondere zum Anerkennen und Begreifen des turanischen Einschlags, den der Verfasser als einen massgebenden Bestandteil der russischen Geschichte und Psychologie hervorhebt (vgl. bes. seine unter den Initialen I. R. herausgegebene Broschüre Nasledie Čingisxana, Berl. 1925), und er schildert diesen “turanischen Geist” mit einer geradezu introspektiven Überzeugungskraft, die Meillet so bewundert hat:
Der turanische Mensch unterwirft jeden Stoff einfachen und schematischen Gesetzen, die ihn zu einer Ganzheit zusammenschmelzen und dieser Ganz¬heit eine gewisse schematische Klarheit und Durchsichtigkeit verleihen. Er grübelt nicht gerne an überfeinen und verwickelten Einzelheiten und

venne sostituita dalla linguistica empirica incarnata. E se anche il linguista abbandonò recisamente i filosofismi troppo astratti, nella linguistica contemporanea si faticherebbe a individuare un’altra dottrina compenetrata in ugual misura da uno spirito filosofico autentico e capace, in modo tanto fecondo, di promuovere la filosofia. Allo spirito innovativo e sovvertitore, Trubeckoj unisce la forza naturale primigenia della tradizione; nella sua opera, opera di tutta una vita non si ritrova unicamente la problematica del logos affrontata dal padre, ma anche il retaggio dello spirito musicale che lo porta ad avvicinarsi al linguaggio letterario e ai versi – per essere più precisi esclusivamente al verso melodico – e che lo guida verso osservazioni acute sulle correlazioni tra il ritmo della lingua e quello musicale. Le byliny [componimenti dell’epos popolare russo; N.d.T.] e gli Schnaderhüpfel [epigrammi canori di carattere scherzoso; N.d.T.], i canti popolari in lingua mordvina e polaba, gli echi puškiniani delle epopee serbe e gli inni ecclesiastici paleoslavi gli rivelano le proprie leggi foniche. Ma in N. S. Trubeckoj sopravvive l’approccio architettonico dell’antenato, sia nella forma che nel contenuto: per un verso nel suo stile classico e nitido e, in particolar modo, nella composizione limpida e armonica, per l’altro nella sua arte classificatoria fuori del comune, che rivela in lui la natura di un geniale e passionale sistematico. Nessuna definizione di sistema modulare quale principio fondante della sua creatività risulterebbe più appropriata di quella fornita da Trubeckoj stesso. Nel suo libro K probleme russkogo samopoznaniâ [Il problema dell’autoconoscenza russa; N.d.T.] (1927) Trubeckoj esorta tutti i connazionali alla conoscenza di sé e della nazione e, in modo particolare, al riconoscimento e alla comprensione dell’influenza turanica, indicata dall’autore come elemento determinante per la storia e la psicologia russe (cfr. soprattutto la sua brochure Nasledie Čingishana [L’eredità di Gengis Khan.], pubblicata a Berlino nel 1925 con lo pseudonimo «I. R.») e, in quest’opera, descrive tale «spirito turanico» con una persuasività tanto amata da Meillet persino introspettiva:
L’uomo turanico riesce a padroneggiare ogni dato di conoscenza per mezzo di leggi semplici e schematiche, che, a mo’ di crogiolo, lo riportano a un’integrità/totalità e conferiscono a detta totalità una certa chiarezza e befasst sich lieber mit deutlich wahrnehmbaren Gebilden, die er in klare und schlichte Schemata gruppiert. […] Diese Schemata sind kein Ergebnis einer philosophischen Abstraktion. […] Sein Denken und seine ganze Wirklichkeitsauffassung finden spontan in den symmetrischen Schemata eines sozusagen unterbewussten philosophischen Systems Platz. […] Es wäre aber ein Fehler zu denken, der Schematismus dieser Mentalität lähme den breiten Schwung und Ungestüm der Phantasie. […] Seine Phantasie ist weder dürftig, noch feig, sie hat im Gegenteil einen kühnen Schwung, aber die Einbildungskraft ist nicht auf den minuziösen Ausbau und nicht auf das Auftürmen von Einzelheiten gerichtet, sondern sozusagen auf die Entwick¬lung in Breite und Länge; das derartig aufgerollte Bild wimmelt nicht von mannigfaltigen Farben und Ubergangstönen, sondern ist in Grundtönen, in breiten, bisweilen riesenhaft breiten Pinselstrichen gemalt. […] Er liebt die Symmetrie, die Klarheit und das stabile Gleichgewicht.
Trubetzkoy sah ein, dass dieser Geist der allumfassenden strengen Systematik für die ursprünglichsten Errungenschaften der russischen Wissenschaft und für sein eigenes Schaffen im besonderen höchst ken¬zeichnend ist. Er besass eine seltsame und leitende Fähigkeit, in allem Wahrgenommenen das Systemartige aufzudecken (so hat er, schon tod¬krank, wenige Wochen vor dem Ende, auf den ersten Blick die Phonemen¬reihen des Dunganischen und des Hottentottischen treffend erraten, welche für die angesehenen Fachkenner dieser Sprachen unnachgiebig blieben). Auch sein merkwürdiges Gedächtnis war stets auf das Systemar¬tige gerichtet, die Tatsachen lagerten sich als Schemata ab, die sich ihrerseits zu wohlgestalteten Klassen ordneten. Nichts war ihm dabei fremder und unannehmbarer als eine mechanische Katalogisierung. Das Gefühl eines inneren, organischen Zusammenhangs der einzuteilenden Elemente verliess ihn nie, und das System blieb nie, von der übrigen Gege¬benheit gewaltsam entrissen, in der Luft hängen. Im Gegenteil erschien ihm die gesamte Wirklichkeit als ein System der Systeme, eine grossartige hierarchische Einheit von vielfachen Übereinstimmungen, deren Bau seine Gedanken bis zu den letzten Lebenstagen fesselte. Er war für eine ganzheitliche Weltauffassung innerlich vorausbestimmt, und einzig im Rahmen der strukturalen Wissenschaft hat er sich selbst tatsächlich vollständig gefunden. Gleich empfindlich für sprachliche Fakta und für neue sprachwissenschaftliche Gedanken, fühlte er mit Scharfblick die für seinen folgerichtigen und eigenartigen Systemaufbau geeignet waren.

limpidezza schematiche. Non ama rimuginare su sottigliezze e dettagli intricati e, quando pensa, di preferenza si occupa di configurazioni mentali palesemente percettibili, che raggruppa secondo schemi chiari ed elementari. […] Questi schemi non sono il risultato di un processo di astrazione filosofica. […] Il suo pensiero e la sua concezione intera della realtà si collocano spontaneamente all’interno degli schemi simmetrici di un sistema filosofico, per così dire, subconscio. […] Ma sarebbe un errore pensare che lo schematismo di questa mentalità paralizzi gli slanci e l’irruenza della fantasia. […] La sua fantasia non è stenta né pavida, al contrario è animata da un empito ardito, sebbene tale forza immaginativa non sia rivolta a un’elaborazione minuziosa e all’accumulo verticale di particolari, ma, si potrebbe dire, allo sviluppo in ampiezza ed estensione; così il quadro dispiegato non brulica di miriadi di colori o di sfumature, ma presenta le tonalità fondamentali, con ampie pennellate che, a volte, diventano gigantesche. […] Ama la simmetria, la chiarezza, l’equilibrio e la stabilità.

Trubeckoj si rese conto che questo spirito di una severa sistematica di ampio respiro caratterizza in modo estremamente peculiare le conquiste iniziali della scienza russa e, in particolar modo, la sua stessa creatività. Egli possedeva una capacità unica e dominante che gli permetteva di scoprire l’elemento sistematico nella congerie di tutti i fenomeni percepiti (in questo modo, alcune settimane prima della sua morte, quando era già in fin di vita, al primo sguardo scoprì, cogliendo nel segno, la serie fonematica dell’idioma di Dungan e ottentotto, che rimane una pietra miliare per i più autorevoli specialisti di queste lingue). Anche la sua straordinaria memoria era sempre rivolta all’elemento sistematico e i fatti reali si disponevano come schemi che a loro volta si inserivano in classi ben ordinate. Non esisteva nulla a lui più estraneo e inaccettabile di una catalogazione meccanica. Non lo abbandonò mai il sentimento di un legame interno e organico tra gli elementi classificabili, e, per lui, il sistema non rimaneva mai campato in aria e strappato con violenza dal sostrato fattuale. Al contrario, la realtà nella sua totalità gli appariva come un sistema dei sistemi, una grandiosa unità gerarchica formata da molteplici corrispondenze la cui struttura avvinse i suoi pensieri fino all’ultimo giorno di vita. Aveva un’intima predisposizione per una concezione olistica del mondo e solamente all’interno della corrente strutturalista si sentì completamente a suo agio. Con la stessa sensibilità per i fenomeni della lingua e per le concezioni linguistiche nuove, con

In einer unveröffentlichten und unbeendeten autobiographischen Skizze erzählt Trubetzkoy: „Meine wissenschaftlichen Interessen erwachten sehr früh, noch im Alter von 13 Jahren, wobei ich ursprünglich hauptsächlich Volks- bzw. Völkerkunde studierte. Ausser der russischen Volksdichtung interessierte ich mich besonders für die finnougrischen Völker Russlands. Seit dem Jahre 1904 besuchte ich regelmässig alle Sitzungen der Moskauer Ethnographischen Gesellschaft, mit derem Präsidenten Prof. V. F. Miller (dem bekannten Forscher auf dem Gebiete des russischen Volksepos und der ossetischen Sprache) ich in persönliche Beziehungen trat.“ Es war eine Blütezeit der russischen Volkskunde und Folkloristik, von der ruhmvollen historischen Schule Millers geleitet. Die ungemein lebens¬kräftige, archaische und vielsprachige Volksüberlieferung Russlands, ihre altertümlichen ethnischen Kreuzungen, ihre bunten und eigenartigen Formen, ihr ständiger Einfluss auf das Schrifttum und ihr reicher histo¬rischer und mythologischer Gehalt boten den Forschern eine uner¬schöpfleche Quelle. Dieser Problematik widmete sich begeistert der heran¬wachsende Trubetzkoy; der Mittelschulbesuch blieb ihm erspart, er studierte zu Hause, gewann dadurch viel freie Zeit für seine wissenschaft¬lichen Erstlingsversuche und war mit fünfzehn Jahren ein reifer Forscher. Er veröffentlichte im Organ der erwähnten Gesellschaft “Ètnografičeskoe Obozrenie” ab Jahr 1905 eine Reihe bemerkenswerter Studien über die Spuren eines gemein-ugrofininschen Totenkultritus im westfinnischen Volksliede, über eine nordwestsibirische heidnische Göttin in den alten Reiseberichten und im Volksglauben der heutigen Vogulen, Ostjaken und Votjaken, über die nordkaukasischen Steingeburtssagen usw. Auch das Sprachstudium ist für Trubetzkoy nur ein Hilfsmittel der historischen Ethnologie und besonders der Religionsgeschichte. Diese Fragen haben ihn übrigens auch später stets angelockt, wie es beispiels¬weise seine Bemerkungen über die Spuren des Heidentums im polabischen Wortschatz (ZfsIPh I, 153 ff.) oder über die Iranismen der nordkauka¬sischen Sprachen (MSL XXII, 247 ff.) verraten, und noch im letzten Lebensjahr plante er, anlässlich des neusten, seiner Überzeugung nach ganz widersinnigen Versuches, die Echtheit des Igorliedes zu bestreiten, eine Studie über die heidnischen Namen
perspicacia avvertì quelle che erano adatte alla logicità e all’originalità della sua struttura sistematica.
In un abbozzo autobiografico incompiuto e inedito, Trubeckoj afferma:
I miei interessi scientifici si sono manifestati molto presto, già all’età di tredici anni, quando io, in origine, mi dedicavo principalmente allo studio del folclore e dell’etnologia. Al di là della poesia popolare russa, nutrivo un interesse particolare per i popoli ugrofinnici della Russia. Dal 1904 presi regolarmente parte a tutti gli incontri della Società etnografica di Mosca, entrando in rapporto stretto con il Presidente, il professor V. F. Miller (famoso ricercatore nel campo dell’epica russa e della lingua osseta).
Era un’epoca fiorente per l’etnologia e il folclore russi, campi di studio in cui la gloriosa e storica scuola di Miller aveva avuto una funzione di guida. Le tradizioni popolari incredibilmente vitali, arcaiche e multilinguistiche della Russia, le sue antiche ibridazioni etniche, la sua policromia e le sue forme peculiari, la sua influenza costante sulla letteratura e la sua ricchezza storica e mitologica rappresentarono una fonte inesauribile per i ricercatori. Il Trubeckoj adolescente si dedicò a questa tematica con crescente entusiasmo; fu dispensato dal frequentare la scuola secondaria, studiò a casa, riuscendo così a conquistare molto tempo libero da profondere nei suoi primi esperimenti scientifici. All’età di quindici anni era un ricercatore formato. A partire dal 1905, sulla rivista della scuola sopra citata, che recava il titolo Ètnografičeskoe obozrenie [Rassegna etnografica; N.d.T], Trubeckoj iniziò a pubblicare una serie di studi cospicui sulle tracce di un rito funerario delle comunità ugrofinniche testimoniato nei canti popolari dei finni occidentali, su una dea pagana della Siberia nord-occidentale descritta negli antichi resoconti di viaggio e nelle credenze popolari degli odierni Voguli, degli Ostâki e dei Vostâki, sulle saghe delle nascite ex petra di origine nord-caucasica e così via. All’inizio, anche lo studio della lingua fu solo un espediente per lo studio dell’etnologia storica e, soprattutto, per la storia della religione. Queste problematiche, tra l’altro, continuarono ad attrarlo anche in seguito come rivelano, per esempio, le sue osservazioni sulle tracce del paganesimo nel lessico polabo (Zeitschrift für slavische Phylologie I, 153 sgg.) o sugli iranismi delle lingue nord-caucasiche (Mémoires de la Société de linguistique, XXII, 247 sgg.); ancora, negli ultimi anni della
dieses wertvollen Denkmals (den Gottesnamen Dažьbogъ legte er als ein archaisches Compositum mit der Bedeutung “gib Reichtum” aus und gleichfalls die parallele Bildung St[ь]ribogъ).
Zum Studium der kaukasischen Sprachen wurde der junge Trubetzkoy von Miller angeregt und unter dem Einfluss des Ethnographen und Archäologen S. K. Kuznecov begann er sich mit den finnisch-ugrischen und paläosibirischen Sprachen zu befassen und gewann dabei allmählich ein unmittelbares Interesse für die vergleichende und allgemeine Sprach¬wissenschaft. Er stellte auf Grund der alten Reiseberichte ein Wortver¬zeichnis nebst einem kurzen grammatischen Abriss der gegenwärtig aussterbenden kamtschadalischen Sprache auf und entdeckte kurz vor seiner Matura “eine Reihe von auffallenden Entsprechungen zwischen dem Kamtschadalischen, Tschuktschisch-Korjakischen einerseits und dem Samojedischen andererseits, nämlich auf dem Gebiete des Wortschatzes”. Seine Arbeit brachte ihn in einen lebhaften wissenschaftlichen Brief¬wechsel mit den drei Pionieren der ostsibirischen Volks- und Sprach¬kunde, Joxel’son, Šternberg und besonders Bogoraz; als der letzte aber aus Petersburg nach Moskau kam und seinen gelehrten Korrespondenten persönlich kennen lernte, war er direkt beleidigt zu erfahren, es handle sich um einen Schulknaben!
Trubetzkoy trat 1908 an die historisch-philologische Fakultät der Moskauer Universität ein. Ursprünglich hatte er die Völkerkunde im Auge, da sie aber im Lehrprogramm dieser Fakultät fehlte, wählte er, um “haup¬sächlich Völkerpsychologie, Geschichtsphilosophie und die methodolo¬gischen Probleme zu studieren”, die philosophisch-psychologische Ab¬teilung; als er aber sah, dass er sich hier nicht einlebe, und dass ihn der linguistische Interessenkreis immer fester halte, ging er im dritten Semes¬ter, zur aufrichtigen Betrübnis seiner bisherigen Lehrer und Kollegen, die in ihm die grosse Hoffnung der russischen Philosophie begrüssten, in die sprachwissenschaftliche Abteilung über. Doch blieb ihm für das ganze Leben eine gediegene philosophische Schulung und ein hegelianischer Einschlag, den besonders die suggestive Wirkung seines geistvollen Kollegen

sua vita, egli organizzò, in occasione del più recente e, a detta sua, totalmente assurdo tentativo di contestare l’autenticità del Canto della schiera di Igor [è in questo contesto che, per la prima volta, si incontra il termine byliny, nonostante questo sia stato poi introdotto nel 1840 nella terminologia scientifica per designare il canto epico orale sorto nell’antica Russia in ambienti popolari nel secolo IX; N.d.T.], una ricerca sui nomi pagani di questo prezioso monumento letterario (Trubeckoj interpretò il nome del dio Dažъbogъ come un nome arcaico composto, avente il significato di «donatore di ricchezza» e, allo stesso tempo, la formazione parallela St[ъ]ribogъ).
Fu Miller a incoraggiare il giovane Trubeckoj allo studio delle lingue caucasiche e, sotto l’influsso dell’etnografo e archeologo S. K. Kuznecov, Trubeckoj iniziò ad occuparsi degli idiomi ugrofinnici e paleosiberiani e, in questo modo, a nutrire a poco a poco un interesse diretto per la linguistica generale e comparata. Sulla base di vecchi resoconti di viaggio, stilò un glossario insieme a un breve compendio grammaticale della lingua oggigiorno in estinzione della Kamčatka e, poco prima di finire il liceo, scoprì «una serie di corrispondenze vistose tra il gruppo delle lingue čukotko-kamčatke da una parte e quello delle lingue samoiede dall’altra, per l’appunto nel campo del lessico». Il suo lavoro lo portò a instaurare una vivace corrispondenza scientifica con tre pionieri del folclore e della linguistica della Siberia orientale, Iohel´son, Šternberg e, soprattutto, Bogoraz; ma non appena quest’ultimo si recò da Pietroburgo a Mosca e conobbe il suo erudito corrispondente di persona, rimase particolarmente offeso di scoprire che si trattava di un ragazzetto che non aveva ancora terminato gli studi!
Nel 1908 Trubeckoj iniziò a frequentare la facoltà di storia e filologia dell’Università di Mosca. All’inizio pensava di studiare folclore, ma, dato che non compariva tra gli insegnamenti previsti, scelse il dipartimento di filosofia-psicologia per poter «studiare principalmente la demopsicologia, la filosofia della storia e i problemi metodologici». Ma non appena vide che lì non riusciva ad adattarsi e che la sfera linguistica continuava ad avvincerlo sempre più, durante il terzo semestre si trasferì al dipartimento di linguistica con sincero dispiacere da parte di coloro che, fino
und Freundes, des frühverstorbenen Samarin, befestigt hat. Auch die Grundfragen der Völkerpsychologie, Soziologie und Historio¬sophie haben nie aufgehört, den Forscher zu beschäftigen. Die seit den Schuljahren geplante Trilogie über die Kulturproblematik, -wertung, -entwicklung und über ihre nationale Fundierung, mit besonderer Rücksicht auf die russischen Verhältnisse, wurde teilweise in der spannen¬den, auch ins Deutsche und Japanische übersetzten Monographie Europa und die Menschheit (Evropa i čelovečestvo, 1920) verwirklicht, teils in den Studien der erwähnten russischen Sammelschrift Zum Problem der russischen Selbsterkenntnis. Diesen Arbeiten folgte eine Reihe Aufsätze über Nationalitätenfrage, über Kirche und über Ideokratie, von denen nur ein Teil veröffentlich wurde, und das Meiste zugrundegegangen ist. Die Erwägungen Trubetzkoys, gegen jede naturalistische (sei es biolo¬gische oder geradlinig evolutionistische) Auffassung der Geisteswelt und gegen jeden überlegenen Egozentrismus scharf gerichtet, wurzeln zwar in der russischen ideologischen Tradition, brachten aber viel Persön¬liches und Bahnbrechendes und wurden besonders durch die reiche sprachwissenschaftliche Erfahrung des Verfassers und durch seine enge, beinahe zwanzigjährige Mitarbeit mit dem hervorragenden Geographen und Kulturhistoriker P. N. Savickij vertieft und zugespitzt. Die Lehre der beiden Denker über die Eigenart der russischen (eurasischen) geographi¬schen und historischen Welt gegenüber Europa und Asien wurde zur Grundlage der sogen. eurasischen ideologischen Strömung.
Trubetzkoy absolvierte Anfang 1913 das Programm der sprachwissen¬schaftlichen Abteilung. Die Fakultät billigte seine Arbeit über die Bezeich¬nungen des Futurums in den wichtigsten indogermanischen Sprachen, deren Nachklang (“Gedanken über den lateinischen a-Konjunktiv”) in der Festschrift Kretschmer zu finden ist, und nahm seine Angliederung an das Universitätslehrkorps zwecks Vorbereitung zur akademischen Lehr¬tätigkeit einstimmig an.

ad allora, erano stati i suoi insegnanti e colleghi, coloro che vedevano in lui una grande speranza per la filosofia russa. Nonostante ciò, gli rimase per tutta la vita una solida preparazione filosofica e un’impronta hegeliana, rafforzata soprattutto dall’influenza e dalle suggestioni esercitate dal suo arguto collega e amico Samarino, morto in giovane età. Ma anche le questioni fondamentali relative alla demopsicologia, sociologia e storiosofia non hanno mai smesso di interessare il ricercatore. La trilogia progettata sin dagli anni scolastici sulla problematica, sul valore e sullo sviluppo delle culture e sui loro fondamenti nazionali, con un particolare riguardo per le vicende russe, venne realizzata in parte nell’affascinante monografia L’Europa e l’umanità. La prima critica all’eurocentrismo (Evropa i čelovečestvo, 1920), saggio tradotto anche in tedesco e in giapponese, e in parte negli studi della raccolta russa già menzionata Zum Problem der russischen Selbsterkenntnis [Il problema dell’autocoscienza russa; N.d.T.]. Delle opere che fecero seguito a questi lavori, riguardanti il problema della nazionalità, la chiesa e l’ideocrazia, solo alcune vennero pubblicate e la maggior parte è andata distrutta. Le riflessioni di Trubeckoj, aspramente dirette contro ogni concezione naturalistica del mondo dello spirito (sia essa biologica o piattamente evoluzionistica) e contro ogni egocentrismo arrogante, affondavano sì le proprie radici nella tradizione ideologica russa, ma erano permeate di elementi fortemente personali e pionieristici e si approfondirono e affinarono sempre più soprattutto grazie alla ricca esperienza linguistica dell’autore e grazie alla stretta collaborazione, durata quasi vent’anni, con il brillante geografo e studioso della storia della civiltà, P. N. Savickij. Le dottrine di entrambi i pensatori sulla peculiarità del mondo storico e geografico russo (eurasiatico) rispetto all’Europa e all’Asia divennero le fondamenta della cosiddetta corrente ideologica «eurasiatica».
All’inizio del 1913, Trubeckoj si laureò alla facoltà di linguistica, che approvò il suo lavoro sui caratteri distintivi del tempo futuro all’interno delle più importanti lingue indoeuropee, la cui risonanza («pensieri sulla forma congiuntiva in -a latina») si può trovare nella Festschrift
“Der Umfang”, schreibt Trubetzkoy, “und die Richtung des Unterrichtes in der sprachwissenschaftlichen Abteilung befriedigte mich nicht: mein Hauptinteresse lag ausserhalb der indoger¬manischen Sprachen. Wenn ich mich aber doch für diese Abteilung entschloss, so tat ich es aus folgenden Gründen: Erstens war ich schon damals zur Überzeugung gekommen, dass die Sprachwissenschaft der ein¬zige Zweig der “Menschenkunde” sei, welcher eine wirkliche wissenschaft¬liche Methode besitzt, und dass alle anderen Zweige der Menschenkunde (Volkskunde, Religionsgeschichte, Kulturgeschichte usw.) nur dann aus der “alchemischen” Entwicklungsstufe in eine höhere übergehen können, wenn sie sich in Bezug auf die Methode nach dem Vorbilde der Sprach¬wissenschaft richten werden. Zweitens wusste ich, dass die Indogermanis¬tik der einzige wirklich gut durchgearbeitete Teil der Sprachwissenschaft ist und dass man eben an ihr die richtige sprachwissenschaftliche Methode lernen kann. Ich ergab mich also mit grossem Fleisse den durch das Programm der sprachwissenschaftlichen Abteilung vorgeschriebenen Studien, setzte aber dabei auch meine eigenen Studien auf dem Gebiete der kaukasischen Sprachwissenschaft und der Folkloristik fort. Im Jahre 1911 forderte mich Prof. V. Miller auf, einen Teil der Sommerferien auf seinem Gute an der kaukasischen Küste des Schwarzen Meeres zu ver¬bringen und in den benachbarten tcherkessischen Dörfern die tscherkes¬sische Sprache und Volksdichtung zu erforschen. Ich leistete dieser Aufforderung Folge und setzte auch im Sommer 1912 meine tscher¬kessischen Studien fort. Es gelang mir, ein ziemlich reichhaltiges Material zu sammeln, dessen Bearbeitung und Veröffentlichung ich bis nach der Absolvierung der Universität verschieben musste. Grossen Nutzen bekam ich bei meiner Arbeit vom persönlichen Verkehr mit Prof. Miller, dessen Ansichten über Sprachwissenschaft freilich etwas altmodisch waren, der aber als Folklorist und als tüchtiger Kenner der ossetischen Volkskunde mir viele wertvolle Ratschläge und Anweisungen gab.”
Die Fortunatovsche Schule, die damals beinahe alle linguistischen Lehrstühle der Moskauer Universität beherrschte, wurde von Meillet sehr richtig als die höchste Verfeinerung und philosophische Vertiefung des junggrammatischen Verfahrens bezeichnet.

Kretschmer e poi, all’unanimità, egli fu ammesso nel corpo dei docenti universitari per prepararsi all’attività didattica a livello accademico.
Trubeckoj scrisse:
L’ambito e l’orientamento delle lezioni al dipartimento linguistico non soddisfacevano le mie esigenze: il mio interesse principale non si limitava certo alle lingue indoeuropee. Ma quando decisi di iscrivermi a questo indirizzo, lo feci per i seguenti motivi: innanzitutto, già allora ero arrivato alla convinzione che la linguistica fosse l’unico settore dell’“antropologia” basato su un vero metodo scientifico, e che tutti gli altri rami di questa scienza (folclore, storia della religione, storia della civiltà ecc.) potessero fare un salto da uno stadio evolutivo “alchemico” a uno più elevato, solo nel momento in cui si fossero conformati alla metodologia sulla scorta della linguistica. Inoltre sapevo che l’indoeuropeistica era l’unico settore della linguistica realmente studiato a fondo e che proprio sulle orme di questa disciplina si poteva imparare il giusto metodo linguistico. Mi dedicai quindi con grande impegno alle materie di studio previste dal programma del dipartimento di linguistica, ma, contemporaneamente, proseguii i miei studi nel campo della linguistica caucasica e del folclore. Nel 1911, il professor V. Miller mi invitò a trascorrere una parte delle vacanze estive nella sua tenuta sulla costa caucasica del Mar Nero e a portare avanti delle ricerche sulla lingua e la poesia popolare circasse. Io accolsi il suo invito e proseguii i miei studi sul circasso anche nell’estate del 1912. Riuscii a raccogliere una quantità di materiale abbastanza ricco, di cui dovetti rimandare la revisione e la pubblicazione a dopo la laurea. Trassi grandi vantaggi dal mio rapporto personale con il professor Miller che, nonostante avesse delle opinioni abbastanza antiquate sulla linguistica, mi diede consigli e istruzioni preziose in veste di folclorista e di abile conoscitore della demologia osseta.

La scuola di Fortunatov, che allora aveva il controllo di quasi tutte le cattedre linguistiche dell’Università di Mosca, venne giustamente indicata da Meillet come il massimo raffinamento e approfondimento filosofico del metodo neogrammatico.

Die Gesetzmässigkeit jedes sprachlichen Geschehens, die Form als das massgebende Sprach¬spezifikum und die Notwendigkeit, jede einzelne Sprachebene als ein autonomes Teilganzes zu betrachten wurden hier folgerichtig bis zu Ende gedacht, wenn auch dabei die Begriffe der mechanischen Kausalität und der genetischen Psychologie ihre Geltung stets bewahrten, und die Auffassung der sprachlichen Empirie wie ehedem rein naturalistisch blieb. Die Universitätslehrer Trubetzkoys – der strenge Komparatist W. Porzeziński, der feinfühlende, künstlerisch veranlagte Slavist V. N. Ščepkin und der klassische Philologe M. M. Pokrovskij waren durchwegs unmittelbare Schüler Fortunatov’s die die Lehre und die hohe linguisti¬sche Technik des grossen Denkers und Forschers treu übermittelten, aber was für sie ein unabänderliches Dogma war, wurde für den freisinnigen Schüler zum Ausgangspunkt einer gründlichen, mitunter vernichtenden Kritik. Nichtsdestoweniger bleibt Trubetzkoy ein wahrhafter Forsetzer der Moskauer Schule, er behält im wesentlichen ihre Auswahl der For¬schungsprobleme und ihre Kunstgriffe, er sucht während der ersten Periode seiner sprachwissenschaftlichen Tätigkeit ihren Gesichtskreis zu erweitern und ihre Prinzipien genauer zu fassen und fortzubilden, – er steigert die Aktiva der Schule und sucht dann im letzten Lebensdezen¬nium sich von ihren obenangedeuteten Passiva Schritt für Schritt zu befreien.
Schon als Student versuchte Trubetzkoy die vergleichende Methode in der Fortunatovschen Prägung aus der Indogermanistik auf die nord¬kaukasischen Sprachen zu übertragen. Im Früjahr 1913 hielt er am Tifliser Kongress der russischen Ethnologen zwei Vorträge über mytholo¬gische Relikte im Nordkaukasus und einen über den Bau des ostkauka¬sischen Verbums, und er arbeitete eifrig an der vergleichenden Grammatik der nordkaukasischen Sprachen, die die Urverwantdschaft der beiden nordkaukasischen Zweigen – des ost- und westkaukasischen, ausführlich begründen sollte, während die Frage der vermeintlichen Verwandtschaft dieser Sprachfamilie mit den kartvelischen Sprachen ihm als vorläufig unlösbar erschien.

In questo contesto, la regolarità di tutti gli avvenimenti linguistici, la forma quale specifico linguistico fondamentale e la necessità di considerare ogni singolo piano della lingua come un tutto parziale autonomo, vennero portate alle loro ultime conseguenze, nonostante rimanesse in piedi il valore dei concetti di causalità meccanica e di psicologia genetica, e, come in passato, la concezione di empirismo linguistico conservasse la sua matrice puramente naturalistica. I docenti universitari di Trubeckoj – il severo comparatista W. Porzeziński, lo slavista V. N. Ŝepkin, dotato di un temperamento sensibile e artistico, e il filologo classico M. M. Pokrovskij – furono senza eccezione quegli allievi diretti di Fortunatov che, fedelmente, trasmisero gli insegnamenti e le più sofisticate tecniche linguistiche dell’autorevole pensatore e ricercatore, ma ciò che per loro fu un dogma inamovibile, per lo studente libero pensatore divenne un punto di partenza per una critica radicale e, a volte, demolitoria. Nonostante ciò, Trubeckoj rimase un autentico continuatore della scuola di Mosca, ne mantenne sostanzialmente le varie tematiche di studio e gli accorgimenti utilizzati, durante il primo periodo della sua attività linguistica cercò di allargarne l’orizzonte e di definire e approfondire i suoi princìpi in modo ancora più preciso; accrebbe i lati positivi della scuola e in séguito, nel suo ultimo decennio di vita, cercò a poco a poco di liberarsi dei limiti sopra accennati.
Già da studente, Trubeckoj tentò di applicare alle lingue nord-caucasiche il metodo comparativo utilizzato per l’indoeuropeistica che caratterizzava la scuola di Fortunatov. Nella primavera del 1913, durante il congresso di Tbilisi degli etnologi russi, tenne due conferenze sulle vestigia mitologiche nel Caucaso del nord e una sulla formazione del verbo nel Caucaso dell’est. Lavorò inoltre con assiduità alla grammatica comparativa delle lingue nord-caucasiche, la quale avrebbe dovuto gettare le basi delle affinità originarie tra i due rami nord-caucasici, quello nord-orientale e quello nord-occidentale, mentre, per il momento, gli sembrava ancora insolubile la questione della parentela putativa tra questa famiglia linguistica e le lingue cartveliche.

Diese Arbeit und seine reichhaltigen sprachlichen und folkloristischen Aufzeichnungen aus dem Nordkaukasus, bes. aus dem Tscherkessenland, gingen leider in Moskau während des Bürgerkrieges, zusammen mit zahlreichen Studien aus der altindischen, ostfinnischen und russischen Verslehre, verloren, und nur einen kleinen Teil seiner kaukasologischen Erfahrung gelang es dem Sprachgelehrten wieder¬herzustellen. Trotzdem arbeitete er auch im Ausland auf diesem ver¬wickelten Gebiet unermüdlich weiter, veröffentlichte in den Fachzeit¬schriften eine Reihe bahnbrechender Studien, und seinem ursprünglichen Misstrauen zuwider musste er dabei unvermeidlich, unter dem Druck des eigenartigen Forschungsstoffes, auf die Frage der “typologischen Ver¬wandtschaft” und derjenigen der Nachbarsprachen im besonderen stossen. So kam er zum Problem der “Sprachbunde” (s. Evraijsk. Vremennik III, 1923, 107 ff. und die Akten des I., II. und III. Linguistenkongresses), dessen Tragweite ihm immer deutlicher wurde (vgl. Sbornik Matice slovenskej XV, 1937, 39 ff. und Proceedings des III. Kongresses für phonet. Wissenschaften, 499).
Von der fremden Sprachwissenschaft war es die deutsche, die in den Gesichtskreis der Moskauer Schule stets gehörte, und Trubetzkoy wurde gemäss der Tradition nach Leipzig geschickt, wo er im Wintersemester 1913-1914 die Vorlesungen von Brugmann, Leskien, Windisch und Lind¬ner besuchte, das Altindische und Avestische intensiv studierte und mit den rhythmisch-melodischen Studien Sievers’ sich kritisch auseinander¬setzte. Von Leskien behielt er den Eindruck einer gewaltigen Persönlich¬keit, der das Geleise der junggrammatischen Doktrin allzueng wurde; überhaupt kehrte der junge Gelehrte mit der Vorstellung einer gewissen hemmenden Müdigkeit der deutschen Linguistik zurück, stellte ihr entschlossen die Antriebskraft der neuen französischen Sprachwissen¬schaft gegenüber, bewunderte auch die Frische der Gedanken in den Princi¬pes de linguistique psychologique von J. van Ginneken, und diese neuen, abweichenden Strömungen befestigten seinen Kritizismus und spornten sein Suchen an.

Purtroppo, questo lavoro e la consistente quantità di appunti sulla lingua e il folclore della regione nord-caucasica, in particolar modo, della Circassia, andarono persi durante la guerra civile a Mosca, insieme a innumerevoli studi sulla metrica nell’indo dei Veda, nel finnico dell’est e nel russo, e il grande linguista riuscì a ricomporre solo una piccola parte della sua esperienza caucasologica. Tuttavia, anche all’estero, continuò a dedicarsi instancabilmente allo studio di questo complesso settore, pubblicò diverse ricerche pionieristiche su riviste specialistiche e, contrariamente alla sua iniziale diffidenza, spinto dalla natura stessa del materiale di studio, si trovò inevitabilmente a dover affrontare il problema della “parentela tipologica” e, soprattutto, quello delle lingue affini. Così arrivò a trattare il nodo dello “Sprachbund” [“lega linguistica”; N.d.T.], (si veda Evraz-sk. Vremennik III, 1923, 107 sgg. e gli atti di I, II e III Congresso di linguistica), la cui portata gli divenne sempre più chiara (cfr. Sbornik Matice slovenskej XV, 1937, 39 sgg. e Proceedings del III Congresso delle scienze fonetiche, 499).
Tra le linguistiche straniere, quella tedesca aveva sempre fatto parte dell’orizzonte della Scuola di Mosca e, secondo la tradizione, Trubeckoj venne mandato a Lipsia, dove, nel primo semestre dell’anno accademico 1913-1914, seguì le lezioni di Brugmann, Leskien, Windisch e Lindner, studiò in modo intensivo l’indo dei Veda e l’avestico, e si confrontò in modo critico con gli studi ritmico-melodici di Siever. Di Leskien egli riportò l’impressione di una personalità potente, che sentiva troppo limitative le linee-guida della dottrina neogrammatica. Il giovane studioso ritornò con l’idea di una linguistica tedesca caratterizzata da una certa qual faticosità paralizzante, cui, con fermezza, contrappose la forza propulsiva della nuova linguistica francese; ebbe inoltre la possibilità di apprezzare la freschezza dei pensieri espressi in Principes de linguistique psychologique di J. van Ginneken, e queste correnti nuove e divergenti consolidarono il suo criticismo e stimolarono la sua attività di ricerca.

Diese beiden Elemente waren für ihn naturgemäss verbunden, und er betonte ständig, der Kritizismus müsse konstruktiv sein, sonst entarte er unvermeidlich in eine selbstgenügende anarchische Zerstörungsarbeit, die der Forscher direkt hasste. Die beiden öffentlichen Probevorlesungen, mit denen die Habilitationsprüfungen Trubetzkoy’s 1915 abgeschlossen wurden – Die verschiedenen Richtungen der Veda¬forschung und Das Problem der Realität der Ursprache und die modernen Rekonstruktionsmethoden – wurden zu programmatischen Erklärungen eines schöpferischen Revisionismus, und die ersten konkreten Schritte auf diesem Wege liessen nicht auf sich warten.
Im akademischen Jahre 1915-1916 hielt Trubetzkoy als neu approbier¬ter Privatdozent für vergleichende Sprachwissenschaft an der Moskauer Universität Vorlesungen über Sanskrit und beabsichtigte im nächsten Jahr Avestisch und Altpersisch vorzutragen. Er befasste sich damals, wie er selbst erzählt, hauptsächlich mit iranischen Sprachen, weil diese von allen indogermanischen am meisten auf die kaukasischen Sprachen eingewirkt hatten, welche doch sein Hauptinteresse heranzogen; plötzlich aber traten für ihn die slavischen Sprachen in den Vordergrund. Den Anlass gab das neue Buch des führenden russischen Slavisten A. A. Šaxmatov Abriss der ältesten Periode in der Geschichte der russischen Sprache (1915). Der persönlichste Schüler Fortunatov’s mit einer breiten Tatsachenkenntnis und einer seltenen Intuition ausgerüstet, versuchte hier zum ersten Mal die Summe seiner eigenen Forschung und derjenigen der ganzen Schule zu ziehen und die Lautentwicklung des Urslavischen in seinem Umbau ins Russische als ein Ganzes systematisch aufzudecken. Aber gerade bei dieser synthetischen Fassung trat die ungenügend strenge, allzumechanische Rekonstruktionsweise Šaxmatov’s zu Tage.
A suo parere, questi due elementi erano collegati naturalmente, e, come non mancava mai di sottolineare, il criticismo doveva essere costruttivo, altrimenti sarebbe inevitabilmente degenerato in un’opera di distruzione anarchica e paga di sé stessa, che il ricercatore odiava profondamente. Entrambe le due prolusioni sperimentali e ufficiali, con cui, nel 1915, Trubeckoj terminò gli esami di abilitazione, Die verschiedenen Richtungen der Vedaforschung [I diversi orientamenti della ricerca sui Veda; N.d.T] e Das Problem der Realität der Ursprache und die modernen Rekonstruktionsmethoden [Il problema della realtà della protolingua e i moderni metodi di ricostruzione; N.d.T.], si trasformarono in dichiarazioni programmatiche di un revisionismo creativo e i primi passi concreti in questa direzione non si fecero attendere.
Durante l’anno accademico 1915-1916, presso l’università moscovita, Trubeckoj tenne delle lezioni sulla lingua sanscrita come libero docente appena abilitato nel campo della linguistica comparata e, per l’anno successivo, progettò di tenere delle conferenze sulla lingua avestica e persa antica. Come lui stesso racconta, all’epoca si occupava principalmente delle lingue iraniche, poiché, tra tutte quelle indoeuropee, avevano esercitato la maggiore influenza sulle lingue caucasiche, proprio quelle che attiravano il suo interesse precipuo; ma, sorprendentemente, furono le lingue slave ad accamparsi in primo piano. Lo spunto gli fu offerto dalla pubblicazione del libro Abriss der ältesten Periode in der Geschichte der russischen Sprache [Compendio del periodo più antico nella storia del russo; N.d.T.] (1915), il cui autore era l’eminente slavista russo A. A. Šahmatov. In quest’opera, lo studente più vicino a Fortunatov dotato di una profonda conoscenza dei fatti linguistici e di una rara intuizione, cercò per la prima volta di trarre le fila della sua stessa ricerca e di quella dell’intera scuola e di mettere in luce, come un tutto sistematico, lo sviluppo fonetico del protoslavo nel suo ristrutturarsi entro la lingua russa. Ma proprio durante questa stesura sintetizzante, il metodo di ricostruzione di Šahmatov si rivelò insufficientemente rigoroso e troppo meccanico.

Es brach eine Zeit der Gärung und der Umwertung im Nachwuchs der Moskauer Schule an, eine Zeit der Verfeinerung und Steigerung der methodologischen Forderungen, und man wetteiferte im Aufsuchen und in der Aufklärung der Fehlgriffe des Abrisses, ja ein ganzes Kolleg des jüngsten Schülers Fortunatov’s, N. N. Durnovo, wurde der Besprechung des neuen Buches gewidmet. Doch das wesentlich Neue am lebhaft bestrittenen und von der jüngeren Generation völlig anerkannten Vortrage über die Šaxmatovsche sprachgeschichtliche Konzeption, welchen Trubetzkoy im damaligen Zentrum des Moskauer linguistischen Lebens, in der Dialektologischen Kommission gehalten hat, lag in der durchdringenden Tragweite dieser kritischen Analyse: sie zeigte, dass manche grundsätzliche Fehler Šaxmatov’s schon im Verfahren Fortuna¬tov’s wurzeln, nämlich in seinen Entgleisungen von den eigenen Grund¬prinzipien. Trubetzkoy suchte diese Widersprüche zu beseitigen und die Grundsätze der Schule methodologisch genau und folgerichtig, ja genauer als ihr Urheber selbst, anzuwenden. “Ich fasste”, sagt Trubetzkoy, “den Plan, ein Buch unter dem Titel Vorgeschichte der siavischen Sprachen zu schreiben, worin ich mit Hilfe einer perfektionierten Rekonstruktions¬methode den Vorgang der Entwicklung der slavischen Einzelsprachen aus dem Urslavischen und des Urslavischen aus dem Indogermanischen zu schildern beabsichtigte.”
Als Trubetzkoy nach den stürmischen Erlebnissen der Revolutionszeit nach abenteuerlichem und lebensgefährlichem Wandern durch den Kaukasus des Bürgerkrieges zerlumpt und verhungert beim Rektor der Rostover Universität, trotz dem harten Widerstand der Diener gegenüber dem verdächtigen Vagabunden, erscheint und dort (1918) Professor der slavischen Sprachen wird, ergibt er sich vollständig seinem Buche, beendet im wesentlichen die Lautgeschichte und skizziert die Formenlehre, doch Ende 1919 muss er wieder jählings die Flucht ergreifen, und seine ganze Arbeit geht wiederum im Manuskript verloren.

Per le giovani leve della Scuola di Mosca ebbe inizio un periodo di fermento e sovvertimento dei valori, un periodo di crescita e raffinamento delle esigenze metodologiche e si assistette a una competizione nella ricerca e delucidazione dei passi falsi contenuti nell’Abriss: un intero seminario del più giovane studente di Fortunatov, N. N. Durnovo, fu dedicato infatti alla discussione del nuovo libro. Ma la novità sostanziale della relazione, soggetta a continue discussioni e, senza dubbio, apprezzata dalla generazione più giovane, relazione che verteva sulla concezione storico-linguistica di Šahmatov e che fu tenuta da Trubeckoj nel centro della vita linguistica moscovita di quel tempo, la Commissione dialettologica, risiedeva nella portata di questa analisi critica penetrante: mostrava che alcuni errori basilari di Šahmatov affondavano le proprie radici già nel metodo di Fortunatov, vale a dire nelle sue brusche deviazioni dai propri princìpi di fondo. Trubeckoj cercò di eliminare queste contraddizioni e di applicare le leggi fondamentali della scuola in modo metodologico preciso e consequenziale, con maggiore precisione di quanto non avesse fatto il suo stesso fondatore. Lo stesso Trubeckoj afferma:
Avevo in progetto la stesura di un libro dal titolo Vorgeschichte der slavischen Sprachen [Preistoria delle lingue slave; N.d.T.], in cui, grazie a un metodo di ricostruzione affinato, mi proponevo di illustrare le fasi di sviluppo delle singole lingue slave derivanti dal protoslavo e le fasi di sviluppo del protoslavo dall’indoeuropeo.
Dopo le esperienze turbolente del periodo rivoluzionario e dopo aver errato attraverso il Caucaso in cui era in atto una guerra civile, tra avventure e pericoli insidianti la sua stessa vita, un Trubeckoj affamato e vestito di stracci si presentò al rettore dell’Università di Rostóv, nonostante la forte resistenza del domestico nei confronti del vagabondo sospetto, e lì divenne professore in lingue slave (1918). In questo periodo si dedicò completamente al suo libro, portò a termine – nelle sue linee essenziali – la storia fonologica e approntò uno schizzo sulla morfologia, ma, alla fine del 1919, dovette improvvisamente riprendere la fuga e tutto il suo lavoro in forma di manoscritto andò perso ancora una volta.

Er steht in Konstantinopel vor der tragisch-grotesken Wahl, Schuhputzer zu werden oder weiter heldisch und von seiner heldischen Frau unterstützt, trotz allen Ränken des Schicksals wieder um die Wissenschaft zu kämpfen. Es gelingt ihm, sich in Sofia als Dozent für vergleichende Sprachwissenschaft niederzusetzen, und zwei Jahre später (1922) wird er, besonders dank dem klar¬sehenden Gutachten Jagić’s, Professor der slavischen Philologie an der Universität Wien.
Mit der Beharrlichkeit eines Glaubeneiferers sucht Trubetzkoy seine eingebüsste Vorgeschichte wiederherzustellen, ja er baut sie um und erwei¬tert sie. Folgende Grundgedanken lenken die Arbeit: es ist ebenso verfehlt die urslavischen Vorgänge auf eine Zeitebene zusammenzuwerfen, wie die Eroberungen Cäsars und Napoleons als synchronisch auffassen zu wollen; das Urslavische hat eine lange und verwickelte Geschichte, und mittels einer relativchronologischen Analyse ist die vergleichende Sprach¬wissenschaft imstande, sie aufzudecken und aufzuzeichnen; die gleich¬zeitigen sowie die nacheinanderfolgenden Ereignisse müssen in ihrem inneren Zusammenhange untersucht werden, und hinter den Einzelbäumen darf man nicht den Wald als Ganzes, die Leitlinien der Entwick¬lung übersehen. Fortunatov lehnt zwar im Grundsatz die naturalistische Stammbaumtheorie entschieden ab, doch bleiben trotzdem ihre Überreste in seiner sprachhistorischen Forschungsarbeit und eigentlich in der üb¬lichen komparatistischen Praxis überhaupt vorhanden, wogegen Trubetz¬koy die Schleichersche sprachgenealogische Auffassung zugunsten der Wellentheorie restlos und konsequent aufgibt; demzufolge betrachtet er die einzelnen slavischen Sprachen in ihrer Anfangsperiode als blosse Mundarten innerhalb des Urslavischen; die Anfänge seiner Differenzie¬rung erklärt er geistreich durch die “Unterschiede im Tempo und in der Richtung der Verbreitung gemeinurslavischer Lautveränderungen” und durch die daraus folgende verschiedenartige Reihenfolge dieser Verände¬rungen in den einzelnen Dialekten. Das Urslavische als “Subjekt der Evolution” lebt, wie Trubetzkoy überzeugend zeigte, bis zur Schwelle unseres Jahrtausends, als der letzte gemeinslavische Lautwandel, der Verlust der schwachen Halbvokale, sich zu verbreiten anfing.

A Costantinopoli si trovò davanti alla scelta tragico-grottesca di diventare un lustrascarpe o ancora, eroico e sostenuto da una moglie altrettanto eroica, di continuare a lottare per la scienza, nonostante tutti gli scherzi del destino. Gli riuscì di ottenere una cattedra a Sofia come docente di linguistica comparata e, due anni più tardi (nel 1922), divenne professore di filologia slava all’Università di Vienna, soprattutto grazie alla chiaroveggente expertise di Jagić.
Con la tenacia propria di uno zelante fanatico, Trubeckoj cercò di ricostruire la propria Vorgeschichte, andata persa, e anzi la ristrutturò e ampliò. A guidare il suo lavoro furono i seguenti concetti fondamentali: è altrettanto erroneo pensare a un accostamento sincronico ai diversi stadi di sviluppo del protoslavo, di quanto lo sarebbe l’interpretazione sincronica delle conquiste di Cesare e Napoleone; l’Ur-slavo ha una storia lunga e intricata e, all’interno di un’analisi cronologica relativizzante, la linguistica comparata è in grado di individuare e tracciare tale storia; gli avvenimenti contemporanei, così come quelli sequenziali, devono venire studiati nel loro contesto intrinseco e non si possono ignorare le linee-guida dello sviluppo, analogamente a come, dietro ai singoli alberi, non si può ignorare il bosco nella sua totalità. Tra i suoi princìpi, Fortunatov rifiuta sì con risolutezza la teoria naturalistica dell’albero filogenetico, ma, nel suo lavoro di ricerca storico-linguistica, ne rimangono comunque dei residui, in realtà molto presenti nel consueto metodo comparativo, al contrario di Trubeckoj che abbandona definitivamente e con fermezza l’interpretazione storico-genealogica di Schleicher a favore di un modello a onde; di conseguenza guarda ai singoli idiomi slavi nelle loro fasi iniziali come a semplici dialetti all’interno del protoslavo. Trubeckoj illustra con grande arguzia i princìpi della differenziazione dello slavo attraverso le «diversità, quanto a velocità e direttrici di propagazione, della diffusione dei mutamenti fonici del protoslavo comune« e attraverso la diversificata sequenza che tali mutamenti originano nei singoli dialetti. Come Trubeckoj dimostrò in modo convincente, l’Ur-slavo visse quale “soggetto dell’evoluzione”, fino alla soglia del nostro millennio, quando poi iniziò a diffondersi l’ultimo cambiamento fonico della matrice slava, la perdita delle semivocali deboli.
Es erschienen in den slavistischen Zeitschriften der zwanziger Jahre bloss einzelne, wenn auch ausgezeichnet zusammenfassende Bruchstücke des lautgeschichtlichen Teils der Vorgeschichte, und doch darf man sagen, es gebe kaum in der Weltliteratur eine junggrammatische Schilderung der Sprachdynamik, die dermassen ganzheitlich vorgehe. Selbst die offenbaren fremden Einflüsse, wie z. B. die Lehre Meillets von den ursprachlichen Dialekten oder die Gedanken Bremers und Hermanns über die relative Chronologie, sind hier so tief und organisch bis zu den feinsten logischen Folgerungen verarbeitet, dass das Werk eine selten persönliche Prägung behält. Weshalb wurde dieses Buch nie vollendet? Kaum war da ein Zufall, wenn auch mehrere zufällige Hindernisse im Wege standen.
Am Anfang der Arbeit war für Trubetzkoy (ähnlich wie für Fortunatov und Leskien) die indogermanische Erbschaft im Urslavischen das bemer¬kenswerteste, und Spuren der versunkenen morphologischen Kategorien hier zu suchen blieb stets seine grosse Vorliebe und Kunst (vgl. Slavia I, 12 ff. und ZfslPh IV, 62 ff.). Doch musste er in Wien die einzelnen slavi¬schen Sprachen und Literaturen vortragen, und seine Lehrpflichten nahm er, der geborene und vollkommene Lehrer, bis zu einer asketischen Opfer¬willigkeit ernst (vgl. den Nachruf seines besten linguistischen Schülers A. V. Isačenko in der Slav. Rundsch. X). Er stellte sich zur Aufgabe, jede dieser Sprachen in ihrer Entwicklungsgeschichte selbständig durch¬zuprüfen. So bekam in seinen Vorlesungen die Vorgeschichte der slavischen Sprachen ihre gesetzmässige Fortsetzung, die auch auf die prähistorischen Stufen mehrmals ein neues Licht warf und auch für diesen Fragenkreis Ergänzungen und Korrekturen forderte. Auch auf die Entwicklung der einzelnen slavischen Sprachen wendet Trubetzkoy das streng vergleichende Verfahren an; dem Fortunatovschen Gedanken treuer als Fortunatov selbst, betont er bei seiner bahnbrechenden Dar¬stellung der russischen Lautgeschichte (Zfs1Ph I, 287 ff.), die komparatis¬tische Methode spiele hier naturgemäss “eine grössere Rolle als die rein¬philologische”,

Nelle riviste slave degli anni Venti apparvero solo alcuni, per quanto eccellenti, frammenti riassuntivi della sezione storico-fonica della Vorgeschichte, e tuttavia si può dire che si stenterebbe a trovare nella letteratura mondiale una descrizione neogrammatica delle dinamiche linguistiche che proceda con una tale coesione unitaria. In questi scritti, gli influssi manifesti di altri linguisti – come, per esempio, la dottrina di Meillet sui protodialetti linguistici o le tesi di Bremer e Hermann sulla cronologia relativizzante – vengono elaborati in modo così profondo e organico fino alle loro ultime implicazioni logiche, che l’opera conserva un’impronta personalissima. Ma perché questo libro non è mai stato portato a compimento? Non è stato un caso, anche se molteplici impedimenti ne intralciarono la completa stesura.
All’inizio, per Trubeckoj (come anche per Fortunatov e Leskien) nell’Ur-slavo la cosa più rimarchevole era il retaggio indoeuropeo e la sua più grande passione e maestria continuò a essere la ricerca, all’interno di tale eredità, delle tracce di categorie morfologiche estinte (cfr. Slavia I, 12 sgg. e Zeitschrift für slavische Phylologie IV, 62 sgg.). Ma a Vienna le sue lezioni dovevano vertere sulle singole lingue e letterature slave e Trubeckoj assunse così seriamente il suo dovere di docente – un docente nato, un docente per eccellenza – da giungere all’abnegazione ascetica (cfr. il necrologio del suo migliore allievo, il linguista A. V. Isačenko, nella Slavische Rundschau X). Trubeckoj si pose come c¬ómpito quello di passare al setaccio ognuna di queste lingue, prese singolarmente nel contesto della loro storia evolutiva. Così, nelle sue lezioni, la protostoria delle lingue slave trovò una propria continuazione logica che, da un lato, gettava continuamente nuova luce sugli stadi più antichi e, dall’altro, esigeva completamenti e correzioni a questa problematica. Trubeckoj estese il severo metodo comparativo anche allo sviluppo delle singole lingue slave; più fedele al pensiero di Fortunatov dello stesso Fortunatov, con una esposizione fortemente innovativa della storia fonica russa (Zeitschrift für slavische Phylologie I, 287 sgg.), Trubeckoj sottolineò come, in modo naturale, il metodo comparativo giochi, all’interno di questo discorso, «un ruolo di maggiore rilievo rispetto a quello della filologia pura, e, di conseguenza, arrivò a comprendere
und folgerichtig erfasst er die den rechtgläubigen Kom¬paratisten sonderbarerweise entgangene Notwendigkeit, das Altkirchen¬slavische durch den Vergleich seiner čechischen und bulgarischen Rezen¬sion wiederherzustellen. Nur Weniges von diesen durchdachten Studien ist im Drucke erschienen, und erst wenn seine Aufzeichnungen zu den sprachhistorischen Vorlesungen herausgegeben werden, und wenn es uns hoffentlich gelingt, seine zahl- und inhaltreichen linguistischen Briefe (Trubetzkoy’s Lieblingsgattung!) zu veröffentlichen, wird die Tiefe, Breite und Originalität seiner Forschungsbeute noch anschaulicher her¬vortreten.
Einerseits erweiterte sich das Programm der Vorgeschichte, andererseits wurde seine Verwirklichung durch literarhistorische Vorlesungen und kulturwissenschaftliche Studien verzögert. Doch waren die einen wie die anderen auch für die Linguistik ergebnisreich. Die Probleme der dichte¬rischen Sprache, in der heimatlichen wissenschaftlichen Tradition mannigfaltig vertreten, von F. E. Korš (einem der ruhmvollen “Moskauer” neben seinen Mitgenossen Fortunatov und Miller) geistvoll gepflegt und von den russischen Wortkünstlern unseres Jahrhunderts praktisch und theoretisch zugespitzt, mündeten um die Revolutionsjahre in der Fassung der jungen Sprach- und Literaturforscher Russlands in ein harmonisches System der streng linguistisch (bzw. semiotisch) fundierten Poetik (bzw. Ästhetik). Trubetzkoy, den die Fragen der linguistischgeprüften Metrik von Jugend an lockten, näherte sich allmählich den Prinzipien dieser (in den slavischen Ländern heutzutage einflussreichen) “formalistischen Schule”, verstand ihre mechanistischen Entgleisungen zu überwinden, zeigte das Schaffen Dostoevskijs in einem ungewohnten doch für die Dichtung als solche massgebenden, rein linguistischen Aspekt und legte vor allem die Grundsteine zur Untersuchung der alt¬russischen Wortkunst, – eine Tat, die nicht nur eine unbekannte Welt eigenartiger und erhabener Kunstwerte wissenschaftlich entdeckt, sondern zugleich die methodologisch wichtige Frage der Werthierarchien im allgemeinen aufrollt.

la necessità, stranamente sfuggita ai comparativisti ortodossi, di ricostruire il paleoslavo ecclesiastico attraverso il confronto con le sue forme ceche e bulgare fino ad allora recensite. Di questi studi elaboratissimi, solo pochi furono pubblicati e solamente quando verranno divulgati i suoi appunti sulle lezioni storico-linguistiche e quando, auspicabilmente, ci riuscirà di far conoscere le sue numerose lettere di carattere linguistico tanto dense di contenuto (il genere preferito di Trubeckoj!), la profondità, l’ampiezza e l’originalità del suo prezioso materiale di studio appariranno ancora più perspicui.
Se da un lato il programma della Vorgeschichte acquistò maggiore corposità, dall’altro la sua realizzazione venne rallentata a causa delle lezioni storico-letterarie e degli studi scientifico-culturali. Ma anche per la linguistica, tutte queste occupazioni furono in eguale misura feconde. Intorno agli anni della rivoluzione, i problemi relativi al linguaggio poetico, rappresentati in svariati modi nella tradizione scientifica del proprio paese, coltivati in modo arguto da F. E. Korš (uno dei gloriosi “moscoviti” accanto ai suoi sodali Fortunatov e Miller) e portati all’estrema conseguenza, sia sotto l’aspetto pratico che teorico, dagli artisti russi della parola contemporanei, sfociarono – nelle formulazioni dei giovani ricercatori russi in campo linguistico e letterario – in un sistema armonioso di una poetica (ovvero di una estetica) dalle rigorose fondamenta linguistiche (ovvero semiotiche). Trubeckoj, che fin da giovane era attratto dagli interrogativi sulla metrica analizzata sulle basi di leggi linguistiche, si avvicinò in modo graduale ai princìpi di questa “scuola formalistica” (oggigiorno molto influente nei paesi slavi), ne seppe superare le deviazioni meccanicistiche, analizzò le opere di Dostoevskij da un punto di vista sicuramente inusuale, ossia prettamente linguistico e tuttavia determinante per la poetica stessa, e, soprattutto, gettò le fondamenta per un esame dell’antica arte russa della parola, un’impresa che non solo portò alla luce in modo scientifico un mondo sconosciuto dal valore artistico peculiare e sublime, ma che, al tempo stesso, delucidò la questione, basilare per la sfera metodologica, riguardante la scala dei valori in generale.

Die kulturwissenschaftlichen Skizzen Trubetzkoy’s brachten ihm die Problematik der Schriftsprache nah und bereicherten die Sprachwissenschaft durch seine schöne Studie über die Rolle des Kirchenslavischen für das Russische, eine der glänzendsten Leistungen des Gelehrten, die für das Problem des hybriden Sprachbaus von grund¬sätzlicher Bedeutung ist und in der Frage der Radiationszone des cyrilli¬schen Alphabets sich geradezu als prophetisch erwies (s. K probleme russkogo samopoznanija). Für die schöpferische Entwicklung Trubetzkoys waren die Gebiete der Wortkunst und der Sprachkultur besonders dadurch wichtig, dass sie ihn unmittelbar vor die Fragen des synchronischen Systems und der Zielstrebigkeit stellten.
Je mehr sich der Forscher mit der Lautgeschichte befasste, desto klarer sah er ein, dass “die Lautentwicklung wie jede andere historische Entwicklung ihre innere Logik besitzt, die zu erfassen die Aufgabe des Lauthistorikers ist”, doch letzten Endes trat das teleologische Prinzip in einen unversöhnlichen Konflikt mit der herkömmlich naturalistischen Behandlung der lautlichen Geschehnisse. Die Vorgeschichte wuchs in die Vereinung ihrer eigenen Grundlage um. Trubetzkoy war durch und durch historisch eingestellt, und solange das Problem des Phonems und der Phonemsysteme sich auf die Synchronie beschränkte, liess es ihn, wie ehemals auch Fortunatov und seine Schüler, kühl und passiv. Die Lehren Saussure’s, Baudouin de Courtenay’s und Ščerba’s lagen ausser¬halb seiner Problematik, da sie “sich einfach von der Sprachgeschichte abwandten”. Er billigte zwar (Slavia II, 1923, 452ff.; BSL XXVI, 3, 1925, 277ff.) meinen Versuch einer phonologischen Prosodie, gleich wie die Untersuchung N. F. Jakovlev’s über den kabardinischen Phonembestand, aber einzig die Frage der panchronischen prosodischen Gesetze lässt eine Spur in seiner eigenen Arbeit.
Gli schizzi storico-culturali intrapresi da Trubeckoj lo avvicinarono alla problematica della lingua scritta e arricchirono la linguistica grazie a un suo bellissimo studio sul ruolo dello slavo ecclesiastico all’interno della lingua russa, una delle opere più brillanti dello studioso, tale da rivestire un significato fondamentale per la trattazione del problema riguardante la struttura, basata sull’ibridazione, della lingua e da rivelarsi addirittura profetica quanto all’investigazione dell’ambito della zona di irradiamento dell’alfabeto cirillico (si veda la già citata K probleme russkogo samopoznaniâ). Particolarmente significativi per lo sviluppo della creatività di Trubeckoj furono i campi dell’arte della parola e della cultura linguistica, poiché lo posero immediatamente davanti ai problemi relativi al sistema sincronico e ai processi governati da finalismo.
Quanto più il ricercatore si occupava della storia fonematica, tanto più capiva che «lo sviluppo fonetico, analogamente a tutti gli altri sviluppi storici, possiede una propria logica intrinseca, la cui individuazione è cómpito dello studioso di fonologia», ma, in ultima analisi, il principio teleologico entrò in un conflitto irrisolvibile con la trattazione naturalistica tradizionale dei fenomeni fonematici. La Vorgeschichte crebbe intorno al fondersi dei suoi stessi princìpi fondamentali. Trubeckoj aveva un’impostazione radicalmente storica e, fintantoché il problema dei fonemi e del sistema fonemico si limitava alla sincronia, egli rimaneva freddo e indifferente, come già prima Fortunatov e i suoi allievi. Gli insegnamenti di Saussure, Baudouin de Courtenay e Ŝerba erano alieni alla sua problematica, poiché «semplicemente si allontanavano dalla storia della lingua». Egli si trovò però d’accordo (Slavia II, 1923, 452 sgg.; BSL XXVI, 3, 1925, 277 sgg.) con il mio tentativo di una prosodia fonologica, proprio come con la ricerca intrapresa da N. F. Âkovlev sul patrimonio fonetico cabardinico, ma solo il problema delle leggi prosodiche pancroniche lasciò un segno nel suo lavoro.

Erst als das phonologische Problem auf das Gebiet der Sprachgeschichte übergeht und ihn Ende 1926 ein aufgeregter langer Brief erreicht, der die Frage aufwarf, ob es nicht geeignet wäre, die naturwidrige Kluft zwischen der synchronischen Analyse des phonologischen System einerseits und der “historischen Phonetik” andererseits dadurch zu überbrücken, dass jeder Lautwandel als ein zweckbedingtes Ereignis unter dem Gesichtspunkt des gesamten Systems untersucht werden soll, bringt diese Frage den Empfänger, nach seinem eigenen Ausdruck, aus dem Konzept. Er gesteht bald zu, es gebe hier keinen Mittelweg. Und als Trubetzkoy meine Thesen für den Haager Linguistenkongress (Korrelationsbegriff, allgemeine Solidaritäts¬gesetze, historische Phonologie) zugesandt bekam, schrieb er, er füge gern auch seine Unterschrift hinzu, bezweifle aber, dass die Fragestellung verstanden wird. Indessen erwies es sich im Haag, dass in der jungen Linguistik verschiedener Länder ein unabhängiges und doch konvergentes Streben nach einer strukturalen Auffassung der sprachlichen Sychronie und Diachronie losbricht; das wirkte freudig ermunternd, und wenige Monate später schrieb Trubetzkoy, er habe in den Sommerferien unter anderm über Vokalsysteme nachgedacht, zirka vierzig aus dem Gedächt¬nis untersucht und manches Unerwartete habe sich dabei herausgestellt. Es war in nuce die Untersuchung “Zur allgemeinen Theorie der phonolo¬gischen Vokalsysteme” (TCLP I, 1929, 39 ff.). Man vermutete zwar schon, das phonologische System wäre keine mechanische “Und-Verbindung”, sondern eine geordnete gesetzmässige Gestalteinheit, aber erst er baute einen wesentlichen Abschnitt dieser Systemlehre konkret auf. Er zeigte, dass die Vielheit der Vokalsysteme auf eine beschränkte Anzahl sym¬metrischer, durch einfache Gesetze bestimmter Modelle hinausläuft, und stellte ihre Typologie fest. Karl Bühler sagt mit Recht, Trubetzkoy habe “für die Vokalphoneme einen Systemgedanken vorgelegt, der an Trag¬weite und einleuchtender Einfachheit dem Systemgedanken seines Landsmannes, des Chemikers Mendeleev, gewachsen sein dürfte”.
Im Geiste eines wirklichen kollektiven Schaffens, in dem Trubetzkoy eine russische Erbschaft sah, wurde dann an der neuen Disziplin gearbei¬tet. Er pflegte unsere Zusammenarbeit mit

Secondo quanto lui stesso affermò, Trubeckoj cadde in confusione solo quando il problema fonologico trapassò al campo della storia della lingua e quando, alla fine del 1926, ricevette una lunga lettera concitata, che sollevava il quesito se non fosse opportuno superare la spaccatura innaturale tra l’analisi sincronica del sistema fonologico da una parte, e la “fonetica storica” dall’altra, così che ogni mutamento fonetico venisse studiato come un evento finalistico dal punto di vista dell’intero sistema. Immediatamente, egli ammise che, in questo caso, non poteva esistere una via di mezzo. E quando Trubeckoj ricevette per posta le mie tesi formulate per il Congresso dei linguisti dell’Aia (concetti di correlazione, leggi generali di solidarietà, fonologia storica), mi rispose che avrebbe apposto con grande piacere anche la sua firma, ma che dubitava che la formulazione del quesito potesse essere capita. Per contro, all’Aia si dimostrò che, nella linguistica più recente dei diversi paesi, si stava facendo strada una tendenza indipendente, e tuttavia convergente, verso un’interpretazione strutturale della sincronia e diacronia linguistica; questo fatto ci rallegrò e incoraggiò e, dopo pochi mesi, Trubeckoj scrisse che, durante le vacanze estive, aveva riflettuto, tra le altre cose, sui sistemi vocalici, studiandone circa quaranta attingendo alla propria memoria e che, nel fare questo, qualcosa di inatteso era venuto alla luce. Era in nuce lo studio «Sulla teoria generale del sistema fonologico vocalico» (TCLP I, 1929, 39 sgg.). Si presupponeva già che il sistema fonologico non fosse una “Und-Verbindung” [un collegamento basato sulla mera giustapposizione; N.d.T.] meccanica, ma un’unità, una Gestalt ordinata e improntata a delle regole, però lui fu il primo a erigere in modo concreto un capitolo fondamentale di questa dottrina sistematica. Egli dimostrò che la molteplicità dei sistemi vocalici finiva col corrispondere a un numero limitato di modelli simmetrici determinati da leggi elementari e ne fissò la tipologia. Karl Bühler affermò a ragione che «Trubeckoj ha messo appunto un sistema concettuale per i fonemi vocalici, che, per portata e illuminante semplicità, può definirsi all’altezza del sistema concettuale del suo connazionale, il chimico Mendeleev».
Quindi, nello spirito di un processo creativo reale e collettivo, in cui Trubeckoj ravvisava un
einem Staffellauf zu vergleichen. Bald erhielt dieser Aufbau eine noch breitere Grundlage – die gemein¬samen Anstrengungen des Prager linguistischen Cercle. “Die verschiede¬nen Entwicklungsstufen des Cercle, – schreibt Trubetzkoy, – die ich mit ihm gemeinsam erlebte, tauchen in meinem Gedächtnis auf – erst die bescheidenen Versammlungen beim Vorsitzenden (V. Mathesius), dann die heroische Zeit der Vorbereitungen zum ersten Slavistenkongress, die unvergesslichen Tage der Prager phonologischen Konferenz und viele andere schöne Tage, die ich in der Gesellschaft meiner Prager Freunde erlebt habe. Alle diese Erinnerungen sind in meinem Bewusstsein mit einem seltsamen erregenden Gefühl verbunden, denn bei jeder Berührung mit dem Prager Cercle erlebte ich einen neuen Aufschwung der schöp¬ferischen Freude, die bei meiner einsamen Arbeit fern von Prag immer wieder sinkt. Diese Belebung und Anregung zum geistigen Schaffen ist eine Äusserung des Geistes, welcher unserer Vereinigung eigen ist und aus der kollektiven Arbeit der befreundeten Forscher entsteht, die in einer gemeinsamen methodologischen Richtung gehen und von gleichen theoretischen Gedanken bewegt sind.” Hier möchten wir aber vor allem den massgebenden persönlichen Beitrag Trubetzkoys in knappen Worten zum Gedächtnis bringen.
Glücklich verband er den Korrelationsbegriff mit der Lehre Saussure’s über die phonologische Gegenüberstellung eines Vorhandenseins und Nichtvorhandenseins und entwickelte mit Martinet den damit eng zusammenhängenden Begriff der Oppositionsaufhebung (TCLP VI); Jakovlevs treffenden Anregungen folgend, vollbrachte er eine scharfe Analyse aller konsonantischen Korrelationen (TCLP IV) und baute eine tragfähige Systematik der Grenzsignale auf (Proceedings II); er machte den ersten, tastenden Versuch einer Einteilung der phonologischen Oppositionen (Journ. de Psych. XXXIII); er besprach eingehend die Technik der phonologischen Sprachbeschreibungen (Anleitung zu phonologischen Beschreibungen, 1935) und gab einige mustergültige Bei¬spiele: das Konsonantenverzeichnis der ostkaukasischen Sprachen (Cau¬casica VIII), die Morphonologie des Russischen (TCLP V, 2) und die

retaggio russo, si cominciò a lavorare alla nuova disciplina. Era solito paragonare la nostra collaborazione a un gioco di staffetta. Presto questa costruzione poté contare su una base ancora più ampia: gli sforzi di tutto il Cercle linguistico di Praga. Scrive Trubeckoj:
I diversi stadi di sviluppo del Circolo, attraverso cui sono passato di persona insieme agli altri membri, riaffiorano alla mia memoria: prima le modeste riunioni in casa del presidente (V. Mathesius), poi il periodo eroico del lavoro di preparazione per il primo congresso degli slavisti, i giorni indimenticabili della conferenza sulla fonologia a Praga e ancora molti altri momenti che ho vissuto nella cerchia delle mie amicizie praghesi. Tutti questi ricordi sono legati, nella mia consapevolezza, da un sentimento particolare ed entusiasmante, poiché a ogni contatto con il Circolo di Praga sono stato travolto da un nuovo slancio di gioia feconda che svaniva immancabilmente quando invece mi dedicavo al mio lavoro solitario lontano da Praga. Questo stimolo vivificante all’operare creativo di natura intellettuale è un’espressione dello spirito che caratterizza il nostro sodalizio e che nasce da un lavoro comune di ricercatori legati da amicizia, ricercatori che condividono lo stesso approccio metodologico e che sono mossi dalle stesse concezioni teoriche.
Ma più di tutto, vorremmo qui brevemente ricordare il determinante contributo personale di Trubeckoj.
Con successo creò un legame tra il concetto di correlazione e la dottrina di Saussure sul raffronto fonologico tra entità esistenti e non esistenti, e sviluppò con Martinet l’idea a ciò strettamente connessa di un superamento delle opposizioni (TCLP VI); sulla scorta dei felici impulsi di Âkovlev, completò un’acuta analisi di tutte le correlazioni consonantiche (TCLP IV) e costruì una solida sistematica dei segnali limite (Proceedings II); fece il primo tentativo volto a sondare il terreno in vista di una classificazione delle opposizioni fonologiche (Journal de Psychologie XXXIII); in modo dettagliato discusse la tecnica delle descrizioni fonologiche della lingua (Anleitung zu phonologischen Beschreibungen [Introduzione alle descrizioni fonologiche; N.d.T.], 1935) e ne diede alcuni esempi magistrali: la registrazione delle consonanti nelle lingue del Caucaso orientale (Caucasica VIII), la morfofonologia del russo (TCLP V, 2) e le esaustive

erschöpfenden Monographien über das Polabische (Sitzb. Ak Wiss. Wien, phil-hist. Kl., CCXI, Abh. 4) und das Altkirchenslavische. Zur letzteren sind bisher nur die Vorstudien veröffentlicht, aber hoffentlich erscheint bald auch das beinahe fertiggeschriebene Handbuch . Es ist interessant, dass die beiden Monographien tote Sprachen behandeln, deren Phonembestand erst durch eine sorgfältige Analyse des Schrift¬systems in seinem Verhältnis zum phonologischen System festgestellt wird, und auch in diesem Sinne sind die beiden Arbeiten wirkliche Meis¬terstücke, die die Fortunatovsche Tradition fortsetzen und würdig krönen: das Problem der Wechselseitigkeit zweier autonomen Systeme – der Schriftnorm und der Lautnorm lockte stets die Aufmerksamkeit der Moskauer Schule; die polabische Spielart dieses Problems fesselte schon Porzeziński sowie Ščepkin, und Trubetzkoy beabsichtigte, seine Pola¬bischen Studien dem Andenken des ersten zu widmen; der altkirchen¬ slavischen Schrift und Orthographie gelten die feinsten Beobachtungen Fortunatov’s und in der neueren Zeit die ursprünglichsten Erwägungen Durnovos, an die Trubetzkoy anknüpft; “Alphabet und Lautsystem” wird ihm zum Ausgangspunkt seiner phonologischen Forschung, und er glaubt, eine autonome Graphemenlehre nach dem Vorbild der Phonemenlehre entstehen zu sehen (Slovo a Slovesnost I, 133).
Die Phonologie der beiden toten Sprachen ist zwar bei Trubetzkoy streng synchronisch gefasst, doch die Projektion des statischen Quer¬schnittes in die Vergangenheit ist für ihn offenkundig eine Vorstufe der diachronischen Forschung. Als Anthithese der historischen Phonetik, welche die erste Etappe seines Schaffens beherrschte, trat in der weiteren Etappe die synchronische Phonologie ein, die Diachronie wurde von jetzt an nur in zwei episodischen Beiträgen angetastet (Festschrift Miletič 1933, 267 ff. und Księga referatów des II. Slavistenkongresses 1934, 133 ff.), und doch bleibt die Lautgeschichte die verborgene Triebkraft seines Suchens, und Trubetzkoy strebt zur historischen Phonologie als dialektischer Synthese.

monografie sull’idioma polabo (Sitzungberichte der Akademie der Wissenschaften, Wien, philos.-histor. Kl., CCXI, Abh. 4) e paleoslavo ecclesiastico. Di questa ultima monografia, sono stati pubblicati fino ad ora solo gli studi preparatori, ma ci si augura che sia presto disponibile anche il manuale , la cui stesura era quasi completa. È interessante notare come entrambe le monografie tràttino di lingue morte, il cui patrimonio fonematico viene stabilito ancora attraverso un’analisi scrupolosa del sistema grafico nella sua relazione con quello fonologico, e anche in questo senso entrambe le opere rappresentano due autentici capolavori che proseguirono e coronarono degnamente la tradizione di Fortunatov: il problema della reciprocità di due sistemi autonomi, la norma grafica e fonica, che aveva sempre suscitato l’interesse della Scuola di Mosca; la peculiarità che questo problema assume all’interno della lingua polaba aveva già catturato Porzeziński come anche Ŝepkin, e Trubeckoj si ripropose di dedicare i suoi Polabischen Studien [Studi sul polabo; N.d.T.] alla memoria di Porzeziński; le osservazioni più fini di Fortunatov e, negli ultimi tempi, le primissime riflessioni di Durnovo, furono rivolte alla scrittura e ortografia del paleoslavo ecclesiastico e proprio a queste si riallaccia Trubeckoj; «alfabeto e sistema fonico» divennero il punto di partenza della sua ricerca fonologica ed egli credette di vedere la nascita di un’autonoma dottrina dei grafemi sulla base della dottrina fonematica (Slovo a Slovesnost I, 133).
La fonologia di entrambe le lingue morte venne sì affrontata da Trubeckoj in modo scrupolosamente sincronico, ma la proiezione del profilo statico nel passato fu per lui, in modo manifesto, uno stadio preliminare della ricerca diacronica. In antitesi alla fonetica storica che aveva dominato la prima fase del suo lavoro, subentrò, nella seconda fase, la fonologia sincronica, e da qui in poi la diacronia venne trattata di sfuggita in due saggi episodici (Festschrift Miletič 1933, 267 sgg. e Księga referatów del II Congresso di slavisti del 1934, 133 sgg.). E tuttavia, la storia della fonetica rimase la molla segreta della ricerca di Trubeckoj, che tese alla fonologia storica come a una sintesi dialettica.

Er weiss, wie grosse und grundsätzlich neue Aufgaben hier den Forscher erwarten, wie eingehend das Rekonstruk¬tionsverfahren sich ändern muss, wie viele Überraschungen der weitere Fortschritt der phonologischen Geographie, bes. ein entsprechender Weltaltlas, beibringen kann, und wie selbst das Problem einer Ursprache, beispielsweise des Urindogermanischen, in einem wesentlich neuen Lichte hervortritt (vgl. Acta Ling. I, 81 ff.). In seinem Handbuch des Altkirchen¬slavischen versucht Trubetzkoy, die methodologische Erfahrung der Phonologie auch auf das Gebiet der Formenlehre zu erweitern (ausser dem Kasuskapitel hielt er diesen Teil des Werkes im grossen und ganzen für fertig). Der systematische Aufbau der strukturalen Morphologie, besonders einer Typologie der morphologischen Systeme kommt für ihn an die Reihe, sowie die gleichlaufende (in Mélanges Bally, 75 ff. angedeutete) syntaktische Problematik. Und endlich schwebte ihm eine strukturale Betrachtung des Wortschatzes als eines gesetzmässigen Systems immer deutlicher vor (vgl. TCLP I, 26 f.).
Doch das alles zu verwirklichen war ihm leider nicht mehr vergönnt, und er ahnte es. Unermüdlich schrieb er, mit dem Tode im Herze, an den Grundzügen der Phonologie (TCLP VII), seinem herrlichen Synthese¬buch, das er als den Etappeabschluss betrachtete und als eine fördernde Grundlage zu den sich immer mehrenden phonologischen Sprachbe¬schreibungen sowie zu einer weiteren sachlichen, fruchtbaren theoretischen Diskussion.
“Die Lebensfrist ist schon kurz, – schrieb einst Sergej Trubetzkoy, – und man muss sich beeilen, alles, was noch möglich, aus der geistigen Ernte einzuheimsen, – nur dass es nicht zu spät sei.” – “Dieses Vorgefühl täuschte leider nicht, – fügt sein Bruder hinzu, – das Herz hielt nicht aus […] und er verschied in der vollen Blüte seiner Kräfte […] Vor Entrüstung und Schmerz um der Anderen willen verschmachtete er und starb.”

Era consapevole dei grandi e fondamentalmente nuovi cómpiti che sarebbero spettati ai ricercatori in questo settore; di quanto in profondità si sarebbe dovuto spingere il processo di ricostruzione; di quante sorprese avrebbe potuto offrire un ulteriore progresso nel campo della geografia fonologica, in particolare un corrispondente atlante universale; e di come il problema stesso di una Ur-sprache, per esempio il protoindoeuropeo, si sarebbe presentato sotto una luce del tutto diversa (cfr. Acta Linguistica I, 81 sgg.). Nel manuale sulla lingua paleoslava ecclesiastica, Trubeckoj cerca di estendere l’esperienza metodologica della fonologia al campo della morfologia (nel complesso, eccetto il capitolo sui casi, egli considerò conclusa questa parte dell’opera). In un secondo momento si sarebbe presentata la costruzione sistematica della morfologia strutturale, in modo particolare di una tipologia di sistemi morfologici, come anche il parallelo problema sintattico (in Mélanges Bally, 75 sgg.). Infine, in modo sempre più chiaro, si delineò nella sua mente una riflessione di tipo strutturale riguardante il lessico quale sistema governato da proprie regole interne (cfr. TCLP I, 26 sg.).
Purtroppo, come lui stesso aveva presagito, non gli fu però più possibile realizzare tutto questo. Con uno spirito instancabile e la morte nel cuore, si mise a lavorare a Fondamenti di fonologia (TCLP VII), un magnifico lavoro di sintesi da lui considerato la tappa conclusiva e il punto di partenza che sarebbe servito da stimolo sia per le descrizioni di analisi linguistiche fonologiche vieppiù numerose, sia per un’ulteriore discussione teoretica, obiettiva e feconda.
«La vita è breve» scrisse una volta Sergej Trubeckoj, «e noi dobbiamo affrettarci, per quanto possibile, a fare incetta del raccolto spirituale prima che non sia troppo tardi». «Questo presentimento non era fallace», aggiunse suo fratello, «il suo cuore non resse […] e lui morì nel pieno delle sue forze […] mosso dall’amore per gli altri, si strusse e morì per lo sdegno e il dolore».

Das tragische Schicksal des Vaters wiederholte sich buchstäblich. Der Mensch, der das Zeitalter rühmte, in dem die gesamte Wissenschaft die atomisie¬rende Weltauffasung durch den Strukturalismus zu ersetzen suchte, und der zu seinen grössten und wackersten Vorkämpfern gehörte, scheute in seinem bewegten Leben einzig die seelenlose Vertilgung der Geistes¬werte.

Geschrieben in Charlottenlund (Dänemark), Juni 1939, und veröffentlicht in Acta Linguistica, I (1939).

Il tragico destino toccato al padre si ripeté letteralmente per il figlio. L’uomo che aveva celebrato l’epoca in cui una scienza complessiva tentava di sostituire la concezione atomizzante del mondo attraverso la teoria strutturalista, di cui lui era il più grande e valoroso precursore, nella sua vita movimentata nutrì un unico timore, l’arido annientamento dei valori dello spirito.

Scritto nel giugno 1939 a Charlottenlund (Danimarca) e pubblicato in Acta Linguistica, I (1939).

La comprensione nella semiosfera: testualità di Peeter Torop FRANCESCA POTITO

La comprensione nella semiosfera: testualità
di Peeter Torop

FRANCESCA POTITO

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento di Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2008

© Peeter Torop 2007
© Francesca Potito per l’edizione italiana 2008

ABSTRACT IN ITALIANO

La tesi contiene la traduzione italiana dell’articolo Semiospherical understanding: textuality di Peeter Torop, il più autorevole esponente della scuola semiotica di Tartu. L’importanza della semiotica sia nel campo della scienza che in quello della cultura è in costante aumento. Ma, come risultato della creolizzazione, cultura e natura, in quanto ambienti della vita umana, sono cambiate e questo ha a sua volta generato la necessità di capire come comprendere e spiegare questo cambiamento, ossia come definire epistemologicamente l’oggetto d’indagine. Dal momento, quindi, che la cultura, in quanto sistema di sistemi, è in continua evoluzione a causa delle interrelazioni che si instaurano costantemente tra le parti del tutto, la semiotica diventa non solo una risorsa metodologica ma anche una risorsa applicativa atta a garantire lo sviluppo delle singole scienze. In questo contesto, il suo compito diventa quello di descrivere la semiosfera e, per osservare e interpretare i meccanismi della cultura, si serve della testualità (che combina in sé il testo come artefatto ben definito e la testualizzazione come astrazione), della metatestualità (l’analisi delle relazioni tra prototesto e metatesto), e dell’intertestualità (l’analisi delle relazioni che un testo ha con gli altri testi). In definitiva, la testualità è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori e, nello stesso tempo, è una proprietà ontologica della cultura e un principio epistemologico per analizzare la cultura. Oltre alla traduzione, la tesi propone un approfondimento sul contesto semiotico e un’analisi traduttologica dell’articolo sopra citato.

ENGLISH ABSTRACT

The thesis consists in the translation into Italian of the article Semiospherical understanding: textuality by Peeter Torop, the most influential exponent of the Tartu School of Semiotics. The relevance of semiotics is increasing both in sciences and culture. But, due to the creolization, culture and nature, as the environment of human life, have changed and this, in turn, caused the necessity to understand how to comprehend and explain this changing, that is how to define epistemologically the object of inquiry. Therefore, since culture, as a system of systems, is an incessantly evolving order because of the interrelationships constantly established between the parts of the whole, semiotics becomes not only a methodological but also an applicational resource for securing the development of sciences. In this context, its task is to describe the semiosphere and, in order to observe and interpret the mechanisms of culture, it makes use of textuality (which combines in itself text as a well-defined artifact and textualization as an abstraction), metatextuality (the investigation of the relations between a prototext and a metatext), and of intertextuality (the investigation of the relationships between a text and the other texts). All things considered, textuality is a possibility that culture offers to its analyzers, and at the same time it is an ontological property of culture and an epistemological principle for investigating culture. Besides the translation, the thesis contains the analysis of the semiotic context and a translational analysis of the above mentioned article.

RESUMEN EN ESPAÑOL

La tesis consiste en la traducción al italiano del artículo Semiospherical understanding: textuality de Peeter Torop, el exponente más notable de la escuela de semiótica de Tartu. La importancia de la semiótica tanto en el sector de las ciencias como en el sector de la cultura aumenta constantemente. Pero, como resultado de la creolización, cultura y naturaleza, en cuanto entornos de la vida humana, han cambiado generando a su vez la necesidad de entender cómo comprender y explicar dicha transformación, es decir cómo definir epistemológicamente el objeto de investigación. Por consiguiente, dado que la cultura, en cuanto sistema de sistemas, es en continua evolución a causa de las interrelaciones que se establecen etre las partes y el todo, la semiótica se convierte no sólo en un recurso metodológico, sino también en un recurso aplicativo apto a garantizar el desarrollo de las mismas ciencias. En este contexto, su función es la de describir la semiosfera y, para observar e interpretar los mecanismos de la cultura, usa la textualidad (que combina en sí misma el texto como artefacto bien definido y la textualización como abstracción), la metatextualidad (la investigación de las relaciones entre prototesto y metatexto), y la intertextualidad (la investigación de las relaciones que un texto establece con otros textos). En resumidas cuentas, la textualidad es una posibilidad que la cultura ofrece a sus analizadores y, al mismo tiempo, es una propriedad ontológica de la cultura y un principio epistemológico para analizar la cultura. Además de la traducción, la tesis contiene un ahondamiento del entorno semiótico y un análisis traductológica del artículo mencionado.

Sommario

1. Prefazione 7
1.1. Biografia 8
1.2. La scuola di semiotica di Tartu-Mosca 8
1.3 L’evoluzionismo letterario di Ûrij Tynianov e le dinamiche lotmaniane 11
1.4. Strategia traduttiva 14
1.5. Analisi traduttologica 15
1.5.1. La gestione delle citazioni 21
1.5.2. L’abbondanza di connettori logici 22
Riferimenti bibliografici 23
2. Traduzione con testo a fronte 25
Riferimenti bibliografici 54

1. Prefazione

1.1. Biografia

Peeter Torop nasce in Estonia nel 1950. Allievo di Ûrij Lotman dal 1993 al 2007, si laurea all’università di Tartu e consegue un dottorato di ricerca, avendo come advisor prima Lotman e, dopo la sua morte, Uspenskij.
Dal 1993 ricopre il ruolo di capo del Dipartimento di Semiotica dell’Università, sostituendosi al maestro, fondatore dello stesso dipartimento. Sono questi gli anni più fecondi della sua carriera.
Il volume Total´nyj perevod, pubblicato in russo nel 1995 (è in corso di preparazione l’edizione èstone ampliata) e in italiano nel 2000, rappresenta il segno tangibile dell’interesse di Torop per la semiotica della traduzione. È questo libro a renderlo molto noto tra i ricercatori sulla traduzione.
Seguendo Roman Jakobson, Torop ha ampliato la portata dello studio semiotico della traduzione comprendendo la traduzione intratestuale, intertestuale ed extratestuale e sottolineando la produttività del concetto di «traduzione» nella semiotica generale.
Oggi è condirettore del prestigioso Sign Systems Studies (Σημειωτικη), la prima rivista scientifica internazionale di semiotica, all’interno della quale, nel 2003 (vol. 31.2), è stato pubblicato l’articolo di cui più avanti sarà fornita una traduzione con testo a fronte: Semiospherical understanding: Textuality.

1.2. La scuola di semiotica di Tartu-Mosca

Dal momento che Peeter Torop è uno dei più noti semiotici europei, risulta doveroso inquadrare l’autore nel contesto culturale in cui si inserisce, tanto più che si tratta di un terreno scientificamente assai fertile e di origini nobili: la scuola di semiotica di Tartu-Mosca.
Nel Novecento, l’evoluzione degli studi linguistici e letterari ha avuto tra i suoi punti focali tre paesi dell’Europa orientale: Russia, Cechia ed Estonia. Tra il 1914 e 1915, nasce il Circolo linguistico di Mosca, sotto l’egida dell’Accademia delle scienze russa, seguito a breve distanza (1917) dalla formazione a Pietroburgo dell’OPOÂZ, sigla della Società per lo studio del linguaggio poetico. Tra i due circoli si instaura una relazione dialettica molto feconda fondata sulla loro complementarità: i moscoviti, per formazione linguisti, si occupavano prevalentemente di critica letteraria e sono approdati alla semiotica proprio dalla linguistica. Successivamente alcuni di loro si sono occupati in modo più o meno professionale di letteratura, ma la base e gli interessi linguistici sono sempre rimasti al primo posto; i pietroburghesi, invece, per formazione studiosi della letteratura, dedicavano molta della loro attenzione al linguaggio poetico. Questo diverso background culturale si è rivelato molto fruttuoso, poiché i due gruppi si sono arricchiti reciprocamente, comunicandosi i rispettivi interessi. Così, l’incontro con la scienza letteraria ha determinato l’interesse dei moscoviti (linguisti) per il testo e il contesto culturale, cioè per le condizioni di funzionamento del testo. A sua volta, l’incontro con i linguisti ha orientato l’interesse degli studiosi di letteratura (i pietroburghesi) verso la lingua, per la sua capacità di generare e produrre testi. Inizialmente si proponevamo un obiettivo: guardare il mondo con gli occhi del linguista, trovare e descrivere una lingua ovunque fosse possibile. Secondo questi due circoli, infatti, la cultura appare un insieme di lingue eterogenee, relativamente più specifiche. In questo senso, la cultura comprende i linguaggi dell’arte (della letteratura, della pittura, del cinema), quello della mitologia, e così via. Il funzionamento di tali linguaggi è interrelato in modo complesso, e il carattere stesso dell’interrelazione è, in generale, determinato dalla cultura, cioè risulta diverso in situazioni storiche diverse. La cultura, in senso semiotico ampio, è dunque intesa come sistema di relazioni che si instaurano fra l’uomo e il mondo. Questo sistema da un lato regola il comportamento umano, dall’altro determina il modo in cui viene modellizzato il mondo. Ciò permette, tra l’altro, di guardare la storia in prospettiva semiotica: da un certo punto di vista il processo storico appare un sistema di comunicazione fra la società e la realtà che la circonda, in particolare fra le diverse società e, allo stesso tempo, come dialogo fra la personalità storica e la società. A questo proposito sono particolarmente interessanti le situazioni di conflitto in cui i partecipanti al processo comunicativo parlano lingue (culturali) diverse, cioè quando i medesimi testi vengono letti in modo diverso. Questo spiega anche il motivo per cui questa scuola pone testi culturali concreti come oggetto dei suoi studi semiotici.
Ma torniamo alle origini della scuola semiotica di Tartu-Mosca. Nella città di Mosca lavora inizialmente Romàn Jakobson, che in un secondo tempo diviene anche membro dell’OPOÂZ a Pietroburgo, per poi trasferirsi in Cechia nel 1920 (fino al 1939), e fondare il Circolo linguistico di Praga. A Pietroburgo lavorano, tra gli altri, Èjhenbàum, Tomaševskij, Bahtìn, Propp e Tynânov, il gruppo poi divenuto noto come «i formalisti russi».
Ma, per la nascita della scuola semiotica di Tartu, bisogna risalire agli anni Quaranta, a Pietroburgo, dove il giovane Ûrij Lotman si iscrive all’università, laureandosi in lettere nella facoltà dove insegnano molti dei docenti che, nel ventennio precedente, sono stati protagonisti del formalismo e dello strutturalismo, tra i quali citiamo Propp, a noi noto soprattutto per gli studi sul folclore e sulla fiaba.
Lotman comincia, quindi, la propria carriera universitaria a Tartu, interessandosi particolarmente ai metodi di analisi del «testo poetico» (termine con cui intende qualsiasi testo “aperto”, non settoriale) e alle ricerche sui modelli ideologici della cultura. Siamo negli anni Sessanta quando Lotman tiene il primo corso di poetica strutturale, che sarà poi pubblicato in Lezioni di poetica strutturale nel 1964. Due anni prima, nel 1962, viene organizzato a Mosca un simposio sullo studio strutturale dei sistemi di segni, nel corso del quale vengono lette relazioni di semiotica della lingua, di semiotica generale, di semiotica dell’arte, della comunicazione coi sordi, dei rituali. Tali relazioni saranno poi pubblicate nelle ormai famose Tesi.
Entrato in possesso delle tesi del simposio moscovita, Lotman va a Mosca per prendere contatti con i suoi colleghi russi e per proporre loro una collaborazione avente come base geografica proprio la città di Tartu. Nasce così, da questa collaborazione, la prestigiosa rivista Trudy po znakovym sistemam [Lavori sui sistemi segnici], che esiste e prospera tuttora (lo stesso Torop ne è direttore) e ha un titolo in altre tre lingue: Sign System Studies, Töid märgisüsteemide alalt (in èstone) e Semeiotikè. E sempre nel 1964 si tiene la prima conferenza della neonata “scuola” a Tartu. Il fatto che molti chiamino questa scuola semplicemente «scuola di Tartu» è dovuto proprio al fatto che in questa città ha sede la rivista che, uscendo con cadenza semestrale, costituisce uno dei punti di riferimento più importanti per la semiotica mondiale.
Nel 1992, un anno prima della morte di Lotman, il Dipartimento di letteratura russa di Tartu, fondato e reso celebre da Lotman, si scinde, e nasce il Dipartimento di semiotica (la denominazione ufficiale del corso di laurea è «Semiotica e teoria della cultura»). A capo di questo dipartimento sta proprio il professor Peeter Torop, uno degli studiosi più competenti per quanto riguarda la semiotica applicata allo studio della traduzione.

1.3 L’evoluzionismo letterario di Ûrij Tynianov e le dinamiche lotmaniane

In Semiospherical understanding, l’articolo pubblicato nel 2003 nella rivista Sign System Studies, Torop delinea quella che è l’importanza della semiotica non solo nel campo della scienza, ma anche in quello della cultura. Secondo l’autore, la semiotica è non solo un sostegno metodologico delle scienze stesse ma anche una risorsa applicativa atta a garantire lo sviluppo di queste ultime. Ma non solo; Torop sottolinea quello che è il valore, la funzione della semiotica (aiutarci a orientarci nella storia) e, per farlo, attinge all’epilogo di V. Ivanov, uno dei fondatori della scuola semiotica di Tartu. Ma Ivanov non è l’unico studioso di semiotica citato da Torop. Come precedentemente accennato, l’ambiente dell’Università di Tartu era particolarmente fecondo: numerose personalità entravano in contatto tra loro comunicandosi i reciproci interessi, le idee, le convinzioni, e l’articolo di Torop ne è la testimonianza. Per argomentare il suo discorso, infatti, l’autore cita diversi suoi colleghi, mutuandone il pensiero.
Una delle personalità che più emergono nell’articolo, oltre ovviamente al maestro per eccellenza di Torop, Lotman, è Ûrij Tynânov. Allievo di Vèngerov, un uomo il cui metodo era l’empirismo, Û. Tynânov scriveva in versi, e non si limitava ad accumulare i fatti; li selezionava, e sapeva vedere quello che sfuggiva agli altri. È forse il suo spirito di osservazione ad attrarre Torop.
Per Tynânov la storia della letteratura, dove per «letteratura» si intende un sistema di segni in correlazione con altri sistemi, non è la storia di un susseguirsi di errori, bensì quella di un avvicendarsi di sistemi grazie ai quali si conosce il mondo.
Ma cosa ha dato Tynânov alla storia della letteratura? Lo studioso cercava di esaminare ogni fenomeno, ogni fatto letterario, sia nella teoria, sia nella storia della letteratura, storicamente, riferendosi al contenuto concreto del fenomeno stesso e alla sua relazione con gli altri fenomeni. La sua concezione della letteratura lo ha portato a mettere in rilievo non il mutamento dei singoli fatti dell’opera, ma l’avvicendarsi dei sistemi. Tale avvicendarsi fa sì che la realtà letteraria si evolva, procedendo come a balzi, a passaggi che, per la loro bruschezza, provocano lo stupore dei contemporanei. Per «evoluzione letteraria», quindi, Tynânov intende l’alternanza di sistemi i cui elementi assumono nuove funzioni. Tali sistemi entrano in rapporto tra loro, instaurando sia rapporti di «sin-funzione» (relazioni tra elementi simili di sistemi diversi) sia di «auto-funzione» (relazioni tra elementi di uno stesso sistema). Ecco spiegata l’eterogeneità della realtà testuale, o meglio, per usare un termine di Torop, la «diacronia» della realtà testuale (Tynânov 1968).
A riflettere sulla cultura, anche Û. Lotman, spesso citato da Torop. Ûrij Michajlovič Lotman (1922-1993) è stato uno dei massimi studiosi di semiotica, nonché storico della letteratura e della cultura. Nato a Pietrobugo, dal 1963 è stato professore presso l’Università di Tartu, in Estonia, dove ha fondato la Scuola semiotica di Tartu.
Ideatore del concetto di «semiosfera», un continuum semiotico pieno di formazioni di tipo diverso, collocato a vari livelli di organizzazione e che rende possibile la vita sociale, di relazione e comunicazione, Lotman individua come oggetto della semiotica la «letteratura», che a questo punto si configura come una semiosfera densa di testi e metatesti che si richiamano e rigenerano gli uni con gli altri. Ecco, quindi, che i termini «testo» e «testualizzazione» diventano concetti fondamentali della semiotica: la testualizzazione è qui intesa come traduzione appropriativa del reale che, filtrato dai linguaggi, si trasforma in «testo». Siamo dunque davanti a una testualità allargata che finisce per comprendere tutte le forme culturali. Ora va detto che il singolo testo, rispetto all’insieme della semiosfera, può assumere il ruolo del frammento, del «ricordo» a partire dal quale ricostruire il tutto: ma, avverte Lotman, la ricostruzione necessaria alla decodifica di un testo porta sempre, in realtà, alla creazione di un nuovo linguaggio. L’idea della continua riformulazione del senso è un tratto ricorrente del pensiero lotmaniano, che accoglie la lezione strutturale accompagnandola a una grande attenzione per gli aspetti dinamici e quindi anche diacronici dei fenomeni studiati.
In Semiospherical Understanding Torop cita anche le dinamiche lotmaniane che si instaurano tra la parte e il tutto. Per spiegare i rapporti fra parti e intero, tra testo – sempre inteso come singolo organo rispetto a un organismo più complessivo, e non come parte di un meccanismo priva di un significato proprio – e sistema culturale, Lotman ricorre alla metafora dello specchio, che è il punto di partenza di una sua approfondita riflessione sulle leggi della simmetria, che paiono rappresentare una chiave di senso a livello “micro” quanto “macro”:

Come un volto che si riflette in uno specchio, si riflette anche un qualunque suo frammento, che appare così parte dello specchio e nel contempo tempo simile a esso (Lotman 1985: 66).

Fra le parti deve esserci però non solo un rapporto di somiglianza ma anche una qualche differenza, che renda possibile la dialogicità del sistema, così come nello scambio comunicativo è necessaria la presenza di due partner simili e allo stesso tempo diversi. Ogni elemento della semiosfera è quindi un partner del dialogo, mentre l’insieme della semiosfera è lo spazio del dialogo, la sua condizione di possibilità.
Questo rapporto fra ordini diversi di complessità si riscontra anche nello studio dei contatti fra le varie aree culturali, come fra Oriente e Occidente: perché il dialogo sia possibile è necessario che il testo trasmesso e quello ricevuto in sua risposta debbano formare, da un terzo punto di vista, un unico testo: «Il testo trasmesso, prevenendo la risposta, deve contenere gli elementi capaci di permettere la traduzione in un’altra lingua, altrimenti il dialogo è impossibile» (Lotman 1985: 68). I testi che trasmutano da una cultura all’altra si trasformano, recando in sé le tracce dei percorsi e dei tragitti che hanno compiuto: è la loro duttilità che permette lo scambio e l’arricchimento .
Ancora una volta torna, quindi, la concezione di una cultura feconda perché eterogenea e in continua evoluzione, dove ogni testo non solo assume il suo significato autonomo e dipendente dal suo funzionamento interno, ma acquisisce il suo significato anche attraverso le relazioni con gli altri testi, ossia, come parte di un tutto. Ecco perché la scienza ha bisogno di ricreare costantemente il suo oggetto di ricerca, perché nella cultura come organismo vivente emergono costantemente nuove relazioni e nuovi sistemi, e la testualizzazione è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori per analizzare la cultura stessa.

1.4. Strategia traduttiva

Semiospherical understanding viene pubblicato nel 2003, nel volume n. 31.2 della prestigiosa rivista di semiotica Sign Systems Studies, An international journal of semiotics and sign processes in culture and nature.
La rivista scientifica viene fondata nel 1964 da Ûrij Lotman, ed è per questo che è la più storica rivista internazionale di semiotica. Inizialmente (e fino al 1992) pubblicata esclusivamente in russo – lingua ufficiale dell’Unione sovietica –, è ora pubblicata anche e soprattutto in inglese, ed è diventata un’istituzione centrale nella semiotica della cultura. Dal 1998, la Sign Systems Studies viene pubblicata come rivista internazionale peer-reviewed sulla semiotica della cultura e biosemiotica. Pubblicata regolarmente, un volume all’anno, è presente nelle più importanti banche dati scientifiche.
Considerando, dunque, la portata della rivista in cui è stato pubblicato, il prototesto ha le caratteristiche di un saggio scientifico e, in quanto tale, ha come obiettivo principale quello di informare, di veicolare un’informazione a un pubblico sicuramente competente ed esperto in materia. Questo obiettivo si è concretizzato nello stile scelto dall’autore: argomentativo, rigoroso, scientifico e ricco di termini settoriali.
Il saggio è incentrato sull’importanza della semiotica sia nel campo della scienza che della cultura e solo un pubblico competente può comprendere i ragionamenti di Torop senza doversi specificamente documentare. Tuttavia, bisogna osservare la differenza tra il lettore modello del prototesto e un ipotetico lettore della mia proposta di metatesto: per la mia proposta di traduzione non è prevista nessuna pubblicazione in nessuna rivista scientifico-settoriale sulla semiotica, né tantomeno a leggerla sarà un pubblico di studiosi di semiotica. Ovviamente questo ha influito senza dubbio sulle scelte che ho dovuto fare per la stesura della versione italiana, benché la fluidità dei ragionamenti e il “tipo” di inglese utilizzato nel prototesto non siano risultati estremamente complessi.
In breve, posso dire di aver seguito il filo logico e lineare dell’autore, pur prestando attenzione al significato e ai vari traducenti delle parole, e pur coniando a volte anch’io neologismi sulla base dei neologismi proposti dall’autore stesso. Il tutto con l’obiettivo di ricreare una versione avente la stessa dominante del prototesto: informare un lettore specialistico.

1.5. Analisi traduttologica

Se, da una parte, l’inglese impiegato nel prototesto è un inglese abbastanza corretto (non va dimenticato che il prototesto è, a sua volta, stato scritto da una persona di madrelingua estone con una lingua B (il russo) fortissima, ma un inglese coltivato solo negli ultimi quindici anni), “semplice” e lineare, privo di balzi temporali o periodi subordinati eccessivamente lunghi, dall’altra una delle più grandi difficoltà nella stesura del metatesto è stata l’individuazione e la scelta del traducente di alcune parole polisemiche, primo fra tutte il termine inglese «language».
In un dizionario monolingue britannico, la definizione di «language» è la seguente:

Language /’lG1gwIdZ/
n
1. a system for the expression of thoughts, feelings, etc., by the use of spoken sounds or conventional symbols
2. the faculty for the use of such systems, which is a distinguishing characteristic of man as compared with other animals
3. the language of a particular nation or people
the French language
4. any other systematic or nonsystematic means of communicating, such as gesture or animal sounds
5. the specialized vocabulary used by a particular group (Collins 2008).

Sulla base di queste accezioni, i traducenti di «language» nel nostro metatesto possono essere i seguenti: «linguaggio» o «lingua». Ma su quale base operare la scelta?
Considerando le definizioni delle due parole italiane

Lin|guàg|gio
s.m.
1 AU capacità comune a tutti gli esseri umani di apprendere una o più lingue storico–naturali e di servirsene per ragionare, intendersi reciprocamente, comunicare sia oralmente sia, tra le popolazioni che conoscono la scrittura, graficamente, scrivendo e leggendo
TS ling., psic., facoltà umana ricca di elementi innati, universali, presenti in ogni lingua
3a TS semiol., capacità d’utilizzazione di qualunque tipo di codice che, pur diverso dalle lingue storico–naturali, sia in grado di ordinare la produzione e comprensione di segnali della più varia natura: linguaggi animali, studiati dalla zoosemiotica, l. delle api, dei delfini; linguaggi logici, simbolici, convenzionali | l. gestuale, in cui il significante è realizzato con gesti visibili per il destinatario, cui si possono ricondurre le lingue dei segni in uso tra i sordomuti
3c TS log., ling., inform., qualsiasi insieme di stringhe di simboli le quali siano generabili a partire da un vocabolario finito, non creativo, secondo un numero finito di regole sintattiche applicabili infinitamente, talché sia decidibile l’appartenenza di una stringa all’insieme

e

Lìn|gua
s.f.
3a FO parlata, idioma, ant. favella, loquela, talora linguaggio come facoltà umana; più spesso modo di parlare peculiare di una comunità umana, appreso dagli individui (in condizioni normali) fin dai primi mesi di vita, affiancato, per le popolazioni alfabetizzate, da modalità ortografiche e di stile connesse alla pratica dello scrivere e del leggere; […]
3c TS ling., insieme (cui spesso si attribuisce carattere di sistema) di morfi, il cui significante è costituito adoperando un insieme finito e poco numeroso di unità distintive asemantiche, dette fonemi; nei morfi in generale si riconoscono morfemi lessicali e morfemi grammaticali, che, combinati secondo regole sintagmatiche e regole di assegnazione di ruoli sintattici, consentono di generare (cioè descrivere in modo ordinato) un numero potenzialmente infinito di frasi (e, quindi, di discorsi o testi), ciascuna realizzabile in un numero indefinito di enunciazioni concrete (atti di parole, speech acts) consistenti in una espressione (fonica o grafica e simili) e di una significazione (o senso, riferimento), entrambe ricche di elementi (prosodici, sul versante dell’espressione fonica, pragmatici, sul versante della significazione) importanti nell’esecuzione, ma di più problematica attribuzione all’insieme in quanto sistema astratto […]. (De Mauro 2008)

e considerando il contenuto centrale del prototesto, sebbene la parola «lingua» sembri interscambiabile con il termine «linguaggio», nella scelta del traducente ho dovuto prestare molta attenzione al contesto in cui «language» si trovava. Sulla base di questa premessa, ho ritenuto opportuno utilizzare «linguaggio» ogni qualvolta «language» stava a significare «qualunque tipo di codice»; e «lingua» ogni qualvolta «language» significava un linguaggio naturale. Fatta questa prima distinzione, nel corso del saggio la parola «language» si trovava spesso in coppia con altri sostantivi, come ad esempio «description» o «object», i quali, specificando contestualmente la parola in questione, mi hanno aiutato nella scelta del traducente più idoneo.

Un altro caso, questa volta un traducente appartenente alla lingua italiana, in cui ho avuto la stessa difficoltà nell’identificazione della parola più idonea è stato quello di «genere». La lingua italiana ha un solo vocabolo, «genere» per l’appunto, per esprimere significati che in inglese sono veicolati da almeno tre parole diverse, vale a dire «genre», «gender» e «kind». Per non parlare dei diversi traducenti che ognuna di queste parole potrebbe avere col variare del contesto.
Infatti, le mie difficoltà sono cominciate quando mi sono trovata davanti la parola inglese «genre». Al momento della ricerca del traducente, che a prima vista era ovviamente «genere», mi sono resa conto che, nel contesto in cui si trovava la parola inglese (cito il prototesto),

Text of tradition, on the other hand, expresses explicit belonging to a movement, style, grouping or genre, as well as causal or typological relations with predecessors or successors.

il solo traducente italiano non bastava. Questo perché, come precedentemente sottolineato, «genere», nella lingua italiana, è una parola riccamente polisemica

Gè|ne|re
s.m.
1a FO insieme, raggruppamento concettuale di cose o individui che hanno caratteristiche fondamentali comuni; tipo, specie: non sono abituato a questo g. di cose, conoscere persone di ogni g., che g. di vita fai?; non mi piace questo g. di mobili, di abiti; scherzo di cattivo g., di cattivo gusto
2 TS zool., bot., biol., categoria sistematica superiore alla specie e inferiore alla famiglia: un g. comprendente due sole specie
3a CO forma di espressione, categoria in cui vengono tradizionalmente raggruppate opere artistiche con caratteristiche strutturali e contenutistiche simili: g. epico, narrativo; g. comico, tragico; g. strumentale, melodrammatico; g. poliziesco, horror
3b TS ret., ciascuno dei tre stili dell’oratoria classica, differenziato in base alla destinazione e allo scopo dell’orazione
4 TS ling., gramm., categoria grammaticale presente nelle lingue indoeuropee, semitiche e in molte altre famiglie linguistiche, in base a cui nomi, aggettivi, pronomi e alcuni numerali si distinguono in maschili e femminili (ad es. in italiano, francese, spagnolo) o maschili, femminili e neutri (ad es. in latino e tedesco): essa si manifesta attraverso l’opposizione di desinenze e attraverso i meccanismi dell’accordo e, a seconda delle lingue, può essere più o meno correlata col genere naturale di ciò che è designato dal vocabolo (abbr. g., gen.) | categoria grammaticale che in alcune lingue, come l’urdu, è riconoscibile anche nel verbo e che in italiano appare in forme analitiche del passato e del passivo
5 TS mus., una delle tre modalità della musica greca antica
6 CO spec. al pl., merce, prodotto, spec. alimentare: generi di prima necessità, di lusso, di importazione
7 TS mat., numero che esprime alcune proprietà analitiche e topologiche della curva algebrica (De Mauro: 2008)

e, in quel contesto, necessitava di un aggettivo per rendere il suo significato meno ambiguo. Ecco il perché della scelta dell’aggiunta dell’aggettivo «testuale», indispensabile, qui, per disambiguare l’attualizzazione.

Diverso è stato invece il caso del compound «album verse». Il problema non è stato tanto tradurre questa espressione, in quanto i due sostantivi, se presi singolarmente, sono molto semplici da tradurre. Il problema è stato, piuttosto, il loro accostamento. Nel prototesto i due termini li troviamo citati in questo modo:

Of course, the relations of cultural text and literary text are more complicated than that. Texts with prestige such as the Classics or the Bible function above all as cultural texts. On the other hand, cultural text can bring about the emergence of literary text, as can be witnessed in the case of salon literature or album verse.

In questo caso, a veicolarmi verso la traduzione più idonea dell’espressione sopra citata è stata la presenza, nello stesso passo, della locuzione «salon literature». Quest’ultima mi ha aiutato a focalizzarmi su un periodo ben preciso: tra Settecento e Ottocento. Allora ho intrapreso una ricerca sul portale di Google, nella speranza di trovare una minima spiegazione di cosa fosse un album verse. Ma niente mi ricollegava al significato della locuzione. La soluzione mi è stata, invece, fornita dal professor Torop in persona, contattato per email. Le sue parole sono state le seguenti:

Salonnaja literatura i al´bomnaja poezija javlenija dvorjanskoi kul´tury v Rossii. So vremjon Pushkina i Lermontova eti teksty voshli v literaturu kak vo vremja sentimentalizma dnevnik voshol v literaturu (do etogo byl bytovym kul´turnym
javlenijem). Al´bomnye stihi ochen´ chasto posvjasheny hozjaikam literaturnyh salonov itd. Eti stihi chitali gosti salona, no potom ih stali i pechatat´ v zbornikah avtorov .

Ovvero:

La letteratura da salotto e la poesia da album sono fenomeni della cultura nobiliare in Russia. Dai tempi di Puškin e Lermontov questi testi sono entrati nella letteratura come al tempo del sentimentalismo il diario era entrato nella letteratura (prima era un fenomeno della vita quotidiana). I versi da album molto spesso sono dedicati alla padrona di casa dei salotti letterari ecc. Questi versi li recitavano gli ospiti del salotto, ma poi si sono messi anche a pubblicarli nelle antologie degli autori.

Dunque, sulla base di questa esauriente spiegazione, ho optato per la seguente traduzione: poesia da album.

Il problema della scelta dei traducenti non è stato l’unico che ho dovuto affrontare. Come già precedentemente accennato, il prototesto presenta un alto uso di termini settoriali. Quando però il termine settoriale in questione è un neologismo, le decisioni traduttologiche da prendere sono diverse. In particolare, mi riferisco alle difficoltà incontrate con il termine «noosphere».
In Semiospherical understanding, la prima volta in cui viene menzionata la parola è nella citazione di Ivanov, assieme alla parola «semiosphere».

The task of semiotics is to describe the semiosphere without which the noosphere is inconceivable […] (Semiospherical understanding 2003: 1).

Per quanto la traduzione di «semiosphere» potesse essere chiara, così come era chiaro il concetto stesso di «semiosphere», quello che al momento risultava oscuro era il concetto di «noosphere» e, a questo punto, anche il suo traducente.
Il primo passo è stato quello di capire il significato della parola «noosphere» e, conseguentemente, cercare un traducente idoneo per quel concetto. Tra i lemmi di un dizionario monolingue britannico, la parola «noosphere» non era menzionata, così come non lo era tra i lemmi di un dizionario bilingue italiano-inglese. Fallita questa ricerca, il secondo passo è stato cercare il significato della parola nella Rete ma, nonostante l’aiuto degli operatori booleani, la ricerca non ha prodotto risultati soddisfacenti. Allora ho optato per la consultazione dell’enciclopedia libera Wikipedia, dove mi è stato possibile trovare il significato di «noosphere» (the “sphere of human thought” being derived from the Greek νους (“nous“) meaning “mind“) ma solo in lingua inglese. Nella lingua italiana, infatti, la parola inglese non aveva nessun traducente.
Più avanti, nel prototesto, la parola «noosphere» ricompare. Questa volta, però, ne viene fornita una spiegazione:

As noosphere is the future living environment of the humankind, created in mutual agreement and on rational principles, it follows from this definition that semiotics must assist mankind in understanding both history and future (Semiosherical understanding 2003: 12).

Sulla base di questa parafrasi, mi sono resa conto che la definizione di «noosphere» fornita da Wikipedia non poteva essere applicata al mio contesto e che, nonostante il dizionario di italiano non includesse tra i suoi lemmi la parola «noosfera», quest’ultima era il traducente più preciso per la parola inglese «noosphere». E così, ricalcando il neologismo dell’autore, anche nella mia versione del metatesto ho deciso di riproporre lo stesso neologismo.

1.5.1. La gestione delle citazioni

Tornando al concetto di «semiosfera», quel gigantesco macrosistema nel quale le singole culture interagiscono, arricchendosi reciprocamente, essa ha una forte influenza sulla genesi di qualsiasi enunciazione che facciamo, scritta o orale che sia. Essendo, infatti, ogni enunciazione inserita in un contesto (la semiosfera), più questo è arricchito dalla cultura altrui, più l’enunciazione può essere influenzata da quest’ultima. E lo stesso Lotman, autore e semiotico spesso citato da Torop, vedeva questo interagire, questo rapporto tra culture (la cultura propria e la cultura altrui) come una possibilità benefica, per la semiosfera stessa, di fecondarsi e quindi evolversi.
Partendo da questa dinamica proprio-altrui, le singole culture all’interno della semiosfera si sviluppano soprattutto grazie al confronto con l’altro. E allo stesso modo Torop ha sviluppato il suo percorso discorsivo grazie al confronto con i pensieri e le idee dei suoi contemporanei. Da qui la presenza, nel suo articolo, di numerose citazioni che nel corso del tempo hanno influenzato il suo pensiero. Esse, e il modo in cui sono state gestite, oltre a rivelare lo stile di Torop, sono in qualche modo la testimonianza degli studi fatti dall’autore nel campo della semiotica, il frutto delle consultazioni di scritti esistenti. Nel caso di Semiospherical understanding, la citazione guida il lettore nella comprensione del messaggio, ma guida anche l’autore nella stesura del suo stesso pensiero, lungi però dall’essere sterile e statica. In questo modo, il prototesto presenta tutte le caratteristiche per potersi considerare un saggio compilativo, ossia un intertesto.

L’«intertesto» è il testo che contiene una citazione, un rimando o un’allusione a un altro testo (Osimo 2005: 15).

Sulla base dei parametri di implicitezza-esplicitezza di un intertesto, oltre a essere un saggio compilativo in quanto prodotto della consultazione di opere già esistenti, il prototesto è un intertesto esplicito in quanto sia la citazione sia la sua fonte sono dichiarate. La costante presenza di delimitatori grafici, infatti, aiuta il lettore a comprendere che l’autore ha inserito una citazione; la presenza tra parentesi dell’autore della citazione stessa, d’altro canto, rende noto l’autore e il documento da cui è stata estrapolata la citazione. Il tutto per mantenere il lettore costantemente informato sul percorso argomentativo sviluppato dal professore stesso.
Un’ultima osservazione in merito alle citazioni riguarda la loro “provenienza”. Se la funzione della citazione nel nostro prototesto è prevalentemente quella di informare, o meglio, di arricchire l’informazione veicolata dal prototesto stesso o magari di giustificarla, individuarne la provenienza può aiutare ancora di più nella comprensione del messaggio. Analizzando gli autori citati da Torop, tutti studiosi di semiotica presso l’università di Tartu, si evince che le fonti delle citazioni fanno parte sia del patrimonio culturale dell’autore stesso sia della cultura emittente di quel periodo (gli anni Novanta) e, ancora una volta, non fanno altro che arricchire il prototesto.

1.5.2. L’abbondanza di connettori logici

Infine, un’ultima osservazione in merito all’uso dei «connettori logici», quella parte invariabile del discorso che unisce due unità sintattiche in un rapporto di coordinazione o subordinazione, in funzione della dominante del prototesto.
A testimoniare il fatto che il prototesto ha come funzione principale quella di veicolare un messaggio, un’informazione, Torop fa un uso direi quasi abbondante di connettori logici, in particolare di «congiunzioni coordinate conclusive». Queste “parole gancio”, come «hence», «thus» o «therefore», sono elementi grammaticali che svolgono la funzione di collegare due proposizioni, periodi o parti di un testo e, nel caso particolare delle conclusive, hanno l’obiettivo di unire tra loro due elementi di cui il secondo costituisce la logica conclusione del primo. Infatti, ogni qualvolta Torop usa, all’interno di un periodo, un connettore di questo tipo, lo fa perché vuole concludere il suo ragionamento, indirizzando il lettore verso la spiegazione più logica del concetto.
Ancora una volta, dunque, grazie all’uso di questi connettori, il prototesto risulta avere una maggiore chiarezza e coesione, oltre ad essere ben strutturato, testimonianza di uno stile lineare e preciso.

Riferimenti bibliografici

DELLINO, DARIO, Opere d’arte, Le porte per il divino, Bari, 2004, Università degli studi di Bari, http://www.lingue.uniba.it/plat/pagine/dipartimento/rassegna%20stampa/giugno%202004.htm
Il formalismo russo, Letteratour, consultato nel mese di dicembre 2007, http://www.letteratour.it/teorie/A05formal01.htm
LOTMAN, ÛRIJ, La Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985, 66, ISBN 88-317-4703-7
OSIMO, BRUNO, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.
PEZZINI, ISABELLA e SEDDA, FRANCISCO, Semiosfera, Cultural Studies, consultato nel mese di dicembre 2007, http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/semiosfera_b.html
TOROP, PEETER, La traduzione totale, (a cura di) B. Osimo, Rimini, Guaraldi, 2000, ISBN 88-8049-195-4
TYNÂNOV, ÛRIJ, Avanguardia e tradizione, traduzione di S. Leone, Dedalo, 1968, ISBN 88-2200-104-4, disponibile all’indirizzo http://books.google.com/books?id=pFVMNZkhS5UC&dq=isbn:8822001044&hl=it
VITACOLONNA, LUCIANO, Qualcosa di semiotica, Theorèin, Nozioni di semiotica, Maggio 2004, http://www.theorein.it/letteratura/letita/vitacolonna/articoli/articolo%2002%20qualcosa%20di%20semiotica.html

2. Traduzione con testo a fronte

Semiospherical Understanding: Textuality

The relevance of semiotics is increasing both in science and in culture. On the one hand, semiotics offers methodological support to the sciences the development of which has been bound up with interdisciplinary dialogue with other sciences and which are in need of methodological innovation in order to locate their shifted borders. On the other hand, culture and nature as the environment of human life have also changed, and this, in turn, requires a new understanding of how to comprehend and explain this changed environment or, in other words, how to define epistemologically the object of inquiry. Thus, the disciplinary structure of sciences has changed, interdisciplinarity has given rise to new types of scientific dialogue in the form of multi-, cross- or transdisciplinarity, but at the same time also objects of sciences have changed. Especially in the humanities and in the social sciences, due to the (technological) development of media environment and due to the creolization and hybridisation of languages of culture, objects of research have changed so rapidly that semiotics has become both a methodological as well as an applicational resource for securing sustainable development of these sciences. Traditional science and traditional culture have arrived at a stage where fragmented understanding of culture, society and nature has reached a crisis of holism. Restoration of holistic approach presupposes that the methodological principles of applicational analysis of culture, of the sciences that investigate culture, and the principles of cultural autocommunication and identity education are fruitfully combined into a unified whole. Compared to other sciences, semiotics has great advantages in creating such symbiosis.
One of the founders of the Tartu-Moscow School of Semiotics, Vyatscheslav Vs. Ivanov, has concluded his study “The outlines of the prehistory and history of semiotics” with an epilogue where he emphasizes both the scientific as well as the social value of semiotics and defines the main task of semiotics: “The task of semiotics is to describe the semiosphere without which the noosphere is inconceivable. Semiotics has to help us in orienting in history. The joint effort of all those who have been active in this science or the whole cycle of sciences must contribute to the ultimate future establishment of semiotics” (Ivanov 1998: 792).

La comprensione nella semiosfera: testualità

L’importanza della semiotica è in costante aumento sia nel campo della scienza che in quello della cultura. Da un lato, la semiotica dà un sostegno metodologico alle scienze, il cui sviluppo è stato legato al dialogo interdisciplinare con altre scienze, che necessitano di un’innovazione metodologica al fine di individuare i loro nuovi confini. Dall’altro, anche cultura e natura, in quanto ambienti della vita umana, sono cambiate e questo, a sua volta, comporta capire nuovamente come comprendere e spiegare questo cambiamento “ambientale” o, in altre parole, come definire epistemologicamente l’oggetto di indagine. Perciò, la struttura disciplinare delle scienze è cambiata, l’interdisciplinarità ha dato luogo a nuovi tipi di dialogo scientifico sotto forma di multidisciplinarità, disciplinarità incrociata e transdisciplinarità, ma, allo stesso tempo, anche gli oggetti delle singole scienze sono cambiati. Soprattutto nelle scienze umanistiche e sociali, in séguito allo sviluppo (tecnologico) dell’ambiente mediatico e alla creolizzazione e ibridazione dei linguaggi della cultura, gli oggetti di ricerca sono cambiati così rapidamente che la semiotica non solo è diventata una risorsa metodologica, ma è anche una risorsa applicativa per garantire lo sviluppo sostenibile di queste scienze. La scienza tradizionale e la cultura tradizionale sono arrivate al punto in cui la concezione frammentata della cultura, della società e della natura ha messo in crisi la visione olistica. Il ripristino dell’approccio olistico presuppone che i princìpi metodologici dell’analisi applicativa della cultura, delle scienze che esaminano la cultura, e i princìpi dell’autocomunicazione culturale e della formazione d’identità siano proficuamente combinati in un insieme unitario. Rispetto ad altre scienze, la semiotica ha grandi vantaggi nel creare tale simbiosi.
Uno dei fondatori della scuola semiotica di Tartu-Mosca, Vâčeslav V. Ivanov, ha concluso il suo studio I lineamenti della storia e della preistoria della semiotica con un epilogo dove metteva in evidenza sia il valore scientifico che quello sociale della semiotica, definendo la funzione principale sella stessa: «La principale funzione della semiotica è quella di descrivere la semiosfera, senza la quale sarebbe inconcepibile la noosfera. La semiotica deve aiutarci ad orientarci nella storia. Lo sforzo comune di tutti quelli che si sono attivati per questa disciplina o per l’intero insieme di discipline deve contribuire all’istituzione definitiva della semiotica» (Ivanov 1998: 792).
The semiospheric approach to semiotics and especially to semiotics of culture entails the need of juxtaposing several terminological fields. Among the most important, the fields of textuality, chronotopicality, and multimodality or multimediality should be listed.
The field of textuality is related to the development of semiotics of culture, especially in view of the works of Y. Lotman; the field of chronotopicality originated in the works of Mikhail Bakhtin, and the field of multimodality (multimediality) is connected at its roots with the works of Roman Jakobson. It is the interweaving of these three terminological and conceptual fields that has brought about both methodological and metalinguistic interference, as a result of which we now have to speak about creolization and hybridisation of metalanguage. But the same processes take place also inside these fields and therefore it would be expedient to investigate the three fields first of all individually. The present paper is devoted to the first one of these, the field of textuality.
Textuality in this paper denotes a general principle with the help of which it is possible to observe and to interpret different aspects of the workings of culture. The concept of textuality is meant to bridge two poles between which the main problems of describing and explaining cultures are located. One pole is marked by the opposition statics – dynamics, the other by the opposition part – whole. These two pairs of concepts are in fact closely related and their separation into two poles is necessary only for observing temporal dynamics. Through the concept of textuality, also the productivity of cultural-semiotic way of reasoning and the ability of semiotics of culture to function as a foundation science for other disciplines studying culture will become apparent.
The concept of textuality merges several questions that are methodologically relevant for all the disciplines investigating culture. First of all, there is the question of models that are used to describe culture. There does not exist a general science of culture as a separate discipline, and therefore a general study of culture must take into account the different notions that different disciplines have of this universal research object, and to look for correlations between different models of culture.
Models of culture are methodologically designed and metalinguistically formulated by the disciplines that have created them, and therefore it is vital that

L’approccio semiosferico alla semiotica e, soprattutto, alla semiotica della cultura, implica il bisogno di giustapporre diversi campi terminologici. Tra i più importanti, vanno citati i campi della testualità, della cronotopicità e della multimodalità o multimedialità.
Il campo della testualità è legato allo sviluppo della semiotica della cultura, soprattutto in considerazione delle opere di Û. Lotman; il campo della cronotopicità è nato dalle opere di Mihail Bahtin; mentre le radici del campo della multimodalità (multimedialità) sono legate alle opere di Roman Jakobson. È l’intrecciarsi di questi tre campi terminologici e concettuali ad aver determinato un’interferenza metodologica e metalinguistica a un tempo. Come risultato di ciò, siamo costretti a parlare di creolizzazione e ibridazione del metalinguaggio. Ma gli stessi processi si verificano anche all’interno di questi campi; sarebbe, pertanto, opportuno analizzare i tre campi prima di tutto separatamente. Questo articolo è completamente dedicato al primo di questi campi, la testualità.
In questo articolo, la testualità rappresenta un principio generale con l’aiuto del quale è possibile osservare e interpretare i diversi aspetti dei meccanismi della cultura. Il concetto di testualità vuole collegare due poli, in mezzo ai quali sono localizzati i principali problemi di descrizione e spiegazione delle culture. Un polo è caratterizzato dall’opposizione statico-dinamico, l’altro dall’opposizione parte-tutto. In realtà, queste due coppie di concetti sono strettamente collegate e la loro separazione in due poli è necessaria solo per l’osservazione delle dinamiche temporali. Attraverso il concetto di «testualità», diventeranno evidenti anche la produttività del ragionamento semiotico-culturale e la capacità della semiotica della cultura di funzionare come scienza fondatrice delle altre discipline che studiano la cultura.
Il concetto di «testualità» raggruppa diversi principi metodologicamente importanti per tutte le discipline che studiano la cultura. Prima di tutto, emerge la questione dei modelli usati per descrivere la cultura. Non esiste una scienza generale della cultura come disciplina a sé stante; pertanto, uno studio generale della cultura deve prendere in considerazione le diverse concezioni che le diverse discipline hanno di questo oggetto di ricerca universale e deve cercare una relazione tra i vari modelli della cultura.
I modelli della cultura sono progettati metodologicamente e formulati metalinguisticamente dalle discipline che li hanno creati ed è perciò fondamentale che
a general treatment of culture identifies the autonomy and blending of description languages and takes into account the metalinguistic translation process. Besides the characteristics of the description language, deriving from the specificity of a particular cultural model, also the existence of prestige languages in culture and the tendency of several research areas to translate themselves into the prestige language should be taken into account. Therefore, in some cases there is no direct correspondence between the object described, the describing discipline and the description language used. This brings us to the issue of relations that a metalanguage has with the object described and with other metalanguages or a prestige language.
Between culture as a complex research object and culture as a functioning system, or, methodologically speaking, between description languages (metalanguages) of culture and (object language(s) of) the process of culture there is a linguistically heterogeneous sphere of culture’s self-description. In the self-description of culture, meta- and object levels are not usually easily discernible, as self-description is a dynamic autocommunicative process that is difficult to observe due to its mutability. An answer to the question of the observability of culture’s self-description can be sought, through the concept of textuality, foremost from the aspect of the relations between communication and metacommunication.
Another issue that arises in connection with a dynamic research object is the definition of research- or articulation units. Textuality combines in itself text as a well-defined artefact and textualization as an abstraction (presentation or definition as text). In culture, we can pose in principle the same questions both to a concrete and to an abstract text, although an abstract text is only an operational means for defining, with the help of textualization, a certain phenomenon in the interests of a holistic and systemic analysis. The practice of textualization in turn helps us to understand the necessity of distinguishing between articulation emerging from the textual material itself and articulation ensuing from textuality or textualization — the former provides for comparability between texts made from the same material, the latter makes comparable all textualized phenomena irrespective of their material.

una trattazione generale della cultura identifichi l’autonomia e la fusione dei linguaggi descrittivi, oltre a prendere in considerazione il processo di traduzione metalinguistica. Oltre alle caratteristiche dei linguaggi descrittivi, che derivano dalla specificità di un dato modello culturale, vanno prese in considerazione anche la presenza dei linguaggi di prestigio nella cultura e la tendenza di diverse aree di ricerca a tradursi in linguaggi di prestigio. Per questo, in alcuni casi, non c’è una corrispondenza diretta tra l’oggetto descritto, la disciplina che descrive e il linguaggio descrittivo usato. E ciò ci conduce alle relazioni che un metalinguaggio ha con l’oggetto descritto e con altri metalinguaggi o linguaggi di prestigio.
Tra la cultura come oggetto di ricerca complesso e la cultura come sistema di funzionamento o, metodologicamente parlando, tra i linguaggi descrittivi (metalinguaggi) della cultura e il (linguaggio(i) oggetto del) processo della cultura c’è una sfera dell’autodescrizione della cultura linguisticamente eterogenea. Nell’autodescrizione della cultura, il livello del metalinguaggio e quello del linguaggio oggetto di solito non sono facilmente distinguibili, dal momento che l’autodescrizione è un processo autocomunicativo dinamico difficile da osservare a causa della sua mutevolezza. Una risposta al quesito dell’osservabilità dell’autodescrizione della cultura può essere ricercata, mediante il concetto di «testualità», anzitutto nell’aspetto delle relazioni tra comunicazione e metacomunicazione.
Un altro problema che sorge in relazione all’oggetto di ricerca dinamico è la definizione delle unità di ricerca o articolazione. La testualità combina in sé il testo come manufatto ben definito e la testualizzazione come concetto astratto (presentazione o definizione come testo). Nella cultura, possiamo in teoria porci le stesse domande sia per un testo concreto sia per uno astratto, sebbene un testo astratto sia solo un mezzo operativo per definire, con l’aiuto della testualizzazione, un certo fenomeno, nell’interesse di un’analisi olistica e sistemica. A sua volta, la pratica della testualizzazione ci aiuta a comprendere la necessità di distinguere tra l’articolazione che emerge dal materiale testuale in sé e l’articolazione che deriva dalla testualità o dalla testualizzazione – la prima tiene conto della comparabilità tra i testi dello stesso materiale; la seconda rende tutti i fenomeni testualizzati paragonabili, indipendentemente dal loro materiale.

The question of textuality is also a question of understanding the ontology of text. Both the ontology of text and the stance toward it have gradually altered in relation to many changes in culture. First, there can be observed a decrease in logocentrism and increase in the role of visual and audiovisual perception, and consequently it has to be acknowledged that there has been a shift in the hierarchy of perception channels in culture. An early and intensive visual experience leaves its mark also on traditional spheres of culture, and therefore, with each successive generation, there is reason to speak about changed attitudes with respect to literature, theatre, cinema or art, and, accordingly, also about changes in the relationships between those areas in culture. Secondly, processes of culture are so intensive and so diffuse that perceptual processes have become complementary: the consumption of metatexts can precede the consumption of the texts themselves, or, in other words, the boundary between the properties of being primary or secondary is not always visible nor important. Another important feature is the perception of a single event in communities of different types — in intertextual, interdiscursive or intermedial spaces. This, in turn, brings about transformation in whole-part relationships: the diffuse existence of a whole causes the autonomy of parts, and on the principle of pars pro toto, the whole may be represented by very different parts, while the relationship of parts with the whole can be implicit, discernible only to an expert. Hence, also the expert’s mission in culture has changed, since the observing of a diffused whole and the uniting of diffused parts into a whole are becoming an important activity securing the coherence of culture, observing, diagnosing and making prognoses for the functioning of culture as a whole. The emergence of new processes in culture has created a double identity for texts: on the one hand, every text is a result of individual creation, while on the other hand, a text exists in culture as a diffuse mental whole and subsists in this form in the collective cultural memory. A mental text is an abstract whole the structure of which depends on the amount and types of textual transformations (including transformations of text’s parts) in a given culture or, more narrowly, in a given cultural situation. Following from the principle of textuality, investigation of a text means juxtaposing both individual and cultural ontologies, juxtaposing both in time and in space.

La questione della testualità è anche una questione di comprensione dell’ontologia del testo. Sia l’ontologia del testo sia l’atteggiamento nei suoi confronti si sono progressivamente alterati in relazione ai diversi cambiamenti avvenuti nella cultura. In primo luogo, è possibile osservare una diminuzione del logocentrismo e un aumento del ruolo della percezione visiva e audiovisiva, e bisogna poi ammettere che c’è stato un cambiamento nella gerarchia dei canali di percezione nella cultura. Un’esperienza visiva intensiva lascia il segno persino nelle sfere tradizionali della cultura e, quindi, per ogni generazione successiva, c’è motivo di parlare di cambio d’atteggiamento in merito alla letteratura, al teatro, al cinema o all’arte e, di conseguenza, di cambi nelle relazioni tra quelle aree della cultura. In secondo luogo, i processi della cultura sono così intensivi e diffusi che i processi percettivi sono diventati complementari: il consumo dei metatesti può precedere il consumo dei testi stessi o, in altre parole, il confine tra le proprietà dell’essere primario o secondario non è sempre visibile, tanto meno importante. Un’altra caratteristica rilevante è la percezione di un singolo evento nelle comunità di diverso tipo – negli spazi intertestuali, interdiscorsivi o intermediali. Questo, a sua volta, determina la trasformazione delle relazioni tra il tutto e le parti: l’esistenza diffusa di un tutto causa l’autonomia delle parti e, nel principio della pars pro toto, il tutto potrebbe essere rappresentato da parti molto differenti, mentre la relazione tra le parti con il tutto può essere implicita, percepibile solo dagli esperti. Pertanto, anche la missione degli esperti nel campo della cultura è cambiata, dal momento che l’osservazione di un tutto diffuso e l’unione delle parti diffuse in un tutto stanno diventando un’attività importante per assicurare coerenza alla cultura, osservare, diagnosticare e pronosticare il funzionamento della cultura come un tutto. L’emergere dei nuovi processi culturali ha generato una doppia identità dei testi: da un lato, ogni testo è il risultato della creazione individuale, mentre, dall’altro, un testo esiste nella cultura come un tutto mentale e diffuso e sussiste in questa forma nella memoria culturale collettiva. Un testo mentale è un tutto astratto la cui struttura dipende dalla quantità e dai tipi di trasformazioni testuali (comprese le trasformazioni delle parti dei testi) in una data cultura o, più precisamente, in una data situazione culturale. Dal principio di «testualità» discende che analizzare un testo significa giustapporre sia le ontologie individuali che quelle culturali, una giustapposizione temporale e spaziale a un tempo.

Synchrony and diachrony as statics and dynamics
Polemics with F. de Saussure has influenced the development of ideas of several disciplinary trends, including Russian formalism, Prague Linguistic Circle and Danish glossematics. F. de Saussure’s “Cours de linguistique générale” contrasts synchrony and diachrony, denying at the same time the possibility of panchronic analysis of concrete linguistic facts. The reason for this lies in the divergent nature of facts belonging to the diachronic order and to the synchronic order. It is characteristic that F. de Saussure deliberately avoids the term “historical linguistics” and he prefers, when contrasting the two linguistics, to use the term “evolutionary linguistics” to denote the branch investigating the succession of linguistic states, and the term “static linguistics” to denote the branch investigating the linguistic states themselves. In order to secure greater clarity in this contrast, F. de Saussure started calling anything related to statics, “synchrony”, and anything related to evolution, “diachrony” (Saussure 1977: 114).
One of the leading figures of Russian Formalism, in many ways yet undiscovered Y. Tynianov, wrote in his 1924 paper “Literary fact”: “Literary fact is [internally] heterogeneous, and in this sense literature is an incessantly evolutioning order” (Tynianov 1977: 270). A few years later in the paper “On literary evolution” (1927) he specifies that the study of literary history needs to address also the living contemporary literature. As Tynianov claims, historical studies of literature were until then occupied either with the genesis of literary phenomena or with the evolution of literary order (Tynianov 1977: 271). The question of literary order or system is for Tynianov inseparable from the question of function: “A literary system is first of all a system of the functions of the literary order which are in continual interrelationship with other orders. Systems change in their composition, but the differentiation of human activities remains. The evolution of literature, as of other cultural system, does not coincide either in tempo or in character with the systems with which it is interrelated. This is owing to the specificity of the material with which it is concerned. The evolution of the structural function occurs rapidly; the evolution of the literary function occurs over epochs; and the evolution of the functions of a whole literary system in relation to neighbouring systems occurs over centuries”(Tynianov 1977:277). In Tynianov’s system, we can observe the relatedness

Sincronia e diacronia: statica e dinamica
La polemica nei confronti di F. de Saussure ha influenzato lo sviluppo delle idee di diverse tendenze disciplinari, compreso il formalismo russo, il Circolo linguistico di Praga e la glossematica danese. Il Cours de linguistique générale di F. de Saussure mette a confronto la sincronia con la diacronia, negando allo stesso tempo la possibilità di un’analisi pancronica dei fatti linguistici concreti. La ragione di ciò sta nella natura contrastante dei fatti appartenenti all’ordine diacronico e a quello sincronico. È tipico di F. de Saussure evitare intenzionalmente la denominazione «linguistica storica» e preferire, quando si mettono a confronto le due linguistiche, l’uso del nome «linguistica evolutiva» per denotare la branca che analizza la successione degli stati linguistici e del nome «linguistica statica» per denotare la branca che analizza gli stati stessi della linguistica. Per rendere le cose più chiare in questo contrasto, F. de Saussure ha cominciato a chiamare ogni cosa che si riferisse alla statica «sincronico» e ogni cosa si riferisse al movimento «diacronico» (Saussure 1977: 114).
Una delle figure principali del formalismo russo, per molti aspetti ancora sconosciuto, Û. Tynânov, nel suo articolo Il fatto letterario del 1924 ha scritto: «La realtà letteraria è [al suo interno] eterogenea e, in questo senso, la letteratura è un ordine in continua evoluzione» (Tynânov 1977: 270). Pochi anni più tardi, nell’articolo Sulla evoluzione letteraria (1927) ha specificato che lo studio della storia letteraria ha bisogno di dedicarsi anche alla letteratura contemporanea. Come afferma Tynânov, gli studi storici della letteratura sino ad allora si occupavano o della genesi dei fenomeni letterari o dell’evoluzione dell’ordine letterario (Tynânov 1977: 271). Per Tynânov la questione dell’ordine o del sistema letterario è inseparabile da quella della funzione: «Un sistema letterario è prima di tutto un sistema di funzioni dell’ordine letterario, funzioni in constante interrelazione le une con le altre. I sistemi cambiano nella loro composizione, ma la differenziazione delle attività umane persiste. L’evoluzione della letteratura, come degli altri sistemi culturali, non coincide con i sistemi con cui è correlata né per ritmo né per carattere. Ciò è dovuto alla specificità del materiale di cui si occupa. L’evoluzione della funzione strutturale si verifica rapidamente; l’evoluzione della funzione letteraria si verifica nel corso di epoche; e l’evoluzione delle funzioni dell’intero sistema letterario in relazione ai sistemi vicini si verifica nell’arco di secoli» (Tynânov 1977: 277). Nel sistema di Tynânov, è possibile osservare la relazione

of literary order to other orders — with the order of everyday life, the order of culture, social order. Everyday life is correlated with literary order in its verbal aspect, and thus, literature has a verbal function in relation to everyday life. An author’s attitude towards the elements of his text expresses structural function, and the same text as a literary work has literary function in its relations to the literary order. The return influence of literature on everyday life, again, expresses social function. The study of literary evolution presupposes the investigation of connections first of all between the closest neighbouring orders or systems, and the logical path leads from the structural to the literary function, from the literary to the verbal function. This follows from the position that “evolution is the change in interrelationships between the elements of a system – between functions and formal elements” (Tynianov 1977:281; see also Torop 1995-1996). Hence, evolution is understood as the alternation of systems (at times, alternation is slow and continuous; at times, abrupt) where formal elements do not disappear but gain new functions. It is necessary to understand that a system is not a reciprocal influence of all the elements: some elements have greater import (dominant) and deform others, and it is through the dominant that a work gains its literary importance (Tynianov 1977: 277). The interpretation of the structural function coincides to a large extent with the interpretation of the dominant, since the relations between the elements of a work can be described in at least two ways. Every element of a work can be juxtaposed with other similar elements in other works-systems, even in other orders — this is called “synfunction” by Tynianov. At the same time, each element is related to other elements of its own system, which is called “auto-function” by Tynianov (1977: 272). Thus, each element has at least two functional parameters.
Better known in the modern reception of Tynianov’s works is the opposition genesis and tradition, originally presented in his earlier article “Tyutchev and Heine” (1922). Genesis of a literary phenomenon belongs to the sphere of accidental transferences from a language into another language, from a literature into another literature, while tradition refers to regularities taking place within one particular national literature (Tynianov 1977: 29). Thus, also genesis and tradition constitute two parameters of one phenomenon, and these two parameters need to be juxtaposed in order to

dell’ordine letterario con gli altri ordini – con l’ordine della vita di tutti i giorni, della cultura, con l’ordine sociale. La vita di tutti i giorni, nei suoi aspetti verbali, è collegata all’ordine letterario e, perciò, la letteratura ha una funzione verbale in relazione alla vita di tutti di giorni. L’atteggiamento di un autore verso gli elementi del testo esprime una funzione strutturale, e lo stesso testo come opera letteraria ha una funzione letteraria verso l’ordine letterario. E ancora: l’influenza di ritorno della letteratura sulla vita di tutti i giorni esprime una funzione sociale. Lo studio dell’evoluzione letteraria presuppone di indagare le connessioni prima di tutto tra gli ordini o i sistemi più vicini, e il sentiero logico porta dalla funzione strutturale a quella letteraria, dalla funzione letteraria a quella verbale. Da ciò discende la posizione secondo la quale «l’evoluzione è il cambiamento delle interrelazioni tra gli elementi del sistema – tra le funzioni e gli elementi formali» (Tynânov 1977: 281; vedi anche Torop 1995-1996). Pertanto, per «evoluzione» s’intende l’alternanza di sistemi (a volte l’alternanza è lenta e continua; a volte è brusca) dove gli elementi formali non scompaiono ma assumono nuove funzioni. È necessario comprendere che un sistema non è un’influenza reciproca di tutti gli elementi: alcuni elementi hanno un’importanza maggiore (la dominante) e deformano gli altri, ed è attraverso la dominante che un’opera acquisisce la sua importanza letteraria (Tynânov 1977: 277). L’interpretazione della funzione strutturale coincide in larga misura con l’interpretazione della dominante, dal momento che le relazioni tra gli elementi di un’opera possono essere descritte in almeno due modi. Ogni elemento di un’opera può essere giustapposto con altri elementi simili in altri sistemi di opere, persino in altri ordini – questo è ciò che Tynânov chiama «sin-funzione». Allo stesso tempo, ogni elemento è relazionato agli altri elementi del suo stesso sistema, ciò che Tynânov chiama «auto-funzione» (Tynânov 1977: 272). Pertanto, ogni elemento ha almeno due parametri funzionali.
Meglio conosciuta nella ricezione moderna delle opere di Tynânov è l’opposizione «genesi» e «tradizione», originariamente presentata nel suo primo articolo Tûtčev e Heine (1922). La genesi di un fenomeno letterario appartiene alla sfera dei trasferimenti casuali da una lingua a un’altra, da una letteratura a un’altra, mentre la tradizione si riferisce alle regolarità che hanno luogo all’interno di una data letteratura nazionale (Tynânov 1977: 29). Pertanto, anche la genesi e la tradizione costituiscono due parametri di uno stesso fenomeno, ed è necessario giustapporre questi parametri per
get a maximally multifaceted picture of reality. The distinction between genesis and tradition makes it possible, in the case of one and the same text, to speak about TEXT OF GENESIS and TEXT OF TRADITION. Text of genesis is an implicit system reflecting the subjectivity and the fortuitous nature of the creative process, a system that a researcher can reconstruct as unique. Text of tradition, on the other hand, expresses explicit belonging to a movement, style, grouping or genre, as well as causal or typological relations with predecessors or successors. A text exhibiting explicit characteristics of classicism or romanticism is certainly a text of tradition, but at the same time it does not lose its uniqueness, which remains present in the implicit authorial poetics and in which text of genesis can be discerned. Whether it is text of tradition, text of genesis or their symbiosis — what is searched for in a literary text depends on the epoch and on the reader.
The movement of Russian Formalism toward Prague Linguistic Circle is marked by a programmatic article “Problems of investigating literature and language” (1928), written jointly by Y. Tynianov and R. Jakobson. This short research program reveals already a direct polemics with F. de Saussure. The authors object to the opposition of synchrony and diachrony on the grounds that in reality these two cannot be studied in isolation: “History of a system is in turn a system. Pure synchronism now proves to be an illusion: every synchronic system has its past and its future as inseparable structural elements of the system…[…] The opposition between synchrony and diachrony was an opposition between the concept of system and the concept of evolution; thus it loses its importance in principle as soon as we recognize that every system necessarily exists as an evolution, whereas, on the other hand, evolution is inescapably of a systemic nature” (Tynianov 1977:282). Therefore, what is of foremost importance in this approach is the understanding that synchrony incorporates different time periods, that each cross-segment of synchrony may be related to most different epochs: “The concept of a synchronic literary system does not coincide with the naively envisaged concept of a chronological epoch, since the former embraces not only works of art which are close to each other in time but also works which are drawn into the orbit of the system from foreign literatures or previous epochs. An indifferent cataloguing of coexisting phenomena is not sufficient; what is important is

avere un quadro il più poliedrico possibile della realtà. La distinzione tra genesi e tradizione ci permette, nel caso di un testo, di parlare di «testo della genesi» e di «testo della tradizione». Il testo della genesi è un sistema implicito che riflette la soggettività e la natura fortuita del processo creativo, un sistema che un ricercatore può ricostruire in quanto unico. Il testo della tradizione, d’altro canto, esprime l’appartenenza esplicita a un movimento, uno stile, un’organizzazione o un genere testuale, così come le relazioni fortuite o tipologiche con i predecessori o successori. Un testo che mostra le caratteristiche esplicite del classicismo o del romanticismo è senza dubbio un testo della tradizione, ma allo stesso tempo non perde la sua unicità, che rimane presente nella poetica implicita dell’autore e dalla quale si può discernere il testo della genesi. Che sia il testo della tradizione, il testo della genesi o la loro simbiosi, ciò che si ricerca in un testo letterario dipende dall’epoca e dal lettore.
Rispetto al Circolo linguistico di Praga, il formalismo russo è caratterizzato da un articolo programmatico, I problemi di studio della letteratura e del linguaggio (1928), scritto in comune da Û. Tynânov e R. Jakobson. Questo breve programma di ricerca rivela già una polemica diretta contro F. de Saussure. Gli autori si oppongono alla contrapposizione sincronia-diacronia ritenendo che in realtà i due concetti non possano essere studiati isolatamente: «La storia di un sistema è a sua volta un sistema. La pura sincronia dimostra ora di essere un’illusione: ogni sistema sincronico ha il suo passato e il suo futuro, inseparabili elementi strutturali del sistema […] L’opposizione tra sincronia e diacronia era un’opposizione tra il concetto di sistema e quello di evoluzione; pertanto, in linea di principio, perde la sua importanza non appena si riconosce che ogni sistema esiste necessariamente come un’evoluzione, mentre, dall’altro lato, l’evoluzione è inevitabilmente di natura sistemica» (Tynânov 1977: 282). Pertanto, la cosa più importante in questo approccio è comprendere che la sincronia incorpora diverse epoche, che ogni segmento incrociato della sincronia può essere collegato alle epoche più diverse: «Il concetto di un sistema letterario sincronico non coincide con il concetto semplicemente immaginato di epoca cronologica, dal momento che il primo comprende non solo opere d’arte vicine nel tempo ma anche opere attratte nell’orbita del sistema dalle letterature straniere di epoche precedenti. Una catalogazione indifferente dei fenomeni coesistenti non è sufficiente; ciò che ha rilievo è
their hierarchical significance for the given epoch” (Tynianov 1977:283). On the other hand, it is emphasized that the identification of immanent regularities of literary history should be inseparably connected with the identification of the ways in which literary order and other historical orders (systems) relate to each other. Relatedness as a system of systems has its own structural laws that need to be identified. The authors caution us against isolated study: “It is methodologically detrimental to investigate correlation of systems without taking into account immanent laws of each individual system” (Tynianov 1977: 283). In the program of Y. Tynianov and R. Jakobson, it is possible to foresee the modern juxtaposition of TEXT OF HISTORY and TEXT OF CULTURE as parameters of a single text.
In linguistics, the same trend is continued during the 1930-1940ies by the Danish glossematician L. Hjelmslev. He starts out with an observation that humanities have neglected their most important task — to establish the investigation of social phenomena as a science. The description of social phenomena must choose between two possibilities.
The first possibility is poetic description; the second possibility lies in the combination of poetic and scientific treatment as two coordinate forms of description. The choice between the two possibilities should proceed from an answer to the question whether a process has an underlying system: “A priori it would seem to be a generally valid thesis that for every process [including historical processes] there is a corresponding system, by which the process can be analysed and described by means of a limited number of premisses. It must be assumed that any process can be analysed into a limited number of elements recurring in various combinations. Then, on the basis of this analysis, it should be possible to order these elements into classes according to their possibilities of combination” (Hjelmslev 1963: 9). In L. Hjelmslev’s view, it should be feasible to calculate the number of all possible combinations, and this would yield a much more objective description: “A history so established should rise above the level of mere primitive description to that of a systematic, exact, and generalizing science, in the theory of which all events (possible combinations of elements) are foreseen” (Hjelmslev 1963: 9). L Hjelmslev juxtaposes process as a relational (both-and function) hierarchy and system as a correlational (either-or function) hierarchy,

la loro importanza gerarchica per quella data epoca» (Tynânov 1977: 283). D’altro canto, si sottolinea che l’identificazione di regolarità immanenti della storia letteraria dovrebbe essere collegata in modo inseparabile all’identificazione dei modi in cui l’ordine letterario e gli altri ordini (sistemi) storici si relazionano gli uni con gli altri. La connessione in un sistema di sistemi ha le sue regole strutturali che è necessario identificare. Gli autori ci mettono in guardia contro uno studio isolato: «È metodologicamente dannoso analizzare la correlazione di sistemi senza prendere in considerazione le regole immanenti di ogni singolo sistema» (Tynânov 1977: 283). Nel programma di Û. Tynânov e R. Jakobson è possibile prevedere la giustapposizione moderna tra «testo della storia» e «testo della cultura» come parametri di un singolo testo.
Nella linguistica, la stessa tendenza è stata portata avanti nel corso degli anni Trenta e Quaranta dal glossematico danese L. Hjelmslev. Egli parte dall’osservazione secondo la quale le discipline umanistiche hanno trascurato il loro compito più importante: fare dell’investigazione dei fenomeni sociali una scienza. La descrizione dei fenomeni sociali deve scegliere tra due possibilità. La prima riguarda la descrizione poetica; la seconda consiste nella combinazione tra la trattazione poetica e quella scientifica come due forme coordinate di descrizione. La scelta tra le due possibilità dovrebbe procedere da una risposta alla domanda: «Un processo ha un sistema soggiacente?»: «A priori sembrerebbe una tesi valida a livello generale il fatto che per ogni processo [compresi i processi storici] ci sia un sistema corrispondente, attraverso il quale il processo può essere analizzato e descritto mediante un numero limitato di premesse. Bisogna supporre che ogni processo può essere analizzato in un numero limitato di elementi che ricorrono in varie combinazioni. Allora, sulla base di questa analisi, potrebbe essere possibile ordinare questi elementi in classi in base alle loro possibili combinazioni» (Hjelmslev 1963: 9). Nell’ottica di Hjelmslev, il numero di tutte le combinazioni possibili dovrebbe essere calcolabile, e ciò darebbe luogo ad una descrizione molto più oggettiva: «una storia così stabilita potrebbe superare il livello di una descrizione puramente primitiva fino a diventare una scienza sistematica, esatta e generalizzante, nella cui teoria sono previsti tutti gli eventi (combinazioni possibili di elementi)» (Hjelmslev 1963: 9). L. Hjelmslev giustappone il processo come gerarchia relazionale (funzione both-and) e il sistema come gerarchia correlazionale (funzione either-or),
associating these terms also with text and language, respectively. What is noteworthy here is not the association of this opposition with the treatment of paradigmatics and syntagmatics (especially in the works of R. Jakobson), but L. Hjelmslev’s aim to create separate metalanguages for investigating system and process. Thus, a process would be investigated in one metalanguage and the system underlying this process would be investigated in another metalanguage, although the two metalanguages would be correlated with each other. This is exactly the issue that is encountered by researchers who attempt to analyse e.g. a literary work as simultaneously a historical phenomenon and as a contemporary with a particular epoch. In such case, metalinguistic bilingualism would help to avoid mixed language. To extend this logic further, L. Hjelmslev’s innovative insight could be marked with the terminological pair TEXT OF SYSTEM and TEXT OF PROCESS, where text as system and text as process would manifest only as special cases of this opposition. Although to a different degree, the dimension of history would be present in both descriptions, similarly to the case of Y. Tynianov’s concepts of genesis and tradition.
Closer to the present time, among the manifestations of the same trend of thinking the New Historicist approach should be mentioned first, in whose vocabulary “historical context” has been substituted with “cultural system” and where relations between text and culture are seen as inherently intertextual, with intertextuality taking place between two types of text, text of literature and text of culture (see White 1989: 294). Any literary event is therefore a diachronic text of the autonomous history of literature and a synchronic text of the cultural system (White 1989: 301).
An example of the further development of the same line of thinking is provided by A. Assmann’s concept of cultural text. As a subsystem of culture, literature itself is also a cultural text; however, one and the same text has different properties as a literary text and as a cultural text. From the aspect of the relationship of identity, a literary text is a means of individual communication, while for a cultural text, a reader is foremost a representative of a group or a community. From the viewpoint of reception, between a receiver and a literary text there is an aesthetic distance, while in the case of a cultural text, there is an insistence on truth. From the aspect

associando questi termini, rispettivamente, anche al testo e al linguaggio. Ciò che qui è degno di nota non è l’associazione di questa opposizione con la trattazione della paradigmatica e della sintagmatica (soprattutto nelle opere di R. Jakobson), ma l’obiettivo di L. Hjelmsev di creare metalinguaggi separati per analizzare il sistema e il processo. Quindi, un processo potrebbe essere analizzato in un metalinguaggio e il sistema che sta alla base di questo processo in un altro metalinguaggio, sebbene i due metalinguaggi sarebbero correlati l’uno con l’altro. Questo è esattamente ciò che stanno affrontando i ricercatori che tentano di analizzare, per esempio, un’opera letteraria come fenomeno a un tempo storico e contemporaneo a una certa epoca. In questo caso, il bilinguismo metalinguistico aiuterebbe a evitare un linguaggio misto. Per estendere ulteriormente questa logica, l’intuito innovativo di L. Hjelmslev potrebbe essere contrassegnato con la coppia terminologica «testo di sistema» e «testo di processo», dove il testo come sistema e il testo come processo si manifesterebbero solo come casi speciali di questa opposizione. Anche se a un livello diverso, la dimensione della storia sarebbe presente in entrambe le descrizioni, analogamente al caso dei concetti di genesi e tradizione di Û. Tynânov.
Più vicino alla nostra epoca, tra le manifestazioni della stessa linea di pensiero, sarebbe necessario menzionare per primo il nuovo approccio stroricistico, nel cui vocabolario «contesto storico» è stato sostituito da «sistema culturale» e dove le relazioni tra testo e cultura sono viste come intrinsecamente intertestuali, dove l’intertestualità ha luogo tra due tipi di testo, il testo della letteratura e il testo della cultura (vedere White 1989: 294). Ogni evento letterario è, pertanto, un testo diacronico della storia autonoma della letteratura e un testo sincronico del sistema culturale (White 1989: 301).
Un esempio dell’ulteriore sviluppo della stessa linea di pensiero è dato dal concetto di «testo culturale» di A. Assmann. Come un sottosistema della cultura, la letteratura stessa è anche un testo culturale; ciononostante, uno stesso testo ha proprietà diverse in quanto testo letterario e testo culturale. Dal punto di vista del rapporto di identità, un testo letterario è un mezzo di comunicazione individuale, mentre per un testo culturale, il lettore è, soprattutto, un rappresentante di un gruppo o di una comunità. Dal punto di vista della ricezione, tra un destinatario e un testo letterario c’è una distanza estetica, mentre nel caso di un testo culturale, c’è un’insistenza sulla verità. Dal punto di vista
of innovation and canonicity, literary text strives toward innovation, while cultural text is associated with canonization. From the aspect of resistance to time, the background system for literary text is formed of history, of different readings done by different generations, while for cultural text, the background system is average tradition (Assmann 1995). Of course, the relations of cultural text and literary text are more complicated than that. Texts with prestige such as the Classics or the Bible function above all as cultural texts. On the other hand, cultural text can bring about the emergence of literary text, as can be witnessed in the case of salon literature or album verse.
The study of a text in culture is inseparable from the search for parameters in order to characterize the different functions of the text. Every text has its own history and at the same time it exists in general history; every text is contemporary and historical at the same time. Every text is a framed whole and as such, unchangeable. At the same time, each text is a part of culture (of cultural situation and of cultural history) and as such, ambiguous, multifunctional and changing. TEXT OF CULTURE and TEXT OF LITERATURE (or text of any other form of art) can be different forms of existence of the same text, they can be contained in each other as a part is contained in a whole, they can be autonomous wholes, temporal or atemporal, concrete or abstract, static or dynamic; however, with all these oppositions the boundary between the two sides will remain vague and ambivalent. Pure diachrony and synchrony or pure statics and dynamics are but idealized concepts. Therefore, in this context it would often be more accurate to speak not about texts, but about textuality, about complicated relations in time and space for the description of which it is convenient to use the operational term “text”. Becoming a text and being as text have to do in the analysis of cultural phenomena both with ontology and epistemology and help to understand culture as a hierarchy of (textual) identities.

Textuality, metatextuality and intertextuality
In parallel and in relation to the linguistically oriented developments there emerged similar issues also in the anthropological disciplines. At the end of the 1950ies, C. Lévi-Strauss wrote in his book “Structural Anthropology” (1958) about the necessity to describe rules of marriage and kinship systems as a kind of

dell’innovazione e della canonicità, il testo letterario tende verso l’innovazione, mentre il testo culturale è associato alla canonizzazione. Dal punto di vista della resistenza al tempo, il sistema di fondo del testo letterario è costituito dalla storia, da letture diverse di generazioni diverse, mentre per il testo culturale, il sistema di fondo è costituito dalla tradizione media (Assmann 1995). Sicuramente, le relazioni tra testo letterario e testo culturale sono molto più complesse di così. I testi prestigiosi come i classici o la Bibbia funzionano soprattutto come testi culturali. D’altro canto, il testo culturale può determinare l’emergere del testo letterario, come può essere dimostrato nel caso della letteratura da salotto o della poesia da album.
Lo studio di un testo nella cultura è inseparabile dalla ricerca di parametri per caratterizzare le diverse funzioni del testo. Ogni testo ha la sua storia e, nello stesso tempo, esiste nella storia generale; ogni testo è contemporaneo e storico a un tempo. Ogni testo è un tutto compatto e, come tale, invariabile. Nello stesso tempo, ogni testo è parte della cultura (di una situazione culturale e di una storia culturale) e, come tale, ambiguo, multifunzionale e mutevole. Il «testo della cultura» e il «testo della letteratura» (o il testo di qualsiasi altra forma d’arte) possono consistere in diverse forme d’esistenza dello stesso testo, possono essere contenuti l’uno nell’altro come una parte è contenuta in un tutto, possono essere dei tutti autonomi, temporali o atemporali, concreti o astratti, statici o dinamici; tuttavia, con tutte queste opposizioni, il confine tra le due parti rimarrà vago e ambivalente. La pura diacronia e la pura sincronia o la pura statica e la pura dinamica sono, però, concetti idealizzati. Quindi, in questo contesto, sarebbe spesso più preciso parlare non di testi ma di testualità, di complicate relazioni nello spazio e nel tempo per la descrizione delle quali è opportuno usare il termine operativo «testo». Diventare un testo ed esserlo ha a che fare, nell’analisi dei fenomeni culturali, sia con l’ontologia sia con l’epistemologia e ci aiuta a comprendere la cultura come una gerarchia di identità (testuali).

Testualità, metatestualità e intertestualità
Parallelamente e in relazione agli sviluppi a orientamento linguistico, sono emerse questioni simili anche nelle discipline antropologiche. Alla fine degli anni Cinquanta, C. Lévi-Strauss nel suo libro Antropologia strutturale (1958) ha scritto in merito alla necessità di descrivere i sistemi di regole matrimoniali e di parentela come un
language, serving as a means of communication between individuals and groups of individuals. In the year 1973 C. Geertz voices his objection to isolated descriptions that stem from ethnographic fieldwork. His book “The Interpretation of Cultures” provides an example of textualization of description of culture. Here, interpretative anthropology forms a parallel to semiotics of culture. C. Geertz’s concept of thick description refers to the ability of a researcher to explicate or reconstruct the whole on the basis of very heterogeneous, commingled or ambivalent data. In such approach, a foreign culture becomes an acted document that can be interpreted in communication. This document is comparable to a foreign and incoherent manuscript where graphic signs are replaced by examples of behaviour (Geertz 1993: 10). Such text of behaviour is one example of how a complex research object can be textualized.
Textuality as a methodological principle has a significant role also in the development of the Tartu-Moscow School of Semiotics. One of the most renowned members of the school, A. Pyatigorski, has post factum observed that this tradition started out with an undelimited research object. While in the first works at the beginning of the 1960ies the object of semiotics was “anything”, then after the publication of Y. Lotman’s first semiotic book “Lectures on Structural Poetics” (1964) the object became specified as literature: “In Lotman’s “Lectures”, a huge role was played by the introduction of the term “text” as a fundamental concept of semiotics and at the same time, as a neutral concept with respect to its object, literature. It was precisely the concept of “text” which made it possible for Yuri Mikhailovich to pass from literature over to culture as a universal object of semiotics” (Pyatigorski 1996: 54-55). “Theses on the Semiotic Study of Cultures” (1973), the programmatic work of the Tartu-Moscow School, defines semiotics of culture as a science investigating the functional correlation of different sign systems, which proceeds from the position that “none of the sign systems possesses a mechanism which would enable it to function culturally in isolation” (Theses 1973: 33). Text has been defined in “Theses” as a bridging link between a general semiotic and a concrete empirical investigation: “The text has integral meaning and integral function (if we distinguish between the position of the investigator of culture and the position of its carrier, then from the point of view of the former the text appears as the carrier of

linguaggio che funge da mezzo di comunicazione tra gli individui e i gruppi di individui. Nel 1973 C. Geertz esprime la sua obiezione nei confronti di descrizioni isolate che derivano dalla ricerca etnografica. Il suo libro Interpretazione di culture fornisce un esempio della testualizzazione della descrizione della cultura. Qui, l’antropologia interpretativa sta a fianco della semiotica della cultura. Il concetto di «descrizione densa» di C. Geertz si riferisce alla capacità dei ricercatori di spiegare nel dettaglio o ricostruire il tutto sulla base di informazioni molto eterogenee, miste o ambivalenti. In questo approccio, una cultura straniera diventa un documento attualizzato che può essere interpretato nella comunicazione. Questo documento è paragonabile a un manoscritto straniero e incoerente dove i segni grafici sono sostituiti da esempi di comportamento (Geertz 1993: 10). Tale testo-comportamento è un esempio di come possa essere testualizzato un oggetto di ricerca complesso.
La testualità come principio metodologico ha un ruolo significativo anche nello sviluppo della scuola semiotica di Tartu-Mosca. Uno degli esponenti più rinomati della scuola, A. Pâtigorskij, ha osservato post factum che questa tradizione era partita da un oggetto di ricerca non delimitato. Mentre nelle sue prime opere agli inizi degli anni Sessanta l’oggetto della semiotica era «qualsiasi cosa», dopo la pubblicazione del primo libro di semiotica di Û. Lotman, Lezioni di poetica strutturale (1964), l’oggetto è stato specificato come «letteratura»: nel libro di Lotman Lezioni, un ruolo importante è svolto dall’introduzione del termine «testo» come concetto fondamentale della semiotica e, nello stesso tempo, come concetto neutrale in merito al suo oggetto, la letteratura. È stato proprio il concetto di «testo» a permettere a Ûrij Mihailovič di passare dalla letteratura alla cultura come oggetto universale della semiotica (Pâtigorskij 1996: 54-55). Le Tesi sullo studio semiotico delle culture (1973), il lavoro programmatico della Scuola di Tartu-Mosca, definiscono la semiotica della cultura come scienza che indaga la correlazione funzionale dei diversi sistemi di segni, basandosi sulla posizione secondo la quale «nessuno dei sistemi di segni possiede un meccanismo in grado di permettergli di funzionare culturalmente in isolamento» (Tesi 1973: 33). Nelle Tesi, il testo è definito come ponte tra l’analisi semiotica generale e l’analisi empirica concreta: «Il testo ha un significato integrale e una funzione integrale (se distinguiamo tra la posizione di colui che analizza la cultura e la posizione del portatore della cultura stessa, allora dal punto di vista del primo il testo appare come il portatore di una
integral function, while from the position of the latter it is the carrier of integral meaning). In this sense it may be regarded as the primary element (basic unit) of culture. The relationship of the text with the whole of culture and with its system of codes is shown by the fact that on different levels the same message may appear as a text, part of a text, or an entire set of texts” (Theses 1973:38). In the tradition of the Tartu-Moscow School, the concept of text is, above all, dynamic: text can be an integral sign or a sequence of signs; it can be a part or a whole. On the other hand, a text can be a linguistically concrete TEXT OF LANGUAGE or a culturally concrete TEXT OF CULTURE: “In defining culture as a certain secondary language, we introduce the concept of a „culture text”, a text in this secondary language. So long as some natural language is a part of the language of culture, there arises the question of the relationship between the text in the natural language and the verbal text of culture” (Theses 1973:43). As three subtypes of this relationship there are mentioned cases where (1) a text in a natural language is not a text of a given culture (e.g. oral texts in a writing-oriented culture); (2) a text in a secondary language, i.e. a text of culture is at the same time also a text of language, i.e. a text in a natural language (e.g., a poem that is expressed simultaneously in a secondary, poetic language and in a primary language, for instance, in the poet’s mother tongue); (3) a verbal text of culture is not a text in a natural language (e.g., a Latin prayer for Slavs).
From the modern perspective, “Theses on the Semiotic Study of Cultures” written in 1973 touched upon an important aspect — virtuality: “The place of the text in the textual space is defined as the sum total of potential texts” (Theses 1973:45). Where J. Derrida would call this sum total “discourse”, Y. Lotman has used the term “homeostasis”. In his book “Universe of the Mind” (1990), expanding upon the ideas of F. de Saussure, he has claimed that synchrony is homeostatic and that diachrony is a sequence of external and accidental disturbances, reacting to which synchrony restores its integral wholeness (Lotman 1990: 6).
On the background of cultural homeostasis, the advance toward semiosphere appears as natural. Let us recall once again the already-quoted thought of V. Ivanov: “The task of semiotics is to describe the semiosphere without which

funzione integrale, mentre dal punto di vista del secondo è portatore del significato integrale). In questo senso, potrebbe essere considerato l’elemento primario (unità basilare) della cultura. La relazione che il testo ha con il tutto della cultura e con il suo sistema di codici è resa evidente dal fatto che a livelli diversi uno stesso stesso messaggio può apparire come testo, parte di un testo o un intero insieme di testi» (Tesi 1973: 38). Nella tradizione della Scuola di Tartu-Mosca, il concetto di «testo» è, soprattutto, dinamico: il testo può essere un segno integrale o una sequenza di segni; può essere una parte o un tutto. Dall’altro lato, un testo può essere «testo del linguaggio» linguisticamente concreto o «testo della cultura» culturalmente concreto. «Nel definire la cultura come linguaggio secondario indefinito, introduciamo il concetto di «testo culturale», un testo in questo linguaggio secondario. Nella misura in cui alcuni linguaggi naturali fanno parte del linguaggio della cultura, emerge la questione della relazione tra testo nella lingua naturale e testo verbale della cultura» (Tesi 1973: 43). Tre sottotipi di questa relazione sono i casi dove (1) il testo nel linguaggio naturale non è un testo della cultura data (per esempio testi orali in una cultura orientata verso la scrittura); (2) un testo in un linguaggio secondario, ossia un testo della cultura è allo stesso tempo anche un testo del linguaggio, ossia un testo in un linguaggio naturale (per esempio una poesia espressa contemporaneamente in un linguaggio secondario, poetico e in un linguaggio primario, ad esempio, nella lingua madre del poeta); (3) un testo verbale della cultura non è un testo in un linguaggio naturale (per esempio una preghiera in latino per gli slavi).
Dalla prospettiva moderna, le Tesi sullo studio semiotico delle culture, scritte nel 1973, trattano brevemente un importante aspetto – la virtualità: «Il luogo del testo nello spazio testuale è definito come somma totale di testi potenziali» (Tesi 1973: 45). Dove J. Derrida avrebbe chiamato questa somma totale «discorso», Û. Lotman ha usato il termine «omeostasi». Nel suo libro L’universo della mente (1990), sviluppando le sue idee nei confronti di F. de Saussure, ha affermato che la sincronia è omeostatica e che la diacronia è una sequenza di disturbi esterni e casuali, e reagendo a questi ultimi la sincronia ristabilisce la sua totalità integrale (Lotman 1990: 6).
Sulla base dell’omeostasi culturale, il progresso verso la semiosfera appare naturale. Ricordiamo ancora una volta il pensiero già menzionato di V. Ivanov: «La funzione della semiotica è descrivere la semiosfera, senza la quale
the noosphere is inconceivable” (Ivanov 1998: 792). As noosphere is the future living environment of the humankind, created in mutual agreement and on rational principles, it follows from this definition that semiotics must assist mankind in understanding both history and future. Hence, in addition to the relationship with the present, semiosphere has also its dimensions of history and future. What is more important, however, is that semiosphere establishes the dynamics between the part and the whole: “Since all the levels of the semiosphere — ranging from a human individual or an individual text to global semiotic unities — are all like semiospheres inserted into each other, then each and one of them is both a participant in the dialogue (a part of the semiosphere) as well as the space of the dialogue (an entire semiosphere)” (Lotman 1999: 33). This whole-part relationship is joined, in turn, by the dynamics between the subjective and the objective: “The structural parallelism between semiotic characteristics of a text and of a personality enables us to define any text on any level as a semiotic personality, and to regard any personality on any sociocultural level as a text” (Lotman 1999: 66).
The semiospherical perspective in the analysis of culture implies the establishment of textuality as an operational principle in which texts in the ordinary sense and phenomena described as texts in the interests of better comprehension exist together on equal terms. The question of their differentiation and comparability is a question of delimitation — in other words, a question of the boundaries of textuality. From the aspect of scientific accuracy, the only requirement that will stand is the traditional demand of cultural semiotics — that the position of the observer or the analyser must remain visible. This provides for the necessary degree of precision in the case where the units of analysis cannot be formalized and are not unequivocally clear-cut. Textualization should not be regarded as arbitrary delimitation but as identification of different levels in the holistic dimension in culture. The universality of and necessity for this method stems from the need to preserve the interrelations between different parts of a whole and the need to see that the whole itself exists also both as a part and as a division into parts. Each particular act of communication can be analysed as such, but it can also always be shown that the relations between a prototext and its metatext are not exhausted with the creation of the typology of metatexts. Usually, the prototext itself is also in some respect already a metatext — it is difficult to envision the existence of pure original texts in culture.

sarebbe inconcepibile la noosfera» (Ivanov 1998: 792). Dal momento che la noosfera è l’ambiente vivo e futuro dell’umanità, creato in accordo reciproco e su princìpi razionali, ne deriva la definizione secondo la quale la semiotica deve aiutare l’umanità a comprendere sia la storia sia il futuro. Quindi, oltre alla relazione con il presente, la semiosfera ha anche una dimensione della storia e del futuro. La cosa più importante, comunque, è che la semiosfera stabilisce le dinamiche tra la parte e il tutto: «Dal momento che tutti i livelli della semiosfera – dall’individuo o dal testo individuale alle unità semiotiche globali – sono come semiosfere inserite le une nelle altre, ognuna o qualunque di esse è sia partecipante al dialogo (parte della semiosfera) sia spazio del dialogo (l’intera semiosfera)» (Lotman 1999: 33). Questa relazione parte-tutto è condivisa, a sua volta, dalle dinamiche tra il soggettivo e l’oggettivo: «il parallelismo strutturale tra le caratteristiche semiotiche di un testo e di una personalità ci permette di definire ogni testo o ogni livello come una personalità semiotica, e ci permette di considerare testo ogni personalità a ogni livello socioculturale» (Lotman 1999: 66).
La prospettiva semiosferica nell’analisi della cultura implica l’affermazione della testualità come principio operazionale in cui il testo in senso ordinario e i fenomeni descritti come testi nell’interesse di una comprensione migliore coesistono a pari condizioni. La loro differenziazione e confrontabilità è questione di delimitazione – in altre parole, una questione di confini della testualità. Dal punto di vista della precisione scientifica, l’unico requisito importante è la domanda tradizionale di semiotiche culturali – dove la posizione dell’osservatore o dell’analizzatore devono rimanere visibili. Questo stabilisce il grado di precisione necessario nel caso in cui le unità di analisi non possano essere formalizzate e siano inequivocabilmente nitide. La testualizzazione non va considerata come delimitazione arbitraria ma come identificazione di livelli diversi nella dimensione olistica della cultura. L’universalità e la necessità di questo metodo derivano dal bisogno di preservare le interrelazioni tra le diverse parti del tutto e dal bisogno di vedere che il tutto esiste sia come parte sia come divisione in parti. Ogni singolo atto di comunicazione può essere analizzato in questo modo, ma può anche essere dimostrato che le relazioni tra prototesto e metatesto non sono esaurite dalla creazione di una tipologia di metatesti. Di solito, il prototesto stesso è anche, sotto alcuni aspetti, già un metatesto: è difficile immaginare l’esistenza, nella cultura, di testi puri e originali.

Textuality of culture is accompanied by the possibility to conduct analysis on many levels. A text can be investigated as autonomous and focused at by exploring its inner workings. At the same time, it can be investigated as participating in metacommunication and here, now regarded as a prototext, the text is seen as accompanied by a number of metatexts of different kinds (see also Torop 1999: 27-41). The bulk of textual transformations ranging from translations to annotations can, on the one hand, be described from the aspect of relations between the prototext and the metatext, but on the other hand each metatext belongs to its own discourse and can be analysed as a part of this. By investigating metatexts as a textual whole it is possible to analyse the ways in which a particular prototext exists in culture. This kind of investigation makes it also possible to reconstruct a missing prototext. History of theatre provides a good example of the need for metatexts in order to describe a missing prototext. It is possible to reconstruct old untaped theatre performances, but also hypothetical primal forms of different types of fairy tales (as invariants of the later variants) etc. In addition, the investigation of the relations between a prototext and metatexts makes it possible to talk about the capacity of a particular text to communicate with culture, with its audience, about the possible world of the ways the text can be interpreted and understood.
Related to this, but functioning in a completely different manner, is another unity — the intertextual association of texts, where each particular text gains its meaning through relations with other texts, that is, as a part of a whole. Such association can also be interdiscursive or intermedial. Unlike metatextuality, intertextual association is more difficult to delimit and its holistic dimension many not be as concrete.
Both the metatextual and the intertextual associations are subtypes of textuality and indicate that science needs to find possibilities first to define and then to give as multifaceted explanation as possible of the functioning of a complex cultural mechanism. A science investigating culture must constantly recreate its research object, must define and re-define its borders since in culture as a living organism there constantly emerge new relations and new systems. Culture changes, culture’s textuality is constant. Textuality is a possibility that culture offers to its analyser, and at the same time it is an ontological property of culture and an epistemological principle for investigating culture.

La testualità della cultura è accompagnata dalla possibilità di condurre analisi a diversi livelli. Un testo può essere analizzato come autonomo e focalizzato dall’esplorazione del suo funzionamento interno. Nello stesso tempo, può essere analizzato come partecipante a una metacomunicazione e qui, ora considerato come un prototesto, il testo può essere visto come accompagnato da un numero di metatesti di diverso tipo (vedere anche Torop 1999: 27-41). Il volume delle trasformazioni culturali, che varia dalle traduzioni alle annotazioni, può, da un lato, essere descritto partendo dalle relazioni tra prototesto e metatesto, ma dall’altro ogni metatesto appartiene al suo discorso e può essere analizzato come parte di questo. Analizzando i metatesti come un tutto testuale, è possibile analizzare i modi in cui un certo prototesto esiste nella cultura. Questo tipo di analisi rende possibile anche la ricostruzione di un prototesto mancante. La storia del teatro costituisce un buon esempio del bisogno di metatesti per la descrizione di un prototesto mancante. È possibile ricostruire vecchie interpretazioni teatrali non utilizzate, ma anche ipotetiche forme primitive di tipi diversi di fiabe (come invarianti delle ultime varianti) ecc. Inoltre, l’analisi delle relazioni tra prototesto e metatesto ci dà modo di parlare della capacità di un certo testo di comunicare con la cultura, con il suo pubblico, dei modi possibili in cui un testo può essere interpretato e compreso. In merito a ciò, ma con un funzionamento completamente diverso, esiste un’altra unità: l’associazione intertestuale di testi, dove ogni singolo testo acquisisce il suo significato attraverso le relazioni con gli altri testi, ossia, come parte di un tutto. Tale associazione può anche essere interdiscorsiva o intermediale. Diversamente dalla metatestualità, l’associazione intertestuale è più complicata da delimitare e la sua dimensione olistica potrebbe non essere così concreta.
Sia le associazioni metatestuali che quelle intertestuali sono sottotipi della testualità e dimostrano che la scienza ha bisogno di trovare delle possibilità prima per definire e poi per dare una spiegazione più sfaccettata possibile del funzionamento del complesso meccanismo culturale. Una scienza che analizza la cultura deve costantemente ricreare il suo oggetto di ricerca, deve definire e ridefinire i suoi confini dal momento che nella cultura come organismo vivente emergono costantemente nuove relazioni e nuovi sistemi. I cambiamenti culturali – la testualità della cultura – è costante. La testualità è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori e, nello stesso tempo, è una proprietà ontologica delle culture e un principio epistemologico per analizzare la cultura.

Riferimenti bibliografici

ASSMANN, ALEIDA, “Was sind kulturelle Texte?” In A. Poltermann (a cura di) Literaturkanon – Medienereignis – Kultureller Text. Formen interkultureller Kommunikation und Übersetzung, Berlin, Erich Schmidt, 1995, 232-244.
GEERTZ, CLIFFORD, The Interpretation of Cultures, London, Fontana, 1993.
HJELMSLEV, LOUIS, Prolegomena to a Theory of Language, traduzione di Francis J. Whitfield, Madison, University of Wisconsin Press, 1963.
HJELMSLEV, LOUIS, «Prolegomeny k teorii âzyka». Zarubežnaâ lingvistika. Moskva, Progress, 1999, 131-256.
IVANOV, VÂČESLAV, «Oĉerki po predystorii i istorii semiotiki». Izbrannye trudy po semiotike i istorii kul¬¬´tury. Т.1. Moskva: zyki russkoj kul´tury, 1998, 605-811.
LOTMAN, ÛRIJ, Universe of the Mind. A Semiotic Theory of Culture, London, New York: I. B. Tauris & Co, 1990.
LOTMAN, ÛRIJ, Semiosfäärist. Tallinn, Vagabund, 1999.
PÂTIGORSKIJ, A., “Zametki iz 90-h о semiotike 60-h godov.” In Izbrannye trudy, Moskva, Âzyki russkoj kul´tury, 1996, 52-57.
SAUSSURE, FERDINAND de, Cours de linguistique générale (a cura di) Ch. Bally e A. Sechehaye, Lausanne, Payot, 1931.
TESSID, Kultuurisemiootika teesid, Tartu Semiootika Raamatukogu 1. Tartu: Tartu Ülikooli Kirjastus, 1998.
TOROP, PEETER, “Status Tynânova”, Sed´mye tynânovskie čteniâ, Materialy dlâ oblsuživaniâ, Riga, Moskva, 1995-96, 49-58.
TOROP, PEETER, Kultuurimärgid, Tartu: Ilmamaa, 1999.
TYNÂNOV, ÛRIJ, Poètika. Istoriâ literatury. Kino, Moskva, Nauka, 1997.
WHITE, H. “New Historicism: A Comment”. H. Aram Veeser (a cura di) The New Historicism, New York, London: Routledge, 1989, 293-302.

Come Together Analisi testuale e culturale LOREDANA GENTILINI

Come Together
Analisi testuale e culturale

LOREDANA GENTILINI

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo
Correlatrice: professoressa Cynthia Bull

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2009

© Loredana Gentilini per l’edizione italiana 2009
Abstract in italiano
Questo lavoro parte dal concetto di «traduzione totale» elaborato da Torop nell’omonimo libro, in cui estende la concezione semiotica della traduzione di Jakobson, arrivando a definire come processo traduttivo qualsiasi trasferimento che da un prototesto porti a un metatesto. Attraverso l’analisi della canzone Come Together, esaminata sia da un punto di vista linguistico-testuale, fornendo anche una traduzione della canzone dall’inglese all’italiano, sia da un punto di vista culturale, analizzando gli aspetti culturali che si celano dietro le parole dell’autore, la candidata si propone di mostrare che anche una canzone può essere vista in termini traduttivi come metatesto, in quanto non è altro che la sintesi della cultura in cui viene prodotta.

English abstract
This work starts from the notion of “total translation” formulated by Torop. In his book, he develops the semiotic notion of “translation” by Jakobson, defining as “translating process” any transfer starting from a prototext and leading to a metatext. The song Come Together is examined both from a linguistic-textual point of view – providing a translation of the song from English into Italian – and from a cultural point of view – analysing the cultural aspects behind the author’s words. The candidate tries to show that a song can be seen in translation terms as a metatext, as a synthesis of the culture that produced it.

Deutsches Abstract
Der von Torop geprägte Begriff der „totalen Űbersetzung″ bildet die Grundlage dieser Arbeit. Torop erweitert in seinem gleichnamigen Buch den semiotischen Begriff der Űbersetzung von Jakobson und definiert jeden Transfer, der vom Prototext zum Metatext führt, als „Űbersetzungsprozess″. Das Lied Come Together wird sowohl vom sprachlich – textuellen als auch vom kulturellen Gesichtspunkt aus analisiert, wobei das Lied aus dem Englischen ins Italienische übersetzt wird und die kulturellen Aspekte des Liedtextes in Betracht gezogen werden. Diese Arbeit will zeigen, dass auch ein Lied als Metatext und als Synthese der Kultur, aus der es stammt, betrachtet werden kann.

Sommario

1. Prefazione 4
1.1 Premessa terminologica 6
1.2 Fonti utilizzate 7
2. Analisi del testo 9
2.1 Primo verso 11
2.1.1 Commento testuale 11
2.1.2 Commento culturale 13
2.2 Secondo verso 16
2.2.1 Commento testuale 16
2.2.2 Commento culturale 19
2.3 Terzo verso 21
2.3.1 Commento testuale 21
2.3.2 Commento culturale 21
2.4 Quarto verso 23
2.4.1 Commento testuale 23
2.4.2 Commento culturale 24
2.5 Quinto verso 25
2.5.1 Commento testuale 25
2.5.2 Commento culturale 25
2.6 Sesto verso 27
2.6.1 Commento testuale 27
2.6.2 Commento culturale 27
2.7 Settimo verso 29
2.7.1 Commento testuale 29
2.7.2 Commento culturale 29
2.8 Ottavo verso 31
2.8.1 Commento testuale 31
2.8.2 Commento culturale 31
2.9 Nono verso 33
2.9.1 Commento testuale 33
2.9.2 Commento culturale 33
2.10 Decimo verso 34
2.10.1 Commento testuale 34
2.10.2 Commento culturale 35
2.11 Undicesimo verso 36
2.11.1 Commento testuale 36
2.11.2 Commento culturale 36
2.12 Dodicesimo verso 38
2.12.1 Commento testuale 38
2.12.2 Commento culturale 38
2.13 Tredicesimo verso 41
2.13.1 Commento testuale 41
2.13.2 Commento culturale 42
3. Riferimenti bibliografici 43
4. Bibliografia 46
5. Ringraziamenti 49

1. Prefazione
Quasi tutto può essere visto in termini di traduzione, come afferma Torop nel suo libro del 1995 intitolato La traduzione totale. Nel libro egli riprende e amplia la concezione semiotica della traduzione elaborata da Jakobson in un articolo pubblicato nel 1959 dal titolo On linguistic aspects of translation, in cui divide la traduzione in tre tipi, definendo «traduzione» sia il trasferimento interlinguistico (da una lingua all’altra), sia quello intralinguistico (all’interno della stessa lingua), ma anche la trasmutazione intersemiotica, ovvero l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali. Torop estende ulteriormente questa concezione arrivando a definire come processo traduttivo qualsiasi trasferimento che da un prototesto (primo testo) porti a un metatesto (testo trasferito, testo successivo, testo ulteriore) (Osimo 2004: 9). È quindi ad esempio traduzione la fiaba popolare russa Pierino e il lupo che diviene una composizione musicale di Prokof’ev; è traduzione il romanzo di Tomasi di Lampedusa Il gattopardo che diventa un film di Luchino Visconti (Osimo 2004: 17-18) ed è un processo traduttivo una canzone, come nel mio specifico caso, in quanto è la traduzione – la sintesi – di una cultura.
Nella mia tesi ho analizzato la canzone Come Together dei Beatles sia da un punto di vista linguistico-testuale, fornendo anche una traduzione della canzone dall’inglese all’italiano, sia da un punto di vista culturale, esaminando gli aspetti culturali che si celano dietro le parole dell’autore, proprio perché una canzone non è altro che l’espressione della cultura in cui viene prodotta. È quindi possibile affermare che vi è un prototesto, costituito dalla cultura degli anni Sessanta in Gran Bretagna e in USA, e un primo metatesto costituito dalla canzone stessa, scritta in lingua originale, quella inglese. Vi è poi un altro metatesto costituito dalla canzone in lingua italiana, frutto di una traduzione interlinguistica, il cui prototesto è la canzone in lingua inglese.
Durante l’analisi della canzone, sono rimasta particolarmente colpita da come ogni singola parola, ogni verso e in generale ogni scelta creativa operata dall’autore esprima caratteristiche della cultura del tempo, del contesto culturale in cui è stata scritta, da cui è impossibile prescindere. Ad esempio, il verso he wear no shoe shine che ho tradotto con la frase «non porta scarpe lucidate», «non si lucida le scarpe», a prima vista potrebbe sembrare privo di connotazioni culturali e degno di poca considerazione. Infatti, Come Together è stata spesso descritta erroneamente come una canzone misteriosa, piena di nonsense, dal contenuto incomprensibile, nonostante sia stata una hit di grandissimo successo, cantata e ballata da milioni di persone in quegli anni, che forse non hanno saputo coglierne ogni significato. In realtà, il verso he wear no shoe shine ha un senso ben preciso che sintetizza un aspetto caratteristico della cultura degli anni Sessanta. Il fatto che l’autore dica che il personaggio non ha le scarpe lucide dovrebbe indurre il lettore/ascoltatore a pensare che sia un fatto insolito, perché altrimenti non ci sarebbe motivo di affermarlo. I ragazzi “perbene” dell’epoca, quelli che esprimevano la morale comune, erano soliti portare le scarpe ben lucidate, e il fatto di non averle lustre era considerato “anticonformista”, un segno di voluta rottura con la cultura dominante del tempo; segno che è poi sfociato nella moda delle scarpe Clarks, il cui modello più noto era costituito da scarponcini scamosciati (e perciò non lucidabili) divenuti poi uno dei tanti simboli della contestazione giovanile. O ancora, il verso I know you, you know me, apparentemente privo di connotazioni culturali particolari, e traducibile in italiano con l’espressione «io conosco te, tu conosci me», che di primo acchito potrebbe sembrare non voler dire nulla al di là del suo significato denotativo, in realtà nasconde un altro aspetto caratteristico di quegli anni: un modo molto aperto e diretto di approccio con l’altro, privo di inibizioni, soprattutto per quanto riguarda la sfera sessuale, tipico appunto della fine degli anni Sessanta. Mi riferisco a quel tipo di atteggiamento che porta poi all’esplosione della rivoluzione sessuale.
Anche il fatto che l’autore abbia scelto come caratteristica di tutto il testo di non coniugare i verbi alla terza persona – here come[-s] old flat top; he come[-s] grooving up slowly –, di ometterli – he [is] one holy roller –, di omettere il suffisso –s che denota la forma plurale – he got joo joo eyeball[-s]; he got hair down to his knee[-s] –, di omettere i soggetti – [he] [has] got to be a joker –, di utilizzare abbreviazioni – he [has] got toe jam football; he [has] got hair down to his knee – e, in generale, così facendo, di manifestare il rifiuto di seguire le regole – grammaticali e non – convenzionalmente in uso rispecchia la voglia di trasgredire e l’anticonformismo tipico delle culture “alternative” degli anni Sessanta.
1.1 Premessa terminologica
Durante l’analisi della canzone parlerò di «autore», riferendomi a John Lennon, e non di autori, benché la canzone Come Together (come molte altre, del resto) sia firmata da John Lennon e Paul McCartney. Infatti, nonostante i due componenti del gruppo siglassero, per un accordo commerciale, la paternità delle canzoni insieme, è noto che vi sono canzoni scritte esclusivamente da Paul e canzoni scritte esclusivamente da John e questa è tra quelle ascrivibili interamente a John.
1.2 Fonti utilizzate
Per realizzare la mia analisi e in particolare per tradurre la canzone dall’inglese all’italiano, ho utilizzato diverse fonti, da quelle più tradizionali, come dizionari monolingui e bilingui, (sia cartacei che telematici) a fonti meno “convenzionali”, tra cui il dizionario online Urban Dictionary, che mi è stato molto utile. Questo dizionario è stato creato nel 1999 e contiene definizioni in inglese scritte da utenti di tutto il mondo, che vengono poi controllate dagli utenti stessi. Il fatto che il dizionario sia costituito interamente da definizioni fornite da gente comune, che risiede in tutto il mondo, presenta sia aspetti negativi che aspetti positivi, su cui vorrei porre l’accento. Sicuramente, questo dizionario permette di trovare parole o espressioni che non è possibile trovare nei dizionari tradizionali, perché inevitabilmente non sono in grado di recepire tutte le novità e tutti gli usi. È altresì vero che, non essendoci nessun tipo di controllo, si potrebbe pensare che ognuno possa scrivere ciò che vuole, comprese informazioni non controllate. Per cercare di ovviare a questo problema reale, gli autori del sito hanno inserito un metodo per cui chi legge una definizione può esprimere il proprio parere al riguardo, “votando” mediante gli up (rappresentati visivamente dal pollice alzato) e i down (rappresentati dal pollice verso), a seconda che si condivida o meno la definizione fornita da un utente. Seguendo la logica introdotta da questo meccanismo di valutazione, è possibile affermare tendenzialmente che la definizione che detiene più up è la più condivisa. A seconda del numero di up attribuiti alle definizioni, queste vengono ordinate, affinché la prima definizione che appare nella pagina sia la più attendibile. Attraverso l’utilizzo di questo strumento, è già possibile farsi un’idea del significato della parola/espressione che si sta cercando. Proprio perché questo dizionario è “libero”, l’ipotesi formulata deve però essere poi controllata con l’ausilio di altre fonti, che possono smentire o avvalorare la definizione trovata nel dizionario. Ad esempio, la parola joo joo contenuta nel terzo verso della prima strofa della canzone non era presente nei principali dizionari bilingui e monolingui da me consultati durante la traduzione. Ho provato quindi a ricercare la parola nell’Urban Dictionary, dove ho trovato ben quattro definizioni, il che ne testimonia certamente un uso, trascurato dai dizionari da me consultati in precedenza. La prima definizione fornita dal dizionario è quella di karma, vibes (Mo’ Urban 2005), che presenta ben 39 up e 7 soli down e questo può essere interpretato già come un segnale positivo sull’attendibilità della fonte. Attraverso la consultazione del dizionario mi ero già fatta un’idea del possibile significato della parola, che ho poi appurato con l’ausilio di altre fonti: la moda della filosofia e della cultura orientale, soprattutto indiana, di quegli anni; il fatto che anche i Beatles si fossero avvicinati a quella cultura compiendo anche viaggi in India e l’usanza – tipica di quel periodo – di giudicare una persona in base alle vibrazioni che emanava (Norman 1981: 487), vibes appunto, mi hanno spinto a ritenere quella definizione veritiera e soprattutto adatta al contesto.
Anche Wikipedia è un’enciclopedia “libera” in cui ognuno può, a seconda delle proprie conoscenze, trattare un argomento, che può essere criticato e corretto dagli stessi utenti che, al momento della lettura, potrebbero riscontrare errori nelle trattazioni altrui. Anche Wikipedia è uno strumento utile, in quanto può fornire una prima “infarinatura”, anche superficiale, su un determinato argomento. Successivamente, come per l’Urban Dictionary, le informazioni vanno controllate e approfondite utilizzando altre fonti.
In conclusione, ritengo che anche queste fonti che possiamo definire “non ufficiali”, in quanto dispongono di un basso carattere di scientificità, possano essere utili, a patto che sull’informazione reperita vengano effettuati ulteriori controlli, utilizzando fonti primarie.

2. Analisi del testo

Here come old flat top
He come grooving up slowly
He got joo joo eyeball
He one holy roller
He got hair down to his knee.
Got to be a joker he just do what he please.

He wear no shoe shine
He got toe jam football
He got monkey finger
He shoot Coca Cola
He say I know you, you know me.
One thing I can tell you is you got to be free.

Come together right now over me.

He bag production
He got walrus gumboot
He got O-no sideboard
He one spinal cracker
He got feet down below his knee.
Hold you in his armchair you can feel his disease.

Come together right now over me.

He roller coaster
He got early warning
He got muddy water
He one Mojo filter
He say one and one and one is three.
Got to be goodlooking ‘cause he’s so hard to see.
Come together right now over me.
Come together.
Come together…

Autori: John Lennon/Paul McCartney
Anno: 1969

2.1 Primo verso
Here come old flat top
2.1.1 Commento testuale
Here svolge qui la funzione di avverbio (di luogo) e in questo specifico caso, dove è seguito dal verbo come, dà luogo alla locuzione here come[s], molto utilizzata nella lingua inglese e traducibile in italiano con l’espressione «ed ecco che arriva», «ed ecco arrivare». Questa espressione, sia per quanto concerne l’inglese che l’italiano, viene utilizzata all’inizio di una frase per attirare l’attenzione del lettore/ascoltatore. Procedendo alla ricerca del soggetto, lo si riscontra nella parola top e si nota subito che al verbo come, a cui il soggetto top si riferisce, manca il suffisso -s che in lingua inglese denota la terza persona singolare. Ritengo che la scelta da parte dell’autore di omettere il suffisso -s sia dettata da una questione di suoni, ma anche e soprattutto dal fatto che egli voglia liberarsi da ogni tipo di forma, legge o regola, anche grammaticale (Miccoli 1998). La parola top significa in questo contesto «testa» in quanto, come noteremo in seguito, si riferisce a una persona (he) e viene qui preceduta da due aggettivi: old e flat. Flat tra i vari significati presenta quello di «piatto», «schiacciato» (Ragazzini 2005). L’aggettivo old, «vecchio», che precede l’aggettivo flat potrebbe essere qui usato sia in senso dispregiativo: «ed ecco arrivare (il/un) vecchio con la testa piatta», sia in senso vezzeggiativo: in questo caso old assumerebbe dei toni amichevoli, in quanto l’autore si riferirebbe a una persona che conosce da tempo e l’espressione inglese potrebbe essere tradotta con: «ed ecco arrivare il vecchio testa piatta». Old flat top diverrebbe così un nickname, un soprannome. È possibile inoltre notare che il soggetto non è preceduto da nessun articolo, né determinativo (the), né indeterminativo (an) e questo potrebbe confermare la teoria secondo la quale old flat top potrebbe essere il soprannome con cui l’autore chiama il protagonista del testo perché altrimenti, considerando l’aggettivo old in un’accezione negativa, l’articolo a mio avviso sarebbe opportuno.

2.1.2 Commento culturale
Gli anni Sessanta sono gli anni del «movimento giovanile», che ha segnato uno dei più grandi cambiamenti di costume della storia del Novecento. Solitamente, la nascita del «movimento giovanile» si fa coincidere con gli anni Sessanta perché sono stati anni turbolenti, chiara espressione del disagio esistenziale dei giovani, considerato la scintilla che ha fatto esplodere tale movimento (Fenoglio 2009). In realtà, la manifestazione pubblica del disagio esistenziale giovanile ha un precedente verso la seconda metà degli anni Cinquanta, sviluppatosi in Europa e negli USA in due modi distinti: in Europa, soprattutto in Francia, ma non solo, si diffonde l’«esistenzialismo», espressione di una filosofia di crisi causata dal vuoto di certezze che ha seguìto la fine della Seconda guerra mondiale. Questo vuoto è dovuto al fatto che dopo la fine della Seconda guerra mondiale viene a mancare quella tensione ideologica che aveva prodotto e che trova il proprio fulcro nella contrapposizione nazifascismo/democrazia/comunismo. Si comincia così ad avvertire un rilassamento della vita, un vero e proprio «vuoto» che spinge l’individuo a vivere in una sorta di «vuoto esistenziale», in cui l’esistenza dello stesso viene considerata una mera possibilità (Fenoglio 2009). Questa sensazione di disagio si riflette immediatamente nella musica, considerata dal mondo giovanile il regno ideale per dare spazio alle emozioni e ai sogni, generando così una vera e propria moda che ha il suo centro a Parigi, ma che si diffonde ben presto in tutta Europa: quella dei Platters, la cui musica può essere definita come un mix di spiritual nero e rock, una sorta di “soft rock”. Per quanto riguarda invece gli USA, il segno del disagio giovanile è più forte, più aggressivo e trasgressivo e si traduce con il rock ‘n’ roll, in séguito contaminato da Elvis Presley con la musica country (Fenoglio 2009). Il rock ‘n’ roll, a partire dal movimento pelvico, rappresenta una vera e propria provocazione morale nei confronti del rigorismo puritano spesso incarnato nella figura dei genitori, con cui si apre un conflitto “generazionale” basato a sua volta su un conflitto di valori. Vi è poi un elemento particolarmente significativo che acuisce il disagio giovanile: la guerra del Vietnam, che comporta per i giovani statunitensi, ormai abituati al benessere e a una certa libertà (Fenoglio 2009), la coscrizione obbligatoria per combattere una guerra di cui non comprendono quasi le ragioni. Questo accentua la «drammaticità esistenziale» anche nella musica: è ormai finita la «giovinezza spensierata» e prende piede il pop statunitense “californiano” dei Beach Boys, caratterizzato da un suono più melodico e da un certo trasporto emotivo: è un rock “ingentilito”, da cui nasce la musica dei Beatles (Fenoglio 2009). I Beatles, a partire dal 1962, si fanno portavoce in Inghilterra di un’esplosione di liberazione istintuale generale rispetto al puritanesimo rigoroso che dominava in quegli anni. Diventano rappresentanti di una “liberazione” soprattutto emotiva, riguardante la sfera degli affetti e quella sessuale perché i giovani erano ormai stufi di sentirsi soffocati dal selfcontrol e dall’understatement della cultura britannica (Fenoglio 2009). Negli anni Sessanta in molti paesi, a partire dagli USA, i giovani sviluppano rapidamente un forte senso del collettivo, che li spinge a cercare una ben precisa identità di gruppo, che inizialmente si identifica nella contrapposizione al vecchio, nel conflitto generazionale, per poi estendersi al conflitto con le autorità, inserendo così una componente ideologica (Castaldo 1994: 86-87). «I giovani cominciano a percepire di essere portatori non solamente di un generico desiderio di autonomia, ma di veri e propri nuovi valori». Dalla ribellione del sabato sera, si passa così alla nascita di nuove forme di comportamento sociale, di vere e proprie posizioni in campo politico, soprattutto alla diffusa e totale adesione alle idee pacifiste. Già nel 1962 nascono alcuni movimenti giovanili altamente politicizzati che trattano temi pacifisti, antinucleari e in generale rivendicano un’estrema democratizzazione della partecipazione politica (Castaldo 1994: 87). Parallelamente, prende sempre più forma l’idea di un movimento studentesco, la cui data di nascita convenzionale viene fatta coincidere con la rivolta del campus della Berkeley, il 1° ottobre del 1964, e poi con la marcia su Washington del 1965. Attraverso tutto questo cresce un forte senso comunitario che trova il suo apice nei grandi raduni pop della fine degli anni Sessanta, rappresentazione dei nuovi modelli di vita (Castaldo 1994: 88).
La prima strofa, sull’onda di quella «liberazione istintuale» (Fenoglio 2009) a cui ho accennato prima, testimonia un modo molto diretto e aperto di approccio nei confronti dell’altro, tipico della cultura degli anni Sessanta, in contrapposizione con il modo di rapportarsi di oggi, in cui prevalgono invece la chiusura e un certo timore nei confronti di chi non si conosce o si conosce poco.
2.2 Secondo verso
He come grooving up slowly
2.2.1 Commento testuale
In questo secondo verso l’autore utilizza il pronome he, svelandoci così che il protagonista è un uomo. Si nota nuovamente la mancanza del suffisso -s nel verbo come, che denota la terza persona singolare. Questa sarà caratteristica di tutto il testo, a indicare il rifiuto totale da parte dell’autore di seguire ogni regola. Il verbo to groove up non è presente nei principali dizionari bilingui e monolingui, né nei principali dizionari monolingui di slang, probabilmente a causa del fatto che Lennon recepisce un uso in voga all’epoca. Se si analizza il verbo to groove, questo può essere sia transitivo che intransitivo. Se usato come transitivo significa: «incavare», «scanalare» (Ragazzini 2005), «fare solchi o scanalature in» (Picchi 2007), ma anche «incidere su disco», «godere», «apprezzare», «eccitare», «mandare (qualcuno) su di giri» (Ragazzini 2005), «fare o dare piacere» (Picchi 2007), «perfezionare (qualcosa) con la ripetuta pratica», «fare un lancio che raggiunge la metà campo della zona di strike (baseball)» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009); se usato invece come intransitivo significa «godersela», «andare su di giri», «essere in armonia», «andare d’accordo», «suonare bene» (Ragazzini 2005), «diventare schiavo di un’abitudine» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009). Se però si vanno a ricercare i significati del sostantivo groove, si trova tra gli altri anche quello di «ritmo avvincente» (Ragazzini 2005). Qui il verbo to groove è nella forma di gerundio (suffisso -ing) ed è seguito dall’avverbio slowly, «piano». Ritengo che in questo contesto l’autore, utilizzando l’espressione grooving up slowly, possa fare riferimento al modo di muoversi di questa persona, partendo dal concetto di groove, inteso come «ritmo», ma anche di groove, inteso come «solco» (Picchi 2007), da cui deriva il significato del verbo to groove «fare solchi o scanalature in» (Picchi 2007). Per quanto concerne la preposizione up che segue il verbo, ritengo che serva da rafforzativo. Alla luce di quanto detto sopra, He come grooving up slowly potrebbe essere tradotto con «arriva muovendosi lentamente» o ancora meglio «arriva trascinandosi», nella cui espressione si ritrova il concetto base della mia scelta traduttiva, che parte dal significato del verbo to groove «fare solchi» (Picchi 2007). Il fatto che il nostro personaggio arrivi trascinandosi potrebbe essere spiegato dal fatto che è stanco o affaticato. Vi è però a mio avviso un’altra chiave di lettura del verso, che parte dal significato del verbo to groove come «godere», «andare su di giri» (definizione tratta da American 2000). Uno dei significati del sostantivo groove è proprio quello di «un’esperienza molto piacevole» (definizione tratta da American 2000), «un’esperienza eccitante» (Ragazzini 2005) e se si va a ricercare il significato dell’aggettivo groovy si trovano tra gli altri particularly excellent, «particolarmente eccellente»; divine, «magnifico»; fabulous, «favoloso»; fantastic, «fantastico»; glorious, «splendido»; marvelous, «meraviglioso»; sensational, «sensazionale»; splendid, «splendido»; superb, «eccellente»; terrific, «favoloso»; wonderful, «meraviglioso» o ancora dandy, «eccellente», «di prima qualità»; dreamy, «fantastico»; ripping, «eccellente», «straordinario»; swell, «straordinario» e ancora cool, «che va forte», «grande», «figo»; hot, «alla moda», «popolare»; neat, «favoloso»; idiomatico out of this world, «fuori dal mondo» e very pleasing «molto piacevole», «molto gradevole» (definizione tratta da American 2000): il verbo ha a che vedere con qualcosa che dà piacere. Partendo proprio da questo concetto, il verso potrebbe essere letto in un altro modo: quel grooving up slowly potrebbe riferirsi al fatto che questa persona sta «avendo piacere piano», sta «godendo piano», «andando su di giri piano» e quindi potrebbe fare riferimento al fatto che il nostro personaggio ha assunto della droga e che questa piano piano stia facendo effetto. Il verso quindi potrebbe anche essere reso con «arriva mentre va pian piano su di giri».
2.2.2 Commento culturale
Durante gli anni Sessanta in Gran Bretagna e negli USA l’aggettivo groovy era molto in voga tra i giovani con il significato di «molto piacevole», «alla moda» (Ragazzini 2005), «splendido» (Ragazzini 2005), qualcosa di simile all’espressione odierna «figo». A testimonianza di ciò, cito una canzone di Simon and Garfunkel, noto duo folk statunitense, attivo durante gli anni Sessanta, il cui titolo è The 59th Street Bridge Song (Feelin’ Groovy), contenuta nell’album Parsley, Sage, Rosemary and Thyme del 1966.

Slow down, you move too fast,
You got to make the morning last
just kickin’ down the cobble stones
Lookin’ for fun and feelin’ groovy.
Ba da da da da da da feelin’ groovy.

Hello lamppost, whatcha knowin’,
I’ve come to watch your flowers growin’
Aintcha got no rhymes for me?
Dootin’ doo doo, feelin’ groovy.
Ba da da da da da da, feelin’ groovy.

Got no deeds to do, no promises to keep,
I’m dappled and drowsy and ready to sleep,
let the morning time drop all its petals on me.
Life, I love you, All is groovy.
Ba da da da da da da Ba da da da da

L’espressione feelin’ groovy, che ricorre più volte nel testo e che dà il titolo alla canzone, richiama proprio il sentirsi bene, il sentirsi in armonia con gli altri e con lo spazio che ci circonda, fino ad affermare – attraverso le parole Life, I love you, All is groovy – l’amore per la vita e che ogni cosa è meravigliosa.
Per i primi due versi di Come Together, come ha in séguito dichiarato lo stesso Lennon, egli si ispirò alla strofa di una canzone del 1956 di Chuck Berry, artista rock americano molto amato da Lennon, intitolata You Can’t Catch Me. Per questa ragione Lennon venne citato in tribunale da Morrys Levy, editore di Berry, con l’accusa di plagio. Come riparazione Lennon dovette incidere delle canzoni possedute da Levy che confluirono nel suo album del 1975 intitolato Rock ‘n’ Roll. Anche il fatto che i Beatles guardassero agli USA come un modello da seguire e imitare, a partire proprio dagli artisti rock da loro amati sin dall’adolescenza (Elvis Presley, Chuck Berry, Muddy Waters solo per citarne alcuni), può essere considerato un segno di anticonformismo per un’Inghilterra degli anni Sessanta molto chiusa in sé stessa. La ragione di questa particolare apertura nei confronti degli USA può in parte essere spiegata dalla natura della città di Liverpool, città natale dei Beatles, conosciuta assieme a Glasgow come «la città britannica della musica americana» (Castaldo 1994: 99) perché è una città portuale, a cui sin da quegli anni accedevano navi e transatlantici provenienti dagli USA. Infatti, i Cunard yanks, ovvero i marinai imbarcati sui mercantili atlantici, conoscevano le novità musicali prima di chiunque altro in Gran Bretagna e le diffondevano in città (Castaldo 1994: 99).
2.3 Terzo verso
He got joo joo eyeball
2.3.1 Commento testuale
Prosegue la descrizione del personaggio. He got è l’abbreviazione della forma completa del verbo «to have got» in terza persona singolare he has got. L’autore afferma che il personaggio ha joo joo eyeball. Anche la parola joo joo non è presente nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma il dizionario online Urban Dictionary definisce la parola joo joo come karma «karma», vibes «vibrazioni» (Mo’ Urban 2005). He got joo joo eyeball potrebbe essere tradotto con l’espressione «ha (gli) occhi da karma» e potrebbe riferirsi allo sguardo “fatto” dell’uomo in quanto avrebbe assunto della droga. Anche nella parola eyeball si riscontra la mancanza del suffisso -s che in questo caso denota il plurale: l’autore fa riferimento infatti a un solo occhio, non a tutti e due.
2.3.2 Commento culturale
Il karma è il concetto centrale della religione induista, a cui i Beatles, ma anche moltissime altre persone durante gli anni Sessanta, si sono avvicinate, compiendo anche, come gli stessi Beatles, viaggi in India. A partire dal 1966 la scoperta della cultura orientale diventa una vera e propria moda in Europa e negli USA. Secondo il principio del karma, le azioni del corpo, della parola e dello spirito (i pensieri) sono contemporaneamente causa ed effetto di altre azioni; niente è dovuto al caso: ogni avvenimento, ogni gesto, è legato da una rete di interazioni di causa/effetto. Secondo tale principio, se si produce sofferenza o si interferisce negativamente nel Dharma (legge universale) si produce karma negativo; se al contrario si fa del bene, si produce karma positivo e nella vita corrente e in quelle successive si pagherà o si verrà ripagati per le azioni compiute precedentemente (McDermott 2003). L’influenza esercitata dall’India e dalla religione induista negli anni Sessanta era talmente forte che una persona in quegli anni veniva giudicata sulla base delle vibrazioni, vibes, che emanava con la sua presenza e con il suo stato d’animo, a seconda che queste fossero «buone» o «cattive» (Norman 1981: 487). Questa strofa fa riferimento anche al grande consumo di droga del tempo, di marijuana ma anche di acidi, come LSD, di cui gli stessi Beatles, primo fra tutti John Lennon, facevano uso. Infatti, l’assunzione di queste sostanze causa la dilatazione e spesso l’arrossamento delle pupille: proprio da questa reazione potrebbe nascere l’espressione joo joo eyeball. Inoltre, il fatto che quest’uomo possa essere drogato può trovare conferma nel verso precedente, in cui, secondo la mia prima interpretazione, viene affermato che si trascina o comunque si muove lentamente, effetto tipico della droga, che rallenta le capacità percettive oppure, prendendo in considerazione la mia seconda ipotesi, per cui il nostro personaggio «sta andando pian piano su di giri», il verso troverebbe comunque conferma in quanto lo sguardo “fatto” non sarebbe altro che frutto dell’effetto della droga.

2.4 Quarto verso
He one holy roller
2.4.1 Commento testuale
Anche in questo verso vi è l’omissione del verbo essere (to be), più precisamente della terza persona singolare is. La definizione che i principali dizionari monolingui riportano di holy roller è quella di una parola utilizzata prevalentemente in senso dispregiativo che indica «qualunque membro di una confessione religiosa che esprima la propria devozione attraverso urla e gesti violenti» (definizione tratta da American 2000), addirittura «rotolandosi sul pavimento, sotto l’effetto dello Spirito Santo» (Mo’ Urban 2005), come riportano alcuni dizionari di slang. Ritengo però che tale definizione in questo contesto possa essere esclusa. Se quindi si analizzano separatamente le due parole, si nota che l’aggettivo holy oltre a significare «santo», «sacro», «consacrato», «devoto», «religioso» (Picchi 2007), viene utilizzato come rafforzativo con il significato di «vero» (Ragazzini 2005), «veramente», «vero e proprio». Se si analizzano i significati della parola roller, uno che a mio avviso potrebbe sembrare plausibile in questo contesto è quello di «chi deruba uno che dorme o è ubriaco» (Ragazzini 2005). Il verso He one holy roller potrebbe essere reso con l’espressione «è veramente uno che deruba gli ubriachi» e pertanto ricollegarsi alle affermazioni fatte nei versi precedenti ed essere un vagabondo drogato che vive derubando la gente in modo subdolo. Ma se si considera il verbo to roll, tra i vari significati vi è quello di «farsi una canna» (Mo’ Urban 2005) e partendo dal presupposto che il suffisso -er nella parola roller indica colui che compie l’azione di roll, l’espressione potrebbe essere resa con «è proprio uno che si fa un sacco di canne», che ritengo la traduzione migliore per questo contesto.
2.4.2 Commento culturale
La Cannabis sativa in quegli anni, come del resto la droga in generale, era molto in voga tra i giovani, soprattutto in certi ambienti alla moda, in cui aveva cominciato a prendere piede l’usanza di preparare una canna per poi «passarsela» (Norman 1981: 338-339). In Inghilterra, fino a quel momento, la marijuana e lo hashish, resina della canapa indiana, venivano usati soprattutto dagli immigrati delle Indie occidentali per alleviare la miseria in cui vivevano. Ora, come «erba» o «hash», erano diventate un oggetto fondamentale del comportamento sociale. Il fatto che la Cannabis fosse illegale non preoccupava nessuno, in quanto inizialmente non vi era controllo da parte delle autorità (Norman 1981: 338-339). Anche l’LSD era molto di moda e soprattutto accessibile: nel 1967 a Londra era infatti possibile comprare una pastiglia di LSD per meno di una sterlina (Norman 1981: 414).

2.5 Quinto verso
He got hair down to his knee.
2.5.1 Commento testuale
Ancora una volta si riscontra l’abbreviazione della forma completa del verbo to have got nella terza persona singolare e la mancanza del suffisso -s nella parola knee («ginocchio») che denota il plurale. Ci viene qui fornita dall’autore un’ulteriore indicazione sul nostro personaggio: ha i capelli lunghi sino alle ginocchia.
2.5.2 Commento culturale
Il protagonista del testo potrebbe essere quindi un ragazzo con i capelli lunghi, probabilmente un hippie, tra i quali all’epoca si registrava un forte consumo di droga. È opportuno inoltre ricordare che in quegli anni il fatto che un uomo portasse i capelli lunghi (fatto che oggi viene considerato del tutto normale) era una cosa inammissibile per la società istituzionale: in Inghilterra l’unico taglio di capelli presente e “consentito” per gli uomini era il taglio militare. Gli ultimi anni del decennio, in particolare, vengono anche ricordati per aver simboleggiato per un’intera generazione gli anni “dell’amore”, “della pace”, “della fratellanza”, “del potere dei fiori”. Gli hippie in quegli anni hanno dato vita a una vera e propria cultura, che ha avuto inizio negli USA quando un gruppo di beatnik (beats, membri della Beat Generation) si trasferì nel quartiere di Haight-Ashbury di San Francisco dove creò la prima comune. Gli hippie avevano i capelli lunghi, indossavano tuniche dai colori sgargianti, pantaloni a zampa di elefante, gilé, copricapi e bandane simbolo della cultura indiana, portavano sandali o camminavano a piedi nudi, si comportavano con estrema calma e tranquillità e, con ogni pretesto possible, si offrivano reciprocamente dei fiori. Avevano creato delle proprie comunità in cui ascoltavano rock psichedelico e abbracciavano la rivoluzione sessuale, la filosofia orientale, l’importanza dello spirito e delle droghe; respingevano invece con forza le istituzioni, criticavano i valori della classe media, erano contrari all’uso delle armi nucleari ed erano divenuti simbolo della protesta contro la guerra nel Vietnam, che aveva suscitato sdegno e biasimo in tutto il mondo e che si era tradotta in un’ondata di sentimenti pacifisti, facendo presa non solo fra le persone più eccentriche e i beatnik, ma anche tra i “normali” adolescenti, che andavano ad accrescere le diverse comuni hippie che stavano nascendo in tutto il mondo. Va inoltre ricordato che la marijuana per loro, come anche l’LSD, rappresentava il simbolo della fratellanza hippie, l’iniziazione alla credenza hippie, secondo la quale attraverso le droghe era possibile raggiungere un grado più elevato di saggezza e umanità (Iannaccone 2008) (Miles 2004) (Filippetti 1973) (Vidal 1972) (Bonaventura 1972) (Conti Guglia 1982) (Pivano 1972).

2.6 Sesto verso
Got to be a joker he just do what he please.
2.6.1 Commento testuale
Anche qui si riscontra l’omissione da parte dell’autore sia del soggetto, che resta sottinteso (he), sia della particella del verbo avere has. L’espressione got to be indica una certezza; la parola joker, se riferita come in questo caso a una persona, tra i vari significati presenta quello di «una persona che fa battute o scherzi» o, con un’accezione negativa, «una persona insolente», «noiosa», «incapace», «insignificante», «sgradevole» (definizione tratta da American 2000). In questo contesto ritengo che joker significhi «burlone» (Ragazzini 2005), nel senso che si tratta di una persona a cui piace scherzare e prendere le cose «alla leggera», dato che la seconda parte del verso può essere resa con «fa solo quello che gli piace». Il verso indica la presenza di uno “spirito libero”, che non segue nessuna regola imposta, ma che fa solamente ciò che gli dà piacere e lo diverte, incurante di ciò che, invece, sarebbe più sensato o opportuno fare (Miccoli 1998), secondo il pensiero comune. Ancora una volta si nota l’omissione da parte dell’autore del suffisso -s della terza persona singolare sia nel verbo please che nel verbo do, a indicare appunto il suo rifiuto delle regole imposte, in questo caso grammaticali.
2.6.2 Commento culturale
Come ho già accennato nell’introduzione, una delle caratteristiche degli anni Sessanta è un nuovo modo di rapportarsi, frutto della «libertà istintuale» che contraddistingue il nuovo atteggiamento dei giovani, ormai stufi di sentirsi soffocati da una sorta di autocontrollo, dettato dalla cultura precedente (Fenoglio 2009). Per «libertà istintuale» intendo che i giovani lasciano ora spazio ai propri istinti, fino a quel momento repressi, soprattutto per quanto concerne la sfera emotiva e sessuale. Ora non vogliono più avere paura di manifestare i propri sentimenti, non hanno più timore del giudizio altrui o della morale comune: vogliono solamente fare ciò che piace loro, come fa il joker descritto nel verso.

2.7 Settimo verso
He wear no shoe shine
2.7.1 Commento testuale
Anche in questo verso si nota la mancanza del suffisso -s nel verbo wear, che caratterizza la terza persona singolare. Prosegue la descrizione fisica del personaggio. Il verbo to wear significa qui «portare», «indossare», «vestire», «avere addosso» (Ragazzini 2005); la parola shoe shine, da cui si desume che al tempo si scriveva staccata, dove shoe significa «scarpa» e shine «lucentezza», «luccichio», «splendore» (Picchi 2007), è diventata poi parola unica (shoeshine) che significa «lustrata», «lucidatura» (Ragazzini 2005). Letteralmente quindi la strofa He wear no shoe shine significa «non indossa/porta lucidatura», che a mio avviso può essere meglio resa con «non porta scarpe lucidate», «non si lucida le scarpe».
2.7.2 Commento culturale
Anche il fatto di non portare scarpe lucidate era un segno di anticonformismo. Infatti, fino ad allora, i ragazzi erano soliti indossare scarpe ben lucidate. La moda delle scarpe Clarks, simbolo ancora oggi di comodità e di stile casual, esplode proprio in quegli anni: le Clarks diventano un’icona durante le contestazioni studentesche con i «regolari» che le sceglievano di camoscio chiaro o marrone e i «dropout» che invece le portavano con le stringhe rosse. La casa produttrice inglese delle Clarks viene fondata nel 1852 dai fratelli Cyrus e James Clarks. Nasce come fabbrica di pantofole in pelle di pecora, per poi passare alla produzione di tappeti e calze di lana d’agnello, e affermarsi infine nel 1950 con il lancio degli scarponcini Desert Boots, ideati da Nathan Clark (pronipote di James Clark) e ispirati ai comodi stivaletti scamosciati indossati dall’esercito inglese in partenza per la Birmania durante la Seconda guerra mondiale e portati al successo da Steve McQueen che le indossa nel film La grande fuga. In Italia arrivano nel 1968 e hanno subito un successo strepitoso che perdura ancora oggi (De Lucia Lumeno 2009) (Salza 2008-2009).

2.8 Ottavo verso
He got toe jam football
2.8.1 Commento testuale
Anche in questo verso si riscontra nuovamente l’abbreviazione del verbo «avere» alla terza persona singolare (he got anziché he has got). La parola toe jam football non è presente nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma la si trova all’interno di alcuni dizionari di slang come l’Urban Dictionary, il che ne attesta un certo uso. Secondo il dizionario, la parola toe jam football significa «to sit while picking funk from under your toenails or even in between them (it comes from after a long day on your feet); you produce this shit into a ball, then you try to fling a booger towards someone in the room you are in» (Mo’ Urban 2005), ovvero «sedersi mentre ci si pulisce lo sporco che si accumula sotto le unghie dei piedi o anche tra le dita (si forma tra le dita dei piedi dopo un’intera giornata) per poi formarne una pallina per lanciarla addosso a qualcuno». La parola toe jam, presente in molti dizionari di slang, viene infatti definita come «that grey-brown shit that accumulates between your toes. Primaly composed of dead skin cells, sock fluff and sweat» (Mo’ Urban 2005) ovvero «quella cosa dal colore grigio-marrone che si accumula tra le dita dei piedi, composta principalmente da cellule morte, pelucchi di calze e sudore; o ancora come black gunk under the toe nails or between the toes (Slang-Dictionary.org 2008), cioè «sostanza appiccicosa sotto le unghie o tra le dita dei piedi».
2.8.2 Commento culturale
L’uomo che ci viene descritto potrebbe essere una persona che si lava poco o che ha i piedi sporchi, molto probabilmente proprio perché si tratta di un hippie, solito a camminare scalzo e inevitabilmente a sporcarsi i piedi. Ovviamente parlare di queste cose, e i comportamenti stessi, sono elementi di trasgressione, anche se non collegata ad alcuna protesta politicizzata.

2.9 Nono verso
He got monkey finger
2.9.1 Commento testuale
Anche qui si ritrova l’abbreviazione della terza persona singolare del verbo «avere» e si nota di nuovo la mancanza del suffisso -s indicante il plurale nella parola finger. L’espressione «to have monkey finger», che inizialmente potrebbe sembrare una frase fatta, in realtà non lo è: infatti non compare nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma se ne trova una definizione all’interno del dizionario Urban Dictionary, che è la seguente: «that digit which, having been withdrawn from an anus, is now dry and whose owner is inclined to sniff repeatedly and contentedly along the length of it» (Mo’ Urban 2005), ovvero «quel dito infilato precedentemente nell’ano e poi annusato ripetutamente e con soddisfazione per tutta la sua lunghezza».
2.9.2 Commento culturale
La bromidrophilia è una perversione nota alla letteratura medica, per cui una persona prova eccitazione o comunque piacere nell’annusare gli odori corporei. È alquanto evidente che l’autore in questo verso come in quello precedente desidera scandalizzare anche attraverso l’uso di contenuti forti, con l’intento di provocare il “borghese” benpensante che sicuramente si inorridirebbe a sentir parlare di mettersi le dita nel sedere per poi annusarle oppure, come sopra, fare delle palline con la sporcizia che si accumula tra le dita dei piedi e sotto le unghie per poi lanciarle addosso a qualcuno.
2.10 Decimo verso
He shoot Coca Cola
2.10.1 Commento testuale
Anche in questo verso si nota l’omissione del suffisso -s nel verbo shoot, che denota la terza persona singolare. Il verbo to shoot presenta diversi significati e può essere sia transitivo che intransitivo. Se usato come transitivo significa «sparare a (o con)» (Ragazzini 2005), «fare fuoco» (Picchi 2007), «andare a caccia (di)», «cacciare», «abbattere (con il fucile)», «colpire», «ferire», «uccidere (con un’arma da fuoco)», «scaricare (un’arma da fuoco)» (Ragazzini 2005), «fare scoppiare» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009), mil. «fucilare», ind. min. «brillare», «sparare (una mina)» (Ragazzini 2005), «emettere (forme di energia)» (definizione tratta da American 2000), «gettare», «scagliare», «lanciare», «scoccare (arco)», «attraversare velocemente», falegnam. «piallare bene» (Ragazzini 2005), «iniettare», «iniettarsi (droga)», «bucarsi», bot. «germogliare», «spuntare», «tirare», «calciare verso la porta» (Picchi 2007), «sprecare» (definizione tratta da American 2000), «girare(film)», «determinare l’altezza di un astro» (Ragazzini 2005), «lanciare», «mandare», «muovere con rapidità, «scagliare», «passare velocemente», «superare rapidamente» (Picchi 2007). Se usato come intransitivo significa «sparare», «tirare (con un’arma da fuoco)», «andare a caccia (col fucile)» (Ragazzini 2005), «lanciarsi», «scagliarsi», «dirigersi a tutta velocità» (Picchi 2007), «apparire all’improvviso» (definizione tratta da American 2000), «parlare» o ancora «mettere le foglie», «germogliare» (Ragazzini 2005), «fotografare» (definizione tratta da American 2000), di film «girare», «riprendere» (Ragazzini 2005), di dolori «sentirsi a fitte», di luce «diffondersi», «irradiarsi» (Picchi 2007), «(volg.) eiaculare», «vomitare» (Ragazzini 2005). In questo caso il verbo è seguito dalla parola Coca Cola, nota bevanda analcolica statunitense. L’autore a mio avviso gioca qui con le parole: uno dei significati di shoot è quello di «bucarsi», «iniettarsi» (Picchi 2007), che presenta quindi un chiaro riferimento alla droga, come pure Coca Cola in quanto essa richiama la parola cocaine, «cocaina». Esiste infatti l’espressione to shoot cocaine e to shoot up cocaine poiché la cocaina, come l’eroina, si può iniettare, diluendola in acqua sterile. Si tratta però di un metodo molto rischioso perché attraverso l’iniezione si immette la droga direttamente nel sangue, provocando effetti istantanei e più intensi, rispetto ad altri metodi di assunzione della sostanza, e quindi se la sostanza non è pura aumentano i rischi di morte. Un’altra ipotesi potrebbe essere l’uso del verbo shoot con il significato di «sparare(si) una Coca Cola», nel senso di «bere», «farsi una Coca Cola», ma ritengo che in questo contesto sia più valida la prima interpretazione.
2.10.2 Commento culturale
La canzone venne bandita dalla BBC (Franzoni, Taormina 1992) proprio con la scusa del riferimento esplicito alla bevanda (o forse proprio a causa del riferimento esplicito alla droga), che venne considerato pubblicità.

2.11 Undicesimo verso
He say I know you, you know me.
2.11.1 Commento testuale
Qui l’autore riporta un discorso diretto e anche qui si nota che al verbo say manca il suffisso -s della terza persona singolare. Il verso può essere tradotto con: «dice io conosco te, tu conosci me».
2.11.2 Commento culturale
Indubbiamente la strofa testimonia ancora una volta un modo molto aperto e diretto di rapportarsi con gli altri, tipico di quegli anni, che in questo specifico caso riguarda la sfera sessuale. L’espressione I know you, you know me è un chiaro invito a fare sesso, del tipo «io conosco te, tu conosci me, quindi perché non dovremmo fare sesso?». Queste parole e soprattutto questo modo molto diretto di approccio nei confronti del sesso sono frutto della libertà sessuale che esplode negli anni Sessanta e che può essere riassunta dalle espressioni «amore libero» e «rivoluzione sessuale». La rivoluzione sessuale avviene proprio in quegli anni e produce un sostanziale cambiamento dei valori nel campo della sessualità, non tanto in termini di rottura rispetto ai costumi fino a quel momento in uso, bensì di una liberazione, dopo un periodo di forte chiusura tra gli anni Trenta e Cinquanta. Durante il periodo della guerra fredda negli USA vigeva un forte puritanesimo, che si scontrava con comportamenti sessuali del tutto naturali. Questo puritanesimo soffocante causa negli anni Sessanta quella ribellione culturale che si trasforma in rivoluzione sessuale e che produce profondi cambiamenti nel comportamento sessuale dei giovani, il che significa che essi praticavano sesso con maggiore frequenza, sperimentandone nuove forme, ma anche che se ne parlava più apertamente, senza timore di essere tacciati di malcostume. A testimonianza di ciò, cito un sondaggio svoltosi in Gran Bretagna, che ritengo particolarmente significativo per dimostrare il cambiamento di atteggiamento nei confronti del sesso avvenuto negli anni Sessanta. Secondo questo sondaggio, nel 1951 solamente il 51% delle donne intervistate aveva dichiarato che il sesso era molto importante all’interno del matrimonio, nel 1969 invece la percentuale era salita al 67% (Gorer 1970: 91).

2.12 Dodicesimo verso
One thing I can tell you is you got to be free.
2.12.1 Commento testuale
Anche qui viene riportato un discorso diretto, le parole pronunciate dal protagonista. È come se l’autore utilizzasse il protagonista del testo per comunicare al lettore/ascoltatore ciò che in realtà è un suo messaggio; è come se l’autore facesse parlare il protagonista del testo con le sue parole. È possibile inoltre notare nuovamente l’omissione della particella have del verbo «to have got». Il verso può essere tradotto con: una cosa che ti (vi) posso dire è che devi (dovete) essere libero(i). Come accennavo in precedenza, questo è chiaramente un messaggio di libertà che l’autore lancia a tutti i lettori/ascoltatori in modo esplicito. Qui viene dichiarato palesemente ciò che l’autore ci aveva già fatto intuire attraverso l’uso delle parole, attraverso cioè la volontà di non voler seguire le regole grammaticali comunemente in uso.
2.12.2 Commento culturale
Il messaggio di libertà contenuto nel verso si riallaccia al verso precedente e all’invito a fare sesso. Con l’avvento della rivoluzione sessuale si afferma una cultura maggiormente permissiva nei confronti della libertà e della sperimentazione sessuale: si comincia a parlare di «amore libero», anche grazie a importanti scoperte, tra cui lo sviluppo di antibiotici che rendevano possibile curare la maggior parte delle malattie veneree, attenuando così il pericolo di malattie sessualmente trasmissibili come la sifilide; l’avvento della contraccezione orale nel 1960, a partire dagli USA, (in Italia la pillola viene commercializzata solo a partire dal 1972) e quindi la possibilità di avere rapporti sessuali più liberi, ma anche importanti progressi nel campo della scienza, che hanno reso meno rischioso l’aborto. Anche per quanto concerne il cinema, si assiste a una progressiva liberazione sessuale: uomini e donne bellissime diventano vere e proprie icone, scritturate in film in cui vi sono scene d’amore romantiche. Era ormai diventato più accettabile mostrare segni d’affetto in pubblico e la presenza di almeno una scena d’amore in ogni film era considerata la norma. La nudità sugli schermi comincia a mostrarsi sempre di più, in concomitanza con una maggiore tolleranza della gente nei confronti della nudità parziale degli uomini e all’esibizione dei seni delle donne. Nasce un vero e proprio genere di attrici, famose perché particolarmente dotate di sex appeal: Mae West, Marilyn Monroe, Raquel Welch, Brigitte Bardot, solo per citarne alcune. Anche per quanto concerne la letteratura con contenuti erotici, vi è una vera e propria apertura tra il 1959 e il 1966, attraverso l’abolizione della censura fino ad allora applicata a libri dal contenuto particolarmente «piccante», tra cui L’amante di Lady Chatterley, Tropico del Cancro e Fanny Hill. In precedenza infatti erano stati attuati dei controlli molto rigidi su ciò che poteva o non poteva essere pubblicato e questi tre libri in particolare erano stati messi al bando negli USA e nella maggior parte dei paesi europei. Il romanzo L’amante di Lady Chatterley fu pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1928 e subito messo al bando in USA e in Europa: solo nel 1959 la casa editrice statunitense Grove Press ne pubblicò l’edizione integrale, che venne pubblicata in Gran Bretagna un anno più tardi, nel 1960 (Micorsoft 1997-2008). Per le stesse ragioni, il romanzo di Henry Miller Tropico del Cancro non poté essere pubblicato negli USA, ma l’edizione del romanzo pubblicata nel 1934 dalla Obelisk Press di Parigi, vi arrivò ugualmente di contrabbando. Negli USA venne pubblicato per la prima volta dalla Grove Press nel 1961 e scatenò una serie di denunce per oscenità, che accompagnarono Miller per tutta la vita e contribuirono a modificare per sempre la legislazione statunitense sulla censura. La pubblicazione del romanzo venne definitivamente permessa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti solamente dopo un estenuante iter giudiziario, quando la Corte Suprema cancellò l’accusa di oscenità mossa in precedenza, conferendo la natura di “opera d’arte” al romanzo di Miller, segnando così uno dei momenti cruciali della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta (Frati 2007); nel 1965 invece la Putnam pubblicò Fanny Hill di John Cleland, la cui prima pubblicazione risale addirittura al 1749. La decisione della Corte Suprema del 1966 di legalizzarne la pubblicazione integrale ebbe un effetto importantissimo: liberò gli scrittori dalla paura di azioni legali e cominciarono così ad apparire numerose opere riguardanti il sesso e la sessualità. Per quanto concerne il Regno Unito, i primi indizi di cambiamento si videro nel 1960, quando il governo cercò senza successo di perseguire per oscenità la Penguin Books per la pubblicazione de L’amante di Lady Chatterley, messo al bando fin dagli anni Venti.

2.13 Tredicesimo verso
Come together right now over me.
2.13.1 Commento testuale
È il ritornello del testo che può essere tradotto con: «vieni adesso insieme (a me), sopra di me». È un vero e proprio richiamo del protagonista, attraverso il quale invita energicamente e senza nessun tipo di inibizione la donna con cui vuole fare sesso a venirgli sopra. Questo verso non è altro che il culmine della discussione iniziata nei due versi precedenti dal nostro personaggio con un’ipotetica donna che desidera: nell’undicesimo verso si rivolge alla donna dicendole I Know you, you know me: un invito implicito a fare sesso; nel verso successivo con le parole One thing I can tell you is got to be free cioè, «una cosa che ti posso dire è che devi essere libero/a», è come se egli cercasse di convincerla ad andare assieme a lui; è come se la donna fosse un po’ titubante e lui stesse cercando di convincerla, invitandola a non pensare a nulla, ma a lasciarsi andare; in questo verso infine, attraverso le parole Come together right now over me, la richiama in modo molto esplicito, un po’ come se fosse stufo di parlare per cercare di convincerla e volesse passare ai fatti. L’espressione che utilizza richiama un’immagine molto forte, soprattutto nelle parole over me, «sopra di me». Va sottolineato inoltre che nell’espressione «vieni insieme» a cui l’autore richiama riecheggia l’allusione sessuale al verbo to come (Miccoli 1998). Questo ci conferma un altro aspetto del testo, nonché caratteristica peculiare del modo di scrivere di Lennon: quello del gioco, che nel testo si traduce nei pun, giochi di parole.
2.13.2 Commento culturale
Anche in questo verso si ritrova il tema della libertà sessuale, discusso nei due versi precedenti. Il ritornello fu ispirato a Lennon anche dalla campagna politica di Timothy Leary, psicologo licenziato dalla Harvard per aver condotto esperimenti sulle proprietà psichedeliche dell’LSD, per la sua candidatura a governatore della California, il cui slogan era Come together, join the party. Su richiesta di Leary, Come Together doveva essere la canzone politica che avrebbe accompagnato i suoi comizi contro Ronald Reagan, ma Leary venne arrestato per possesso di marijuana e sconfitto politicamente (The Beatles Bible 2008). John scrisse così un nuovo testo che propose ai Beatles, i quali registrarono subito la canzone.

3. Riferimenti bibliografici

Bonaventura, Caloro. (1972). Viaggio nel mondo hippy, Firenze: Le Monnier.
Castaldo, Gino. (1994). La Terra Promessa. Quarant’anni di cultura rock 1954-1994, Milano: Feltrinelli.
Conti Guglia, Carmelo. (1982). Un prete con gli hippies a Trinità dei Monti, Roma: San Paolo.
De Lucia Lumeno, Alessandra. (2009). «Il mito delle Clarks/Le scarpe che hanno fatto la storia». Blogonomy-il blog di economy, disponibile in internet all’indirizzo http://www.blogonomy.it/2009/01/14/il-mito-delle-clarks-le-scarpe-che-hanno-fatto-la-storia/, consultato nel gennaio 2009.
Fenoglio, Paolo. (2009). I Beatles e il movimento giovanile degli anni Sessanta, conferenza presso Dipartimento di lingue della Fondazione Scuole Civiche di Milano, 12 gennaio 2009.
Filippetti, Antonio. (1973). I Figli dei fiori, i testi letterari degli hippies, Torino: E.R.I.
Franzoni, Donatella, Taormina, Antonio. a cura di (1992). Beatles. Tutti i testi 1962-1970, Milano: Arcana.
Frati, David. (2007). «Henry Miller». Mangialibri, disponibile in internet all’indirizzo http://www.mangialibri.com/node/57, consultato nel febbraio 2009.
Gorer, Geoffrey. (1970). Sex and Marriage in England Today, London: Thomas Nelson & Sons Ltd.
The American Heritage Dictionary of the English Language: Fourth Edition. (2000). Bartleby.com, Houghton Mifflin Company, disponibile in internet all’indirizzo http://www.bartleby.com/, consultato nel febbraio 2009.
Iannacone, Mario Arturo. (2008). Rivoluzione psichedelica, Milano: Sugarco.
McDermott, James Paul. (2003). Development of the Early Buddhist Concept of Kamma/Karma, New Delhi: Munshiram Manoharlal Pubblishers Pvt.
Merriam-Webster (2009). Merriam Webster online, disponibile in internet all’indirizzo http://www.merriam-webster.com/, consultato nel febbraio 2009.
Miccoli, Marta. (1998). Parola di Beatles. Analisi del testo verbale nell’opera dei Beatles, tesi di laurea, Università degli Studi di Bari.
Microsoft Corporation. (1997-2008). «L’amante di Lady Chatterley». Microsoft Encarta Enciclopedia Online 2008, disponibile in internet al sito http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_1041500358/L%E2%80%99amante_di_Lady_Chatterley.html, consultato nel febbraio 2009.
Miles, Barry. (2004). Hippy. Miti, Musica e cultura della generazione dei figli dei fiori, Modena: Logos.
Mo’ Urban Dictionary: Ridonkulous Street Slang Defined. (2005). «Urban Dictionary», San Francisco: Andrews McMeel; disponibile in internet all’indirizzo http://www.urbandictionary.com/, consultato nel febbraio 2009.
Norman, Philip. (1981). Shout! La vera storia dei Beatles, traduzione di Michele Lo Buono, Milano: Arnoldo Mondadori.
Osimo, Bruno. (2004). La traduzione totale, Udine: Forum.
Picchi, Fernando. (2007). Il grande inglese 2008. Dizionario inglese/italiano italiano/inglese, Milano: Hoepli.
Ragazzini, Giuseppe. (2005). Il Ragazzini 2006. Dizionario inglese italiano/italiano inglese, Bologna: Zanichelli.
Salza, Laura. (2008-2009). «Clarks». Dizionario della Moda, disponibile in internet all’indirizzo http://dellamoda.it/fashion_dictionary/c/clarks.php, consultato nel gennaio 2009.
Slang-Dictionary.org. (2008). Slang-Dictionary.org, disponibile in internet all’indirizzo http://www.slang-dictionary.org/, consultato nel febbraio 2009.
The Beatles Bible. (2008). «Come Together». The Beatles Bible, disponibile in internet all’indirizzo http://www.beatlesbible.com/songs/come-together/, consultato nell’ottobre 2009.
Vidal, Luc. (1972). La strada. Il mio diario di hippy, Roma: Città nuova.

4. Bibliografia

Adinolfi, Francesco. (2000). Mondo exotica. Suoni, visioni e manie della Generazione Cocktail, Torino: Einaudi.
Aldridge, Alan. a cura di (1972). Il libro delle canzoni dei Beatles, traduzione di Umberto Santucci, Milano: Arnoldo Mondadori.
Aldridge, Alan. a cura di (1980).The Beatles illustrated Lyrics 2, New York: Dell.
Apple (2009). The Beatles, disponibile in internet all’indirizzo http://www.beatles.com/core/home/, consultato nel gennaio 2009.
Arnao, Giancarlo. (2005). Cannabis. Uso e Abuso. Viterbo: Nuovi Equilibri.
Asak & Co. (2009). «La storia». www.clarks.it, disponibile in internet all’indirizzo http://www.asak.it/storia/storia.html, consultato nel gennaio 2009.
Babylon (2008). Lingoz Beta, disponibile in internet all’indirizzo http://www.lingoz.com/it/, consultato nel febbraio 2009.
Bnc Webmaster. (2009). 2005, British National Corpus, a cura di Lou Burnard. University of Oxford. Disponibile in internet all’indirizzo http://www.natcorp.ox.ac.uk/, consultato nel febbraio 2009.
Choukri, Sam. (2005). «Bagism», disponibile in internet all’indirizzo http://www.bagism.com/, consultato nel gennaio 2009.
Cott, Jonathan e Dalton, David. (1969). The Beatles get back, London: Apple.
Davies, Hunter. (1970). I Beatles, traduzione di Bruno Oddera, Milano: Longanesi.
Du Noyer, Paul. (1997). La Storia dietro ogni canzone di John Lennon 1970-1980, traduzione di Stefano Focacci, Firenze: Tarab.
Duckworth, Ted. (1996-2009). «A Dictionary of Slang», disponibile in internet all’indirizzo http://www.peevish.co.uk/slang/, consultato nel febbraio 2009.
Gabrielli, Aldo. (2007). Il grande italiano 2008, Milano: Hoepli.
georgeharrison.com, disponibile in internet all’indirizzo http://georgeharrison.com/, consultato nel dicembre 2009.
Google (2009). «Google», disponibile in internet all’indirizzo http://www.google.it/, consultato nel febbraio 2009.
I Beatles per sempre (1982). A cura di Helen Spence, traduzione di Tina Verni Roma: Fratelli Gallo.
Impulse Communications. (2001). SlangSite.com, disponibile in internet all’indirizzo http://www.slangsite.com/, consultato nel febbraio 2009.
Indiana University. (2009). «Street drug slang dictionary», disponibile in internet all’indirizzo http://www.drugs.indiana.edu/drug-slang.aspx, consultato nel febbraio 2009.
John Lennon the official site, disponibile in internet all’indirizzo http://johnlennon.com/html/news.aspx, consultato nel dicembre 2009.
Liberweb srl. (2001). «John Cleland. Funny Hill». Liber on web, disponibile in internet all’indirizzo http://www.liberonweb.com/asp/libro.asp?ISBN=8831776533, consultato nel febbraio 2009.
Marwick, Arthur. (1991). Culture in Britain since 1945, Oxford-Cambridge (Massachusetts): Basil Blackwell.
MPL Communications Ltd/Paul McCartney. (2009). Paul McCartney.com, disponibile in internet all’indirizzo http://www.paulmccartney.com/index.php, consultato nel dicembre 2009.
Osimo, Bruno. (2001). Propedeutica della Traduzione, Milano: Hoepli.
Pivano, Fernanda. (1972). Beat Hippie Yippie, Roma: Arcana.
Pivano, Fernanda. (1976). C’era una volta un Beat. 10 anni di ricerca alternativa, Milano: Frassinelli.
Sessa, Alessandro. (2009). «Beatles-Abbey Road». Ondarock, disponibile in internet all’indirizzo http://www.ondarock.it/pietremiliari/beatles_abbey.htm, consultato nel gennaio 2009.
Simon, Paul, Garfunkel, Art. (1966-1969) Simon and Garfunkel’s Greatest hits. All Organ, Anchor Press: Tiptree.
SlangDictionary.com. (2009). Slang Dictionary.com, disponibile in internet all’indirizzo http://www.slangdictionary.com/, consultato nel febbraio 2009.
Starr, Ringo. (2006). Ringo Starr official Site, disponibile in internet all’indirizzo http://www.ringostarr.com/home.php, consultato nel dicembre 2009.
Wells, Simon. (2005). 365 Giorni con i Beatles, a cura di Andrea Danese. Traduzione Adriana Raccone. Vercelli: White Star.
YouTube, LLC. (2009). Disponibile in internet all’indirizzo http://www.youtube.com/, consultato nel febbraio 2009.

5. Ringraziamenti

Ringrazio i miei genitori, il mio ragazzo Mattia e la mia migliore amica Elisa per avermi supportato e “sopportato” nei momenti più difficili di questi tre anni.

Ringrazio Bruno Osimo, il mio relatore, e Cynthia Bull, la mia correlatrice, per la grande disponibilità dimostratami e per avermi seguita con passione e interesse nella stesura della tesi.

Un sentito grazie anche a Gaetana e a Nando, grandi fans dei Beatles, per il prezioso materiale messomi gentilmente a disposizione.

Montague Ullman Dreaming as a Metaphor in Motion Tesi di Maryam Romagnoli Sacchi

Montague Ullman Dreaming as a Metaphor in Motion Tesi di Maryam Romagnoli Sacchi

Fondazione Scuole civiche di Milano Istituto superiore interpreti e traduttori via A. Visconti 18 20151 Milano

Relatore: Professor Bruno Osimo Correlatore: Professor Vincenzo Bonini

Diploma di mediazione linguistica 17 ottobre 2002

1

The Dream is a law to itself; and as well quarrel with a rainbow for showing, or for not showing, a secondary arch. The Dream knows best, and the Dream, I say again, is the responsible party.—De Quincey

THERE is a timely need for the revision of dream theory along the following lines: (1) away from metapsychological speculation about dream origins, functions, form, and structure; (2) toward seeing the dream as an aspect of a total behavioral response; (3) toward examining the formal characteristics of dream thought in their intimate association with the altered level of brain function occurring at the time; (4) toward an examination of content as derivative of a social existence that in turn has unknown as well as known dimensions; and (5) toward the development and application of techniques for translating the dream metaphor that are not derived from or limited by specific theoretical systems.

The first four points have been considered in earlier communications1234. This presentation will address itself, in the main, to the last point.

Since the properties of metaphor as revealed in the dream will be our concern, let us begin with a dictionary definition of the term:

Metaphor.—”A figure of speech in which one object is likened to another by asserting it to be that other or speaking of it as if it were the other” (Funk and Wagnall’s New Standard Dictionary of the English Language, 1928). The roots are from the Greek meta meaning over and phero, meaning bear. Brown5 refers to metaphor as “the name for the utterance that suggests its referent through a transfer of meaning.”

Langer writes of metaphor as an instrument of abstraction. It comes into play in situations where an idea is genuinely new. It has no name and there is no word to express it. “When new unexploited possibilities of thought crowd in upon the human mind the poverty of everyday language becomes acute.”6 A process of abstraction is necessary before meaning can be grasped

2

as a thing apart from its concrete presentational aspects. Where the gap exists in situations of this sort it is through the use of metaphor that we can take a conceptual leap forward and establish an initial abstract position in relation to a new element in experience.

Langer7 also notes the paradoxical features of this kind of abstract thought and this is a point of crucial significance in connection with dreaming. She points out that the use of metaphor implies that abstract thinking is going on in a paradoxical sense. Metaphor is essentially a conceptualizing process but one that uses concrete imagery as the instrument for arriving at the abstraction.

If we extend the concept of metaphor to include the visual mode, we may restate its essential characteristics as follows as a first step in exploring its applicability to dream phenomena:
1. Metaphor involves the use of word or image in an improbable context.
2. This is done in order to capture and express a level of meaning that is freshly arrived at and in that sense new. (We are concerned with “live” metaphors rather than “faded” or “dead” ones referred to by linguists.)

3. The use of metaphor creates a greater impact and is more revealing of essential features than a literal statement.

Our main thesis is that dreaming involves rapidly changing presentational sequences which in their unity amount to a metaphorical statement (major metaphor). Each element (minor metaphor) in the sequence has metaphorical attributes organized toward the end of establishing in a unified way an over-all metaphorical description of the new ideas and relations and their implications as these rise to the surface during periods of activated sleep. In contrast to the brain-damaged patient in whom the power of abstraction is lost, the dreamer retains his abstracting ability. The physiologically altered brain milieu, however, does exert a limiting influence.

3

The dreamer’s abstracting powers are limited to the manipulation of concrete images.

Let us now consider dreaming in the light of the three properties of metaphor described above.

Context.—In the dream images do appear in improbable contexts. In fact, this is one of the features distinguishing cognitive content during activated sleep from content recoverable during other phases of sleep. Incongruity of elements, inappropriate relations, displacement, are all well known attributes of dreams.

Newness.—The value of dreams in therapy lies in the fact that they do say something new or at least new in the sense of its unfamiliarity to waking consciousness. Unless this were so, dreams would hardly be worth pursuing. It is the nature of the newness that has to be defined. It is precisely around this question that classical psychoanalytic notions about dreaming have been challenged by a host of critical comment converging from such disparate sources as experimentalists on the one hand8 and phenomenologists on the other,9 as well as from within the ranks of psychoanalysts themselves.101112

Freud regarded the newness as emerging in the form of a compromise arising out of the dash of two intrapsychic systems, namely, unconscious and conscious. The model is that of energy transfer within a closed system with the dreamer limited in his expression of novelty to his own particular repertoire of artful camouflage. True novelty is drained out in the insistence on the role of unchanging instinctual energies linked to infantile wishes in accounting for the fact of dreaming. Followed to its logical conclusion what emerges is an image of man as an impotent reactor—”a complicatedly constructed and programmed robot, perhaps, but a robot nevertheless.”13

Transformation and change and, with them, the element of novelty, are just as much features of dream consciousness as they are of waking consciousness. To arrive at an understanding of how they come about during the dream state we have to replace metaphysical speculation with a more

4

rigorous analysis of the psychological needs of the sleeping human organism and how the symbolic expression of these needs is influenced by the changes in brain milieu that occur during sleep. The former relate to the content of dreams, the latter to their form.

While asleep our brain is functioning differently and our psychological system is responsive to a different input and organized toward a different behavioral goal than in the waking state. When there are sufficient quantitative changes in brain milieu a qualitative change comes about that exerts a tremendously significant limiting influence on the articulating psychological system. Thought processes become bound to concrete presentations. The intact individual in the waking state is capable of thought processes reflecting events extended in time through a discursive mode of symbolic organization but he is at the same time capable of borrowing concrete expressions for intended metaphorical use. The brain-damaged patient cannot abstract and cannot employ metaphor. The closest he comes to it is in the use of unintended metaphor or quasimetaphor. The dreamer is somewhere in between. He has not lost the power of abstraction, but a sufficient alteration in brain milieu has occurred to influence the way in which the abstraction is arrived at and the way in which it gains expression. He is forced into a concrete sensory mode and, hence, the need to manipulate visual presentations toward the goal of a metaphorical explication of an inner state. I suggest that this necessity arises from physiological rather than psychological considerations. Under the conditions of sleep, behavior is not and cannot be directed toward the outside world. Input channels close down and normal motor effector pathways are inhibited. Consciousness, whether while dreaming or awake, cannot be divorced from the activity of the organism. The existence of a sensory mode of conscious expression does appear to be appropriate to the only effector system available to the sleeping organism, namely, the arousal mechanism or the reticular activating system (referred to as the vigilance system by Hernandez-Peon14). The behavioral

5

response in this instance would be an internal one in the form of an influence upon the level of arousal.

To develop this point further requires emphasis on the intimate relationship of conscious experience at a given moment to the activity the individual is engaged in. Activity has a different complexion in the waking state than it has during activated sleep. In the former, the term refers to that segment of the individual’s social practice, ie, his ongoing behavior in a social context, which happens to be in focus at a particular time. In the case of the dreamer, activity has to do with internal change or, more exactly, the potential for internal change, namely the possibility of a change from a state of activated sleep to one of full arousal. In the waking state all new afferent stimuli carry a double message to the central nervous system, one mediated through the reticular system and exerting an arousal effect and the other, which has an informational effect, through the direct sensory pathways to the cortex. While the dreamer is awake the factor of arousal makes possible a more effective orientation to the informational aspects of the stimulus. The dual significance of afferent stimuli is preserved in the dreaming state but with two important differences. An internal source of afferent stimuli is mobilized out of experiential data and the relative importance of the informational and arousal aspects of the stimuli is reversed. In the dreaming state the informational aspects serve the need to sustain and modulate the arousal level and, if necessary, bring about a full arousal effect. The metaphor, through the properties of vividness, emphasis, incongruity, and dramatic presentation, is suited to do just that. The obscurity of the metaphor may be related to the complexity and degree of strangeness of the situation being represented. The movement of the metaphor is the result of attention-directing processes brought into operation once initial activation occurs. The feelings rising to the surface at this time are new in the sense of not having come clearly into focus during the waking state. They act as motivational processes,1516 exerting a further energizing or arousal effect serving to organize or direct further behavioral change. The task before the dreamer is to express relations he has never before experienced. The sensory effects streaming down to the arousal center employ the visual mode predominantly and as these generate further arousal new and relevant motivational systems or feelings are tapped.

6

When we are awake we can tune out our feelings, but when we are asleep we have no choice but to express them should our nervous system become sufficiently aroused to allow us to do so. Feelings are, as Leeper emphasizes, processes capable of being touched off by very slight stimuli. In the case of the dreamer, such stimuli generally take the form of the day residue.

Other characteristics of feelings as a subclass of motives are also relevant to dreaming. These include:

1. Motives modify perceptual processes so that they become organized in a way that makes relevant items stand out forcefully. Elements appearing in dreams are selected on the basis of relevance. Beginning with an affective residue reexperienced at the onset of activated sleep, there is a heightened focal attention to the significant recent event responsible for this affective residue.

2. Motives initiate exploratory activity. The dreamer embarks upon a longitudinal exploration of relevant past data.

3. Motives act as regulatory mechanisms in the service of psychological homeostasis. As a consequence of the feelings initially evoked at the onset of dreaming and as further developed by the exposure of relevant past experiential data, the dreamer moves toward the resolution of any resulting psychological dysequilibrium, either by summoning up defenses or by the creative utilization of positive resources and growth potential.

The Use of Metaphor.—Under the conditions of activated sleep the concrete metaphorical mode is characteristic of this translation of felt reactions into conscious experience. It is in this sense that the dream is essentially a metaphor in motion. As indicated above, the dreamer has to concern himself with understanding new data. The reason a day residue serves as the precipitating mechanism for the subject matter of a dream is precisely because it is experienced as a faint beam of light playing upon shadowy, unknown, and sometimes rather frightening territory. The

7

exploration of this territory — that is, the capacity to engage with the new — requires the power of abstraction. The dreamer, forced to employ a sensory mode, has to build the abstraction out of concrete blocks in the form of visual sequences. The resulting metaphor can be viewed as an interface phenomenon where the biological system establishes the sensory medium as the vehicle for this expression and the psychological system furnishes the specific content.

To appreciate more fully the need for metaphorical expression during periods of activated sleep we have to introduce the concept of social vigilance. This concept involves an orientation to and exploration of events that impinge on the human organism in a novel way and which are, therefore, capable of influencing or changing the current level of social homeostasis. For the human organism, events of this kind tend to assume a mediated and symbolic form rather than the immediate and physically intrusive form characterizing vigilance operations in lower animals. The individual’s equilibrium is upset in one of two ways by such an event. An area of ignorance may be uncovered which then serves as a stimulus to growth and mastery or an area of psychological vulnerability may be exposed in which case efforts at mastery may be handicapped by defensive operations with the result that false or mythic explanations may either color the picture or even predominate in shaping the response.

Vigilance theory can be linked to dreaming by conceiving of the activated sleep state as instigated by a built-in physiologically governed mechanism providing the organism with periodic opportunities throughout the night to process internal or external data in such a way that awakening can occur if necessary by bypassing the main cyclical and gradual variations in levels of sleep. In doing this the organism may be borrowing a mechanism that may or may not have been related to vigilance operations originally.

The essence of a workable vigilance mechanism, as the survival of any lower animal attests, lies in its enforced truthfulness. If information conveyed

8

is false or its interpretation is inappropriate, the danger is enhanced. So it is with the dreamer. He is not at the mercy of deeper instinctual forces seeking to gain expression on the basis of fulfilling an infantile wish, but rather is dreaming of truer and more inclusive aspects of his own existence as partially exposed by a recent event in his life. He is concerned with such fundamental questions as: Who am I? What is happening to me? What can I do about it? The dreamer is making a very active attempt to reflect in consciousness the immediate aspect of his own existence. The dream in its totality is a metaphorical explication of a circumstance of living explored in its fullest implications for the current scene. To see the dream as an elaborate strategy to achieve gratification of a wish is to limit salience to one particular motive at the expense of the surging, forward-looking, exploring, chance- taking operations that also occur. The day residue, reappearing in the dream, confronts the individual either with new and personally significant data or forces a confrontation with heretofore unrecognized unintended consequences of one’s own behavior. There follows an exploration in depth with the immediate issue polarizing relevant data from all levels of one’s own past in an effort to both explore the implications of the intrusive event and to arrive at a resolution. What is unconscious in the presentations appearing in the dream are those aspects of his felt responses which cannot be accurately conceptualized, either because they have not heretofore been personally conceptualized, or because they are derivative of social relations that are not understood and hence cannot be conceptualized. When the personal or social unknown gains expression in the dream, it does so in a personal idiom and by as apt a metaphor as the individual can construct to describe what it feels like.

The following brief examples illustrate some of the points under discussion,

EXAMPLE I.—An architect, with schizoid tendencies, was under pressure to complete a set of drawings on time to meet a deadline. He was forced to devote four successive Sundays to the completion of this work. He had to isolate himself from

9

the rest of his family which includes his wife and four children. His wife managed well for the first three weeks but on this fourth Sunday was in a fretful and irritable mood. He remained closeted in his room for the entire day. He was vaguely aware of his wife’s feelings and from time to time would hear her lose her temper at the children. He fell asleep for a short time and had the following dream:

“I was calling the weather bureau to ask if the hurricane was expected to hit the city that afternoon. As I was asking the question I began to feel embarrassed and guilty. I awoke as I was trying to terminate the call.”

He awoke with the dream in mind. The associations to the dream were as follows:

He had a growing feeling of uneasiness with regard to the burden he was placing upon his wife, but felt that it was necessary and unavoidable. He associated the metaphor of the hurricane to the recurrent blasts of his wife’s temper, particularly in view of the fact that if another hurricane were in reality to occur its name would have begun with the same initial as that of his wife’s name. The incidental event precipitating the dream was the occasional sounds of his wife’s quarrels with the children which reached his ears while he was intensely preoccupied with the work he was doing. The contradiction which was deepened and brought closer to full awareness was one arising from the discrepancy between the actual nature of his activity on the one hand — the arbitrary and absolute way in which he cut himself off from his family when under pressure — and the way in which this activity was reflected in consciousness — that this was simply a necessary but transitory interlude in his family life which the others owed it to him to countenance. The reactions of his wife, related to his actual activity rather than to his conceptualized version of it, induced uneasy feelings. These feelings were the first expression in consciousness of the growing recognition of his own responsibility. They arose in connection with the real although indirect protests by his wife. His rationalizations were being forced to give way before a more accurate reflection of the entire situation namely, that whatever pressure the work subjected him to, it did not justify the absolute

10

kind of severance that he had effected with his family in total disregard of their needs.

EXAMPLE 2.—A dapper 63-year-old man, depressed over a period of several months, related a dream occurring several nights following his first visit:

‘I was the last guy in the world. There was nobody left. I found myself isolated. It woke me. I was very happy that I could get up and go to work.”

The patient had come for help at a point where all of his activities had become sharply curtailed and where he had become phobic about even leaving the house. He did, however, verbalize the hope that he could return to work. He appeared to need the active intervention and support of an outside authority to risk rejoining the world of other men and the world of business. The dream occurred in the context of feeling better following the first visit and a successful effort to mobilize himself to return to work. At the point where he began to move out of his depression he was able to create an image describing both the ultimate in hopeless alienation from all other men and at the same time one that lent itself to sudden termination by the simple process of awakening. The minor metaphor expresses an inexorable and utterly hopeless feeling of separation from all other men. To understand the major metaphor one has to take into account the behavioral effect of the dream, namely awakening, and with it the transformation of the feeling of hopelessness into its opposite. He is saying, in effect, “I can now relate to my illness as if it were a bad dream from which one awakens with relief.”

We have offered very little thus far concerning the laws governing the movement and development of the global or major metaphor of the dream. It is likely that the full exposition of the developmental aspects of the dream process will have to await further investigative effort using the new monitoring techniques at hand. Descriptively the dream evolves from the setting or presenting metaphor by extending its range horizontally through the elaboration of motivational process implied or alluded to in the setting and extending its scope longitudinally by introducing related motivational processes derived from earlier experience. The development is organized

11

rather than haphazard and reintegrative efforts are made, resulting in a resolution which in terms of its affective intensity either is or is not compatible with the normal temporal parameters of the activated sleep period in which it is occurring. These ideas could be tested experimentally by systematically examining the relationship of hypnagogic imagery to dream sequences of the same night. Is the hypnagogic image simply the first step in dreaming, namely, the translation of the last remembered bit of cognitive data into a visual image? Does it lack subsequent development and enrichment and remain as a “forme fruste” of the dream because the period of cortical activation needed to produce a dream is too fleeting in nature during the initial descent into deep sleep? A comparison of the two phenomena highlights the lack in hypnagogic image of the developmental features that characterizes the dream. The latter by comparison tends to be more complex, more dynamic, more evocative of the past and more apt to go beyond the immediate antecedent content of consciousness. In the dream the initial translation is the starting point of an active exploratory process extending throughout the period of activated sleep. A further difference involves the behavioral effect. Full arousal is rarely the result of hypnagogic imagery but it not infrequently occurs during the dream. Perhaps the hypnagogic image can be likened to a word which, no matter how unique or colorful, cannot compare in richness and expressive potential to the fully developed sentence.

The Dream Mystique.—The failure to perceive the full significance of the expository role of metaphor in dream consciousness has had a number of unfortunate consequences for the theory and practice of psychotherapy. Once the puzzling nature and apparent mystery of the dream was equated with unconscious but purposeful efforts at self-deception powerful supports for an instinctivist psychology came into being. The sum of man’s complicated relations to his social milieu is reduced to intrapsychic conflicts directed toward the subjugation and control over his own biology. Chein,

12

referring to this distorted view of man, writes: “Contemporary psychologists, it seems to me, tend to be rather obsessed with the corporeality of man and to be constantly diverted from the human being to the human body.” He further notes: “The emphasis on corporeality as the

essential quality of man is, of course, evident in the naïve — if persistent — effort to reduce psychological to bodily process. This is again a matter of philosophy dictating psychological theory.”

This point of view concerning man and the dream reflecting the struggle between instinctual wish and social prohibition has had a very limiting effect on the potential therapeutic application of dream interpretation. A relationship between dreaming and dream interpretation arose that was rather inappropriately and incongruously forced into a fixed medical model. The end-product more closely resembled the relationship between a patient, his heartbeat reflected in the electrocardiogram, and the physician who has the specialized knowledge needed to interpret the record. In the case of the dream, a universal phenomenon is dealt with as if it, too, were a special record decipherable only by an expert. […]

In the dream the visual image and the referent are linked by the element of similarity , hence the metaphorical quality . The view that has been expressed here is that this translation serves the same expressive purpose that figurative speech serves in the waking state. The other and traditional point of view de-emphasizes the metaphorical relation between referent and image and treats the image almost exclusively in terms of its associational connection with sex or aggression. As Bertalanffy17 points out, dream elements in a freudian sense are not true symbols, but rather what he terms free playing associations. Each element, by virtue of certain formal characteristics, stands for something else. Here the term “stands for” conveys a meaning opposite to metaphor, namely, one of obscuring, hiding, concealing. The end point of the latter development has been the evolution of a dream mystique whereby dream interpretation becomes a special tool in

13

the hands of a few, safeguarded by caveats of all sorts, most of which point to the dangers of inexpert dream interpretation and of deep interpretation. As a consequence, all but psychoanalysts and analytically trained physicians and psychologists carefully eschew any pretense at utilizing dreams. The dream as a potential instrument for self-learning hardly comes into its own under these circumstances. An aspect of ourselves that, in subtle and dramatic ways, highlights movement change and the creative interplay of old patterns and newly evoked responses remains a refined tool in the hands of the few rather than a widely developed and broadly applied medium for self-understanding.

References

Il Sogno è una regola in sé; e litiga con l’arcobaleno per mostrare, o non mostrare, un secondo arco. Il Sogno ben sa e il Sogno, ripeto, è il solo responsabile.—De Quincey

È opportuno rivedere la teoria del sogno in base ai seguenti princìpi: 1. allontanandosi da speculazioni metapsicologiche riguardo a origini, funzioni forma e struttura del sogno; 2. in direzione di una visione del sogno come risposta totalmente comportamentale; 3. in direzione di un’analisi delle caratteristiche formali del pensiero onirico in rapporto alla loro stretta associazione con l’alterazione del grado di funzionamento del cervello durante il sonno; 4. in direzione di un’analisi del contenuto, il quale è determinato da un’esistenza sociale che, a sua volta, possiede aspetti sia noti sia sconosciuti; 5. in direzione dello sviluppo e dell’applicazione di tecniche per la traduzione della metafora onirica che non ha origine né è limitata da sistemi teorici specifici.

I primi quattro punti sono stati analizzati in studi precedenti1234. Questo articolo, in generale, è rivolto all’ultimo punto.

14

Poiché ci occuperemo delle caratteristiche della metafora così come vengono rivelate dal sogno, partiamo da una definizione da dizionario del termine:

Metaphor. «A figure of speech in which one object is likened to another by asserting it to be that other or speaking of it as if it were the other»∗. (Funk and Wagnall New Standard Dictionary of the English Language, 1928). Il termine deriva dal greco meta, indicante «oltre» e fero che significa «portare». Brown5 definisce metafora «il nome dell’enunciazione che indica il proprio referente attraverso un trasferimento di significato».

La Langer descrive la metafora come strumento di astrazione. Entra in gioco in situazioni in cui si presenta un’idea assolutamente nuova. Non esiste nome o parola per esprimerla. «Quando nella mente umana si affollano nuove possibilità di pensiero non sfruttate, si acuisce la povertà del linguaggio di tutti i giorni»6. Prima che il significato possa essere afferrato indipendentemente dai suoi concreti aspetti apparenti è necessario un processo di astrazione. Quando esiste un divario in questo genere di situazioni, attraverso l’uso della metafora è possibile compiere un salto concettuale e stabilire una posizione astratta iniziale in relazione all’esperienza di un nuovo elemento.

La Langer7 nota anche le caratteristiche paradossali di questo tipo di pensiero astratto, punto di cruciale importanza in relazione all’attività onirica. Sottolinea che l’uso della metafora implica che il pensiero astratto procede in una direzione paradossale. La metafora altro non è che un processo di concettualizzazione che, però, ricorre a immagini concrete come strumento per giungere all’astrazione.

Se estendiamo il concetto di metafora alla modalità visiva, possiamo riportare le sue caratteristiche essenziali come primo passo per esplorare l’applicabilità della metafora ai fenomeni del sogno nel modo seguente:

∗ «Figura retorica attraverso cui un oggetto è paragonato a un altro affermando che quell’oggetto è l’altro o parlandone come se lo fosse» [N.d.T.].

15

  1. La metafora comporta l’uso di una parola o immagine in un contesto improbabile.
  2. Questo ha lo scopo di catturare ed esprimere un livello di significato acquisito di recente e in questo senso nuovo. (Ci occupiamo di metafore «vive» piuttosto che di metafore «morte» o «spente» a cui fanno riferimento i linguisti.)
  3. L’uso della metafora crea un effetto maggiore e rivela in misura superiore le caratteristiche essenziali rispetto a un’affermazione letterale.

    La nostra tesi principale è che l’attività onirica comporta un rapido

cambiamento di sequenze descrittive, che nella loro totalità corrispondono a un’affermazione metaforica (metafora maggiore). Ogni elemento (metafora minore) della sequenza possiede attributi metaforici organizzati allo scopo di stabilire in maniera unitaria una descrizione metaforica complessiva delle nuove idee, relazioni e implicazioni quando esse emergono durante le fasi del sonno attivo. Contrariamente ai pazienti con lesioni cerebrali, il sognatore mantiene la capacità di astrazione. Tuttavia il milieu cerebrale, modificato a livello fisiologico, esercita un’influenza restrittiva. Le capacità di astrazione del sognatore sono ridotte alla manipolazione d’immagini concrete.

Analizziamo ora l’attività onirica alla luce delle tre suddette proprietà della metafora.

Contesto. Nel sogno le immagini in effetti si presentano in contesti improbabili. Di fatto questo è uno degli aspetti che contraddistingue il contenuto cognitivo degli intervalli di sonno attivo da quello recuperabile durante le altre fasi. Discordanza tra gli elementi, relazioni inadeguate e spostamento sono note caratteristiche dei sogni.

Novità. L’importanza dei sogni nella terapia sta nel fatto che, in effetti, svelano qualcosa di nuovo o, per lo meno, nuovo in relazione alla loro scarsa familiarità con la coscienza della veglia. Se così non fosse, non varrebbe la pena indagare i sogni. È la natura di novità che va definita. Proprio su questo

16

punto le nozioni classiche della psicoanalisi riguardanti l’attività onirica sono state messe in discussione da numerosi commenti critici provenienti da fonti diverse: sperimentalisti da una parte8 e fenomenologisti dall’altra9, ma anche dalle schiere degli psicoanalisti stessi101112.

Freud riteneva che la novità fosse una forma di compromesso, risultato di un conflitto tra due sistemi intrapsichici, ossia inconscio e coscienza. Il modello è quello del trasferimento d’energia all’interno di un sistema chiuso in cui il sognatore vede limitata l’espressione di novità dal proprio repertorio di camuffamento artificioso. La vera originalità scompare con l’insistenza sul ruolo delle energie istintive invariate legate ai desideri infantili per spiegare l’attività onirica. Come conseguenza logica ciò che emerge è un’immagine dell’uomo come reattore impotente, «un robot, forse costruito e programmato in modo complesso, ma sempre un robot»13.

Trasformazione, cambiamento e, con essi, l’elemento di novità sono tutti aspetti sia della coscienza del sogno sia della coscienza vigile. Per comprendere come essi si realizzino durante lo stato onirico è necessario sostituire le speculazioni metafisiche con un’analisi più rigorosa dei bisogni psicologici dell’organismo umano dormiente e come l’espressione simbolica di questi bisogni sia influenzata dai mutamenti nel milieu cerebrale durante il sonno. I primi sono legati al contenuto dei sogni, la seconda alla loro forma.

Durante il sonno il cervello funziona diversamente e il nostro sistema psicologico risponde a un diverso input ed è organizzato verso un differente obiettivo comportamentale rispetto allo stato di veglia. Quando vi sono sufficienti cambiamenti quantitativi nel milieu cerebrale, si verifica un mutamento qualitativo che esercita una considerevole influenza restrittiva sul sistema psicologico di articolazione. A questo punto i processi di pensiero sono legati a presentazioni concrete. Durante la veglia il soggetto sano è in grado di compiere processi di pensiero che riflettono eventi prolungati nel tempo attraverso una modalità discorsiva di organizzazione simbolica ma, al tempo stesso, è anche in grado di ricorrere a espressioni concrete per

17

utilizzarle metaforicamente. Il paziente con lesioni cerebrali non può ricorrere né all’astrazione né alla metafora. Può al massimo fare uso di una metafora non intenzionale, o quasimetafora. Il sognatore si trova a metà: non ha perso la capacità di astrazione, ma nel milieu cerebrale si è verificata un’alterazione tale da influenzare il modo in cui giunge all’astrazione e nel quale l’astrazione acquista espressione. Viene costretto in una modalità sensoriale concreta e quindi alla necessità di manipolare le rappresentazioni visive allo scopo di fornire una spiegazione metaforica di uno stato interiore. Ipotizzo che questa necessità abbia origini fisiologiche e non psicologiche. Alle condizioni del sonno, il comportamento non è, e non può essere, diretto al mondo esterno. I canali di input si chiudono e le normali vie motorie sono inibite. La coscienza, sia allo stato vigile sia durante il sonno, non può essere separata dall’attività dell’organismo. L’esistenza di una modalità sensoriale di espressione cosciente in effetti appare appropriata per l’unico sistema a disposizione dell’organismo durante il sonno, cioè il meccanismo di attivazione o sistema reticolare attivatore (che Hernandez Peon14 chiama «sistema di vigilanza»). In questo caso la risposta comportamentale sarebbe interna, sotto forma di un’influenza esercitata sul livello di attivazione.

Al fine di sviluppare questo punto più approfonditamente è necessario sottolineare la stretta relazione dell’esperienza conscia – in un momento preciso – con l’attività in cui l’individuo è impegnato. L’attività nella veglia possiede caratteristiche diverse da quelle nel sonno attivo. Nel primo caso il termine fa riferimento a quel segmento delle pratiche sociali dell’individuo, ad esempio il comportamento che assume in un determinato contesto sociale, che è focalizzato in quel momento. Nel caso del sognatore l’attività ha a che fare con cambiamenti interni o, più precisamente, con il potenziale di cambiamento interno, ossia, la possibilità di passaggio dal sonno attivo allo stato di eccitazione diffusa. Durante la veglia tutti i nuovi stimoli afferenti recano al sistema nervoso centrale un messaggio doppio: uno mediato dal sistema reticolare che provoca il risveglio e l’altro, con effetto informativo,

18

dalle vie sensoriali dirette alla corteccia. Quando il sognatore è sveglio il fattore di attivazione rende possibile un più efficace orientamento sugli aspetti informativi dello stimolo. La duplice portata degli stimoli afferenti si mantiene durante lo stato onirico, ma con due differenze importanti. I dati esperienziali mobilitano una fonte interna di stimoli afferenti e si capovolge l’importanza relativa degli aspetti informativi e di quelli di attivazione. Nello stato onirico gli aspetti informativi servono a sostenere e a modulare il livello di attivazione e, se necessario, a produrre un effetto di eccitazione diffusa. Sicuramente la metafora si presta a tale scopo, grazie alle caratteristiche di vividezza, enfasi, incongruenza e teatralità che la contraddistinguono. L’oscurità della metafora può essere legata alla complessità e al grado di stranezza della situazione rappresentata. Il movimento della metafora è il risultato dei processi per dirigere l’attenzione che vengono avviati una volta verificatasi l’attivazione iniziale. Le sensazioni che emergono in questo momento sono nuove nel senso che durante la veglia non sono state messe bene a fuoco. Esse fungono da processi motivazionali1516 esercitando un effetto ulteriore che rafforza l’eccitazione diffusa. Questo serve a organizzare e a dirigere l’ulteriore cambiamento comportamentale. Il compito del sognatore è quello di esprimere relazioni che non ha mai sperimentato. Gli effetti sensoriali che fluiscono al centro di attivazione utilizzano soprattutto la modalità visiva, mentre questi ultimi attivano ulteriori sistemi motivazionali o sentimenti nuovi.

Quando siamo svegli possiamo anche non dare ascolto ai nostri sentimenti, ma mentre dormiamo non possiamo fare altro che esprimerli, a condizione che il sistema nervoso venga stimolato a sufficienza. Come sottolinea Leeper, le sensazioni sono processi che possono essere scatenati da stimoli leggerissimi; nel caso del sognatore tali stimoli assumono l’aspetto dei residui diurni.

Anche altre caratteristiche delle sensazioni, come sottoclasse di motivi, sono importanti per l’attività onirica. Tra queste figurano:

19

1. I motivi che modificano i processi percettivi, così che essi vengono organizzati in modo da evidenziare efficacemente gli oggetti pertinenti. Gli elementi che appaiono nel sogno vengono selezionati in base alla loro pertinenza, cominciando con un residuo affettivo, riesperito all’inizio del sonno attivo, si intensifica l’attenzione focale su un recente evento significativo, responsabile di questo residuo affettivo.

  1. I motivi avviano l’attività esplorativa. Il sognatore si imbarca in un’esplorazione longitudinale dei dati pertinenti passati.
  2. I motivi agiscono da meccanismo regolatore al servizio dell’omeostasi psicologica. In conseguenza delle sensazioni suscitate all’inizio dell’attività onirica, ulteriormente sviluppate con i dati esperienziali pertinenti, il sognatore si muove verso la risoluzione di qualunque disequilibrio psicologico risultante, o facendo appello alle proprio difese o utilizzando creativamente le risorse positive e il potenziale di crescita.

L’uso della metafora. Nelle condizioni di sonno attivo la modalità metaforica concreta è tipica di tale traduzione delle reazioni sperimentate nell’esperienza conscia. È in questo senso che il sogno è una metafora in movimento. Come detto sopra il sognatore deve cercare di capire i dati nuovi. I residui diurni servono da meccanismo scatenante per il materiale onirico proprio perché vengono vissuti come un fioco raggio di luce su un terreno oscuro, ignoto e, a volte, piuttosto terrificante. Esplorare questo territorio – cioè la capacità di intraprendere il nuovo – richiede capacità di astrazione. Il sognatore, obbligato a impiegare una modalità sensoriale, deve costruire l’astrazione partendo da blocchi concreti sotto forma di sequenze visive. La metafora che ne risulta può essere vista come il fenomeno di interfaccia in cui il sistema biologico attribuisce a un medium sensoriale il ruolo di veicolo per questa espressione, mentre il sistema psicologico fornisce il contenuto specifico.

20

Per comprendere pienamente la necessità di espressione metaforica durante le fasi del sonno attivo è necessario introdurre il concetto di vigilanza sociale. Questo concetto comporta un’esplorazione e un orientamento verso quegli eventi che si ripercuotono sull’organismo umano in una maniera nuova e, quindi, in grado di influenzare o cambiare il livello attuale di omeostasi sociale. Per l’organismo umano questo genere di eventi tende ad assumere una forma mediata e simbolica anziché la forma immediata e fisicamente intrusiva che caratterizza le operazioni di vigilanza degli animali inferiori. L’equilibrio dell’individuo viene alterato da tale evento in due modi possibili: uno consiste nello svelare un’area oscura che in seguito stimola la crescita e la capacità di controllo; il secondo consiste nel mettere a nudo un’area di vulnerabilità psichica e in questo caso gli sforzi per la capacità di controllo sono talora ostacolati dalle operazioni di difesa, con il risultato che spiegazioni false o mitizzate finiscono per dare una particolare tonalità o, addirittura, forma al quadro.

La teoria della vigilanza può essere collegata all’attività onirica immaginando che il sonno attivo sia provocato da un meccanismo interno regolato fisiologicamente che, durante la notte, fornisce più volte all’organismo la possibilità di elaborare dati interni o esterni in modo che il risveglio possa verificarsi, se necessario, aggirando le principali variazioni cicliche e graduali delle fasi del sonno. Facendo ciò l’organismo probabilmente ricorre a un meccanismo che in origine forse era legato alle operazioni dello stato di vigilanza.

La condizione essenziale di un meccanismo di vigilanza funzionale, come attesta la sopravvivenza degli animali inferiori, sta nella sua effettiva veridicità. Se l’informazione trasmessa è falsa o interpretata in modo non adeguato, il pericolo aumenta. Lo stesso accade al sognatore. Questi non è alla mercé di forze istintuali più profonde che cercano di acquistare espressione per appagare un desiderio infantile, ma sogna piuttosto aspetti più veri e comprensivi della propria esistenza, in quanto svelata da un

21

evento recente nella vita del sognatore. Egli cerca risposte a domande esistenziali come: «Chi sono? Cosa mi succede? Cosa posso farci?» il sognatore si sforza attivamente di riflettere nella coscienza gli aspetti immediati della propria esistenza. Il sogno nella sua totalità è un’esplicitazione metaforica di una circostanza di vita, esplorata nelle sue implicazioni più profonde per il presente. Vedere il sogno come strategia elaborata per appagare un desiderio significa limitare l’importanza a un motivo in particolare, a scapito delle altre operazioni, travolgenti, lungimiranti, esplorative e rischiose che si verificano. I residui diurni, che riappaiono nei sogni, mettono l’individuo di fronte a nuovi dati per lui significativi o impongono un confronto con le conseguenze finora involontarie e non riconosciute del proprio comportamento. Segue un’esplorazione in profondità in cui la questione immediata polarizza i dati pertinenti da tutti i livelli del proprio passato nel tentativo sia di esplorare le implicazioni dell’evento intrusivo sia di arrivare a una soluzione. Ciò che è inconscio nelle rappresentazioni del sogno sono gli aspetti delle risposte individuali debitamente concettualizzabili, o perché finora non sono state concettualizzate personalmente, o perché derivano da relazioni sociali che non sono state comprese e pertanto non concettualizzabili. Quando l’inconscio o sociale acquista espressione nel sogno, questo avviene tramite un linguaggio idiomorfo e tramite una metafora che, a seconda della capacità dell’individuo, sarà più o meno appropriata per descrivere ciò che prova.

I due brevi esempi che seguono illustrano i punti presi in esame.

ESEMPIO 1. Un architetto, con tendenze schizoidi, era sotto pressione poiché doveva terminare una serie di disegni in tempo per rispettare una scadenza. È stato costretto a dedicarvi quattro domeniche consecutive. Ha dovuto isolarsi dalla moglie e dai quattro figli. Per le prime tre domeniche la moglie ha sopportato questa situazione, ma la quarta era nervosa e irascibile. Il marito era rimasto chiuso tutto il giorno nel suo studio. Egli era vagamente consapevole dei sentimenti della moglie e ogni tanto la sentiva arrabbiarsi con i figli. Si è addormentato per qualche minuto e ha fatto questo sogno:

22

«Chiamavo l’ufficio meteorologico per sapere se era previsto che l’uragano si abbattesse quel pomeriggio sulla città. Mentre chiedevo l’informazione ho iniziato a sentirmi a disagio e in colpa. Mi sono svegliato mentre cercavo di troncare la telefonata».

Si è svegliato con in mente il sogno. Le associazioni con il sogno erano le seguenti:

Provava un crescente senso di disagio causato dal carico di lavoro a cui stava sottoponendo la moglie, tuttavia credeva che fosse necessario e inevitabile. Egli associava la metafora dell’uragano ai ricorrenti scatti d’ira della moglie, soprattutto in considerazione del fatto che se fosse venuto un uragano davvero, il suo nome sarebbe iniziato con la prima lettera del nome della moglie. L’evento accidentale che aveva provocato il sogno era il rumore occasionale delle sgridate della moglie ai figli che gli giungevano alle orecchie mentre era completamente immerso nel lavoro. La contraddizione, intensificata e portata quasi alla totale consapevolezza, aveva origine dalla discrepanza tra la vera natura della sua attività da una parte – la maniera assoluta e arbitraria con cui si isolava dalla famiglia quando era sotto pressione – e il modo in cui tale attività era riflessa nella coscienza: questa era semplicemente una parentesi necessaria, ma temporanea, della sua vita famigliare che gli altri dovevano sopportare. Le reazioni della moglie, legate alla vera natura della sua attività effettiva, e non a come lui se l’era immaginata gli causavano un senso di disagio. Era la prima espressione nella coscienza della crescente consapevolezza della propria responsabilità. Il disagio è emerso in rapporto alle proteste reali, sebbene indirette, della moglie. La razionalizzazione da lui operata doveva cedere di fronte a una riflessione più accurata dell’intera situazione: anche se il lavoro lo metteva sotto pressione, il distacco assoluto dai suoi famigliari, nel disinteresse totale dei loro bisogni, non era giustificabile.

ESEMPIO 2. Un elegante uomo di sessantatré anni che da alcuni mesi soffriva di depressione, raccontò un sogno ricorrente dopo la sua prima seduta:

23

«Ero l’ultimo uomo sulla terra. Non era rimasto nessuno. Mi sono ritrovato solo. Questo mi ha fatto svegliare. Ero molto felice di potermi alzare e di andare a lavorare».

Questo paziente era venuto da me in un momento in cui tutte le sue attività si erano ridotte nettamente e in cui era diventato fobico anche solo all’idea di uscire da casa. Aveva in effetti verbalizzato la speranza di potere tornare al lavoro. Sembrava avere bisogno di un intervento e di un sostegno attivo da parte di un’autorità esterna per affrontare il rischio di ritornare al mondo degli uomini e a quello degli affari. Aveva fatto questo sogno in un momento in cui si sentiva meglio, in séguito alla prima seduta e al tentativo riuscito di impegnarsi per tornare al lavoro. Nel momento in cui iniziava a uscire dalla depressione è riuscito a creare un’immagine che descriveva sia l’apice dell’isolamento disperato dal resto dell’umanità e, al tempo stesso, un’immagine che si prestava a un troncamento improvviso, grazie al semplice processo del risveglio. La metafora minore esprime un sentimento inesorabile, estremamente disperato, di separazione dal resto dell’umanità. Al fine di cogliere la metafora maggiore è necessario prendere in considerazione l’effetto comportamentale del sogno, ossia il risveglio, e con quest’ultimo il mutamento della disperazione nel suo opposto. In realtà sta dicendo: «ora accetto la mia malattia come se fosse un brutto sogno da cui ci si può svegliare con sollievo».

Finora abbiamo fornito pochi elementi sulle leggi che regolano il movimento e lo sviluppo della metafora globale o maggiore del sogno. Probabilmente la descrizione completa degli aspetti evolutivi del processo onirico dovrà attendere ulteriori indagini, utilizzando le nuove tecniche di monitoraggio disponibili. A livello descrittivo il sogno si evolve da metafora introduttiva o di presentazione estendendo la propria portata in senso orizzontale attraverso l’elaborazione del processo motivazionale implicato, o a cui fa allusione, nell’introduzione, ed estendendo il proprio spazio in senso longitudinale introducendo processi motivazionali correlati, derivanti dall’esperienza passata. Lo sviluppo non è casuale ma organizzato, vengono

24

inoltre compiuti dei tentativi di reintegrazione i quali determinano una risoluzione che in termini di intensità affettiva è, o non è, compatibile con i normali parametri temporali della fase di sonno attivo in cui si verifica. È possibile verificare tali idee in maniera sperimentale esaminando sistematicamente la relazione delle immagini ipnagogiche con le sequenze oniriche della stessa notte. L’immagine ipnagogica è solo il primo passo dell’attività onirica, cioè la traduzione dell’ultimo frammento ricordato dei dati cognitivi in immagine visiva? Manca forse di sviluppo successivo e arricchimento rimanendo come «forme fruste» del sogno poiché il periodo di attivazione della corteccia, necessario per produrre un sogno è di natura troppo breve durante la discesa iniziale verso il sonno profondo? Un confronto tra i due fenomeni mette in luce la mancanza nell’immagine ipnagogica degli aspetti evolutivi che caratterizza il sogno. Quest’ultimo al confronto tende ad essere più complesso, dinamico ed evocativo del passato e più incline ad andare oltre l’immediato contenuto precedente della coscienza. Nel sogno la traduzione iniziale è il punto di partenza di un processo esplorativo e attivo che si estende per tutto il periodo di sonno attivo. Un’ulteriore differenza riguarda l’effetto comportamentale. È raro che l’attivazione completa sia conseguenza di immagini ipnagogiche, ma non è raro che avvenga durante il sogno. È forse possibile paragonare l’immagine ipnagogica a una parola che, per quanto unica e multicolore, non può essere messa a confronto, in termini di ricchezza e potenziale espressivo, con la frase totalmente sviluppata.

La mistica del sogno. La mancata percezione di quanto sia significativo il ruolo espositivo della metafora nella coscienza del sogno ha avuto numerose conseguenze infelici per quanto riguarda la teoria e la pratica della psicoterapia. Dal momento che la natura enigmatica e misteriosa del sogno è stata equiparata a tentativi inconsci ma mirati di autoinganno, la psicologia istintivista ne ha avuto un forte sostegno. L’insieme delle complesse relazioni dell’individuo con il proprio ambiente sociale si riduce a conflitti

25

intrapsichici, volti a dominare e controllare la propria biologia. Chein, a proposito di questa visione distorta dell’uomo, scrive: «Gli psicologi contemporanei, a mio parere, tendono ad essere piuttosto ossessionati dalla corporeità dell’uomo e a essere costantemente spinti lontano dall’essere umano e vicini al corpo umano». Osserva inoltre: «L’enfasi posta sulla corporeità come qualità essenziale dell’uomo è certamente evidente nell’ingenuo tentativo – se persistente – di ridurre i processi psicologici a processi fisici. Ancora una volta la filosofia vuole imporsi sulla teoria psicologica.

Tale punto di vista dell’uomo e del sogno come specchio della lotta tra il desiderio istintivo e i divieti sociali ha avuto un effetto fortemente limitante sulla potenziale applicazione terapeutica dell’interpretazione dei sogni. La relazione tra l’attività onirica e l’interpretazione dei sogni, è stata costretta in modo piuttosto inappropriato e inadeguato, all’interno di un modello medico fisso. Il prodotto finale assomigliava più che altro alla relazione tra un paziente, il suo battito cardiaco rivelato nell’elettrocardiogramma, e il medico che possiede la conoscenza specifica per interpretarlo. Nel caso del sogno, un fenomeno universale viene affrontato come se anch’esso fosse uno speciale tracciato, che solamente un esperto è in grado di decifrare. Pur ammettendo che gli approcci naturalistici, intuitivi o di senso comune possano in qualche modo essere fuoristrada, l’arte dell’interpretazione dei sogni è ormai troppo coperta da una corazza tecnologica, più adatta a mantenere il divario fra il significato apparente e quello effettivo, che a colmarlo. I problemi cruciali e di demarcazione prendono forma intorno alla questione di come venga considerata la qualità metaforica.

Nel sogno l’immagine visiva e il referente sono collegati dall’elemento della somiglianza: di qui la qualità metaforica. La concezione qui espressa è che questa traduzione ha lo stesso fine espressivo del discorso figurativo allo stato vigile. L’altra concezione, tradizionale, minimizza l’importanza della relazione metaforica tra referente e immagine e tratta l’immagine tenendo

26

conto quasi esclusivamente della sua relazione associativa con sesso o aggressività. Come sottolinea Bertanlaffy17, gli elementi onirici, in senso freudiano, non sono veri e propri simboli ma piuttosto quello che definisce «associazioni libere». Ogni elemento, in virtù di certe caratteristiche formali, sta per qualcos’altro. Qui «sta per» trasmette un significato opposto a metafora, cioè quello di celare, nascondere, occultare. Il risultato di quest’ultima concezione è stata l’evoluzione di una mistica del sogno in cui l’interpretazione dei sogni diventa strumento specialistico in mano a pochi, con moltissime riserve, gran parte delle quali sottolineano i pericoli dell’interpretazione da parte di inesperti e dell’interpretazione profonda. Ne è risultato che tutti, tranne psicoanalisti, medici con formazione analitica e psicologi, abbandonano qualunque pretesa di utilizzare i sogni. In queste circostanze il sogno, come potenziale strumento per conoscere sé stessi, è poco diffuso Un aspetto di noi stessi che, in modo sottile e marcato, sottolinea il cambio le dinamiche evolutive e l’interazione creativa tra vecchi modelli e le risposte nuove, rimane uno strumento raffinato in mano a pochi anziché essere un medium sviluppato e largamente utilizzato per capire sé stessi.

Sommario

Il sogno è stato descritto come una comunicazione interiore data dalla rapida sovrapposizione di immagini che cambiano di continuo allo scopo di esprimere e analizzare le necessità della vigilanza dell’organismo umano dormiente. Le immagini visive si fondono producendo un effetto metaforico che possiede le caratteristiche specifiche della metafora e che facilita il processo di autoconfronto in atto. In queste condizioni, in cui l’effetto comportamentale implica l’alterazione di uno stato interiore, i processi di pensiero hanno le caratteristiche formali tipiche dei sogni. È pensiero in una

modalità sensoriale poiché è proprio l’effetto sensoriale ciò di cui ha bisogno.

27

Abbiamo inoltre ipotizzato che le operazioni cognitive si verificano a servizio della vigilanza, termine che utilizziamo per denotare le possibili minacce o interferenze con i sistemi simbolici e di valore che legano l’organismo al proprio ambiente sociale. Le sensazioni suscitate all’inizio del sonno attivo hanno le caratteristiche dei processi motivazionali e in questo modo possono avere un effetto energizzante, organizzativo e di attivazione (arousal). Il sognatore è costretto ad esaminare questi elementi intrusivi, sia a livello dei legami che essi hanno col passato sia a livello delle implicazioni che avranno in futuro. L’artificio della metafora e l’assenza di rumori di sottofondo sottolineano la novità e la dimensionalità del problema. Ogni elemento onirico, così come il sogno nel suo complesso, possiede una qualità metaforica. Possiamo forse parlare di metafore all’interno di metafore.

Un grosso passo è stato compiuto verso l’inserimento dell’impotenza all’interno del sistema simbolico, quando la teoria psicoanalitica ha collegato la difficoltà di comprendere i sogni all’atto volontario di mascheramento. L’autoinganno diventa la tecnica più conveniente per soddisfare le proprie necessità. Gli impulsi derivati sono in qualche modo manipolati per non essere scoperti e al tempo stesso per acquistare espressione. In realtà le esigenze e i motivi evocati non esistono, lasciando così il sognatore senza alcuna alternativa se non quella di combattere le stesse vecchie battaglie in un’infinità di modi possibili. La teoria gli fornisce anche dei paraocchi interni che gli impediscono di identificare correttamente la relazione fra la propria difficoltà e il disordine in un ambiente sociale dove spesso le esigenze dell’individuo sono subordinate ai rapporti di forza. È il nuovo, le implicazioni del nuovo e la risoluzione del nuovo a preoccupare il sognatore ed è questa preoccupazione che rende la metafora il mezzo naturale che permette al nuovo di acquistare espressione. La modalità metaforica infatti costringe il sognatore a correre il rischio di affermare qualcosa di nuovo riguardo a sé stesso. Nella misura in cui una metafora colorisce una metafora

28

non letta né compresa, il suo potere di incrementare l’autoconsapevolezza svanisce.

Bibliografia

1 Ullman, M.: Dreams and Arousal, Amer J Psychoter 12:222-242 (April) 1958. 2 Ullman, M.: Dreams and the Therapeutic Process, Psychiatry 21:123-181 (May) 1968.
3 Ullman, M.: The Adaptive Significance of the Dream, J Nerv Ment Dis 129:2 (Aug) 1959.

4 Ullman, M.: The Social Roots of the Dream, Amer J Psychoanal 20:2, 1960.
5 Brown, R.: Words and things, New York: The Free Press of Glencoe, Inc., 1958 p. 211.
6 Langer, S.K.: Philosophy in a New Key, New York: Penguin Books, Inc., 1948, p 121.
7 Langer, S.K.: Problems of Art, New York: Charles Scribner’a Sons, 1957, p 104. 8 Dement, W,C.: “Experimental Dream Studies,” In Masserman, J. (ed.): Science and Psychoanalysis, New York: Grune & Stratton, Inc., 1964, vol 3.
9 Boss, M.: The Analysis of Dreams, New York: Philosophical Library, Inc., 1967.
10 Tauber, E-S., and Green, M.R.: Prelogical Experience, New York: Basic Books, Inc., Publishers, 1959.
11 Fromm, E.: The Forgotten Language, New York: Holt, Rinehart & Winston, Inc., 1951.
12 Altahuler, K.Z.: Comments on Recent Sleep Research Related to Psychoanalytic Theory, Arch Gen Psychiat 15:235-269 (Sept) 1966.
13 Chein, I.: The Image of Man, J Soc Issues 31:3-20 (Oct) 1962.
14 Hernandez-Peon, R.: A Neurophysiologic Model of Dreams and Hallucinations, J Nerv Merit Dis 141:6, 1966.
15 Leeper, R.W., and Madison, P.: Toward Understanding Human Personalities, New York: Appleton-Century-Crofts, 1959.
16 Leeper, R.W.: “Some Needed Developments in the Motivational Theory of Emotions,” in Levine, D. (ed.); Nebraska Symposium on Motivation; 1965, Lincoln: University of Nebraska Press, 1965.
17 Bertalanffy, L.: “On the Definition of the Symbol,” in Royce, J.R. (ed.): Psychology and the Symbol, New York: Random House, Inc., 1965.

1 Ullman, M.: Dreams and Arousal, Amer J psychoter 12:222.242 (April) 1958.
2 Ullman, M: Dreams and the Theraupetic Process, Psychiatry 21:123-181 (May) 1968.
3 Ullman, M.: The Adaptive Significance of the Dream, J Nerv Ment Dis 129:2 (Aug) 1959.

29

4 Ullman, M.: The Social Roots of the Dream, Amer J Psychoanal 20:2, 1960.

5 Brown, R.: Words and Things, New York: The Free Press of Glencoe, Inc.,

1958 p.211.

6 Langer, S.K.: Philosophy in a New Key, New York: Penguin Books, Inc., 1948,

p 121.

7 Langer, S.K.: Problems of Art, New York: Charles Scribner’s Sons, 1957, p 104.

8 Dement, W.C.: “Experimental Dream Studies,” In Masserman, J. (ed.):

Science and Psychoanalysis, New York: Grune & Stratton, Inc., 1964, vol 3.

9 Boss, M,: The Analysis of Dreams, New York: Philosophical Library, Inc.,

1967.

10 Tauber, E-S., and Green, M.R.: Prelogical Experience, New York: Basic

Books, Inc., Publishers, 1959.

11 Fromm, E.: The Forgotten Language, New York: Holt, Rinehart & Winston,

Inc., Publishers, 1959.

12 Altahuler, K.Z.: Comments on Recent Sleep Research Related to

Psychoanalytic Theory, Arch Gen Psychiat 15:235-269 (Sept)1966.

13 Chein, L: The Image of Man, J Soc Issues 31:3-20 (Oct) 1962.

Hernandez-Peon, R.: A Neurophysiologic Model of Dreams and Hallucinations, J Nerv Merit Dis 141:6, 1966.
15 Leeper, R.W., and Madison, P.: Toward Understanding Human Personalities, New York: Appleton-Century-Crofts, 1959.
16 Laeper, R.W.: “Some Needed Developments in the Motivational Theory of Emotions,” in Levine, D. (ed.); Nebraska Symposium on Motivation; 1965, Lincoln: University of Nebraska Press, 1965.
17 Bertalanffy, L.: “On the Definition of the Symbol,” in Royce, J.R. (ed.): Psychology and the Symbol, New York: Random House, Inc., 1965.

14

30

Gideon Toury: Communication in Translated Texts LAURA AGOSTINELLI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Gideon Toury: Communication in Translated Texts

LAURA AGOSTINELLI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Autunno 2009

© GIDEON TOURY, Porter Institute, Tel Aviv, 1980 © Laura Agostinelli per l’edizione italiana 2009

Abstract in italiano

Gideon Toury: Communication in Translated Texts

Gideon Toury è sempre stato in prima linea per trovare una teoria della traduzione ed è stato uno dei primi a concepire la traduzione come una materia a sé stante e come oggetto di ricerca. In questo libro Toury riflette sull’importanza del metatesto e di tutto ciò che comporta, così allontanandosi dalle teorie più tradizionali. Diversamente dai tradizionalisti Toury mette in primo piano la cultura ricevente alla quale il testo tradotto deve innanzitutto rispondere. Le traduzioni devono soddisfare i bisogni della cultura ricevente che a sua volta influisce sulla stesura del testo tradotto. Il fattore culturale ha molta importanza ed è anche per questo motivo che l’interesse s’incentra sulle norme descrittive e sugli studi descrittivi che, contrariamente alle norme prescrittive e agli studi teorici, analizzano il prodotto dell’attività traduttiva nel mondo reale.

English abstract

Gideon Toury has always been in the front line to find a theory of translation and he has been one of the first scholars to see translation as a subject in its own right and as an object of research. In this book he meditates on the importance of the target text and on everything it involves. By doing so, he moves away from the most traditional theories. Unlike the traditionalists, Toury brings the target culture to the fore — the culture to whom the translated text has to meet first and foremost with. Translations have to satisfy the needs of the target culture that, in its turn, influences the writing of the translated text. The cultural factor is very important and it is for that reason, too, that the interest pivots on the descriptive norms and on the descriptive translation studies that, unlike the prescriptive norms and the theoretical studies, analyse the product of the translation activity in the real world.

Résumé en français

Gideon Toury a toujours été en première ligne à fin de trouver une théorie de la traduction et il a aussi été un des premiers savants à concevoir la traduction comme une matière indépendante et comme un objet de recherche. Dans ce livre, Toury réfléchit sur l’importance du texte récepteur et sur tout ce qu’il comporte, en s’éloignant ainsi des théories les plus traditionnelles. A la différence des traditionalistes, il met au premier plan la culture réceptrice à laquelle le texte traduit doit avant tout répondre. Les traductions doivent satisfaire les besoins de la culture réceptrice qui, à son tour, influence l’écriture du texte traduit. Le facteur culturel a beaucoup d’importance et pour cette raison aussi, l’intérêt est centré sur les normes et les études descriptives qui, au contraire des normes prescriptives et des études théoriques, analysent le produit de l’activité de traduction dans le monde réel.

1

Sommario

1. Prefazione ________________________________________________ 3

  1. 1.1.  Biografia________________________________________________ 3
  2. 1.2.  In Search of A Theory of Translation ________________________ 4

1.2.1. Communication in Translated Texts __________________________ 4

1.2.2. Le norme traduttive ________________________________________ 6

1.2.3. Gli studi traduttivi ________________________________________ 10

1.2.3.1. Traduzione naturale versus traduttori nativi________________________ 10

1.2.4. Storia della traduzione ebraica ______________________________ 11

1.2.4.1. La letteratura per l’infanzia ____________________________________ 14

1.3. Riferimenti bibliografici _____________________________________ 15

2.1 Traduzione con testo a fronte _______________________________ 16

2.2 References _________________________________________________ 33 2.2 Riferimenti bibliografici _____________________________________ 34

2

1. Prefazione

1.1 Biografia

Gideon Toury è figlio di immigranti tedeschi ebrei che si sono trasferiti in Israele durante gli anni Trenta. Toury, come lui stesso ha affermato, essendo figlio di immigranti, era abituato a tradurre non solo in ambito linguistico ma anche pragmatico e culturale. È cresciuto a Haifa e durante gli anni scolastici, come ogni bambino, aveva il compito di tradurre dall’inglese e dall’arabo verso l’ebraico (anche se si traduceva solo a livello lessicale per capire cosa si stava studiando). L’inglese era una lingua già praticata da Toury visto il contatto diretto che aveva con i bambini provenienti dall’estero, figli di colleghi di suo padre, che insegnava in un liceo affiliato al Technion. Inoltre Toury non si dimenticò mai la lingua tedesca tenendola viva con la lettura di numerosi libri (Shlesinger 2000). Da bambino è diventato vicedirettore di un settimanale per bambini, traducendo poi molte storielle, al liceo era direttore della versione ebraica del Popular Photography dove ha affrontato per la prima volta i problemi della lingua ebraica priva di molti termini (probabilmente coniati poi da lui stesso), mentre nell’esercito è stato redattore di riviste di kibuz. Ha iniziato gli studi accademici solo a ventiquattro anni iscrivendosi, dopo essere stato deluso dal corso di giornalismo, al Dipartimento degli Studi Letterari diventando assistente, oltre che membro direttivo della rivista HaSifrut del suo dipartimento traducendo molti degli articoli non israeliani. Iscritto anche al Dipartimento di Lingua e Letteratura ebraiche, ha studiato le lingue semitiche antiche con le quali si esercitava nella traduzione (Shlesinger 2000)

Per Toury in quegli anni era ancora impensabile concepire la traduzione come una professione e come oggetto di ricerca, era solo uno strumento. La svolta si è verificata grazie al professor Kadiri, il quale vedendo che l’interesse del suo alunno andava oltre l’aspetto materiale, gli portò una copia di Science of Translating di Nida (Shlesinger 2000). Questo libro era basato sulla Bibbia e fece capire a Toury che la traduzione era una materia a sé stante e che poteva essere studiata in modo metodico. Even-Zohar è stato una guida per Toury, facendo da supervisor per la sua tesi di dottorato riguardante la teoria polisistemica, una rete di sistemi correlati in un rapporto dialettico all’interno del quale egli inserisce anche il sistema della letteratura tradotta. Altre figure importanti sono stati James Holmes e Catford.

Inizialmente Toury si è concentrato sugli scritti a lui contemporanei, solo in un secondo momento ha preso in considerazione anche le teorie precedenti (Shlesinger 2000).

Queste importanti figure della traduttologia avevano però accesso alle varie teorie sparse nel mondo solo tramite un sistema di conoscenze e amicizie, non vi era una scuola di teorici bensì un nucleo di studiosi che si scambiavano informazioni e opere a loro disposizione. Solo nel 1970 fu creato il primo seminario per l’arte della traduzione letteraria, TRANSST, nel quale Toury entrò su invito di Zohar. Nello stesso anno Toury avviò il primo corso sulla teoria della traduzione.

3

Toury è diventato direttore della rivista Target e del TRANSST (International Newsletter for Translation Studies) insieme a Lambert, è stato per quattro anni Direttore della School of Cultural Studies, ha fatto il critico della traduzione e in tutti questi anni si è dedicato allo studio della traduzione pubblicando diversi saggi e teorie nei quali parla di norme descrittive, che descrivono ciò che si riscontra comunemente nelle traduzioni analizzate e che quindi non vogliono essere delle regole da seguire come nel caso delle norme prescrittive (Shlesinger 2000).

Toury è insegnante, scrittore, direttore, traduttore e studioso, in poche parole uno degli uomini che hanno contribuito all’avvio della scienza della traduzione.

1.2 In Search of A Theory of Translation

Il libro di cui ho tradotto il primo capitolo si intitola non a caso In cerca di una teoria della traduzione, è uno dei primi scritti pubblicati da Toury e anche se datato (pubblicato nel 1980), è ancora uno spunto per vari studi. L’intero libro è stato scritto dal 1975 al 1980 ed è composto da saggi scritti in periodi diversi e che quindi ripercorrono lo sviluppo degli studi di Toury. Già nel titolo si nota che l’autore è ancora in cerca di una teoria quindi si presta a dare indicazioni e non teorie assolute (Toury 1980: 7). In ogni capitolo Toury ha lo stesso approccio, si basa su traduzioni vere, non su quelle ipotetiche, e su prodotti reali invece che sul processo di traduzione o sulla traducibilità a priori. Toury si distingue proprio perché punta l’attenzione sul metatesto e concepisce la traduzione come attività e prodotto semiotico. Il libro è diviso in quattro parti:

La prima parla della natura degli studi sulla traduzione ed è composta da scritti metateorici. È il capitolo da me tradotto.

La seconda si concentra sulla natura della traduzione e Toury spiega il concetto di «norme traduttive». A questo proposito prenderò in esame il secondo capitolo di un altro suo importante libro, Descriptive Translation Studies and Beyond.

La terza parte parla degli studi sulla traduzione descrittiva (Toury 1980: 8) mentre nella quarta parte si concentra sulla traduzione ebraica e sulla letteratura per l’infanzia sulle quali mi soffermerò brevemente.

1.2.1 Communication in Translated Texts

Nel saggio che ho tradotto, Toury adotta un approccio semiotico per l’analisi della traduzione. Il saggio, come molti dei suoi scritti, è di natura programmatica al fine di dare nuove idee su cui gli studiosi possano riflettere (Toury 1980: 11). Infatti sottolineo che Toury difficilmente formula dei giudizi o delle prescrizioni; tende semmai a descrivere le traduzioni che analizza.

Toury concepisce la semiotica come uno studio sistematico allo scopo di descrivere i vari processi semiotici, ma per Toury è importante focalizzarsi maggiormente sull’unione dei segni discreti per la creazione di sistemi di segni differenti e focalizzarsi sui processi più complessi e “reali” (Toury 1980: 11) in

4

relazione ai sistemi appena citati e alla comunicazione (facendo una selezione tra entità codificate e la loro combinazione in messaggi).

Toury ha introdotto il concetto di trasferimento, cioè di un processo intersistemico col quale un’entità semiotica che fa parte di un certo sistema, viene trasferita in un altro sistema creando una nuova entità semiotica. Ogni trasferimento implica un’invariante in trasformazione (Toury 1980: 12). L’entità derivante, come ogni altra entità semiotica, fa parte del sistema a cui appartiene, e diversamente dalle entità semiotiche ordinarie, è la rappresentazione di un’altra entità che fa parte di un sistema diverso (in virtù dell’invariante che le accomuna). Ogni trasferimento implica tre serie di relazioni: tra le due entità e il sistema a cui appartengono (si parla di accettabilità), tra le due entità in base all’invariante (si parla di adeguatezza, equivalenza…), tra i codici o i sistemi soggiacenti.

Per fare una divisione tra i tipi di trasferimento bisogna considerare il rapporto tra i codici, bisogna quindi distinguere i processi nei quali c’è una relazione tra i sistemi dai processi nei quali non vi è. Questa relazione ha conseguenze sull’invariante intersistemica e intertestuale pertinente al tipo in questione e anche sulle relazioni tra entità iniziale e derivante. In trasferimenti di questo tipo, l’operazione è svolta correttamente quando l’entità derivante è una realizzazione dell’entità iniziale alla quale si applicano le relazioni predefinite tra il sistema in cui si trova e il sistema ricevente. Queste operazioni sono reversibili (Toury 1980: 13).

I singoli codici autonomi non sono concepiti per effettuare trasferimenti, quindi quando si verifica un trasferimento tra entità codificate al loro interno ci si focalizza sugli altri due tipi di relazioni. In questo caso ogni relazione presupposta tra entità emittente e ricevente è arbitraria e in ogni trasferimento si possono avere entità derivanti diverse che quindi fan sì che queste operazioni siano irreversibili.

La traduzione è una sottocategoria di trasferimento (Toury 1980: 14) e Toury la definisce come: a) trasferimento interlinguistico ma ancora meglio intertestuale poiché di fatto ci sono due messaggi codificati in due lingue diverse e in alcuni altri sistemi di modellizzazione secondaria (come ideologie, stili, mode ecc.), b) indipendente dalle relazioni tra sistemi soggiacenti anche se l’esistenza di alcune relazioni tra le due lingue e i sistemi di modellizzazione secondaria sono un grande fattore di traducibilità, c) mezzo per creare o per mantenere una relazione tra i due testi.

Per Toury è importante riuscire a spostare l’attenzione dalle relazioni interlinguistiche a quelle intertestuali per trovare la specificazione di queste relazioni. Per fare una traduzione, è fondamentale interrogarsi sull’influenza di questa specificazione (Toury 1980: 14).

Toury afferma che bisogna stabilire una relazione tra testo emittente e ricevente, non si può concepire la traduzione come una comunicazione interlinguistica, o per meglio dire, come una «comunicazione di messaggi verbali al di là di un confine culturale-linguistico», altrimenti la ridurremmo a un mero aspetto di trasferimento e non terremmo conto di tutte le altre fasi di produzione del messaggio tradotto. Toury dà molta importanza al sistema ricevente, lo considera infatti il sistema che dà inizio all’intero processo traduttivo (Toury 1980: 16); la

5

traduzione deve fungere da messaggio nel contesto culturale-linguistico ricevente e questo molto probabilmente influisce sulla produzione del testo tradotto e sulla determinazione delle relazioni testo emittente-ricevente e del nucleo invariante (vedi parte 2). È facile ipotizzare che influisca sulla ricomposizione del testo tradotto e sulla scomposizione e sul trasferimento del testo emittente. Molte teorie tradizionali della traduzione sono incentrate sul testo emittente e non si pongono problemi di teleologia, si concentrano sull’origine dei fenomeni traduttivi senza capire la loro finalità (Toury 1980: 16). Una grande lacuna è infatti il non domandarsi come funzionino le traduzioni per soddisfare i bisogni della cultura ricevente e in che modo questi bisogni influenzino e contribuiscano alla produzione del testo tradotto.

È fuorviante per Toury pensare alla traduzione come a un tentativo di ricostruzione del testo originale o cercare di mantenere alcuni elementi invarianti nel testo originale che però fungono da «invariante in trasformazione» in un altro sistema di segni. Le traduzioni basandosi sui messaggi della cultura emittente creano una mappa dei testi della cultura ricevente e della loro posizione nei sistemi di modellizzazione pertinenti al testo ricevente. Per Toury la traduzione è una comunicazione in messaggi tradotti all’interno di un sistema culturale-linguistico; non hanno un’identità materiale costante, e per questo Toury propone di pensare alla traduzione come a una classe di fenomeni le cui relazioni sono quelle di somiglianza familiare dove non ci siano relazioni tra testo emittente e ricevente postulate come condizioni necessarie (Toury 1980: 18). Toury suggerisce invece di usare un insieme di proprietà dove le relazioni vengano valutate in base al loro grado di pertinenza, che non è né a priori né assoluta.

1.2.2 Le norme traduttive

In questa parte mi soffermerò maggiormente sull’importanza dato da Toury al testo ricevente e alle norme traduttive, riscontrati nell’analisi della traduzione.

Come già accennato nella prima parte, la traduzione deve avere un significato culturale, deve essere in grado di svolgere un ruolo sociale, cioè deve adempiere alla funzione datale da una comunità in modo tale che sia appropriata ai suoi termini di riferimento. Ne consegue che per diventare un traduttore all’interno di un ambiente culturale è importante acquisire una serie di norme per stabilire come meglio rapportarsi a una certa comunità. Nella dimensione socio-culturale la traduzione è soggetta a limitazioni di vari tipi e gradi, che in termini della loro potenza sono descritte come una scala ancorata a due estremità: da una parte si trovano le leggi generali, dall’altra parte ci sono le peculiarità (Toury 1995: 54). Tra questi due poli vi sono le norme. Possiamo dire che le leggi sono norme più oggettive mentre le peculiarità sono più soggettive. Vi sono norme che si accostano di più alle leggi e quindi risultano essere più forti contrariamente alle norme che si avvicinano alle peculiarità. Il confine tra i vari tipi di limitazione è perciò vago e anche i concetti risultano relativi. Toury parla anche di un asse temporale dove ogni tipo di limitazione potrebbe, e molte volte è questo il caso, spostarsi verso un’estremità o l’altra e quindi per esempio una norma può acquisire tanta validità da diventare una

6

regola vincolante. I cambiamenti in termini di validità e di forza molto spesso dipendono dai cambiamenti di status di una società (Toury 1995: 54). Le norme sono sempre state viste come la traduzione dei valori delle idee di una comunità stabilendo così cosa è giusto e cosa è sbagliato in una certa dimensione comportamentale. Le norme sono acquisite durante la crescita dell’individuo all’interno di una società e queste implicano sempre una sanzione – reale o potenziale, negativa o positiva che sia – e servono per valutare i vari tipi di comportamento. Di conseguenza in determinate situazioni ci sarà una regolarità di comportamento e queste regolarità permetteranno un più facile studio delle norme (Toury 1995: 55).

Le norme assicurano la creazione e il mantenimento di un ordine sociale. Può esserci un comportamento che non si uniformi alle norme ma «non rispettare una norma in un determinato caso non invalida la norma» (Hermans 1991: 162). È importante ricordare che non è necessario che ci sia identità tra le norme stesse e la loro formulazione in lingua, quest’ultime rispecchiano la consapevolezza dell’esistenza delle norme e del loro significato ma implicano anche altri interessi, ad esempio il desiderio di controllare il comportamento.

La traduzione coinvolge due lingue e due tradizioni culturali cioè due sistemi normativi diversi. La traduzione quindi implica un testo in una lingua che occupa una posizione nella cultura appropriata, e la rappresentazione in una lingua e cultura di un testo preesistente in un’altra lingua e cultura.

Questi testi derivano da due culture differenti che saranno sempre e comunque diverse e perciò incompatibili. Il comportamento traduttivo in una cultura tende a manifestare certe regolarità e la persona che vive in quella determinata cultura può spesso riconoscere quando un traduttore si è discostato dalle norme (Toury 1995: 56).

È importante considerare la scelta che può essere fatta tra i requisiti delle due culture come la norma iniziale, iniziale poiché superiore alle norme particolari che appartengono a livelli più bassi e specifici. Questa nozione è a base logica e serve come mezzo esplicativo. Si prendono in esame le regolarità ma è assurdo pensare di trovare regolarità ovunque. Le decisioni per la traduzione implicano necessariamente delle combinazioni o dei compromessi tra i due estremi implicati dalla norma iniziale. Come spiega Toury, un traduttore potrebbe scegliere di sottostare o al testo originale o alle norme attive nella cultura ricevente. Nel primo caso ci saranno probabilmente varie incompatibilità con le norme della cultura ricevente, oltre a quelle linguistiche, nel secondo caso sarà inevitabilmente uno spostamento dal testo emittente. Perciò si parla di adeguatezza quando vi è aderenza alle norme della cultura emittente, si parla invece di accettabilità quando si sottostà alle norme della cultura ricevente (Toury 1995: 56). Anche la traduzione che mira alla maggiore adeguatezza possibile metterà in atto dei cambiamenti dal testo emittente (la realizzazione dei cosiddetti cambiamenti obbligatori sono governati dalle norme).

Le norme possono operare a ogni stadio traduttivo, perciò Toury ha trovato opportuno dividere le norme in due gruppi: 1) le norme preliminari che hanno a che fare con la politica della traduzione (cioè i fattori che decidono quale testo deve essere immesso in un’altra cultura attraverso la traduzione in un determinato periodo storico) e la chiarezza della traduzione (che implica la soglia di tolleranza per tradurre

7

da lingue diverse da quella del testo ricevente); 2) le norme operative che dirigono le decisioni prese durante l’atto traduttivo stesso. Influiscono sulla matrice del testo e sulla formulazione verbale, decidono cosa resterà invariato durante la trasformazione e cosa invece cambierà.

Vi sono poi le norme della matrice che si occupano dell’esistenza del materiale della lingua ricevente inteso come sostituto del materiale linguistico del testo emittente, perciò del grado di completezza della traduzione, della sua distribuzione e della segmentazione del testo. Il limite tra i diversi fenomeni riguardanti la matrice non sono ben definiti, per esempio varie omissioni possono essere viste come un cambiamento di segmentazione e così via (Toury 1995: 59).

Le norme testuali-linguistiche controllano la selezione del materiale con il quale formulare il metatesto o col quale sostituire il materiale linguistico e testuale originale. Possono essere generali e applicarsi a ogni traduzione, o particolari e quindi appartenere a un particolare tipo di testo e a una sola modalità traduttiva. Le norme preliminari hanno precedenza sia logica che cronologica rispetto a quelle operazionali (Toury 1995: 59). Ciò non significa che non ci sia un’influenza reciproca fra i due gruppi per lo meno per quanto riguarda la norma iniziale. Le norme operative servono da modello e, dando delle indicazioni, possono agire da fattore restrittivo cioè possono proporre delle opzioni e escluderne delle altre.

Quindi, quando si sceglie la prima opzione, la traduzione difficilmente sarà stata fatta completamente nel linguaggio della cultura ricevente, utilizzerà invece un linguaggio modello, cioè una varietà inesistente e artificiale. Dunque la traduzione non è introdotta nella cultura ricevente ma piuttosto è imposta. Quando si sceglie la seconda opzione si introduce una versione del testo adatta a inserirsi senza troppi traumi nella cultura ricevente. Bisogna però ricordarsi che comunque sono le norme a determinare il tipo e l’estensione dell’equivalenza manifestata dalle traduzioni (Toury 1995: 60).

Altri fattori da considerare sono senza dubbio la specificità socio-culturale delle norme e la loro instabilità. Una norma non si applica allo stesso modo in tutti i settori della società, tantomeno tra le diverse culture. La somiglianza tra norme è pura coincidenza dovuta ai continui contatti tra sottosistemi all’interno di una cultura, o diverse culture, perciò una manifestazione di interferenza. Il significato dato a una norma è dato dal sistema nel quale si trova, e i sistemi rimangono diversi anche se esternamente il comportamento sembra lo stesso.

Le norme sono entità in evoluzione, quindi instabili (Toury 1995: 62). Molti traduttori non rimangono passivi di fronte a tutto questo e tramite il loro lavoro aiutano a dare forma al processo; che lo vogliano o meno tutti loro interferiscono nel naturale corso degli eventi e lo indirizzano secondo lo loro preferenze. Comunque, adattarsi ai cambiamenti delle norme modificando il proprio comportamento non è così facile e si riesce solo fino a un certo punto. Non è raro trovare in una società tre tipi di norme: quelle che influiscono sul comportamento della cosiddetta «corrente principale»; i resti delle precedenti norme e i rudimenti delle nuove norme (Toury 1995: 62). È per questo che si può parlare, nella traduzione così come in ogni altro campo, di essere “trendy”, “fuori moda” o “avanti”. Questo porta al concetto di «asse

8

storico», per esempio una norma è definita datata se questa era attiva in un periodo precedente e non era classificata come datata. La contestualizzazione storica è necessaria non solo per uno studio diacronico ma anche sincronico. Se non si adatta ai cambiamenti, la carriera di un traduttore può risultare breve. È importante tenere presente la complessità della vita reale e contestualizzare ogni fenomeno, testo o tematica per dare alle norme il loro giusto valore. È impensabile trattare tutti i temi nello stesso modo, come se occupassero la stessa posizione sistemica, avessero lo stesso significato e occupassero lo stesso livello di rappresentatività della cultura ricevente e delle sue limitazioni (Toury 1995: 63). Ma sfortunatamente questo approccio è stato a lungo diffuso fino al punto di affermare che non si potesse riscontrare nessuna norma e oscurare così il quadro normativo. Anche nelle traduzioni si può riscontrare un comportamento non normativo, talvolta dei comportamenti devianti hanno portato a cambiamenti all’interno del sistema, ed è a questo punto che ci si domanda chi ha il permesso di apportare dei cambiamenti e in quali circostanze lo può fare.

Siccome si possono osservare i comportamenti governati dalle norme e i loro prodotti ma non le norme in sé, Toury le considera un tentativo di ricostruire il comportamento traduttivo. Ci sono due grandi fonti per la ricostruzione delle norme traduttive: 1) quelle testuali, cioè i testi tradotti, per tutti i tipi di norme e gli inventari analitici delle traduzioni e per le varie norme preliminari, 2) quelle extratestuali, cioè formulazioni semiteoriche o critiche, come le teorie prescrittive della traduzione, affermazioni di traduttori, redattori, editori…

C’è una differenza fondamentale tra questi due tipi di fonte. I testi sono i prodotti primari di un comportamento regolamentato, mentre le affermazioni normative sono semplicemente sottoprodotti dell’esistenza e dell’attività delle norme, sono parziali e devono essere trattati con cautela. Tutto questo non deve però indurre ad abbandonare le formulazioni critiche o semiteoriche come fonte per lo studio delle norme; esse devono essere considerate come presistemiche e bisognerebbe cercare di chiarire lo status di ogni affermazione per capire per quale scopo è stata prodotta. In seguito bisognerebbe confrontarle con i diversi enunciati normativi tenendo conto della loro contestualizzazione (Toury 1995: 66). È molto utile fare una ricerca sul comportamento traduttivo concentrandosi su norme isolate facenti parte di dimensioni comportamentali ben definite ma la traduzione è multidimensionale, i fenomeni sono interconnessi e non è facile isolarli. Bisognerebbe procedere attraverso una fase “sintagmatica” (non paradigmatica) che preveda l’integrazione delle norme appartenenti a diversi campi, e in seguito stabilire le relazioni che esistono tra queste norme. Più questa rete è fitta più si può parlare di «struttura normativa» o di «modello» (Toury 1995: 67).

Bisogna ricordarsi che un traduttore non è un automa, le sue decisioni possono cambiare a seconda dei casi.

Questa in breve è la concezione di «norme» in Toury, viste come condizionamenti sociali che portano il traduttore a “normalizzare” il testo emittente, cioè ad adattarlo alla cultura ricevente. Per questo le traduzioni dello stesso testo

9

realizzate in diversi periodi storici e da diversi traduttori sono il prodotto non solo della personalità del traduttore ma soprattutto delle norme che cambiano nel tempo.

1.2.3 I translation studies

In questo ambito Toury fa riferimento agli studi di Holmes che suddivide gli studi sulla traduzione in due gruppi principali. Gli studi descrittivi fanno parte degli studi traduttologici “puri” e si distinguono dagli studi teorici. Hanno l’obiettivo di descrivere il prodotto dell’attività traduttiva e la sua funzione in un certo contesto socio-culturale, focalizzandosi anche sul processo cognitivo che avviene all’interno del cervello umano durante la realizzazione del testo tradotto. Questi aspetti della traduzione vengono studiati empiricamente, vale a dire come fenomeni che si manifestano nel mondo della nostra esperienza. Gli studi teorici elaborano dei princìpi generali e dei modelli teorici che cercano di spiegare l’esistenza di questi fenomeni e prevedere la loro fisionomia nel futuro con l’aiuto dei risultati della ricerca descrittiva con i dati forniti dalle discipline attinenti (come ad esempio le scienze sociali e le scienze cognitive).

Oltre agli studi “puri” vi sono anche quelli “applicati” che Toury ha rinominato «estensioni applicate» poiché si estendono al di là della disciplina stessa. I loro ambiti di ricerca sono: «formazione dei traduttori», «strumenti per la traduzione», «politica nel campo della traduzione» e «critica della traduzione» [«translation training», «translation aids», «translation policy» e «translation criticism»].

1.2.3.1 Traduzione naturale versus traduttori nativi

Una parentesi che tenevo ad aprire tratta di un’altra puntualizzazione di Toury riguardante il concetto di «traduzione naturale» – traduzione sia scritta che orale – di Brian Harris e Sherwood intesa come: «la traduzione fatta da persone non specializzate nelle circostanze di tutti i giorni» (Harris and Sherwood 1978: 155). Con questa espressione s’intende l’attività traduttiva delle persone bilingui, in particolar modo dei bambini che, secondo i due studiosi, sono in grado di tradurre in qualsiasi lingua e cultura dal momento in cui diventano bilingui. Harris afferma che «la traduzione coincide con il bilinguismo» (Harris and Sherwood 1978: 155) e per questo sostiene che l’abilità traduttiva aumenta seguendo delle fasi ben precise. Toury critica queste idee nel suo saggio Descriptive Studies and Beyond dichiarando che è l’attitudine per la traduzione a coincidere con il bilinguismo, tutto ciò che comporta la capacità traduttiva dipende dall’interlinguismo, cioè dall’abilità di stabilire una relazione tra le differenze e le somiglianze tra lingue diverse. Toury critica anche le fasi introdotte da Harris in quanto basate fondamentalmente sul criterio dell’età, non partono dal momento in cui il bambino diventa bilingue ma dalla sua nascita, trasformando così l’età in un fattore biologico anziché linguistico. Gli esempi portati da Harris mostrano che le traduzioni dei bilingue diventano sempre più

10

funzionali e razionali a livello sociale, lasciando però così sottintendere che, crescendo, l’atto traduttivo perde la sua naturalezza. Questo ovviamente è in contraddizione con il principio primo di Harris (Toury 1995).

Inoltre Harris non si concentra minimamente sul carattere e le caratteristiche proprie dell’individuo e sulle circostanze nelle quali può avere tradotto. Secondo Toury, le traduzioni differiscono da individuo a individuo poiché la capacità di trasportare idee da una lingua all’altra cambia a seconda della persona.

Per Toury quindi i fattori da considerare sono altri e fare coincidere la traduzione con il bilinguismo è una sorta di semplificazione. Secondo lo studioso, l’espressione «traduzione naturale» è sinonimo di «bilinguismo». È per questo che propone di utilizzare il concetto di «traduttori nativi» (Kaya 2007). I traduttori nativi producono enunciati spontanei non appena fanno proprie le norme di una data cultura, ed è durante il loro periodo di socializzazione che riescono a sviluppare delle strategie per affrontare eventuali problemi nel campo della traduzione (come si può notare Toury parte da un punto di vista socio-culturale). Toury parla anche di «generalizzazione» e di «specializzazione». Col primo termine intende il metodo del traduttore nativo che utilizza sempre un solo tipo di procedura sia per le sanzioni positive che negative, mentre il secondo termine è in antitesi col concetto di «adattabilità», cioè la facoltà di una persona di tradurre in modo flessibile a seconda delle diverse norme e situazioni a cui deve far fronte (Toury 1995).

Sono stati fatti diversi studi per sapere se si può o meno affermare che un bilingue è un traduttore ma non si ha ancora una risposta definitiva anche perché molto dipende da cosa si intende per «traduzione» che di per sé è un concetto soggettivo e quindi relativo.

1.2.4 Storia della traduzione ebraica

Quest’ultima parte si concentra sulle norme che caratterizzano la traduzione verso l’ebraico — per questo argomento mi sono rifatta al testo Hebrew [Traslation] Tradition (1998) — e alla letteratura infantile alla quale farò un breve accenno.

La traduzione verso l’ebraico, così come l’utilizzo della lingua ebraica, ha una storia lunga e discontinua marcata da numerosi passaggi già a partire da molti secoli prima di Cristo (Toury 1998: 439).

L’ebraico ha sempre avuto e mantenuto una posizione privilegiata nel contesto sacro-religioso acquisendo lo status di Lingua Sacra, perciò non stupisce se uno dei primi testi su cui si è lavorato con la traduzione è la Bibbia. Nella Bibbia ebraica si nota l’interferenza di altre tradizioni linguistiche e testuali, infatti molti passi dell’antico testamento potrebbero essere stati tradotti da altre fonti (Toury 1998: 439). I testi che abbiamo a disposizione oggi sono per lo più versi biblici tradotti nel tipo di ebraico usato in un determinato periodo storico. In seguito questi versi sono stati tradotti verso l’aramaico e il greco per consentire ai meno istruiti di riuscire a seguire le funzioni religiose.

11

Durante il medioevo la traduzione verso l’ebraico ha riacquisito una certa importanza. Molte famiglie ebraiche cominciarono a migrare dalle regioni arabe verso quelle cristiane e, poiché i loro figli non erano in grado di leggere in arabo, si diffuse l’ebraico come lingua principale, diventando poi l’unico mezzo di comunicazione tra gli ebrei che vivevano lontani. Ci sono casi in cui i trattati erano tradotti su commissione. L’interesse maggiore era diretto verso i testi scientifici; nel mondo accademico i primi testi tradotti erano trattati di etica e di legge ebraica scritti da ebrei in arabo. In seguito l’interesse si è spostato verso tematiche e libri non ebraici. In questo caso l’arabo fungeva da lingua di mediazione. Ma la traduzione di opere letterarie è sempre stata considerata di minore importanza. Lo stesso fenomeno si è verificato in tempi moderni dove, sempre in ambito scolastico, i primi testi a essere stati presi in considerazione sono stati quelli scientifici (Toury 1998: 440). Vi sono poi eccezioni alla regola dove però la traduzione è stata usata come mezzo di sperimentazione ed esercizio preparatorio. Nelle traduzioni medievali era solito trovare delle lunghe introduzioni dove il traduttore si scusava con il lettore perché o non aveva familiarità con l’argomento di cui trattava il testo, per quanto riguarda i testi scientifici, o per paura di trattare un tema superficiale, per quanto riguarda i testi letterari. Altre volte le scuse erano dovute alle scelte linguistiche, ma le scuse iniziali erano oramai diventate una convenzione. È interessante constatare che nell’introduzione si parlava anche della traduzione e di come tradurre ma anche i traduttori stessi si accorgevano che v’erano discrepanze tra i princìpi esposti e la traduzione fatta (Toury 1998: 441). Questo problema sorge soprattutto dal fatto che la lingua ebraica è stata usata in pochi àmbiti impedendo così un suo arricchimento linguistico.

Il problema si aggravava quando il traduttore nel tradurre dall’arabo si faceva fuorviare dalla somiglianza tra le due lingue. I traduttori medievali avevano due approcci diversi a seconda se il testo era scientifico o letterario (Toury 1998: 441). Nel primo caso stavano più vicino possibile alla struttura del testo originale, e per ridurre il divario lessicale proponevano termini nuovi o utilizzavano calchi. Nel secondo caso si accostavano ai modelli domestici soprattutto alla poesia medievale ebraica basata su un linguaggio quasi biblico. Diversamente dalla traduzione letteraria, la strategia usata per la traduzione scientifica ha avuto un grande successo: le strutture e i vocaboli sono stati gradualmente assimilati nella lingua ebraica creando così il cosiddetto “ebraico tibbonide” prendendo nome dalla più importante famiglia di traduttori del periodo.

Durante il Rinascimento, soprattutto in Italia, si è continuato a tradurre verso l’ebraico ma questo tipo di traduzione non è riuscita a delinearsi al meglio soprattutto per l’ostilità verso il popolo ebraico.

Durante la metà del Settecento una parte del popolo ebraico si spostò verso la Germania. Questo periodo coincide con la nascita della Haskala, il movimento illuminista ebraico, con lo scopo di avvicinare la cultura ebraica a quella europea (Toury 1998: 442). Ma questo era possibile solo investendo maggiormente sulla traduzione vista come mezzo di sperimentazione e per produrre velocemente molti testi. Come è stato detto precedentemente, l’ebraico non riusciva a esprimere tutto ciò

12

che era stato formulato dalle altre culture, per questo i traduttori cominciarono a indagare la versatilità della lingua soprattutto in àmbito letterario. Preservare l’ebraico puro era però diventato un requisito fondamentale ai fini di non far soccombere la cultura ebraica sotto tutti i testi importati. Così la Bibbia, in particolare il Vecchio Testamento, fu l’unico testo preso in considerazione, vista come pozzo da cui attingere espressioni fisse e da colmare con nuovo materiale linguistico. Come punto di riferimento, i traduttori scelsero il tedesco antico selezionando temi e modelli che avevano già funto da canoni. Molte volte si creavano lunghe file di parole formate da una concatenazione di frasi prese dai contesti originali così da restringere le scelte dei traduttori e da ottenere testi sempre più uniformati. Nella maggior parte dei casi i testi non erano definiti traduzioni ma prodotti dei loro traduttori. All’inizio le traduzioni interessavano testi brevi o loro frammenti perché erano più semplici da tradurre ed erano adatti ai giornali (sui quali si pubblicava maggiormente). Passò molto tempo prima che si cominciasse a tradurre testi drammatici e romanzi (Toury 1998: 443).

Alcuni testi tradotti dal tedesco erano stati a loro volta tradotti da altre lingue (soprattutto inglese e francese), perciò in questo modo la cultura ebraica veniva indirettamente a contatto con altre culture e il tedesco diventò la lingua di mediazione. La maggior parte dei testi tradotti non erano ben accetti poiché troppo connotati sul piano storico. Inoltre la cultura ebraica non puntava di certo l’attenzione sull’adeguatezza del testo di mediazione visto che il suo obiettivo era di staccarsi dalle caratteristiche del prototesto per preservare la natura della lingua ebraica. Si può dunque affermare che questo periodo traduttivo non ha contribuito a un’ evoluzione della cultura ebraica ma all’aumento dei testi tradotti, soprattutto nel ramo della letteratura per l’infanzia.

Nell’Ottocento il centro culturale ebraico si spostò verso le regioni slave facendo entrare in contatto gli scrittori ebrei con nuove culture e creando nuove differenze a livello traduttivo (non solo per quanto riguarda il tipo di testo, la tematica e la sua composizione ma anche il linguaggio). Il modello tedesco e la lingua ebraica del momento non erano più adatti e perciò hanno lasciato il posto al sistema russo che è diventato anche la fonte principale dei testi da tradurre (Toury 1998: 444). La purezza dell’ebraico non si basava più unicamente sulla Bibbia ma anche su un modello russo rimasto saldo per generazioni e che era diventato parte dell’ebraico contribuendo ad arricchire e diversificare il repertorio della lingua ebraica. In questo periodo, conosciuto come «periodo della Rinascita», l’ebraico tornò a essere una lingua parlata (Toury 1998: 445), si cominciò a considerare l’importanza del prototesto e non si spacciarono più le traduzioni come testi originali. Tutto questo acquisì maggior peso quando l’ebraico e lo yiddish entrarono più a stretto contatto, erano viste come due componenti della stessa cultura e per aumentare il prestigio di entrambe le lingue molti testi sono stati tradotti in ebraico.

Con la nascita del sionismo verso la fine dell’Ottocento molti ebrei migrarono verso la Palestina ma la maggior parte dei traduttori, vissuti in Russia, continuarono a lavorare seguendo il metodo russo. La situazione cominciò a cambiare agli inizi del Novecento. Alcuni ebrei dell’Europa orientale migrarono verso gli Stati Uniti, dove

13

in seguito si è formato un secondo centro culturale ebraico. Tra loro emersero scrittori e traduttori che avevano familiarità con la lingua e la letteratura inglese. Molti di loro si trasferirono poi in Palestina dove si integrarono senza difficoltà poiché, in seguito al mandato britannico sulla Palestina, l’inglese era una lingua in uso (Toury 1998: 445). L’inglese e il modello anglo-americano divennero così i nuovi punti di riferimento per la traduzione.

A causa della Shoah la cultura ebraica si chiuse maggiormente su di sé e sviluppò diverse varietà linguistiche che solo recentemente sono utilizzate nella traduzioni (Toury 1998: 446).

1.2.4.1 La letteratura per l’infanzia

Per quanto riguarda le letteratura infantile si nota che nella cultura ebraica non vi sono molti testi per bambini. Toury è stato uno dei pochi ad accostarsi al mondo della letteratura infantile notando che molto spesso le traduzioni di questi testi si avvicinano al polo dell’accettabilità semplicemente perché si presuppone che il lettore modello abbia più difficoltà ad accettare un elemento estraneo alla propria cultura. Da sottolineare anche il fatto che questo tipo di letteratura è considerato di un livello inferiore perciò i traduttori tendono a non mettere tutto in discussione.

14

1.3 Riferimenti bibliografici

Burce, Kaya, 2007. The Role of Bilingualism in Translation Activity. (Translation Journal). Disponibile nel sito: www.accurapid.com/journal/39bilingual.htm

Consorzio ICoN – Italian Culture on the Net, 2000-2009. La disciplina dei Translation Studies. Disponibile nel sito: www.masterintraduzionespecialistica.it/modulo.asp?M=T00014&S=4&P=2

Harris, Brian e Sherwood, Bianca, 1978. «Translation as an Innate Skill» in Gerver, D. & Sinaiko, H. (A cura di) Language, Interpretation and Communication. (New York e Londra: Plenum Press), 1978: 155-170.

Hermans, Theo, 1991. «Translational Norms and Correct Translations». Kitty M. van Leuven-Zwart e Ton Naaijkens, (a cura di) Translation Studies: The State of the Art. Proceedings of the First James S Holmes Symposium on Translation Studies. (Amsterdam e Atlanta, GA: Rodopi), 1991: 155-169.

Shlesinger, Miriam, 2000. My Way to Translation Studies. (Academia Publishers: Publisher website). Disponibile nel sito: www.tauc.ac.il/~toury/interview.html Toury, Gideon, 1980. In Search of a Theory of Translation. (Tel Aviv: Tel Aviv

University).
Toury, Gideon, 1995. Descriptive Translation Studies and Beyond. (Amsterdam e

Philadelphia: John Benjamins), 1995: 53-69. Disponibile nel sito:

www.tauc.ac.il/~toury/works/gt-norms.htm

Toury, in

a

www.tau.ac.il/~toury/works/routledge.html

Tradition» Studies, Malmkjaer. (Londra e New York: Routledge), 1998: 439-448. Disponibile nel sito:

Gideon,

1998. «Hebrew

[Translation]

Routledge

Encyclopedia

of

Translation

cura di Mona Baker

e

Kirsten

15

2.1 Traduzione con testo a fronte

16

Communication in Translated Texts. A semiotic approach∗ In Search of A Theory of Translation

Porter Institute, Tel Aviv University, 1980: 11-18

I
One of the main tasks of semiotics is no doubt a systematic study aiming at an exhaustive account of semiotic processes, that is, the various possible manipulations of individual signs, their components, their combinations, etc. Thus, the efforts of the practitioners of this quickly and vastly developing discipline should no longer be confined to the most obvious and most elementary (though by no means simple) process of semiosis in discrete signs, i.e., to the establishment of “variable relationship between signans and signatum” (Jakobson, 1971: 701) to form various types of signs, Rather, they should first and foremost be concerned with the joining of the discrete signs to form different sign-system and with the more complex and “real” processes and procedures connected with these systems and their modes of operation on one hand, and with communication on the other, that is, with the selection of codified entities (which are units of various hierarchical levels which have already gained an established status as signs within a certain system) and their combination into messages (“texts”) according to certain sets of principles, or rules.

In this paper I wish to devote some thought to the basic principles of a further type of semiotic process, which is connected not with the mere existence of semiotic systems, but – more precisely – with the co-existence of various types of semiotic systems, and with various instances of performance within these types (section II). I then wish to sort out one of the sub-types of this process, that which is connected with the [co-]existence of different natural languages (along with the secondary modeling systems which may be imposed on them [cf., e.g., Lotman, 1972: 40]), and to approach it on the basis of the general principles outlined in the course of presentation of the entire process and to discuss some of its characteristics within a tentative semiotic framework (Section III-V). The paper as a whole is intended as a programmatic position-paper rather than as a well-rounded presentation of the type of process in question (which is, after all, far from possible at this stage), and I see its main aim as stirring and provoking discussion rather than as summing anything up.

∗ A somewhat different version of this paper was presented at the second Congress of the International Association for Semiotic Studies (IASS), Vienna, 2 – 6 July, 1979. This paper will appear in Wilss, 1980.

17

La comunicazione nei testi tradotti. Un approccio semiotico∗ In Search of A Theory of Translation

Porter Institute, Tel Aviv University, 1980: 11-18

I
Uno dei principali compiti della semiotica è senza dubbio uno studio sistematico che abbia l’obiettivo di descrivere in modo esaustivo i processi semiotici, cioè le diverse possibili manipolazioni di singoli segni, delle loro componenti, delle loro combinazioni… Pertanto gli sforzi degli studiosi di questa disciplina di vasto e veloce sviluppo non dovrebbero più limitarsi, per quanto riguarda i singoli segni, al processo della semiosi più ovvio ed elementare (sebbene questo non significhi più semplice), come ad esempio lo stabilire una «relazione variabile tra signans e signatum» ai fini di creare vari tipi di segni. Piuttosto, come prima cosa, dovrebbero riguardare l’unione dei segni distinti allo scopo di creare sistemi di segni differenti e dovrebbero interessare le procedure e i processi più complessi e «reali» in relazione, da un lato, a questi sistemi e alle loro modalità di funzionamento, dall’altro lato, alla comunicazione, cioè facendo una selezione di entità codificate – unità appartenenti a livelli gerarchici diversi che hanno appena ottenuto lo status consolidato di segno facente parte di un certo sistema – e della loro combinazione in messaggi (testi) che corrispondono a un certo insieme di princìpi o regole.

In questo saggio desidero riflettere sui princìpi che stanno alla base di un ulteriore tipo di processo semiotico, che non è legato alla mera esistenza di sistemi semiotici, ma più precisamente, alla coesistenza di numerosi tipi di sistemi semiotici e ai diversi risultati che si ottengono all’interno di quest’ultimi. Desidero inoltre scegliere uno dei sottotipi di questo processo, che sia legato alla [co]esistenza di diverse lingue naturali (insieme ai sistemi di modellizzazione secondaria a cui possono essere soggette), trattarlo sulla base dei principi generali evidenziati nel corso della presentazione dell’intero processo ed esaminare alcune delle sue caratteristiche all’interno di un modello semiotico sperimentale. Il saggio nel suo insieme vuole essere un saggio di posizione programmatica piuttosto di una presentazione a tutto tondo del tipo di processo preso in esame (che è, dopo tutto, quasi impossibile a questo livello) e trovo che il suo obiettivo principale sia quello di stimolare e suscitare dibattiti anziché fare un semplice resoconto.

∗ Una versione un po’ diversa di questo saggio è stata presentata al secondo Congress of the International Association for Semiotic Studies (IASS), Vienna, 2 – 6 Luglio, 1979. Il saggio apparirà in Wilss, 1980.

18

II
The type of process which I have in mind involves transfer operations performed on one semiotic entity, belonging to a certain system, to generate another semiotic entity, belonging to a different system.1 In other words, this category of processes is inter- (or, rather, cross-) systemic.

Obviously, the resultant entity of any transfer operation differs from the initial entity of the same process, if only by virtue of their being members of different systems, i.e., of their being coded in different (primary and/or secondary) codes. However, for transfer to take place, the two entities should also have something in common, which is really that which is being transferred over the systemic (semiotic) border. In other words, every transfer operation involves an “invariant in transformation” (cf., e.g., Brandt, 1969).

It follows that the resultant entity, the existence of which (actual, or at least potential) is, from a semiotic point of view, the differentia specifica of this type of process, is of a twofold nature:

(a) like any other semiotic entity, it is part of the system to which it belongs (namely, the “target,” or “recipient” system);

(b) unlike “ordinary” (that is, primary, underived) semiotic entities, it is also a representation of another entity, belonging to another system, in a certain way and/or to a certain extent, by virtue of the invariant common to it and to the initial entity.

Since every instance of transfer has to do with two semiotic entities and the two respective systems underlying them, it is clear that every transfer operation involves three basic sets of relationships:

(i) between each one of the two entities and the system within which it is situated (that is, its position within this system, or the nature and extent of its acceptability according to the system’s own norms);

(ii) between the two entities themselves, determined and measured on the basis of the invariant pertinent to the type of transfer in question and usually entitled adequacy, equivalence, correspondence, or the like;

(iii) between the respective systems, or underlying “codes.”

Owing to the logical priority of the code to the message, if not for any other reason (and there are such reason which deserve our attention), it is the relationship between the codes which should be regarded as the first distinctive criterion when one moves on to distinguish between various types of transfer. Thus, the first division to be made is between processes where a certain relationship (whatsoever) between the underlying systems is postulated as a condition and processes where no such relationship serves as a precondition.

Moreover, it appears that the interdependence between the three sets of relation between the systems is postulated; this relationship has immediate bearings on the inter-systemic and inter-textual invariant pertinent to the type in question, hence also

1 Not only discrete, elementary signs on one hand and messages on the other can have semiotic value, but also, e.g., the rules and norms according to which signs are combined into higher-order signs or into messages, the institutionalized models, etc. This implies that they can also be subject to transfer operations, hence my use of the more general label “semiotic entity.”

19

II
Il tipo di processo che ho in mente implica delle operazioni di trasferimento eseguite su un’entità semiotica appartenente a un certo sistema, al fine di creare un’altra entità semiotica appartenente a un sistema differente2. In altre parole, questo tipo di processo è inter- (o piuttosto cross-) sistemico.

Ovviamente l’entità derivante da ogni operazione di trasferimento differisce dall’entità iniziale del medesimo processo, anche se solo in virtù dell’essere membro di un sistema diverso, per esempio dell’essere codificata diversamente (in codici primari e/o secondari). Comunque per fai sì che si verifichi un trasferimento, le due entità devono inoltre avere qualcosa in comune , cioè l’essere trasferite al di là del confine sistemico (semiotico). Detto altrimenti, ogni trasferimento implica un’ «invariante in trasformazione» (citazione, Brandt, 1969).

Ne consegue che l’entità derivante, la cui esistenza (reale o quanto meno potenziale) è da un punto di vista semiotico la differentia specifica di questo tipo di processo, è di duplice natura:

(a) come ogni altra entità semiotica, è parte del sistema al quale appartiene (cioè il sistema «oggetto» o «ricevente»);

(b) diversamente dalle entità semiotiche «ordinarie» (cioè primarie e non derivate), è anche una rappresentazione di un’altra entità appartenente a un sistema differente, in un qual modo e/o in una certa misura, in virtù dell’invariante che è comune a questa entità e all’entità iniziale.

Poiché ogni caso di trasferimento ha a che fare con due entità semiotiche e con i due rispettivi sistemi su cui poggiano, è chiaro che ogni operazione di trasferimento implica tre serie fondamentali di relazioni:

(i) tra ciascuna delle due entità e il sistema nel quale si trova (vale a dire, la sua posizione all’interno di un certo sistema o la natura e la misura della sua accettabilità tenendo presente le norme insite al sistema);

(ii) tra le due entità stesse, determinata e misurata in base all’invariante relativo al tipo di trasferimento in questione e solitamente denominata adeguatezza, equivalenza, corrispondenza o simili;

(iii) tra i rispettivi sistemi o i «codici» che vi stanno alla base.

A causa della priorità logica del codice rispetto al messaggio, se non per qualsiasi altra ragione (e ce ne sono molte che meritano la nostra attenzione) , quando si cerca di fare una distinzione tra diversi tipi di trasferimento bisogna considerare come primo criterio distintivo il rapporto che intercorre tra i codici. Bisogna quindi effettuare una prima divisione tra processi nei quali si presuppone come condizione una certa relazione (qualsiasi) tra i sistemi soggiacenti, e i processi nei quali nessuna relazione del genere è una precondizione.

Sembra inoltre che l’interdipendenza tra le tre serie di relazioni coinvolte nel trasferimento si riscontri nei tipi di trasferimento dove è postulata una certa relazione

2 Non sono solo i segni discreti ed elementari da un lato, e i messaggi dall’altro, ad avere valore semiotico, ma anche le regole e le norme secondo le quali i segni sono combinati in segni di più alto ordine o messaggi, modelli istituzionalizzati e così via… Questo implica che inoltre possono essere soggetti a operazioni di trasferimento, da qui il mio uso dell’etichetta più generale di «entità semiotica».

20

on the relationships between the resultant and initial entities. Actually, what any prior definition of the relations between codes brings forth is the possibility of highly “economical” transfers between entities encoded in them, that is, of transferring an a priori defined, and well-defined, invariant core in a maximal way (i.e., a high rate of correspondence between the two entities), while achieving at the same time a maximal fit of the resultant entity to the recipient system, that is, a high rate of acceptability. This twofold goal, which obviously corresponds to the twofold nature of the resultant entity (cf. supra), can be achieved in such an optimal manner precisely because any a priori relationship between codes never applies to them as overall, multileveled systems, but to a certain level (or levels) only. It is self-evident that these levels serve as the variables of this pre-defined type of transfer, whereas the other levels remain unaltered and therefore gain the status of invariants.

It follows that, in any type of transfer where a certain relationship between the underlying codes is a necessary condition, there tends to be one way of carrying the operation in a “correct” way, the “correctness” being a function of the invariant, which, in turn, is derived from the pre-defined relationships between the codes pertinent to the type of process in question. In other words, in transfers of this kind, any actual resultant entity tends to be a mere realization of a potential established on the basis of the initial entity by applying to it the pre-defined relationships between the system in which it is situated and the system in which the resultant entity is going to be situated. No wonder, then, that such operations also tend to be reversible.

On the other hand, distinct, autonomous codes, especially if of the same ontological status, are devised so as to fulfill their own internal functions, with no eye to transfer, either from or to them. Therefore, whenever transfer between entities encoded in them does take place, the emphasis quite obviously shifts to the other two sets of relationships common to transfer operations, (i) and (ii).

As regards the invariant in transfer processes of this kind, it is important to note, if only in passing, that any attempt at positing a certain relationship between target and source entities is in an important sense arbitrary. Any motivation given to any such relationship will necessarily draw from “outer” disciplines and will give the relationship in question not only a predictive, but also a prescriptive status. Therefore, in any type of transfer where a certain relationship between the underlying codes is not a necessary condition, there is inherent the possibility of arriving at various resultant entities on the basis of one initial entity, each of which stands in different relations (in essence and/or in extent) both to it (i.e., shares with it a different invariant) and to its own “home” system. Thus, operations of this type tend to be irreversible; in other words, there is also inherent in them the opposite possibility of reconstructing several hypothetical initial entities on the basis of one resultant entity.

21

tra i sistemi. Questa relazione ha conseguenze immediate sull’invariante intersistematica e intertestuale pertinente al tipo in questione e quindi anche sulle relazioni tra l’entità iniziale e derivante. In realtà qualsiasi definizione passata riguardo le relazioni tra codici porta avanti l’idea di trasferimento altamente «economici» tra entità codificate al loro interno, cioè del trasferimento in modo massimale (vale a dire una grande coincidenza tra le due entità) di un nucleo invariante, a priori definito e ben definito, mentre l’entità derivante si adegua nel modo maggiore possibile al sistema ricevente, cioè ha un alto grado di accettabilità. Questo duplice obiettivo, che ovviamente corrisponde alla doppia natura dell’entità derivante (vedi sopra), può essere raggiunto in modo ottimale proprio perché nessun tipo di relazione a priori tra codici vale mai per sistemi visti nella loro globalità o strutturati a più livelli, ma si applica solo a un certo livello (o certi livelli). È chiaro che tali livelli fungono da variabili per questo tipo di trasferimento predefinito, mentre gli altri livelli rimangono inalterati e quindi acquisiscono lo status di invarianti.

Ne consegue che in ogni tipo di trasferimento dove è necessario avere una relazione tra i codici di base, si tende ad avere un solo modo per far svolgere “correttamente” l’operazione, dove per “correttezza” si intende una funzione dell’invariante che a sua volta deriva dalle relazioni predefinite tra i codici pertinenti al tipo di processo in questione. Detto in altri termini, in trasferimenti di questo tipo, ogni entità derivante effettiva tende a essere una mera realizzazione di un potenziale stabilito sulle basi dell’entità iniziale alla quale sono applicate le relazioni predefinite tra il sistema in cui si trova e il sistema al quale l’entità derivante apparterrà. Non c’è da meravigliarsi poi, che tali operazioni tendano anche a essere reversibili.

Dall’altro lato, singoli codici autonomi, soprattutto se dello stesso status ontologico, sono concepiti al fine di soddisfare le proprie funzioni interne, senza pensare a trasferimenti da o verso di loro. Perciò ogni qualvolta si verifichi realmente un trasferimento tra entità codificate al loro interno, l’enfasi si sposta in modo del tutto ovvio sulle altre due serie di relazioni comuni alle operazioni di trasferimento, (i) e (ii).

Per quanto riguarda l’invariante in trasferimenti di questo tipo, è importante notare, anche se solo di sfuggita, che ogni tentativo di presupporre un certo tipo di relazione tra entità emittente e di ricevente è arbitrario per certi aspetti importanti. Ogni motivazione data a ogni relazione di questo tipo dovrà necessariamente emergere da discipline esterne e darà alla relazione in questione uno status non solo predittivo ma anche prescrittivo. Dunque, in ogni tipo di trasferimento dove non è necessario un certo tipo di relazione tra i codici di base, è insita la possibilità di pervenire a entità derivanti diverse, sulla base di un’unica entità iniziale, ognuna delle quali intrattiene relazioni diverse (per sostanza e/o per estensione) sia con l’entità iniziale (cioè ha un’invariante diversa) che con il suo sistema «emittente». Così operazioni di questo genere tendono a essere irreversibili, in altre parole, è insita in loro anche la possibilità opposta di ricostruire svariate ipotetiche entità iniziali partendo da un’entità derivante.

22

III
In terms of the type of entities involved, their underlying codes (or the systems in which they are situated) and the above-mentioned sets of relationships, that sub- category of transfer which traditionally – both presystematically and according to the “traditional” theories striving at a systematic account – has come to be known as translation can be defined as follows:

(a) interlingual transfer, the two codes involved being two different natural languages, or, to be more precise, inter-textual, since the actual entities involved are two messages (texts) encoded in these two languages and in some secondary modelling system (religious, political, literary, etc.) imposed on them. Like the linguistic codes, which may be said to serve as primary modelling systems, the secondary modelling systems also differ from each other, at least on the basis of their being members of different cultural (poly)systems; but they may, in addition, differ by virtue of their positions within these systems (such as when a religious initial text is rendered as a literary text, or the like; and cf. to this Toury, in press: Section 1),

(b) irrespective if the relationships between the underlying systems. Of course, this does not imply that no such relationships may exist, and if they exist – they are never in a position to affect the formation and formulation of the target, resultant text. As a matter of fact, quite the opposite is true: the existence of certain relationships between languages and secondary modelling systems, be they genetic or evolutional in nature, constitutes a major factor of translatability, that is, of the initial, a priori interchangeability of messages belonging to different languages and/or textual traditions (cf. Even-Zohar, 1971: 41-44, 133-137 [English summary: IX, XVIII- XIX]; Toury, in press a: section 2.4). it simply means that none of the possible relationships, which are in fact great in number and highly divergent, has any bearing on the classification of a certain transfer process where they serve as source and target “home” systems for the two texts involved, hence of the resultant text of such a process, as translation;

(c) providing that some relationships between the two texts, which are asymmetric in nature (cf. section II) are retained, or established.

One of the main achievements of the theory of translation in the last decades, hence one of the main distinctions established between translation studies and contrastive linguistics, has been precisely a gradual shift of emphasis from focusing on interlingual relationships to centering upon inter-textual relationships (cf., e.g., Ivir, 1969; Koller, 1978: 77; Toury, in press a: section 2.5). Still, one of the main preoccupations of the various theories of translation at this point in the development of the discipline is with the specification of these inter-textual relations.

Obviously, given the necessary apparatus, every type of relationship can be defined and every actual relation described (and cf. my own attempt at supplying a framework for the description of the relationships between target and source: Toury, 1976 [in this collection]); but the question to be asked is whether the necessary condition for translation is the mere retainment, or establishment, of some asymmetric, unidirectional relationship, as claimed above, or should some specification too enter as part of the condition for the classification of a certain

23

III
Per quanto riguarda il tipo di entità coinvolte, i codici che vi stanno alla base (o i sistemi nei quali sono presenti) e le serie di relazioni sopra citate, questa sottocategoria di trasferimento che tradizionalmente – sia nelle teorie presistematiche sia secondo le teorie “tradizionali” che mirano a una spiegazione sistematica – chiamiamo traduzione, può essere definita come segue:

(a) trasferimento interlinguistico, poiché i due codici coinvolti sono due diverse lingue naturali, o per essere più precisi, trasferimento intertestuale siccome le due entità di fatto coinvolte sono due messaggi (testi) codificati in queste due lingue e in alcuni sistemi di modellizzazione secondaria (religiosi, politici, letterari…) imposti a loro. Così come per i codici linguistici che potrebbero essere considerati i sistemi di modellizzazione primaria, anche i sistemi di modellizzazione secondaria differiscono uno dall’altro, per lo meno per il fatto di far parte di (poli)sistemi culturali diversi; ma potrebbero inoltre differire in virtù della loro posizione all’interno di tali sistemi (per es. quando la parte iniziale di un testo religioso è resa come testo letterario o simili; vedi Toury, in corso di stampa, sezione 1);

(b) a prescindere dalle relazioni tra i sistemi soggiacenti. Chiaramente ciò non significa che non possano esistere tali relazioni, e che nel caso ce ne fossero, non siano mai nella posizione di influenzare la formazione e la formulazione del testo derivante, ricevente. Di fatto, è vero il contrario: l’esistenza di alcune relazioni tra lingue e sistemi di modellizzazione secondaria, che siano di natura genetica o evolutiva, rappresenta un grande fattore di traducibilità, cioè, dell’iniziale intercambiabilità a priori di messaggi appartenenti a lingue e/o tradizioni testuali diverse (vedi Even-Zohar, 1971: 41-44, 133-137 [sintesi inglese: IX, XVIII-XIX]; Toury, in corso di stampa, sezione 2.4). Questo significa semplicemente che nessuna delle possibili relazioni, che sono di fatti numerosissime e molto divergenti tra loro, può esercitare alcun tipo di influenza sulla classificazione di un certo processo di trasferimento, dove esse fungono da sistemi emittente e ricevente per i due testi coinvolti, e perciò del testo derivante da tale processo, da traduzione;

(c) a condizione che sia mantenuta o creata una relazione tra i due testi, asimmetrici di natura (vedi sezione II).

Negli ultimi decenni, uno dei principali successi della teoria della traduzione, pertanto una delle principali distinzioni stabilite tra la traduttologia e la linguistica contrastiva, è stato proprio lo spostare gradualmente l’attenzione dalle relazioni interlinguistiche a quelle intertestuali (Ivir, 1969; Koller, 1978: 77; Toury, in corso di stampa, sezione 2.5). ma, a questo punto dello sviluppo della disciplina, uno dei principali interessi delle varie teorie sulla traduzione è la specificazione di queste relazioni intertestuali.

Ovviamente, con l’apparato necessario, si può definire ogni tipo di relazione e descrivere ogni relazione effettiva (vedi il mio tentativo nel fornire un insieme di regole per la descrizione delle relazioni tra testo emittente e ricevente: Toury, 1976 [in questa raccolta]); ma bisogna domandarsi se la condizione necessaria per la traduzione è il semplice mantenimento, o la creazione di alcune relazioni unidirezionali e asimmetriche, come dichiarato sopra, o se dovrebbero condizionare

24

message as a translation in relation to another message, and hence be regarded also as “property” of the definition of this type of transfer (in the broad sense assigned to the notion of “property” by Peter Achinstein in his thorough discussion of “definition,” opening his 1968 Concepts of Science).

A major part of the evolution in translation studies in the last few years could be accounted for precisely in terms of the attempts to specify an inter-textual invariant for translation, which goes on to show that most of the existing theories have questioned neither the possibility of achieving such a specification nor its theoretical status as a necessary condition for translation. However, every such specification draws on other, “outer” disciplines (mainly semantics and pragmatics of natural languages), and is not done strictly in the framework of translation theory itself. This is why every postulated invariant sooner or later tends to cause some uneasiness, namely, when it is found out of contradict with observational facts, i.e., with messages regarded as translations even though the postulated relationship does not obtain between them and other messages in other languages, either in full, or as a dominanta, or even not at all.

Thus, it turns out that the persistent harping on the string of target-source relationships has led translation studies to stagnation, and that the time has come to take one step backwards in the hope of giving the discipline a new momentum, namely, to question the need, indeed – the possibility – of regarding any specific relationship whatever as a necessary – not to mention a sufficient – condition for translating, while still covering the entire field of phenomena in question.

IV
Any approach which does not question the need and/or the possibility of establishing some specified target-source relationship as a condition for translation actually presupposes – if only by implication – that translation can be exhaustively accounted for from the point of view of its being inter- (or cross-) lingual communication. In other words, if we take it that linguistic communication is, according to Jakobson’s formulation, “the communication of verbal messages” (1971: 698), such an approach would claim that translational communication (i.e., translation) should be defined as “the communication of verbal messages across a cultural-linguistic border.” If we compare this formulation with the issues dealt with in Section II, we are immediately struck by the equality which establishes itself between “communication” (here) and “transfer” (there). Such an equality implies – however reluctant we may be to admit it – the reduction of the overall inter-systemic communication act to its transfer aspect.

To be sure, there can be no doubt that translation does, as it were, broaden the communicational scope of verbal messages by taking them over a cultural-linguistic border. Nevertheless, such a conception of this type of communication seems to me at best partial, hence at least inaccurate, if not entirely misleading. Its main flaw lies in fact that it purports to isolate transfer, which is only part of the phase of the actual production of a translated message, from the other phases of translational communication and from their interrelationships. It is important to bear in mind that, once produced, every translation goes on to serve as an ordinary message, in a

25

la classificazione di un certo messaggio sotto forma di traduzione in relazione a un altro messaggio anche alcune specificazioni, e perciò essere considerate anche «proprietà» della definizione di questo tipo di trasferimento (nel senso lato dato al concetto di «proprietà» nella trattazione esaustiva di «definizione» di Peter Achinstein che apre il suo Concepts of Science del 1968).

Negli ultimi anni grande parte dell’evoluzione degli studi sulla traduzione potrebbe essere spiegata proprio tramite una serie di tentativi volti a identificare un’ invariante intertestuale per la traduzione, il che dimostra che la maggior parte delle teorie esistenti non si sono interrogate né sulla possibilità di pervenire a una tale specificazione né sul suo status teorico come condizione necessaria per la traduzione. Comunque ogni specificazione di questo tipo attinge da altre discipline “esterne” (soprattutto dalla semantica e dalla pragmatica delle lingue naturali), e questo non avviene necessariamente nell’ambito della teoria traduttiva. Ecco perché, prima o poi, ogni invariante postulata tende a creare scompiglio, soprattutto quando si trova in contraddizione con i fatti osservabili, per esempio con dei messaggi considerati delle traduzioni anche se la relazione postulata non prevale né completamente, né in minima parte e né come dominante tra loro e altri messaggi resi in altre lingue.

Ne risulta che continuare a battere sul tasto delle relazioni testo emittente e ricevente ha fatto stagnare gli studi sulla traduzione ed è dunque giunto il momento di fare un passo indietro nell’attesa di dare alla disciplina un nuovo slancio, vale a dire, di interrogarsi sulla necessità, o piuttosto, sulla possibilità di considerare sempre ogni relazione specifica come condizione necessaria – per non dire sufficiente – per la traduzione; sempre trattando l’intero campo dei fenomeni in questione.

IV
Ogni approccio che non si interroghi riguardo la necessità e/o la possibilità di stabilire una sorta di relazione specifica tra testo emittente e ricevente come condizione per la traduzione, in realtà presuppone – anche se solo per implicazione – che la traduzione possa essere spiegata esaustivamente partendo dal fatto che essa è una comunicazione inter- (o cross-) linguistica. In altre parole, se riteniamo che la comunicazione linguistica sia, secondo la formulazione di Jakobson, «la comunicazione dei messaggi verbali» (1971:698), un approccio del genere sosterrebbe che la comunicazione traduttiva (la traduzione) va definita come «comunicazione di messaggi verbali al di là di un confine culturale-linguistico». Se confrontiamo questa formulazione con i problemi affrontati nella sezione II, siamo immediatamente colpiti dall’equazione che si crea tra «comunicazione» (qui) e «trasferimento» (là). Tale equazione – per quanto potremmo essere restii nell’ammetterlo – implica la riduzione dell’intero atto comunicativo intersistemico al suo mero aspetto di trasferimento.

A dire la verità, non ci può essere nessun dubbio riguardo al fatto che la traduzione, portando i messaggi verbali al di là di un confine culturale-linguistico, ampli, per così dire, il loro ambito comunicativo. Eppure mi sembra che una concezione tale di questo genere di comunicazione sia, nel migliore dei casi, parziale, e come minimo imprecisa, se non completamente fuorviante. La sua pecca principale

26

regular intrasystemic act of communication, without, however, necessarily losing its distinct identity as a special kind of message, namely a translation (to this point, cf. Toury, 1979: Section E; in press a: section 3.2).

What is more important, however, and not yet fully appreciated, is the fact that this ultimate goal, to serve as a message in the target cultural-linguistic context, and in it alone, is by no means an indifferent factor in the production of the translated text. Rather, it may well be one of the main factors determining the formation and formulation of any translation, hence the respective target-source relationships and the invariant core as well. It no doubt affects the last stage in the production, namely the recomposition of the translated text, but there are good grounds to assume that the recipient system, which may therefore justifiably be termed “the initiating system,” has its impact also on the decomposition of the source text and on the transfer proper (including the choice of transfer procedures) (cf. two descriptive studies of literary translation proceeding from this very hypothesis: Toury, 1977; Yahalom, 1978).

The emphasis laid by most of the existing theories on translation as a well- defined (or at least definable) sub-class of the entire category of inter-textual (linguistic) transfer, sometimes to the complete exclusion of the constraints exerted by the target systems, is highly faulty precisely from the semiotic point of view.

It is a well known, and widely accepted argument that

With respect to a semiotic entity, one can understand neither the entity itself nor any given part of it nor any changes which might take place within the entity without asking the fundamental question: why does it exist? What end does it serve? What is its function? (Waugh, 1976: 17, while summing up Roman Jakobson’s views on semiotics.)

In the case of the “traditional” theories of translation, however – the ones which are essentially source-oriented (cf. Toury, in press), or, to be more precise, restricted theories of translatability (cf. Toury, in press a: section 3) – almost all problems of teleology are excluded, at least in practice. They focus, as it were, on the “origin” of translational phenomena, while refusing to recognize that these phenomena are goal- directed. They study translations in “material” terms, from the point of view of their production, but do not refer them to questions of how they function to satisfy certain needs in the recipient pole, and how these needs and functions contribute to, or even condition their mode of production, and – above all – their significance as distinct semiotic entities in themselves.

Nor is this approach unique in the history of semiotics and its various branches. Rather, it seems quite a common feature of an interim phase in the evolution of a number of semiotic, and especially linguistic sub-disciplines. Thus, for instance, it is interesting to note the astounding validity of Jakobson’s characterization of one of the first stages in the evolution of modern phonetics, the neo-grammarian period, for the case in point:

27

sta nel pretendere di isolare il trasferimento, che è solo parte della fase della produzione effettiva di un messaggio tradotto, dalle altre fasi della comunicazione traduttiva e dalle loro interrelazioni. È importante tenere a mente che, una volta prodotta, ogni traduzione continua a fungere da messaggio normale in un regolare atto di comunicazione intrasistemico, senza comunque necessariamente perdere la sua identità precisa di messaggio di tipo particolare, ossia traduzione (Toury, 1979: sezione E; in corso di stampa, sezione 3.2).

Comunque la cosa più importante, e non ancora capita fino in fondo, è che quest’ultimo obiettivo di fungere da messaggio nel conteso culturale-linguistico ricevente, e unicamente in questo, non è affatto un fattore irrilevante nella produzione del testo tradotto. Piuttosto è possibilissimo che sia uno dei principali fattori che determinano la formazione e la formulazione di ogni traduzione e quindi, anche le rispettive relazioni testo emittente e ricevente e il nucleo invariante. Senza dubbio influisce sull’ultimo stadio della produzione, vale a dire sulla ricomposizione del testo tradotto, ma ci sono i giusti presupposti per ipotizzare che il sistema ricevente, che dunque potrebbe giustificatamente essere considerato «il sistema che dà inizio al processo», influisca anche sulla scomposizione del testo emittente e sul trasferimento stesso (compresa la scelta delle procedure del trasferimento) (vedi i due studi descrittivi della traduzione letteraria procedendo proprio da questa ipotesi: Toury, 1977; Yahalom, 1978).

L’enfasi attribuita dalla maggior parte delle teorie esistenti alla traduzione vista come una sottocategoria ben definita (o al limite definibile) dell’intera categoria del trasferimento intertestuale (linguistico), alle volte fino all’esclusione totale delle restrizioni esercitate dai sistemi riceventi, è fortemente lacunosa, soprattutto dal punto di vista semiotico.

È una cosa nota e largamente accettata che

per quanto riguarda l’entità semiotica non si può comprendere né l’entità in sé, né nessuna sua parte determinata, né nessun cambiamento che potrebbe verificarsi al suo interno, senza porsi l’interrogativo fondamentale: perché esiste? A quale fine? Qual’ è la sua funzione? (Waugh, 1976:17, riassunto del punto di vista sulla semiotica di Roman Jakobson).

Tuttavia, nel caso delle teorie «tradizionali» della traduzione, essenzialmente volte verso il testo emittente (Toury, in corso di stampa), o più precisamente, teorie limitate della traducibilità (Toury, in corso di stampa, sezione 3), sono esclusi, per lo meno nella pratica, quasi tutti i problemi di teleologia. Si concentrano, per così dire, sull’ «origine» dei fenomeni traduttivi ma allo stesso tempo si rifiutano di riconoscere che questi fenomeni hanno un obiettivo. Studiano la traduzione e le traduzioni in termini «materiali», dal punto di vista della loro produzione, ma non si interrogano su come funzionino al fine di soddisfare alcuni bisogni nel polo ricevente, e su come questi bisogni e funzioni contribuiscano alla loro modalità di produzione, e lo condizionino anche, e, soprattutto sulla loro importanza in quanto singole entità semiotiche.

Né questo approccio è unico nella storia della semiotica e dei suoi diversi rami, piuttosto sembra una caratteristica comune di una fase ad interim durante l’evoluzione di svariate sottodiscipline semiotiche, e soprattutto, linguistiche. Perciò,

28

According to this doctrine, […] the genetic perspective was the only one considered acceptable. They chose to investigate not the object itself but the conditions of its coming into being. Instead of describing the phenomenon one was to go back to its origins (1978: 6; French original version: Jakobson, 1976: 25).

To push the analogy a little further by giving the phonetic terms used by Jakobson a metaphorical turn, translation theory as of now “concerns itself in the first place with the articulation” of translated texts, “and not with [their] acoustic aspect” – whereas it is precisely the acoustic aspect which gives “articulated” phenomena which may differ in substance including target-source relationships and translational invariant!) the functional identity of one and the same phenomenon (and cf. further in Toury, in press: section 4.2.3.).

V
Thus, it appears not only as naive, but also as misleading and infertile for translation studies to start from the assumption that translation is nothing but an attempt to reconstruct the original, or certain parts or aspects thereof, or the preservation of certain predetermined features of the original, which are (or are to be) unconditionally considered the “invariant under transformation,” in another sign- system, as it is usually defined from the source’s point of view. Focusing on the “acoustic” aspect of translation and translations, a much more suggestive formulation would be that translations are functions which map target messages, along with their position in the target’s relevant primary and secondary modelling systems (or their “valency” in them), on source messages, along with their likewise position (or “valency”; after a definition used by Kamp, 1970: 5, with reversal in the respective positions of the two messages and a few further modifications).

Turning back to our original communicational terms (cf. Section IV), the basis for semiotic, teleological translation studies seems to me to state not that translation is the communication of verbal messages across a cultural-linguistic border, but that it is communication in translated messages within a certain cultural-linguistic system, with all the relevant consequences for the decomposition of the source message, the establishment of the invariant, its transfer across the cultural-linguistic border and the recomposition of the target message.

Why, then, do we call something “a translation,” if translations have no fixed “material” identity? I believe that a paraphrase of one of the most renowned theses of Wittgenstein may serve as a good introduction for an answer to this troubling question (unlike the great philosopher, however, I would not accept the claim that “das hat [aber] dich noch nie gestört, wenn du das Wort […] angewendet hast”…[1967: section 68]):

29

per esempio, è interessante notare la validità sorprendente della caratterizzazione fatta da Jakobson delle prime fasi nell’evoluzione della fonetica moderna, il periodo neo- grammatico, per il caso in questione:

Secondo questa dottrina, […] il punto di vista genetico era l’unico a essere considerato accettabile. Hanno scelto di indagare non l’oggetto in sé ma le condizioni della sua nascita. Invece di descrivere il fenomeno, bisognava risalire alle sue origini (1978: 6; versione originale francese: Jakobson, 1976: 25).

Per spingersi un po’ oltre con l’analogia, dando ai termini fonetici usati da Jakobson un senso metaforico, la teoria sulla traduzione attualmente «ha a che fare in primo luogo con l’articolazione» dei testi tradotti, «e non con il loro aspetto acustico», quando invece è proprio l’aspetto acustico a dare ai fenomeni “articolati” – che possono differire per sostanza – (comprese le relazioni testo emittente-ricevente e l’invariante traduttiva!) l’identità funzionale di uno stesso fenomeno (Toury, in corso di stampa, sezione 4.2.3).

V
Perciò sembra non sia solo ingenuo, ma anche fuorviante e sterile che gli studi traduttivi partano con il presupposto che la traduzione non sia altro che un tentativo di ricostruire il testo originale, o alcune sue parti o aspetti, o che sia la conservazione di certi elementi prestabiliti del testo originale che incondizionatamente sono (o saranno) considerati l’«invariante in trasformazione» in un altro sistema di segni, come è spesso definito dal punto di vista della cultura emittente. Concentrandosi sull’aspetto «acustico» della traduzione e delle traduzioni, una formulazione molto più suggestiva sarebbe che le traduzioni sono funzioni che creano una mappa dei testi della cultura ricevente, e della loro posizione nei sistemi di modellizzazione primaria e secondaria (o la loro “valenza” al loro interno) pertinenti al testo ricevente, basandosi su messaggi della cultura emittente e creano una mappa della loro posizione (o “valenza”; secondo una definizione usata da Kamp, 1970: 5, con un capovolgimento delle rispettive posizioni dei due messaggi e alcune altre modifiche).

Tornando ai nostri termini comunicativi originali (vedi Sezione IV), le basi per gli studi traduttologici semiotici e teleologici non mi sembrano affermare che la traduzione sia la comunicazione di messaggi verbali al di là del confine culturale- linguistico, ma che invece sia una comunicazione in messaggi tradotti all’interno di un certo sistema culturale-linguistico, con tutte le relative conseguenze per la scomposizione del messaggio originario, per individuare l’invariante, per il suo trasferimento al di là del confine culturale-linguistico e per la ricomposizione del metatesto.

Allora perché chiamiamo qualcosa «traduzione» se le traduzioni non hanno un’identità «materiale» costante? Credo che una parafrasi di una delle tesi più rinomate di Wittgenstein possa essere una buona introduzione per una risposta a questa domanda preoccupante(diversamente dal grande filosofo comunque non accetterei l’affermazione che «das hat [aber] dich noch nie gestört, wenn du das Wort […] angewendet hast»…[1967: sezione 68]):

30

Nunetwa, weil es eine – direkte – Verwandtschaft mit manchem hat, was man bisher [Übersetzung] gennant hat; und dadurch, kann man sagen, erhält es eine indirekte Verwandtschaft zu anderem, was wir auch so nennen. Und wir dehnen unseren Begriff der [Übersetzung] aus, wie beim Spinnen eines Fadens, Faser an Faser drehen. Und die Stärke des Fadens liegt nicht darin, dass irgend eine Faser durch eine ganze Länge läuft, sondern darin, dass viele Fasern einander übergreifen (1967: section 67; the original deals with the notion of “number” [“Zahl”]).

Like language and games (two other examples used by Wittgenstein),

es ist diesen Erscheinungen garnicht Eines gemeinsam, weswegen wir für alle das gleiche Wort verwenden, – sondern sie sind mit einander in vielen verschiedenen Weisen verwandt. Und dieser Verwandtschaft wegen nennen wir sie alle [Übersetzung] (1967: section 65).

What I suggest, in brief, is to try and think of translation as a class of phenomena, the relations between the members of which are those of family resemblance (Wittgenstein’s “Familienähnlichkeiten”; “denn so übergreifen und kreuzen sich die verschiedenen Ähnlichkeiten, die zwischen den Gliedern einer Familie bestehen” [1967: section 67]). This will mean that no one specified relationship between target and source will be postulated as a necessary and/or sufficient condition for translation, nor even a fixed hierarchical order of different relations, unless translation studies wish to stay out of keeping with those empirical phenomena, which are regarded as translations within the framework of certain target systems. Instead, a cluster of properties, plus a set of further factor which may serve as conditions for the establishment of such a hierarchy of relevance for every single case in question, should serve to determine the “correct” classification of a phenomenon in this class, or, rather, to account for its classification. Thus, any relationship postulated by any “traditional” theorist may, and probably will, find its place among the properties forming the cluster; but the nature and extent of its relevance will be neither a priori nor absolute.

Obviously, such a discussion can hardly be said to conclude aptly by a mere declaration that the relationships between the members of the “translation” class be regarded as those of family resemblance. But, as I said earlier, I regard this paper as nothing but a programmatic position-paper. The point where it comes to an end is precisely where, in my opinion, real work should start; and future conferences and publications on both “semiotics and translation” and “the semiotics of translation” will reveal where this work would lead us.

Tel Aviv, June 1979

31

Nunetwa, weil es eine – direkte – Verwandtschaft mit manchem hat, was man bisher [Übersetzung] gennant hat; und dadurch, kann man sagen, erhält es eine indirekte Verwandtschaft zu anderem, was wir auch so nennen. Und wir dehnen unseren Begriff der [Übersetzung] aus, wie beim Spinnen eines Fadens, Faser an Faser drehen. Und die Stärke des Fadens liegt nicht darin, dass irgend eine Faser durch eine ganze Länge läuft, sondern darin, dass viele Fasern einander übergreifen (1967: sezione 67; il testo originale affronta il concetto di «numero» [«Zahl»]).

Come la lingua e i giochi (due altri esempi usati da Wittgenstein),

es ist diesen Erscheinungen garnicht Eines gemeinsam, weswegen wir für alle das gleiche Wort verwenden, – sondern sie sind mit einander in vielen verschiedenen Weisen verwandt. Und dieser Verwandtschaft wegen nennen wir sie alle [Übersetzung] (1967: sezione 65).

Quello che propongo, in breve, è di provare a pensare alla traduzione come a una classe di fenomeni, le cui relazioni sono quelle di somiglianza familiare (la «Familienähnlichkeiten» di Wittgenstein; «denn so übergreifen und kreuzen sich die verschiedenen Ähnlichkeiten, die zwischen den Gliedern einer Familie bestehen» [1967: sezione 67]. Questo significa che nessuna relazione specifica tra testo ricevente ed emittente è postulata come condizione necessaria e/o sufficiente per la traduzione, e non è postulato neanche un ordine gerarchico fisso delle diverse relazioni; a meno che gli studi traduttologici non vogliano tenere conto di questi fenomeni empirici, considerati delle traduzioni all’interno di determinati sistemi riceventi. Bisognerebbe invece usare un insieme di proprietà con una classe di ulteriori fattori che fungano da condizioni per la creazione di una tale gerarchia di pertinenza per ogni singolo caso per determinare la classificazione “corretta” di un fenomeno in questa classe, o piuttosto, per giustificare la sua classificazione. Ne consegue che ogni relazione postulata da qualsiasi teorico “tradizionale” potrebbe trovare posto tra le proprietà che formano l’insieme, ma la natura e l’estensione della sua pertinenza non è né a priori né assoluta.

*
Ovviamente tale discussione non può certo dirsi conclusa con la sola dichiarazione che le relazioni tra i membri della classe «traduzione» sono considerate come quelle di somiglianza familiare. Ma come ho detto prima, questo articolo per me non è altro che un saggio di posizione programmatica. Secondo la mia opinione, il punto in cui si arriva alla fine è precisamente il punto in cui dovrebbe partire il vero lavoro; e le conferenze sia sulla «semiotica e traduzione» sia sulla «semiotica della traduzione»

sveleranno dove ci porterà questo lavoro.

32

Tel Aviv, Giugno 1979

2.2 References

Achinstein, Peter, 1968. Concepts of Science: A Philosophical Analysis (Baltimore, Maryland: The Johns Hopkins Press).

Brandt, Elisabeth H.P., 1969. A Study of Invariance under Transformation in a German-English Translation (Ann Arbor: University Microfilms) [Ph.D. Thesis, 1960].

Even-Zohar, Itamar, 1971. Mavo le-te’orya šel ha-sifruti [Introduction to a Theory of Liteary Translation] (Tel Aviv: Tel Aviv University). [Unpublished Ph.D. Thesis. English summary: I-XX.]

Ivir, Vladimir, 1969. «Contrasting via Translation: Formal Correspondence vs. Translation Equivalence», YSCECP, Studies 1, 13-25

Jakobson, Roman, 1971. «Language in Relation to Other Communication Systems» in: Jakobson, 1971: 697-708.

1976. Six leçons sur le ton et le sens (Paris: Minuit).
1978. Six Lectures on Sound and Meaning (Cambridge, Mass. & London: MIT

Press).

Kamp, Hans, 1970. On the Adequacy of Translations among Natural and Formal Languages [TM-4528/000/00] (Santa Monica, California: System Development Corporation).

Koller, Werner, 1978. «Äquivalenz in krontastiver Linguistik und Übersetzungwissenschaft», in: Grähs et al., 1978: 69-92.

Toury, Gideon, 1976. «Eqvivalenya šel yeidot ve-eqvivalenya šel teqstim: Li- še’elat te’ur ha-yeasim ben tirgum u-maqor» [Equivalence of Units and Equivalence of Texts: Towards a Description of the Relationships Between Translation and Source], Ha-sifrut/Literature 23, 42-49.

1977. Normot šel tirgum ve-ha-tirgum ha-sifruti le-ivrit ba-šanim 1930-1945 [Translational Norms and Literary Translation into Hebrew, 1930-1945] [Literature, Meaning, Culture, 6] (Tel Aviv University, Tel Aviv: The Porter Institute for Poetics and Semiotics).

33

2.2 Riferimenti bibliografici

Achinstein, Peter, 1968. Concepts of Science: A Philosophical Analysis (Baltimore, Maryland: The Johns Hopkins Press).

Brandt, Elisabeth H.P., 1969. A Study of Invariance under Transformation in a German-English Translation (Ann Arbor: University Microfilms) [Tesi di dottorato, 1960].

Even-Zohar, Itamar, 1971. Mavo le-te’orya šel ha-sifruti [Introduzione a una teoria di traduzione letteraria] (Tel Aviv: Tel Aviv University). [Tesi di dottorato inedita. Sintesi inglese: I-XX]

Ivir, Vladimir, 1969. «Contrasting via Translation: Formal Correspondence vs. Translation Equivalence», YSCECP, Studies 1, 13-25

Jakobson, Roman, 1971. «Language in Relation to Other Communication Systems» in: Jakobson, 1971: 697-708.

1976. Six leçons sur le ton et le sens (Paris: Minuit).
1978. Six Lectures on Sound and Meaning (Cambridge, Mass. & London: MIT

Press).

Kamp, Hans, 1970. On the Adequacy of Translations among Natural and Formal Languages [TM-4528/000/00] (Santa Monica, California: System Development Corporation).

Koller, Werner, 1978. «Äquivalenz in krontastiver Linguistik und Übersetzungwissenschaft», in: Grähs e altri, 1978: 69-92.

Toury, Gideon, 1976. «Eqvivalenya šel yeidot ve-eqvivalenya šel teqstim: Li- še’elat te’ur ha-yeasim ben tirgum u-maqor» [Equivalenza di unità ed equivalenza di testi: Verso una descrizione delle relazioni tra traduzione e testo emittente], Ha- sifrut/Literature 23, 42-49.

1977. Normot šel tirgum ve-ha-tirgum ha-sifruti le-ivrit ba-šanim 1930-1945 [Le norme traduttive e la traduzione letteraria in ebraico negli anni 1930-1945] [Letteratura, Senso, Cultura, 6] (Tel Aviv University, Tel Aviv: The Porter Institute for Poetics and Semiotics).

34

1979. «Interlanguage and Its Manifestations in Translation» Meta 24, 223-231.

In press «Translated Literature: System, Norm, Performance: Toward a TT-Oriented Approach to Literary Translation», in Even-Zohar and Toury, in press. [Hebrew version: Ha-sifrut/Literature 28 (April 1979), 58-69; Dutch version in: André Lefevere and Ria V anderauwera, V ertaalwetenschap: Literatuur , wetenschap, vertaling en vertalen (Antwerpen: Restant & Leuven: ACCO), 32-52].

In press A «Contrastive Linguistics and Translation Studies» in: Kühlwein et al., forthcoming.

Waugh, Linda R., 1976. Roman Jakobson’s Science of Language (Lisse: The Peter de Ridder Press).

Wilss, Wolfram, 1980. Ed., Semiotik und Übersetzen (Tübingen: Gunter Narr). Wittgenstein, L., 1967. Philosophische Untersuchungen/Philosophical Investigations,

trans. G.E.M. Anscombe (Oxford: Basil Blackwell).

Yahalom, Shelly, 1978. Ha-yeasim ben ha-sifrut ha-arfatit la-sifrut ha-anglit ba- me’a ha-18 [Relations entre les littératures Française et Anglaise au 18e siècle] (Tel Aviv: Tel Aviv University). [M.A. Thesis].

35

1979. «Interlanguage and Its Manifestations in Translation» Meta 24, 223-231.

In corso di stampa «Translated Literature: System, Norm, Performance: Toward a TT-Oriented Approach to Literary Translation», in Even-Zohar e Toury, in corso di stampa. [Versione ebraica: Ha-sifrut/Literature 28 (Aprile 1979), 58-69; versione tedesca in: André Lefevere e Ria Vanderauwera, Vertaalwetenschap: Literatuur, wetenschap, vertaling en vertalen (Antwerpen: Restant & Leuven: ACCO), 32-52].

In corso di stampa A «Contrastive Linguistics and Translation Studies» in: Kühlwein e altri, imminente.

Waugh, Linda R., 1976. Roman Jakobson’s Science of Language (Lisse: The Peter de Ridder Press).

Wilss, Wolfram, 1980. (A cura di), Semiotik und Übersetzen (Tübingen: Gunter Narr).

Wittgenstein, L., 1967. Philosophische Untersuchungen/Philosophical Investigations, trad. G.E.M. Anscombe (Oxford: Basil Blackwell).

Yahalom, Shelly, 1978. Ha-yeasim ben ha-sifrut ha-arfatit la-sifrut ha-anglit ba- me’a ha-18 [Relations entre les littératures Française et Anglaise au 18e siècle] (Tel Aviv: Tel Aviv University). [Tesi M.A.].

36

Gregory Rabassa: If this be treason. Il residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica SIMONA CLERICI

Gregory Rabassa:

If this be treason.

Il residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

SIMONA CLERICI

 

 

Scuole Civiche di Milano

Fondazione di partecipazione

Dipartimento Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Dicembre 2009


 

© GREGORY RABASSA, New Directions, US, 2005

© Simona Clerici per l’edizione italiana 2009

 

Gregory Rabassa: If this be treason. Il residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

 

(Gregory Rabassa: If this be treason. Translation loss in interlingual communication)

 

 

 

Abstract in italiano

 

Non esiste un testo che dica tutto. Nel caso della comunicazione interlinguistica, la compensazione del residuo è complicata ulteriormente dall’opera di mediazione linguistica e culturale del traduttore. Quando un testo deve essere reso accessibile a una cultura che non gli è propria, il traduttore si trova di fronte a un continuum di possibilità traduttive che ha come estremi da un lato il concetto di «adeguatezza» e dall’altro quello di «accettabilità» teorizzati da Toury. Sulla base della mia traduzione di alcuni passi di If this be treason di Gregory Rabassa ho analizzato i processi mentali che mi hanno condotto a operare alcune scelte traduttive e a escluderne altre. I numerosi esempi riportati, oltre a non fare mai perdere di vista il testo originale, contribuiscono a rendere evidente la necessità di riflettere sulle finalità della traduzione: non il tentativo destinato a fallire di voler eliminare tutti i residui traduttivi nell’illusione che si possa operare una sorta di “riproduzione interlinguistica”, ma la presa di coscienza che questi esistono, e che ogni volta se ne dovrà tenere conto stabilendo uno schema di priorità a cui attenersi nella strategia complessiva e nelle singole scelte traduttive.

 

English abstract

 

A text which says everything doesn’t exist. In the case of interlingual communication, the compensation for translation loss is further complicated by the linguistic and cultural mediation carried out by the translator. When a text is to be made accessible to a different culture, the translator can choose among a continuum of translation possibilities the extremes of which are the concepts of “acceptability” and “adequacy”, as described by Toury. On the basis of my translation of some extracts of If this be treason by Gregory Rabassa, I have analyzed the mental processes that led me to make certain translation choices instead of anothers. The numerous examples quoted, besides keeping sight of the original text, stress the need to consider what are the very aims of translation: far from being the ill-fatedattempt to remove every translation loss under the delusion that an “interlingual reproduction” is possible, it is the awareness that translation loss exists, and it has to be taken into account by setting priorities and sticking to them in the whole strategy as well as in every single translation choice.

 

 

Résumé en francais

 

Un texte qui dit tout n’existe pas. Dans le cas de la communication interlinguistique, la compensation de cette perte est compliquée davantage par la médiation linguistique et culturelle du traducteur. Quand il faut rendre un texte accessible à une culture autre, le traducteur peut choisir parmi un continuum de possibilités traductives dont les extrêmes sont, d’un côté, le concept de «adéquation», et de l’autre celui de «acceptabilité», théorisés par Toury. Sur la base de ma traduction de certains extraits de If this be treason par Gregory Rabassa, j’ai analysé les procédés mentaux qui m’ont conduite à opérer certains choix traductifs et à en exclure d’autres. Les nombreux exemples retenus, outre qu’ils ne font jamais perdre de vue le texte original, contribuent à rendre évidente la nécessité de réfléchir sur les buts de la traduction: non pas la tentative, destinée à échouer, d’éliminer toutes les pertes induites par la traduction dans l’illusion qu’on peut opérer une sorte de ˝reproduction interlinguistique˝, mais la prise de conscience qu’elles existent et qu’à chaque fois il faut s’en charger en dressant une liste de priorités auxquelles s’en tenir dans la stratégie globale comme dans chaque choix traductif.

 

Sommario

 

1.                  Prefazione  4

1.1.                  Il residuo comunicativo  5

1.2.                  Il rumore semiotico nella teoria della comunicazione di Peirce  7

1.3.                  Il duplice significato di «metatesto»: scegliere dove convogliare il residuo  9

1.4.                  Come colmare la distanza cronotopica tra il prototesto e il lettore del metatesto  14

1.5.                  La dialettica tra funzione estetica e funzione informativa del testo: l’ambivalenza di If this be treason  17

1.6.                  L’intertestualità come secondo livello di lettura  22

1.7.                  Cultura più specificante  versus cultura meno specificante: le diverse delimitazioni dello spettro cromatico  31

1.8.                  I realia: esempi e soluzioni traduttive  36

1.9.                  L’impossibilità di capire e trasporre tutto  42

1.10.                  Alcune note biografiche su Gregory Rabassa  43

1.11.                  Riferimenti bibliografici 45

2.                  Traduzione con testo a fronte  48

 

 

 

 

 

 

  1. Prefazione


1.1.       Il residuo comunicativo

«Un testo non dice mai tutto, dà sempre per scontata una parte spesso cospicua del messaggio» (Osimo 2001: 33). La parte del messaggio che non giunge a destinazione in un atto comunicativo si chiama «residuo». Un testo che abbia la pretesa di “dire tutto”, oltre a risultare estremamente ridondante, sarebbe inconcepibile; ogni testo comporta un residuo. Questo vale a maggior ragione nel caso della comunicazione interlinguistica in cui ai residui insiti nel percorso di un messaggio che parte dalla cultura propria dell’emittente per trovare posto nel materiale psichico del destinatario si aggiungono i processi traduttivi per produrre un metatesto in una lingua naturale diversa da quella del prototesto; se nello schema classico della comunicazione (emittente, ricevente, codice, residuo e messaggio) il residuo è da ricondursi, oltre alle interferenze nel canale fisico, ai processi impliciti di verbalizzazione e deverbalizzazione, nella comunicazione interlinguistica la sequenza dei processi traduttivi è molto più stratificata e la compensazione dei residui è notevolmente più difficile. Quando un emittente decide di comunicare un messaggio a un destinatario «deve attingere alla propria mente, al proprio materiale psichico, tra quelli che Peirce chiama “interpretanti”, elementi psichici soggettivi di mediazione tra un segno e un oggetto» e tradurli in un codice verbale (Osimo 2001: 75). Siamo in presenza di un processo di verbalizzazione che è anche un primo processo traduttivo se per traduzione si intende «qualsiasi processo che trasformi un prototesto in un metatesto» (Osimo 2001: 3). Dove c’è traduzione c’è residuo, perché non tutti gli interpretanti scelti dall’emittente riusciranno a essere tradotti in parole. E una volta che il messaggio è stato attualizzato, le interferenze sul canale fisico di comunicazione potrebbero impedirne parzialmente la comprensione. Un terzo residuo è rappresentato dal processo di deverbalizzazione attraverso cui il destinatario decodifica il messaggio verbale per trasformarlo in interpretanti. Un ultimo problema che contribuisce all’impossibilità di compensare del tutto il residuo comunicativo è dato dal fatto che spesso i processi descritti sono inconsapevoli e «a volte l’emittente non è consapevole nemmeno del residuo insito nel proprio messaggio verbale» (Osimo 2001:75). Nella comunicazione interlinguistica questi residui aumentano notevolmente perché ai processi di traduzione compiuti dall’emittente e dal ricevente si sommano quelli compiuti dal traduttore, che deve essere innanzitutto lettore e operare una traduzione intralinguistica (come ogni destinatario deve arrivare a trasformare in interpretanti propri gli interpretanti verbalizzati dall’emittente) prima di affrontare la traduzione interlinguistica in una lingua diversa da quella in cui il testo è stato originariamente concepito. Un altro residuo insito nella traduzione interlinguistica che si aggiunge a quelli descritti riguarda la parte di messaggio che il traduttore decide consapevolmente di convogliare nei dispositivi metatestuali perché ritiene probabile che non venga compresa in modo immediato. In questo scenario intricato il traduttore può almeno ovviare a queste difficoltà scegliendo di volta in volta la strategia traduttiva che ritiene più adatta per ottenere il metatesto più efficace possibile. Ma anche un errore di calcolo nell’elaborazione del lettore modello (quindi una strategia traduttiva sbagliata) può essere fonte di ulteriori residui comunicativi, tanto maggiori quanto più grande sarà la distanza tra il lettore modello immaginato dal traduttore e il lettore empirico.

1.2.       Il rumore semiotico nella teoria della comunicazione di Peirce

Nella teoria semiotica della comunicazione il residuo comunicativo è detto «rumore semiotico». Charles Peirce, fondatore della semiotica moderna, spiega questo concetto servendosi della triade segno, interpretante, oggetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il processo interpretativo attraverso il quale un segno entra in relazione con un oggetto e produce nella mente del soggetto una rappresentazione che stabilisce una relazione tra segno e oggetto si chiama semiosi. Della semiosi, ovvero della significazione, si occupa la semiotica. Nel triangolo basato su Peirce un segno (qualunque cosa percettibile) non rimanda direttamente a un oggetto (ciò che esiste a prescindere dal segno), ma è mediato dal pensiero interpretante di chi codifica (o decodifica). Inoltre, «questo pensiero interpretante non è uguale per tutti, poiché è dettato dalle esperienze soggettive fatte dall’individuo con quel segno, con quell’oggetto e con segni e oggetti a loro mentalmente assimilabili» (Osimo 2004: 12). Le diverse codifiche che due interlocutori danno di uno stesso segno possono fare riferimento a oggetti mentali diversi. Ecco a cosa è dovuto in gran parte il residuo comunicativo:

 

Il segno diventa tale solo se viene interpretato come segno. L’albero resta un albero fino al momento in cui io, uomo primitivo, non lo indico per significare «rifugio dalla pioggia». Ma per il mio interlocutore può significare «luogo dove cadono i fulmini» (Osimo 2001: 35).

 

A creare il rumore semiotico però contribuiscono anche i contenuti impliciti di un messaggio, ovvero le parti di contenuto implicito il cui significato dato per scontato per il lettore modello del prototesto. Tenuto conto che ciò che in un contesto è implicito può non esserlo in un altro, risulta evidente che il traduttore deve preoccuparsi anche di questo aspetto nella scelta della strategia traduttiva. È bene ricordare infine che ogni traduzione rappresenta la visione parziale e momentanea del traduttore, dettata anche da fattori cronologici, geografici, culturali, psichici, come sottolineato da Osimo:

 

Ogni versione, a seconda del modo in cui il traduttore decide di farsi carico di ciò che non è possibile trasporre direttamente nella lingua o cultura ricevente, del “residuo intraducibile”, mette in risalto alcuni aspetti e ne tace, ahimè, altri. In altre parole, ogni versione differisce dalle altre soprattutto per il contenuto (denotativo, ma soprattutto connotativo e stilistico) che il traduttore ha deciso di sacrificare in nome della comunicabilità, della “trasportabilità” del testo in questione (Osimo 2004: 38).

 

1.3.       Il duplice significato di «metatesto»: scegliere dove convogliare il residuo

Per evitare confusioni, occorre innanzitutto fare chiarezza sul duplice significato di «metatesto»: questo termine si riferisce tanto al testo che traduce il prototesto quanto alle informazioni paratestuali che accompagnano una traduzione, ascrivibili alla funzione fatica della comunicazione, che Osimo definisce così: «in una traduzione, tutte le azioni volte a fare sì che il contatto tra emittente e ricevente non si interrompa» (Osimo 2004: 18).

Quando ci si trova di fronte a un testo da tradurre è buona abitudine documentarsi sull’autore, sul contesto culturale dell’opera, sulle altre pubblicazioni dell’autore eccetera. Nel caso di un libro, spesso buona parte di queste informazioni sono raccolte nel metatesto, inteso come «l’insieme delle parti di un libro che esulano dal testo principale» (Osimo 2004: 29). Anche le informazioni reperibili da altre fonti, persino attraverso citazioni, pubblicità, allusioni, secondo Peeter Torop rientrano nel concetto più ampio di «metatesto». Il loro denominatore comune è fornire «informazioni paratestuali sul testo principale» (Osimo 2004:29). Esistono più livelli di metatesto; per un libro, ad esempio, possiamo distinguere:

  • Le componenti direttamente reperibili al suo interno nell’apparato paratestuale: prefazione, postfazione, introduzione, commentario, note, glossario, mappe, illustrazioni, cronologia;
  • Le informazioni reperibili su altre opere di consultazione: recensioni, voci enciclopediche, biografia dell’autore, elenco delle sue opere;
  • Gli echi mediatici: pubblicità, notizie sulla pubblicazione.

Umberto Eco, nel capitolo «Perdite e compensazioni» di Dire quasi la stessa cosa (Eco 2003: 95-138) sostiene che in un testo tradotto possono intervenire alcune perdite «assolute», il cui contenuto può essere espresso esclusivamente ricorrendo alla nota a piè di pagina, l’ultima ratio di un traduttore che ne ratifica la sconfitta (Eco 2003: 95). La tesi sostenuta da Osimo è invece su questo aspetto completamente diversa:

 

Questo metodo tende alla manipolazione del testo senza che il lettore ne sia consapevole. Il lettore modello implicito in questo metodo non è degno di venire a conoscenza delle operazioni manipolatorie compiute senza precisa giustificazione dal traduttore, e non ha nessuna curiosità, si evince, per ciò che può essere tipico della cultura altrui, e diverso dalla propria. (Osimo 2004: 74)

 

Dello stesso parere è Nabókov:

 

In primo luogo, dobbiamo accantonare una volta per tutte il concetto convenzionale secondo cui una traduzione «deve essere scorrevole» e «non deve avere l’aria di una traduzione». […] Se sia di scorrevole lettura o no dipende dal modello, non dall’imitatore. (Nabókov 1984: XII-XIII in Osimo 2004: 70).

 

Secondo Eco invece dove è necessario è più conveniente intervenire direttamente all’interno del testo tradotto concedendosi alcune perdite a cui si possono far corrispondere in seguito dei tentativi di compensazione. Ma «Perdite» e «compensazioni», per quanto concordate tra l’autore e il traduttore e ritenute irrilevanti nell’economia generale del testo, devono essere fatte con parsimonia e il traduttore deve «resistere alla tentazione di aiutare troppo il testo, quasi sostituendosi all’autore» (Eco 2003: 108). Anche perché, come sottolinea lo stesso Eco, «una traduzione che arriva a “dire di più” potrà essere un’opera eccellente in sé stessa, ma non è una buona traduzione» (Eco 2003: 110). Sono quattro i motivi per cui, secondo Umberto Eco, un traduttore è tentato di intervenire direttamente sul testo originale, in modo quasi inconsapevole per una sorta di «tendenza ipertrofica alla mediazione» (Osimo 2004: 75), lasciando il lettore della traduzione all’oscuro di tutto:

  • Se un’espressione del testo originale appare ambigua. Ma ci si deve sempre chiedere se il lettore del prototesto sia davvero in grado di disambiguare le espressioni apparentemente incerte con maggiore facilità rispetto al lettore del metatesto. Spesso di fronte a una doppia possibilità interpretativa è il contesto che rende evidente la lettura corretta, che si tratti di prototesto o metatesto, e l’intervento del traduttore è del tutto superfluo.
  • Se l’autore del prototesto ha effettivamente creato un’ambiguità senza volerlo e il contesto non è sufficiente a risolverla.
  • Se l’autore non voleva essere ambiguo, ma il traduttore individua in questa ambiguità una scelta precisa dell’autore e fa il possibile per inserirla anche nel testo tradotto.
  • Se l’autore voleva espressamente risultare ambiguo.

Fatte queste concessioni, proseguendo la lettura di questo capitolo di Eco si evince che in linea di principio il traduttore non deve proporsi di “migliorare” il testo: «Se si traduce un’opera modesta mal scritta, che rimanga tale, e che il lettore di destinazione sappia che cosa aveva fatto l’autore» (Eco 2003: 118). A maggior ragione nell’ultimo caso in cui l’intervento del traduttore direttamente nel testo non è giustificato per nulla, perché chiarire significherebbe non riconoscere e non rispettare un’ambiguità voluta, e in definitiva vorrebbe dire tanto tradire le intenzioni dell’autore quanto fuorviare la ricezione dei lettori.

Quando invece un traduttore fa ricorso ad apparati metatestuali allo scopo di esplicitare e compensare un prototesto, è innegabile che siamo in presenza di una strategia consapevole. Dirk Delabastita definisce le strategie metatestuali artifici compensativi che un traduttore può adottare quando instaura un «secondo livello di comunicazione» con il metatesto che ha prodotto. Ecco una conferma dell’origine comune della duplice valenza del termine metatesto: in entrambi i casi il metatesto implica un processo di traduzione, nell’uno metalinguistica (che dà origine alle componenti paratestuali), nell’altro interlinguistica (che porta a tradurre il prototesto). A seconda della finalità dell’intervento metatestuale, Delabastita ne individua tre diversi tipi (Osimo 2004: 76):

  1. Commentare qualcosa del prototesto
  2. Commentare un modo in cui è stato tradotto il prototesto
  3. Commentare la relazione intercorrente tra prototesto e metatesto

Tornando a Peirce, è la teoria dell’abduzione che illustra sia perché un testo non può dire tutto, sia perché è proprio sul non detto che si basa il gioco abduttivo (Osimo 2001: 33) della lettura: questo tipo di logica muove da una costante nota (esempio: tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi) per inferire una congettura su un fenomeno nuovo (se questi fagioli sono bianchi, allora forse vengono da questo sacco). L’esempio è di Peirce. Le probabilità che questa congettura sia vera sono piuttosto basse, perché l’ipotesi che sta alla base del ragionamento è un caso, e non una regola. Ecco ciò che avviene ogni volta che si è alle prese con la lettura di un testo: man mano che la lettura procede si fanno ipotesi sul non detto del testo, ipotesi che (forse) verranno confermate o smentite in una fase successiva della lettura. Un testo non dirà mai tutto perché la semiosi di un testo è illimitata: ogni lettore formula ipotesi diverse e ogni ulteriore lettura da luogo a congetture diverse; allora il traduttore deve essere prima di tutto un critico per riuscire a rileggere il testo e estrapolarne la ratio.

1.4.       Come colmare la distanza cronotopica tra il prototesto e il lettore del metatesto

La scelta della strategia traduttiva deve tenere conto delle differenze tra la cultura emittente e la cultura ricevente, tanto sul piano dell’espressione quanto su quello del contenuto, come sostiene Anthony Pym:

 

Quando si attraversa una parete culturale, si incontrano luoghi particolari che richiedono l’espansione del testo. I termini più difficili tendono a richiedere una parafrasi o una spiegazione, di solito giustificabile in quanto esplicitazione di informazioni culturali implicite (Pym 1993: 123 in Osimo 2004)

 

Secondo il teorico tedesco Schleiermacher  esistono due diversi metodi per rendere direttamente nel testo tradotto ciò che altrimenti risulterebbe un residuo comunicativo, a seconda dell’atteggiamento assunto dal traduttore nei confronti del lettore del metatesto: «a mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore» (Nergaard 1993: 153)

L’argomentazione continua sostenendo che le due vie sono talmente diverse che una volta scelta quella da seguire non sono ammesse eccezioni, pena lo smarrimento completo sia del lettore che dello scrittore. Personalmente non condivido questo ultimo punto, perché non credo possa esistere una norma assoluta ma ritengo che stia al buon senso e all’esperienza di un traduttore valutare di volta in volta la strategia traduttiva più efficace. Trovo invece molto valide le descrizioni dei due modi in cui, di volta in volta, un traduttore può decidere di far procedere la sua traduzione: nel primo caso il traduttore si preoccupa di compensare la mancata comprensione da parte del lettore del testo tradotto cercando di comunicargli la stessa immagine che lui, che conosce la lingua dell’originale, ha tratto dalla sua lettura. Nel secondo, se la traduzione cerca di far parlare il suo autore romano come se a parlare o a scrivere fosse un tedesco per un pubblico di tedeschi, non muove l’autore nella direzione del traduttore, perché l’autore non gli parla in tedesco ma in latino, ma  muove lo scrittore incontro ai lettori trasformandolo in uno di loro. L’esempio è di Schleiermacher.

Anche lo scienziato della traduzione Gideon Toury vede in modo dinamico il processo che porta a colmare la distanza cronotopica tra il prototesto e il lettore del metatesto: questa distanza può essere percorsa o dal lettore, che si fa carico della fatica di avvicinarsi alla cultura altrui dell’autore, oppure dal traduttore, che avvicina il prototesto al lettore trasformando gli elementi di cultura altrui che contiene in elementi di cultura propria del lettore, a lui più familiari e quindi di più immediata comprensione. Nel primo caso siamo in presenza di una traduzione «adeguata», dove il concetto di «adeguatezza è visto in funzione del prototesto», mentre nel secondo di una traduzione «accettabile», questa volta dal punto di vista del lettore (Osimo 2001: 81-84). Ecco quali sono alcuni dei parametri su cui si basano queste due strategie:

 

Caratteristiche del prototesto

Adeguatezza

Accettabilità

Straniamento culturale

  • Esotismo
  • Storicismo
Conservato Addomesticamento culturale

  • Naturalizzazione
  • Modernizzazione
Realia Conservati
  • Sostituiti con quelli della cultura ricevente
  • Standardizzati
Nomi propri Conservati Adattati
Sintassi marcata Conservata Standardizzata
Forme metriche Conservate Sostituite con altre diffuse nella cultura ricevente
Proverbi e modi di dire
  • Conservati
  • Spiegati nell’apparato critico
  • Sostituiti con altri simili
  • Aboliti
  • Esplicitati
Polifonia (registri, idioletti) Conservata Uniformata
Deittici Conservati Adattati

 

Ciascuna delle due scelte comporta dei rischi: l’adeguatezza, che pone come dominante l’integrità del testo, prende atto dell’estraneità di un testo e non gli toglie le caratteristiche che lo identificano anche a costo di produrre un testo di difficile lettura; l’accettabilità ha come dominante la facilità di accesso al testo lasciando al lettore la possibilità di accedere a quei contenuti che altrimenti sarebbero risultati estranei alla cultura ricevente. Qui il rischio è di far perdere le tracce della cultura che ha generato il prototesto illudendo il lettore che le culture siano molto simili tra loro e la traduzione intralinguistica sia sempre possibile. Come sottolinea Osimo, il traduttore non è l’unico responsabile di una o dell’altra scelta:

 

Spesso è la cultura a dettare le norme della traducibilità. Possono intervenire fattori di ordine politico, il fatto che certe culture siano dominanti o siano recessive in un dato momento storico, o il fatto che in un’area prevalga la cultura dell’appropriazione delle culture altrui versus la cultura del confronto e dello scambio (Osimo 2001: 83).

 

Ma anche la cultura editoriale dominante in un Paese influisce notevolmente su queste scelte:

 

Vi sono editori che danno credito al lettore medio offrendogli traduzioni di non facilissima lettura corredate di note e di altre spiegazioni metatestuali utili a far entrare il lettore nella cultura da cui proviene il testo; altri editori invece tendono a preparare prodotti di facile consumo postulando, come diceva Nabòkov (1984), un lettore imbecille capace soltanto di consumare testi precotti, predosati, predigeriti: per questo lettore le traduzioni accettabili sono l’ideale (Osimo 2001: 84).

 

1.5.       La dialettica tra funzione estetica e funzione informativa del testo: l’ambivalenza di If this be treason

Nel modello di Peeter Torop, tra le varie possibili attualizzazioni del processo traduttivo in funzione delle dominanti trova posto anche la discriminante espressione versus contenuto. Fissare la dominante sull’espressione significa ritenere preponderante la funzione estetica di un testo; fissarla sul contenuto significa invece accordare maggiore importanza alla funzione informativa. In una traduzione, il piano dell’espressione (la forma) viene sottoposto a ricodifica, mentre il piano del contenuto viene sottoposto a trasposizione. Nella maggior parte dei casi un processo non esclude l’altro: i testi difficilmente sono del tutto dominati da una sola di queste due funzioni. Un testo che fissi la dominante esclusivamente sulla funzione informativa non intende convogliare nessun messaggio al di là del mero valore semantico delle parole; eccone un esempio: «L’interregionale 1231 per Forlì parte alle 14.05 dal binario 20» (Osimo 2004: 19). Per quanto la decifrazione di questo messaggio comporti la comprensione di alcune implicazioni referenziali, il suo unico scopo è dare questa informazione ai viaggiatori. In altre parole, nessuna parte di questo messaggio rischia di andare persa se il destinatario comprende il valore denotativo delle singole parole che lo compongono. Un testo di questo tipo è un testo chiuso, monosemico, e anche una parola polisemica (e «binario» lo è) è molto facile da disambiguare. Di un testo simile si può dire se sia giusto o sbagliato, perché non dà adito a interpretazioni soggettive dipendenti per esempio dalla cultura, dal momento storico, in una parola dal contesto. In un testo come questo il residuo può essere ridotto quasi a zero.

Altre volte invece è la forma in cui un messaggio viene espresso a essere l’elemento portatore di senso: basti pensare alla poesia, in cui sono la fonetica, la musicalità e la metrica ad avere un’importanza preponderante rispetto al puro contenuto semantico, come dimostra Osimo: «Non avrebbe infatti senso “tradurre” ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita’ come ‘Quando avevo trentacinque anni’ o qualcosa di simile: sarebbe una traduzione molto incompleta e per molti aspetti priva di senso» (2004: 19). Soprattutto nella poesia (ma non solo), il contenuto deve adattarsi a ciò che Eco chiama «ostacolo espressivo»: «Il principio della prosa è rem tene, verba sequentur, il principio della poesia è verba tene, res sequentur» (Eco 2003: 56).

Prendiamo ora un esempio di testo più articolato: la prosa narrativa; qui è impossibile ricondurre la dominante esclusivamente alla funzione estetica o a quella informativa. La funzione narrativa (informativa) è espletata dalla fabula, la sequenza cronologica degli eventi. Un autore può decidere (e lo fa quasi sempre) di ricostruire la fabula attraverso un racconto che non rispecchia il susseguirsi degli eventi finzionali, e in questo consiste l’intreccio. Basterebbe questo a farci comprendere quanto sia più stratificata la semiosi di un testo in cui fabula e intreccio non coincidono rispetto a quella di un testo puramente informativo. Un testo di questo tipo si chiama «aperto» e il significato di ciascuna delle sue proposizioni dipende tanto dal co-testo quanto dal contesto. Immaginiamo che l’esempio di Eco «Biancaneve ha mangiato la foglia» (Eco 2003: 50) faccia parte di un racconto più articolato; bisogna innanzitutto comprendere il senso letterale della frase per decifrarla, poi individuare le ambiguità tenendone conto nel corso della lettura e riconsiderare il significato di quella proposizione ogni volta che emergono nuovi elementi riconducibili  alle varie ipotesi interpretative.

 

[…] se leggessi che Biancaneve ha mangiato la foglia, probabilmente ricorrerei a un’altra serie di conoscenze enciclopediche in base alle quali raramente gli esseri umani mangiano foglie: di lì darei inizio a una serie di ipotesi, da controllare durante il corso della lettura, per decidere se per caso Biancaneve non sia il nome di una capretta. Oppure – come appare più probabile – attiverò un repertorio di espressioni idiomatiche, e comprenderò che mangiare la foglia è espressione proverbiale che ha un senso diverso da quello letterale (Eco 2003: 50-51).

 

Ma fabula e intreccio non esistono solo nei testi specificamente narrativi. In A Silvia di Leopardi Eco fa notare che la fabula (il poeta è innamorato di una ragazza, sua dirimpettaia, che morirà lasciando il poeta in preda alla nostalgia) non coincide con l’intreccio (il poeta entra in scena quando la ragazza è già morta, e il suo ricordo la fa rivivere nella poesia).

 

Quanto sia da rispettare l’intreccio in una traduzione ce lo dice il fatto che non ci sarebbe traduzione adeguata di A Silvia che non ne rispettasse, oltre alla fabula, anche l’intreccio. Una versione che alterasse l’ordine dell’intreccio sarebbe puro riassunto da bigino per gli esami, che farebbe perdere il senso straziante di quel rimemorare (Eco 2003: 52).

 

Pertanto in un testo è importante individuare i diversi livelli dell’espressione e i diversi livelli del contenuto. Se il traduttore fraintende la dominante, o se un testo viene interpretato in funzione di una sola delle varie dominanti del prototesto, e questa non è quella principale, manipola inevitabilmente la ricezione del testo nella cultura ricevente.

Individuare una funzione prioritaria nel testo di Rabassa non è cosa semplice. Lo scopo informativo è evidente: si tratta di un testo che ha l’obiettivo di definire che cosa significhi «tradurre» alla luce della lunga esperienza dell’autore in questo campo. Il lettore modello deve avere qualche nozione sulla traduzione per comprendere il testo. Anche le citazioni contenute sono piuttosto cólte, spesso implicite e non sempre di immediata comprensione. D’altra parte, è innegabile che questo testo abbia una spiccata vocazione letteraria e che non siamo di fronte a un manuale per addetti ai lavori ma a un testo divulgativo la cui ricerca estetica non è affatto secondaria rispetto al messaggio. Sembra piuttosto un testo che nasce con un intento didascalico e sfrutta a questo scopo moltissimi artifici retorici, primo su tutti l’ironia. Secondo Eco è proprio nella capacità di discernere non solo tra espressione e contenuto, ma anche tra i diversi livelli dell’una e dell’altro, che sta la buona riuscita di una traduzione:

 

Siccome in un testo a finalità estetica si pongono sottili relazioni tra i vari livelli dell’espressione e quelli del contenuto, la capacità di individuare questi livelli, di rendere l’uno o l’altro, (o tutti, o nessuno), e saperli porre nella stessa relazione in cui stavano nel testo originale (quando possibile), si gioca la sfida della traduzione (Eco 2003: 56).

 

1.6.       L’intertestualità come secondo livello di lettura

Per comprendere cosa sia l’intertestualità è utile introdurre il concetto di «semiosfera» di Jurij Lotman e quello di «polisistema» di Even-Zohar. La semiosfera, cioè l’universo della significazione, è un insieme di sistemi in continua evoluzione tra loro nei quali le singole culture interagiscono, arricchendosi; dato che non può esistere un testo che non porti in sé «le tracce della memoria collettiva» (Osimo 2004: 42), i testi nella semiosfera sono sempre intertesti (perché contengono inevitabilmente rimandi o allusioni, anche se impliciti, ad altri testi), e il traduttore, prima ancora di dover decidere come e quanto renderli evidenti nel metatesto, deve saperli decodificare. Il semiotico israeliano Even-Zohar chiama la semiosfera di Lotman «polisistema» e individua al suo interno «alcune leggi che regolano le relazioni tra i singoli sistemi all’interno del polisistema in funzione della loro posizione centrale o periferica e del loro atteggiamento statico o dinamico» (Osimo 2004: 43-44). Il centro del sistema dipende da fattori storici, e in definitiva dall’egemonia culturale di un’area rispetto a un’altra. I sistemi centrali sono meno ricettivi rispetto a quelli perferici perché più autosufficienti, non hanno cioè bisogno di rivolgersi all’esterno per innovarsi. Even-Zohar all’interno del polisistema isola il sistema «testi tradotti». Questo sottosistema, che ha un forte potenziale innovativo dato che si colloca al confine tra le culture e ne permette la comunicazione, acquisisce importanza maggiore o minore a seconda che i sistemi in cui la traduzione viene immessa siano centrali o marginali: «nei sistemi centrali (e quindi conservatori), i testi tradotti sono marginali, mentre nei sistemi periferici (e quindi innovativi) i testi tradotti sono centrali» (Osimo 2004: 44).

Per la decodifica di un testo particolarmente ricco di intertesti, come quello di Rabassa, la difficoltà di riconoscerli è direttamente proporzionale alla loro implicitezza. Ecco i tre parametri di implicitezza – esplicitezza individuati da Osimo:

  1. Presenza di delimitatori
  2. Implicitezza – esplicitezza della fonte
  3. Implicitezza – esplicitezza della funzione

Nella tabella seguente ho catalogato le principali citazioni testo secondo i parametri indicati.

Citazione

Pag.

“ ”

Fonte

Fonte esplicita

Funzione o esplicitazione

The treason done, the traitor is no longer needed

49

Life Is a Dream, Calderon

ü

Compito  del traduttore

Segismundo’s tower

53

No

Life Is a Dream, Calderon

Destino del traduttore che resta anonimo

Since words are only names for things […] to discourse on

53

Gulliver’s Travels, Swift

ü

Paradosso di fare a meno delle parole nella comunicazione

Babel

55

No

Bibbia

Dispersione delle lingue

 

Citazione

Pag.

“ ”

Fonte

Fonte esplicita

Funzione o esplicitazione

Mama Lucy

55

No

Scheletro di Australopithecus afarensis

Lingua originaria

Bouvard and Pécuchet

55

No

Bouvard and Pécuchet, Flaubert

Chi si applica con fervore a tutte le discipline, fino a scoprirne l’incapacità di dare risposte ai misteri del mondo

Say finay

59

No

W. C. Fields

ü

Pronuncia anglicizzata del francese c’est fini

Gregor Samsa

59

No

La metamorfosi, Kafka

ü

Tendenza all’atteggiamento centrifugo di una cultura dominante

Gordian knot

63

No

Leggenda sulla vita di Alessandro Magno

ü

Problema di intricatissima soluzione

Vital reason

63

Ortega y Gasset

ü

Esistenza di un legame di natura dinamica tra l’io e le cose

Alexander’s short sword

65

No

Leggenda sulla vita di Alessandro Magno

ü

Continua la metafora di pag. 63. Strumento per risolvere il problema

Lear

67

No

King Lear, Shakespeare

Importanza dell’umiltà per un traduttore

Old Saul

69

No

Bibbia

Insicurezza

Chico Marx as Chicolin$i

69

No

Duck Soup

ü

Inconsapevolezza infantile

 

Citazione

Pag.

“ ”

Fonte

Fonte esplicita

Funzione o esplicitazione

In the beginning was the Word […] and the Word was God

75

Vangelo secondo Giovanni

ü

Diverse traduzioni di God e Word

William James’s varieties

75

No

The Varieties of Religious Experience, William James

W.  James sostiene che le domande sull’esistenza di Dio siano irrilevanti: «God is not known, he is not understood; he is used» (James: 124)

Our father […] Howard be thy name

75

Vangelo secondo Luca

Ironia su chi interpreta male il nome di Dio

This is something up with which I will not put

85

Winston Churchill

ü

Ironia sull’ipercorrettismo

Les sanglots longs des violons de l’automne

87

Verlaine

ü

Esempio del legame tra suoni e cultura

It is too much with us

91

No

Wordsworth

Condanna all’approssimazione tipica di quest’epoca

 

Il primo parametro è il più semplice da analizzare. Si è trattato di riportare quelle parti di testo che figurano tra virgolette. Sono le citazioni più facili da individuare proprio perché graficamente riconoscibili, e anche se il lettore del metatesto non le comprende immediatamente, certamente le identifica in quanto citazioni e può rivolgersi ad altre risorse per capirne con una certa sicurezza almeno la fonte. In qualche caso, la fonte è già esplicitata all’interno del testo originale, facilitando ulteriormente il compito di chi legge. Qui il residuo dovrebbe essere piuttosto limitato, e in ogni caso l’intertesto non dovrebbe precludere la comprensione del testo. Molte delle citazioni di Rabassa sono esplicite da questi punti di vista, anche se spesso questo non basta per rendere evidente la loro funzione all’interno del testo, ma è fuor di dubbio che l’esplicitezza della fonte rende quanto meno la citazione trasparente. Ci sono casi in cui invece il rinvio non è trasparente (o almeno, non lo è per la cultura del traduttore). Secondo Eco, a volte le citazioni sono inviti aperti da parte dell’autore a cercare un rinvio equivalente nella propria cultura. Altre volte, se il traduttore non coglie il rinvio ed è l’autore che lo invita a sottolinearlo, allora:

 

(i) o l’autore ritiene che alcuni lettori possono essere più competenti dei traduttori, e invita questi ultimi a indirizzarli nel modo giusto, (ii) o l’autore sta giocando una partita disperata, in cui il testo è più ottuso di lui, e tuttavia non si vede perché i suoi affezionati traduttori non debbano compiacerlo, lasciandogli l’illusione che almeno un lettore tra un milione sia disposto a cogliere la strizzata d’occhio (Eco 2003: 215).

 

Rabassa probabilmente – facendo ciò che su un calco anglosassone si chiama «ironia ipertestuale», e cioè citando all’interno di un testo un altro testo senza darlo a vedere, in modo inatteso (ironically, appunto) – prevede una doppia lettura per suo mémoire, che può ottenere anche un successo popolare proprio perché può essere letto sia in modo ingenuo, senza cogliere i rinvii intertestuali, sia con maggiore consapevolezza. Si tratta di una doppia possibilità di lettura che dipende dalla consapevolezza enciclopedica del lettore:

 

(i) Il lettore ingenuo, che non individua la citazione, segue lo stesso lo svolgersi del discorso e dell’intreccio come se ciò che gli viene raccontato fosse nuovo e inaspettato (e pertanto, dicendogli che un personaggio trafigge un arazzo gridando un topo!, anche senza individuare il rinvio shakespeariano, può godere di una situazione drammatica ed eccezionale); (ii) il lettore colto e competente individua il rinvio, e lo sente come citazione maliziosa (Eco 2003: 213).

 

È bene ricordare che questo non è sempre vero: un’opera può abbondare in citazioni di testi altrui senza essere un esempio di ironia intertestuale. Ci sono casi in cui il lettore incolto può, certo, apprezzare il testo per il ritmo o per il suono, ma non cogliere i riferimenti significherebbe perderne il senso più importante e «godere del testo come chi origli da una porta socchiusa, cogliendo solo parte di una promettente rivelazione» (Eco 2003: 215).

L’ultima colonna della tabella riguarda l’esplicitezza della funzione della citazione. Il problema è capire quale sia la relazione tra la citazione e la cultura ricevente. A seconda della relazione possono verificarsi queste situazioni:

  • Il motivo per cui la citazione viene fatta è evidente a tutti
  • Il motivo per cui la citazione viene fatta è evidente solo all’interno della cultura emittente
  • Il motivo per cui la citazione viene fatta è evidente solo all’autore

Per concepire una strategia traduttiva adatta è necessario capire che tipo di citazione è presente nel testo.

Nel primo caso il traduttore non deve preoccuparsi di nulla, il rinvio è così trasparente che l’unica cosa sensata da fare è mantenerlo anche nella traduzione.

Sono gli altri due casi che aprono le sfide maggiori per un traduttore. In questi casi, la memoria testuale del traduttore è estremamente importante per garantire al lettore del metatesto la possibilità di cogliere gli intertesti presenti nell’originale. Ma anche il lettore è dotato di memoria testuale, e secondo Osimo «è a questi che si può delegare la decodifica degli intertesti che risultano impliciti, ma comprensibili, sia nell’originale che nella traduzione» (Osimo 2004: 42). In altre parole, esplicitare ciò che nel testo originale è implicito non rientra nei compiti di un traduttore. Per contro:

 

Tutta l’opera di addomesticamento che il traduttore non compie, è strada in più che deve essere percorsa dal lettore, e perciò, a seconda di quanto il lettore modello della cultura ricevente venga considerato capace e attrezzato per affrontare la realtà del mondo altro, il traduttore sarà nei suoi confronti più o meno paternalista, producendo un testo più o meno ghiotto di novità, più o meno liscio, scorrevole. Un testo è scorrevole non soltanto quando la sintassi e il lessico sono consueti, ma anche quando gli elementi culturali che vi si incontrano sono familiari (Osimo 2004: 56).

 

Ma come ci si deve comportare nel caso in cui il motivo per cui una citazione viene  fatta è evidente presumibilmente solo all’interno della cultura emittente o addirittura solo all’autore? Ecco un esempio estratto dal testo di Rabassa che ho tradotto:

 

Although the French sound of lingerie is not too difficult to reproduce fairy closely in English, most people will plusquam it into a hyper-Gallic lahnjeray, a sound worthy of W. C. Fields and his say finay [grassetto aggiunto].

 

Con una breve ricerca si risale facilmente a chi sia stato W.C. Fields, nome d’arte di William Claude Dukenfield (29 gennaio 1880 – 25 dicembre 1946), comico e attore statunitense. Il contesto in cui è inserita la citazione e qualche notizia in più sulla sua carriera permettono di stabilire che (forse) quel say finay non è altro che un tentativo di riportare la pronuncia all’americana dell’espressione francese c’est fini. Si tratta solo di un’ipotesi probabile. Se la citazione non è così memorabile per un lettore americano (visto che non ve n’è traccia on-line), meno ancora lo sarà per il lettore modello italiano del metatesto. Il traduttore dovrà trovare nell’apparato metatestuale lo spazio adeguato per rendere note al lettore queste considerazioni.

Un altro esempio può essere utile per evidenziare la difficoltà di inserire una citazione che l’autore fa velatamente nell’originale, quella che Eco chiama una «strizzata d’occhio al possibile lettore competente» (Eco 3003: 214), in un metatesto all’interno del quale non potrà che essere in qualche modo smascherata. Eccone la prova:

 

What makes translation seem so possible is that we live in a world of similarities and it is too much with us [grassetto aggiunto].

 

Il sospetto che l’ultima parte della frase potesse nascondere una citazione è nato dal risultato piuttosto insensato di una prima traduzione linguistica del passaggio. Una ricerca on-line mirata a verificare se si trattasse di un modo di dire o di una frase fatta mi ha immediatamente indirizzato sulla strada giusta, facendomi capire che mi trovavo di fronte a una citazione della poesia omonima di William Wordsworth. Questa citazione potrebbe passare del tutto inosservata per il lettore del prototesto, che se la individua può fruire dell’ironia ipertestuale prevista dall’autore, ma la sua lettura può proseguire senza ostacoli né rallentamenti anche se il rinvio non viene colto. Ma questo non è vero per il lettore del metatesto, che è costretto a fare i conti con l’effetto straniante della citazione che non può che essere riportata in inglese (non essendo stata mai tradotta autorevolmente). Il rinvio non potrà in alcun modo passare inosservato, ed è bene che il traduttore si preoccupi di informare il lettore che si tratta di una citazione, specificandone l’autore. Solo con una spiegazione metatestuale il lettore del metatesto potrà fruire di una traduzione adeguata e potrà stabilire un contatto autentico con la cultura da cui proviene il testo.

1.7.       Cultura più specificante  versus cultura meno specificante: le diverse delimitazioni dello spettro cromatico

Per stabilire con sicurezza se un enunciato A, it’s raining, sia equivalente a un enunciato B, espresso in un’altra lingua, piove, dovremmo poter esprimere quell’enunciato in una lingua C neutra rispetto alle altre due che serva da parametro. Esclusa la possibilità che esista una «situazione ideale» in cui al centro del processo traduttivo ci sia un oggetto concreto (o che esista una lingua naturale così flessibile da poter essere detta perfetta tra tutte), bisogna fare i conti con il fatto che al centro della mediazione ci sono due segni:

 

La struttura profonda universale [ipotizzata da Chomsky] non esiste, perché ogni lingua influenza il modo in cui viene catalogata la realtà, ogni cultura influenza il modo in cui funziona una lingua e ogni parlante ha un suo modo di esprimere uno stesso contenuto oggettivo (Osimo 2001: 41).

 

Il traduttore allora non può che partire dal segno del prototesto per scegliere un suo corrispettivo nel metatesto. Ma perfino per un semplicissimo enunciato a funzione denotativa è inevitabile incappare nell’obiezione del Terzo Uomo:

 

Per tradurre un testo A, espresso in una lingua Alfa, nel testo B, espresso in una lingua Beta (e dire che B è una traduzione corretta di A, ed equivalente per significato ad A), dovremmo confrontarci a un metalinguaggio Gamma e quindi decidere in che senso A è equivalente in significato a Γ espresso in Gamma. Ma per fare questo occorrerebbe un nuovo meta-metalinguaggio delta, tale che A sia equivalente a Δ espresso in Delta, e poi un meta-meta-metalinguaggio Ypsilon, e così all’infinito (Eco 2003: 348).

 

Il traduttore, costretto a scegliere un solo traducente, ne sceglierà uno con uno spettro semantico parzialmente sovrapponibile a quello del segno del prototesto, ma che certamente ricoprirà nella cultura ricevente anche significati diversi, non tutti previsti dall’autore del prototesto. Alcune culture infatti sono più specificanti di altre in una determinata sfera, e questo dà luogo a traduzioni più vaghe o riduttive (nel caso di traduzione da una cultura meno specificante a una più specificante) o ridondanti, quando la traduzione va nella direzione opposta. D’altra parte, Eco sottolinea che:

 

[…] se le diverse organizzazioni linguistiche possono apparire mutuamente incommensurabili, esse rimangono peraltro comparabili. […] Siamo stati ricattati per anni dalla notizia che gli eschimesi hanno diversi nomi per individuare, a seconda dello stato fisico, quella che noi chiamiamo neve. Ma poi si è concluso che gli eschimesi non sono affatto prigionieri della loro lingua, e capiscono benissimo che quando noi diciamo neve indichiamo qualcosa di comune a ciò che essi chiamano in vari modi. D’altra parte, il fatto che un francese usi la stessa parola, glace, per indicare sia il ghiaccio che il gelato, non lo porta a mettere cubetti di gelato nel proprio whisky (Eco 2003: 351).

 

Se la traduzione interlinguistica dà buoni risultati quando abbiamo a che fare con situazioni che concernono «stati fisici o azioni che dipendono dalla nostra struttura culturale» (Eco 2003: 352), diventa più complicato esprimere concetti che in altre culture non hanno un nome semplicemente perché “non esistono”. Il testo di Rabassa suggerisce un esempio particolarmente calzante e altrettanto quotidiano per poter affrontare questo aspetto della traduzione: i colori.

Si legge infatti a pagina 91: «Columbia’s blue can never reproduce Yale’s, yet both are blue and have a great many cultural concomitants in common» (Rabassa: 2005: 20).

La prima questione che il traduttore deve risolvere è capire di che colori si tratta, visto che con ogni probabilità a un traduttore italiano questi colori non dicono granché; la ricerca on-line di Yale blue rinvia immediatamente al sito della Yale University che dedica una sezione esclusivamente alla descrizione di questo colore e agli usi a cui deve essere destinato. Si tratta del colore distintivo dell’università: «Yale Blue should be used as a spot color for official stationery, banners and signage, brochures, and single-color publications». La pagina è corredata di un riquadro colorato che permette di capire a tutti gli effetti di che colore si sta parlando (del resto, basta consultare il sito della Yale University per ritrovarlo ovunque). Il referente di questo colore per chi ha una certa familiarità con l’università è evidente, per un lettore italiano invece potrebbe non rappresentare assolutamente niente.

Il significato di «Columbia’s blue» non è più chiaro. Procedendo allo stesso modo arriviamo a vedere di che colore si tratta, a capire che è il colore distintivo della Columbia University, ma non a trovare una soluzione traduttiva che renda giustizia tanto agli impliciti culturali che questi due «blue» portano con sé quanto all’esigenza di chiarezza nei confronti del lettore del metatesto (tanto più che Rabassa utilizza questi colori come esempio lampante di tonalità di «blue» tra loro diverse). È come se un italiano descrivesse un colore come «blu Inter». Anche se si tratta di una nomenclatura che non esiste, il lettore italiano non sarebbe turbato se leggendo la incontrasse, e l’idea di questo colore che formulerà un lettore di Torino sarà con ogni probabilità molto simile a quella che si farà un lettore di Agrigento, proprio perché ci troviamo di fronte a uno di quei rari casi in cui gli interpretanti di un lettore saranno verosimilmente molto simili a quelli di un altro lettore che appartiene allo stesso contesto culturale (nazionale, in questo caso) e il segno verbale «blu Inter» ha ottime probabilità di essere decifrato immediatamente e in modo corretto. La stessa nomenclatura potrebbe risultare completamente oscura per un lettore straniero poco interessato al calcio italiano o che non conosca i colori sociali dell’Inter. Probabilmente parlare a un americano di «blu Inter» è come parlare a un italiano di «Yale’s blue» o di «Columbia’s blue»: non veicola un messaggio preciso.

Una soluzione, che andrebbe nella direzione del lettore, potrebbe essere trasformare gli elementi di cultura altrui in elementi di cultura propria del lettore, lasciando il lettore ignaro della naturalizzazione compiuta: ecco un esempio di ciò che Toury chiama traduzione «accettabile». Si potrebbe procedere in questo modo: accostare le tavole con le principali gradazioni di blu e la loro nomenclatura in entrambe le lingue e selezionare degli omologhi per ciascuno dei due colori. Certo, questo procedimento oltre a non rispettare l’esotismo del testo originale va anche a scapito della precisione, ma con una certa approssimazione si può affermare che allo «Yale’s blue» corrisponde il nostro blu notte, mentre il «Columbia’s blue» è quello che noi chiamiamo semplicemente «azzurro». In definitiva, la scelta del traducente è una questione di negoziazione tra traduttore, autore e lettore.

In ogni caso, questo esempio ci conferma che:

 

(i) Esistono segmentazioni diverse del continuum spettrale e (ii) non esiste pertanto una lingua universale dei colri; tuttavia (iii) non è impossibile la traduzione da un sistema di segmentazione all’altro: […] abbiamo fatto riferimento a un parametro di riferimento, che è la divisione scientifica dello spettro, e in tal senso abbiamo certamente manifestato un certo etnocentrismo – ma in effetti abbiamo fatto l’unica cosa che potevamo fare, e cioè partire dal noto per arrivare a comprendere l’ignoto (Eco 2003: 362).

 

Ma la questione si complica, al punto che se traducessimo in questo modo provocheremmo una contraddizione in termini all’interno del testo tradotto. Ecco come sarebbe la traduzione del breve passaggio di Rabassa utilizzando questi traducenti: «L’azzurro non potrà mai riprodurre il blu notte, eppure entrambi sono blu e hanno molte concomitanze culturali». Innanzitutto è evidente che dire che l’azzurro è blu è un controsenso e il valore didascalico dell’esempio è perso. Visto che i linguaggi naturali non sono isomorfi e non esiste la corrispondenza reciproca biunivoca dei segni, è anche impossibile pensare al concetto di «equivalenza linguistica automatica» «blue» = blu, quando i traducenti di «blue» in italiano si distinguono in «blu», «azzurro» e «celeste», dal più scuro al più chiaro. Il che darebbe luogo ad assurdi, come quello descritto da Osimo:

 

Pensiamo all’esempio dei caschi “blu”. Chiunque abbia visto alla televisione le truppe dell’ONU sa che hanno il casco azzurro o celeste, ma di certo non blu. Si tratta certamente di una traduzione dall’inglese o dal francese che non ha tenuto conto della differenza di campo semantico (e spettro cromatico) e nemmeno del colore del casco (Osimo 2001: 59).

 

Non resta che propendere per la soluzione che Eco chiama «source oriented» (Eco 2003: 364) e far sentire al lettore lo straniamento di un mondo cromatico diverso dal proprio, mantenendo in traduzione Yale blue e Columbia blue e dedicando qualche riga all’interno dell’apparato di note alla spiegazione del processo traduttivo che ha portato alla scelta di questi traducenti.

1.8.       I realia: esempi e soluzioni traduttive

In traduttologia i realia, dall’aggettivo sostantivato latino che significa «le cose reali», sono «le parole che denotano cose materiali culturospecifiche» (Osimo 2004: 63). I ricercatori bulgari Vlahov e Florin ne danno questa definizione, che riporta Osimo:

 

[…] parole (e locuzioni composte) della lingua popolare che costituiscono denominazioni di oggetti, concetti, fenomeni tipici di un ambiente geografico, di una cultura, della vita materiale o di peculiarità storico-sociali di un popolo, di una nazione, di un paese, di una tribù. E che quindi sono portatrici di un colorito nazionale, locale o storico; queste parole non hanno corrispondenze precise in altre lingue (in Osimo 2004: 64).

 

Il problema della loro traduzione si inserisce nell’ambito più vasto della traducibilità culturale e rappresenta uno dei cardini su cui si costruisce una strategia traduttiva. Alle estremità del continuum delle loro possibilità traduttive ci sono «la sostituzione con un omologo locale del fenomeno della cultura emittente (“art nouveau” come resa francese di Jugendstil)», che colloca prepotentemente la traduzione nell’ambito dell’accettabilità e la «trascrizione (o traslitterazione se la parola originaria è di alfabeto diverso da quello della cultura ricevente) carattere per carattere» (Osimo 2004: 64), che invece fa andare la traduzione nella direzione opposta, quella dell’adeguatezza. Ma questi sono solo i due estremi del continuum di possibilità a disposizione di un traduttore; come fare a scegliere la strategia più adatta? Visto che non esiste una regola assoluta, è utile esaminare qualche esempio estratto dal testo di Rabassa e procedere all’analisi delle scelte caso per caso. La tabella illustra nella prima colonna l’esempio estratto dal testo originale, nella seconda colonna ho riportato le pagine di riferimento delle citazioni, nella terza le definizioni tratte dai dizionari, nella quarta il nome dei dizionari di riferimento e nella quinta una proposta di soluzione traduttiva, secondo i criteri individuati da Osimo (Osimo 2004: 64-65).

 

 

Esempio

Pag.

Definizione

Fonte

Soluzione

Felony

61

1: One of several grave crimes, such as murder, rape, or burglary, punishable by a more stringent sentence than that given for a misdemeanor.

2: Any of several crimes in early English law that were punishable by forfeiture of land or goods and by possible loss of life or a bodily part.

The American Heritage (2000)

Esplicitazione

Misdemeanor

61

A crime less serious than a felony.

Merriam-Webster (2000)

Esplicitazione

Walking the perp

61

The deliberate escorting of an arrested suspect by police in front of reporters and television cameras, especially as a means of pressuring or humiliating the suspect.

The free dictionary (2009)

Traduzione contestuale

The Village

71

Section of New York City in Manhattan on lower W side.

Merriam-Webster (2000)

Trascrizione

A good-time Charley

77

An affable, sociable, pleasure-loving man.

Dictionary.com (2006)

Trascrizione

A Johnny-come-lately

77

1: A late or recent arrival: newcomer

2: upstart <established families tend to hold themselves above the Johnny-come-latelies — William Zeckendorf †1976>

Merriam-Webster (2000)

Trascrizione

[Go to the] John

77

Informal, a toilet or bathroom.

Dictionary.com (2006)

Trascrizione

 

«Felony» e «misdemeanor» non hanno omologhi negli ordinamenti giuridici di Civil law. Il dizionario inglese-italiano (Garzanti 2009) propone il traducente «fellonia», che però copre solo parzialmente lo spettro semantico di «felony»; nello specifico, il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli definisce «fellonia» in questo modo: «‹fel·lo·nì·a› s.f. 1. Nel mondo feudale, il delitto di tradimento della fede giurata dal vassallo al signore. 2. Estens. (arc.). Perfidia, scelleratezza. [Der. di fellone]» (Devoto, Oli 2000).

Ecco la controprova del fatto che le accezioni di «felony» e «fellonia» non solo non si sovrappongono completamente, ma l’accezione di «felony» utilizzata nel testo originale non figura tra nessuna di quelle di «fellonia». La sola possibilità che resta al traduttore che voglia collocare la sua traduzione nell’ambito dell’adeguatezza è di mantenere «felony» nel metatesto. Considerando però il tipo di testo e il tenore del riferimento intertestuale, ho ritenuto più efficace esplicitarne il contenuto («grave crimine»), perdendo il rimando culturospecifico a vantaggio della conservazione della metafora che altrimenti non sarebbe risultata altrettanto immediata per il lettore del metatesto.

Per la traduzione di «misdemeanor» vale lo stesso ragionamento. Anche questo crimine non ha un equivalente nel nostro ordinamento giuridico e al traduttore non resta che adottare le stesse scelte traduttive operate per «felony». Nella mia traduzione «misdemeanor» è stato reso con «reato minore».

Il «perp walk», dove «perp» sta per «perpetrator», e cioè «someone who has committed a crime, or a violent or harmful act», è definito come «the deliberate escorting of an arrested suspect by police in front of the news media, especially as a means of pressuring or humiliating the suspect» (The American Heritage 2000). Rabassa fa rifermento alla pratica diffusa in America di far sfilare pubblicamente gli arrestati davanti ai cittadini e ai media al fine di richiamare tutti alle umiliazioni a cui si va incontro quando si viola la legge. Si tratta anche qui di un elemento culturospecifico che non ha equivalenti in Italia (e quindi neppure in italiano). Questa volta, per coerenza con le scelte precedenti relative alla metafora estesa del “traduttore criminale”, ho scelto una traduzione contestuale («mettere alla berlina») che permettesse di convogliare l’ironia che Rabassa intendeva conferire al passaggio a scapito del riferimento preciso alla legge americana. «Mettere alla berlina» o «mettere alla gogna», nel loro significato figurato si avvicinano molto a «walk the perp», ma la differenza sostanziale è che per un americano la locuzione rimanda a una prassi diffusa e legalizzata, mentre l’italiano fa riferimento a una pena di origine barbarica in uso fino al XIX secolo, della quale oggi è rimasta solo l’accezione figurata di «esporre allo scherno generale» (Devoto, Oli 2000). In altre parole, la scelta di mantenere invariati questi realia avrebbe creato un esotismo nel metatesto che nel prototesto non c’era (fatto di per sé normale, trattandosi di una traduzione), ma avrebbe anche avuto la conseguenza di spostare il focus della metafora dall’ironia all’esotismo.

Quando Rabassa descrive brevemente la sua infanzia parla del «Village». Anche la geografia è un elemento culturospecifico, ma in questo caso il lettore italiano ha dalla sua il fatto che la cultura americana impregna di sé molta della cultura italiana. I riferimenti al «Village» sono così frequenti – basti pensare al cinema, alla televisione o alla musica – che non si rende necessario neppure chiarire di cosa si tratta.

L’ultima scelta traduttiva che ho dovuto affrontare nella resa dei realia è stata quella dei soprannomi. Rabassa cita alcuni soprannomi in un passaggio del suo libro proprio per sottolineare il fatto che questi veicolano sempre delle sfumature culturali. Vista la funzione di esempio a cui sono stati destinati ho scelto di mantenere anche nel metatesto i soprannomi così come figurano nell’originale. Per completezza si potrebbe decidere di aggiungere una nota in cui vengano tradotti letteralmente i soprannomi per mostrare al lettore italiano la logica con cui sono stati costruiti, insieme all’esplicitazione del loro contenuto. L’effetto di straniamento è evidente soprattutto nell’ultimo caso, «go to the John». L’originale dice: «For purposes of evacuation we go to the John». Rabassa fa ancora una volta appello all’ironia utilizzando il termine «evacuation» nella sua accezione più “dissacratoria”, che ho interpretato, alla luce di quanto scritto in altre pagine del suo libro, come una sorta di condanna al diffuso “perbenismo” della società contemporanea. Nella mia traduzione ho preferito rinunciare a questa sfumatura esplicitando la locuzione «for purposes of evacuation» in «per andare in bagno», “appiattendo” lo stile dell’autore in modo che al lettore italiano fosse immediatamente chiaro il significato veicolato da quel soprannome. In altre parole, ai fini della comprensione per il lettore del prototesto la spiegazione del significato del soprannome sarebbe stata solo accessoria e ridondante, mentre diventa ben più importante per il lettore del metatesto.

1.9.       L’impossibilità di capire e trasporre tutto

Alla luce di tutte le considerazioni fatte fin qui, propongo uno schema che mette in evidenza la posizione del tutto particolare del traduttore nella comunicazione scritta nel caso di un testo tradotto.

 

Autore empirico cultura emittente > Autore modello cultura emittente > Testo cultura emittente > Lettore modello cultura emittente > Lettore esempio cultura emittente = Traduttore = Autore empirico cultura ricevente > Autore modello cultura ricevente > Testo cultura ricevente > Lettore modello cultura ricevente > Lettore empirico cultura ricevente (Osimo 2004: 45; neretto aggiunto).

 

Come sottolinea Osimo «la centralità grafica della posizione del traduttore – collocato tra due impegnativi segni di uguaglianza – corrisponde alla sua centralità operativa» (Osimo 2004: 45). La sua responsabilità nei confronti del lettore del metatesto è tanto più grande quanto più le ipotesi inferenziali che compie nel corso della traduzione determinano scelte traduttive che restringono il campo delle possibili ipotesi interpretative del lettore. In questo modo il traduttore assume su di sé il ruolo che lo scrittore del prototesto affida invece al suo lettore modello. Ma il traduttore è anche autore del metatesto, e pertanto acquisisce anche tutte le responsabilità dell’autore. Se è condivisibile affermare che in un certo senso «ogni traduzione è una traduzione scorretta (mistranslation)», come suggerisce Osimo sulla scorta della logica di Harold Bloom, secondo cui «ogni lettura è una lettura scorretta (misreading)» perché altro non è che il desiderio inconscio di ogni autore di eclissare i suoi precursori, concordo nel concludere che il fenomeno della mistranslation

 

«[…] non è legato necessariamente a un desiderio inconscio, quanto a un’impotenza di cui siamo del tutto consapevoli: è impossibile capire tutto ciò che un autore vuole trasmettere con il suo testo, ed è impossibile trasporre tutto ciò che si è capito in un alta lingua, lasciando al lettore le stesse possibilità di comprensione/incomprensione e interpretazione presenti nell’originale. Si ha comunque un residuo. L’importante è tenerne conto» (Osimo 2004: 40).

 

Concetto, questo, non molto diverso da quanto espresso da Rabassa a conclusione del terzo capitolo di If this be treason, «Stringing words together by culture», l’ultimo da me tradotto: «Translation may be impossible, but it can at least be essayed» (Rabassa 2005: 21).

1.10.   Alcune note biografiche su Gregory Rabassa

Gregory Rabassa nasce a Yonkers (New York) nel 1922 da padre cubano e madre statunitense. Cresciuto nel New Hampshire, frequenta la Dartmouth University alla facoltà di lingue romanze dove studia portoghese, russo e tedesco. Nel 1942 parte come volontario dell’esercito per il Nord Africa e l’Italia, e grazie alle sue competenze linguistiche entra a far parte dell’Office of Strategic Services con l’incarico di decifrare i codici segreti militari. È questo, in un certo senso, l’inizio della sua carriera di traduttore (Bast 2004). Tornato negli Stati Uniti, nel 1947 ottiene un master in letteratura spagnola e nel 1954 consegue il dottorato presso la Columbia University con la tesi The Negro in Brazilian Fiction since 1988 (Rivera 2003). Dopo la laurea lavora come redattore per Odyssey Rewiew, una rivista letteraria dedicata alla nuova letteratura europea e latinoamericana. Occupandosi lui stesso di alcune traduzioni destinate alla pubblicazione sulla rivista, ha l’opportunità di tradurre Rayuela, un romanzo sperimentale dello scrittore argentino Cortázar che gli fa vincere il primo National Book Award per la traduzione nel 1967. È proprio su suggerimento di Cortázar che Garcia Márquez sceglie Rabassa per tradurre in inglese il suo capolavoro Cent’anni di solitudine. Da quel momento Rabassa lavora incessantemente: ad oggi ha tradotto più di sessanta opere, di una trentina di autori provenienti da dodici paesi diversi, tra cui il Premio Nobel Miguel Ángel Asturias (Deresiewicz 2005). Dal 1968 insegna presso il Queens College di New York e oggi è Distinguished Professor of Hispanic Languages and Literatures. Il 9 novembre 2006 riceve la National Medal of Arts, la più alta ricompensa per meriti artistici, consegnata dal presidente George W. Bush a nome del popolo degli Stati Uniti nello Studio Ovale della Casa Bianca (Queens college 2009).

 


1.11.   Riferimenti bibliografici

 

Bast, A. (2004). «A translator’s long journey, page by page». New York Times, 25 maggio, disponibile in internet al sito www.nytimes.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Deresiewicz, W. (2005). «The interpreter». New York Times, 15 maggio, disponibile in internet al sito www.nytimes.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Devoto, G. e Oli, G. a cura di (2000). Il dizionario della lingua italiana, Firenze: Le Monnier.

 

Dictionary.com (2006). Dictionary.com unabridged, based on the Random House Unabridged Dictionary, Random House, disponibile in internet al sito www.dictionary.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Eco, U. (2003). Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano: Bompiani.

 

Garzanti Garzanti (2009), Dizionario di italiano Garzanti, disponibile in internet all’indirizzo www.garzantilinguistica.it, consultato nell’ottobre 2009.

 

Gray, P. (1988). «Books: bridge over cultures». Time, 11 luglio, disponibile in internet al sito www.time.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Margolis, M. (2005). «Flirting with treason». Newsweek, 9 maggio, disponibile in internet all’indirizzo www.newsweek.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Merriam-Webster (2000). Merriam Webster’s online dictionary, Springfield (MA): Merriam-Webster. disponibile in internet all’indirizzo www.merriam-webster.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Nergaard, S. a cura di (1993). La teoria della traduzione nella storia. Milano: Bompiani.

 

Osimo, B. (2001). Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano: Hoepli.

 

Osimo, B. (2004). Manuale del traduttore: guida pratica con glossario, Milano: Hoepli.

 

Queens College (2009). «Professor Gregory Rabassa, translator of Latin American literature, receives national medal of arts». News Releases – QC Queens College, disponibile in internet all’indirizzo www.qc.cuny.edu, consultato nell’ottobre 2009.

Rabassa, G. (2005). If this be treason: translation and its dyscontents, New York: New Directions.

 

Rivera, L. (2003). «The translator in his labyrinth». Fine books & collections magazine, luglio/agosto, disponibile in internet all’indirizzo www.finebooksmagazine.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

The American Heritage (2000). The American Heritage Dictionary of the English Language, Boston: Houghton Mifflin, disponibile in internet all’indirizzo www.education.yahoo.com/reference/dictionary/ consultato nell’ottobre 2009.

 

The free dictionary (2009), The free dictionary, disponibile in internet all’indirizzo www.thefreedictionary.com, consultato nell’ottobre 2009.

Torop, P. (2010) [2009]. La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, Milano: Hoepli.

 

 

 

 

 

 

 

  1. Traduzione con testo a fronte


Gregory Rabassa: If this be treason. La gestione del residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

 

Gregory Rabassa

New Directions, US

If this be treason. Translation and its dyscontents 2005 pp. 3-21

I

The  Many  Faces  of  Treason

 

 

Commonplaces may come and go, but one that has held forth over the years to the dismay and discouragement of translators is the Italian punning canard traduttore, traditore (translator, traitor), leading one to believe that the translator, worse than an unfortunate bungler, is a treacherous knave. Before copping a plea and offering a nolo contendere, let me see wherein this treason lies and against whom. Then we translators can withdraw once more into that limbo of silent servitors, for, as Prince Segismundo says at the end of Calderon’s Life Is a Dream when he awards his liberator the tower where he had been imprisoned, “The treason done, the traitor is no longer needed.”

 

Gregory Rabassa: If this be treason. La gestione del residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

 

Gregory Rabassa

New Directions, US

If this be treason. Translation and its dyscontents 2005 pp. 3-21

I

le  molte  facce  del  tradimento

 

 

I Luoghi comuni vanno e vengono, ma uno che ha tenuto banco nel tempo provocando lo sgomento e lo sconforto dei traduttori è il maligno gioco di parole italiano traduttore, traditore, che porta a credere che il traduttore, più che uno sventurato pasticcione, è un traditore senza scrupoli. Prima di dichiararmi colpevole e di presentare un’istanza di nolo contendere, fatemi vedere dove risiede e contro chi è questo tradimento. Dopo di che noi traduttori possiamo ritirarci ancora una volta in quel limbo di servitori silenti perché, come dice il Principe Sigismondo alla fine di La vita è sogno di Calderón quando dà come ricompensa al suo liberatore la torre in cui era stato imprigionato, «el traidor no es menester siendo la traicion pasada».

 

Let us submit the practice of translation to a judicial enquiry into its various ways and means and in this display seek out the many varieties of betrayal which might be inherent to its art. I say art and not craft because you can teach a craft but you cannot teach an art. You can teach Picasso how to mix his paints but you cannot teach him how to paint his demoiselles. There are many spots where translation can be accused of treason, all inevitably interconnected in such diverse ways that an overall view is needed to reveal the many facets of the treason the Italians purport to see.

The most elemental of these will be betrayal of the word, for the word is the very essence of language, the metaphor for all the things we see, feel, and imagine. Out of this we also have a betrayal of language, in both directions (I try to avoid the jargon of “target language”; I am an old infantryman, and we dogfaces were taught to shoot at a target and, ideally, kill it). Languages are the products of a culture, or perhaps the reverse as some bold anthropologist might have it. Treason against a culture will therefore be automatic as we betray its words and speech as well as assorted other little items along the way.

Then we come to personal betrayals, those against the peo­ple involved in the act of translation. The first victim is, of course, the author we are translating. Can we ever make a different-colored done?……

 

Sottoponiamo a un’inchiesta giudiziaria la pratica della traduzione nei suoi molteplici aspetti e metodi, e in questa dimostrazione cerchiamo di scovare le molte varietà di tradimento che potrebbero avere attinenza con quest’arte. Dico arte e non abilità perché si può insegnare un’abilità ma non un’arte. Si può insegnare a Picasso come mischiare i colori ma non gli si può insegnare come dipingere le sue demoiselles. Ci sono molti ambiti in cui la traduzione può essere accusata di tradimento, tutti inevitabilmente correlati in modi così diversi che è necessaria una visione d’insieme per rivelare le molte facce del tradimento che gli italiani sostengono di vedere.

Il più elementare sarà il tradimento della parola, perché la parola è la vera essenza della lingua, la metafora di tutto ciò che vediamo, sentiamo e immaginiamo. Oltre a questo abbiamo anche un tradimento della lingua, in entrambe le direzioni (cerco di evitare il gergo di target language; sono un ex fante, e a noi soldati di fanteria insegnavano a sparare a un target, un bersaglio, e, in teoria, ucciderlo). Le lingue sono prodotti di una cultura, o forse è il contrario, come alcuni arditi antropologi sembrano sostenere. Il tradimento di una cultura sarà quindi automatico se oltre a tradire le sue parole e il suo discorso tradiamo contemporaneamente anche altri piccoli elementi.

Veniamo poi ai tradimenti personali, quelli contro chi è coinvolto nell’atto di tradurre. La prima vittima è, naturalmente, l’autore che stiamo traducendo. Potremo mai fare un clone di un un

 

clone of what he (read he/she, as in a U.N. document) has done? Can we ever feel what the author felt as he wrote the words we are transforming? As we betray the author we are automatically betraying our variegated readership and at the same time we are passing on whatever bit of betrayal the author himself may have foisted on them in the original (unless we have left it out on some Frosty morning along with the poetry). Lastly and most subtly we betray ourselves. We will sacrifice our best hunches in favor of some pedestrian norm in fear of betraying the task we were set to do. The facelessness imposed on the translator, so often thought of as an ideal, can only mean incarceration in Segismundo’s tower in the end. This last betrayal must stand before all the treasons here delineated as the most foul.

Words are treacherous things, much moreso than any translator could ever be. As is obvious, words are mere metaphors for things. This is shown by the biting episode in Part III of Gulliver’s Travels where the traveler reaches the city of Lagado and visits the Grand Academy. Here Dean Swift has the Projectors explain a plan to save our lungs by doing away with words in oral communication, “since words are only names for things, it €would be convenient for all men to carry about them such things as were necessary to express the particular business they are to discourse on.” This solution, along

 

altro colore di quello che lui (leggi lui/lei, come in un documento dell’ONU) ha fatto? Potremo mai sentire quello che sentiva l’autore mentre scriveva le parole che stiamo trasformando? Quando tradiamo l’autore tradiamo automaticamente il nostro pubblico variegato e allo stesso tempo  gli deleghiamo anche il più piccolo tradimento che l’autore stesso potrebbe avergli rifilato nell’originale (se non lo omettiamo come succede in qualche mattino di gelo insieme alla poesia). Ultimo e più sottile dei tradimenti, quello contro noi stessi. Sacrificheremo le nostre intuizioni migliori a favore di qualche norma pedestre nel timore di tradire il compito che ci è stato assegnato. L’anonimato imposto al traduttore, così spesso ritenuto un principio intoccabile, alla fine può solo portare alla carcerazione nella torre di Sigismondo. Quest’ultimo tradimento deve venire prima di tutti i tradimenti fin qui delineati perché è il più sporco.

Le parole sono cose subdole, ancora più di quanto possa esserlo qualunque traduttore. Come è ovvio, le parole sono semplici metafore delle cose. Ne è dimostrazione il pungente episodio della terza parte dei Viaggi di Gulliver in cui il viaggiatore raggiunge la città di Lagado e visita la grande Accademia. Qui il diacono Swift fa spiegare ai progettisti un piano per salvare i nostri polmoni evitando di usare le parole nella comunicazione orale, perché «essendo le parole soltanto nomi delle cose, sarebbe più conveniente se tutti gli uomini recassero seco le cose necessarie a esprimere una certa faccenda di cui debbono discorrere». Questa soluzione, oltre a …………

 

with prolonging our lives, would also eliminate the need for all the many languages that are spoken in the world. We could even get about rebuilding Babel. More than likely Swift was also hinting at class distinctions here, as a wealthy man with a retinue of servants carrying his “things” would be much more eloquent and expressive than a poor man who would have to do with one simple rucksack. In the real world the rich man with his college education can express himself so much better and more clearly than the poor illiterate.

There is more to it than this. If a word is a metaphor for a thing, why does a single thing have so many metaphors in orbit about it? Here we have the dire consequences of Babel. If Mama Lucy had speech, her Ursprache must have spread out and scattered into more variants than the birdsongs of a single species. This has left us with a welter of words to designate one simple thing. Stone can never sound like pierre, so are the two words interchangeable simply because they represent the same object? Since Flaubert would either say or think pierre when he picked one up does stone cover his thought when we translate him? We can only say that here translation has betrayed a complete and clear sense of the stone’s thingness for the author, with no attempt in this lithic example to bring in the attendant nuances of Peter and the Papacy. That Lagadian discussion would best be left to the likes of Bouvard and Pécuchet, along with the analysis of why a diamond is a stone to the

 

prolungare la nostra vita, eliminerebbe anche la necessità di tutte le molte lingue che sono parlate nel mondo. Potremmo persino pensare di ricostruire Babele. Con ogni probabilità qui Swift stava anche alludendo alle distinzioni di classe, dato che un uomo ricco con un seguito di servitori che trasportano le sue «cose» sarebbe risultato molto più eloquente ed espressivo di uno povero che avrebbe dovuto arrangiarsi con un semplice zaino. Nel mondo reale l’uomo ricco con la sua istruzione universitaria può esprimersi molto meglio e più chiaramente del povero analfabeta.

C’è ancora altro da aggiungere. Se una parola è metafora  di una cosa, perché una singola cosa ha così tante metafore nella sua orbita? Ecco le conseguenze disastrose di Babele. Se Mamma Lucy avesse saputo parlare, il suo Ursprache avrebbe dovuto diffondersi e scindersi in varianti più numerose dei canti degli uccelli di un’unica specie. Questo ci ha lasciato con un ammasso di parole per designare solo una cosa. Stone non suonerà mai come pierre, allora le due parole sono interscambiabili solo perché rappresentano lo stesso oggetto? Dato che Flaubert avrebbe detto o pensato pierre sollevandone una, stone ricopre tutto il suo pensiero quando lo traduciamo? Possiamo solo dire che qui la traduzione ha tradito un senso completo e chiaro della cosità della pietra per l’autore, e questo esempio litico non vuole essere un tentativo  di mettere in luce la conseguente sottile differenza tra  Pietro e il Papato. Quella discussione di Lagado sarebbe meglio che venisse lasciata ai simili di Bouvard e Pécuchet, insieme all’analisi del perché un diamante è una

 

jeweler but a rock to the jewel thief.

Not only has the object been betrayed here but the word itself has also been. As it moves ahead (progresses?), a language will load a word down with all manner of cultural barnacles along the way, bearing it off on a different tangent from a word in another tongue meant to describe the same thing. Among languages there are ever so many terms used to denote the same object and by their very variety they beggar any possibility of ascertaining the unique reality of said object. The now regnant cult of indeterminacy might be happy with this, but homo sapiens likes to know as his name implies and which is what makes us what we are today and what we shall be tomorrow if we ever get that far. It may be that there is something like Heisenberg’s principle of uncertainty at work in lexicology so that every time we call a stone a pierre we have somehow made it something different from a stone or a Stein. This leaves us with the question of whether a stone can ever be a pierre or a pierre a stone and whether either of them can be that hard object we are looking at on the ground, teaching us that even if a thing can be cloned the word that designates it cannot and any attempt to reproduce it in another tongue is betrayal.

Some concepts seem to be the exclusive property of one language and cannot be rightly conceived in another. When we have trouble coming up with just the right word in English we turn to the French and say “a certain je ne sais quoi”. If we say “a certain I ……..

 

pietra per il gioielliere ma un sasso per il ladro di gioielli.

Qui non solo è stato tradito solo l’oggetto, ma anche la parola stessa. Man mano che va avanti (progredisce?), una lingua si fa carico di una parola con ogni sorta di implicito culturale, e la colloca su una tangente diversa da quella di una parola in un’altra lingua volta a descrivere la stessa cosa. In ogni lingua ci sono tantissimi termini per riferirsi allo stesso oggetto e proprio a causa della loro estrema varietà rendono vana qualunque possibilità di accertare l’unica realtà dell’oggetto in causa. Il culto dell’indeterminatezza che regna oggi forse ne sarà felice, ma all’homo sapiens piace sapere come suggerisce il suo nome e questo è ciò che ci rende quello che siamo oggi e quello che potremmo essere domani se mai arriveremo così lontano. Forse c’è qualcosa come il principio di indeterminazione di Heisenberg all’opera in lessicologia così che ogni volta che chiamiamo una pietra pierre l’abbiamo resa in qualche modo qualcosa di diverso da una stone o da una Stein. Questo ci lascia con il dubbio se una pietra potrà mai essere una pierre o una pierre una pietra, e se una di queste sia effettivamente l’oggetto duro che stiamo guardando per terra, insegnandoci che anche se una cosa può essere clonata la parola che la designa non può esserlo e ogni tentativo di riprodurla in un’altra lingua è un tradimento.

Alcuni concetti sembrano di proprietà esclusiva di una lingua e non possono essere compresi con esattezza in un’altra. Quando non riusciamo a trovare la parola giusta in inglese ci rivolgiamo al francese dicendo «a certain je ne sais quoi». Se diciamo «a certain I

don’t know what” the effect is ragged and even unnatural. As we borrow from another language to enrich our own, more often than not there is treason afoot, if not in the meaning certainly in the sound. Although the French sound of lingerie is not too difficult to reproduce fairly closely in English, most people will plusquam it into a hyper-Gallic lahnjeray, a sound worthy of W. C. Fields and his say finay. A betrayal of language is many times the betrayal of words and at the same time it is a reflection of the hurdles present in com­municating between cultures. We tend to acculturate foreign sensitivities, sensibilities, and reflexes into our own milieu with  the requisite changes. Ask a New Yorker what Kafka’s Gregor Samsa awoke as and the inevitable answer will be a giant cock roach, the insect of record in his city. What Kafka called it was simply an ungeheuern Ungeziefer, a monstrous vermin. He then goes on to describe what is obviously a hard-carapaced beetle. The pull of local reality is too strong for a New Yorker to make a closer concept or translation. This then can be seen as a betrayal by the imposition of another culture.

Most of these matters merge to form an indirect betrayal of the author. He is a compendium of all these factors: language, culture, and individual words. These are, in fact, inseparable, and the author is their product, the same as what he writes. His free will and originality only exist within the bounds of his culture. If he is to betray it, he betrays it from within, which connotes intimate …….acqu
don’t know what» l’effetto è stridente e perfino innaturale. Dato che prendiamo in prestito elementi di un’altra lingua per arricchire la nostra, il più delle volte è in corso un tradimento, se non nel significato certamente nel suono. Benché il suono francese di lingerie non sia così difficile da riprodurre piuttosto fedelmente in inglese, la maggior parte lo esagererà in lahnjeray, un ipergallicismo degno di W.C. Fields e il suo say finay. Un tradimento della lingua spesso è il tradimento delle parole e allo stesso tempo è un riflesso degli ostacoli presenti nella comunicazione fra culture. Tendiamo ad acculturare la sensibilità, la ricettività e i riflessi stranieri nel nostro stesso ambiente con i necessari cambiamenti. Chiedete a un abitante di New York come si è ritrovato Gregor Samsa di Kafka quando si è svegliato e l’inevitabile risposta sarà uno scarafaggio gigante, un insetto ben noto nella sua città. Quello che intendeva Kafka era semplicemente un ungeheuern Ungeziefer, un mostruoso parassita. Poi continua a descrivere quello che ovviamente è un coleottero con un duro carapace. Per un abitante di New York il richiamo della realtà locale è troppo forte per arrivare a un concetto o a una traduzione più rigorosi.D Questo poi può essere visto come un tradimento provocato dall’imporsi di un’altra cultura.

La maggior parte di queste difficoltà si fondono per ordire un tradimento indiretto dell’autore. L’autore è un compendio di tutti questi fattori: lingua, cultura e singole parole. Questi sono, di fatto, inseparabili, e l’autore è il loro prodotto, proprio come ciò che scrive. Il suo libero arbitrio e la sua originalità esistono solo all’interno dei confini della sua cultura. Se la deve tradire, la tradisce dall’interno,
knowledge, while the translator betrays it from without, from an acquired reflective, not reflexive, awareness.

Whitin his cultural limits the author, asan individual, can and, indeed, must extend himself as far as he can to set himself and his art apart from the commonplace, showing all the while whence he comes, doing this through language most of all. With the translator we have quite the opposite situation. He cannot and must not set himself apart from the culture laid out before him. To do so would indeed be treasonous. He must marshal his words in such a way that he does not go counter to the author’s intent. Nowhere is translation more dubious than here as we try to translate into our own language and culture something that the author is translating into words within his culture and still make it our own. Treasonous it is. The important thing is to consider whether the treason is high or low, the sin mortal or venial. There are those who, like like Nabokov, view translation as a criminal act that can only be  judged as to whether it is a felony or just a misdemeanor and there are so many critics who do enjoy walking the perp.

While all this is going on, matters of which the translator must be quite aware, there is a danger of the translator’s committing the saddest treason of all, betrayal of himself. The translator, we should know, is a writer too. As a matter of fact, he could be called the ideal writer because all he has to do is write; plot, theme, characters, and all the other essentials have already been provided,

dimostrando di averne una conoscenza approfondita, mentre il traduttore la tradisce dall’esterno, da una consapevolezza acquisita che è basata su una riflessione, non su un riflesso.

All’interno dei suoi limiti culturali l’autore, come individuo, può, e di fatto deve, estendersi il più possibile per collocare se stesso e la sua arte al di là del luogo comune, mostrando nello stesso tempo da dove viene e servendosi soprattutto della lingua. Con il traduttore si ha una situazione esattamente opposta. Non può e non deve prendere le distanze dalla cultura che si trova di fronte. Fare questo infatti sarebbe un tradimento. Deve organizzare le parole in modo da non andare contro l’intento dell’autore. Non esiste traduzione più discutibile di quella in cui proviamo a tradurre nella nostra lingua e cultura qualcosa che l’autore sta traducendo in parole all’interno della sua cultura e infine farla nostra. È un tradimento. L’importante è considerare se il tradimento è alto o basso, il peccato mortale o veniale. C’è chi, come Nabokov, vede la traduzione come un atto criminale di cui si può solo giudicare se si tratti di un grave crimine o solo di un reato minore e sono tantissimi i critici che si dilettano a puntare il dito contro questi criminali.

Mentre succede tutto questo, problemi di cui il traduttore dev’essere ben consapevole, il traduttore corre il rischio di commettere il tradimento più triste di tutti, quello verso se stesso. Il traduttore, dovremmo saperlo, è anche uno scrittore. Di fatto, dovrebbe essere chiamato lo scrittore per eccellenza perché tutto ciò che deve fare è scrivere; trama, tema, personaggi, e tutti gli altri

 

so he can just sit down and write his ass off. But he is also a reader. He has to read the text closely to know what it’s all about. Here is

where he receives less guidance or direction from the text. It is a common notion to say that if a work has 10,000 readers it becomes 10,000 different books. The translator is only one of these readers and yet he must read the book in such a way that he will be reading the Spanish into English as he goes along, with the result that his reading is also writing. His reading, then, becomes the one reading that is going to spawn 10,000 varieties of the book in the unlikely case that it will sell that many copies and will be read by that many people.

Our translator must know that this is the best he can do in this place and at this time and must still recognize that his work is, in a sense, unfinished. Although I have been satisfied with a translation when I finish it (as a translator ought to be), years later as I peruse the published text I find myself wishing I could make some changes for the better. When a translator starts an attempt at reasoning out a solution it is best to emulate Alexander before Phrygia as he sliced through the Gordian knot with his sword in a demonstration of what Ortega y Gassect called “Vital reason.” The translator must not betray his hunches. There will be carping from the critics, but he will be closer to being right that way and, in any case, he will not have betrayed himself. A careful confidence in himself is as necessary for ……..

 

elementi essenziali ci sono già, quindi deve solo sedersi e scrivere, scrivere. Ma è anche un lettore. Deve leggere il testo attentamente per sapere di cosa parla. Ecco dove riceve meno direttive o indicazioni dal testo. È opinione comune dire che se un’opera ha 10.000 lettori diventa 10.000 libri diversi. Il traduttore è solo uno di questi lettori eppure deve leggere il libro in modo tale che mentre procede sta leggendo lo spagnolo trasformandolo in inglese, con il risultato che la sua lettura è anche scrittura. La sua lettura, allora, diventa l’unica lettura che darà origine alle 10.000 varietà del libro nell’improbabile caso in cui venderà così tante copie e sarà letto da così tanta gente.

Il nostro traduttore deve sapere che questo è il massimo che può fare nella sua posizione e in questo momento e deve anche riconoscere che il suo lavoro è, in un certo senso, incompleto. Nonostante io sia soddisfatto di una traduzione una volta finita (cosa che un traduttore dev’essere), anni dopo quando esamino attentamente il testo pubblicato mi ritrovo a voler fare alcune modifiche in meglio. Quando un traduttore inizia un tentativo di escogitare una soluzione è meglio imitare Alessandro di fronte alla Frigia quando ha tagliato il nodo gordiano con la spada, a dimostrazione di quello che Ortega y Gassat  chiamavano «ragione vitale». Il traduttore non deve tradire le sue intuizioni. Riceverà critiche persistenti, ma sarà più probabile che abbia ragione in quel modo e, in ogni caso, non avrà tradito se stesso. Una prudente fiducia in se stesso è necessaria per un traduttore tanto quanto lo è

 

a translator as it is for the point man in an infantry patrol. He must have a care, however, and remember that with the addition of a slightly aspirated letter auteur  becomes hauteur.

The translator must put to good use that bugbear of timid technicians: the value judgment. In translation as in writing, which it is as we have said, the proper word is better than a less proper but standard one. Here again the translator must borrow Alexander’s short sword. Translation is based on choice and a rather personal one at that. Long ago I discovered a funny thing: if you ponder a word, any word, long enough it will become something strange and meaningless and usually ludicrous. I suppose this is some kind of verbicide, bleeding the poor word of its very essences, its precious bodily fluids, and leaving a dry remnant that could pass for a five-letter group in a cryptographic message. When we snap out of it and retrieve the meaning of the word, we have, in a sense, deciphered it. This is as far as I would go in turning translation entirely over to reason since so much of it should be based on an acquired instinct, like the one we rely on to drive a car, Ortega’s vital reason.

 

per un uomo di punta in un reparto di fanteria. Deve fare attenzione, comunque, e ricordare che con l’aggiunta di una lettera leggermente aspirata auteur diventa hauteur.

Il traduttore deve sfruttare al meglio lo spauracchio degli esperti timorosi: il giudizio di valore. Nella traduzione come nella scrittura, e come abbiamo detto la traduzione lo è, la parola adatta è meglio di una meno adatta ma accettabile. Anche qui il traduttore deve prendere in prestito la spada corta di Alessandro. La traduzione si basa sulla scelta, e per di più su una scelta piuttosto personale. Molto tempo fa ho scoperto una cosa divertente: se rifletti attentamente su una parola, qualunque parola, dopo un po’ diventerà strana e senza senso, e di solito ridicola. Suppongo si tratti in qualche modo di verbicidio, si risucchia alla povera parola la sua vera essenza, i suoi preziosi liquidi biologici, e si lascia un residuo secco che potrebbe passare per un blocco di cinque lettere in un messaggio crittografico. Quando ce ne tiriamo fuori e recuperiamo il significato della parola, in un certo senso l’abbiamo decifrata. Ecco fino a che punto arriverei a sottoporre la traduzione al controllo della ragione dato che in gran parte dovrebbe basarsi su un istinto acquisito, come quello su cui facciamo affidamento quando guidiamo l’auto, la ragione vitale di Ortega.

 

II

IN  PURSUIT  OF  OTHER  WORDS

Let me commit an act of treason against myself now by confessing that translation was not a metier I had set out to follow, nor did I prepare myself for it with any conscious training or contemplation. The Spanish have a saying that goes “El diablo sabe mas por viejo que por diablo” (The devil knows more from being old than from being the devil). I’ve come to realize lately that what I’ve been preening myself for as intelligence is simply the fact that I’ve been around too damned long as I restrain hubris and remember that Lear was old ere he was wise, I have always thought that I just stumbled into translation because it was there serendipity, but with my wiser retrovision I can see that I harbored certain traits that fit nicely in with the needs of translation and which I have honed sharp through use.

I can trace my life back to a certain moment, an epiphany, if you will, when I came into complete self-awareness. From that moment on, existence has been a more or less continuous thread of memory, something that still makes me wonder as I contemplate it from this life of ours as schedule, with its hours, days, and years. I was about three years old and was walking back down Pinneo Hill road to the family house north of Hanover in New Hampshire. I don’t

 

II

ALLA  RICERCA  DI  ALTRE  PAROLE

Ora lasciatemi commettere un atto di tradimento contro me stesso confessando che la traduzione non è stata un’occupazione che avevo previsto di seguire, né a cui mi sono preparato consapevolmente con l’esercizio o la contemplazione. Gli spagnoli hanno un detto che recita: «el diablo sabe mas por viejo que por diablo» (il diavolo sa più cose perché è vecchio più che per essere diavolo). Mi sono reso conto solo di recente che l’intelligenza di cui andavo orgoglioso non è altro che la mia esperienza così incredibilmente lunga grazie alla quale reprimo l’arroganza e ricordo che Lear è diventato vecchio prima di diventare saggio. Ho sempre pensato di essermi imbattuto nella traduzione semplicemente perché era lì, serendipità, ma ripensandoci con il senno di poi mi rendo conto che ho coltivato alcune qualità che corrispondono alle esigenze della traduzione e le ho affinate con l’uso.

Posso ripercorrere a ritroso la mia vita fino a un certo punto, un’epifania se volete, in cui mi sono sentito completamente autocosciente. Da quel momento in poi l’esistenza è stata più o meno un continuo flusso di memoria, cosa che mi stupisce ancora quando la contemplo da questa nostra vita come un’agenda con le sue ore, giorni e anni. Avevo circa tre anni e stavo percorrendo a piedi  Pinneo Hill road per tornare a casa a nord di Hannover nel New

 

know where I’d been been or why, maybe to Damascus, but I was never as sure of myself as old Saul had been. Memory before that had been quite sporadic, as it has become once more over the years, bits and pieces recalled vaguely and episodically as from a dream. This was that odd period in existence when we are as strangers to our now selves. For most of any recall of what I had seen up to before that mystical revelation on Pinneo Hill I was beholden to my parents and others for any memory of what I had been doing. The gist of that period is nicely summed up by Chico Marx as Chicolini in Duck Soup when the prosecutor, played by Charles B. Middleton, asks him when he was born and Chico explains that he can’t remem­ber, he was just a little baby.

It is in this twilight consciousness that we first begin to lis­ten and to speak. When I came into full self-awareness at three I was already endowed with speech and a fair vocabulary in English. Other tongues came later, with conscious acquisition. At that existential awakening, however, as I returned home from I know not where up the hill, I seemed to have no conscious flow of memory of what I had been doing the day before and earlier. The mysterious part of that reverse Alzheimer’s was the existence of certain words and names that I had coined during those previous days, the provenance of which was unknown to me and to everyone else. One of these has stayed with me as I have been reminded of it, and it continues to

 

Hampshire. Non so dov’ero andato o perché, forse a Damasco, ma non sono mai stato sicuro di me come il saggio Saul. I miei ricordi prima di quel momento sono piuttosto sporadici, e lo sono diventati ancor di più col passare del tempo, frammenti e pezzetti ricordati in modo vago ed episodico come in un sogno. Era quell’insolito periodo dell’esistenza in cui ci sentiamo estranei al nostro sé attuale. Per la maggior parte dei ricordi di ciò che avevo visto prima della rivelazione mistica di Pinneo Hill ero grato ai miei genitori e ad altri per qualunque ricordo di quello che avevo fatto. Il succo di quel periodo è ben riassunto da Chico Marx nelle vesti di Chicolini ne La guerra lampo dei fratelli Marx, quando il procuratore, interpretato da Charles B. Middleton, gli chiede quando è nato e Chico spiega che non lo ricorda, era ancora un bambino piccolo.

È in questa consapevolezza crepuscolare che abbiamo iniziato ad ascoltare e a parlare per la prima volta. Quando all’età di tre anni mi sono sentito pienamente autocosciente sapevo già parlare e possedevo un buon vocabolario in inglese. Le altre lingue le ho acquisite consapevolmente più tardi. In questo risveglio esistenziale, comunque, mentre tornavo a casa da non so dove sulla collina, mi sembrava di non avere un flusso di memoria consapevole di quello che avevo fatto il giorno prima e quello prima ancora. La parte misteriosa di quell’Alzheimer al contrario era l’esistenza di alcune parole e nomi che avevo coniato in quei giorni precedenti, la cui provenienza era ignota tanto a me quanto a chiunque altro. Una di queste mi è rimasta dentro finché me la sono ricordata, e continua

 

to fascinate me. The word is magotso, or however it might be spelled, and it is evidently a word I would say when passing a cemetery. I am hard put to come up with a legitimate word for a graveyard that could have been mangled into this bizarre form by infantile efforts at speech. Could it have been some atavistic throwback to Adam who, according to Genesis, was given the marvelous creative privilege of naming things? Perhaps when the sad moment came to plant Abel. Or maybe it was something left over from what Lucy said. Yet again could there have been some early intimations of mortality brought on by my anticipation of getting to know Kierkegaard?

Then there was my first cat, a fine gray tabby queen whose descendants of all colors and types, depending on the wandering torn of the moment, came to inhabit the place for years to come. I must admit that at the time I thought the word “tabby” was, like “puss,” a synonym for cat. We called that type a tiger cat. I had dubbed the animal Quidry, a nice Latinate name; where I’d got it from remains a mystery. It might have been some attempt to reproduce the cat’s meow, which  she also was. This seemingly unconscious christening was more fortunate than one that I undertook many, many years  later during my conscious period. I’d come into possession of another fine tabby to share my cramped quarters on Sullivan  Street in the Village. This one I named Catso, no doubt under the influence of the name Fatso. I should have known better, having served in Italy for two and a half years during

 

ad affascinarmi. La parola è magotso, non so se si scrive così, ed è chiaramente una parola che direi passando per un cimitero. Faccio molta fatica a trovare una parola usata legittimamente per un campo santo che possa essere stata storpiata in questa forma bizzarra dallo sforzo di parola di un bambino. Può essersi trattato di un ritorno atavico ad Adamo a cui, secondo la Genesi, fu dato lo straordinario privilegio creativo di nominare le cose? Forse quando è arrivato il triste momento di seppellire Abele. O forse si tratta di qualcosa che è rimasto di quello che ha detto Lucy. O ancora, può esserci stato qualche segno premonitore di mortalità provocato dalla mia previsione di leggere Kierkegaard?

Poi è arrivato il mio primo gatto, un soriano femmina i cui discendenti di tutti i colori e tipi, a seconda del maschio vagabondo di turno, hanno popolato la zona per gli anni a venire. Devo ammettere che pensavo che la parola tabby  fosse, come puss, un sinonimo di cat. Chiamavamo quella varietà gatto tigrato. Avevo soprannominato l’animale Quidry, un bel nome latineggiante; da dove l’abbia preso resta un mistero. Potrebbe essere stato un tentativo di riprodurre il miagolio del gatto, e lei lo era. Questo battesimo apparentemente inconsapevole è stato più fortunato di un altro che risale a molti, molti anni più tardi durante il mio periodo consapevole. Ero venuto in possesso di un altro bel gatto soriano per condividere i miei pochi metri in Sullivan Street al Village. L’ho chiamato Catso, senza dubbio influenzato dal nome Fatso. Avrei dovuto accorgermi dell’errore, avendo fatto il militare in Italia per

 

during the war. Most likely I simply wasn’t aware of what I was doing, especially since there are differences in spelling, and southern Italians tend to voice the initial consonant.

These small personal anecdotes serve to show how words have any number of possible nuances for every individual as they rest in the subconscious and relate to some early experience. Mr. Chomsky might delve further into the possibility that we may be carrying some mysterious remote lexicon in our DNA. In the translation of words, then, the problem is compounded. We now have the personal word of the author’s to be transformed into a personal word of the translator’s. As always with translation, this calls for a choice among synonyms. Ideally the author’s choice among the synonyms in his own language was made in a purposeful and conscious way. In most cases, however, and as it should be, it is made quite naturally and instinctively: “This is how I want to say it.” The translator, too, should most usually work from this natural application of meaning: “This is how we say it in English.” Nevertheless, the translator must be alert and aware of the fact that both he and the author have their “own” words. It seems easy to match like words (dog/cão) and proceed on. What dog connotes for me, however, is probably different from what cão suggests for Antonio Lobo Antunes, although in common usage he must of course be satisfied with cão as I must be with dog.

 

due anni e mezzo durante la guerra. È molto probabile che semplicemente non fossi consapevole di cosa stessi facendo, specialmente a causa delle differenze di spelling e del fatto che al sud gli italiani tendono a pronunciare molto aperta la sillaba iniziale.

Questi piccoli aneddoti personali servono a mostrare come le parole abbiano infinite possibili sfumature per ciascun individuo dato che restano nell’inconscio e si riferiscono a qualche esperienza infantile. Chomsky potrebbe indagare più a fondo sulla possibilità che forse conserviamo nel DNA un misterioso e remoto vocabolario. Nella traduzione delle parole, poi, il problema si complica. Ora dobbiamo trasformare la parola personale dell’autore nella parola personale del traduttore. Come sempre con la traduzione, ciò comporta una scelta tra sinonimi. L’ideale sarebbe che la scelta dell’autore tra i sinonimi nella sua lingua fosse fatta di proposito e con consapevolezza. Nella maggior parte dei casi, comunque, e come dovrebbe essere, si fa in modo piuttosto naturale e istintivo: «È così che voglio dirlo». Anche il traduttore di solito dovrebbe lavorare sulla base di questa naturale attribuzione di significato: «È così che si dice in inglese». Eppure il traduttore deve essere vigile e consapevole del fatto che tanto lui quanto l’autore hanno le parole “proprie”. Sembra facile far corrispondere parole simili (dog/cão) e così via. Ciò che dog connota per me, comunque, è probabilmente diverso da ciò che cão comunica a António Lobo Antunes, benché nell’uso comune si accontenti senz’altro di cão come io di dog.

 

This personal aspect of language can be extended to life itself. As far as the individual is concerned, life truly exists only as he feels it and thereby ponders it. It follows, therefore, that life is an idea, a word, in short, a metaphor for conscious exis­tence and hence a translation. We are translating our existence and our circumstance as we go along living and before we are fatally assigned the translator’s lot once the treason has been done: Segismundo’s tower or tomb. We must also remember that “In the beginning was the Word, and the Word was with find and the Word was God” (John I:i). Even God as the Word has been put down and translated variously. The pensive Greeks call Him logos while the active Romans say verbum. So that even God, like existence, is an ambiguous translation, which could explain William James’s varieties .When God’s mystical name is finally articulated it, too, will have to be translated, unless we accept it as the acronym for Guaranteed Overnight Delivery which so blasphemously appears on certain trucks. Then there are those people hard of hearing who assert that God’s name is, in fact, Howard, as in “Our Father which art in Heaven, Howard be thy name”. I can’t see how anyone could be an atheist with a God named Howard and it also might explain why the universe is such a mixed-up place.

Names are one of the bugbears of translation and usually illustrate its impossibility. Almost all Christian and Old Testament names have local versions wherever the Good

 

Questo aspetto personale della lingua può essere esteso alla vita stessa. Per quanto riguarda l’individuo, la vita esiste davvero solo nel momento in cui lui la sente e quindi la analizza. Ne segue, quindi, che la vita è un’idea, una parola, in breve una metafora dell’esistenza consapevole e quindi una traduzione. Traduciamo la nostra esistenza e la nostra circostanza man mano che viviamo e prima di essere fatalmente assegnati al destino di traduttori una volta che il tradimento è stato fatto: la torre di Sigismondo o la tomba. Inoltre dobbiamo ricordare che «In the beginning was the Word, and the Word was with God, and the Word was God» (John I: i). Anche God e Word sono stati scritti e tradotti in vari modi. I contemplativi greci Lo chiamano logos mentre gli attivi Romani dicono verbum. Così che anche God, come l’esistenza, è una traduzione ambigua, il che potrebbe spiegare le Varieties of religious experience di William James. Quando finalmente sarà articolato il nome mistico di God, anche questo dovrà essere tradotto, a meno che non lo accettiamo come l’acronimo di Guaranteed Overnight Delivery che appare in modo così blasfemo su certi camion. Poi c’è chi è duro d’orecchi e sostiene che il nome di Dio, di fatto, è Howard, come in «Our father which art in Heaven, Howard be ty name». Non capisco come si possa essere atei con un Dio di nome Howard, e questo spiegherebbe anche perché l’universo è un luogo così confuso.

I nomi sono uno degli spauracchi della traduzione e di solito illustrano la sua impossibilità. Quasi tutti i nomi cristiani e del Vecchio

 

Book is esteemed; Charles becomes Carlos; John, Juancito or Johnny, and so forth. These names are not only loaded down with ancient biblical or classical connotations but have acquired ever so many new ones along the way. Names, and especially nick- names, almost always carry some cultural nuance: a good-time Charley, a Johnny-come-lately, Pedro por su casa. For purposes of evacuation we go to the john; in Portugal one goes to have a talk with Miguel, or simply to the Miguel. This last name in familiar English is reduced to one syllable, Mike, while in Spanish it gains another, Miguelito. Can either one therefore ever be the equivalent of the other?

By not translating names we can at least maintain a certain aura of the original tongue and its culture. Spanish almost always translates royal names and sometimes those of famous commoners (Thomas More/Tomas Moro), while English is inconsistent. Shakespeare will be Guillermo in Spanish but Cervantes is always Miguel in English. English renders Carlos V and Felipe II as Charles V and Philip II although Alfonso XIII is never Alphonse. Having grown up hearing about Kaiser Wilhelm II in English I am still a bit befuddled when hearing Emperor William II from those farther removed in time from that worthy. Hitler to me was always Adolf but now I most often see Adolph and hear ay-dolf. In my own transla­tions I prefer keeping names in the original while sometimes translating nicknames if they carry some descriptive value and can be translated without doing too much mischief to the tone of the …….

 

testamento hanno versioni locali nei luoghi in cui la Bibbia è rispettata; Charles diventa Carlos; John, Juancito o Jonny, e così via. Questi nomi non solo sono sovraccarichi di antiche connotazioni bibliche o classiche ma ne hanno acquisite moltissime altre nel tempo. I nomi, e soprattutto i soprannomi, veicolano quasi sempre alcune sfumature culturali: good-time Charley, Johnny-come-lately, Pedro por su casa. Per andare in bagno noi diciamo go to the John; in Portogallo si va a fare una chiacchierata con Miguel, o semplicemente da Miguel. Quest’ultimo nome in Inglese è ridotto a una sillaba, Mike, mentre in spagnolo ne prende un’altra, Miguelito. Potrà mai quindi uno di questi essere l’equivalente dell’altro?

Se non traduciamo i nomi possiamo almeno mantenere una certa aura della lingua originale e della sua cultura. In spagnolo si traducono quasi sempre i nomi regali e a volte quelli dei comuni mortali famosi (Thomas more/ Tomás Moro), mentre l’inglese è incoerente. Shakespeare sarà Guillermo in spagnolo ma Cervantes è sempre Miguel in inglese. In inglese si traducono Carlos V e Felipe II come Charles V e Philip II, ma Alfonso XIII non è mai Alphonse. Essendo cresciuto sentendo parlare di Kaiser Wilhelm II in inglese sono ancora un po’ confuso quando sento dire Emperor William II da chi  è stato in seguito rimosso in tempo da quella carica. Hitler per me è sempre stato Adolf ma ora vedo sempre più spesso Adolph e sento ay-dolf. Nelle mie traduzioni preferisco mantenere i nomi dell’originale e tradurre qualche volta i soprannomi se veicolano qualche valore descrittivo e possono essere tradotti senza fare troppi

 

story. Laurel and Hardy better known in Spanish as El Gordo y el Flaco, corresponding to what children in my day used to call them: Fat and Skinny (I would be interested in knowing why it is in both languages that the epithets should reverse the order of the surnames). Roman names are largely maintained in English while the pronunciation is anglicized (i.e., If Julius Caesar sees her he will surely seize her), while in Spanish and French they are hispanized and gallicized (Julio César and Jules César). To my ear the English usage sounds properly alien and classical. Greek names often hold a Latinate form in English, cf. Herodotus.

I recently finished the translation of a novel by the Colombian Jorge Franco Ramos entitled Rosario Tijeras, Rosario, the main character, is nicknamed Tijeras (shears, scissors) because her earliest act of violence was to take her mother s sewing tool and geld the man who had raped her. Translating the epithet that had been hung on her would be awkward. Leaving it also followed in a certain way the old manner in which surnames were acquired. Her real name, like God s, is never revealed and everyone knew her as Rosario Tijeras. Nor does the nickname stand in need of translation as the episode wherein she acquires it is recounted early in the book.

Words, as well as certain idioms and grammatical usages, are in many ways the items most quickly subject to a kind of Darwinian evolutionary process, except that the natural selection here encountered appears to my mind to be less of a survival of the

 

torti al tenore della storia. Laurel e Hardy in Spagna sono conosciuti meglio come El Gordo y El Flaco, che corrispondono al modo in cui i bambini li chiamavano ai miei tempi: Fat e Skinny (sarei interessato a sapere perché in entrambe le lingue gli epiteti debbano ribaltare l’ordine dei cognomi). I nomi romani sono ampliamente mantenuti in inglese mentre la pronuncia è anglicizzata (esmpio: If Julius Caesar sees her he will surely seize her), mentre in spagnolo e in francese sono ispanizzati e gallicizzati (Julio César e Jules César). A orecchio l’uso inglese sembra proprio straniero e classico. I nomi greci spesso mantengono una forma latina in inglese, come Herodotus.

Ho finito da poco la traduzione di un romanzo del colombiano Jorge Franco Ramos intitolato Rosario Tijeras. Rosario, la protagonista, è soprannominata Tijeras (cesoie, forbici), perché il suo primo atto di violenza è stato quello di prendere le forbici da sarto della madre per evirare l’uomo che l’aveva violentata. Tradurre l’epiteto che le è stato attribuito sarebbe stato inopportuno. Mantenerlo seguiva in un certo senso anche il vecchio uso secondo cui i cognomi andavano acquisiti. Il suo vero nome, come quello di Dio, non è mai rivelato e tutti la conoscevano come Rosario Tijeras. Né il nome ha bisogno di essere tradotto dato che l’episodio in cui lei lo acquisisce è raccontato all’inizio del libro.

Le parole, così come alcune espressioni idiomatiche e usi grammaticali, sono da molti punti di vista gli elementi più rapidamente soggetti a una specie di processo evoluzionistico darwiniano, salvo che la selezione naturale in cui ci siamo imbattuti

 

the fittest than it is a kind of dumbing down to the lowest common denominator. This, of course, depends on what one considers the fittest to be. Populists would most likely disagree with me in this matter, but I have always maintained that vox populi, vox Dei is an open invitation to atheism. Beyond any qualitative considerations, there is the matter of changing times, autres temps, autres moeurs. As one who has established a beachhead on the isle of Octogenaria (adjacent to the island of Barataria), I have found that in many ways I am what one might call “archaically active” or “actively archaic.” Certain words and usages have changed or appeared or died out during my lifetime. I have noticed more and more that gonna has become standard usage in presidential and high-level parlance and I wonder how it would have sounded back in 1941 if FDR had said “We’re gonna win the war.” Also how is it that gonna edges out gwine (too Uncle Remus?)and gone (too Pogo?) or the British geng? There must be some answer based on sound linguistic theory.

Translators, then, are placed in the difficult position of having to be careful not to nail their translation onto the period in which they are living. If the work under way is something contemporary the effect won’t be quite so bad since the original text might well become archaic even sooner than the translation. Like the leaves on trees, words age, yellow, and drop off after a time,

 

qui mi sembra essere non tanto la sopravvivenza del più adatto quanto un modo per ridurre al minimo comun denominatore. Questo, naturalmente, dipende da cosa si considera il più adatto. Con ogni probabilità i populisti non saranno d’accordo con me su questo punto, ma ho sempre pensato che vox populi, vox Dei sia un invito aperto all’ateismo. Al di là di ogni considerazione qualitativa, c’è il problema dei tempi che cambiano, autres temps, autres moeurs. Da persona che ha costruito una testa di sbarco sull’isola di Ottuagenaria (adiacente all’isola di Barataria), ho scoperto di essere da molti punti di vista ciò che si potrebbe chiamare “arcaicamente attivo” o “attivamente arcaico”. Alcune parole e usi sono cambiati o apparsi o scomparsi nel corso della mia vita. Mi rendo conto sempre di più del fatto che gonna è diventato di uso standard nei discorsi presidenziali e di alto livello e mi chiedo che effetto avrebbe fatto se nel 1941 F. D. Roosvelt avesse detto: «We’re gonna win the war». E poi, com’è possibile che gonna vada a finire in gwine (troppo Uncle Remus?) e gone (troppo Pogo?) o nell’inglese britannico geng? Devono esserci delle risposte sulla base delle teorie linguistiche più solide.

I traduttori, poi, si trovano nella difficile posizione di dover fare attenzione a non inchiodare le loro traduzioni al periodo in cui vivono. Se il lavoro in corso è qualcosa di contemporaneo il risultato non sarà proprio così brutto dato che il testo originale potrebbe tranquillamente diventare arcaico ancora prima della traduzione. Come le foglie sugli alberi, le parole invecchiano, ingialliscono, e

 

although languages, like trees, are divided into different species and the words in one may hold their meaning longer than those in the language into which they are being translated. When I come to translate a “classic” I try to find what we might call “evergreen” words. Translating Machado de Assis, who wrote the most enduring Portuguese since Camoes (perhaps even more so, given the fact that he was a novelist), I try hard to find words that are equally valid in his time and in ours and which, we hope, will endure beyond both ages. A good translation of Cervantes, and there are quite a few, must not be so contemporary that it will eventually become archaic because Cervantes as read today in Spanish is only mildly so. Motteux can sound archaic because he was a contemporary of Cervantes. Putman cannot. Where Motteux messed up was in not finding as many evergreen words as Cervantes had used. Perhaps he didn’t let Cervantes lead him linguistically. As I discovered translating Machado de Assis and Garcia Marquez, the masters will enable you to render their prose into the best possible translation if you only let yourself be led by their expression, following the only possible way to go. If you ponder you will have lost the path.

 

dopo un po’ cadono, anche se le lingue, come gli alberi, sono divise in specie diverse e le parole di una possono mantenere il loro significato più a lungo di quelle della lingua in cui si stanno traducendo. Quando mi capita di tradurre un “classico” cerco di trovare quelle che potremmo chiamare parole “sempreverdi”. Traducendo Machado de Assis, che ha scritto nel portoghese più duraturo dai tempi di Camões (forse anche di più, dato che lui era un autore di romanzi), faccio fatica a trovare parole che siano ugualmente valide ai suoi tempi e ai nostri e che, speriamo, sopravvivano a entrambe le epoche. Una buona traduzione di Cervantes, e ce ne sono un bel po’, non deve essere contemporanea fino al punto di risultare prima o poi arcaica perché Cervantes letto oggi in spagnolo non lo è così tanto. Motteux può sembrare arcaico perché era un contemporaneo di Cervantes, Putnam no. L’errore di Motteux è stato di non trovare tante parole sempreverdi quante ne aveva usate Cervantes. Forse non si è lasciato guidare da Cervantes dal punto di vista linguistico. Come ho scoperto traducendo Machado de Assis e García Márquez, i maestri vi permetteranno di rendere la loro prosa nella miglior traduzione possibile se solo vi lasciate guidare dalla loro espressione, seguendo l’unica strada percorribile. Se vi trovate a meditare significa che avete già sbagliato strada.

 

III

STRINGING WORDS TOGETHER BY CULTURE

 

 

We have seen the wild variety of meanings, subtle and di­rect, that cling to words. We have also considered the perils and impossibilities of metaphor as we go from one language to an­other. This morass of troubles is made all the more swampy as we come to the task of joining these translated words together to make sense in the new language. This process must take into account what is called syntax, grammar, and the like, as all the pitfalls we had to confront with individual words are not only encountered here but a good many new ones as well. Cultures are at work again. Word order that seems quite logical to one people will look absurd to another. So-called dialect comedians have used this phenomenon to great advantage in their skits since so much of comedy and humor is based on absurdities. Our own language itself can seem absurd when placed under a neutral light. If we stare at a word long enough it will become strange and even foolish, to the ruination of any sense it might have had before. Absurdities exist within our own language when we become hyper-correct, as shown by Winston Churchill’s mocking of a copyeditor’s correction, commenting that ‘”This is something up with witch I will not put.”

 

III

LEGARE  LE  PAROLE  TRA  LORO  SECONDO  LA  CULTURA

 

 

Abbiamo visto la notevole varietà di significati, sottili e diretti, che si aggrappano alle parole. Abbiamo anche considerato i pericoli e l’impossibilità delle metafore quando si passa da una lingua a un’altra. Questa giungla di difficoltà è resa ancor più paludosa quando arriviamo al compito di collegare queste parole tradotte perché abbiano senso nella nuova lingua. Questo processo deve tenere conto di ciò che si chiama sintassi, grammatica e simili, dato che tutti i trabocchetti con cui dobbiamo mettere a confronto le singole parole non sono solo quelli incontrati qui ma anche un buon numero di nuovi. Sono ancora in gioco le culture. L’ordine delle parole che sembra del tutto logico a un popolo sembra assurdo a un altro. Il cosiddetto teatro dialettale ha usato questo fenomeno al meglio negli sketch dato che gran parte della sua comicità e del suo humour si basa sulle assurdità. La nostra stessa lingua può sembrare assurda se messo sotto una luce neutrale. Se fissiamo una parola abbastanza a lungo diventa strana e perfino stupida, fino alla rovina di qualunque senso potesse avere avuto prima. Le assurdità esistono all’interno della nostra stessa lingua quando diventiamo ipercorretti, come ha dimostrato la presa in giro di Winston Churchill nei confronti di una correzione del curatore, commentando: «This is something up with which I will not put».

 

For older evidence of what annoyed Churchill we have the development of the Romance languages from Latin. As schoolboys and girls we had to struggle with the makeup of Greek and Latin. I think that Latin was harder, even if Greek did have its strange first and second aorists (only matched later on by Russian and its aspects). But we were studying that noble and complex tongue of Cicero and Virgil, not the language of the marketplace. The assorted Celtic, Iberian, Italic, and other hewers of wood and drawers of water had already made the Latin language more pliable to their simple needs as evinced by the language of their church in die Vulgate. The people were well on their way to getting rid of case endings and simplifying the system of tenses as what were to be new languages evolved. It really must pain the French in their lin­guistic hubris to realize that they are really speaking bad Latin. And, yet, these various supposedly inept versions of the Latin language have produced beautiful bits of expression that can belong only to them. For all of his wonderful lines it is impossible to imagine Ovid’s coming out with something like Verlaine’s “les sanglots longs des violons de l’automne.” I contend that the sound of a language must come from the cultural expression and evolution of a people. Only a Frenchman can properly mouth the poetry of Verlaine in a way that is completely natural and even instinctive because the rendition comes from that part of his brain wherein his native language is housed. It has been claimed that a person who has lost his speech because of a stroke can still communicate in a foreign language he

 

Una prova più antica di ciò che infastidiva Churchill è lo sviluppo delle lingue romanze dal latino. Da studenti e studentesse abbiamo dovuto lottare con le strutture del greco e del latino. Penso che il latino fosse più difficile, anche se il greco aveva i suoi strani aoristi primo e secondo (emulato in seguito solo dal russo con i suoi aspetti). Ma noi studiavamo la lingua nobile e complessa di Cicerone e Virgilio, non la lingua parlata al mercato. I vari celti, iberici, italici, e altri popoli di taglialegna e navigatori avevano già reso la lingua latina più flessibile alle loro semplici esigenze come si evince dal linguaggio della loro chiesa nella Vulgata. La gente sembrava proprio essere dell’idea di volersi liberare delle desinenze dei casi e di semplificare il sistema dei tempi verbali, man mano che si evolvevano le future lingue nuove? Dev’essere davvero un dolore per i francesi con la loro hybris linguistica sapere che in realtà parlano un brutto latino. Eppure, queste varietà ritenute versioni goffe della lingua latina hanno prodotto bellissimi modi di dire che possono appartenere solo a  loro. Nonostante i suoi meravigliosi versi è impossibile immaginare Ovidio che recita qualcosa come «les sanglots long des violons de l’automne» di Verlaine. Ritengo che il suono di una lingua debba derivare dall’espressione e dall’evoluzione culturale di un popolo. Solo un francese può articolare correttamente la poesia di Verlaine in un modo che sia completamente naturale e persino istintivo perché la resa proviene da quella parte del cervello in cui risiede la sua lingua madre. È stato detto che una persona che ha perso la parola in seguito a un trauma riesce ancora a comunicare

 

may have learned because it is lodged in a different portion of his brain (a very telling argument for learning another language). If this be so, then we are faced with the possibility that when we shift into another language we become a different person by running on a different part of our brain. So the poor translator must not just go back and forth between two languages, but if he is worthy of his calling must shift between two selves, with all the perils of this induced schizophrenia.

The matter of subject, verb, and object, therefore, and their placement in a sentence will depend on the cultural instincts of the language spoken. Heavy-handed humorists often avail themselves of syntactical differences between languages in order to make fun of them. This is usually accompanied by a burst of macaronic pronunciation. But Romance languages have, in certain ways, been an improvement over classical Latin as vehicles for easier communication with their elimination of case endings and a resort to prepositions in order to denote relationships. At the same time they did away with Latin’s ability to make words fit certain poetical meters in a way that becomes a quite natural rhythmical performance. Modern attempts to follow this too closely in translation are usually clumsy and  Procrustean. It all adds up to Robert Frost’s com­monplace regarding the relationship between poetry and its translations, but that comment of his could well apply to prose as well. In even the best of examples a translation cannot get to the

 

comunicare in una lingua straniera che aveva imparato perché questa risiede in un’altra area del cervello (argomentazione molto valida a favore dell’apprendimento di un’altra lingua). Se è così, allora siamo di fronte alla possibilità che quando passiamo a un’altra lingua diventiamo una persona diversa azionando una parte diversa del nostro cervello. Così il povero traduttore non deve solo fare avanti e indietro tra due lingue, ma se è degno del suo nome deve muoversi tra due “sé”, con tutti i pericoli di questa schizofrenia indotta.

La questione di soggetto, verbo e oggetto, quindi, e la loro collocazione in una frase dipenderanno dagli istinti culturali della lingua parlata. I comici più rozzi spesso si avvalgono delle differenze sintattiche tra le lingue per prendersene gioco. Di solito ciò è accompagnato dall’esplosione di una  pronuncia maccheronica. Ma le lingue romanze, in un certo senso, sono state un miglioramento del latino classico come veicoli per semplificare la comunicazione con l’eliminazione delle desinenze e il ricorso alle preposizioni per denotare le relazioni. Allo stesso tempo hanno eliminato la capacità del latino di adattare le parole ad alcuni metri poetici in modo da produrre un andamento ritmico piuttosto naturale. I tentativi contemporanei di mantenere la metrica in traduzione in modo fin troppo preciso di solito sono goffi e procustiani. Tutto questo si aggiunge al luogo comune di Robert Frost riguardo alla relazione tra la poesia e la sua traduzione, ma questo suo commento può benissimo adattarsi altrettanto alla prosa. Anche negli esempi migliori

 

marrow of what has been said in the original. A piece of writing cannot be cloned in another language, only imitated. Like the colors of the spectrum, languages are unique and distinctive; they can approach each other but never reproduce one another. Columbia’s blue can never reproduce Yale’s,yet both are blue and have a great many cultural concomitants in common. What makes translation seem so possible is that we live in a world of similarities and it is too much with us. Languages, like the colors mentioned above, are similar and we can at least imagine how they would look in another hue. But what about those invisible colors that lurk at the ends of the spectrum? The limits of our ability to perceive show up in the fact that we are unable even to imagine what these colors might be like. We would have to be certain birds. Translation may be impossible, but it can at least be essayed.

 

una traduzione non può arrivare fino al midollo di ciò che è stato detto nell’originale. Un’opera non può essere clonata in un’altra lingua, solo imitata. Come i colori dello spettro, le lingue sono uniche e particolari; possono avvicinarsi le une alle altre, ma mai riprodursi a vicenda. Il Columbia blue non potrà mai riprodurre lo Yale blue, eppure si chiamano entrambi blue e hanno moltissime concomitanze culturali. Ciò che fa sembrare la traduzione così possibile è che viviamo in un mondo di imitazioni e «it is too much with us». Le lingue, come i colori menzionati sopra, sono simili e possiamo per lo meno immaginare come apparirebbero in un’altra sfumatura. Ma per quei colori invisibili che si annidano alle estremità dello spettro? I limiti della nostra capacità percettiva emergono chiaramente con il fatto che non siamo capaci nemmeno di immaginare a cosa questi colori potrebbero assomigliare. Dovremmo essere un certo tipo di uccelli. La traduzione può essere impossibile, ma ameno può essere tentata.

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture SIMONA CLERICI

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

 

   

SIMONA CLERICI

 

 

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

 

 

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2011

 

ã 1987 by The Jakobson Trust; Mouton Publishers 1985

ã Clerici Simona per l’edizione italiana 2011

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

 

Abstract

 

Two essays, On Linguistic Aspects of Translation (1959) and Language and Culture (1967), written within eight years of each other by the Russian-born scholar Roman Jakobson, gave new impetus to the theoretical analysis of translation on the basis of the author’s semiotic approach to language. Putting aside the fallacious attempt to find translation equivalents, which used to be the central issue in translation, the notion of “equivalence in difference” implies that translation can always be carried out, regardless of the cultural or grammatical differences between the two languages involved, since any language is able to convey everything. Providing a number of examples comparing mainly the English and Russian grammatical patterns, the author demonstrates that any assumption of untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms because the definition of our experience requires recoding interpretation; that is, translation. This thesis presents a translation into Italian and an analysis of Jakobson’s essays.

 


 

Sommario

1. Traduzione con testo a fronte_________ 1

2. Analisi traduttologica_________ 45

2.1. Roman Jakobson:_________ 46

un americano con l’indole dell’emigrato russo_________ 46

2.2. Tra innovazione e tradizione_________ 48

2.3. Peculiarità del saggio_________ 50

2.3.1. Un crogiolo di culture 50

2.3.2. Il lettore modello 53

2.3.3. Perdite e compensazioni 54

2.3.3.1. Apparati metatestuali 54

2.4. Analisi linguistica ed extralinguistica_________ 57

2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali 58

2.4.1.1. Celibate 58

2.4.1.2. Cottage cheese 60

2.4.1.3. Intricacies 62

2.4.1.4. Nurture and nature 64

2.4.1.5. Creative writers 65

2.5. Metatesti a confronto:_________ 68

perché proporre una traduzione diversa del saggio_________ 68

on linguistic aspects of translation_________ 68

2.6. Riferimenti bibliografici_________ 73

3. Errata Corrige_________ 75

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


 

On linguistic Aspects of Translation

According to Bertrand Russell, “no one can understand the word ‘cheese’ unless he has a nonlinguistic acquaintance with cheese” (Russell 1950). If, however, we follow Russell’s fundamental precept and place our “emphasis upon the linguistic aspects of traditional philosophical problems,” then we are obliged to state that no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” and if he has at least a linguistic acquaintance with curds. We never consumed ambrosia or nectar and have only a linguistic acquaintance with the words ambrosia, nectar, and gods – the name of their mythical users; nonetheless, we understand these words and know in what contexts each of them may be used.

The meaning of the words cheese, apple, nectar, acquaintance, but, mere, and of any word or phrase whatsoever is definitely a linguistic–or to be more precise and less narrow–a semiotic fact. Against those who assign meaning (signatum) not to the sign, but to the thing itself, the simplest and truest argument would be that nobody has ever smelled or tasted the meaning of cheese or of apple. There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. An array of linguistic signs is needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in general or of any cheese, any milk product, any food, any refreshment, or perhaps any box irrespective of contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering, sale, prohibition, or malediction? (Pointing actually may mean malediction; in some cultures, particularly in Africa, it is an ominous gesture.)

For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic

Sugli aspetti linguistici della traduzione

Secondo Bertrand Russell «nessuno può capire la parola “cheese” se non ha un’esperienza non-linguistica del formaggio» (Russell 1950). Se però accettiamo il precetto fondamentale di Russell e mettiamo l’«enfasi sugli aspetti linguistici dei problemi filosofici tradizionali» siamo costretti ad affermare che nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» e se ha almeno un’esperienza linguistica di «latte cagliato». Noi non abbiamo mai assaggiato l’ambrosia o il nettare e abbiamo un’esperienza solo linguistica delle parole «ambrosia» [ambrosia], «nectar» [nettare], e «gods» [dèi] – il nome dei loro mitici consumatori; eppure, capiamo queste parole e sappiamo in quali contesti si può utilizzare ciascuna di esse.

Il significato delle parole «cheese», «apple», «nectar», «acquaintance», «but», «mere» [rispettivamente formaggio, mela, nettare, esperienza, ma, solo] e di qualsiasi parola o frase di qualsiasi tipo è chiaramente un fatto linguistico – o per essere più precisi e meno ristretti – semiotico. Contro chi assegna il significato (signatum) non al segno, ma alla cosa stessa, l’argomentazione più semplice e più vera sarebbe che nessuno ha mai sentito l’odore né il sapore del significato di «cheese» o di «apple». Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola sconosciuta è necessaria una serie di segni linguistici. Il semplice fatto di indicarla non ci dirà se «cheese» è il nome di quel singolo campione, o di qualsiasi confezione di camembert, o del camembert in generale, o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino, o forse qualsiasi confezione indipendentemente dal contenuto. Insomma, una parola dà semplicemente un nome alla cosa in questione, oppure implica un significato, per esempio, di offerta, vendita, proibizione o maledizione? (Indicare, di fatto, può significare maledizione; in alcune culture, in particolare in Africa, è un gesto di cattivo auspicio.)

Per noi, sia come linguisti sia come normali utenti di parole, il significato di

 

sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which it is more fully developed” as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Dewey 1946). The term “bachelor” may be converted into a more explicit designation, “unmarried man,” whenever higher explicitness is required. We distinguish three ways of interpreting a verbal sign: it may be translated into other signs of the same language, into another language, or into another, nonverbal system of symbols. These three kinds of translation are to be differently labeled:

  1. Intralingual translation or rewording is an interpretation of verbal signs by means of other signs of the same language.
  2. Interlingual translation or translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language.
  3. Intersemiotic translation or transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems.

The intralingual translation of a word uses either another, more or less synonymous, word or resorts to a circumlocution. Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate.” A word or an idiomatic phrase-word, briefly a code-unit of the highest level, may be fully interpreted only by means of an equivalent combination of code units, that is, a message referring to this code unit: “every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor,” or “every celibate is bound not to marry, and everyone who is bound not to marry is a celibate.”

Likewise on the level of interlingual translation, there is ordinarily no full equivalence between code units, while messages may serve as adequate interpretations of alien code units or messages. The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr, because cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru I tvorogu (bring cheese and [sic] cottage cheese). In standard Russian, the food made of pressed curds is called syr only if ferment is used.

Most frequently, however, translation from one language into another substitutes

qualsiasi segno linguistico è la sua traduzione in un segno ulteriore, alternativo, in particolare un segno «in cui è più pienamente sviluppato», come affermava insistentemente Peirce, il più profondo indagatore nell’essenza dei segni (Dewey 1946). Il termine «bachelor» [scapolo] si può convertire in una designazione più esplicita, «unmarried man» [uomo non sposato], ogni volta che sia richiesta una maggiore esplicitezza. Si distinguono tre modi di interpretare un segno verbale: si può tradurre in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua, o in un altro sistema, non verbale, di simboli. Questi tre tipi di traduzione devono essere classificati in modo diverso:

  1. La traduzione intralinguistica o riverbalizzazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua.
  2. La traduzione interlinguistica o traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua.
  3. La traduzione intersemiotica o trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali.

La traduzione interlinguistica di una parola o usa un’altra parola, più o meno sinonima, o ricorre a una circonlocuzione. Però la sinonimia, di norma, non è equivalenza completa: per esempio «every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate». Una parola o una frase idiomatica, insomma un’unità di codice del livello più alto, può essere interpretata pienamente solo per mezzo di una combinazione equivalente di unità di codice, e cioè un messaggio che si riferisce a questa unità di codice: «every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor» o «every celibate is bound not to marry and everyone who is bound not to marry is a celibate».

Similmente, a livello di traduzione interlinguistica di norma non c’è piena equivalenza tra diverse unità di codice, mentre i messaggi potrebbero fungere da interpretazioni adeguate di unità di codice o messaggi straneiri. La parola inglese «cheese» non si può identificare completamente con il suo eteronimo russo standard «syr» perché il «cottage cheese» [fiocchi di latte] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte). Nel russo standard l’alimento fatto di latte cagliato pressato si chiama «syr» solo se è un formaggio fermentato.

Spessissimo, comunque, la traduzione da una lingua a un’altra sostituisce


 

messages in one language not for separate code units but for entire messages in same other language. Such a translation is a reported speech; the translator recodes and transmits a message received from another source. Thus translation involves two equivalent messages in two different codes.

Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. Like any receiver of verbal messages, the linguist acts as their interpreter. No linguistic specimen may be interpreted by the science of language without a translation of its signs into other signs of the same system or into signs of another system. Any comparison of two languages implies an examination of their mutual translatability; widespread practice of interlingual communication, particularly translating activities, must be kept under constant scrutiny by linguistic science. It is difficult to overestimate the urgent need for and the theoretical and practical significance of differential bilingual dictionaries with careful comparative definition of all the corresponding units in their intention and extension. Likewise differential bilingual grammars should define what unifies and what differentiates the two languages in their selection and delimitation of grammatical concepts.

Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaiming the dogma of untranslatability. “Mr. Everyman, the natural logician,” vividly imagined by B. L. Whorf, is supposed to have arrived at the following bit of reasoning: “Facts are unlike to speakers whose language background provides for unlike formulation of them” (Whorf 1956). In the first years of the Russian revolution there were fanatic visionaries who argued in Soviet periodicals for a radical revision of traditional language and particularly for the weeding out of such misleading expressions as “sunrise” or “sunset.” Yet we still use this Ptolemaic imagery without implying a rejection of Copernican doctrine, and we can easily transform our customary talk about the rising and setting sun into a picture of the earth’s rotation simply because any sign is translatable into a sign in which it appears to us more fully developed and precise.

An ability to speak a given language implies an ability to talk about this language.

messaggi in una lingua non per singole unità di codice ma per messaggi completi in un’altra lingua. Una traduzione di questo tipo è un discorso riferito; il traduttore ricodifica e trasmette un messaggio ricevuto da un’altra fonte. Così, la traduzione riguarda due messaggi equivalenti in due codici diversi.

L’equivalenza nella differenza è il problema cardinale della lingua e la preoccupazione primaria della linguistica. Come ogni ricevente di messaggi verbali, il linguista funge da loro interprete. La scienza del linguaggio non potrebbe interpretare nessun campione linguistico senza tradurne i segni in altri segni dello stesso sistema o in segni di un altro sistema. Qualsiasi confronto tra due lingue implica un esame della loro reciproca traducibilità; la pratica diffusa della comunicazione interlinguistica, e in particolare le attività di traduzione, devono essere tenute costantemente sotto osservazione dalla scienza linguistica. È difficile sopravvalutare l’urgente bisogno e il significato teorico e pratico di dizionari bilingui differenziali con un’accurata definizione comparativa di tutte le unità corrispondenti nella loro intensione ed estensione. Similmente, grammatiche bilingui differenziali dovrebbero definire che cosa unifica e che cosa differenzia le due lingue nella loro selezione e delimitazione dei concetti grammaticali.

Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono assai intricate, e di tanto in tanto si fa qualche tentativo di spezzare il nodo gordiano proclamando il dogma dell’intraducibilità. «Il signor Chiunque, il logico naturale» uscito dalla vivida immaginazione di B. L. Whorf, dovrebbe essere arrivato al seguente ragionamento: «I fatti sono diversi per i parlanti il cui background linguistico ne fa dare una formulazione diversa» (Whorf 1956). Durante i primi anni della Rivoluzione russa alcuni fanatici visionari dibattevano sui periodici sovietici per ottenere una revisione radicale della lingua tradizionale e in particolare per sradicare espressioni fuorvianti come il sorgere e il tramontare del sole. Eppure noi usiamo ancora questo immaginario tolemaico senza che ciò implichi il rifiuto della dottrina copernicana, e possiamo facilmente trasformare il nostro parlare abituale del sole che sorge e tramonta in un’immagine della rotazione terrestre semplicemente perché qualsiasi segno è traducibile in un segno nel quale ci sembra più pienamente sviluppato e preciso.

La facoltà di parlare una data lingua implica la facoltà di parlare a proposito di


 

Such a metalinguistic operation permits revision and redefinition of the vocabulary used. The complementarity of both levels – object language and metalanguage – was brought out by Niels Bohr: all well-defined experimental evidence must be expressed in ordinary language, “in which the practical use of every word stands in complementary relation to attempts of its strict definition” (Bohr 1948).

All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology may be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions. Thus in the newborn literary language of the Northeast Siberian Chukchees, “screw” is rendered as “rotating nail,” “steel” as “hard iron,” “tin” as “thin iron,” “chalk” as “writing soap,” “watch” as “hammering heart.” Even seemingly contradictory circumlocutions, like “electrical horsecar” (èlektričeskaja konka), the first Russian name of the horseless streetcar, or “flying steamship” (jeha paraqot), the Koryak term for the airplane, simply designate the electrical analogue of the horsecar and the flying analogue of the steamer and do not impede communication, just as there is no semantic “noise” and disturbance in the double oxymoron—“cold beef-and-pork hot dog.”

No lack of grammatical device in the language translated into makes impossible a literal translation of the entire conceptual information contained in the original. The traditional conjunctions “and,” “or” are now supplemented by a new connective“and/or”—which was discussed a few years ago in the witty book Federal Prose—How to Write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Of these three conjunctions, only the latter occurs in one of the Samoyed languages (Bergsland 1949). Despite these differences in the inventory of conjunctions, all three varieties of messages observed in “federal prose” may be distinctly translated both into traditional English and into this Samoyed language. Federal prose: (1) John and Peter, (2) John or Peter, (3) John and/ or Peter will come. Traditional English: (3) John and Peter or one of them will come. Samoyed: (1) John and/ or Peter, both will come, (2) John and/ or Peter, one of them will come.

If some grammatical category is absent in a given language, its meaning may be translated into this language by lexical means. Dual forms like Old Russian brata are


 

questa lingua. Tale operazione “metalinguistica” permette la revisione e la ridefinizione del vocabolario usato. La complementarità di entrambi i livelli – linguaggio-oggetto e metalinguaggio – è stata messa in luce da Niels Bohr: ogni evidenza sperimentale ben definita deve essere espressa nella lingua ordinaria, «nella quale l’uso pratico di ogni parola sta in una relazione complementare con i tentativi della sua rigida definizione» (Bohr 1948).

Tutta l’esperienza cognitiva e la sua classificazione è trasponibile in qualsiasi lingua esistente. Quando vi sia una deficienza, è possibile qualificare e amplificare la terminologia mediante prestiti o traduzioni di prestiti, mediante neologismi o cambiamenti semantici e, infine, mediante circonlocuzioni. Così, nella neonata lingua letteraria dei ciukci della Siberia nordorientale, «vite» diventa «chiodo rotante», «acciaio» «ferro duro», «latta» «ferro sottile», «gesso» «sapone che scrive», «orologio» «cuore martellante». Persino le circonlocuzioni apparentemente contraddittorie, come «tram a cavalli elettrico» («èlektričeskaja konka»), il primo nome russo del tram senza cavalli, o «nave a vapore volante» («jena paragot»), il termine coriaco per l’aeroplano, designano semplicemente l’analogo elettrico del tram a cavalli e l’analogo volante della nave a vapore e non impediscono la comunicazione, allo stesso modo in cui non c’è “rumore” semantico o disturbo nel doppio ossimoro «cold beef-and-pork hot dog».

Nessuna categoria grammaticale mancante nella lingua verso la quale si traduce rende impossibile una traduzione letterale dell’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate da un nuovo connettivo – «and/or» [e/o] – di cui si è discusso qualche anno fa con arguzia nel libro Federal Prose – How to write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Di queste tre congiunzioni, in una lingua samoieda esiste solo l’ultima (Bergsland 1949). Nonostante le differenze nell’inventario delle congiunzioni, tutte e tre le varietà di messaggi osservate nella “prosa federale” possono essere tradotte distintamente sia verso l’inglese tradizionale sia verso la lingua samoieda in questione. Prosa federale: 1) John and Peter, 2) John or Peter, 3) John and/or Peter will come. Inglese tradizionale: 3) John and Peter or one of them will come. Samoiedo: 1) John e/o Peter verranno entrambi, 2) John e/o Peter, uno dei due verrà.

Se una data lingua manca di una categoria grammaticale, il suo significato si può tradurre in questa lingua con mezzi lessicali. Le forme duali come «brata» in russo

translated with the help of the numeral: “two brothers.” It is more difficult to remain faithful to the original when we translate into a language provided with a certain grammatical category from a language devoid of such a category. When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers”—“She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities—brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother.

As Franz Boas neatly observed, the grammatical pattern of a language (as opposed to its lexical stock) determines those aspects of each experience that must be expressed in the given language: “We have to choose between these aspects, and one or the other must be chosen” (Boas 1938). In order to translate accurately the English sentence I hired a worker, a Russian needs supplementary information, whether this action was completed or not and whether the worker was a man or a woman, because he must make his choice between a verb of completive or noncompletive aspect—nanjal or nanimal—and between a masculine and feminine noun—rabotnika or rabotnicu. If I ask the utterer of the English sentence whether the worker was male or female, my question may be judged irrelevant or indiscreet, whereas in the Russian version of this sentence an answer to this question is obligatory. On the other hand, whatever the choice of Russian grammatical forms to translate the quoted English message, the translation will give no answer to the question of whether I hired or have hired the worker, or whether he/she was an indefinite or definite worker (a or the). Because the information required by the English and Russian grammatical pattern is unlike, we face quite different sets of two-choice situations; therefore a chain of translations of one and the same isolated sentence from English into Russian and vice-versa could entirely deprive such a message of its initial content. The Geneva linguist S. Karcevskij used to compare such a gradual loss with a circular series of unfavorable currency transactions. But evidently the richer the context of a message, the smaller the loss of information.

antico si traducono con l’aiuto dei numerali: «due fratelli». È più difficile restare fedeli all’originale quando si traduce verso una lingua che dispone di una certa categoria grammaticale da una lingua che manca di tale categoria. Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli». Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» [fratello] o «brothers» [fratelli], o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «She has either one or more than one brother» [Lei ha uno o più fratelli].

Come ha acutamente osservato Boas, il modello grammaticale di una lingua (diversamente dal suo bagaglio lessicale) determina quali aspetti di ogni esperienza devono essere espressi in quella data lingua: «Dobbiamo scegliere tra questi aspetti, e uno o l’altro va scelto» (Boas 1938). Per tradurre correttamente la frase inglese «I hired a worker» [Ho assunto un/ un’ operaio/ a] a un russo occorrono altre informazioni: se questa azione è stata completata o no e se l’operaio era uomo o donna, perché deve effettuare la scelta tra un verbo di aspetto perfettivo o imperfettivo – «nanjal» o «nanimal» – e tra un nome maschile o femminile –  «rabotnika» o «rabotnicu». Se chiedessi a chi ha pronunciato la frase inglese se l’operaio in questione era un uomo o una donna, la mia domanda potrebbe essere reputata irrilevante o indiscreta, mentre nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo. D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre il messaggio inglese in questione, la traduzione non darà risposta alla domanda se «I hired» o «I have hired» il lavoratore, o se lui/ lei era una persona indefinita o definita («a» [un/ un’] o «the» [il/ l’]). Dato che le informazioni richieste dal modello grammaticale inglese e russo sono diverse, ci troviamo di fronte a sequenze completamente discordanti di situazioni ambigue; perciò più traduzioni a catena di una stessa frase dall’inglese verso il russo e viceversa potrebbero svuotare completamente del contenuto iniziale un messaggio del genere. Il linguista ginevrino S. Karcevski paragonò questa perdita graduale a una serie circolare di transazioni finanziarie sfavorevoli. Ma evidentemente, più è ricco il contesto di un messaggio, minore è la perdita di informazioni.


 

Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey. Each verb of a given language imperatively raises a set of specific yes-or-no questions, as for instance: is the narrated event conceived with or without reference to its completion? is the narrated event presented as prior to the speech event or not? Naturally the attention of native speakers and listeners will be constantly focused on such items as are compulsory in their verbal code.

In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations—the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms. But in jest, in dreams, in magic, briefly, in what one would call everyday verbal mythology, and in poetry above all, the grammatical categories carry a high semantic import. In these conditions, the question of translation becomes much mare entangled and controversial.

Even such a category as grammatical gender, often cited as merely formal, plays a great role in the mythological attitudes of a speech community. In Russian the feminine cannot designate a male person, nor the masculine specify a female. Ways of personifying or metaphorically interpreting inanimate nouns are prompted by their gender. A test in the Moscow Psychological Institute (1915) showed that Russians, prone to personify the weekdays, consistently represented Monday, Tuesday, and Thursday as males and Wednesday, Friday, and Saturday as females, without realizing that this distribution was due to the masculine gender of the first three names (ponedel’nik, vtornik, četverg) as against the feminine gender of the others (sreda, pjatnica, subbota). The fact that the word for Friday is masculine in some Slavic languages and feminine in others is reflected in the folk traditions of the corresponding peoples, which differ in their Friday ritual. The widespread Russian superstition that a fallen knife presages a male guest and a fallen fork a female one is determined by the masculine gender of nož (knife) and the feminine of

Le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere. Ogni verbo di una data lingua pone imperativamente una serie di domande che prevedono le risposte sì o no, come per esempio: l’evento narrato è concepito facendo riferimento al suo compimento oppure no? L’evento narrato è presentato come antecedente all’atto discorsuale oppure no? Naturalmente l’attenzione sia attiva che passiva dei madrelingua è costantemente focalizzata sulle parti obbligatorie nel loro codice verbale.

Nella sua funzione cognitiva la lingua dipende solo in minima parte dal modello grammaticale perché la definizione della nostra esperienza è in relazione complementare alle operazioni metalinguistiche – il livello cognitivo della lingua non solo ammette, ma richiede immediatamente un’interpretazione ricodificante, e cioè, una traduzione. Qualsiasi presunzione di ineffabilità o intraducibilità dei dati cognitivi sarebbe una contraddizione in termini. Ma negli scherzi, nei sogni, nella magia, insomma, in ciò che si potrebbe chiamare mitologia verbale quotidiana e soprattutto nella poesia, le categorie grammaticali hanno una forte rilevanza semantica. In queste condizioni, la questione della traduzione diventa molto più intricata e controversa.

Anche una categoria come il genere grammaticale, spesso ritenuta meramente formale, riveste un ruolo importante negli atteggiamenti mitologici di una comunità discorsuale. In russo il femminile non può designare una persona di sesso maschile, né il maschile può specificare una persona di sesso femminile. I modi di personificare o interpretare metaforicamente nomi inanimati sono suggeriti dal genere. Uno studio condotto presso l’Istituto psicologico di Mosca (1915) ha mostrato che i russi, inclini a personificare i giorni della settimana, rappresentavano costantemente il lunedì, il martedì e il giovedì come maschi e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femmine, senza rendersi conto che questa distinzione fosse dovuta al genere maschile dei primi tre nomi («ponedel’nik», «vtornik», «četverg») e, al contrario, al genere femminile degli altri («sreda», «pjatnica», «subbota»). Il fatto che la parola che sta per «venerdì» sia maschile in alcune lingue slave e femminile in altre si riflette nelle tradizioni folcloriche dei popoli corrispondenti, che differiscono nel rituale del venerdì. La diffusa superstizione russa secondo cui un coltello che cade è presagio di un ospite maschile e una forchetta che cade di uno femminile è determinata dal genere maschile di «nož» (coltello) e da quello

vilka (fork) in Russian. In Slavic and other languages where “day” is masculine and “night” feminine, day is represented by poets as the lover of night. The Russian painter Repin was baffled as to why Sin had been depicted as a woman by German artists: he did not realize that “sin” is feminine in German (die Sünde), but masculine in Russian (grex). Likewise a Russian child, while reading a translation of German tales, was astounded to find that Death, obviously a woman (Russian smert’, fem.), was pictured as an old man (German der Tod, masc.). My Sister Life, the title of a book of poems by Boris Pasternak, is quite natural in Russian, where “life” is feminine (žizn’), but was enough to reduce to despair the Czech poet Josef Hora in his attempt to translate these poems, since in Czech this noun is masculine (život).

What was the initial question which arose in Slavic literature at its very beginning? Curiously enough, the translator’s difficulty in preserving the symbolism of genders, and the cognitive irrelevance of this difficulty, appears to be the main topic of the earliest Slavic original work, the preface to the first translation of the Evangeliarium, made in the early 860s by the founder of Slavic letters and liturgy, Constantine the Philosopher, and recently restored and interpreted by A. Vaillant (Vaillant 1948). “Greek, when translated into another language, cannot always be reproduced identically, and that happens to each language being translated,” the Slavic apostle states. “Masculine nouns like potamos ‘river’ and astēr ‘star’ in Greek, are feminine in another language like rěka and zvězda in Slavic.” According to Vaillant’s commentary, this divergence effaces the symbolic identification of the rivers with demons and of the stars with angels in the Slavic translation of two of Matthew’s verses (7:25 and 2:9). But to this poetic obstacle, Constantine resolutely opposes the precept of Dionysius the Areopagite, who called for chief attention to the cognitive values (silě razumu) and not to the words themselves.

In poetry, verbal equations become a constructive principle of the text. Syntactic and morphological categories, roots, and affixes, phonemes and their components (distinctive features)—in short, any constituents of the verbal code—are confronted, juxtaposed, brought into contiguous relation according to the principle of similarity and contrast and carry their own autonomous signification.


 

femminile di «vilka»  (forchetta) in russo. Nelle lingue slave e nelle altre in cui «giorno» è maschile e «notte» è femminile, il giorno è rappresentato dai poeti come l’amante della notte. Il pittore russo Repin era perplesso di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come una donna: non si era reso conto che «peccato» è femminile in tedesco («die Sünde»), ma maschile in russo («grex»). Similmente, un bambino russo, leggendo alcune fiabe tedesche tradotte, si stupì nel vedere che Morte, ovviamente una donna (in russo «smert’», femm.) fosse ritratta come un vecchio (in tedesco «der Tod», masch.). Mia sorella la vita, il titolo di un libro di poesie di Boris Pasternak, è del tutto naturale in russo, dove «vita» è femminile («žizn’»), ma bastò per portare alla disperazione il poeta ceco Josef Hora nel tentativo di tradurre queste poesie, dal momento che in ceco questo nome è maschile («život»).

Quale fu il primo problema che emerse nella letteratura slava ai suoi albori? Piuttosto curiosamente, la difficoltà del traduttore nel preservare il simbolismo dei generi, e l’irrilevanza cognitiva di questa difficoltà, sembrano essere l’argomento principale della prima opera originale slava, la prefazione alla prima traduzione dell’Evangeliario, fatta poco dopo l’860 dal fondatore delle lettere e della liturgia slava, Costantino il Filosofo, e recentemente riportata alla luce e interpretata da André Vaillant (Vaillant 1948). «Il greco, quando è tradotto verso un’altra lingua, non si può sempre riprodurre in modo identico, e questo accade a ogni lingua che viene tradotta» afferma l’apostolo del mondo slavo. «I nomi maschili in greco come “potamos” (fiume) e “aster” (stella) sono femminili in un’altra lingua come “rěka” e “zvězda” in slavo». Secondo il commentario di Vaillant, questa divergenza cancella l’identificazione simbolica dei fiumi con i demoni e delle stelle con gli angeli nella traduzione slava di due versi di Matteo (7:25 e 2:9). Ma a questo ostacolo poetico, Costantino oppone con risolutezza il precetto di Dionigi l’Areopagita, che richiamava l’attenzione principale sui valori cognitivi («silě razumu») e non sulle parole stesse.

In poesia, le equazioni verbali diventano un principio costitutivo del testo. Le categorie sintattiche e morfologiche, le radici, e gli affissi, i fonemi e i loro componenti (tratti distintivi) – in breve, qualsiasi cosa costituisca il codice verbale – vengono confrontati, giustapposti, messi in relazioni contigue secondo il principio della somiglianza e del contrasto e sono dotati di una loro significazione autonoma. La

Phonemic similarity is sensed as semantic relationship. The pun, or to use a more erudite, and perhaps more precise term—paronomasia, reigns over poetic art, and whether its rule is absolute or limited, poetry by definition is untranslatable. Only creative transposition is possible: either intralingual transposition—from one poetic shape into another, or interlingual transposition—from one language into another, or finally intersemiotic transposition—from one system of signs into another, (from verbal art into music, dance, cinema, or painting).

If we were to translate into English the traditional formula Traduttore, traditore as “the translator is a betrayer,” we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? betrayer of what values?

 

 

 

Written in 1958 in Cambridge, Mass., and published in the book On Translation (Harvard University Press, 1959).


 

somiglianza fonemica è percepita come relazione semantica. Il gioco di parole, o per usare un termine più erudito, e forse più preciso, la paronomasia, regna sull’arte poetica, e, che il suo dominio sia assoluto o limitato, la poesia è per definizione intraducibile. Solo una trasposizione creativa è possibile: la trasposizione intralinguistica – da una forma poetica in un’altra, o la trasposizione interlinguistica – da una lingua in un’altra – o infine la trasposizione intersemiotica – da un sistema segnico in un altro (dall’arte verbale alla musica, alla danza, al cinema o alla pittura).

Se dovessimo tradurre verso l’inglese la formula tradizionale italiana «Traduttore traditore» come «The translator is a betrayer» priveremmo l’epigramma in rima di tutto il suo valore paronomastico. Quindi, un atteggiamento cognitivo ci costringerebbe a trasformare questo aforisma in un’affermazione più esplicita e a rispondere alle domande: traduttore di quali messaggi? Traditore di quali valori?

 

 

 

Scritto a Cambridge, Mass., nel 1958, e pubblicato nel volume On translation (Harvard University Press, 1959).


 

Language and Culture

The two speeches which have just been delivered are the first lectures in Japanese which I have heard in my life, and I shall tell you exactly what my feeling was. Around 1910, in my Moscow high-school years, I saw and heard a remarkable Japanese actress from Tokyo, Hanako. She ravished the Russian audience, was extolled by avant-garde writers and sketched by modern painters. I was deeply impressed by her performance and recounted to my parents her talks and monologues. Surprised by their question — “But what was her language?” — I answered, “Of course, it was Japanese, but we did understand it.” This is exactly what I can add to the clear-cut assertion of Professor Tsurumi.

What is needed in order to grasp the language of another? — One must have a keen feeling of intelligibility, an intuition of solidarity between the speaker and listener, and their joint belief in the capability of the message to go through, a capability which, in Russian, has found a felicitous label, doxodčivost’. If one longs for communication with his fellow man, the first step toward mutual comprehension is ensured. Because what is language? Language is overcoming of isolation in space and time. Language is a struggle against isolationism. And this fight occurs not only within the limits of an ethnic language, where people try to adjust to each other, and to understand each other within the bounds of family, town, or country; a similar striving also takes place on a bilingual or multilingual, international scale. One feels a powerful desire to understand each other. A palpable specimen is the example of neighboring Norwegian and Russian fishermen, who, during decades, or perhaps even centuries, met together for joint work and thus elaborated a common language which was called — Russians thought the label is Norwegian, and Norwegians, that this term is Russian — briefly, the common verbal code was named moyapåtvoya, which, in a Scandinavian shaping of Russian, means “mine in your way”. This may serve as a foreword to the topic of my paper.

Four decades ago, when the First International Congress of Linguists met in The Hague, all of us were struggling for the autonomy of linguistics, namely for the elaboration of its own specific methods and devices, and the very important task was to

Lingua e cultura

I due discorsi appena tenuti sono le prime conferenze in giapponese che io abbia mai ascoltato in vita mia, e vi dirò esattamente che sensazione ho provato. Attorno al 1910, all’epoca in cui frequentavo le scuole superiori a Mosca, ho visto e sentito parlare una notevole attrice giapponese di Tokio, Hanako. Rapì il pubblico russo, fu lodata da alcuni scrittori d’avanguardia e alcuni pittori moderni ne fecero degli schizzi. Io fui profondamente colpito dal suo spettacolo e ne raccontai discorsi e monologhi ai miei genitori. Sorpreso dalla loro domanda – «Ma in che lingua parlava?» – risposi: «In giapponese, naturalmente, ma lo capivamo». Questo è esattamente ciò che posso aggiungere all’affermazione esplicita del Professor Tsurumi.

Che cosa serve per cogliere la lingua altrui? – Bisogna sentire con chiarezza che c’è intelligibilità, intuire la solidarietà tra chi parla e chi ascolta e credere insieme che il messaggio possa passare, potenzialità che, in russo, ha trovato una definizione felice, «doxodčivost». Se si desidera comunicare con un altro essere umano, il primo passo verso la comprensione reciproca è assicurato. Perché, che cos’è il linguaggio? Il linguaggio è la vittoria sull’isolamento nello spazio e nel tempo. Il linguaggio è una lotta contro l’isolazionismo. E questa battaglia non avviene solo all’interno dei limiti di una lingua etnica, dove le persone provano ad adattarsi le une alle altre, e a capirsi a vicenda all’interno dei confini della famiglia, della città o della nazione; una tensione simile ha luogo anche su scala internazionale, bilingue o multilingue. Si avverte un forte desiderio di capirsi reciprocamente. Un caso concreto è l’esempio dei pescatori confinanti della Russia e della Norvegia, che, per decenni, o forse anche secoli, si incontravano per lavorare insieme ed elaborarono così un linguaggio comune che fu chiamato – i russi pensavano che il nome fosse norvegese, e i norvegesi che il termine fosse russo – insomma, questo codice verbale comune fu chiamato «moyapåtvoya», che, in una distorsione scandinava del russo, significa «mio a modo tuo». Ciò potrebbe fungere da prefazione al tema del mio intervento.

Quarant’anni fa, in occasione del Primo congresso internazionale dei linguisti a L’Aia, tutti noi ci battemmo per l’autonomia della linguistica, e cioè per l’elaborazione di tecniche e metodi specifici, e il compito più importante era quello di trovare e mostrare


 

find out  and to show where are the boundaries of linguistic science and what are the questions to which linguists must, and only linguists actually can, give an answer. Now, when we are near to the Tenth Congress of Linguists, which will begin in Bucharest at the end of this August, we stand before a completely different problem. At present, it is no longer the slogan of autonomy, but a program of integration, a plan of interdisciplinary relations, the problem of creative cooperation between diverse sciences. It is the problem of harmonious coordination for constructing a joint scientific domain, a science of mankind, and — in a far wider scope — a general science of life. Of course, integration implies autonomy, but, as it was once more neatly emphasized here by my dear friend, Professor Shirô Hattori, integration implies autonomy and excludes isolationism, because any isolationism harms our cultural life and our life in general. Obviously, there is no real integration without an autonomy which takes into account the necessity of intrinsic laws for every partial field and every discipline. There is another foe of these two creative ideas, autonomy and integration. The other dread enemy beside isolationism is heteronomy, or — if you permit me to translate this somewhat technical term into the vocabulary currently used by the newspapers — it is “colonialism” that we have to combat. Autonomy and integration: always welcome; isolationism and colonialism: henceforth inadmissible.

Now, what is the problem of language and culture? These two concepts are to be viewed in their interconnection. Then, first and foremost, what should we have in mind: language and culture or language in culture? Can we consider language as a part, as a constituent of culture, or is language something different, separate from culture? I know, many in the audience would like to ask: well, but how would one define culture? There are so many definitions, and an entire voluminous book was devoted by two outstanding American anthropologists, Kluckhohn and Kroeber, to the multifarious definitions of culture, their detailed list and discussion (Kluckhohn, Kroeber 1952). We may choose a very simple, operational definition, proposed in the instructive book Human Evolution by the biologist Campbell: “Culture is the totality of behavior patterns that are passed between generations by learning, socially determined behavior learned by imitation and instruction” (Campbell 1967). I think, one can agree with this emphasis on imitation and


dove fossero i confini della linguistica e quali fossero le domande alle quali i linguisti devono, e a cui di fatto solo i linguisti possono, dare una risposta. Ora che siamo vicini al «Decimo congresso dei linguisti», che comincerà a Bucarest alla fine di agosto, ci troviamo di fronte a un problema completamente diverso. Oggi non c’è più lo slogan dell’autonomia, ma un programma di integrazione, un progetto di relazioni interdisciplinari, il problema della cooperazione creativa tra scienze diverse. È il problema di un coordinamento armonioso per costruire un campo scientifico comune, una scienza dell’umanità, e – in un’ottica molto più vasta – una scienza generale della vita. Naturalmente l’integrazione implica l’autonomia, ma, come è già stato enfatizzato una volta con più decisione da un mio caro amico, il Professor Shirô Hattori, l’integrazione implica l’autonomia ed esclude l’isolazionismo, perché qualunque tipo di isolazionismo nuoce alla nostra vita culturale e alla nostra vita in generale. Ovviamente non c’è vera integrazione senza un’autonomia che tenga in considerazione la necessità di leggi intrinseche a ogni ramo parziale e a ogni disciplina. C’è un altro rivale di queste due idee creative, autonomia e integrazione. L’altro acerrimo nemico insieme all’isolazionismo è l’eteronimia, o – se mi consentite di tradurre questo termine, piuttosto tecnico, nel vocabolario usato normalmente dai giornali – è il “colonialismo” che va combattuto. Autonomia e integrazione: sempre gradite; isolazionismo e colonialismo: d’ora in poi inammissibili.

Ma qual è il problema della lingua e della cultura? Questi due concetti devono essere visti nelle loro reciproche relazioni. Inoltre, prima di tutto, che cosa dobbiamo avere in mente? Lingua e cultura o lingua nella cultura? Possiamo considerare la lingua come una parte, un costituente della cultura, o la lingua è qualcosa di diverso, di separato dalla cultura? Lo so, molti tra il pubblico vorrebbero chiedere: sì, ma come si potrebbe definire la cultura? Ne esistono tantissime definizioni, e due antropologi americani, Kluckhohn e Kroeber, hanno dedicato un intero volume alle molteplici definizioni di cultura, al loro elenco dettagliato e alla loro discussione (Kluckhohn, Kroeber 1952). Potremmo scegliere una definizione molto semplice e operativa, proposta nell’istruttivo libro Storia Evolutiva dell’uomo del biologo Campbell: «La cultura è la totalità dei modelli comportamentali trasmessi per apprendimento di generazione in generazione, un comportamento socialmente determinato appreso per imitazione e istruzione» (Campbell 1967). Penso


 

instruction as the basic cultural devices. But there is one gap in the passage cited and Professor Tsurumi’s lecture showed what the gap is: the diffusion of culture takes place not only in time but also in space. Learned solidarity of contemporaries cannot be disregarded. Yet if we accept the standpoint that cultural values are transmitted by learning, then what is to be said about language? Is it a cultural fact? Evidently language is transmitted by learning, and of course the acquisition of the child’s first language implies a learning contact between the infant and his parents or adults in general. If, moreover, one has to learn a second or further language, it requires a relation between people who learn one from the other. Among the definitions of culture current in anthropological literature, we also find an assertion that the principal way of diffusion for cultural goods is through the word, through the medium of language. Does this statement apply also to language itself? Of course, language is learned through the medium of language, and the child learns new words by comparing them with other words, by identifying and differentiating the new and previously acquired verbal constituents. According to the precise formula of the great American thinker Charles Sanders Peirce, verbal symbol originates from verbal symbol. Such is the way of language development.

If we define language as a cultural phenomenon, a very serious question immediately arises. In culture, we deal with the relevant notion of progress. I hardly need to add that any idea of straightforward progress is a bewildering oversimplification. We find most various and whimsical curves, and if we confront, for instance, the poetry of Dante and the pictorial masterpieces of the Italian 14th and 15th centuries with Italy’s poetry or art of the recent epochs, we could hardly view the 19th century as thoroughly advanced in comparison with works of the trecento. Many other striking examples could be adduced. When contemplating the fascinating Franco-Cantabrian cave paintings of beasts and hunters produced in the paleolithic period, sometimes we cannot but state how much more impressive and monumental they are than the so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers. These observations, however, do not imply any denial of progress. In the history of art, we deal


 

che si possa essere d’accordo con l’enfasi posta sull’imitazione e sull’istruzione come meccanismi culturali di base. Ma c’è una lacuna nel passaggio citato e la conferenza del professor Tsurumi ha mostrato di quale lacuna si tratta: la diffusione della cultura ha luogo non solo nel tempo ma anche nello spazio. Non si può trascurare la solidarietà appresa dei contemporanei. Eppure, se accettiamo l’idea che i valori culturali si trasmettono per apprendimento, cosa dire allora della lingua? È un fatto culturale? È evidente che la lingua si trasmette per apprendimento e ovviamente l’acquisizione della prima lingua da parte del bambino implica un contatto di apprendimento tra il neonato e i genitori o gli adulti in generale. Se, inoltre, si deve imparare una seconda o ulteriore lingua, è necessaria una relazione tra persone che imparano le une dalle altre. Fra le definizioni di cultura diffuse nella letteratura antropologica, si dice anche che è attraverso la parola che si diffondono maggiormente le merci culturali, per mezzo della lingua. Questa affermazione vale anche per la lingua stessa? Certo, la lingua si impara per mezzo della lingua, e il bambino impara le parole nuove confrontandole con altre parole, identificando e differenziando i nuovi costituenti verbali e quelli precedentemente acquisiti. Secondo la precisa formulazione del grande pensatore americano Charles Sanders Peirce, il simbolo verbale si origina dal simbolo verbale. È questo il modo in cui avviene lo sviluppo della lingua.

Se definiamo la lingua come fenomeno culturale, sorge immediatamente una questione molto seria. Nella cultura si ha a che fare con l’importante concetto di progresso. Non c’è bisogno di aggiungere che qualsiasi idea di progresso diretto è una semplificazione eccessiva che può disorientare. Vi si trovano le curve più diverse e inaspettate, e se confrontiamo, per esempio, la poetica di Dante e i capolavori pittorici del Trecento e del Quattrocento italiano con la poesia e l’arte italiana delle epoche recenti, faremmo fatica a considerare l’Ottocento veramente avanzato rispetto alle opere del Trecento. E di esempi così lampanti se ne potrebbero citare molti altri. Quando si contemplano le affascinanti pitture rupestri franco-cantabriche di animali e cacciatori risalenti al paleolitico, qualche volta non possiamo far altro che constatare quanto siano più impressionanti e monumentali delle cosiddette tele realistiche dell’Europa moderna, e, in particolare, dell’arte officiale dei suoi poteri autoritari. Queste osservazioni, comunque, non implicano alcuna negazione del progresso. Nella storia dell’arte abbiamo a che fare


 

with a progressively developing differentiation, technical innovations, etc. Similar conclusions on gradual sophistication may be made in the history of sciences, where, likewise, no straightforward line of development can be admitted. For instance, I recollect what was said to me by the greatest specialist of our time in questions of hearing, Professor G. von Békésy, who experienced a lively pleasure when reading Latin acoustical treatises of the 16th and 17th centuries where, despite the immense technical progress of modern acoustics, he used to detect some ideas of a higher refinement; with an affable smile he added: “It is not at all surprising; Stradivarius was made, not today, but just then.” Similar things could be stated on diverse scientific, for example, linguistic problems; certain branches, especially semantics, were in some respects more deeply conceived and elaborated during the Middle Ages than at present. Nonetheless, we must not forget those general lines of development which lead us still farther and farther and open ever new vistas.

Now let us approach language itself. Vocabulary may become richer and more adapted to the newer and more complex culture. The same with phraseology and with the diversity and variability of verbal styles. But in the grammatical system, morphological and syntactic, and in the whole sound pattern, no progress whatever has been detected. We can compare languages of the most cultivated nations with those of the socalled primitive peoples and we observe analogies and parallels between the former and the latter both in their grammatical processes and concepts: morphological categories and subclasses; structure of phrases, clauses, and sentences. All attempts of diverse linguists to find here traces of progress, and divergences between peoples of different cultural levels in the grammatical and phonological structure of their languages remained vain.

Occasionally, the question was raised whether that Samoyed language which has only one conjunction, in correspondence with our two conjunctions “and” and “or”, does not reflect a more primitive ethnic mind. However, a written variety of American English has recently developed a synthetic conjunction “and/or”, which is often considered a quite useful cultural tool. Now let us discuss whether a language which has merely one conjunction “and/or” instead of our two conjunctions “and” and “or” is impoverished in


 

con una differenziazione che si sta progressivamente sviluppando, con innovazioni tecniche, eccetera. Si possono trarre conclusioni simili a proposito di una graduale sofisticazione nella storia delle scienze, dove, anche in questo caso, non si può ammettere un andamento diretto dello sviluppo. Per esempio, ricordo ciò che mi è stato detto dal maggior specialista del nostro tempo per le questioni di udito, il Professor G. von Békésy, che provava grande soddisfazione nel leggere i trattati latini di acustica del sedicesimo e diciassettesimo secolo in cui, a dispetto dell’immenso progresso tecnico dell’acustica moderna, individuava alcune idee di maggior raffinatezza; con un sorriso affabile aggiunse: «La cosa non sorprende affatto; lo Stradivari si faceva all’epoca, non oggi». Considerazioni simili si potrebbero fare a proposito di diversi problemi scientifici, per esempio linguistici. Alcune branche, soprattutto la semantica, erano sotto certi punti di vista concepite ed elaborate molto più a fondo durante il Medioevo di quanto non lo siano oggi. Eppure, non vanno dimenticate quelle linee di sviluppo generali che ci conducono ancora più lontano aprendoci prospettive sempre nuove.

Ora avviciniamoci alla lingua in senso stretto. Il vocabolario può diventare più ricco e adattarsi maggiormente a una cultura più nuova e più complessa. Vale lo stesso per la fraseologia e la diversità e variabilità degli stili verbali. Ma nel sistema grammaticale, morfologico e sintattico, e nell’intero schema sonoro, non è stato individuato nessun progresso. Possiamo mettere a confronto le lingue delle nazioni culturalmente più avanzate con quelle dei cosiddetti popoli primitivi e osservarne analogie e paralleli sia nei processi sia nei concetti grammaticali: le categorie e le sottoclassi morfologiche; la struttura di proposizioni e frasi. Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso e divergenze tra popoli di diversi livelli culturali nella struttura grammaticale e fonologica delle loro lingue sono rimasti vani.

Ogni tanto qualcuno si è chiesto se quella lingua samoieda che dispone di una sola congiunzione corrispondente alle nostre due congiunzioni «and» [e] e «or» [o] non riflettesse una mente etnica più primitiva. Comunque, una varietà scritta di inglese americano ha di recente sviluppato una congiunzione sintetica «and/or» che è spesso considerata uno strumento culturale molto utile. Esaminiamo ora se una lingua che abbia una sola congiunzione «and/or» al posto delle nostre due congiunzioni «and» e «or» sia

its communicative means. Not at all! Everything can be expressed. If in this type of Samoyed language one says that “father and/or mother, one of them, will come”, we know that or is meant. If, however, the native says that “father and/or mother, both of them, will come”, then obviously and is the key: again, there is no annoying ambiguity in the message. The grammatical structure never does prevent the speaker from conveying the most complex and most exact information. If we venture to translate Albert Einstein’s or Bertrand Russell’s books into Bushmen or Gilyak languages, this task is perfectly achievable, whatever the grammatical structure of the given vernacular. Only its vocabulary must be enriched and adapted to the needs of a new scientific terminology. However, any new scientific or technical branch requires similar terminological reforms, adjustments, and innovations in languages of our civilization as well. Thus, for instance, such new fields as molecular genetics or quantum theory have generated their own, completely new dictionary, whereas the phonology, morphology, and syntax are pliable to any cultural need, with no request for modifications.

Still, there is the problem of explaining why no progress is seen in the phonological and grammatical structure of languages. The penetrating linguist Nikolaj Trubetzkoy told me once: “We should not forget that, in the age between two and five years, when we acquire the fundamentals of phonology and grammar, we do not belong to any adult culture, and the cultural level of the children’s environment plays no substantial role.” The primary orientation of infants tending to acquire the environmental language is directed towards linguistic universals. Here, we face the problem of universality in regard to languages. Yes, we search for a common language with our fellow men, and there is only one necessary prerequisite for finding a common language. Namely, we must apprehend that other human beings also speak a human language, and that, consequently, our languages are mutually translatable. Under these conditions, we may and must look for an actual accomplishment of the translation intended. Such a possibility vanishes only in the case when one of the virtual interlocutors does not realize that the other fellow is equally a human being. According to an old legendary story, after a shipwreck, the only white man who managed to reach a remote island was regarded by the natives as some kind of ape or demonic being. In either case, he was not suspected of mastering any


 

impoverita nei suoi mezzi comunicativi. Niente affatto! Si può esprimere tutto. Se in questo tipo di lingua samoieda si dice che «verrà il padre e/ o la madre, uno di loro» sappiamo che si intende «o». Se, invece, il madrelingua dice «verranno il padre e/ o la madre, entrambi» allora è evidente che la chiave è «e»: anche in questo caso non c’è alcuna fastidiosa ambiguità nel messaggio. La struttura grammaticale non impedisce mai al parlante di trasmettere l’informazione nel modo più complesso e più esatto. Se ci avventuriamo nella traduzione dei libri di Albert Einstein o Bertrand Russell nelle lingue boscimane o in gilyac, l’obiettivo è perfettamente raggiungibile qualunque sia la struttura grammaticale del vernacolo. Soltanto, il suo vocabolario deve essere arricchito e adattato alle necessità di una nuova terminologia scientifica. Del resto, qualsiasi nuova branca scientifica o tecnica richiede simili riforme, adattamenti, e innovazioni terminologiche anche nelle lingue della nostra civiltà. Così, per esempio, campi nuovi come la genetica molecolare o la teoria quantistica hanno generato i loro dizionari, completamente nuovi, mentre la fonologia, la morfologia e la sintassi si piegano a qualsiasi necessità culturale, senza richiedere alcuna modifica.

Eppure, occorre spiegare perché non si ravvisa alcun progresso nella struttura fonologica e grammaticale delle lingue. Il penetrante linguista Nikolaj Trubetzkoy una volta mi disse: «Non dovremmo dimenticare che, nell’età compresa tra i due e cinque anni, quando acquisiamo i fondamentali della fonologia e della grammatica, non apparteniamo a nessuna cultura adulta, e il livello culturale dell’ambiente che circonda i bambini non riveste un ruolo sostanziale». L’orientamento primario dei bambini che tendono ad acquisire la lingua ambientale è diretto verso gli universali linguistici. Qui ci troviamo di fronte al problema dell’universalità in relazione alle lingue. Sì, siamo alla ricerca di una lingua in comune con l’altro, e c’è un solo prerequisito necessario per trovare una lingua comune. E cioè, dobbiamo riconoscere che anche gli altri esseri umani parlano una lingua umana e che, di conseguenza, le nostre lingue sono mutuamente traducibili. In queste condizioni possiamo e dobbiamo cercare una realizzazione effettiva della traduzione desiderata. Tale possibilità svanisce solo nel caso in cui uno degli ipotetici interlocutori non comprenda che anche l’altro è un essere umano. Secondo una vecchia leggenda, dopo un naufragio, l’unico uomo bianco che riuscì a raggiungere un’isola remota fu visto dagli indigeni come una sorta di scimmione o di essere


 

intelligible language, and perished, unable to convince the aborigines that he, too, was a human being, and that, therefore, mutual comprehension was achievable.

We are faced with the fundamental fact and problem of the universally human and only human, command of language. Except in obviously pathological cases, all human beings, from their childhood, speak and understand speech. Nothing similar to human intercommunication exists outside mankind. This unique endowment must have some biological premises, namely, certain particular properties in the structure of the human brain. A further pertinent phenomenon has come to light. We observe a set of universal features in the structure of languages. Thus, all languages exhibit the same architectonic pattern, the same hierarchy of constituents from the smallest units to the widest, viz. from distinctive features and phonemes to morphemes, and from words to sentences. Any language whatever displays the same rules of implication and superposition, the same order alien to other sign systems. This structure of language turns it into an indispensable tool of thought and endows it with an imaginative and creative power. Language enables us to build ever new sentences and utterances, and to speak about things and events which are absent and remote in space and in time; to evoke nonexistent fictitious entities as well. The humane essence of language lies in the liberation of sayers and sayees from a confinement to the hic et nunc.

Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other — briefly, to delimit nurture from nature. Once again, we are faced with one of the most intricate questions of present scholarship. It is necessary to realize and to remember that the absolute boundary which our forebears saw between culture and nature does not exist. Both nature and culture intervene significantly in the behavior of animals, and also in that of human beings. A leading expert in problems of animal behavior, the English zoologist W. H. Thorpe, showed us, on the basis of his own observations and experiments which were supported by the research of other specialists, that birds, for instance, finches, if totally isolated from all other birds even before emerging from the egg, and moreover,


 

demoniaco. In un caso o nell’altro, non si sospettò che padroneggiasse una lingua intellegibile, e morì, incapace di convincere gli aborigeni che anche lui era un essere umano e che, quindi, si poteva arrivare a una comprensione reciproca.

Ci troviamo di fronte al fatto e al problema fondamentale della padronanza universalmente umana, e solo umana, della lingua. Ad eccezione di casi ovviamente patologici, tutti gli esseri umani, fin dall’infanzia, parlano e comprendono il parlato. Non esiste nulla di simile alla comunicazione fra esseri umani al di fuori del genere umano. Questa dotazione unica deve avere alcune premesse biologiche, e cioè, alcune proprietà particolari che risiedono nella struttura del cervello umano. È emerso un ulteriore e pertinente fenomeno. Nella struttura del linguaggio è presente una serie di caratteristiche universali. Così, tutte le lingue presentano lo stesso schema architettonico: la stessa gerarchia di costituenti dalle unità più piccole a quelle più ampie, cioè dai caratteri distintivi e fonemi ai morfemi, e dalle parole alle frasi. Qualsiasi lingua presenta le stesse regole di implicazione e sovrapposizione, ordine che è estraneo a sistemi segnici di altro tipo. Questa struttura della lingua la trasforma in uno strumento indispensabile di pensiero e la dota di potere immaginifico e creativo. La lingua ci consente di costruire frasi ed enunciati sempre nuovi, e di parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani nello spazio e nel tempo; e anche di evocare entità fittizie inesistenti. L’essenza umana della lingua risiede nella liberazione di coloro che dicono e coloro ai quali è detto dalla reclusione nell’hic et nunc.

Ora, quando si prende in considerazione la natura universalmente umana, e solo umana, della lingua, bisogna affrontare la questione delle barriere tra cultura e natura; tra adattamento culturale e apprendimento da un lato, ed eredità e innatezza dall’altro – insomma, si devono delimitare «nurture» e «nature». Ancora una volta, siamo di fronte a una delle questioni più intricate della scienza contemporanea. È necessario comprendere e ricordare che la barriera netta che i nostri predecessori vedevano tra cultura e natura non esiste. Sia la natura sia la cultura intervengono in modo significativo nel comportamento degli animali, così come in quello degli esseri umani. Uno dei massimi esperti nei problemi di comportamento degli animali, lo zoologo inglese W. H. Thorpe, ci ha mostrato, sulla base delle sue stesse osservazioni e di esperimenti supportati dalle ricerche di altri specialisti, che gli uccelli, per esempio i fringuelli, se completamente  isolati da


 

if they are deafened after being hatched, still perform the inborn blueprint of the song proper to the habit of their species, or even to the “dialect” of the subspecies (Thorpe 1961; 1963). This is a really inborn inheritance. If these artificially isolated fledgelings, (on the condition that their hearing has not been injured), are introduced into the society of other finches, they find and imitate their tutors. No equality exists even in the song of finches: there are better and worse performances, and the fledgelings try to follow the best singers. They learn, and their song improves.

In my adolescence, I had the opportunity to observe nightingales of the Tula region. If there was a master nightingale in the surroundings, all other neighboring nightingales sought to imitate him and to sing the habitual song with its customary variations in the best and most expanded way. But, whatever happens, a nightingale performs nothing else than the nightingale’s native song, and if you put a nightingale nestling among birds of another species, he will still cling to his inborn pattern without any adaptation to the environment. It is quite different with human children. If deprived of the adults’ model, they will remain speechless, without any traces of ancestral verbal habits. What they received as a biological endowment from their ancestors is the ability to learn a language as soon as there is a model at their disposal. Any of the extant human languages may serve them as an efficient cultural model. I knew a Nordic girl who spent her early childhood in South Africa, surrounded by aborigines, whom her father, a Norwegian anthropologist, was investigating. She spoke Bantu so well that students of Bantu could use her as a perfect native informant. After the family’s return to Norway, if she at any time felt insulted by her parents, she retorted in the purest Bantu language.

We conclude that both components — nature and culture, inheritance and acculturation — are present, but that the hierarchy of both factors is different. It is primarily nature in animals; primarily culture, ergo learning, in human beings. Accordingly, how will we define the place of language? We must say that language is situated between nature and culture, and that it serves as a foundation of culture. We may go even further and state that language is THE necessary and substantial foundation of human culture.


 

tutti gli altri uccelli ancor prima di uscire dall’uovo, e assordati appena dopo la schiusa, riproducono lo schema innato del canto caratteristico del comportamento della loro specie, o perfino del “dialetto” della sottospecie (Thorpe 1961; 1963). Si tratta di un retaggio davvero innato. Se questi uccellini isolati artificialmente (a condizione che il loro udito non sia stato danneggiato) sono introdotti in un’altra società di fringuelli, trovano e imitano i loro istruttori. Non c’è uguaglianza neppure nel canto dei fringuelli: ci sono prestazioni migliori e peggiori, e gli uccellini tentano di seguire chi canta meglio. Man mano che imparano, il loro canto migliora.

Da adolescente ho avuto l’opportunità di osservare gli usignoli della regione di Tula. Se c’era un usignolo maestro nelle vicinanze tutti gli altri usignoli da quelle parti cercavano di imitarlo e di eseguire il solito canto con le consuete variazioni nel modo migliore e più esteso possibile. Ma, qualunque cosa accada, un usignolo non canta nient’altro se non il canto innato dell’usignolo, e se mettiamo una nidata di usignoli tra gli uccelli di un’altra specie, resterà comunque fedele al suo modello innato senza adattarsi in alcun modo all’ambiente. Nel caso dei bambini, la situazione è completamente diversa. Se privati del modello adulto, resteranno muti, senza alcuna traccia delle abitudini verbali ancestrali. Ciò che hanno ricevuto come dotazione biologica dai loro antenati è la capacità di imparare una lingua in presenza di un modello a loro disposizione. Qualsiasi lingua umana ancora esistente potrebbe fungere da efficace modello culturale. Ho conosciuto una ragazza nordica che ha passato i primi anni della sua infanzia in Sudafrica, circondata dagli aborigeni che suo padre, un antropologo norvegese, stava studiando. Parlava il bantu così bene che gli studiosi del bantu potevano servirsi di lei come perfetta informatrice nativa. Dopo il ritorno della famiglia in Norvegia, ogni volta che si sentiva mancare di rispetto dai genitori rispondeva nella più pura lingua bantu.

In conclusione, entrambe le componenti – natura e cultura, eredità e acculturazione – sono presenti, ma la gerarchia di ciascuno dei due fattori è diversa. È soprattutto la natura negli animali; soprattutto la cultura, quindi l’apprendimento, negli esseri umani. Di conseguenza, come definiremo la posizione della lingua? Va detto che la lingua risiede tra la natura e la cultura, e che funge da fondamento della cultura. Potremmo anche spingerci oltre e affermare che la lingua è IL fondamento necessario e sostanziale della cultura umana.


 

When we hear the exact translation of these statements into Japanese by such a connoisseur of the two languages involved as Professor Shigeo Kawamoto, once more we ascertain the wonderful possibility of transposing scientific propositions and, in general, any statement of a purely cognitive character from one language into another. We learn again that the whole problem consists in a subtle, rational adjustment of the lexical and phraseological inventory. And what about the grammatical pattern? Here we enter into a question which had been repeatedly raised and, at the beginning of the 19th century, was clearly formulated by the prominent philosopher of language, Wilhelm von Humboldt. The most challenging approach to this question has been developed by the inquisitive linguist Benjamin Lee Whorf (1897-1941), plunged in a search as to whether and to what degree differences in the grammatical structure of languages reflect various attitudes toward the universe and dissimilarities in the thought of given ethnic groups (Whorf 1956). Sometimes, such a quest for an interconnection between language and thought led to narrowly isolationist doctrines, claiming that divergences in linguistic structure predestine peoples to an inevitable failure to understand each other. It might be replied to these fallacies that in any intellectual ideational, cognitive activities, we are always positively able to overcome the, so to speak, idiomatic character of grammatical structure and to reach a complete mutual comprehensibility.

However, beside strictly cognitive activities, there exists, and plays a great role in our life, a set of phenomena which might be labeled “everyday mythology”, and which finds its expression in divagations, puns, jokes, chatter, jabber, slips of the tongue, dreams, reverie, superstitions, and, last but not least, in poetry. The grammatical patterning of language plays a significant and autonomous part in these various manifestations of such mythopoeia.

I shall limit myself to a few examples. Students whose native tongue has no grammatical division of nouns into those of feminine and those of masculine gender are inclined to believe that such a division is purely formal. They admit that in application to animates a concept of the two sexes seems to underlie and to justify the difference of the two classes in languages which distinguish the above-mentioned grammatical genders, and that in these cases, the grammatical distinction is understandable, although hardly necessary. But we are told that, in respect to inanimate nouns, the opposition of


 

Quando sentiamo la traduzione esatta di queste affermazioni in giapponese da un tale conoscitore delle due lingue coinvolte come il Professor Shigeo Kawamoto, ancora una volta constatiamo la meravigliosa possibilità di trasporre proposizioni scientifiche e, in generale, qualsiasi affermazione di carattere puramente cognitivo da una lingua in un’altra. Ancora una volta comprendiamo come l’intero problema consista in un adattamento sottile e razionale dell’inventario lessicale e fraseologico. E il modello grammaticale? Qui introduciamo una questione che è stata sollevata più volte, e, all’inizio dell’Ottocento, è stata formulata con chiarezza dall’importante filosofo del linguaggio Wilhelm von Humboldt. L’approccio più stimolante alla questione è stato sviluppato dall’intraprendente linguista Benjamin Lee Whorf (1897-1941), intento a indagare se e in quale misura le differenze nella struttura grammaticale della lingua riflettano i diversi atteggiamenti nei confronti dell’universo e le diversità nel pensiero di dati gruppi etnici (Whorf 1956). A volte, una tale ricerca delle interconnessioni tra lingua e pensiero conduce a dottrine strettamente isolazioniste, che pretendono che le divergenze nella struttura linguistica condannino le persone a un inevitabile insuccesso nel comprendersi a vicenda. A queste fallacie si potrebbe ribattere che in qualsiasi attività intellettuale, ideativa e cognitiva, siamo sempre positivamente capaci di superare il cosiddetto carattere idiomatico della struttura grammaticale e raggiungere una piena comprensibilità reciproca.

Però, oltre alle attività strettamente cognitive, esiste, e riveste un ruolo importante nella nostra vita, una serie di fenomeni che potremmo chiamare “mitologia quotidiana”, e che trova la sua espressione in divagazioni, giochi di parole, chiacchiere, pettegolezzi, lapsus, sogni, fantasticherie, superstizioni, e, da ultimo ma non per importanza, nella poesia. La schematizzazione grammaticale della lingua riveste un ruolo significativo e autonomo nelle diverse manifestazioni di questa mitopoiesi.

Mi limiterò a qualche esempio. Gli studiosi la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile sono inclini a pensare che tale divisione sia puramente formale. Ammettono che, se applicato a esseri animati, il concetto dei due sessi sembra sottolineare e giustificare la differenza delle due classi nelle lingue che distinguono i sopracitati generi grammaticali, e che, in questi casi, la distinzione grammaticale è comprensibile, seppure quasi superflua. Ma ci dicono che, quanto ai nomi inanimati, l’opposizione di femminile e maschile perde


 

feminines and masculines loses any semantic pertinence. Let us illustrate the latent semantic value of these opposites in such a language as Russian, where the division of all nouns into genders is a relevant grammatical process. About 1915, an experiment was made in the Moscow Psychological Institute with the purpose of investigating how the ability to personify inanimate objects and abstract notions works. Fifty people were asked whether they could attribute such a personal nature to the days of the week. Five people said that to them the question made no sense, and were asked to leave the hall. The other forty-five had to write down how they visualized any week-day. The results were that all saw Monday, Tuesday, and Thursday as males, and Wednesday, Friday, and Saturday as females. Most of them did not realize that the reason for this division lies in the fact that in Russian these first three words are masculine, while the other three are feminine.

There is a superstitious or jocular foretoken that is widespread in Russia: when a knife (designated by a masculine noun) falls off the dining table, a male visitor is to be expected, but when it happens to be a fork or a spoon, then — in view of their feminine names — a female is supposed to come. In verbal art, the category of grammatical genders creates most peculiar situations. When, in my childhood, I read Grimms’ folk tales in Russian translation, I asked my mother, “How is it possible that death is an old man while actually she is a woman?” In German, the word for death — der Tod — is masculine, whereas its Russian equivalent — smert’ — is feminine. The association between sex and gender even filters into figurative art. The Russian painter I. Repin reacted to a German picture of “Sin” represented as a naked woman by an angry remark: “What a stupidity; sin (Russian masculine grex) must be virile.” Yet for Germans, with their feminine die Sünde, a manlike image of sin looks perverted.

The question of genders causes trouble in the translation of poetry. A noted Czech poet and translator of Russian poetry, Josef Hora, once called me in Prague, and said, “I am going crazy. I have translated all the poems of Boris Pasternak’s book My Sister Life (Sestra moja žizn’), but I am unable to reproduce its title.” The word for life (žizn’) is feminine in Russian, but masculine in Czech (život). He felt that it was awkward to build an apposition between the feminine sister and the masculine name of life, or to substitute


 

qualsiasi pertinenza semantica. Illustriamo il valore semantico latente di questi opposti in una lingua come il russo, dove la divisione di tutti i nomi in generi è un processo grammaticale importante. Nel 1915 circa è stato condotto un esperimento presso l’Istituto psicologico di Mosca, nell’intento di indagare in che modo funzionasse la capacità di personificare oggetti inanimati e nozioni astratte. Fu chiesto a cinquanta persone se fossero in grado di attribuire una natura personale ai giorni della settimana. In cinque risposero che la domanda era per loro priva di senso, e a questi fu chiesto di lasciare il locale. Gli altri quarantacinque dovevano scrivere in che modo visualizzassero ciascun giorno della settimana. Il risultato fu che tutti vedevano il lunedì, il martedì e il giovedì come maschili, e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femminili. La maggior parte di loro non si rese conto che la ragione di questa divisione risiede nel fatto che in russo le prime tre parole sono maschili, mentre le altre tre sono femminili.

In Russia è diffuso un presagio, per superstizione o per scherzo: quando un coltello (designato da un nome maschile) cade dalla tavola, ci si deve aspettare un ospite di sesso maschile, mentre quando a cadere sono una forchetta o un cucchiaio, a causa dei loro nomi femminili, dovrebbe arrivare una donna. Nell’arte verbale la categoria dei generi grammaticali crea situazioni molto peculiari. Quando, durante la mia infanzia, ho letto le fiabe dei fratelli Grimm nella traduzione russa, chiesi a mia madre: «Com’è possibile che la morte sia un vecchio quando in realtà è una donna?». In tedesco, la parola per morte – «der Tod» – è maschile, mentre il suo equivalente russo – «smert′» – è femminile. L’associazione tra sesso e genere traspare anche nelle arti figurative. Il pittore russo I. Repin, di fronte a una rappresentazione tedesca di «Peccato» raffigurato come una donna nuda, reagì con un’osservazione seccata: «Che sciocchezza; il peccato («grex» è il nome russo maschile) dev’essere virile». Eppure ai tedeschi, con il loro «die Sünde» femminile, un’immagine maschile del peccato sembra perversa.

La questione dei generi causa problemi nella traduzione poetica. Un noto poeta ceco e traduttore di poesie russe, Josef Hora, una volta mi chiamò a Praga e mi disse: «Sto impazzendo. Ho tradotto tutte le poesie del libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita (Sestra moja žizn’), ma non riesco a riprodurne il titolo». La parola vita («žizn’») è femminile in russo, ma maschile in ceco («život»). Trovava che fosse goffo inserire un’apposizione tra il nome femminile sorella e il nome maschile di vita, o sostituire


 

Brother for Sister in Pasternak’s suggestive simile. I shall choose my last example from countless, equally embarassing, divergences. In the famous octet of one of the greatest German poets, Heinrich Heine, a fir tree, alone and surrounded by snow and darkness in the far north, dreams about a palm, also lonely in the parching heat of the south. In its German text, this succinct poem is full of lyrical, unquenchable longing and grief; the contrasting genders, the masculine Fichtenbaum and the feminine Palme, prompt an erotic symbolism. The latter vanishes upon translation into a language deprived of a similar grammatic division, and for instance, English renditions of these lines make an insipid, rhetorical impression. A different complication arises when the same poem is transposed into Russian, where the names of the two trees both belong to the feminine gender (sosna, pal’ma). Therefore, in the translation made even by such an artist of Russian verse as Lermontov, native readers feel a peculiar, let us say, sugary tinge. French readers and listeners are amused or bewildered by Heine’s octet when translated into their mother tongue, which calls both trees by masculine nouns: le pin, le palmier.

Such grammatical categories as genders obviously find a wide and multiplex employment in those varieties of language where poetic or emotive function prevails over strictly cognitive aims. But what is the role of grammatical categories in the ordinary, current language of our everyday life? How can we define the grammatical meanings which necessarily underlie those categories? The pathfinder of American linguistics and anthropology, Franz Boas (1858-1942), outlined the specific character of grammatical meanings, namely the fact that they are compulsory in our speech (Jakobson 1959). Speakers are obliged to make constant use of them. Russian distinguishes, for instance, the perfective aspect, which signalizes the completion of a given process, and the imperfective which does not. Any time a Russian verb is used, one must state whether the completion is meant, or only the process, with no regard to completion. And when such a binary selection is incessantly repeated, almost in every sentence or even clause, one has to deal with a similar choice. This constant repetitiveness furthers a latent readiness (Einstellung) to respond to the given alternative and develops a specific subliminal orientation of the speakers’ and listeners’ attention. A similar focusing of attention takes place in regard to genders.


 

«Sorella» con «Fratello» nella suggestiva similitudine di Pasternak. Sceglierò il mio ultimo esempio tra innumerevoli differenze, tutte ugualmente imbarazzanti. Nel famoso ottetto di uno dei più grandi poeti tedeschi, Heinrich Haine, un abete, solo e circondato da neve e tenebre all’estremo nord, sogna una palma, anch’essa sola nell’arida calura del sud. Nel testo tedesco questa succinta poesia è pervasa di desiderio, lirico e inappagabile, e di dolore; i generi contrastanti, il maschile «Fichtenbaum» e il femminile «Palme», suggeriscono un simbolismo erotico. Quest’ultimo svanisce in una traduzione verso una lingua priva di tale divisione grammaticale e, per esempio, le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica. Una difficoltà ulteriore emerge quando si traspone la stessa poesia in russo, dove i nomi dei due alberi appartengono entrambi al genere femminile («sosna», «pal’ma»). Di conseguenza, anche nella traduzione di un artista della poesia russa come Lermontov, i lettori madrelingua sentono, per così dire, una punta di leziosità. I lettori e gli ascoltatori francesi restano divertiti o sorpresi dall’ottetto di Heine tradotto nella loro lingua madre, che chiama entrambi gli alberi con nomi maschili: «le pin», «le palmier».

Categorie grammaticali come i generi ovviamente trovano un ampio e molteplice impiego in quelle varietà della lingua in cui le funzioni poetica ed emotiva prevalgono sulle finalità strettamente cognitive. Ma qual è il ruolo delle categorie grammaticali nella lingua ordinaria e corrente della nostra vita quotidiana? Come possiamo definire i significati grammaticali che necessariamente stanno alla base di queste categorie? Il pioniere della linguistica e dell’antropologia in America, Franz Boas (1858-1942), ha delineato il carattere specifico dei significati grammaticali, cioè il fatto che sono obbligatori nel nostro discorso (Jakobson 1959). I parlanti sono costretti a farne un uso costante. Il russo distingue, per esempio, l’aspetto perfettivo, che segnala la compiutezza di un dato processo, e l’imperfettivo, che non lo segnala. Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento. E quando tale selezione binaria è ripetuta incessantemente, quasi in ogni frase o addirittura in ogni proposizione, bisogna fare i conti con tale scelta. Questa ripetitività costante incoraggia una disposizione latente (Einstellung) a reagire alla data alternativa e sviluppa uno specifico orientamento subliminale dell’attenzione dei parlanti e degli ascoltatori. Una simile focalizzazione dell’attenzione entra in gioco anche rispetto ai generi.

Grammatically, languages do not differ in what they can and cannot convey. Any language is able to convey everything. However, they differ in what a language must convey. If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It is none of your business.” But if we speak French or German or Russian, I am obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka. I am compelled to inform you about the sex of my companion not by virtue of a higher frankness, openness, and informativeness of the given languages, but only because of a different distribution of the focal points imparting information in the verbal codes of diverse languages. If you translate the mentioned sentence from Japanese into German, and the context of this sentence remains unknown to you, then three binary selections, compulsory in German, but deprived of equivalents in the grammatical pattern of Japanese, viz. a selection between masculine and feminine, between singular and plural, and between the definite and indefinite article, constrain you to choose one of eight semantically distinct possibilities: mit dem Nachbar; mit einem Nachbar; mit den Nachbarn; mit Nachbarn; mit der Nachbarin; mit einer Nachbarin; mit den Nachbarinnen; mit Nachbarinnen. Of course, if the verbal context or the nonverbalized situation of the given sentence does not supply its translator with sufficient cues, the latter faces certain dilemmas. They disappear when the same sentence has to be translated from German into Japanese, which is devoid of such grammatical distinctions. On the other hand, similar complications arise also for a translator of a German or Russian text into Japanese, which, in turn, is rich in grammatical distinctions without equivalents in Western languages. The outlined difficulties almost come to naught when translating a scientific work written clearly, unambiguously, and with lucid contextual meanings of all its verbal constituents.

The case of poetic language is quite different. One might even say that a close, faithful translation of poetry is a contradiction in terms. What remains possible is a congenial transposition — a free, creative response of an English poet to a Russian or Japanese author, and vice versa — a performance essentially similar to an artful,


 

Grammaticalmente, le lingue non differiscono in ciò che possono o non possono esprimere. Qualsiasi lingua è in grado di esprimere tutto. Al contrario, differiscono in ciò che una lingua deve esprimere. Se dico, in inglese (o analogamente in giapponese): «I spent last evening with a neighbor», potreste chiedermi se la persona che era con me fosse maschio o femmina, e io ho il diritto di fatto di darvi la risposta sgarbata «Non è affar vostro». Ma se parliamo francese, tedesco o russo, sono obbligato a evitare l’ambiguità e dire: «voisin» o «voisine», «Nachbar» o «Nachbarin», «Sosed» o «Sosedka». Sono costretto a informarvi sul sesso della persona che era con me non in virtù di una maggiore franchezza, apertura e informatività di tali lingue, ma solo a causa di una distribuzione diversa dei punti focali che ripartiscono l’informazione nei codici verbali di lingue diverse. Se traducete la frase in questione dal giapponese al tedesco, e il contesto di questa frase resta a voi sconosciuto, tre selezioni binarie, obbligatorie in tedesco ma prive di equivalenti nel modello grammaticale giapponese, e cioè una selezione tra maschile e femminile, tra singolare e plurale, e tra articolo determinativo e indeterminativo, vi costringono a scegliere una delle otto possibilità semanticamente distinte: «mit dem Nachbar»; «mit einem Nachbar»; «mit den Nachbarn»; «mit Nachbarn»; «mit der nachbarin»; «mit einer nachbarin»; «mit den Nachbarinnen»; «mit Nachbarinnen». Naturalmente, se il contesto verbale o la situazione non-verbalizzata della data frase non forniscono al traduttore indizi sufficienti, quest’ultimo si trova di fronte a una serie di dilemmi. Questi spariscono quando la stessa frase deve essere tradotta dal tedesco al giapponese, che è privo di queste distinzioni grammaticali. D’altro canto, simili complicazioni emergono anche per un traduttore di un testo tedesco o russo verso il giapponese, che, a sua volta, è ricco di distinzioni grammaticali senza equivalenti nelle lingue occidentali. Le difficoltà evidenziate diventano quasi irrilevanti traducendo un’opera scientifica scritta in modo chiaro, senza ambiguità, e con lucidi significati contestuali di tutti i suoi costituenti verbali.

Nel caso del linguaggio poetico le cose sono completamente diverse. Qualcuno potrebbe persino dire che una traduzione accurata e fedele della poesia è una contraddizione in termini. Ciò che rimane possibile è una trasposizione congeniale – una risposta libera e creativa di un poeta inglese a un autore russo o giapponese, e viceversa – un’interpretazione essenzialmente simile a una trasposizione ingegnosa, artistica di una


 

ingenious transposition of a poem or novel into a painting, motion-picture, ballet, or a piece of music. On the futility of any literal translation of poetic works into another language, we find a charming Russian story recounted by the linguist A. Potebnja: when a Greek was weeping over a native song, and curious Russians asked him to translate it, he replied that it was about a tree with leaves on its branches and a singing bird among the leaves; he added, “It’s nothing when translated, but as long as I hear it in Greek, it makes me cry.”

Our discussion of language and culture would remain incomplete without a few concluding remarks on the culture of language. With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities. In particular, the manifold problems of language teaching and learning on its different levels demand a wise and influential intervention from linguistic science. Various questions of standardization also acquire a heightened significance, and we linguists are prompted by colleagues from diverse fields of science, for instance, physics, who realize the great instrumental role of language in scientific operations, and who envisage and welcome the decisive contribution to be brought by the science of language to an overall checking inquiry into the language of science. In this connection it is, indeed, appropriate once more to recollect Niels Bohr’s insistence on the complementarity between the formalized or semi formalized language of sciences, particularly physics, and the usual, natural language which is the final foundation, the root of such artificial superstructures. This interrelation necessitates a durable interdisciplinary work. People primarily involved in the science of language, in other words linguists, must undertake it in collaboration with those representatives of diverse sciences who pay careful attention to the make-up of the formalized languages used by the given disciplines.

As to the question of the first paper delivered today, the need and task of an international auxiliary language, we must state that this question or rather bundle of questions, which had been deliberately disregarded by most linguists and linguistic institutions of the late nineteenth century, are presently more and more discussed.


 

poesia o di un romanzo in un quadro, un film, una danza o un brano musicale. Sulla futilità di qualsiasi traduzione letterale di opere poetiche in un’altra lingua esiste una storia affascinante raccontata dal linguista A. Potebnja: un greco stava piangendo mentre ascoltava una canzone della sua terra e, quando alcuni russi incuriositi gli chiesero di tradurla, rispose che parlava di un albero con i rami ricoperti di foglie e di un uccello che cantava tra le foglie; aggiunse: «Tradotta non dice nulla, ma quando la sento in greco mi fa piangere».

La nostra discussione a proposito di lingua e cultura resterebbe incompleta senza qualche considerazione conclusiva sulla cultura della lingua. Con il generale sviluppo, la crescita e la differenziazione della cultura, un’attenzione costante e attiva verso la cultura della lingua nei suoi diversi aspetti diventa un compito sempre più intricato, carico di responsabilità e urgente, per il quale i linguisti devono collaborare deliberatamente e sistematicamente con scrittori e altri validi portatori di attività culturali. In particolare, i molteplici problemi dell’insegnamento e apprendimento della lingua nei suoi diversi livelli richiedono un vasto e influente intervento della scienza linguistica. Anche diverse questioni di standardizzazione diventano più significative, e noi linguisti siamo stimolati dai colleghi di campi scientifici diversi, per esempio la fisica, che comprendono il grande ruolo strumentale della lingua nelle operazioni scientifiche, e che prevedono e accolgono volentieri il contributo decisivo che la scienza del linguaggio porta a un’indagine globale di controllo sul linguaggio della scienza. A questo proposito, infatti, è appropriato ricordare ancora una volta l’insistenza di Niels Bohr sulla complementarità tra linguaggio delle scienze formalizzato o semi-formalizzato, in particolare la fisica, e la lingua abituale, naturale, che è il fondamento ultimo, la radice di tali sovrastrutture artificiali. Questa interrelazione necessita di un lavoro interdisciplinare duraturo. Chi è primariamente coinvolto nella scienza del linguaggio, in altre parole i linguisti, deve portarla avanti in collaborazione con quei rappresentanti di scienze diverse che prestano particolare attenzione alla composizione delle lingue formalizzate usate da tali discipline.

Tornando alla questione sollevata nel primo intervento di oggi, il bisogno e il compito di una lingua ausiliaria internazionale, bisogna dire che la questione, o piuttosto il groviglio di questioni che sono state deliberatamente trascurate dalla maggior parte dei linguisti e delle istituzioni linguistiche della fine del diciannovesimo secolo, sono oggi


 

Linguists see now, with an ever greater clarity, that the study of a language cannot stop at its limits, and that we are faced with the vital phenomenon of languages in contact. The further experience of linguistic science reveals that interlingual ties are not confined to a territorial contact, since, furthermore, there exists a cultural contact between languages, independent of geographical contiguity. Such contact becomes an ever stronger international and universalistic bent and force, both in cultural and in linguistic aspects.

 

 

 

First presented as a public lecture in Tokyo on July 27, 1967 and published in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, no. 3 (May 1972).


sempre più discusse. Ora i linguisti capiscono, con sempre maggior chiarezza, che lo studio di una lingua non può fermarsi davanti ai suoi limiti, e che ci troviamo di fronte al fenomeno vitale delle lingue a contatto. L’ulteriore esperienza della scienza linguistica rivela che i legami interlinguistici non si limitano al contatto territoriale, dato che, a maggior ragione, esiste un contatto culturale tra le lingue, indipendente dalla contiguità geografica. Tale contatto diventa una spinta e una forza internazionale e universalistica ancora più forte, tanto per gli aspetti linguistici quanto per quelli culturali.

 

 

 

Presentato per la prima volta in occasione di una conferenza tenuta a Tokyo il 27 luglio del 1967 e pubblicato in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, n° 3 (maggio 1972).


Riferimenti bibliografici

BERGSLAND K. 1949 Finsk-ugrisk og almen språkvitenskap, in Bergsland K. Norsk Tidsskrift for Sprogvidenskap, XV.

BOAS F. 1938 Language, in Boas F. (ed.) General Anthropology, Boston.

BOHR N. 1948 On the Notions of Causality and Complementarity, in Bohr N. Dialectica, I.

CAMPBELL B. G. 1967. Human Evolution – An Introduction to Man’s Adaptations, Chicago, Aldine Publishing Company. Traduzione: Storia evolutiva dell’uomo, Milano, ISEDI, 1974.

DEWEY J. 1946 Peirce’s Theory of Linguistic Signs, Thought, and Meaning, in Dewey J. The Journal of Philosophy, XLIII.

JAKOBSON R. 1959 Boas’s View of Grammatical Meaning, in Jakobson R., Selected Writings, II, The Hague, Mouton.

KLUCKHOHN C., KROEBER, A. L. 1952 Culture: A Critical Review of Concepts and Definitions, in Kluckhohn C. e Kroeber A. Papers of the Peabody Museum of Harvard Archeology and Ethnology, Cambridge (Massachusetts), Museum Press.

MASTERSON J. R., WENDELL BROOKS P. 1948 Federal Prose, Chapel Hill, University of North Carolina Press.

RUSSELL B. 1950 Logical Positivism, in Russell B. Revue Internationale de Philosophie, IV, R. V. Marsh.

THORPE W. H. 1961 Bird Song, Cambridge University Press, Cambridge.

THORPE W. H. 1963 Learning and Instinct in Animals, London, Methuen.

VAILLANT A. 1948 La Préface de l’Évangeliaire vieux-slave, in Vaillant A. Revue des Études Slaves, XXIV.

WHORF B. L. 1956 Language, Thought, and Reality, Cambridge (Massachusetss), The M.I.T. Press, 1956. Traduzione: Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Analisi traduttologica


 

2.1. Roman Jakobson:

un americano con l’indole dell’emigrato russo

Qualche anno fa un uomo piuttosto anziano e trasandato entrò in un negozio di scarpe, a Ostia. Lo accompagnava una signora con la quale conversava fittamente in francese. Quasi senza interrompere il filo del discorso, scelse un paio di scarpe, le infilò e, lasciate quelle vecchie al centro del negozio, se ne andò. L’uomo era Roman Jakobson, ma se qualcuno si fosse preso la briga di informare il proprietario del negozio o i clienti presenti circa l’identità di quell’eccentrico personaggio, avrebbe avuto in risposta, quasi sicuramente, uno sguardo interrogativo […] (Mauri 1986).

Poco importa se le cose siano andate davvero nel modo in cui sono raccontate in questo aneddoto apparso su Repubblica il 25 novembre del 1986. Certo è che Jakobson, notissimo agli uomini di cultura del mondo intero, non è mai stato, a rigor di termini, popolare. Per questo motivo, prima di procedere all’analisi traduttologica dei due saggi cui il presente elaborato intende dedicarsi, ritengo opportuno fornire una breve nota biografica per inquadrare meglio una figura tanto eccentrica quanto schiva.

Nato nel 1896 in una famiglia benestante di Mosca, a soli diciannove anni, ancora studente presso la facoltà di storia e filologia della sua città natale, fondò insieme ad altri sei colleghi il Circolo linguistico di Mosca, la cui missione, «the study of linguistics, poetics, metrics and folklore» (Jakobson 1965: 530), gettò le basi della riflessione contemporanea non solo sulla poesia, ma, più in generale, sulla parola, sulla lingua. Nel corso degli anni Venti il progetto subì una battuta d’arresto; il nuovo assetto politico sovietico fu all’origine della diaspora del gruppo. Jakobson si trasferì a Praga, e nel 1933 gli fu assegnata una cattedra all’Università di Brno, che mantenne fino al 1939. Nel 1926 rivestì un ruolo di primo piano nella fondazione del Circolo linguistico di Praga, istituzione che influenzò enormemente lo strutturalismo europeo e la linguistica angloamericana del secondo dopoguerra. Nel 1939 l’occupazione nazista della Cecoslovacchia costrinse Jakobson alla fuga: dapprima in Danimarca, poi in Norvegia, e infine, nel 1940, in Svezia. Nel 1941 arrivò a New York, e nel corso degli anni Quaranta insegnò presso la Columbia University e l’École Libre des Hautes Études, dove ebbe modo di conoscere il padre fondatore dello strutturalismo antropologico, Claude Lévi-Strauss. Nel 1949 gli fu assegnata una cattedra alla Harvard e nel 1957 approdò all’M.I.T. Gli anni trascorsi negli Stati Uniti, dal 1941 fino alla morte avvenuta a Boston nel 1982, furono senza dubbio i più fecondi per la sua produzione. Ma l’autore non abdicò mai alle sue origini russe, e chi lo ha frequentato in America racconta che «la sua casa, la sua tavola, persino il suo funerale, celebrato secondo il rito ortodosso, erano tutt’ altro che americani» (Mauri 1986). Jakobson conservò sempre l’indole dell’emigrato, e la formazione multietnica cui fu esposto per tutta la vita riecheggia nell’intera sua opera.

Negli anni, entrando in contatto con le personalità più influenti del mondo scientifico e letterario dell’epoca, i suoi interessi si moltiplicarono: studiò i disturbi del linguaggio, grazie alla frequentazione di neurologi e psichiatri, si dedicò al linguaggio infantile e contribuì alla fondazione di una serie di discipline destinate a svilupparsi nel corso dei decenni successivi. Mauri, nell’articolo menzionato, ne riassume l’intensissima attività con queste parole: «[…] l’ uomo che era partito dalla fondazione di una scienza della poesia, dedicandosi a profondi studi anche sulla metrica cinese, oltre che sul verso russo e cèco, era arrivato infine a cercare i tratti unitari, le concatenazioni, nella apparente diversità del mondo» (Mauri 1986); una lettura a mio parere condivisibile, della quale i due saggi in esame sono una prova eloquente.


2.2. Tra innovazione e tradizione

A otto anni di distanza l’uno dall’altro, Roman Jakobson scrive due saggi destinati a dare inizio a un nuovo corso per gli studi sulla traduzione e a sgomberare il campo dai luoghi comuni che per anni li hanno assediati. On Linguistics Aspects of Translation (1959) e Language and Culture (1967) contengono, prima ancora che considerazioni sulla traduzione come attività, spunti sulla traduzione come concetto, sull’importanza che riveste nelle riflessioni in campo semiotico.

Alcuni anni prima, Benjamin Lee Whorf aveva avanzato la tesi secondo cui la nostra lingua madre restringerebbe l’ambito di ciò che siamo capaci di pensare, e che quindi «nessun individuo è libero di descrivere la natura con imparzialità assoluta ma è limitato a certe modalità interpretative anche mentre si crede assai libero» (Osimo 2002: 122). Le considerazioni di Whorf sul modellamento reciproco tra lingua e realtà stanno alla base dell’atteggiamento di Jakobson, che però affronta la questione dall’altra estremità: anziché soffermarsi su ciò che le lingue impediscono di pensare, l’attenzione è tutta rivolta a ciò che invece impongono di dire. Accantonata l’idea della presunta intraducibilità di alcuni fatti in parole, nel saggio del ’59 Jakobson giunge a una conclusione tanto semplice quanto geniale: «le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere» (p. 13). In altre parole, dal momento che non ci sono prove del fatto che esistano lingue che impediscono di pensare a qualcosa, era necessario guardare in un’altra direzione per scoprire in che modo la lingua madre modelli la nostra esperienza del mondo: se lingue diverse influenzano la mente in modi diversi, ciò non dipende da quello che la lingua ci permette di pensare, ma piuttosto da ciò che ci costringe a dire.

Da queste considerazioni prende le mosse il secondo saggio, Language and Culture, in cui la riflessione sulla relazione tra lingua e cultura si fa più profonda e articolata. Con sapiente retorica l’autore rivendica la stretta interconnessione tra lingua e cultura, fino ad affermare che la lingua è il fondamento della cultura umana.

Il riferimento implicito o esplicito a Peirce, «the great American thinker» (p. 22), è costante. In particolare, il richiamo al concetto di semiosi, da cui discende la volontà di inserire la traduzione nel campo d’indagine della «semiotica», permette di allargare lo studio della traduzione a fenomeni che fino a quel momento erano considerati del tutto estranei a questo ambito.

One of the most felicitous, brilliant ideas which general linguistics and semiotics gained from the American thinker is his definition of meaning as “the translation of a sign into another system of signs” (4.127). How many fruitless discussions about mentalism and anti-mentalism would be avoided if one approached the notion of meaning in terms of translation […] The problem of translation is indeed fundamental in Peirce’s views and can and must be utilized systematically (Jakobson 1977: 251).

Anche per Jakobson, in definitiva, «il nocciolo di qualunque processo di significazione […] è un insieme di processi traduttivi» (Osimo 2002: 181).


2.3. Peculiarità del saggio

2.3.1. Un crogiolo di culture

È raro che la traduzione dei saggi venga isolata come categoria a sé stante tra le diverse tipologie di testi tradotti. Eppure, meriterebbe un discorso a parte. Un saggio è «un testo non narrativo su un argomento di carattere prevalentemente filosofico, ma non necessariamente di filosofia pura: può occuparsi di letteratura, scienza, attualità, costume, politica» (Osimo 2004: 126). E, lungi dall’escludersi reciprocamente, queste (e altre) categorie spesso coesistono all’interno del medesimo saggio, complicando ulteriormente la situazione. La traduzione saggistica rientra nel campo della non-fiction, alla stregua dei testi scientifici, ma ha anche una forte componente estetica e intertestuale, propria dei testi letterari. Da un punto di vista formale, infatti, nel saggio prevale l’aspirazione estetica sul nozionismo puro, cosa che lo rende di più ampio respiro e più elegante rispetto a un articolo scientifico. Il suo elevato grado di connotatività e intertestualità, accanto alla precisione terminologica e al rigore delle argomentazioni, rende evidente come la distinzione tradizionale fra «traduzione letteraria» e «traduzione tecnica» non esaurisca la gamma delle traduzioni possibili. Nella traduzione saggistica, insomma, alle difficoltà terminologiche della traduzione settoriale si sommano le difficoltà stilistiche della traduzione letteraria. La presenza di riferimenti dati per scontati dall’autore, rimandi intertestuali impliciti ed espliciti e riflessioni di carattere filosofico hanno ricadute molto importanti sul piano della traduzione. Una sapiente abilità retorica consente a Jakobson di avvalorare le tesi scientifiche sostenute all’interno del saggio mettendole contemporaneamente in pratica: nel rivendicare l’integrazione tra scienze diverse e l’importanza delle relazioni interdisciplinari come base per costruire «a joint scientific domain, a science of mankind, and – in a far wider scope – a general science of life» (p.20), Jakobson abbraccia svariate discipline, anche molto distanti dall’ambito della linguistica, e dimostra di conoscerle a fondo.

Si spazia dall’antropologia di Kluckhohn, Kroeber e Boas alla biologia di Campbell, dalla neurofisiologia di Békésy alla fisica di Einstein, dalla zoologia di Thorpe alla filosofia di Russell. Anche la storia dell’arte e della letteratura sono chiamate in causa per stabilire che cosa si debba intendere per «progresso»: Dante e i capolavori della pittura italiana del Trecento e del Quattrocento sono paragonati ai risultati ben più deludenti dell’arte e della poesia dell’Ottocento. Jakobson risale fino al Paleolitico per citare le pitture rupestri franco-cantabriche, ancora una volta messe a confronto con la modernità delle «so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers». Non mancano i riferimenti anche ad altre letterature europee: per la tradizione tedesca compaiono i fratelli Grimm e le poesie di Heinrich Heine, mentre per la Cecoslovacchia il poeta Josef Hora. Dal mondo della religione provengono invece i cenni all’Evangeliario, a Costantino il Filosofo e a Dionigi l’Areopagita. Ovviamente, non potevano non esserci richiami alla linguistica: il linguista americano Benjamin Lee Whorf, il ginevrino Karcevskij, il tedesco Von Humboldt, il danese Bohr, l’ucraino Potebnja e l’immancabile Peirce.

Ma è il mondo russo a fare da sostrato culturale e linguistico a entrambi i saggi in esame. Benché Jakobson li abbia scritti in inglese, l’autore spesso sente la necessità di ricorrere alla sua lingua madre tanto nel lessico quanto nella scelta della cultura da cui estrarre i numerosi esempi proposti: la regione di Tula, il pittore Repin, il libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita, il poeta Lermontov. Anche le leggende, i racconti popolari, i vissuti dell’autore che costellano queste poche pagine attingono, per la maggior parte, alla tradizione russa. La dimensione esotica, già forte nel prototesto, risulta di impatto ancora maggiore per il lettore del metatesto, che oltre a dover fare i conti con i numerosi elementi culturospecifici di cui si è detto, deve confrontarsi con il riferimento costante al modello grammaticale inglese come termine di paragone nei confronti delle altre lingue chiamate in causa. Decidere quale trattamento riservare a questi esotismi (à 2.3.3.1) è stato un elemento fondante della strategia traduttiva. Non è sembrato opportuno operare una scelta di localizzazione perché il tipo di testo non lo avrebbe consentito: si tratta di saggi sulla traduzione, in cui l’autore riflette sul modo in cui categorie grammaticali diverse influiscono sul modo in cui le varie culture segmentano la realtà. Il confronto sistematico con il modello grammaticale inglese avrebbe perso di efficacia se gli esempi tratti da quella lingua fossero stati tradotti indiscriminatamente. Anzi, una simile strategia avrebbe fatto correre il rischio di commettere errori macroscopici. In Language and Culture, per esempio, un intero paragrafo è dedicato alla dimostrazione che «Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey» (p.12) e a tal proposito l’inglese e il giapponese vengono confrontati con il francese, il tedesco e il russo:

If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It’s none of your business”. But if we speak French or German or Russian, I’m obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka.

Nel caso della frase «I spent last evening with a neighbor», la traduzione verso l’italiano di «neighbor» implica necessariamente la scelta tra «vicino» o «vicina» anche laddove il contesto non fornisca elementi sufficienti per valutarlo, e questa “disambiguazione coatta” non darebbe adito a nessun equivoco sul sesso del vicino di casa. In questo senso le lingue differiscono in quello che devono esprimere, perché una traduzione della stessa frase che andasse nella direzione opposta, e cioè dall’italiano all’inglese, imporrebbe un solo traducente e ripristinerebbe l’ambiguità di fondo che solo il contesto potrebbe (forse) chiarire. Si tratta, in realtà, di un’ambiguità solo apparente, perché

Il fatto che nelle diverse culture si abbiano obblighi diversi di esprimere concetti significa che tutto ciò che non è obbligatoriamente espresso è dato per scontato, è implicito nella cultura, oppure è considerato di secondaria importanza (Osimo 2004: 33).

Peter Torop tra i parametri di traducibilità di una cultura inserisce anche il «parametro della lingua» (Torop 1995: 71) in cui rientrano le categorie grammaticali. In un esempio come quello citato sarebbe impensabile tradurre la frase esemplificativa in italiano, perché verrebbe meno la veridicità delle informazioni veicolate dal messaggio, data la diversità tra il modello grammaticale italiano e quello inglese. Per evitare simili inconvenienti e mantenere una coerenza di fondo nelle scelte traduttive si è deciso di non tradurre questi esempi e affidarne una spiegazione esaustiva al presente apparato metatestuale, con la consapevolezza che tale scelta postula un lettore modello non solo disposto ad aprirsi all’altro, ma anche «capace e attrezzato per affrontare la realtà del mondo altro» (Osimo 2004: 56).

 

2.3.2. Il lettore modello

[…] un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui […] (Eco 1979: 54).

Dalle parole di Eco si evince che l’autore (come il traduttore) deve prevedere un «modello del lettore possibile», condizione necessaria all’attualizzazione del testo e alla sua traduzione (Eco 1979: 7). È opportuno interrogarsi sulla sua identità, immaginarne gli interessi e le motivazioni che lo hanno spinto a prendere in mano due saggi di Jakobson. A un primo esame, risulta difficile ipotizzare un lettore che possa fruire di questi testi integralmente e in tutte le loro componenti. Le «condizioni di felicità», per dirla ancora con Eco, da soddisfare perché il testo sia pienamente attualizzato vorrebbero, a prima vista, un lettore-tuttologo. Basti pensare all’immenso patrimonio linguistico che si annida fra le pagine; per quantificare, sono citate sedici lingue, con relativi esempi: l’inglese, l’inglese americano, il russo, lo slavo antico, il norvegese, il giapponese, il bantu, il tedesco, il ceco, il francese, l’italiano, il latino, il greco, il koryak, le lingue samoiede e quelle slave. Considerato l’altissimo tasso di intertestualità dei testi in esame, una robusta competenza enciclopedica è indispensabile se non altro «per rendersi conto di sapere di non sapere […] e reagire indagando, e non assumendo di essere già in grado di affrontare lo scoglio» (Osimo 2007: 21). È opportuno supporre di eleggere a lettore modello una persona di cultura medio-alta, altrimenti rischierebbe di non cogliere i molti rimandi intertestuali di cui si è detto, presumibilmente di età adulta e con una conoscenza almeno rudimentale dell’inglese. Il notevole sforzo divulgativo compiuto dall’autore, che accanto all’enunciazione di concetti scientifici molto seri non disdegna l’aneddoto, la battuta e il tono colloquiale, va incontro al lettore interessato all’argomento ma con poche conoscenze di base. Le frequenti riformulazioni, le domande retoriche volte a tenere viva l’attenzione e a rendere più chiari i rapporti di causa-effetto delle argomentazioni, le fonti scrupolosamente indicate e la precisione terminologica concorrono all’innegabile fruibilità di un testo all’apparenza così ricco di insidie.

 

 

2.3.3. Perdite e compensazioni

Prendo in prestito il titolo di questo paragrafo da un capitolo del libro di Umberto Eco Dire quasi la stessa cosa (Eco: 2003) in cui l’autore demonizza le note a piè di pagina riducendole a ultima ratio a disposizione del traduttore, del quale sancirebbero la sconfitta. Di diverso parere è Torop, che anzi identifica una relazione di complementarità tra metatesto e paratesto:

[…] la parte fondamentale del protesto viene tradotta nel metatesto, ma alcune parti o aspetti possono essere “tradotti” nel commentario, nel glossario, nella prefazione, nelle illustrazioni (figure, mappe) e così via. In una simile complementarità non si può a mio parere ravvisare un’incompletezza nel metatesto: semplicemente, per il lettore del prototesto e per il lettore del metatesto il confine tra testuale ed extratestuale non coincide (Torop 1995: 64).

Non è un caso che la scuola semiotica di Tartu chiami «metatesto» tanto il testo tradotto quanto l’insieme delle informazioni paratestuali sul testo principale: entrambi i metatesti sono frutto di un processo traduttivo, interlinguistico in un caso, metatestuale («che genera metatesti»), dall’altro (Osimo 2004: 30). Il testo scritto, qualsiasi testo scritto, si sa, è solo la punta di un iceberg. Tutto il resto, la parte più cospicua, è non-detto. Esiste uno «spazio intertestuale» all’interno del quale ogni testo nasce, e da cui un autore è necessariamente influenzato, che ne sia consapevole o meno. Per questo motivo ogni testo è sempre un intertesto, e «ogni testo che viene generato porta in sé le tracce della memoria culturale collettiva, oltre a quella dell’autore» (Osimo 2004: 42). Tale rapporto tra detto e non-detto diviene in parte razionale nel caso di un testo tradotto, e una simile razionalizzazione comporta che la sua struttura venga denudata, esposta, messa in mostra (Torop 1995: 63). Da qui l’utilità di un ricco apparato metatestuale in cui convogliare tutte quelle informazioni che potrebbero interessare al lettore più desideroso di confrontarsi con l’altro, senza né venire meno alla cura filologica per l’originale, né imporre una lettura più lunga del necessario a chi non ne mostrasse interesse.

 

2.3.3.1. Apparati metatestuali

I due saggi in esame non esulano da queste considerazioni. L’elaborazione della strategia traduttiva deve prevedere anche a quale sede destinare la compensazione del residuo. Anzi, la decisione di come gestire il residuo è stata determinante per concepire la strategia traduttiva stessa: qualora non avessi avuto a disposizione lo spazio per redigere una postfazione accurata avrei certamente fatto ricorso alle note del traduttore per rendere conto degli impliciti culturali (che inglobano, secondo un approccio semiotico, anche le differenze linguistiche) e risolvere le questioni legate alla diversa categorizzazione grammaticale delle lingue e alle conseguenti differenze nella visione della realtà. Un caso di residuo incolmabile nel corpo del testo, ma di cui è semplice fornire una spiegazione in una sede diversa, è stata la traduzione di «cold beef-and-pork hot dog» (p. 8). È evidente che il gioco di parole tra «hot dog» e «cold beef-and-pork» può funzionare solo mantenendo l’esempio in inglese, e che, per giunta, una traduzione parola per parola sortirebbe un effetto di ridicolo nonsense («cane caldo freddo di manzo e maiale»). La presente postfazione, dunque, rientra a pieno titolo tra gli «artifici compensatori ed esplicitanti testuali» (Osimo 2004: 75) in quanto cerca di comunicare al lettore ciò che verosimilmente nella lettura andrebbe altrimenti perso, rendendo esplicito ciò che nel testo è implicito. In questo modo si ovvia alla spontanea «tendenza ipertrofica alla mediazione» (Osimo 2004: 75) propria di molti traduttori adottando una strategia consapevole con un apparato metatestuale ad hoc.

Ho invece preferito inserire direttamente all’interno del testo, isolate tra le consuete parentesi quadre, le traduzioni in italiano di singole parole che sono state mantenute in inglese anche nel metatesto per coerenza con altre scelte traduttive. Trattandosi di traduzioni funzionali esclusivamente alla comprensione lessicale, che non portano con sé un residuo di cui valga la pena rendere conto in una sede separata, ho ritenuto che fosse utile per il lettore trovarne la traduzione a portata di mano. Procedendo in questo modo la lettura non viene interrotta troppo di frequente, e anche il lettore che non avesse bisogno di consultarle non ne sarebbe disturbato vista la loro estrema sinteticità.

Le note inserite da Jakobson all’interno dei due saggi sono invece di carattere esclusivamente bibliografico. Per una loro catalogazione ho preferito adottare il sistema del richiamo per autore e anno di pubblicazione, collocati all’interno del testo in modo che non interrompano ma integrino adeguatamente la lettura, mentre l’elenco dei riferimenti bibliografici è stato inserito in coda ai saggi. In quest’ultimo, per una pronta identificazione, la data segue immediatamente il nome dell’autore, conformemente alle norme UNI 10168 e UNI ISO 7144.


2.4. Analisi linguistica ed extralinguistica

Dalle considerazioni fatte fin qui (à 2.3) emerge, in sostanza, che per realizzare una comunicazione totale, e cioè «essere in grado di individuare, sia durante il processo di decodifica, sia durante il processo traduttivo, l’informazione invariante» (Lûdskanov 1967: 54) chi traduce deve essere in possesso di quella che Lûdskanov chiama «informazione traduttiva necessaria». Se ci si chiede, con Lûdskanov, in che modo e da che fonte il traduttore possa accumularla, la risposta va cercata nell’analisi linguistica ed extralinguistica del testo in questione. Può accadere, infatti, che

[…] l’informazione ricavata attraverso l’analisi linguistica non [sia] sufficiente, in quanto la scelta del traduttore deve essere condizionata anche dalla conoscenza dell’epoca, dai tratti peculiari dell’opera, dalla visione stilistica e dal punto di vista estetico dell’autore, dalla sua visione del mondo. In tutti questi casi si dice che il traduttore fa riferimento alla realtà (Lûdskanov 1967: 53).

All’analisi, che permette di estrapolare le informazioni veicolate dal prototesto, segue la fase di decodifica, e cioè la scelta dei traducenti da attualizzare. È in questa fase che entra in gioco la necessità di avere a disposizione una quantità di informazioni maggiore di quella ricavabile dal co-testo, dalla porzione di testo in questione. E a chi sostiene che questa fase interessi esclusivamente i testi di natura letteraria, l’autore ribatte che tali dinamiche coinvolgono, invece, qualsiasi linguaggio anisomorfo, in quanto la necessità di fare riferimento alla realtà è intrinseca alla natura stessa dei linguaggi naturali. Laddove, infatti, si riconosce il carattere creativo del processo traduttivo, che si manifesta «nella necessità di compiere scelte non predeterminate tra i significati degli elementi linguistici del prototesto per attualizzarne uno» (Lûdskanov 1967: 55) non si può non condividere che la necessità di far riferimento alla realtà «sussiste nella traduzione di tutti i generi testuali attualizzati nella forma dei linguaggi naturali» (Lûdskanov 1967: 63).

Anche chi traduce il saggio, e forse a maggior ragione vista la natura ibrida di questo genere testuale, deve costantemente fare i conti con le dinamiche descritte. A livello di analisi lessicale, nei due saggi in esame sono stati individuati termini, parole ed espressioni sulla cui traduzione vale la pena di soffermarsi.

 

 

2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali

In questo paragrafo vengono presi in esame i problemi di traducibilità derivanti dalle «scarse possibilità di coincidenza tra campi semantici di parole diverse, sia della stessa lingua (i cosiddetti “sinonimi”) sia di lingue diverse (i cosiddetti “equivalenti”)» (Osimo 2004: 70). La scelta lessicale è uno dei punti nevralgici attorno ai quali si costruisce la coerenza di un testo, e il traduttore dev’essere sempre all’erta di fronte all’eventualità che l’autore abbia fatto ricorso ad allusioni velate realizzate proprio grazie all’ampiezza del campo semantico delle parole impiegate. Certo, non è sempre possibile conservare i riferimenti «narcotizzati» (Osimo 2001: 57), e talvolta diventa inevitabile sopprimerli: si tratta di scelte che devono essere di volta in volta dettate dalla strategia traduttiva e dal buon senso del traduttore. L’essenziale è però avere fiuto e accorgersi della loro presenza affrontando tutte le valutazioni del caso consapevoli dei limiti connaturati alla traduzione, che del resto ne fanno la miseria e lo splendore, come ebbe a dire José Ortega y Gasset.

Ecco qualche esempio che illustra alcune di queste dinamiche; i primi tre sono stati estratti dal saggio On Linguistic Aspects of Translation, mentre gli ultimi due da Language and Culture.

 

2.4.1.1. Celibate

Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate” (p. 4).

Riporto questa citazione perché vorrei soffermarmi sulla traduzione di «celibate». A una prima stesura l’istinto mi ha portato a tradurre «celibate» con «celibe», ma cercando la definizione di «celibate» sul dizionario monolingue per confrontarla con quella di «bachelor» e chiarire il senso della frase in esame, ho constatato che «celibate» e «celibe» hanno un significato molto diverso.

 

celibate (Merriam-Webster 2000)

celibe (Devoto, Oli 2000)

A person who lives in celibacy. Non ammogliato, scapolo.

 

Occorre a questo punto verificare la definizione di «celibacy»:

 

celibacy (Merriam-Webster 2000)

  1. the state of not being married.
  2. a: abstention from sexual intercourse; b: abstention by vow from marriage.

 

Dalle definizioni riportate si evince che il campo semantico di «celibate» coincide solo in parte con quello di «celibe», ma questo fatto del tutto normale deriva, si sa, dall’anisomorfismo delle lingue naturali. Tuttavia nel caso in esame il rischio di una traduzione solo parziale, quale potrebbe essere «celibe», non sarebbe foriera solo di un residuo traduttivo, ma precluderebbe la comprensione dell’intero messaggio veicolato dal prototesto. L’accezione che interessa a Jakobson nel suo esempio è evidentemente la seconda, quella non contemplata dal traducente «celibe», relativa a chi rinuncia a contrarre matrimonio (per motivi religiosi o di altra natura) e si astiene da ogni attività sessuale. Solo in questa accezione infatti la parola «celibate» si emancipa dalla sinonimia con «bachelor» nel contesto e fa acquisire senso all’esempio contenuto nel saggio. Ma qui il problema della scelta del traducente è ancor più rilevante se si pensa che la frase vuole essere un esempio lampante proprio del fatto che la sinonimia assoluta non esiste, e che anche all’interno della stessa lingua i presunti sinonimi non stanno in una relazione transitiva, come dimostra il fatto che «every celibate is a bachelor» ma «not every bachelor is a celibate». Di fronte a un caso simile, in assenza di un apparato metatestuale in cui convogliare il residuo in questione, ritengo che la decisione più opportuna da prendere sarebbe quella di mantenere l’esempio in inglese all’interno del testo e procedere a una sintetica spiegazione in nota del significato della frase. In questo modo non si precluderebbe l’indubbia efficacia dell’esempio in inglese a chi dispone dei mezzi linguistici adatti a comprenderlo, senza tentare di fornire una traduzione “comoda” ma fuorviante a chi ne è invece privo.

 

2.4.1.2. Cottage cheese

The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr because cottage cheese is a cheese but not a syr (p. 4):

In questo caso la difficoltà concerne la traduzione di «cottage cheese». Eccone, innanzitutto, la definizione che è stata ricavata dal dizionario monolingue Merriam-Webster:

 

cottage cheese (Merriam-Webster 2000)

a bland soft white cheese made from the curds of skim milk —called also Dutch cheese, pot cheese, smearcase.

 

Il corrispettivo italiano di tale prodotto inizialmente pareva essere la ricotta, salvo poi scoprire che il dizionario inglese distingue il cottage cheese dalla nostra ricotta, che è definita nel modo seguente:

 

ricotta (Merriam-Webster 2000)

a white unripened whey cheese of Italy that resembles cottage cheese; also: a similar cheese made in the United States from whole or skim milk.

 

La ricotta differisce dal cottage cheese innanzitutto perché si ricava dal siero avanzato dalla preparazione di altri formaggi, motivo per cui, a rigor di termini, non si tratta di un vero e proprio formaggio ma di un semplice latticino. Ai fini della traduzione nel contesto dato quest’ultima informazione è molto importante perché, se si decidesse di tradurre «cottage cheese» come «ricotta», un esperto in materia potrebbe obiettare che l’esempio riportato in traduzione sarebbe un controsenso, in quanto la ricotta non è un «cheese». La definizione data dal vocabolario in un caso così specifico non è sufficiente, ed è necessario ricorrere a testi specialistici che spieghino in modo più accurato le caratteristiche di questi formaggi per poter effettuare una scelta traduttiva sensata. L’atlante dei formaggi fa rientrare il «cottage cheese» nella famiglia dei formaggi freschi a struttura granulare, di cui fanno parte anche i «fiocchi di latte». Ecco le due descrizioni a confronto:

 

cottage cheese (Ottogalli 2001: 213)

fiocchi di latte (Ottogalli 2001: 213)

Si trova con questo nome solo nei paesi anglosassoni dove viene addizionato di panna e spesso di aromi, verdure o frutta. [Questi formaggi] in Italia non si conoscono con la dizione “Cottage”, ma come “Fiocchi di latte”, con una precisazione: vengono stabilizzati con un trattamento termico alla fine della lavorazione.

 

Indubbiamente ora siamo molto più vicini al significato di «cottage cheese» di quanto non lo fossimo prima. Certo qualche differenza c’è ancora, differenze sulle quali ritengo si possa soprassedere, considerato il tipo di testo e la funzione puramente esemplificativa per la quale sono stati chiamati in causa questi formaggi. Tuttavia, se si affronta la medesima questione da un punto di vista diverso, altre considerazioni farebbero propendere per una traduzione più «adeguata», per dirla con Toury. Per rendersene conto basta tornare per un attimo alla citazione originale, che si chiude così: «cottage cheese is a cheese but not a syr». «Syr» è il traducente russo di «cheese» più immediato, eppure un «cheese», che per di più contiene all’interno del suo nome la parola «cheese», (il «cottage cheese») non è un «syr». Altrimenti detto, la preferenza accordata a «cottage cheese» rispetto a qualunque altro traducente italiano deriva dal fatto che la ripetizione della parola «cheese» inserisce a maggior ragione il cottage cheese nella categoria dei «cheese», e quindi all’orecchio di un anglofono la frase russa tradotta in inglese suona assurda, ridondante. Da qui l’efficacia dell’esempio: Il cottage cheese è uno dei tanti cheese, ma lo tvoróg non è uno dei tanti syr, in quanto la parola «syr» rimanda, come ricorda Jakobson, soltanto ai formaggi fermentati.

È utile schematizzare questa situazione che si presta molto bene a fare luce su un problema ricorrente della traduzione:

 

Benché generalmente «cheese» (A) si traduca in russo con «syr», esisteranno sempre delle eccezioni come «cottage cheese» (Aa) che impediranno il formarsi di una relazione biunivoca automatica tra i campi semantici delle due parole.

Tornando al caso in esame, la strategia traduttiva adottata ha voluto privilegiare il principio dell’adeguatezza non censurando dunque del tutto il «cottage cheese» nel metatesto italiano. Mi sono però riservata di affiancargli la traduzione «fiocchi di latte» perché non bisogna dimenticare che Jakobson, citando il nome di alcuni formaggi ben noti al pubblico di madrelingua inglese, voleva fare un esempio che fosse lampante e spiegasse in modo molto concreto le considerazioni teoriche fatte fino a quel momento. Mi è sembrato sensato offrire anche al lettore italiano l’opportunità di fruire di questa dimensione ulteriore del testo affiancandogli una traduzione plausibile di «cottage cheese».

 

2.4.1.3. Intricacies

Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaming the dogma of untranslability (p. 6).

Questo esempio mira a sottolineare l’importanza di riconoscere e mantenere, nel limite del possibile, i rimandi intratestuali contenuti nel saggio. Prendiamo in esame la parola «intricacy» e vediamo che definizione ne dà il dizionario monolingue:

 

 

 

intricacy (Merriam-Webster 2000)

  1. the quality or state of being intricate.
  2. something intricate.

 

 

Cerchiamo a questo punto la definizione di «intricate»:

 

intricate (Merriam-Webster 2000)

  1. having many complexly interrelating parts or elements: complicated.
  2. difficult to resolve or analyze.

 

Il significato appare subito chiaro e comprensibile. Il traducente «difficoltà», adottato in un primo momento, sembra una soluzione sufficientemente rispettosa del senso dell’originale, benché generalizzante in quanto non evoca le «interrelating parts» che la parola inglese racchiude in sé. Muovendosi allora in questa seconda direzione, dalla stessa radice di «intricacies» si risale all’aggettivo «intricato», utile punto di partenza per ragionare su un nome che rimandi allo stesso campo semantico. Motivo ulteriore della necessità di trovare un traducente che vada in questa direzione è il seguito della frase con il riferimento al «Gordian knot», il famoso nodo gordiano, mentre qualche pagina dopo la questione della traduzione è definita «entangled». Siamo quindi in presenza di una metafora estesa in cui le parole «knot», «intricacies» e «entangled», provenienti dallo stesso campo semantico, si richiamano a vicenda. Da qui l’esigenza di una soluzione che mantenga il rimando anche per il lettore del metatesto. Partendo dall’aggettivo «intricato» si risale, per associazione di idee, al sostantivo «groviglio», che è stato adottato nella versione definitiva: «Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono piene di grovigli». Ecco una spiegazione efficace del perché è opportuno che il traduttore faccia tutto il possibile per conservare il maggior numero di elementi del prototesto:

La connotazione, e quindi anche il colorito, fa parte del significato, e di conseguenza è tradotta alla pari con il significato semantico della parola. Se non si è riusciti a farlo, se il traduttore è riuscito a trasmettere solo la “nuda” semantica dell’unità lessicale, per il lettore della traduzione la perdita di colorito si esprime nella incompleta percezione dell’immagine, ossia, in sostanza, nel suo travisamento (Vlahov e Florin 1986: 121 [in Osimo 2004b]).

 

2.4.1.4. Nurture and nature

Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other – briefly to delimit nurture from nature (p. 28).

Come si è detto nel capitolo 2.3, i saggi di Jakobson sono costellati di riferimenti a concetti scientifici la cui conoscenza da parte del lettore è data, il più delle volte, per scontata. L’immensa cultura dell’autore gli consente di muoversi con agilità tra discipline diverse e molto distanti dalla linguistica, a dimostrazione della tesi, ribadita in più occasioni, che coniugare i saperi di ambiti diversi sia il solo modo proficuo di garantirne la sopravvivenza e il reciproco arricchimento.

Molto spesso però si tratta di riferimenti impliciti con i quali Jakobson strizza l’occhio al lettore competente attraverso dei piccolissimi accenni che il lettore meno colto può trascurare senza che questo intacchi in modo sostanziale la sua fruizione del testo. Il traduttore invece deve stare all’erta per individuare il maggior numero possibile di questi riferimenti nascosti, e poi decidere se e quanto andare incontro al lettore nella sua opera di decodifica del testo.

Il caso di «nurture and nature» esemplifica bene la situazione appena descritta. Una breve ricerca enciclopedica consente di comprendere che i concetti di «nurture» e «nature» non solo sono interrelati fra loro, ma costituiscono i due estremi del dibattito sull’importanza dell’eredità e dell’ambiente nello sviluppo dell’uomo. La paternità dell’espressione è da attribuire all’antropologo inglese Francis Galton, che la consacra nel libro English men of Science: their Nature and Nurture, pubblicato nel 1874, in cui si legge:

The phrase “Nature and nurture” is a convenient jingle of words, for it separates under two distinct heads the innumerable elements of which personality is composed. Nature is all that a man brings with himself into the world; nurture is every influence that affects him after his birth (Galton 1874: 12).

Come spesso avviene in ambito scientifico, dove il gusto diffuso per le parole straniere è dovuto, in parte, al fatto che gli studiosi leggono articoli scritti perlopiù in inglese, alcune espressioni si cristallizzano nella lingua in cui sono state coniate e restano tali anche lontano dalla loro terra d’origine. Ed è questo il caso di «nurture» e «nature» le quali, complice l’assonanza che le rende accattivanti anche al lettore italiano che conosca poco o nulla l’inglese, compaiono tali e quali sulle nostre pubblicazioni scientifiche di maggior rilievo. Per queste ragioni si è scelto di mantenere l’espressione in inglese anche nella traduzione italiana.

 

2.4.1.5. Creative writers

With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities (p. 40).

Il problema, qui, è la traduzione di «creative writers». La parola «writer», apparentemente priva di insidie, nasconde invece un significato molto preciso che si sovrappone solo in parte al significato di «scrittore». Procediamo con la ricerca di «writer» sul dizionario monolingue inglese, e confrontiamo i risultati con le accezioni della parola «scrittore»:


writer (Merriam-Webster 2000)

scrittore (Devoto, Oli 2000)

  1. a person who writes.
  2. a person whose work or occupation is writing; now, specif., an author, journalist, or the like.

 

  1. Chi si dedica all’attività letteraria in quanto mosso da un intendimento d’arte.
  2. Scrivano, copista.

 

In italiano, uno scrittore è primariamente chi scrive di professione, e, molto meno comunemente, un sinonimo di scrivano o copista. In inglese invece un «writer» è, nella prima accezione della parola, una persona che scrive, uno scrivente qualsiasi. Nella seconda accezione dell’inglese, che è quella che in parte si sovrappone semanticamente a quella italiana, si evince però che sono «writer» anche i giornalisti e gli scrittori di testi tecnici. Da qui nasce, per Jakobson, la necessità di accostare al nome comune e generico «writer» l’aggettivo «creative» per distinguerlo da un «writer» di testi di carattere settoriale, tecnico. In altre parole, tradurre «creative writer» con «scrittore creativo» risulterebbe fuorviante per il lettore italiano, che sarebbe portato a pensare che Jakobson non stia parlando di tutta la categoria degli scrittori, ma solo di quelli particolarmente creativi, escludendo tutti gli altri. Mantenendo invece il solo traducente «scrittore», molto probabilmente si trasmette al lettore italiano la stessa rete di significati che Jakobson attribuisce a «creative writer».

Del resto, è lo stesso Jakobson ad aver teorizzato, nel saggio On Linguistic Aspects of Translation un principio fondamentale per la traduzione:

Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. […] All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology can be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions (p. 6).

Anche se, a causa della convenzionalità dei segni linguistici e delle differenze nello sviluppo storico dei rispettivi popoli, «i diversi linguaggi naturali suddividono in maniera distinta la realtà unica e comune per tutti» (Lûdskanov 1967: 29), motivo per cui la ricerca di presunti “equivalenti” traduttivi è destinata a essere vana e infruttuosa, Jakobson dichiara che la traduzione è sempre possibile, anzi, è addirittura necessaria: si tratta solo di cercare l’«equivalenza nella differenza» operando non su singole unità di codice, ma sull’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Questo perché

In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern, because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations – the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms (p. 12).

 


 

2.5. Metatesti a confronto:

perché proporre una traduzione diversa del saggio

on linguistic aspects of translation

 

Nel 1966 Feltrinelli pubblica la traduzione di Luigi Heilmann e Letizia Grassi degli Essais de linguistique générale, che comprendono, tra gli altri, anche il saggio On Linguistic Aspects of Translation. Quest’ultimo, scritto nel 1959, risalta per la sua importanza nell’ambito delle riflessioni sui problemi della traduzione, concentrando in poche pagine ciò che ancora oggi rappresenta una pietra miliare per chi si dedica a questa disciplina. Il limite della traduzione esistente risiede proprio nella scelta della strategia traduttiva che privilegia, per dirla con Toury, il criterio dell’accettabilità su quello dell’adeguatezza. Questo vale soprattutto per due aspetti, la standardizzazione dei realia e la localizzazione degli esotismi, che emergono principalmente nelle traduzioni sistematiche e fortemente addomesticanti delle citazioni. In un caso come nell’altro, il criterio adottato sembra essere poco efficace, tanto più a causa dello status del tutto particolare di questo tipo di testo, cui si è già accennato: una traduzione sulla traduzione. Il generale addomesticamento culturale porta il lettore a perdere la consapevolezza di essere in presenza di un testo tradotto che, di conseguenza, deve essere recepito come altrui. La traduzione di Heilmann, indubbiamente più scorrevole di quella qui proposta, risulta però priva di stimoli e in parte inefficace nella sua funzione didascalica. Per contro, la scelta di mantenere le citazioni in lingua originale è sembrata la sola praticabile per ovviare all’alternativa fuorviante di ritrovarsi a dover tradurre riflessioni sulla traduzione, riflessioni che prendono come esempi parole scelte appositamente da una certa lingua e non da un’altra. La sostituzione sistematica di tutti gli elementi esotici con elementi che appartengono alla metacultura crea, come si evince dagli esempi riportati di seguito, un forte senso di spaesamento nel lettore interessato e consapevole della cultura da cui proviene il testo.

Ecco una schematica analisi comparata del prototesto con i due metatesti in questione, limitatamente agli ambiti fin qui presi in esame, per osservarne i cambiamenti traduttivi.

PROTOTESTO

METATESTO (1)[1]

METATESTO (2)[2]

I

[…] no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. […] nessuno può capire la parola formaggio se non conosce il significato attribuito a questa parola nel codice lessicale dell’italiano. […]  nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese.

II

Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” […]. Qualsiasi membro di una collettività culinaria che ignora il formaggio capirà la parola italiana formaggio se sa che in questa lingua tale parola significa “alimento ottenuto con la fermentazione del latte cagliato” […]. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» […].

III

There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. Non esiste significato senza segno, né si può dedurre il senso della parola formaggio da una conoscenza non linguistica della mozzarella o del provolone senza l’aiuto del codice linguistico. Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale.

IV

[…] cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru i tvorogu “bring cheese and [sic] cottage cheese.” […] il formaggio bianco è bensì un formaggio, ma non un syr. I russi dicono prinesi syru i tvorogu, “porta del formaggio e (sic) del formaggio bianco (giuncata).” […] il «cottage cheese» [«fiocchi di latte»] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte).
V When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers” – “She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Quando si deve tradurre la frase italiana “essa ha dei fratelli,” in una lingua che distingue duale e plurale, siamo obbligati a scegliere fra due proposizioni: “essa ha due fratelli” / “essa ha più di due fratelli”, ovvero a lasciare la decisione all’ascoltatore dicendo: “essa ha due, o più di due, fratelli.” Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli».

VI

Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities – brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother. Allo stesso modo, se traduciamo in italiano da una lingua che ignora il numero grammaticale, siamo costretti a scegliere una delle due possibilità – “fratello” o “fratelli” – o a proporre al ricevente del messaggio una scelta binaria: “essa ha uno, o più di un, fratello.” Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» o «brothers», o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «Lei ha uno o più fratelli».

 

Osserviamo il primo esempio: si tratta di una citazione di Russell, che riflette sul significato della parola «cheese» nel «lexical code of English». Il metatesto (1) propone di tradurre «cheese» con «formaggio», scelta di per sé praticabile se non fosse che, per mantenere la coerenza della citazione, saremmo costretti a modificare anche il seguito della dichiarazione. E per farlo, dovremmo tradurre «English» con «italiano» mettendo in bocca a Russell parole che non ha mai pronunciato, né avrebbe mai potuto pronunciare. La piena esplicitezza della citazione nega, a maggior ragione, ogni diritto di manipolare le parole dell’autore. Lo stesso può dirsi per gli esempi II, V e VI, in cui, per coerenza, si è proceduto allo stesso modo, mentre il metatesto (1) è andato nella direzione opposta, ottenendo un risultato molto poco «traduzionale» (Popovič 1975: 48) in cui la dominante è senza dubbio la naturalizzazione, ottenuta attraverso la sistematica sostituzione degli elementi esotici con elementi propri della cultura ricevente. Un ragionamento analogo sorge spontaneo anche per la traduzione di «cheddar» o «camembert» (esempio III). È evidente che diventa piuttosto grottesco immaginare Jakobson parlare di mozzarella o di provolone. E non solo. Il lettore più attento e scrupoloso potrebbe persino pensare che Jakobson volesse in qualche modo strizzare l’occhio all’Italia e alle sue tradizioni culinarie. Niente di tutto ciò invece, e basta osservare l’originale per rendersene conto. È bene riportare fedelmente i nomi dei due formaggi citati, che sono peraltro ben noti al lettore italiano, in virtù del fatto che un testo tradotto è, e deve essere, espressione di una cultura estranea.

La strategia traduttiva adottata fino a questo punto ha subito una battuta d’arresto quando ho dovuto fare i conti con la traduzione delle frase riportata al punto IV. Per coerenza con le scelte precedenti avrei dovuto mantenere in inglese anche «cottage cheese», scelta che sarebbe stata praticabile nella prima parte della frase ma non nella seconda, dove avrei ottenuto qualcosa come: «Porta del “cheese” e del “cottage cheese”. Al fine di evitare di ridurre il testo a una serie di “mezze traduzioni” che finirebbero per richiedere al lettore uno sforzo di code switching sproporzionato rispetto alle intenzioni del prototesto, ho preferito affiancare a «cottage cheese» (à 2.4.1.2) una traduzione addomesticante, collocandola all’interno delle consuete parentesi quadre, in modo da poter utilizzare direttamente quest’ultima nell’esempio riportato alla riga successiva. In tal modo il testo guadagna in chiarezza, senza però venire meno alla precisione lessicale che un saggio di linguistica deve garantire.

Il metatesto (2) si propone, quindi, di ovviare alle difficoltà elencate proponendo una soluzione traduttiva diversa, che tenga conto dei limiti che sono stati messi in luce. Va ribadito che non esiste una soluzione corretta in assoluto, ma ogni tentativo di traduzione deve essere dettato da una strategia che necessariamente sacrifica alcuni elementi per privilegiarne altri, ritenuti, in quel determinato contesto, prioritari. La differenza di fondo tra i due risulati ottenuti è che il metatesto (1) passa (o tenta di passare) per un originale, ed è quindi molto poco traduzionale, mentre leggendo il metatesto (2) i campanelli d’allarme del fatto che si tratti di una traduzione sono molteplici. L’atteggiamento focalizzato sull’alta traduzionalità comporta molti rischi, primo su tutti quello di rendere molto ardua la fruizione da parte del lettore, e basta confrontare le due traduzioni proposte nella tabella per rendersene conto. D’altronde, se siamo concordi nell’affermare che «dal confronto matura la coscienza sia delle identità sia delle differenze» (Osimo 2010: 86), si deve riconoscere a questo canale un ruolo fondamentale nell’arricchimento della cultura.

Del resto, la traduzione è, in un certo senso, una contraddizione in termini, un ossimoro: «si presenta come copia ma in realtà è un’originale» (Osimo 2010: 109). Accantonata la pretesa di realizzare fantomatiche “traduzioni fedeli”, concetto che l’autore sfiora alla fine del saggio chiamando in causa il detto «Traduttore, traditore» per metterne a nudo l’infondatezza («traditore di quali valori? Traduttore di quali messaggi?»), Jakobson ribadisce l’importanza di definire innanzitutto i termini della questione affinché la materia trovi posto a pieno titolo tra le scienze. Per indagare su questo ossimoro, insomma, Jakobson reputa necessaria una scienza linguistica a un tempo autonoma e in grado di arricchirsi con i contributi di altre scienze, che ha dimostrato di saper integrare sapientemente come solo uno tra i più grandi ed eclettici studiosi di linguistica del secolo scorso poteva fare: con la semplicità dei geni.


2.6. Riferimenti bibliografici

 

BRADFORD R. 1994 Roman Jakobson. Life, Language, Art, London, Routledge, 1995.

DEVOTO G. e OLI G. (a cura di) 2000 Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier.

ECO U. 1979 Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1991.

ECO U. 2003 Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.

GALTON F. 1874 English Men of Science. Their Nature and Nurture, London, Macmillan.

JAKOBSON R. 1959 On Linguistic Aspects of Translation, in Jakobson R., Language in Literature, The Jakobson Trust, 1987.

JAKOBSON R. 1963 Saggi di linguistica generale, traduzione di L. Grassi e L. Heilmann, Milano, Feltrinelli, 2002.

JAKOBSON R. 1965 An Exemple of Migratory Terms and Institutional Models (On the fiftieth anniversary of the Moscow Linguistic Circle) in Jakobson R., Selected Writings – Word and Language (vol. II), Den Haag-Paris, Mouton, 1971: 527-538.

JAKOBSON R. 1967 Language and Culture, in Jakobson R., Selected Writings – Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology (vol. VII), Berlin-New York-Amsterdam, Mouton, 1985: 101-112.

JAKOBSON R. 1977 A Few Remarks on Peirce, Pathfinder in the Science of Language, in Jakobson R., Selected Writings – Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology (vol. VII), Berlin-New York-Amsterdam, Mouton, 1985: 248-253.

LÛDSKANOV A. 1967 Un approccio semiotico alla traduzione, a cura di B. Osimo, Milano, Hoepli, 2008.

MAURI P. Jakobson e il suo pullover in Repubblica, Milano, 25 novembre 1986

MERRIAM-WEBSTER 2000 Merriam Webster’s online dictionary, Springfield (Massachusetts), Merriam-Webster, disponibile in internet all’indirizzo: www.merriam-webster.com, consultato nel maggio 2011.

MIGLIORINI B., TAGLIAVINI C., FIORELLI P. 2011 Dizionario italiano multimediale e multilingue d’ortografia e di pronunzia, disponibile in internet all’indirizzo: www. dizionario.rai.it, consultato nel maggio 2011.

OSIMO B. 2002 Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2004 Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli.

OSIMO B. (a cura di) 2004b Corso di traduzione online, Logos Group, disponibile in internet all’indirizzo

http://courses.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.traduzione?lang=it, consultato nel maggio 2011.

OSIMO B. 2007 La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2010 Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli.

OTTOGALLI G. 2001 Atlante dei formaggi. Guida a oltre 600 formaggi e latticini provenienti da tutto il mondo, Milano, Hoepli.

POPOVIČ A. 1975 La scienza della traduzione, Milano, Hoepli, 2006.

TOROP P. 1995 La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, a cura di B. Osimo, Milano, Hoepli, 2010.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Errata corrige

 

 

Pagina

Posizione

nel testo

Metatesto 1

Metatesto 2

Note

3

cpv. 1,

riga 11

eppure,

eppure

punteggiatura

3

cpv. 2,

riga 2

[rispettivamente formaggio, mela […]

[rispettivamente: formaggio, mela […]

punteggiatura

3

cpv. 2,

riga 3

di qualsiasi tipo

di qualsiasi tipo

ridondante

3

cpv. 2,

riga 10

indicarla

indicarlo

concordanza con «cheese»

3

cpv. 2,

riga 11-12

[…] o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino o forse qualsiasi confezione […]

[…] o di qualsiasi formaggio, latticino, alimento, spuntino o forse qualsiasi confezione […]

evitare dove possibile la ripetizione di «qualsiasi»

5

cpv. 1,

riga 15

interlinguistica

intralinguistica

5

cpv. 1,

riga 18

frase idiomatica

espressione idiomatica

lessico

6

cpv. 1,

riga 1

same

some

trascrizione

7

cpv. 1,

riga 2

Una traduzione di questo tipo […]

Una simile traduzione […]

corpo sonoro (assonanza tra «tipo» e «riferito»)

8

cpv. 1,

riga 1

metalinguistic

“metalinguistic”

trascrizione

8

cpv. 2,

riga 8

jeha paraquot

jena paragot

trascrizione

9

cpv. 2,

riga 2

amplificare

ampliare

lessico

(amplificare: aumentare nella misura consentita dalla moltiplicazione dei valori o delle dimensioni iniziali: a. un suono; rappresentare in modo esagerato.

ampliare: aumentare quanto all’estensione o alle dimensioni. Fig: accrescere, aumentare) Devoto-Oli: 2000

9

cpv. 2,

riga 3

mediante neologismi

mediante neologismi

ripetizione superflua che appesantisce la frase

9

cpv. 2,

riga 7

 apparentemente

all’apparenza

corpo sonoro (assonanza con «semplicemente»)

9

cpv. 3,

riga 3

Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate […]

Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o] ora sono state integrate […]

punteggiatura

9

cpv. 3,

riga 8

[…] possono essere tradotte […]

[…] si possono tradurre […]

forma

11

cpv. 1,

riga 1

[…] dei numerali

[…] del numerale

numero

11

cpv. 1,

riga 10

[…] lei ha uno o più fratelli.

[…] lei ha uno o più di un fratello.

11

cpv. 2,

riga 11

[…] nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo.

[…] nella versione russa di questa frase una risposta a tale domanda è d’obbligo.

forma (evitare la ripetizione del dimostrativo)

11

cpv. 2,

riga 11

D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre

[…]

D’altro canto, qualunque forma grammaticale russa sia scelta per tradurre

[…]

forma

11

cpv. 2,

riga 13

il lavoratore

l’operaio

coerenza con scelte precedenti

11

cpv. 2,

riga 19

Karcevski

Karcevskij

trascrizione

11

cpv. 2,

riga 19

paragonò

paragonava

tempo verbale

12

cpv. 2,

riga 8

mare

more

trascrizione

13

cpv. 1,

riga 2-3

una serie di domande

una serie di domande specifiche

omissione di «specific»

13

cpv. 1,

riga 3

[…] le risposte sì o no […]

[…] le risposte «sì» o «no» […]

forma

13

cpv. 1,

riga 5

Naturalmente l’attenzione […]

Come è naturale, l’attenzione […]

forma (evitare l’assonanza tra «naturalmente» e «costantemente»)

13

cpv. 1,

riga 6

[…] è costantemente focalizzata […]

[…] sarà costantemente focalizzata […]

tempo verbale

13

cpv. 3,

riga 10

[…], al contrario, […]

[…], per contro, […]

lessico

15

cpv. 1,

riga 3

[…] di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come […]

[…] di fronte al fatto che alcuni artisti tedeschi avessero raffigurato Peccato come […]

forma

15

cpv. 2,

riga 5

[…] fatta poco dopo l’860 […]

[…] scritta poco dopo l’860 […]

forma

15

cpv. 2,

riga 13

Ma a questo ostacolo poetico, Costantino […]

Ma a questo ostacolo poetico Costantino […]

punteggiatura

15

cpv. 2,

riga 14

[…] richiamava l’attenzione principale sui […]

[…] richiamava l’attenzione principalmente sui […]

forma

15

cpv. 3,

riga 3

in breve

insomma

forma

15

cpv. 3,

riga 3

 qualsiasi cosa costituisca

qualsiasi costituente del

forma

17

cpv. 1,

riga 2

un termine più erudito, e forse più preciso

un termine più erudito e forse più preciso

punteggiatura

17

cpv. 1,

riga 5

− da una lingua in un’altra −

− da una lingua in un’altra,

punteggiatura

17

cpv. 2,

riga 1

«Traduttore traditore»

«Traduttore, traditore»

punteggiatura

19

cpv. 2,

riga 4

doxodčivost

doxodčivost’

trascrizione

19

cpv. 3,

riga 3

[…] e il compito più importante era quello di trovare […]

[…] e il compito più importante era trovare […]

forma

21

cpv. 1,

riga 3

«Decimo congresso dei linguisti»

Decimo congresso dei linguisti

coerenza con scelte precedenti

21

cpv. 1,

riga 6

É il problema […]

C’è il problema […]

coerenza con struttura frase precedente

21

cpv. 1,

riga 10

[…] come è già stato enfatizzato una volta con più decisione […]

[…] come è già stato enfatizzato una volta di più con decisione […]

senso

23

cpv. 1,

riga 11

[…] nella letteratura antropologica, si dice […]

[…] nella letteratura antropologica si dice […]

punteggiatura

23

cpv. 2,

riga 12

officiale

ufficiale

refuso

25

cpv. 1,

riga 4

[…] ricordo ciò che mi è stato detto dal […]

[…] ricordo ciò che mi disse il […]

forma e coerenza con tempi verbali successivi

25

cpv. 1,

riga 13

Eppure,

Eppure

punteggiatura

25

cpv. 2

riga 4

[…] non è stato individuato nessun progresso.

[…] non è stato individuato alcun progresso.

forma

25

cpv. 2,

riga 8

Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso […]

Tutti i tentativi compiuti da vari linguisti per trovarvi segni di progresso […]

corpo sonoro

(evitare assonanze e la ripetizione di «diversi»)

27

cpv. 1,

riga 9

Soltanto,

Soltanto

punteggiatura

27

cpv. 1,

riga 11

[…] adattamenti, e innovazioni terminologiche […]

[…] adattamenti e innovazioni terminologiche […]

punteggiatura

27

cpv. 2,

riga 3

[…] non dovremmo dimenticare […]

[…] non dimentichiamo […]

28

cpv. 2,

riga 8

[…] pattern, […]

[…] pattern: […]

trascrizione

29

cpv. 2,

riga 7

Nella struttura del linguaggio è presente […]

Nella struttura della lingua osserviamo […]

lessico e forma

(evitare la ripetizione tra «è presente» e «presentano»)

29

cpv. 2,

riga 9

[…] dai caratteri distintivi e fonemi […]

[…] da caratteri distintivi e fonemi […]

prep. semplice

29

cpv. 2,

riga 12

[…] strumento indispensabile di pensiero […]

[…]  indispensabile strumento di pensiero […]

ordine delle parole

29

cpv. 2,

riga 14

[…] parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani […]

[…] parlare di cose e situazioni che sono assenti e lontane […]

corpo sonoro

29

cpv. 2,

riga 16

[…] coloro che dicono e coloro ai quali è detto […]

[…] sayers and sayees […]

riferimento implicito al saggio Thought and language (1890) di Samuel Butler, contenuto in Essays on life, art and science. In particolare: «It takes two people to say a thing – a sayer as well as a sayee».

31

cpv. 1

riga 1

[…] appena dopo la schiusa […]

[…] appena dopo la schiusa […]

aggiunta

31

cpv. 2,

riga 8

Se privati del modello adulto, resteranno muti […]

Se privati del modello adulto resteranno muti […]

punteggiatura

33

cpv. 1,

riga 13

A volte,

Talvolta

forma e punteggiatura

33

cpv. 1,

riga 14

conduce

ha condotto

tempo verbale

33

cpv. 1,

riga 17

[…] e cognitiva, […]

[…] e cognitiva […]

punteggiatura

33

cpv. 2,

riga 5

[…] riveste un ruolo significativo e autonomo […]

[…] occupa una parte significativa e autonoma […]

forma

(evitare ripetizione con frase precedente)

33

cpv. 3,

riga 2

[…] la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile[…]

[…] la cui lingua madre non prevede la divisione grammaticale dei nomi di genere femminile e di genere maschile[…]

35

cpv. 1,

riga 4

[…], nell’intento di […]

[…] con l’obiettivo di […]

punteggiatura e forma

35

cpv. 2,

riga 5

durante la mia infanzia

durante l’infanzia

forma (evitare il possessivo)

35

cpv. 2,

riga 5

[…] ho letto le fiabe […]

[…] lessi le fiabe […]

tempo verbale

37

cpv. 1,

riga 8

[…] le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica […]

[…] la resa inglese degli stessi versi appare scialba e retorica […]

lessico, forma e corpo sonoro

37

cpv. 2,

riga 10

[…] che non lo segnala.

[…] che non la segnala.

concordanza con «compiutezza»

37

cpv. 2,

riga 10

Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento.

Ogni volta che si usa un verbo russo si deve esprimere se si intende l’azione compiuta o solo il processo, senza riferimenti al suo compimento.

punteggiatura

39

cpv. 1,

riga 4

«[…]», potreste chiedermi […]

«[…]» potreste chiedermi […]

punteggiatura

39

cpv. 1,

riga 10

ripartiscono

trasmettono

lessico

41

cpv. 2,

riga 8

vasto e influente intervento

intervento ponderato e influente

lessico e forma

41

cpv. 2,

riga 14

[…] complementarità tra linguaggio delle scienze […]

[…] complementarità tra il linguaggio delle scienze […]

forma

41

cpv. 2,

riga 20

alla composizione

all’elaborazione

lessico

 



[1] Traduzione del 1963 di Luigi Heilmann e Letizia Grassi

[2] Traduzione proposta in questo elaborato