Monthly Archives: May 2016

Corrigan: Tradurre per gli attori CLAUDIA CALIANDRO

Corrigan:
Tradurre per gli attori

CLAUDIA CALIANDRO

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2009

© Robert W. Corrigan, 1961

© Claudia Caliandro per l’edizione italiana, 2009

Abstract in italiano

Questo lavoro, che parte dalla traduzione del saggio «Tradurre per gli attori» di Robert W. Corrigan, pubblicato nel 1961 nella raccolta Craft and Context of Translation a cura di Arrowsmith e Shattuck, si propone di affrontare la disciplina della traduzione teatrale da diversi punti di vista, compresa la semiotica del teatro. Partendo da alcuni accenni storici, vengono delineate le caratteristiche proprie che distinguono la traduzione teatrale dalle traduzioni di altri tipi di testo: la dominante della recitabilità e dell’accettabilità nella cultura ricevente è la caratteristica fondamentale. Vengono poi presentate le diverse concezioni della dialettica tra testo scritto (testo drammatico) e messinscena (testo spettacolare) e le scelte che il traduttore deve fare nell’affrontare la traduzione. Infine si analizza il rapporto tra le figure principali coinvolte nel processo traduttivo: l’autore dell’opera, il traduttore, l’attore e lo spettatore.

English abstract

This work, which starts with the translation of the essay «Translating for Actors» by Robert W. Corrigan, published in the collection Craft and Context of Translation edited by Arrowsmith and Shattuck in the 1960s, deals with drama translation, focusing on different points of view, including theatre semiotics. Starting from a historical outline, the main distinctive features of drama translation as compared to other types of texts are described: the dominants are performability and acceptability in the target culture. The different views of the relationship between written text (dramatic text) and play (performance text) are shown, together with the translator’s choices. The work ends with the analysis of the relationship among the main actors of the translating process: the playwright, the translator, the actor and the spectator.

Zusammenfassung auf Deutsch

Die vorliegende Diplomarbeit beginnt mit der Übersetzung des Essays «Translating for Actors» von Robert W. Corrigan, welches im Werk Craft and Context of Translation von Arrowsmith und Shattuck im Jahr 1961 veröffentlicht wurde. Diese Arbeit befasst sich mit der Theaterübersetzung unter Berücksichtigung verschiedener Ansichten, wie z.B. der Semiotik des Theaters. Beginnend mit einigen historischen Aspekten, werden anschließend die Hauptmerkmale beschrieben, welche die Theaterübersetzung von anderen Texttypologien unterscheiden; davon sind die Umsetzbarkeit auf der Bühne und die Akzeptanz in der Ziel-Kultur am wichtigsten. Außerdem werden die verschiedenen Meinungen über die Dialektik zwischen dem „Text-Modell“ und dem „Performance-Modell“, und die Entscheidungen des Übersetzers während des Übersetzungsprozesses dargestellt. Schließlich wird das Verhältnis zwischen den Hauptakteuren der Übersetzung untersucht: dem Autor, dem Übersetzer, dem Schauspieler und dem Publikum.

Sommario

1. Prefazione
1.1. Storia della traduzione teatrale
1.2. La semiotica del teatro
1.3. Drammaturghi, traduttori, spettatori
1.4. Riferimenti bibliografici
2. Traduzione con testo a fronte
2.1. Riferimenti bibliografici

1. Prefazione
1.1. Storia della traduzione teatrale
Gli studi sulla storia della traduzione teatrale sono davvero scarsi e non è possibile rifarsi a una teoria specifica o a un manuale con linee guida fisse e imprescindibili da seguire. L’impossibilità di costituire una teoria sulla traduzione teatrale forse è riconducibile alla stessa natura poco teorica del teatro, che in quanto «arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del momento […] [comporta che sia necessario] correggere costantemente la teoria critica deputata a descrivere il fenomeno teatro» (Pavis, 1998: 5). La labilità della disciplina teatrale, il suo essere contingente, e non eterno come invece molti tendono a pensare, si rispecchia anche nel lavoro di traduzione di testi teatrali.
In linea generale, le norme traduttive valide per la narrativa devono essere considerate valide anche per la traduzione teatrale, anzi amplificate. Per Zuber nella traduzione teatrale si dispiegano due fasi: la prima è il processo di traduzione da una lingua all’altra; la seconda è il processo di trasposizione del testo tradotto sul palcoscenico. Zuber considera la traduzione teatrale una «sottosezione» della disciplina della traduzione narrativa e la distingue da tutte le altre forme di traduzione in primis per due dominanti: la recitabilità e la parlabilità. «A play written for a performance must be actable and speakable» pertanto nella traduzione vanno presi in considerazione anche gli aspetti non verbali e culturali e i problemi sul palcoscenico (Zuber, 1988: 485). Non esisterà una traduzione giusta e una traduzione sbagliata, ma quella più o meno accettabile, che possa essere recepita dalla cultura ricevente nel migliore dei modi. «Unlike the translation of a novel, or a poem, the duality inherent in the art of the theatre requires language to be combine with spectacle, manifested through visual as well as acoustic images» (Anderman, 1998: 71).
In Europa la traduzione di opere teatrali inizia nella seconda metà del Seicento, quando la grande richiesta da parte delle compagnie teatrali porta alla produzione di numerose traduzioni affrettate e spesso poco accurate. Nell’Umanesimo nasce invece un tipo di traduzione che privilegia la lettura anziché la rappresentazione: la traduzione dei classici. Un esempio emblematico è la traduzione di Shakespeare, che nel buio della teoria sulla traduzione teatrale rappresenta il filo conduttore empirico per capire le logiche sottese alle ricerche sulla traduzione teatrale. La Routledge Encyclopedia (Baker, Malmkjaer, 1998: 222-226) dedica un capitolo alla Shakespeare Translation e paragona l’impatto che questa ha avuto sulle culture a quello avuto dalla traduzione della Bibbia. Nel caso di Shakespeare, ma ciò vale per tutte le traduzioni dei classici, si contrappongono i sostenitori dell’ortodossia filologica nella traduzione del dramma, che danno meno risalto alla recitabilità, e quelli che invece si azzardano a rivitalizzare il classico e a proporre scelte di traduzione che hanno come dominante l’accettabilità da parte della cultura ricevente. Solitamente però, questi ultimi tipi di “esperimenti” trovano poco séguito tra il pubblico e invece paradossale è sapere come traduzioni filologicamente orientate abbiano avuto così successo tra i classicisti, che vanno a teatro seguendo il testo scritto e solo di rado alzano gli occhi al palcoscenico[1]. La conseguenza estrema dell’atteggiamento classicista è considerare il testo originale qualcosa di “sacro” e rifiutare invece un approccio “relativistico”, che sappia cioè giudicare caso per caso il prototesto e la relativa traduzione.

1.2. La semiotica del teatro
Il traduttore può considerare il testo teatrale pura letteratura oppure parte integrante di una produzione teatrale, può quindi rispettivamente avere come committente un editore oppure un regista (o un teatro). Nel primo caso il frutto del lavoro del traduttore sarà un testo drammatico, nel secondo caso un testo spettacolare, cioè l’attuazione scenica.
La distinzione tra testo drammatico e testo spettacolare si deve alle riflessioni teoriche e analitiche del circolo di Praga, che agli inizi degli anni Trenta elabora la disciplina delle semiotica del teatro.
In una prima fase la semiotica del teatro punta il proprio interesse sull’elemento testuale del teatro, in particolare sul testo verbale scritto che costituisce il testo drammatico (concezione linguistico-strutturalista). La preferenza per il testo scritto, considerato l’elemento fisso e invariante del teatro, è sicuramente retaggio della concezione logocentrica, che da Aristotele fino alla fine dell’Ottocento, è stata considerata l’unica risposta valida nell’analisi teatrale. Il testo scritto sarebbe portavoce del senso e quindi struttura profonda ed elemento essenziale dell’arte drammatica e le messe in scena sarebbero solo espressioni superficiali, posteriori e subordinate al testo scritto. La concezione logocentrica pone il testo e la scena in un rapporto dialettico, associato alla teologia (In principio era il verbo), che vede il testo come anima, portatrice di senso e la scena come corpo esteriore che «distoglie il pubblico dalle bellezze della vicenda e dalla riflessione sul conflitto tragico» (Pavis, 1998: 487-488).
Dalla seconda metà degli anni Settanta, De Marinis si fa portavoce della necessità di una modifica radicale dell’approccio logocentrico: lo spettacolo concreto (il testo spettacolare) diventa vero oggetto dell’analisi semiotica. Il testo spettacolare permette di cogliere diacronicamente e sincronicamente il senso della rappresentazione. Alcuni semiotici considerano la messa in scena una traduzione intersemiotica, «una transcodifica di un sistema in un altro» e Pavis giudica ciò «una mostruosità semiologica» (Pavis, 1998: 394). Anche continuare a concepire il testo scritto come unico elemento essenziale invariante del dramma e la messa in scena come espressione, puro «allestimento di un’evidenza testuale» è secondo Pavis sbagliato. Artaud giudica un «teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di antipoeti, di positivisti, in una parola di Occidentali» quel teatro che si ostina a subordinare lo spettacolo al testo (Artaud citato in Pavis, 1998: 488). Meno estrema sembra l’opinione di Zuber, che vede il testo scritto come elemento irrevocabile e permanente, mentre ogni messinscena basata su quel testo è diversa, unica, assolutamente contingente e legata alle varianti di tempo e spazio in cui si realizza: «a theatre perfomance is subject to changes according to audience reaction, acting performance, physical environment, and other factors» (Zuber, 1988: 485).
Non è possibile dunque giudicare il testo scritto e il testo spettacolare in termini gerarchici: sono parti imprescindibili del testo teatrale, che esistono e funzionano reciprocamente per creare il fatto teatrale. Il testo scritto è portatore di senso e la rappresentazione è «l’enunciazione del testo drammatico in una data messa in scena che conferisce al testo un senso e non un altro» (Pavis, 1998: 395). Pavis pone l’attenzione su un’ulteriore corrente di pensiero che sostiene che tra testo e scena si creerebbe una distanza ermeneutica irriducibile, nel momento in cui non si considera più la scena subordinata al testo. La distanza che separa testo e scena permette di approcciarsi diversamente al testo e di interpretarlo con altri significati. Testo e scena diventerebbero così due componenti distinte, con significati diversi. Bernard Dort scrive che

forse a teatro il piacere è dato dal vedere un testo, per definizione estraneo al tempo e allo spazio, inscriversi nell’istante effimero e nel tempo delimitato dello spettacolo. Così, la rappresentazione teatrale non sarebbe il luogo di una ritrovata unità, ma piuttosto quello di una tensione, mai pacificata, tra eterno ed effimero, universale e particolare, astratto e concreto, testo e scena. La rappresentazione non rappresenta più o meno un testo, ma lo critica, gli fa violenza, lo interroga; si confronta con esso e lo confronta a sé: non è un accordo, ma una lotta (Dort, citato in Pavis, 1998: 488-489).

Il rapporto tra testo e rappresentazione non è d’altronde stato del tutto chiarito; le ricerche tendono a profilarsi su due binari paralleli: da una parte la semiotica del testo e dall’altra la semiotica della rappresentazione, senza individuare punti di confronto tra i risultati dei due approcci.
Boselli nel suo saggio sostiene che tra testo drammatico e testo spettacolare sono da notare elementi di convergenza tipici dell’arte teatrale, vincoli reciproci che accomunano i due livelli, costituiti da codici spettacolari e convenzioni teatrali che portano a considerare alla base di tutto una forte intertestualità. A volte alcuni critici, per identificare ciò che è puramente teatrale e ciò che è extrateatrale, hanno stabilito codici teatrali riferendosi a un caso particolare, e hanno poi preteso di usare quei codici per tutte le altre analisi di casi diversi. Questa teoria è troppo rigida per poter descrivere il teatro. Usare il codice come elemento costitutivo, ben celato, della rappresentazione è secondo Pavis sbagliato di principio. Il codice deve essere piuttosto un metodo di analisi, che il fruitore, in quanto ermeneuta, sceglie per interpretare l’elemento rappresentato, sotto la guida dell’interprete (Pavis, 1998: 394).
Secondo Tessari la caratteristica propria di un testo drammatico è l’autenticità teatrale. Anche se scritto e non deputato a una rappresentazione, il testo drammatico deve in ogni caso essere pensato per essere recitato, non deve restare parole su carta, frutto di una lettura individuale. «I personaggi, i dialoghi, i monologhi posti su carta […] nascono e prendono forma (inconfondibile forma) da ben altra inclinazione mentale: quella che guarda alle parole della pagina scritta come a segni pienamente fruibili e collettivamente fruibili soltanto se vivificati da una finzione in atto che sappia farli propri» (Tessari, 1996: 23, corsivo aggiunto).
«There is pratically no theoretical literature on the translation of drama as acted and produced», scrive Lefevere nel 1980, che individua il motivo della mancanza di teorie nell’analisi testuale fallace confinata solo al testo scritto (il testo drammatico) e nella scarsa importanza data alla pragmatica nel contesto della traduzione teatrale. E pensare che sono proprio i paradigmi pragmatici a distinguere un testo drammatico da un testo “ordinario”. Searle sosteneva che «non vi sono proprietà testuali, siano esse sintattiche o semantiche, che possano identificare un testo come opera di finzione» (Searle, citato in Pavis, 1998: 486); piuttosto un testo drammatico è tale perché circoscrivibile entro la cornice della finzione, perché pensato per essere sensorialmente percebile.
Il campo di interesse per un traduttore di testi teatrali deve essere dunque interdisciplinare. È «indispensabile che il traduttore di poesia teatrale lavori di conserva con tutti coloro che allestiscono lo spettacolo e prenda parte al vivo della sua preparazione» (Luzi, 1990: 99).

1.3. Drammaturghi, traduttori, spettatori
Mario Luzi nel suo saggio descrive il rapporto tra autore e traduttore nella lirica come un «duello» tra il primo che vorrebbe che il proprio lavoro rimanesse intonso, autentico, e il secondo che in quanto portatore di creatività e autonomia si sente legittimato alla creazione. Questo gioco tra le due parti può allo stesso modo capovolgersi, vedendo l’autore originale come vittima passiva dell’«immobilità dell’oggetto» creato, e il traduttore come l’artefice vero e proprio della creazione. La contesa sarà giocata non a cielo aperto bensì segretamente e quindi il vincitore e il vinto, i torti o le ragioni, insomma il giudizio, resterà completamente limitato ai princìpi sottesi riconosciuti solo da una delle due parti (Luzi, 1990: 97). Alcune concezioni comuni che riguardano la letteratura in generale considerano il testo originale come un «ipo-testo eterno» e autentico, e le sue traduzioni come «iper-testi caduchi» (Boselli, 1996: 66), meramente circoscritti alle varianti di tempo e spazio. Secondo tali concezioni la traduzione verrebbe vista e sentita come un rapporto padrone-servitore (senza neppure dunque considerare l’autore e il traduttore due duellanti di pari grado nella sfida!), in cui chi sopperisce alle leggi di autenticità e originalità è il traduttore, a discapito della «prerogativa del disporre e del fare» (Luzi, 1990: 97). Nell’àmbito della traduzione teatrale tali teorie immobiliste appaiono ingiustificate. A teatro la sottesa disputa tra autore e traduttore viene ufficializzata e il merito o il demerito dell’uno o dell’altro viene giudicato dal palcoscenico, che «registra come un sismografo le variazioni d’energia del linguaggio» (Luzi, 1990: 98). Anche le minuscole disattenzioni che sulla carta scritta possono considerarsi innocue irrimediabilmente trapelano nella messa in scena per la mancanza di fluidità nel dialogo o per l’assenza vera e propria di azione, come spesso nota Corrigan nel suo saggio. Stark Young a proposito della traduzione di Čehov sostiene che «the speech lives or dies […] by its precision. In the form alone lies much of its meaning and all its point» (Young, 1938: 740). Altre volte invece traduzioni corrette e dotate di senso logico non riescono a far scaturire l’azione, non assecondano la recitazione. Pirandello sostiene che

bisogna che il drammaturgo [e quindi il traduttore] trovi la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto, l’espressione unica, che non può essere che quella, propria cioè a quel dato personaggio in quella data situazione; parole, espressioni che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole (Pirandello, 1939: 235).

Nell’ambito teatrale si distinguono due scuole di pensiero che descrivono due diversi approcci che il traduttore di un’opera teatrale può assumere. La prima è quella dei traduttori “gelosi” della loro autonomia che perseguono la strada dalla traduzione “eterna”, producono testi statici che verranno solo pubblicati, e lasciano quindi libero arbitrio al regista per quanto concerne la messa in scena dell’opera. La seconda scuola invece, più saggiamente, si occupa di traduzioni in funzione di uno spettacolo che hanno quindi come dominante la recitabilità e tengono in conto soprattutto una reinterpretabilità da parte della cultura ricevente. Questa scuola si trova d’accordo con la seguente asserzione di Zuber: «as well as being a literary text, the translation of drama as a performing art is mainly dependent on the final production of the play on the stage and on the effectiveness of the play on the audience» (Zuber, 1988: 485). Tali traduzioni, pur di ottenere un’efficace ricezione dal pubblico, tralasciano il rigore e l’esattezza filologica del testo originale.
In un connubio tra immagini acustiche, visive ed emozionali, il teatro trasmette un messaggio e allo stesso tempo allieta l’animo del pubblico: quale migliore mezzo di comunicazione? Nel caso di un dramma tradotto si tratta di comunicazione interculturale. Ecco che il teatro riesce a diventare anche un eminente luogo d’intertestualità, assumendo «i connotati di una corsia preferenziale per il dialogo interculturale» (Boselli, 1996: 71). Non può esistere una traduzione definitiva ed eterna, ma solo adatta alla cultura che è pronta a riceverla. L’arte teatrale è in continua evoluzione e strettamente esposta all’influenza del momento. La lontananza temporale, linguistica, culturale sono sfide che il traduttore professionista affronta quotidianamente, sono presupposti del suo lavoro come lo è conoscere la lingua straniera. Nel teatro, chi giudica il lavoro del traduttore è il pubblico, che si aspetta, a seconda dei casi, di divertirsi o di commuoversi, ma soprattutto di trovare punti di complicità, di trarne un insegnamento, insomma di comprendere l’opera e sentirsi partecipe del fatto teatrale. Sminuire il pubblico come digiuno di senso critico, passivo, incapace di cogliere messaggi, è un grave torto che si fa al destinatario del fatto teatrale. È per lo spettatore che il traduttore deve lavorare, è per ottenere la sua ricezione dell’opera che il traduttore spesso deve scendere a patti con il rigorismo della traduzione letteraria, seguire scelte coraggiose che possano rendere la fluidità dell’opera e la sua freschezza, come se fosse nata nuovamente e per la prima volta venisse presentata a quel particolare pubblico. Cito a tal proposito Pirandello: «Nell’esecuzione si dovrebbero trovare tutti i caratteri della concezione» (1939: 234). Solo in questo modo si permette alla comunicazione interculturale di eseguirsi.
Se il teatro nega alla cultura emittente il diritto di essere rappresentata in maniera completa, con pregi e difetti, questa ne usce sconfitta, sminuita. La comunicazione si svolgerà solo in termini di chiusura tra le due culture e dà adito ai soliti pregiudizi e luoghi comuni, che purtroppo esistono proprio per una mancanza di conoscenza reciproca. Sconfitta è anche la cultura ricevente, che vede vanificato il suo andare a teatro: viene privata del diritto di giudizio spassionato di un’altra cultura, diversa e magari lontana, che il teatro avrebbe potuto rendere più vicina. Normalmente nella narrativa, in funzione dell’abbattimento della distanza spaziale e temporale che intercorre tra la cultura emittente e quella ricevente, la traduzione viene accompagnata da un apparato metatestuale, che può essere costituito da un’introduzione, da note, commenti, saggi critici che inquadrano il testo. Nel teatro un tale apparato è improbabile e poco fattibile, quindi a maggior ragione la distanza deve essere colmata nella rappresentazione, in tutto l’apparato teatrale, preceduta da un impianto teorico affidato alla collaborazione fra linguisti, letterati, comparativisti, drammaturghi e registi (Anderman, 1998: 74).
Chiaramente è impossibile ottenere l’effetto equivalente, ovvero sortire gli stessi effetti che l’autore originale voleva per il pubblico che parla la sua lingua, anche perché è difficile capire qual è. Pirandello nel suo saggio ha come leitmotiv l’impossibilità dell’interpretazione in toto. Ogni persona sente e vede alla sua maniera e quindi non esiste mai un’interpretazione perfettamente filologica, specchio di ciò che l’autore sentiva e vedeva. L’opera di mediazione tra una lingua e l’altra non è mai obiettiva perché il sentire e il vedere del traduttore non può mai venire completamente filtrato, annullato. E l’attore, che si “intromette” tra la creatura e l’autore, può solo cercare di incarnarsi nel personaggio creato dal drammaturgo e tuttavia l’immagine da lui incarnata è solo somigliante e non uguale, perché ricreata un’altra volta nel suo corpo, nella sua mente, nella sua voce, nel suo gesto. Pirandello associa il caso dell’attore a quello del traduttore: la creazione di qualcosa di altro, che pur perseguendo il fine della trasmissione di una «creatura» non sua, ha in sé l’espressività del traduttore, e non più dell’autore originale. La creazione da parte del traduttore di qualcosa di nuovo, di un altro originale si associa al pensiero elaborato da alcuni traduttori brasiliani, il «cannibalismo», secondo il quale il traduttore divora il prototesto e ne crea uno tutto suo (Boselli, 1996: 66).
Sia che si giudichi il traduttore un “cannibale” che si ciba del testo originale per crearne un altro, oppure un rigorista ortodosso e filologicamente fedele, è necessario affrontare la spinosa questione del lettore modello nella traduzione teatrale.
Il saggio di Corrigan ripete insistentemente che la traduzione deve essere fatta per gli attori. Possiamo dunque azzardare che il lettore modello del processo traduttivo di un’opera teatrale sia l’attore? E lo spettatore, il fruitore dell’opera, che ruolo assume nel processo teatrale? Probabilmente si dispiegano due passaggi traduttivi: nel primo il lettore modello del traduttore è l’attore; nel secondo il traduttore ha come lettore modello il pubblico.
Anche in questo caso non vi è purtroppo l’apporto teorico per rispondere al quesito. Le ricerche sono numerose per quanto concerne il ruolo dell’attore, il ruolo del pubblico e il lettore modello nella narrativa, ma non è ancora affiorato un confronto tra questi studi che dimostri quale sia il lettore modello nella traduzione teatrale.
Se si vuole considerare il teatro come una sorta di episodio di lettura collettiva, multimediale, possiamo ben decretare il pubblico come lettore modello a cui il traduttore si indirizza, un pubblico che però diventa entità unica. Durante la fruizione, infatti, l’individualità dei singoli spettatori si uniforma almeno parzialmente.

Non si può separare lo spettatore come individuo dal pubblico come agente collettivo. Nello spettatore-individuo passano i codici ideologici e psicologici di molti gruppi, mentre la sala costituisce, a volte, un’entità, un corpo che reagisce in blocco (Pavis, 1998: 426).

Uniformare il pubblico significa prefissarsi un pubblico ideale, che sia in grado di comprendere nell’unico modo possibile la messinscena. Questo concetto è il fulcro dell’estetica della ricezione di Jauss (Rezeptionsästethik) e Pavis ritiene assai improbabile considerare il fatto teatrale in funzione di un «ricevente onnipotente» (Pavis, 1998: 427). Il pubblico è a rigor di logica considerato in blocco perché si trova a dover interpretare in blocco nello stesso spazio e nello stesso tempo il fatto teatrale, ma non è detto che da esso scaturisca una reazione e un’interpretazione in blocco. Tale opinione però non vuole dare adito alla legittimità di molteplici interpretazioni tutte possibili, nel teatro così come nella letteratura: come Pareyson sostiene «è sempre una persona concreta quella che, dal suo punto di vista, cerca di rendere e far vivere l’opera com’essa stessa vuole» (Pareyson, 1954 [1988: 11]).

1.4. Riferimenti bibliografici

Anderman, G. 1998, «Drama translation» in Routledge Encyclopedia of Translation Studies a cura di M. Baker e K. Malmkjaer, London:Routledge: 71-74.

Artaud, A. 1968, Il teatro e il suo doppio e altri scritti, Torino: Einaudi. [princeps 1938].

Baldini Castoldi Dalai Editore 2008, La semiotica del teatro, disponibile nel sito http://delteatro.it/dizionario_dello_spettacolo_del_900/s/semiologia_teatro_e.php, Milano: Baldini Castoldi Dalai, consultato nel mese di gennaio 2009.

Baker, M., Malmkjaer, K. 1998, a cura di, Routledge Encyclopedia of Translation Studies, London, Routledge.

Boselli, S. 1996. «La traduzione teatrale». Testo a fronte. Milano: Crocetti, numero 15, ottobre: 63-80.

Delabastita, D. 1998, «Shakespeare translation» in Routledge Encyclopedia of Translation Studies, London: Routledge: 222-226.

Luzi, M. 1990. «Sulla traduzione teatrale». Testo a fronte. Milano: Guerini, numero 3, ottobre: 97-99.
Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore, Milano: Hoepli.

Pareyson, L. 1988, Estetica. Teoria della formatività, Milano: Bompiani. Prima edizione 1954.

Pavis, P. 1998. Dizionario del teatro, edizione italiana a cura di Paolo Bosisio, Bologna: Zanichelli.

Pirandello, L. 1908 «Illustratori, attori, traduttori», in Saggi, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano: Mondadori, 1939: 227-246.

Pisanty, V., Pellerey R. (2004). Semiotica e interpretazione, Milano: Bompiani.

Tessari, R., Alonge R. (1996). Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, Milano: LED.

Young, S. 1938, «On translating The Seagull», Theatre Arts Monthly in Chehkhov The critical heritage, a cura di Victor Emeljanow, London, Boston and Henley, Routledge & Kegan 1981: 418-422.

Zuber-Skerrit, O. «Toward a Typology of Literary Translation: Drama Translation Science», 1988, in Meta: journal des traducteurs, volume 3, numero 4: 485-490, disponibile nel sito www.erudit.org consultato nel febbraio 2009.

2. Traduzione con testo a fronte

Translating for Actors

Robert W. Corrigan

We are just now in this country discovering the plays of such European playwrights as lonesco, Beckett, Genet, Adamov, and Ghelderode. With a prudishness that is about par for the course, we tend to reject these plays and label their authors opprobiously as avant-garde. But somehow – in spite of our rejection – the plays keep reasserting themselves; they have a mysterious hold on our sensibilities. For all their apparent unintelligibility and simplicity, they possess a vitality we have missed in our theater. But what is the source of this vitality?
At first glance, it is the non-didactic quality which differentiates the work of these playwrights from those stereotyped forms to which we are so accustomed; there are no clear, packaged ‘morals’ or ‘inspiring’ attitudes. But we soon discover that underlying this lack of didacticism is a more central fact: each of these writers is revolting against the tyranny of words in the modern theater. The dialogue is not a monologue apportioned out to several characters; there is none of the planted line and heavy-handed cross-reference to which we are so accustomed; there are a multitude of symbols, but these symbols mean nothing in particular and yet suggest many things. In each of these plays the characters lead their own lives, talk their own thoughts. Their speeches impinge on each other and glance away. Finally, in all of these plays there is an
Tradurre per gli attori

Robert W. Corrigan

Ci troviamo ora in questo paese per scoprire le opere teatrali di drammaturghi europei quali Ionesco, Beckett, Genet, Adamov e Ghelderode. Con un certo moralismo che è quasi ciò che ci si aspetta, tendiamo a rifiutare tali opere e a qualificare oltraggiosamente i loro autori come avant-garde. Tuttavia, in un certo qual modo – nonostante la nostra avversione – le opere continuano a riaffermarsi; mantengono una misteriosa presa sulle nostre sensibilità. Nonostante la loro apparente imperscrutabilità e semplicità, possiedono una vitalità nel nostro teatro che si è persa. Ma qual è il fulcro di questa vitalità?
A una rapida osservazione, è la qualità non didascalica delle opere di questi drammaturghi a differenziarle da quelle forme stereotipate a cui siamo tanto abituati; non ci sono “princìpi morali” chiari e ben confezionati o gesta “ispiranti”. Tuttavia, sottolineando questa mancanza di didascalicità, scoviamo presto una questione più centrale: ciascuno di questi drammaturghi si sta rivoltando contro la tirannia delle parole del teatro moderno. Il dialogo non è un monologo ripartibile tra diversi personaggi; non c’è nessuna linea guida o rimando intertestuale evidente, ai quali siamo così avvezzi; sono presenti molteplici simboli, ma questi simboli non rappresentano nulla in particolare e allo stesso tempo evocano molte cose. In ognuna di queste opere i personaggi conducono la propria vita, esprimono i loro pensieri. I loro discorsi si ripercuotono l’uno sull’altro e scorrono altrove. Infine, in ogni dramma vi è

insistence upon the gestures of pantomime as the theater’s most appropriate and valuable means of expressions; an insistence that the mimetic gesture precedes the spoken word and that the gesture is the true expression of what we feel, while words only describe what we feel. In fact, these writers assert that in objectifying the feeling in order to describe it, words kill the very feeling they would describe.
It is no wonder, then, that these playwrights feel a great affinity to the mimes – Etienne Decroux, Marcel Marceau, and Jacques Tati; no wonder that they turn for inspiration to the early films of Charlie Chaplin, Buster Keaton, the Keystone Cops, Laurel and Hardy, and the Marx Brothers; no wonder, finally, that they are all under the influence of Jacques Copeau and Antonin Artaud. It is only with the recent translation into English of Artaud’s book, The Theater and Its Double (the earlier and more seminal work of Copeau has not as yet been translated), that most of us have been able to discover what the aesthetic of this whole avant-garde theater movement is.
Artaud’s basic premise was that in the theater it is a mistake to assume that ‘In the beginning was the word.’ And our theater does make just that assumption. For most of us, critics as well as playwrights, the Word is everything; there is no possibility of expression without it; the theater is thought of as a branch of literature, and even if we admit a difference between the text spoken on the stage and the text read by the eyes, we have still not managed to separate it from the idea of a performed text.

un’insistenza sui gesti della pantomima, annoverati come mezzi di espressione teatrale più appropriati e validi; un’insistenza sul fatto che il gesto mimico preceda la parola parlata e che il gesto sia la vera espressione di ciò che proviamo, mentre le parole possono soltanto descrivere ciò che proviamo. Precisamente, questi drammaturghi asseriscono che, oggettivando il sentimento nell’intento di descriverlo, le parole uccidono lo stesso sentimento che vorrebbero descrivere.
Non c’è da stupirsi, dunque, che questi autori si trovino in grande sintonia con i mimi – Etienne Decroux, Marcel Marceau e Jacques Tati; non c’è da stupirsi che traggano ispirazione dai primi film di Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, dei Keystone Cops, e dei fratelli Marx; non c’è da stupirsi infine che siano tutti sotto l’influenza di Jacques Copeau e Antonin Artaud. È solo con la recente traduzione verso l’inglese del libro di Artaud, Le Théâtre et son double [Il teatro e il suo doppio] (il primo, fondamentale, lavoro di Copeau non è stato ancora tradotto), che la maggior parte di noi ha potuto scoprire cosa fosse l’estetica dell’intero movimento teatrale dell’avant-garde.
La premessa fondamentale di Artaud era che nel teatro è un errore sostenere che «in principio era il verbo». E il nostro teatro fa proprio quell’assunto. Per la maggior parte di noi, critici così come drammaturghi, il verbo è tutto; senza non vi è possibilità di espressione; il teatro è considerato un ramo della letteratura, e anche se ammettiamo una differenza tra il testo declamato sul palco e il testo letto con gli occhi, non siamo ancora in grado di separarlo dall’idea di un testo recitato.
Artaud and the playwrights who have followed him maintain that our modern psychologically oriented theater is denying the theater’s historical nature. For them the stage is a concrete physical place which must speak its own language – a language that goes deeper than spoken language, a language that speaks directly to our senses rather than primarily to the mind as with the language of words.
This is the most significant thing about the avant-garde theater – it is a theater of gesture. ‘In the beginning was the Gesture!’ Gesture is not a decorative addition that accompanies words; it is rather the source, cause, and director of language, and insofar as language is dramatic, it is gestural. It is this insistence upon restoring the gestural basis to theater that has resulted in the renascence of pantomime in such plays as The Chars, Waiting for Godot, Ping-Pong, Endgame, The Balcony, and Escurial. Those of you who have seen any of these plays in production know how different this pantomime is from pantomime as most moderns conceive of it. For most of us, pantomime is a series of gestures which represent words or sentences – a game of charades. But this is not the pantomime of history. For the great mimists, Artaud points out, gestures represent ideas, attitudes of mind, aspects of nature which are realized in an effective, concrete way, by constantly evoking objects or natural details much as Oriental language represents night by a tree on which a bird that has closed one eye is beginning to dose the other.

Artaud e i suoi discepoli sostengono che il nostro teatro moderno orientato psicologicamente stia sconfessando la natura storica del teatro. A loro parere, il palco è un luogo fisico concreto che deve parlare un linguaggio proprio – un linguaggio che va più in profondità rispetto alla lingua parlata, una lingua che si rivolge direttamente ai nostri sensi, invece che in primis alla nostra mente, come fa il linguaggio delle parole.
Questo è l’aspetto più significativo del teatro dell’avant-garde – è un teatro del gesto. «In principio era il gesto»! Il gesto non è un’aggiunta decorativa che accompagna le parole; è invece il fulcro, la causa e il regista della lingua, e per quanto il linguaggio sia drammatico, è essenzialmente gestuale. È questa insistenza sul ripristinare la base gestuale del teatro che ha condotto alla ripresa della pantomima in opere quali Les Chaises [Le sedie], En attendant Godot [Aspettando Godot], Le Ping Pong [Ping-Pong], Fin de partie [Finale di partita], Le Balcon [Il balcone] e Escurial. Chiunque di voi abbia assistito a un riallestimento di queste commedie sa come questa pantomima sia diversa dalla pantomima come viene intesa dalla maggior parte dei contemporanei. Per molti di noi, la pantomima è una serie di gesti che rappresentano parole o frasi – una sciarada. Ma questa non è la pantomima storica. Per i grandi mimi, sostiene Artaud, i gesti rappresentano idee, atteggiamenti mentali, aspetti della natura che sono realizzati in un modo efficace e concreto, evocando costantemente oggetti o dettagli della natura, come fa il linguaggio orientale rappresentando la notte con un albero su cui un uccello che ha

The famous director, Meyerhold, was striving for the same thing in his attempt to restore vitality to the Russian theater at the turn of the century. With the exception of Chekhov – and the affinity of Chekhov to the avant-garde is greater than one might at first think – most of the playwrights of that time were trying to transform literature for reading into literature for the theater. Meyerhold correctly saw that these playwrights were in fact novelists who thought that by reducing the number of descriptive passages and enlivening the story by increasing the characters’ dialogue, a play would result. Then this novelist-playwright would invite his reader to pass from the library into the auditorium. As Meyerhold put it in his essay, ‘Farce’:
Does the novelist need the services of mime? Of course not. The readers themselves can come onto the stage, assume parts, and read aloud to the audience the dialogue of their favorite novelist. This is called ‘a harmoniously performed play.’ A name is quickly given to the reader-transformed-into-actor, and a new term, ‘an intelligent actor,’ is coined. The same dead silence reigns in the auditorium as in the library. The public is dozing. Such immobility and solemnity is appropriate only in a library.

There has been a bit of intentional overstatement in all of this. Obviously, it is not a matter of suppressing the speech in the theater. It is not that language is not important in the theater, it is rather a matter of changing its role. Since the

un occhio sta per chiudere l’altro.
Il famoso regista Mejerhol´d al volgere del secolo si stava impegnando per raggiungere lo stesso obiettivo, nel tentativo di ridare vitalità al teatro russo. A eccezione di Čehov – e l’affinità dell’avant-garde con Čehov è maggiore di quanto si possa pensare a una prima lettura – numerosi drammaturghi di quel tempo stavano cercando di trasformare la letteratura da leggere in letteratura per il teatro. Mejerhol´d notò correttamente che questi scrittori erano in realtà romanzieri che pensavano che riducendo il numero dei passaggi descrittivi e rianimando la vicenda aumentando i dialoghi tra i personaggi, ne sarebbe risultata un’opera teatrale. Quindi questo scrittore-romanziere avrebbe invitato il lettore a passare dalla biblioteca all’auditorium. Come Mejerhol´d scrisse nel suo saggio Фарс [La farsa]:
Il romanziere ha bisogno dei servizi del mimo? Certamente no. Gli stessi lettori possono salire sul palco, assumere delle parti, e leggere al pubblico ad alta voce il dialogo del loro romanziere prediletto. Questo è ciò che viene denominato «un’opera recitata armoniosamente». Al lettore-trasformato-in-attore viene subito dato un nome e viene coniato un nuovo termine, «un attore intelligente». Lo stesso silenzio di tomba regna tra il pubblico, come in biblioteca. Gli spettatori sonnecchiano. Tale immobilità e solennità è appropriata solamente a una biblioteca.

Vi è una certa sopravvalutazione intenzionale in tutto questo. Ovviamente, non si tratta di sopprimere il discorso nel teatro. Non è che il linguaggio sia meno importante nel teatro,
theater is really concerned only with the way feelings and passions conflict with one another, and man with man, in life –
Mr. Arrowsmith hit it perfectly when he used the term ‘turbulence’ – the language of the theater must be considered as something other than a means of conducting human characters to their external ends. To change the role of speech in theater is to make use of it in a concrete and spatial sense, combining it with everything else in the theater. In short, language in the theater must always be gestural: it must grow out of the gesture, must always act and never be descriptive. The theater is dead the moment there is a substitution of statement for dramatic process.
This may seem far removed from the problems of translation, and yet I think not. If we are clearly so incapable in our time of giving an idea of Aeschylus, Sophocles, or Shakespeare that is truly expressive of what they were trying to achieve in the theater, it is very likely because we have lost the sense of their theater’s physics. It is because the directly human and active aspect of their way of speaking and moving, their whole scenic rhythm, escapes us. It is not enough to have the texts of their plays, for none of these great tragedians is the theater itself. The theater is always a matter of scenic materialization in space. Call it an inferior art if you will, but as Artaud insists, ‘theater resides in a certain way of furnishing and animating the air of the stage, by a conflagration of feelings and human sensations at a given point creating situations that are expressed in concrete gestures.’

piuttosto questione di cambiare il suo ruolo. Dato che l’unica preoccupazione del teatro è davvero il modo in cui i sentimenti e le passioni confliggono l’uno con l’altro, e l’uomo con l’uomo, nella vita – Arrowsmith lo descrive perfettamente usando il termine «turbulence» – il linguaggio del teatro deve essere considerato qualcosa di diverso da un mezzo per condurre i personaggi umani al loro compimento esteriore. Cambiare il ruolo del discorso nel teatro significa usarlo in un senso concreto e spaziale, combinarlo con qualsiasi altro elemento del teatro. In breve, il linguaggio del teatro deve essere sempre gestuale: deve scaturire dal gesto, deve sempre recitare e non deve mai essere descrittivo. Nel momento in cui la dichiarazione si sostituisce al un processo drammatico, il teatro muore.
Ciò può apparire abbastanza avulso dai problemi della traduzione, ma io non la penso proprio così. Se nel nostro tempo non siamo in grado di dare un’idea di Eschilo, Sofocle e Shakespeare che sia davvero esplicativa di ciò che stavano cercando di conseguire col teatro, è molto probabile che abbiamo perso il senso della loro concretezza nel teatro. È perché l’aspetto attivo e direttamente umano del loro modo di parlare e muoversi, tutto il loro ritmo scenico, ci sfugge. Non è abbastanza avere i testi delle loro opere, perché nessuno di questi grandi tragediografi è il teatro stesso. Il teatro è sempre questione di materializzazione scenica nello spazio. Chiamatela «arte inferiore», se volete, ma come insiste Artaud, «il teatro risiede in un certo modo di allestire e animare l’aria del palco, attraverso una conflagrazione di sentimenti e sensazioni umane
Keeping this in mind, we must take one more step before we can deal with the specific problems of translating for the theater. And for this part of the journey we will need a new Vergil – so Antonin Artaud gives way to Mr. R. P. Blackmur, that fine gentleman and critic who has guided so many in modern criticism. I refer specifically to his essay, ‘Language as Gesture.’*
In this essay Blackmur takes us into those realms where language becomes gestural. He sees beyond the simple distinction that language is made of words and gesture is made of motion, to the reverse distinction: ‘Words are made of motion, made of action or response, at whatever remove; and gesture is made of language – made of the language beneath or beyond or alongside of the language of words.’ Working from this premise it is possible for Mr. Blackmur to consider that notion which is so important for anyone writing for the theater: ‘When the language of words most succeeds it becomes gesture in its words.’ He sees that gesture is not only native to language, but that it precedes it, and must be, as it were, carried into language whenever the context is imaginative or dramatic. Without a gestural quality in language there can be no drama. This is so since ‘the great part of our knowledge of life and nature perhaps all our knowledge of their play and interplay [their drama] – comes to us as gesture, and we are masters of the skill of that knowledge before we can ever make
a un dato punto, creando situazioni espresse in gesti concreti».
Tenendo questo in mente, prima di poter affrontare i problemi specifici della traduzione per il teatro dobbiamo fare un passo avanti. E per questa parte del viaggio avremo bisogno di un nuovo Virgilio: così Antonin Artaud cede il posto a R. P. Blackmur, quel raffinato gentleman e critico cha ha guidato molti verso la critica moderna. Mi riferisco nello specifico al suo saggio, Language as Gesture*.
In questo saggio, Blackmur ci conduce in quei regni dove il linguaggio diventa gestuale. Blackmur vede oltre la semplice distinzione per cui la lingua è fatta di parole e il gesto è fatto di moto, fino ad arrivare alla distinzione opposta: «Le parole sono fatte di moto, fatte di azione o risposta, a qualsiasi distanza; e il gesto è fatto di linguaggio – fatto di un linguaggio al di sotto o oltre o in parallelo alla lingua delle parole». Partendo da questo presupposto è possibile per Blackmur considerare quel concetto così importante per chiunque scriva per il teatro: «Quando la lingua delle parole ha più successo diventa gestuale nelle sue parole». Blackmur nota che il gesto non è solo nativo della lingua, ma la precede, e dev’essere, in un certo senso, portato nella lingua che il contesto sia immaginativo o drammatico. Senza una qualità gestuale, nella lingua non esiste dramma. È così da quando «la gran parte della nostra conoscenza della vita e della natura – forse tutta la nostra conoscenza della loro opera e interrelazione – arriva a noi come gesto, e noi siamo maestri dell’abilità di quella conoscenza prima ancora di essere
a rhyme or a pun, or even a simple sentence.’ Blackmur then goes on to define what he means by gesture in language, and I quote his definition because I believe it will be helpful to the rest of my argument. It reads:

Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward and imaged. meaning. It is that play of meaningfulness among words which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is moving, in every sense of that word: what moves the words and what moves us (Blackmur 1952)[i].

When we can capture that quality in words we will then be writing (or translating) for actors. And in the theater you write only for actors – never for readers. Even the most cursory glance at the history of the theater shows that whenever playwrights cease writing for actors the theater loses its vitality and loses its literature, too. Certainly, Shakespeare provides us with our strongest evidence on this point – but Aeschylus, Sophocles, Euripides, or Molière would do just as well. Shakespeare is the greatest dramatist in the English language and his plays are great works of literature, but he was not writing literature; he was primarily writing for actors; and, as we know, he was writing for specific actors. And this is the source of the plays’ enduring vitality. Furthermore, I would even maintain that he would never have created some of the scenes he did if he had not known the actors who were to play them and from what we know of the Greek festivals and the French theater of the seventeenth century, it is probably safe to
capaci di una rima o di un gioco di parole, o anche di una semplice frase. Blackmur poi procede definendo ciò che intende per «gesto nel linguaggio», e cito la sua definizione perché credo sarà utile al resto della mia argomentazione. Eccola:

Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward and imaged meaning. It is that play of meaningfulness among words which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is moving, in every sense of that word: what moves the words and what moves us ( Blackmur 1952)[ii].

Quando riusciamo a catturare quella qualità nelle parole staremo così scrivendo (o traducendo) per gli attori. E nel teatro si scrive solo per gli attori, mai per i lettori. Persino lo sguardo più affrettato alla storia del teatro dimostra che questo perde vitalità, e perde persino letteratura, nel momento in cui i drammaturghi smettono di scrivere per gli attori. Certamente, Shakespeare ci dà la prova più evidente su questo punto ma Eschilo, Sofocle, Euripide o Molière andrebbero altrettanto bene. Shakespeare è il più grande drammaturgo in lingua inglese e le sue opere sono grandi opere di letteratura, ma lui non stava scrivendo letteratura; lui scriveva soprattutto per gli attori; e, come sappiamo, scriveva per attori ben precisi. E questo è il fulcro della vitalità duratura delle opere. Inoltre, vorrei persino affermare che Shakespeare non avrebbe mai creato alcune delle sue scene se non avesse conosciuto gli attori che avrebbero dovuto recitarle. E per ciò che sappiamo dei festival greci e del teatro francese del Seicento, si può
assume that Sophocles had his Burbage and Molière was his own Will Kemp.
Now, the art of writing for actors has been almost totally neglected. The idea that plays are written to be performed appears to disturb many people. This attitude is, I think, largely a reaction to the acting practices of the nineteenth century, which so often proved to be little more than the sleight-of-hand of technique. Throughout the history of the theater this kind of magic can be found. The most guilty men were usually actors; often they were what are called ‘great actors.’ Then virtuoso players cannot be wholly blamed, for, with some major exceptions, during the past 150 years actors have been given everything to act except plays: pamphlets, tracts, novels, newspaper articles, and even epic poems. This forced actors –who are animals with a strong sense of self-preservation and considerable ingenuity – to abandon literary texts altogether in favor of exciting and suspenseful situations that gave them, the opportunity to exhibit their skill. This was very poor art, but extremely good business.
Although today we tend to measure an actor by his ability to achieve the fullness of the dramatist’s intention, we nevertheless regard with suspicion any play that seems to have been written primarily for actors. This is too bad, for the actor is the playwright’s most valuable means of expression.

sostenere che Sofocle aveva il suo Burbage[iii] e Molière era il suo Will Kemp[iv]
Ora, l’arte di scrivere per gli attori è stata quasi totalmente trascurata. L’idea che delle opere siano scritte per essere recitate sembra disturbare molte persone. Questo atteggiamento è, secondo me, in gran parte una reazione agli esercizi ottocenteschi di recitazione, che così spesso hanno dato prova di essere poco più che la prestidigitazione della tecnica. In ogni momento della storia del teatro si può trovare questo tipo di magia. Gli uomini più colpevoli erano solitamente attori; spesso erano quelli che venivano chiamati «grandi attori». Questi attori virtuosisti non possono essere del tutto condannati, dato che, con alcune importanti eccezioni, durante gli ultimi centocinquant’anni agli attori è stato dato da recitare di tutto tranne opere teatrali: pamphlet, trattati, articoli di giornale, e persino poemi epici. Ciò ha costretto gli attori che sono animali con un forte istinto di autoconservazione e considerevole ingegnosità ad abbandonare del tutto i testi letterari in favore di situazioni entusiasmanti e piene di suspense che davano loro la possibilità di esibire le proprie abilità. Arte molto scadente questa, ma business estremamente buono.
Anche se oggi tendiamo a misurare un attore dalla sua abilità nel raggiungere la completezza dell’intenzione del drammaturgo, ciò nonostante consideriamo con diffidenza qualsiasi opera che sembri scritta principalmente per gli attori. Questo è estremamente sbagliato, dato che gli attori sono il

The actor’s power lies in his humanity, not – as we so often suppose – in his mind, his body, his face, or even his voice. Only in the theater can the artist call on men as men to communicate, to express, and to interpret. I have never understood why the actor’s art is so often discounted because of its transience. Surely the emotional force of the actor’s performance – that quality which moves an audience – resides in the fact that it possesses a mortality of its own, that it is gone into the past as irrevocably as any human action.
It is for this reason that the actor’s concern is to achieve, not truth, but a rightness. To perfect this rightness is his job. Movement, the costumes, make-up, even the words are subsidiary. Thus what the actor demands from a play is not words in dialogue form, but a stimulus to his imagination. It is at this point that the playwright and his actors first come together, and it is important to remember that in every way the theater is a coming together. This is true of a performance and it is true of the making of that performance. It is a playwright’s vanity to claim creation because he is the first link in the chain of a production. His play would be no play if it remained words on paper.
It is for this reason that the playwright – and also the translator – cannot really be concerned with ‘good prose’ or with ‘good verse’ in the usual sense of those terms.

mezzo di espressione più valido del drammaturgo. Il potere dell’attore risiede nella sua umanità, non come supponiamo così spesso nella sua mente, nel suo corpo, nella sua faccia o addirittura nella sua voce. Solo nel teatro l’artista può rivolgersi agli uomini in quanto uomini per comunicare, esprimersi, e interpretare. Non ho mai capito il motivo per cui l’arte dell’attore venga così spesso sminuita per la sua transitorietà. Sicuramente la forza emotiva della rappresentazione dell’attore quella qualità che commuove il pubblico risiede nel fatto che possiede una propria mortalità, che è già andata nel passato irrevocabilmente come qualsiasi azione umana.
È proprio per questa ragione che la preoccupazione dell’attore è di raggiungere, non la verità, piuttosto la correttezza. Rendere perfetta questa correttezza è il suo lavoro. Il movimento, i costumi, il trucco, e persino le parole sono accessori. Ciò che quindi l’attore chiede a un’opera non sono parole in forma di dialogo, bensì uno stimolo alla sua immaginazione. È a questo punto che il drammaturgo e i suoi attori convengono per la prima volta, ed è importante ricordare che il teatro è sempre un convenire. Questo è vero per la rappresentazione ed è vero per la creazione di tale rappresentazione. Essendo il commediografo il primo anello della catena della produzione, è una sua vanità rivendicarne la creazione. La sua opera non sarebbe mai un’opera teatrale se rimanesse solo parole su carta.
È per tale ragione che il commediografo – e anche il traduttore – non possono davvero preoccuparsi della “buona prosa” o del “buon verso” nel senso comune delle parole.
The structure is action; not what is said or how it is said but when. For example, the use of soliloquies, choral passages, stichomythia, indirect dialogue and pauses, to mention but a few of the structural uses of dramatic language. By this method it is possible to control from within the text of the play the speed and exact rhythm which are usually imposed by the director. Only by realizing the plays theatrical dynamic in this way, can the actors see the dramatic shape of an individual part within a scene and not be forced to rely on an intuitive sense which is often false and sometimes leads to distortion.
The basic, the unalterable, factor of drama is the moment ‘when,’ and the dramatist’s first concern must be with this moment of action. If he does not, as so often is the case, it will be imposed by the director or the actors. In other words, the dramatist must create not only the dialogue, but what is done and when.
Recently, playwrights and critics alike have been greatly concerned with the question of style in writing for the theater. Invariably, such inquiries deal with the form of the spoken word. This is a mistake, for words are not the starting point. The great hope for our theater is that today our new playwrights are finally sensing this. We must concern ourselves first with the gestures that supply the motives behind the words. This calls to mind that old and only partly humorous adage of the theater: Never pay attention to the playwright’s

La struttura è azione; non cosa viene detto né come viene detto, bensì quando. Per menzionare solo alcuni degli usi strutturali del linguaggio drammatico, per esempio l’uso di soliloqui,soliloqui, passaggi corali, sticomitia, dialogo indiretto e pause. Attraverso questo metodo, è possibile controllare dall’interno del testo dell’opera la velocità e il ritmo esatto che solitamente sono imposti dal regista. Soltanto capendo la dinamica teatrale dell’opera in questo modo, gli attori possono vedere la forma drammatica della parte individuale all’interno di una scena, invece di essere costretti ad affidarsi a un’intuizione che spesso è falsa e qualche volta porta a un’alterazione.
Il fattore fondamentale, inalterabile del dramma è il “quando”, e la prima preoccupazione del drammaturgo deve essere questo momento dell’azione. Se non se ne cura, ed è il caso più frequente, saranno il regista o gli attori ad imporlo. In altre parole, il drammaturgo deve creare non solo il dialogo, ma anche quello che viene fatto e quando.
Recentemente, commediografi e critici in egual misura si sono occupati della questione dello stile dello scrivere per il teatro. Invariabilmente, tali ricerche hanno a che fare con la forma della parola parlata. Questo è però un errore, dato che il punto di partenza non sono le parole. Oggi i nostri nuovi commediografi hanno finalmente questa percezione e ciò rappresenta la grande speranza per il nostro teatro. Dobbiamo noi stessi preoccuparci in primis dei gesti che producono i motivi che stanno dietro le parole. Ciò richiama alla mente quella vecchia e in parte umoristica massima del teatro:
stage directions. (In this regard it is interesting to note, and I think it is to my point, that there are no stage directions other than entrances and exits in the plays of the Greeks, or Shakespeare, or Molière. The motive, meaning, and gestures were in the words themselves.) In the modern theater those stage directions, however, are the dramatist’s first means of communication with his actors. They must never presume to take the place of the director’s ‘blocking’ by telling the actor where to move or how to sit. Nor must they instruct the actor how to read the lines – ‘pensively,’ ‘bitterly,’ ‘joyfully.’ (One is reminded at this point of Eugene O’Neill, whose ‘flat’ language had practically no emotive quality. As a result it was necessary for him to prefix nearly every speech with a stage direction to indicate how the actor should read words which had no emotional power of their own.) They must augment the words to be spoken. The stage directions are guidelines of motive and action throughout the individual parts, and when realized in performance they are as much part of the play as the words the actors speak.
By this time the reader may be wondering if I am aware that my subject is translation and not playwriting. I am, believe me; but I feel very strongly that no one can translate for the theater – just as no one can write for it – unless he knows what writing for the theater is and how it differs from literature.

Mai prestare attenzione alle indicazioni sceniche del commediografo. (In questo senso è interessante notare, e penso sia il fulcro del mio discorso, che nelle opere greche, o di Shakespeare, o di Molière non esistono indicazioni sceniche, se non entrate e uscite di scena. Il motivo, il significato e i gesti si trovano nelle parole stesse). Nel teatro moderno, comunque, le indicazioni sceniche sono il primo mezzo di comunicazione tra il drammaturgo e i suoi attori. Tali indicazioni non devono mai permettersi di sostituirsi al blocco[v] del regista dicendo all’attore dove muoversi o come sedersi. E neppure devono istruire l’attore su come leggere le battute “pensierosamente”, “amaramente”, “allegramente”. (Si ricorda a questo punto Eugene O’Neill, il cui linguaggio “piatto” non aveva praticamente nessuna qualità emotiva. Di conseguenza è stato necessario per lui aggiungere un prefisso vicino a ogni dialogo con un’indicazione di scena per indicare come l’attore avrebbe dovuto leggere le parole, che di per sé non avevano alcun potere emozionale). Le indicazioni sceniche devono aumentare le parole da dire. Sono delle linee guida di tema e azione tra le parti individuali, e qualora realizzate nella rappresentazione diventano parti dell’opera come lo sono le parole che l’attore pronuncia.
A questo punto il lettore potrebbe chiedersi se io sia consapevole del fatto che il mio argomento è la traduzione e non la stesura di opere teatrali. Lo sono, credetemi; tuttavia credo davvero fortemente che nessuno sia in grado di tradurre per il teatro – e che nessuno possa scrivere per esso – se non sa cosa significa scrivere per il teatro e come ciò si differenzia
In fact, I would go so far as to say that good translations of plays will never come from those who have not had at least some training in the practice of theater. Without such training the tendency will be to translate words and their meanings. This practice will never produce performable translations, and this is, after all, the purpose of doing the job in the first place.
This leads us to our final consideration. Granted that translating for actors is a different undertaking, what are its specific problems and techniques?
The first law in translating for the theater is that everything must be speakable. It is necessary at all times for the translator to hear the actor speaking in his mind’s ear. He must be conscious of the gestures of the voice that speaks – the rhythm, the cadence, the interval. He must also be conscious of the look, the feel, and the movement of the actor while he is speaking. He must, in short, render what might be called the whole gesture of the scene. To do this it is important to know what words do and mean, but it is more important to know what they cannot do at those crucial moments when the actor needs to use a vocal or physical gesture. Only in this way can the translator hear the words in such a way that they play upon each other in harmony, in conflict, and in pattern – and hence as dramatic. I suppose what I am saying is that it is necessary almost to direct the play, act the play, and see the play while translating it.
I first became interested in translating for the theater out of practical necessity. Several years ago I was asked to direct a

dalla narrativa. Procederei dunque a sostenere che non scaturiranno mai buone traduzioni di opere teatrali da coloro che non abbiano avuto una certa formazione nella pratica del teatro. Senza tale formazione la tendenza sarebbe quella a tradurre le parole e i loro significati. Questa pratica non produrrebbe mai traduzioni recitabili, che è, in fondo, lo scopo di questo lavoro in prima istanza.
Questo ci porta alla nostra considerazione finale. Tenuto conto che tradurre per gli attori è un’impresa diversa, quali sono le tecniche e i problemi specifici?
La prima regola della traduzione per il teatro è che ogni cosa deve essere parlabile. È sempre necessario per il traduttore udire mentalmente l’attore parlare. Deve essere consapevole dei gesti della voce che parla, il ritmo, la cadenza, l’intervallo. Deve altresì essere consapevole dell’aspetto, del sentire, del movimento dell’attore mentre sta parlando. Deve, in breve, rendere ciò che può essere chiamato l’intero gesto della scena. Per fare ciò è importante sapere cosa fanno le parole e cosa significano, ma è ancora più importante sapere cosa non possono fare in quei momenti cruciali in cui l’attore ha bisogno di usare un gesto vocale o fisico. Solamente in questo modo il traduttore riesce a sentire le parole nel modo in cui si indirizzano l’una alle altre in armonia, in conflitto, e secondo uno schema e quindi come teatrali. Quello che dico, forse, è che è necessario piuttosto che dirigere un’opera, recitare l’opera, e osservarla mentre la si sta traducendo.
Mi sono interessato alla traduzione per il teatro per necessità pratica. Diversi anni fa mi è stato chiesto di dirigere
production of Chekhov’s Uncle Vanya. I had a superb cast and decided to use what is generally regarded as the best translation of Chekhov. The initial reading rehearsals were miserable. At first I thought this was the usual thing and the actors would get over their stiffness. After all, the translation made logical sense. But soon – I had the good, but unusual, fortune to have three months in which to do the show – the actors unconsciously began revising the speeches. They sounder better; there was a flow. Now, traditionally, Chekhov plays are thought of as moody, complex, soulful, vague, and impossible to perform successfully on the American stage. But my actors were giving evidence that this was not necessarily so. It was then that I recalled Chekhov’s troubles with Stanislavski and how the playwright always insisted that the great director-actor was complicating what was very simple.*
And I realized too that the translations were not expressing this simplicity upon which Chekhov insisted. Instead of the text’s ‘But what for?’ the translation had ‘though what his provocation may be I can’t imagine.’ Or ‘There is another thing

una produzione di Čehov, Дядя Ваня [Zio Vanâ]. Avevo un cast eccellente e decisi di utilizzare quella che è generalmente considerata la traduzione migliore di Čehov. Le prove di lettura iniziali furono pietose. All’inizio credevo che ciò fosse consuetudine e che gli attori avrebbero superato la rigidità. Dopo tutto, la traduzione aveva un senso logico. Ma ben presto – avevo la grande, anche se inusuale, fortuna di contare su tre mesi per preparare lo spettacolo – gli attori inconsciamente si misero a rivedere le battute. Suonavano meglio, v’era un flusso. Ora, le opere di Čehov sono tradizionalmente pensate come volubili, complesse, profonde, vaghe e impossibili da riproporre con successo sul palcoscenico americano. Tuttavia i miei attori stavano dimostrando che non era necessariamente così. Fu allora che ricordai i problemi di Čehov con Stanislavskij e come il commediografo abbia sempre insistito che il grande regista-attore stava complicando ciò che in realtà era molto semplice*. E ho capito inoltre che le traduzioni non stavano esprimendo quella semplicità su cui Čehov insisteva. Invece del «But what for?» del testo, la traduzione riportava «though what his

too – you take a drop of vodka now,’ when all Chekhov wrote was: ‘And you drink too.’ Or finally, ‘as if the field of art were not large enough to accommodate both new and old without the necessity of jostling;’ he wrote: ‘but there’s room for all.’
Then, the light dawned. The meaning and complexity of his plays – and they are extremely dense – has to be achieved indirectly. When Chekhov wrote,

The demand is made that the hero and the heroine (of a play) should be dramatically effective. But in life people do not shoot themselves, or hang themselves, or fall in love, or deliver themselves of clever sayings every minute. They spend most of their time eating, drinking, running after women, or men, or talking nonsense. It is therefore necessary that this should be shown on the stage. A play ought to be written in which the people should come and go, dine, talk of the weather, or play cards, not because the author wants it but because that is what happens in real life. Life on the stage should be as it really is and the people, too, should be as they are and not stilted.

he was trying to tell us that his dramatic actions are all enclosed by a very simple and inconsequential frame. The surfaces of life are apparently reproduced with all their natural and familiar inanity. There is very little that is dramatic in the events themselves. What makes these episodes powerful theater is the way they are combined, the sequences, the underlying associations and complications, the contrasts and ironies. It is in this way that the profound meanings are created. But if this is true of his dramaturgy, it must be equally

provocation may be I can’t imagine». Oppure «There is another thing too you take a drop of vodka now», quando Čehov aveva
scritto semplicemente: «And you drink too». Oppure, infine, «as if the field of art were not large enough to accommodate both new and old without the necessity of jostling»; lui aveva scritto: «but there’s room for all».
Poi, ecco un’illuminazione. Il significato e la complessità delle sue opere – e ne sono estremamente – ricche devono essere raggiunti indirettamente. Quando Čehov scrisse

Si richiede che l’eroe e l’eroina (di un’opera) siano drammaticamente efficaci. Solo che nella vita reale le persone non si sparano addosso, né s’impiccano, né s’innamorano, né riportano a sé stesse proverbi ogni momento. Trascorrono la maggior parte del tempo mangiando, bevendo, rincorrendo donne, o uomini, oppure dicendo sciocchezze. È pertanto necessario che questo venga mostrato sul palcoscenico. In un’opera dev’esserci scritto che le persone vanno, vengono, cenano, parlano del tempo o giocano a carte non perché l’autore lo voglia ma perché questo è ciò che succede nella vita reale. La vita sul palcoscenico dev’essere com’è davvero, e anche le persone devono essere come sono, e non artificiose.

stava cercando di dirci che le sue azioni drammatiche sono tutte racchiuse in una cornice banale e molto semplice. I piani della vita in apparenza sono riprodotti in tutta la loro familiare e naturale stupidità. Negli eventi in sé e per sé c’è ben poco di drammatico. Ciò che fa di questi episodi un teatro ricco di forza è la peculiare combinazione di sequenze, associazioni implicite e complicazioni, contrasti e ironie. È in questo modo che si creano i significati profondi. Ma se ciò vale per la drammaturgia, deve
true of the speech. It was then that I saw that the translation must be easy and natural on the surface. The inner meanings and profundities should appear – and would only appear as theater rather than statement – through the interaction of surface simplicities and not through complex or vague lines, not through what Stark Young has called a ‘muggy, symbolic, swing-on­to-your-atmosphere sort of tone.’
Perhaps I can make my point with one example. In the third act of Uncle Vanya there is a long speech by Professor Serebryakov, that stuffy pedant who has spent a lifetime rehashing other people’s ideas about the ‘isms’ of literature, and who now projects his own inadequacy and unconscious sense of failure onto those about him with acts of cruelty. In this speech he announces his plan to sell the estate that Vanya has worked so hard to keep productive. I take what seems to me the best of the translations of this speech:
Here is maman. I will begin, friends (a pause). I have invited you, gentlemen, to announce that the Inspector-General is coming. But let us lay aside jesting. It is a serious matter. I have called you together to ask or your advice and help, and, knowing your invariable kindness, I hope to receive it. I am a studious, bookish man, and have never had anything to do with practical life. I cannot dispense with the assistance of those who understand it, and I beg you, Ivan Petroviĉ, and you, Ilâ Iliĉ, and you, maman. . . . The point is that manet omnes una nox that is, that we are all mortal. I am old and ill, and so I think it is high time to settle my

valere anche per le battute. Mi resi insomma conto che la traduzione doveva essere apparentemente facile e naturale. I significati interni e le profondità possono e devono apparire solo in forma teatrale e non dichiarativa, per mezzo di interazioni di semplicità superficiali e non battute complesse o vaghe, né di quello che Stark Young ha chiamato una «muggy, symbolic, swing-on-to-your-atmosphere sort of tone».
Forse posso arrivare al punto con un esempio. Nel terzo atto di Zio Vanâ vi è un lungo discorso del professor Serebrâkov, quel retrogrado pedante che ha trascorso tutta una vita a rimasticare le idee altrui sugli “ismi” della letteratura, e che ora proietta la propria inadeguatezza e il proprio inconsapevole senso di fallimento con atti di crudeltà contro chi gli sta vicino. In questo discorso annuncia il suo piano di vendere la tenuta che Vanâ ha lavorato così duramente per mantenere produttiva. Prendo quella che mi sembra la migliore traduzione di questo discorso:
Here is maman. I will begin, friends (a pause). I have invited you, gentlemen, to announce that the Inspector-General is coming. But let us lay aside jesting. It is a serious matter. I have called you together to ask for your advice and help, and, knowing your invariable kindness, I hope to receive it. I am a studious, bookish man, and have never had anything to do with practical life. I cannot dispense with the assistance of those who understand it, and I beg you, Ivan Petroviĉ, and you, Ilâ Iliĉ, and you, maman. . . . The point is that manet omnes una nox that is, that we are all mortal. I am old and ill, and so I think it is high time to settle my

worldly affairs so far as they concern my family. My life is over. I am not thinking of myself, but I have a young wife and an unmarried daughter (a pause). It is impossible for me to go on living in the country. We are not made for country life. But to live in town on the income we derive from this estate is impossible. If we sell the forest, for instance, that’s an exceptional measure which we cannot repeat every year. We must take some steps which would guarantee us a permanent and more or less definitive income. I have thought of such a measure, and have the honour of submitting it to your consideration. Omitting details I will put it before you in rough outline. Our estate yields on an average not more than two per cent on its capital value. I propose to sell it. If we invest the money in suitable securities, we should get from four to five per cent, and I think we might even have a few thousand roubles to spare for buying a small villa in Finland.

In the first place, even Houdini couldn’t cut through some of those constructions and no actor could say the lines convincingly. But more important, the translation misses the whole tone and meaning of the situation. Here is a bad professor giving a lecture or a talk to the Rotary Club. All the mannerisms of the podium – the bad jokes, the phrases, the outline method, the pedantic attempts not to be pedantic – are cut out or submerged in the wrong kind of verbiage. Also, the translation misses the rhetorical quality of the speech – the dramatic way the speaker sees himself. As T. S. Eliot has

worldly affairs so far as they concern my family. My life is over. I am not thinking of myself, but I have a young wife and an unmarried daughter (a pause). It is impossible for me to go on living in the country. We are not made for country life. But to live in town on the income we derive from this estate is impossible. If we sell the forest, for instance, that’s an exceptional measure which we cannot repeat every year. We must take some steps which would guarantee us a permanent and more or less definitive income. I have thought of such a measure, and have the honour of submitting it to your consideration. Omitting details I will put it before you in rough outline. Our estate yields on an average not more than two per cent on its capital value. I propose to sell it. If we invest the money in suitable securities, we should get from four to five per cent, and I think we might even have a few thousand roubles to spare for buying a small villa in Finland.

Innanzitutto, neppure Houdini sarebbe riuscito a fare tagli a questi costrutti e nessun attore sarebbe riuscito a suonare convincente. Ma, cosa più importante, alla traduzione mancavano il tono e significato della situazione nell’insieme. Qui c’è un cattivo professore che tiene una conferenza o una concione al Rotary Club. Tutti i manierismi da podio gli scherzi, le espressioni di cattivo gusto, il metodo del riassunto, i pedanti tentativi di non essere pedante, sono scartati o sottomessi a una prolissità di natura sbagliata. In più, alla traduzione manca la qualità retorica della battuta – il modo teatrale in cui

pointed out in his essay, ‘Rhetoric and Poetic Drama,’ this kind of rhetoricizing is common to us all and can be of great help to the modern dramatist in that it permits the audience to see a character not only as the other characters see him, but as the character consciously dramatizes himself. Rather the speech should read:
Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am not thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to which we could not resort every year. We must work out some method of guaranteeing ourselves a permanent, and . . . ah, more or less fixed annual income. With this object in view, a plan has occurred to me which now I have the honour of proposing to you for your

l’oratore vede sé stesso. Come T. S. Eliot ha puntualizzato nel saggio Rhetoric and Poetic Drama, questo modo di fare retorica è comune a noi tutti e può essere di grande aiuto al drammaturgo moderno perché permette al pubblico di vedere un personaggio non solo come viene visto dagli altri personaggi, ma come lo stesso personaggio consapevolmente drammatizza sé stesso. Il discorso invece dovrebbe essere:

Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to which we could not resort every year. We must work out some method of guaranteeing ourselves a permanent, and . . . ah, more or less fixed annual income. With this object in view a plan has occurred to me which I now have the honor
consideration. I shall give you only a rough outline of it, omitting all the othersome and trivial details. Our estate does not yield, on an average, more than two per cent on the investment. I propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should probably have a surplus of several thousand roubles, with which we could buy a small villa in Finland . . . .

It is only when the sense of speakability is achieved that we have theater. I am sure that this is one of the things Hamlet meant when he advised the players: ‘Speak the speech, I pray you. . . . trippingly on the tongue.’ To achieve this I think translators fail to use an important source – namely, the actors themselves. I have directed all of my translations of Chekhov and time and time again the actors have made or suggested changes that have improved the translation a great deal. First, two examples of minor changes made by actors which didn’t do much more than improve the flow of the words. Originally, I had ‘It is too stifling.’ The actor changed it to ‘The day is too hot.’ Or changing ‘will they remember us in a kindly spirit?’ to ‘will they remember us with grateful hearts?’ But actors can also make changes that alter the whole dynamic of a scene. When I directed The Three Sisters, I tried without success for three weeks to get the final scene of the third act to build properly – in fact merely to build at all. My three sisters were fine actresses and all had had good professional training and

of proposing to you for your consideration. I shall give you only a rough outline of it, omitting all the othersome and trivial details. Our estate does not yield, on an average, more than two per cent on the investment. I propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should probably have a surplus of several thousand roubles, with which we could buy a small villa in Finland . . . .

Si ha teatro solo quando si ottiene il senso della parlabilità. Sono sicuro che questa è una delle cose che intendeva Hamlet quando raccomandava ai suoi attori: «Speak the speech, I pray you… trippingly on the tounge». In vista di tale obiettivo penso che i traduttori sbaglino nell’utilizzo di una risorsa importante: gli attori stessi. Ho diretto personalmente tutte le mie traduzioni di Čehov e, di volta in volta, gli attori hanno sempre fatto o suggerito modifiche che hanno migliorato molto la traduzione. Innanzitutto, due esempi di modifiche minime apportate dagli attori che non hanno fatto altro che migliorare il flusso delle parole. Originariamente avevo «It is too stifling». L’attore ha proposto «The day is too hot». Altrove «will they remember us in a kindly spirit?» è dicentato «will they remember us with grateful hearts?» Tuttavia gli attori possono fare modifiche che alterano l’intera dinamica di una scena. Quando ho diretto Три сестры [Tre sorelle], per tre settimane ho cercato invano di costruire l’ultima scena del terzo atto in modo degno, o almeno di costruirla. Le mie tre sorelle erano ottime attrici e tutte avevano avuto una buona

experience. I knew the build had to begin in one of Irina’s speeches, but nothing happened. Then on night she took the speech her way and the whole scene came to life; we achieved what we wanted. It was only afterwards that I. realized she had changed one of the lines and it was this change that made the speech and hence the rest of the scene dramatic. Originally, the line read, ‘Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!’ The actress changed it to: ‘I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not work,’ and in this way she got a structure that could be vocally built. Obviously, I am not suggesting that irresponsible changes be made or changes that alter the meaning of a speech. But an actor – in having to say the line – may be of great service to the translator in making the text more actable.
In addition to making the text speakable, the translator must also be prepared to lose things. Clearly, all translations are necessarily imperfect. As Eric Bentley said, ‘If life begins on the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of impossibility!’ This is particularly true of Chekhov since his plays are so finely textured and depend on many peculiarly Russian traits. For example, there is the watchman’s rattle in the second act of Uncle Vanya. This is a perfectly realistic touch, but it also functions as a symbol for the action. It is used at that crucial time at the end of the act when Yelena and Sonya have just had an honest talk with each other and

esperienza e formazione professionale. Sapevo che la costruzione doveva avere inizio con uno dei discorsi di Irina, ma non ne veniva nulla di buono. Poi una sera l’attrice ha impostato il discorso a modo suo e la scena ha preso forma; era quello che volevamo. Solo in séguito mi sono reso conto che aveva cambiato una delle battute, e proprio questa modifica aveva trasformato il discorso, e quindi il resto della scena, in drammatico. La battuta originale era «Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!» l’attrice aveva invece detto «I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not work», ottenendo in questo modo una struttura che poteva essere costruita con la voce. Ovviamente, non sto suggerendo di fare modifiche azzardate o modifiche che alterino il significato del discorso. Semmai che un attore – nel dire la battuta – può essere di grande aiuto al traduttore per rendere il testo più recitabile.
Oltre a rendere il testo più parlabile, il traduttore deve anche essere disposto a lasciare un residuo. Chiaramente, tutte le traduzioni sono necessariamente imperfette. Come diceva Eric Bentley, «If life begins on the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of impossibility!» Ciò è particolarmente vero per Čehov, dato che le sue opere sono finemente intessute e si fondano su tratti specifici della cultura russa. Per esempio, nel secondo atto dello Zio Vanâ vi è il battere del guardiano. È un tocco perfettamente realistico, ma funziona anche da simbolo per l’azione. Viene usato in quel momento cruciale della fine dell’atto, quando Elena e Sonâ si
because of it, are capable of some feeling. The windows are open, it has been raining – and everything is clean and refreshed. Yelena thinks she can play the piano again. As Sonya goes to get permission, the watchman’s rattle is heard, Yelena has to shut the window, and Serebryakov says ‘no.’ Their whole life of feeling has been protected by a watchman to the point that they have no feelings left. But in production when the rattle is used, the audience – instead of seeing its significance – thinks the pipes in the auditorium are rattling. The same kind of thing is true of the many topical allusions in The Three Sisters. The only way you can make these understandable is to write footnotes or a program note. Heaven forbid that we should de either. If the plays are done properly, however, these effects will have an impact on the audience’s senses if not their understanding.
But there are some things that are lost that need not be. For instance in all of the published translations of Uncle Vanya the shooting is botched. The typical translation reads:
Let me go, Helen, Let me go! (Looking for Serebryakov)
Where is he? Oh, here he is! (Fires at him) Missed!
Missed again! (Furiously) Damnation – damnation take it
. . . (Flings revolver on the floor and sinks onto a chair, exhausted).

Not one translator has seen that in the Russian Vanya does not fire the gun, but he says ‘Bang!’ He has become so incapable of action that even when his whole life is at stake he
sono appena parlate con franchezza, e proprio per questo sono capaci di un certo sentimento. Le finestre sono aperte, piove e tutto è pulito, rinfrescato. Elena pensa di poter riprendere a suonare il pianoforte. Quando Sonâ va a chiedere il permesso, si sente il battere del guardiano, Elena deve chiudere la finestra e Serebrâkov dice «no». Tutta la loro vita sentimentale scorre protetta da un guardiano, al punto che non è rimasto loro alcun sentimento. Tuttavia, quando nell’allestimento vengono riprodotti quei colpi, il pubblico stenta a scorgerne l’importanza pensando che il rumore venga dalle tubazioni dell’auditorium. Lo stesso vale per molte allusioni culturali di Tre sorelle. L’unico modo per renderle comprensibili è scrivere delle note a piè pagina o un programma di sala. Dio non voglia che facciamo né l’uno né l’altro. Se le opere sono allestite come si deve, questi effetti avranno comunque un impatto sui sensi del pubblico, se non la sua comprensione.
Tuttavia c’è un residuo che andrebbe evitato. Per esempio, in una delle traduzioni pubblicate di Zio Vanâ la scena dello sparo è resa male. La versione diffusa è:

Let me go, Helen, Let me go! (Looking for Serebryakov)
Where is he? Oh, here he is! (Fires at him) Missed!
Missed again! (Furiously) Damnation – damnation take it
. . . (Flings revolver on the floor and sinks onto a chair, exhausted).

Nessun traduttore s’è accorto che nel testo russo Vanâ non preme il grilletto della pistola, ma dice «Bang!». È ormai
cannot act but substitutes words.
Here is a case where the meaning of the play has been drastically changed by the translator’s failure to see that Chekhov’s conception of that ghastly moment is truer than our more simple-minded logic.
The last point I want to make is that in addition to being written for actors, translations must be good English. I do not wish to get involved in the controversy over free or literal versions, but obviously the translator must not feel he has to have a word for word correspondence. If you translate literally into French, ‘For crying out loud’ you will not have translated it. I think Bentley is right when he says:
Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation ­ unless the original is in bad German, bad French, or what have you.

But in making it good English one must always try to do it in the playwright’s way. Where he uses repetitions we must use them too and not discount him as wordy. After all, in Macbeth’s ‘Tomorrow and tomorrow and tomorrow,’ it is not at all the meaning the words have that counts, but the meaning that repetition in a given situation makes them take on. The

talmente incapace di agire che nemmeno quando è in gioco la vita riesce ad agire, e ripiega sulle parole.
È un caso in cui il senso dell’opera viene drasticamente alterato perché il traduttore non si accorge che la visione čehoviana di quel momento orrendo è più vera di qualsiasi logica semplicistica.
L’ultimo punto del mio discorso è che, oltre a essere rivolta agli attori, la traduzione dev’essere scritta in buon inglese. Non mi lascio coinvolgere nella diatriba versione libera versus versione filologica, ma è evidente che il traduttore non deve necessariamente perseguire la corrispondenza parola per parola. Se si rendesse parola per parola in francese «For crying out loud!», non lo si tradurrebbe. Credo che Bentley abbia ragione quando sostiene:

Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation unless the original is in bad German, bad French, or what have you.

Tuttavia, nel rendere un buon inglese, si deve sempre cercare di farlo alla maniera del commediografo. Quando questi usa ripetizioni, dobbiamo usarle anche noi, non screditarlo come prolisso. Dopo tutto, nel «Tomorrow and tomorrow and tomorrow» di Macbeth quello che conta non è certo il significato delle parole, ma il senso che assumono nella

same with all the other gestures of language – puns, rhymes, alliteration. Or, when a playwright wrongly paraphrases another author or a song, the translator should not correct the author’s mistake. Chekhov, for instance, constantly has his characters quote Shakespeare – but the quotation is usually wrong. The meaning is in the wrongness. But Chekhov’s well-intentioned translators have always felt that poor Anton Pavelovich didn’t know English very well and so they helped out by correcting his faulty efforts. Finally, it is important to remember that duration per se in stage speech is a part of its meaning, and stage time is based upon the breath. This means that the translator must always, whenever he can, try to keep the same number of words in each sentence.
Let me close by saying that if we always remember that the language of the stage must appear as necessity, as a result of a series of compressions. collisions, scenic frictions, and evolutions, then it will be right, for it will be gestural. ‘Language as gesture,’ as Mr. Blackmur revealed, ‘creates meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the inner bite, of things forced together,’ and this is the conflict we call dramatic, the conflict most at home in the theater.

ripetizione in quel contesto. Lo stesso vale per tutti gli altri gesti della lingua, giochi di parole, rime, allitterazioni. Oppure, quando un commediografo cita un autore o una canzone sbagliando, il traduttore non deve correggere l’errore dell’autore. Čehov, per esempio, fa continuamente citare ai suoi personaggi Shakespeare ma di solito sono citazioni sbagliate. Il senso sta nella loro inesattezza. Ma i traduttori benintenzionati di Čehov hanno sempre ritenuto che il povero Anton Pavlovič non sapesse molto bene l’inglese, e gli sono quindi andati in soccorso correggendo i suoi tentativi imperfetti. Infine, è importante ricordare che nel discorso teatrale la durata fa parte del senso complessivo, e che nella scrittura teatrale i tempi sono scanditi dal respiro. Quindi potendo il traduttore deve mantenere invariato il numero delle sillabe della battuta.
Lasciatemi dire in conclusione che, se terremo sempre presente che il linguaggio teatrale deve apparire come una necessità, come risultato di una serie di compressioni, collisioni, frizioni sceniche ed evoluzioni, funzionerà, perché sarà gestuale. «Language as gesture», come rivelava Blackmur, «creates meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the inner bite, of things forced together», e questo è il conflitto che noi definiamo «drammatico», il conflitto che si sente più a suo agio nel teatro.

2.1. Riferimenti bibliografici

Čehov, A. 1991 Zio Vanja, Torino: Einaudi

Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore, Milano: Hoepli.

Pavis, P. 1998 Dizionario del teatro, edizione italiana a cura di Paolo Bosisio, Bologna: Zanichelli.

Peja, L. 2004 La supermarionetta , articolo disponibile nel sito http://www.piccoloteatro.org/elementi/articolo.php?idRub=4&news=78 Milano: Annamaria Cascetta, ultimo aggiornamento aprile 2004, consultato nel febbraio 2009.

Schino, M. 2001, «Teorici, registi e pedagoghi» in Storia del teatro Einaudi, vol. III, Torino: Einaudi.

[1] Boselli nel suo saggio riporta come esempio l’aneddoto di Peter Arnott che nel 1961 raccontava delle “triennal perfomances at Cambridge…piously attended by delegations of classicists who occasionally lift their eyes from the texts in their hands to observe the action going forward on the stage”.
* Published in Accent in 1943 and then reprinted in a book with the same title in 1952.

* Pubblicato in Accent nel 1943 e poi ristampato in un libro con lo stesso titolo nel 1952.
* In fact, I would go so far as to say that Stanislavski and the tradition of The Moscow Art Theater have probably done more to distort our ideas about Chekhov than any other person or group. Which suggests that the translator should at all times be a critic. It is no accident, it seems to me, that the best translations in the oft-mentioned ‘Chicago’ Greek tragedies were done by the two best critics of Greek tragedy in our time. And in saying this, I suddenly realize that I have just created a kind of Craig-ian Übermarionette: The translator is writer, director, actor, audience, and now he is the critic, too. What do we need a theater for? If translators will all unite, the theater can be made obsolete in a fortnight and all our problems will be solved.
* Infatti, azzarderei a dire che Stanislavskij e la tradizione del Teatro dell’arte di Mosca hanno probabilmente fatto molto più di chiunque altro individuo o gruppo per distorcere la nostra idea su Čehov. Cosa che suggerisce quanto il traduttore debba essere sempre un critico. Non è un caso, a mio parere, che le migliori traduzioni delle tragedie greche spesso menzionate “Chicago” siano state realizzate da due dei migliori critici di tragedia greca dei nostri tempi. E dicendo questo, capisco improvvisamente che ho appena creato una specie di Craig-hiana Übermarionette [Supermarionetta]: il traduttore è scrittore, regista, attore, spettatore, e ora persino critico. A cosa ci serve un teatro? Se tutti i traduttori si unissero, il teatro potrebbe essere definito desueto ogni quindici giorni e tutti i nostri problemi sarebbero risolti.

Note

[ii] Blackmur R. P. 1952, Language as Gesture, New York.

[iii] Richard Burbage (1568-1619). Figlio dell’impresario James Burbage. Amico di William Shakespeare e suo collega attore nelle compagnie delle corti elisabettiane. Fu primo attore, infatti, dei The Lord Chamberlain’s Men [“servi del Lord Ciambellano], la compagnia teatrale per la quale Shakespeare componeva.

[iv] William Kempe (1560-1603). Attore teatrale e ballerino britannico, esperto nelle parti clownesche e considerato per questo l’erede naturale di Richard Tarlton. Kempe fu danzatore comico di giga e si produsse al Globe Theatre con la compagnia teatrale di Shakespeare, The Lord Chamberlain’s Men.

[v] Si definisce «blocking» o «staging»: «the precise moment-by-moment movement and the grouping of actors on stage». Il blocco consiste nelle posizioni statuarie di forze contrapposte assunte dagli attori sul palcoscenico per raggiungere un equilibrio. Trasposto nel movimento, significa controllo assoluto di tutte le sezioni del corpo da parte dell’attore. Il concetto si rifà alla concezione di Übermarionette [Supermarionetta] di Edward Gordon Craig, che vede l’attore come una marionetta, appunto, che si affida al regista, previo studio e controllo del proprio corpo. «L’artista (o la Supermarionetta) è l’attore che si preoccupa di ricordare nei dettagli, e di ripetere sempre uguale, il proprio percorso fisico e verbale. È l’attore capace, così, di creare un materiale paradossalmente solido, su cui il regista, quando ci sarà, potrà lavorare» [Schino 2001: 71]

Sütiste, Torop: I confini processuali della traduzione Processual Boundaries of Translation

Sütiste, Torop: I confini processuali della traduzione

Processual Boundaries of Translation

 

   

IRENE CALABRIA

 

 

 

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

 

 

 

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2011


 

 

 

 

 

© Walter de Gruyter, 2007

© Irene Calabria per l’edizione italiana, 2011

 


Abstract

 

In their essay «Processual Boundaries of Translation: Semiotics and translation studies», Elin Sütiste and Peeter Torop analyse the evolution of translation science applying a semiotic approach to it. They start from the consideration that translation activity in culture cannot take place in isolation from experience of culture and technological environment: the progression from printed media towards hypermedia and new media is underlying the diversity of communication processes. In this new situation, the peculiarity of translation activity consists in the actualization of intralingual and intersemiotic translation alongside interlingual translation. The widening of the boundaries of translation process results in the intensified search for appropriate methodologies. One indication of this is the repeated reconceptualization or further elaboration of Jakobson’s typology of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation at the intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication. This dissertation presents a translation into Italian of Sütiste and Torop’s article and its analysis.


Sommario

 

 

1. Traduzione con testo a fronte. 7

2. Analisi testuale dell’originale. 9

2.1 Contenuto. 67

2.2 Struttura. 71

2.3 Qualche considerazione aggiuntiva. 72

3. Analisi traduttologica. 67

3.1 Introduzione. 74

3.2 La dominante e il residuo traduttivo: Jakobson e la semiotica della traduzione. 77

3.3 Strategia traduttiva. 79

3.3.1 Una questione d’invariante. 79

3.3.2 All’insegna della traduzionalità. 82

3.4 Conclusione. 84

3.5 Riferimenti bibliografici 88

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte

 

Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies*

ELIN SÜTISTE and PEETER TOROP

 

The development of sciences –­ regarded as scientific disciplines mapping cultural terrain – is dependent on the dynamics of culture and does not take place as a linear movement. In order to see the logic of exchange and development in such disciplines, the relations both between the ways of thinking characteristic of different times as well as between the metalanguages in which the ways of thinking are expressed have to be understood. This understanding in turn is shaped by the dynamics of the cultural environment and, hence, also by the (technological) dynamics of modes of communication that influence creative processes. The technological dynamics concern primarily textual messages since the proportions of the oral, the written, the pictorial, and the aural in one and the same text depend on the environment of text consumption or generation. A written text on paper or in hyper- or multimedia form may be the same text, but its interpretation as an original text or as a translation requires taking into account the nature of the medium in which it is presented.

The arising semiotics of multimedia refreshes the study of ordinary texts (for example, a multimedia approach to a picture book) establishing a new methodological perspective for the analysis of this new type of texts. Accordingly, the concept of communication changes into ‘multimedia communication’ defined as

. . . the production, transmission, and interpretation of a composite text, when at least two of the minitexts use different representational systems in either modality. Each minitext needs to have its own organization: any of syntactic categories of individual, linguistic, schematic, temporal, or network may be used. (Purchase 1999:255)


I confini processuali della traduzione: semiotica e scienza della traduzione*

ELIN SÜTISTE e PEETER TOROP

 

Lo sviluppo delle scienze – considerate in quanto discipline scientifiche che mappano il terreno culturale – dipende dalla dinamica della cultura e non avviene secondo un movimento lineare. Per capire la logica di scambio e sviluppo in tali discipline si devono comprendere i rapporti sia tra i modi di pensare tipici di periodi diversi, sia tra i metalinguaggi in cui si esprimono i modi di pensare. Questa comprensione è, a sua volta, condizionata dalla dinamica dell’ambiente culturale e perciò anche dalle dinamiche (tecnologiche) delle modalità di comunicazione che influenzano il processo creativo. Le dinamiche tecnologiche riguardano in primo luogo i messaggi verbali, poiché le proporzioni tra orale, scritto, pittorico e uditivo nello stesso testo dipendono dall’ambiente di consumo o creazione del testo. Un testo scritto su carta, o in forma ipermediale o multimediale sarà anche lo stesso testo, ma la sua interpretazione in quanto testo originale o in quanto traduzione richiede che si prenda in considerazione la natura del medium in cui si presenta.

La semiotica della multimedialità che ne deriva rinnova lo studio dei testi ordinari (per esempio, con un approccio multimediale a un libro d’immagini) affermando una nuova prospettiva metodologica per l’analisi di questo nuovo tipo di testi. Di conseguenza, il concetto di «comunicazione» si trasforma in «comunicazione multimediale», definita come:

[…] la produzione, trasmissione e interpretazione di un testo composito, quando almeno due dei minitesti usano sistemi di rappresentazione diversi in qualsiasi modalità. Ogni minitesto deve avere la propria organizzazione: si può usare qualunque categoria sintattica, individuale, linguistica, schematica, temporale o di rete (Purchase 1999:255)[1] .


The relation of message to its medium has acquired a new meaning and the message’s dependence on and/or independence of the medium has become a methodological problem. In a discipline close to translation studies – narratology – a new branch, transmedial narratology, has arisen from the hypothesis that ‘although narratives in different media exploit a common stock of narrative design principles, they exploit them in different, media-specific ways, or rather, in a certain range of ways, determined by the properties of each medium’ (Herman 2004: 51). This hypothesis also makes it necessary to review traditional approaches and to establish a productive dialogue. In the article referred to above, this is done using the structure of thesis-antithesis. The thesis is ‘narrative is medium independent’: ‘The strong version of thesis, that all aspects of every narrative can be translated into all possible media, has enjoyed prominence in the study of narrative. But a weaker version, that certain aspects of every narrative are medium independent, forms one of the basic research hypotheses of structuralist narratology’ (Herman 2004: 51). The antithesis that opposes this thesis is ‘narrative is (radically) medium dependent’ so that ‘the basic intuition underlying antithesis is that every retelling alters the story told, with every representation of a narrative changing what is presented’ (Herman 2004: 53).

Narratology is a good example of how fast disciplinary boundaries can shift. It also demonstrates the connection between recognizing empirical narrative forms and the dynamics of the terminological field as well as points to the fact that the relationship between narrative forms and the metalanguage signifying these is specifically semiotic. In 1975, Roman Jakobson as associate of the semiotics of Charles S. Peirce, put forward the concept of ‘invariance’ relevant for scholarship in different sciences. Jakobson stated:


Il rapporto di un messaggio con il suo medium ha acquisito un nuovo significato e la dipendenza e/o l’indipendenza del messaggio dal medium è diventata un problema metodologico. In una disciplina vicina alla scienza della traduzione – la narratologia – dall’ipotesi che «anche se le narrazioni in media diversi sfruttano una scorta comune di princìpi di progettazione narrativa, li sfruttano in modi diversi, specifici del medium, o piuttosto, in una serie particolare di modi, determinati dalle proprietà di ogni medium» (Herman 2004: 51) è nata una nuova disciplina: la narratologia transmediale. Quest’ipotesi rende necessario anche rivedere gli approcci tradizionali e istituire un dialogo produttivo. Nell’articolo citato qui sopra, lo si fa usando la struttura tesi-antitesi. La tesi è «la narrazione è indipendente dal medium»: «La versione forte della tesi, ovvero che tutti gli aspetti di ogni narrazione possono essere tradotti in tutti i media possibili, ha ottenuto una certa rilevanza nello studio della narrazione. Ma una versione più debole, ovvero che certi aspetti di ogni narrazione sono indipendenti dal medium, costituisce una delle ipotesi di ricerca fondamentali della narratologia strutturalista» (Herman 2004: 51). L’antitesi è «la narrazione dipende (radicalmente) dal medium» e quindi «l’intuizione essenziale alla base dell’antitesi è che ogni nuova versione altera la storia raccontata, e ogni rappresentazione di una narrazione cambia ciò che è presentato» (Herman 2004: 53).

La narratologia è un buon esempio di quanto velocemente possano cambiare i confini di una disciplina. Dimostra anche la connessione tra il riconoscimento di forme narrative empiriche e le dinamiche in campo terminologico, oltre a mostrare che il rapporto tra forme narrative e il metalinguaggio che le esprime è specificamente semiotico. Nel 1975, Roman Jakobson, rifacendosi a Charles S. Peirce, ha introdotto nella semiotica il concetto di «invarianza», importante a livello accademico in varie scienze. Jakobson ha affermato:


Peirce belonged to the great generation that broadly developed one of the most salient concepts and terms for geometry, physics, linguistics, psychology, and many other sciences. This is the seminal idea of INVARIANCE. The rational necessity of discovering the invariant behind the numerous variables, the question of the assignment of all these variants to relational constants unaffected by transformations underlies the whole of Peirce’s science of signs. The question of invariance appears from the late 1860s in Peirce’s semiotic sketches and he ends by showing that on no level is it possible to deal with a sign without considering both an invariant and a transformational variation. (Jakobson 1985 [1977]:252)

‘Invariance’ is one of those concepts that enable different areas of study to be combined in terms of their common methodology, so that the approaches to narrative and translation can be observed together.

In order to better understand the development of cultural and communication processes, it is necessary to create a dialogue between different disciplines both on the object level and metalevel, with special attention to the dialogue between old and new ideas. Each culture develops in its own way, has its own technological environment and its own traditions of analyzing culture texts. A culture’s capacity for analysis reflects its ability to describe and to understand itself. In the process of description and understanding, an important role is played by the multiplicity of texts, by the interrelatedness of communication with metacommunication. The multiplicity of texts makes it possible to view communication processes as translation processes. But besides immediate textual transformations, the analysis of these transformations – that is, their translation into various metalanguages – has a strong significance in culture. Both in the case of textual transformations and their translations into metalanguages, an important role is performed by the addressees, their ability to recognize the nature of the text at hand, and their readiness to communicate. Just as in translation culture, there is also an infinite retranslation and variation taking place in translation studies. In order to understand different aspects of translation activity, new description languages are constantly being created in translation studies, and the same phenomena are at different times described in different metalanguages.


Peirce apparteneva alla grande generazione che sviluppò ampiamente un concetto e termine saliente per la geometria, la fisica, la linguistica, la psicologia e molte altre scienze. Si tratta dell’idea fondamentale di INVARIANZA. La necessità razionale di scoprire l’invariante dietro le numerose variabili, la questione dell’assegnazione di tutte queste varianti a costanti relazionali non influenzate dalle trasformazioni è alla base dell’intera scienza dei segni di Peirce. La questione dell’invarianza appare negli appunti semiotici dalla fine degli anni 1860 e Peirce conclude mostrando che a nessun livello è possibile prendere in considerazione un segno senza prendere in considerazione sia un’invariante sia una variazione trasformazionale (Jakobson 1985 [1977]:252).

«Invarianza» è uno di quei concetti che fanno sì che diverse aree di studio abbiano una metodologia comune, così che gli approcci alla narrazione e alla traduzione possano essere studiati insieme.

Per comprendere meglio lo sviluppo dei processi culturali e di comunicazione è necessario creare un dialogo tra discipline diverse sia a livello dell’oggetto, sia a metalivello, con un’attenzione speciale per il dialogo tra idee vecchie e nuove. Ogni cultura si sviluppa a modo proprio, ha il proprio ambiente tecnologico e le proprie tradizioni di analisi dei testi culturali. La capacità di analisi di una cultura riflette la sua abilità nel descrivere e capire sé stessa. Nel processo di descrizione e comprensione, la molteplicità di testi, l’interrelazione tra comunicazione e metacomunicazione hanno un ruolo importante. La molteplicità di testi rende possibile considerare i processi di comunicazione processi traduttivi. Ma, oltre alle trasformazioni testuali immediate, l’analisi di queste trasformazioni – ovvero la loro traduzione in vari metalinguaggi – ha una profonda rilevanza nella cultura. Nel caso sia di trasformazioni testuali, sia delle loro traduzioni in metalinguaggi, i riceventi, la loro capacità di riconoscere la natura del testo in questione e la prontezza con cui comunicano svolgono un ruolo importante. Proprio come nella cultura della traduzione, anche nello studio della traduzione ha luogo una ritraduzione e una variazione infinita. Per comprendere i diversi aspetti dell’attività traduttiva, nella scienza della traduzione si creano di continuo nuovi linguaggi descrittivi e si descrivono gli stessi fenomeni in momenti e con metalinguaggi diversi.


And just as in culture, also in disciplines studying cultural phenomena, variance has its limits and at some point an invariant is needed in order to organize the variance.

1.         On the identity of translation studies

The present-day translation studies do not form a methodologically unified discipline, although a movement into this direction takes place. The existing textbooks and readers on translation studies are either school- or problem-centered or arranged chronologically. They register metalingual variety, but do not strive to hierarchize the history of translation studies. At the same time there is also some invariance observable in this variety of metalanguages, especially if we start looking for the implicit roots of explicitly formulated views.

It is interesting to observe the dynamics that the attitudes of influential translation scholars have undergone in the course of some thirty years of modern translation studies. Eugene Nida distinguished three tendencies in the translation studies of the 1970s. Philological theories are interested in literature, in the translatability of genre and other literary characteristics; linguistic theories are engaged in the relationships between content and form found in languages and in the structural comparison of languages; sociolinguistic theories regard translation as part of a concrete communi- cation process (see Nida 1976). Two decades later, Nida also characterizes multimedial communication as natural, ordinary communication: ‘But even in printed texts, differences of typeface, format, and book covers have also carried messages’ (Nida 1999:119). At the end of this article he advises the leaders of Bible Societies to understand ‘that the use of new media is not designed to replace the printed text, but to lead people to the text’ (Nida 1999:130).


E proprio come nella cultura, anche nelle discipline che studiano i fenomeni culturali, la variante ha i suoi limiti e, a un certo punto, si ha bisogno di un’invariante per organizzare la variante.

1.         Sull’identità della scienza della traduzione

La scienza della traduzione contemporanea non è una disciplina unificata a livello metodologico, anche se si sta muovendo in questa direzione. I libri di testo e le antologie di scienza della traduzione o si concentrano su un problema o sulla scuola di appartenenza, oppure sono organizzati cronologicamente. Riconoscono la molteplicità metalinguistica, ma non si sforzano di creare una gerarchia nella storia della scienza della traduzione. Nello stesso tempo, si può anche osservare un’invarianza in questa molteplicità di metalinguaggi, in special modo se cominciamo a ricercare le radici implicite delle opinioni formulate in modo esplicito.

È interessante osservare la dinamica delle opinioni di influenti studiosi della traduzione nel corso di circa trent’anni. Eugene Nida ha individuato tre tendenze nella scienza della traduzione degli anni Settanta. Le teorie filologiche s’interessano di letteratura, della traducibilità del genere e di altre caratteristiche testuali; le teorie linguistiche si occupano dei rapporti tra contenuto e forma presenti nelle lingue e del raffronto strutturale tra lingue; le teorie sociolinguistiche considerano la traduzione parte del processo concreto di comunicazione (Nida 1976). Vent’anni più tardi, Nida descrive anche la comunicazione multimediale come comunicazione naturale, ordinaria: «Ma perfino nei testi stampati, le differenze di carattere, formato e copertina sono stati portatori di messaggi» (Nida 1999:199). Alla fine di questo suo articolo, consiglia ai coordinatori delle Bible Societies di capire «che l’uso dei nuovi media non è pensato per sostituire il testo stampato, ma per condurre le persone verso il testo» (Nida 1999:130).


Translation activities performed on cultural facts and phenomena cannot take place in isolation from experience of the whole of culture and technological environment. Underlying the diversity of communication processes is the process from printed media towards hypermedia and new media, and in the course of this process complementary text forms and modes of communication are born. Gunther Kress has formulated this new shift as follows:

I would say in relation to communication that we have come from a period in which there had been a stable constellation of the mode of writing with the medium of the book […]. The new constellation, culturally increasingly dominant, is that of the mode of the image and the medium of the screen. This will lead to quiet new representational forms, new possibilities for communicational action, and new understandings of human social meaning making. (Kress 2004:446)

The new situation also influences the study of traditional communication forms. The peculiarity of translation activity relevant in this new situation consists in the actualization of intralinguistic and intersemiotic translation alongside interlinguistic translation: first, in synthetic form, combining all three types of translation (interlinguistic translation is characterized as including intralinguistic and intersemiotic translation) and second, in analytic form, where the three autonomous types of translation produce their own types of texts. The evolution of Nida’s views reflects the attempt to accommodate the changes happening in the entire culture in one segment of culture – translation culture.

Modern translation studies (1970–1980s) are characterized by a growing tendency to (1) bring closer translation practice and theory; (2) increase the capacity of different concepts for the dialogue within translation studies; and (3) arrive at the creation of comprehensive systematic translation studies. The first tendency is represented by Wolfram Wilss who held that translation studies could escape their immanent stagnation by expanding their methodological perspective. In his pursuit of explicit analysis of translation process Wilss aimed for the study of general translation problems


Le attività traduttive compiute sui fatti e i fenomeni culturali non possono avvenire in isolamento dalla cultura e dall’ambiente tecnologico nell’insieme. Alla base della molteplicità dei processi di comunicazione vi è il processo che va dai media stampati agli ipermedia e ai nuovi media, e durante questo processo nascono forme testuali e modalità di comunicazione complementari. Gunther Kress ha così descritto questo nuovo cambiamento:

Per quanto riguarda la comunicazione, direi che veniamo da un periodo in cui c’è stata una costellazione stabile della modalità della scrittura con il libro come medium […]. La nuova costellazione, sempre più dominante a livello culturale, è quella della modalità dell’immagine e dello schermo come medium. Ciò porterà a nuove forme di rappresentazione, nuove possibilità di azione comunicazionale e una nuova concezione della creazione sociale umana di significato (Kress 2004:446).

La nuova situazione influenza anche lo studio delle forme di comunicazione tradizionali. La peculiarità dell’attività traduttiva importante in questa nuova situazione consiste nell’attualizzazione della traduzione intralinguistica e intersemiotica insieme alla traduzione interlinguistica: in primo luogo, in forma sintetica, combinando tutti e tre i tipi di traduzione (la traduzione interlinguistica è caratterizzata dal fatto che racchiude in sé la traduzione intralinguistica e quella intersemiotica) e in secondo luogo, in forma analitica, dove i tre tipi di traduzione producono i propri tipi di testo in modo autonomo. L’evoluzione dell’opinione di Nida riflette il tentativo di adeguare a un segmento della cultura, la cultura della traduzione, i cambiamenti che avvengono nell’intera cultura.

La scienza della traduzione moderna (anni Settanta-Ottanta) è caratterizzata da una crescente tendenza a (1) avvicinare la pratica e la teoria della traduzione; (2) aumentare la portata di diversi concetti per il dialogo all’interno della scienza della traduzione; e (3) arrivare alla creazione di una scienza della traduzione sistematica e completa. La prima tendenza è rappresentata da Wolfram Wills che ritiene che la scienza della traduzione possa salvarsi dalla stagnazione immanente espandendo il proprio orizzonte metodologico. Nella ricerca di un’analisi esplicita del processo traduttivo Wills punta ad avvicinare al massimo grado lo studio dei problemi traduttivi


independent of a particular language pair (competence in translation) to be brought maximally close to the study of questions rising from immediate contacts between two languages (performance in translation) (Wilss 1982).

By that time, translation studies as a discipline – methodologically still in the development phase – had arrived at a state of multidisciplinarity using disparate metalanguages (which is different from interdisciplinarity as a methodological whole). The second tendency is therefore well represented by György Radó who held that for the development of translation studies the synthesis of the existing trends and languages would be crucial. Synthesis should start from the composition of bibliographies in order to record dispersed studies (Radó 1985:305). Also characteristic of this period is the call to use general academic metalanguage, accessible to all scholars in their discussion of theory (Bassnett-McGuire 1980:134).

The third tendency is represented by James S. Holmes who, in his works, deductively created a new translation studies as a taxonomically describable hierarchical system resting on the complementarity of several theories together. He held that first of all a theory of translation process is needed in order to reflect on what happens when a person decides to translate something. Next comes a theory of translation product, which is required in order to determine the specifics of translation as a particular text type. Third, there is a need for a theory of translation function in order to understand the behavior of translation in the receiving culture. These three theories cannot be normative as they try to describe the already existing situation and do not prescribe any rules. Normativity, however, is important in the fourth, theory of translation didactics (Holmes 1988:95). Holmes has, in effect, formulated a program of interdisciplinary translation studies although different translation theories elaborate it in different ways and the development is far from being balanced.


generali, indipendenti dalla particolare coppia di lingue (competenza traduttiva), allo studio dei problemi derivanti dai contatti diretti tra due lingue (prestazione traduttiva) (Wilss 1982).

A quell’epoca la scienza della traduzione come disciplina – ancora in fase di sviluppo metodologico – era arrivata a un livello di multidisciplinarità con metalinguaggi disparati (da non confondersi con l’interdisciplinarità come insieme metodologico). La seconda tendenza è perciò ben rappresentata da György Radó che crede che per lo sviluppo della scienza della traduzione sia vitale la sintesi delle tendenze e dei linguaggi esistenti. La sintesi deve partire dalla creazione di bibliografie per documentare i vari studi (Radó 1985:305). Un’altra caratteristica di questo periodo è l’invito a usare un metalinguaggio accademico generico, accessibile a tutti gli studiosi (Bassnett-McGuire 1980:134).

La terza tendenza è rappresentata da James S. Holmes che, nei suoi scritti, ha abduttivamente creato i translation studies come sistema gerarchico descrivibile in chiave tassonomica, basandosi sulla complementarità di diverse teorie messe insieme. Sostiene che, per prima cosa, sia necessaria una teoria del processo traduttivo per poter riflettere su ciò che accade quando una persona decide di tradurre qualcosa. L’esigenza successiva riguarda la teoria del prodotto traduttivo, che serve per determinare lo specifico della traduzione in quanto tipo di testo particolare. E, come terza esigenza, una teoria della funzione traduttiva per comprendere il comportamento della traduzione nella cultura ricevente. Queste tre teorie non possono essere normative, poiché cercano di descrivere la situazione e non impongono alcuna regola. Tuttavia, la normatività è importante nella quarta teoria, quella della didattica della traduzione (Holmes 1988:95). Holmes ha, infatti, formulato il programma di una scienza interdisciplinare della traduzione, anche se le varie teorie della traduzione elaborano il programma in modi diversi e lo sviluppo è lungi dall’essere equilibrato.


Holmes did not create any illusions for himself, calling balanced translation studies a disciplinary utopia (Holmes 1988:109). Although Holmes’s taxonomy is in active use today, methodological innovation has not yet taken place and it is too early to speak of integrated translation studies. In the opinion of Edwin Gentzler who values Holmes’s model highly the enrichment of translation studies adding other cultural disciplines is still neglected: ‘With regard to the future of translation theory within the field of Translation Studies, while many date the cultural turn in Translation Studies as beginning in the 1990s, it is still in its infant stages’ (Gentzler 2003:22). Thus, before consolidation translation studies should open up. Gentzler states:

James Holmes called for a dialectical interchange among the various branches within Translation Studies. I agree with him and yet would open his directive to a broader enterprise. My hope is that a truly open, interdisciplinary, and dialectical interchange of ideas can now take place with scholars outside the discipline, from any number of other fields. (2003:23)

 

2.         The aspect of translation semiotics

Translation semiotics has its own identity but it is also closely related to translation studies. On the one hand, translation semiotics and, more generally, semiotics of culture are metadisciplines that enable translation studies to move towards the necessary methodological synthesis and provide a descriptive language. On the other hand, it can be argued that explicit translation semiotics is at the same time implicit translation studies. It is characteristic that when projecting modern translation studies on Holmes’s model of translation studies, semiotic translation theoreticians are forced to admit that the ‘pure’ theoretical branch of translation studies is still weak. This is expressed, among other things, in the incompetence of translation theory to answer the basic question what makes a translation a translation (Stecconi 2004:472-473).


Holmes non si era fatto illusioni, considerando i translation studies equilibrati un’utopia disciplinare (Holmes 1988:95). Anche se la tassonomia di Holmes è ancora in auge, non è avvenuta un’innovazione metodologica ed è troppo presto per parlare di scienza della traduzione integrata. Secondo Edwin Gentzler, che dà molta importanza al modello di Holmes, l’arricchimento dei translation studies aggiungendo altre scienze della cultura è ancora trascurato: «Per quanto riguarda il futuro della teoria della traduzione nell’ambito dei Translation Studies, anche se molti fanno risalire la svolta culturale all’inizio degli anni ’90, i Translation Studies sono ancora in una fase infantile» (Gentzler 2003:22). Perciò, prima di consolidarsi i translation studies dovrebbero aprirsi. Gentzler afferma:

James Holmes invocava uno scambio dialettico tra le varie discipline all’interno dei Translation Studies. Sono d’accordo con lui, ma amplierei il senso della sua indicazione. Ciò che spero è che possa esserci uno scambio interdisciplinare e dialettico veramente aperto con studiosi al di fuori della disciplina, provenienti da tanti ambiti diversi (2003:23).

 

2. L’aspetto della semiotica della traduzione

La semiotica della traduzione ha una propria identità, ma è anche strettamente collegata alla scienza della traduzione. Da un lato, la semiotica della traduzione e, più in generale, la semiotica della cultura sono metadiscipline che permettono alla scienza della traduzione di spingersi verso la necessaria sintesi metodologica e forniscono un linguaggio descrittivo. Dall’altro, si può sostenere che la semiotica della traduzione esplicita è allo stesso tempo la scienza della traduzione implicita. Un aspetto curioso è che nel proiettare la scienza della traduzione moderna sul modello dei translation studies di Holmes, i teorici di semiotica della traduzione sono obbligati ad ammettere che l’ambito “puramente” teorico della scienza della traduzione è ancora debole. Ciò si esprime, tra le altre cose, nell’incapacità della teoria della traduzione di rispondere alla domanda di base su cosa fa di una traduzione una traduzione (Stecconi 2004:472-473).


At the same time, the search for an answer to this question demonstrates that translation studies are essentially semiotic.

The key point for defining translation is establishing the boundaries of the translation text, which in semiotic analysis is one of the first procedural moves towards understanding something in its wholeness or as a whole. Thus, the starting point for defining translation is the question of the boundary between translation and non-translation. One possible answer to this question is ‘translation is everything called translation,’ in which case the notion of boundary has to be further specified. The result is a distinction between two more boundaries. The first one is the boundary between the translation and the original, and the second one is the boundary between the translation and the recipient culture (Torop 2000c:599).

Another option for defining translation has been suggested by Andrew Chesterman and Rosemary Arrojo. They have employed the polarity ‘essentialism versus non-essentialism’ to emphasize the complexity of the problem for translation studies in the twenty-first century, arguing:

In general, essentialism claims that meanings are objective and stable, that the translator’s job is to find and transfer these and hence to remain as invisible as possible. Non-essentialism, on the other hand, basically claims that meanings (including the meaning of the concept of ‘translation’) are inherently non-stable, that they have to be interpreted in each individual instance, and hence that the translator is inevitably visible. (Chesterman and Arrojo 2000:151)

From this polarity, a new logic for defining translation can be derived. Chesterman and Arrojo argue further:

The question ‘What is a translation?’ is closely linked to the question ‘What is a good translation?’. TS [1⁄4 translation studies] is interested in studying how opinions and criteria concerning translation quality vary within and across cultures and periods. It is also interested in seeing whether there are quality criteria that are shared across cultures and periods. (2000:154)

From this argument, we are back at the issues of invariance and variance.

By the end of the 1990s, the replacement of the concept of adequacy by the concept of acceptability had created a new need for paying close attention to the issue of translation quality (Schäffner 1998).


Allo stesso tempo, la ricerca di una risposta a questa domanda dimostra che la scienza della traduzione è essenzialmente semiotica.

Il punto chiave nel definire «traduzione» è stabilire i confini del testo tradotto, che nell’analisi semiotica è uno dei primi passi della procedura per comprendere qualcosa nella sua interezza o nell’insieme. Perciò il punto di partenza per definire «traduzione» è la questione del confine tra «traduzione» e «non traduzione». Una risposta possibile è «traduzione è tutto ciò chiamato “traduzione”», nel qual caso il concetto di «confine» dev’essere specificato ulteriormente. Il risultato è la distinzione tra altri due confini. Il primo è il confine tra la traduzione e l’originale e il secondo è il confine tra la traduzione e la cultura ricevente (Torop 2000b:599).

Un’altra opzione per definire «traduzione» è stata suggerita da Andrew Chesterman e Rosemary Arrojo, che hanno utilizzato la polarità «essenzialismo versus non essenzialismo» per evidenziare la complessità del problema della scienza della traduzione nel ventunesimo secolo, sostenendo:

In generale, l’essenzialismo afferma che i significati sono oggettivi e stabili, che il compito del traduttore è di trovarli e trasferirli e perciò di rimanere invisibile il più possibile. Il non essenzialismo, invece, praticamente afferma che i significati (compreso il significato del concetto di «traduzione») sono intrinsecamente non-stabili, che devono essere interpretati in ogni singolo caso, e perciò il traduttore è inevitabilmente visibile. (Chesterman e Arrojo 2000:151)

Da questa polarità può derivare una nuova logica per definire «traduzione». Chesterman e Arrojo continuano:

La domanda «Cos’è una traduzione?» è strettamente legata alla domanda «Cos’è una buona traduzione?» La scienza della traduzione s’interessa di studiare in che modo variano le opinioni e i criteri che riguardano la qualità della traduzione in culture e periodi diversi. S’interessa anche di scoprire se ci sono criteri qualitativi condivisi in culture e periodi diversi. (2000:154)

Da quest’argomentazione ritorniamo ai concetti d’invarianza e varianza.

Alla fine degli anni ’90, la sostituzione del concetto di accettabilità al concetto di adeguatezza aveva creato la necessità di fare molta attenzione alla questione della qualità della traduzione (Schäffner 1998).


The concerns with the quality of translation brought into focus the possibility of a theory of ‘good’ translation, which started from distinguishing two levels of questions. First, when comparing two texts, the questions that need to be asked on the first level are: ‘Is this text a translation of the other, or is it not? And if it is, is it a good translation?’ (Halliday 2001:14). On the second level, the same questions become more precise: ‘Why is this text a translation of the other? And why is it, or is it not, a good translation? In other words: how we know?’ (Halliday 2001:14).

But these new kinds of questions are really eternal questions. For a long time attempts have been made to find out the reasons why readers, given the choice between two (or more) translations of one original text, prefer certain translation(s) over others. A possible answer (the whole question is problematic) is the perceptual integrity of translation. The convincing proof is that both linguistic well-formedness and semiotic coherence are functional. It is vital for both translators as well as readers of translations that the text would activate flights of imagination, engaging all human senses. The senses include perceiving the visuality of the text, a feature difficult to pinpoint. In addition to translators’ own comments on their visualization techniques, it has also been argued within translation theory that the precondition to composing a ‘good’ translation is the translator’s recognition of the visual perceptibility of the text to be translated (Schulte 1980:82), while the failure to recreate the visual perceptibility of the text is listed among the shortcomings of translation (Caws 1986:60-61). Thus, a ‘good’ translation is perceptually an integrated whole and can be effectively visualized in the imagination of the reader.

The study of textual visuality and more broadly of all perceptibility of a verbal translation has developed in three main directions.


preoccupazioni per la qualità della traduzione hanno messo a fuoco la possibilità di una teoria della traduzione “buona”, che cominciava distinguendo due livelli di domande. Per prima cosa, nel raffrontare due testi, le domande che vanno poste al primo livello sono: «Questo testo è la traduzione dell’altro, o non lo è? E se lo è, è una buona traduzione?» (Halliday 2001:14). Al secondo livello, le stesse domande diventano più precise: «Perché questo testo è la traduzione dell’altro? E perché è, o non è, una buona traduzione? In altre parole: come facciamo a saperlo?» (Halliday 2001:14).

Ma questi nuovi tipi di domande in realtà sono domande che continueremo a porci per sempre. A lungo si è cercato di scoprire le ragioni per cui i lettori, dovendo scegliere tra due (o più) traduzioni di un testo originale, preferiscano certe traduzioni rispetto ad altre. Una possibile risposta (l’intera questione è problematica) è l’integrità percettiva della traduzione. La prova decisiva è che sia una buona struttura linguistica, sia la coerenza semiotica sono determinanti. È vitale sia per i traduttori, sia per i lettori delle traduzioni, che il testo riesca ad attivare fughe d’immaginazione, coinvolgendo tutti i cinque sensi. I sensi includono la percezione della visualità del testo, un aspetto difficile da individuare. Oltre ai commenti dei traduttori riguardo alle proprie tecniche di visualizzazione, all’interno della scienza della traduzione si è anche sostenuto che la condizione necessaria per fare una “buona” traduzione sia il riconoscimento da parte del traduttore della percettibilità visuale del testo da tradurre (Schulte 1980:82), mentre l’impossibilità di ricreare la percettibilità visuale del testo è catalogato tra i difetti della traduzione (Caws 1986:60-61). Perciò una “buona” traduzione è un tutto integrato a livello percettivo e può essere visualizzata in modo efficace nell’immaginazione del lettore.

Lo studio della visualità testuale e, in senso più ampio, dell’intera percettibilità di una traduzione verbale si è sviluppato in tre direzioni principali.


One direction is the wide uses of linguistic means including paralinguistic elements in the analysis (Poyatos 1997). This direction pays attention to the performance qualities of a text and regards narrative or other non-dramaturgic texts as framing scenes to which are added the author’s comments on the objects, movements, facial expressions, manner of speaking, and so forth. A second direction is psychological, and focuses on the interaction between the verbal and the visual, the speech and the picture both in inner speech as well as in the processes of perception and reception (cf. Osimo 2002). The third direction is comparative, displaying the broader nature of translation activity through film, especially through film adaptations of literary works. The last alternative is not only material but reveals the semiotic side of translation mechanisms and shows the division of the verbal text into audial, visual, and verbal components (Cattrysse 1992; Remael 1995; Torop 2000a).

With the introduction of multimedia studies, many authors who had so far focused on comparing translation with film adaptation of literary works, turned their attention to multimedia. The study of multimedia and of the related phenomenon of multimodality has broadened the methodological perspective towards a more accurate understanding of the semiotic nature of translation. Thus Aline Remael assures that

[…] the nature of multimodal or even multimedia texts need not require translation scholars to abandon all their trusted methods . . . I have demonstrated the usefulness of the simple application of a few concepts from a branch of socio-semiotics concerned with the production of multimodal texts which can easily be incorporated into existing methods in translation studies. (Remael 2001:21)

Whereas Patrick Cattrysse ends his article with his own proposal for a new kind of collaboration that would benefit all parties:

To me, the largest challenge for multimedia translation seems to be the new types of collaboration. Such new types of collaboration will be necessary on three levels: on the level of scientific research, on the level of education and training, and on the level of MM [multimedia] production. (Cattrysse 2001:11)


Una di queste riguarda gli ampi usi del mezzo linguistico, inclusi gli elementi paralinguistici, nell’analisi (Poyatos 1997). Questa direzione fa attenzione alle qualità della prestazione di un testo e considera le narrazioni, o altri testi non drammaturgici, cornici nelle quali vengono aggiunti i commenti dell’autore sugli oggetti, i movimenti, le espressioni facciali, i modi di parlare e così via. Una seconda direzione è quella psicologica, che si focalizza sull’interazione tra il verbale e il visivo, il discorso e l’immagine sia nel discorso interno, sia nei processi di percezione e ricezione (Osimo 2002).  La terza direzione è quella comparativa, che mostra la natura più ampia dell’attività traduttiva attraverso i film, in special modo attraverso gli adattamenti filmici di opere verbali. Quest’ultima alternativa non è solo materiale, ma rivela il lato semiotico dei meccanismi traduttivi e mostra la divisione di un testo in componenti uditive, visive e verbali (Cattrysse 1992; Remael 1995; Torop 2000a).

Con l’introduzione degli studi sulla multimedialità, molti autori, che fino ad allora si erano concentrati sul paragone tra traduzione e adattamento filmico di opere verbali, hanno rivolto la loro attenzione alla multimedialità. Lo studio della multimedialità e il relativo fenomeno della multimodalità hanno ampliato l’orizzonte metodologico verso una più accurata comprensione della natura semiotica della traduzione. Perciò Aline Remael assicura che

[…] la natura dei testi multimodali o addirittura multimediali non rende necessario che gli studiosi abbandonino tutti i loro metodi fidati. […] Ho dimostrato l’utilità della semplice applicazione di alcuni concetti, provenienti da un ramo della sociosemiotica che si occupa della produzione di testi multimodali, che possono essere facilmente compresi nei metodi esistenti nella scienza della traduzione (Remael 2001: 21).

Mentre invece Cattrysse conclude il suo articolo con la proposta di un nuovo tipo di collaborazione, di cui tutti beneficerebbero:

A me la sfida più grande per la traduzione multimediale sembrano i nuovi tipi di collaborazione. Questi nuovi tipi di collaborazione saranno necessari a tre livelli: a livello di ricerca scientifica, a livello di istruzione e formazione e a livello di produzione multimediale (Cattrysse 2001: 11).


Cattrysse links comparative communication studies (or better, comparative semiotics) with translation studies (2001:6) in order to reply to these essential questions of modern translation activity:

How can we compare messages expressed in different semiotic systems? How can we establish tertia comparationes? How can we describe and explain the different translational processes in a systemic way? How can we describe and explain the final results of the translational processes? How can we describe and explain the functioning of these results within their respective target contexts? (Cattrysse 2001:8–9)

These are just some of the fundamental questions that Cattrysse poses in his article.

Disciplines studying translation have thus reached a stage where the nature of translation text is being reinterpreted and the semiotic fidelity of the translation text to the original is being defined. Therefore, it has become important to distinguish between isosemiotic and polysemiotic texts, both on the level of autonomous texts as well as on the level of textual parameters (Gottlieb 2003:178-179). The changes that the ontology of the translation text and the status of translation activity have undergone in culture imply that the object of translation studies is equally subject to a complex semiotic treatment and that the methodology of translation studies needs to reach an agreement with the dynamics of culture.

The contacts between translation studies and translation semiotics have multiplied and created a common methodological translatability. As part of translation studies, translation semiotics has provided a different outlook on the problems of translatability, from the linguistic worldview to the functions of translation text as a text of culture. A new approach to translatability has in turn made it possible to raise the problem of semiotic coherence. As part of semiotics, translation semiotics engages in comparative analysis of sign systems and functional relations between different sign systems. As an autonomous discipline, translation semiotics is one of the primary disciplines


Cattrysse collega lo studio della comunicazione comparativa (o meglio, la semiotica comparativa) con la scienza della traduzione (2001:6) per rispondere a queste domande fondamentali sull’attività traduttiva moderna:

Come facciamo a comparare messaggi espressi in diversi sistemi semiotici? Come facciamo a stabilire i tertia comparationis? Come facciamo a descrivere e spiegare i diversi processi traduttivi in modo sistemico? Come facciamo a descrivere e spiegare i risultati finali dei processi traduttivi? Come facciamo a descrivere e spiegare il funzionamento di questi risultati all’interno dei rispettivi contesti di ricezione? (Cattrysse 2001:8-9)

Queste sono solo alcune delle domande fondamentali che Cattrysse pone nel suo articolo.

Le discipline che studiano la traduzione hanno, quindi, raggiunto uno stadio in cui si reinterpreta la natura del testo tradotto e si definisce la fedeltà semiotica del testo tradotto all’originale. Perciò è diventato importante distinguere tra testi isosemiotici e polisemiotici, sia a livello di testi autonomi, sia a livello di parametri testuali (Gottlieb 2003:178-79). I cambiamenti dell’ontologia del testo tradotto e dello status dell’attività traduttiva nella cultura implicano che l’oggetto della scienza della traduzione sia ugualmente soggetto a un complesso trattamento semiotico e che la metodologia della scienza della traduzione debba trovare un accordo con la dinamica della cultura.

I contatti tra scienza della traduzione e semiotica della traduzione si sono moltiplicati e hanno determinato una traducibilità metodologica comune. Come parte della scienza della traduzione, la semiotica della traduzione ha fornito una prospettiva diversa riguardo ai problemi di traducibilità, dalla visione linguistica del mondo alle funzioni del testo tradotto in quanto testo della cultura. Un nuovo approccio alla traducibilità ha a sua volta reso possibile sollevare il problema della coerenza semiotica. Come parte della semiotica, la semiotica della traduzione si occupa dell’analisi comparativa dei sistemi di segni e dei rapporti funzionali tra diversi sistemi di segni. Come disciplina autonoma, la semiotica della traduzione è una delle discipline primarie


of cultural analysis as it provides the means, through its semiotic approach, to distinguish and discern the degree of sign systems’ translatability, then to describe both communication and metacommunication, and subsequently to associate these communication processes with the intertextual, interdiscursive, and intermedial space in the present-day culture (Torop 2001). But the theoretical formulation of present-day problems already had its beginnings a long time ago, and the present problems of translation studies and translation semiotics have largely been formulated already in the works of Roman Jakobson. This means that the endeavor to innovate can sometimes lead us into historical perceptions.

3.         Jakobsonian perspective

The genesis of Jakobson’s translation semiotic thinking was influenced by his reading of Peirce. This aspect of genesis has been closely observed by one of the most renowned representatives of translation semiotics, Dinda L. Gorlée, in her chapter ‘Translation after Jakobson after Peirce’ (Gorlée 1994:147-168). The aim of this chapter is

[…] to discuss translation as singled out by Jakobson among Peirce’s sign- theoretical concepts, and which Jakobson utilized again in a more restricted sense than originally intended by Peirce. For Jakobson, and in contradistinction to Peirce, translation is a metalinguistic process always involving language. I will propose and argue that the three kinds of translation put forth by Jakobson (1959:233; 1971b:261) can be construed and (re)refined in terms of Peirce’s three ontological categories, or modes of being. (Gorlée 1994:148)

Thus, Jakobson can be analyzed by means of methodological back translation into the contours that had earlier inspired him, into the works of Peirce. Gorlée, as a true expert on Peirce, carries out this project. Without stopping there, Gorlée develops a concept of semiotranslation, which ‘is a unidirectional, future-oriented, cumulative, and irreversible process, a growing network which should not be pictured as a single line emanating from a source text toward a designated target text’ (Gorlée 2004:103-104).


dell’analisi culturale, poiché fornisce i mezzi, attraverso il suo approccio semiotico, per distinguere e discernere il grado di traducibilità dei sistemi segnici, poi per descrivere sia la comunicazione, sia la metacomunicazione, e di conseguenza per associare questi processi di comunicazione allo spazio intertestuale, interdiscorsivo e intermediale nella cultura contemporanea (Torop 2001). Ma la formulazione teorica dei problemi contemporanei ha avuto inizio molto tempo fa e gli attuali problemi della scienza della traduzione e della semiotica della traduzione sono stati ampiamente elaborati già negli scritti di Roman Jakobson. Ciò significa che lo sforzo verso l’innovazione talvolta può portarci verso prospettive storiche.

3. La prospettiva di Jakobson

La nascita delle riflessioni semiotiche di Jakobson intorno alla traduzione è stata influenzata dalla lettura di Peirce. Questo aspetto è stato studiato minuziosamente da uno dei più noti rappresentanti della semiotica della traduzione, Dinda L. Gorlée, nel suo capitolo «Translation after Jakobson, after Peirce» (Gorlée 1994:147-168). Lo scopo di questo capitolo è:

[…] discutere la traduzione individuata da Jakobson tra le teorie del segno di Peirce, e che Jakobson ha riutilizzato in senso più ristretto di quanto intendesse Peirce in origine. Per Jakobson, e in contraddizione con Peirce, la traduzione è un processo metalinguistico che coinvolge sempre la lingua. Io propongo e sostengo che i tre tipi di traduzione elaborati da Jakobson (1959:233; 1971b:261) possono essere interpretati e (ri)rifiniti nei termini delle tre categorie ontologiche di Peirce, o modalità dell’essere. (Gorlée 1994:148)

Perciò si può analizzare Jakobson per mezzo di una traduzione metodologica inversa nei termini degli scritti di Peirce che lo avevano ispirato. Gorlée, in quanto vera esperta di Peirce, realizza questo progetto. Ma non si ferma qui. Sviluppa, infatti, il concetto di «semiotraduzione», che è «un processo unidirezionale, orientato al futuro, cumulativo e irreversibile, una rete in espansione che non deve essere rappresentata come una linea singola che deriva da un prototesto verso un determinato metatesto» (Gorlée 2004:103-104).


Semiotranslation is a complex metadisciplinary concept, which also influences the definition of translator’s competence and defines the knowledge of the translator as follows:

[…] the professional translator must have learned and internalized a vast number of associations and combinations with reference to individual languages (intralingual translation), language pairs (interlingual translation), and the interactions between language and nonverbal sign systems (intersemiotic translation). (Gorlée 2004:129)

Other scholars associated with semiotics have developed Jakobson’s views on translation according to their own ways of thinking and aims. A good example is provided by a series of modifications based on Jakobson’s typology of three kinds of translation, proposed by Gideon Toury in 1986, Umberto Eco in 2001, 2003 and Susan Petrilli in 2003.1 All of these authors have their own interpretation of Jakobson’s typology seen from their own angle, and come with their own theoretical premises.

In Jakobson’s now classic article of 1959 ‘On linguistic aspects of translation’ he distinguishes ‘three ways of interpreting a verbal sign’ (Jakobson 1971 [1959]:261): a verbal sign may be translated into other signs of the same language (intralingual translation), into another language (interlingual translation), or into another, nonverbal system of symbols (intersemiotic translation or transmutation).2 At the time of its appearance, the victory of Jakobson’s article lay in the introduction of a wider perspective on translation (cf. Levy ́ 1974:35; Steiner 1998 [1975]:274), which made possible the introduction of intersemiotic translation (Eco 2001:67).

The first revision of Jakobson’s typology was offered by Gideon Toury in his article ‘Translation: A cultural-semiotic perspective’ written for the Encyclopedic Dictionary of Semiotics (1986). Toury tries to form a systematic view of translation-related issues as seen from a cultural-semiotic angle and is forced to admit that translation studies is short of typologies of translating processes and translating activities.


La semiotraduzione è un complesso concetto metadisciplinare, che influenza anche la definizione della competenza del traduttore e definisce la conoscenza del traduttore come segue:

[…] il traduttore professionale deve aver imparato e interiorizzato un gran numero di associazioni e combinazioni in riferimento a singole lingue (traduzione intralinguistica), coppie di lingue (traduzione interlinguistica) e le interazioni tra lingua e sistemi di segni non verbali (traduzione intersemiotica) (Gorlée 2004:129).

Altri studiosi che si occupano di semiotica hanno sviluppato le opinioni di Jakobson sulla traduzione in base ai loro modi di pensare e ai loro scopi. Una serie di modifiche basate sulla tipologia di Jakobson dei tre tipi di traduzione, proposte da Gideon Toury nel 1986, da Umberto Eco nel 2001 e nel 2003 e da Susan Petrilli nel 2003 ne offrono un buon esempio1. Tutti questi autori hanno interpretato dal proprio punto di vista la tipologia di Jakobson e sono partiti dai propri presupposti teorici.

Nell’articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione», ormai diventato un classico, Jakobson distingue «tre modi di interpretare un segno verbale» (Jakobson 1971 [1959]: 261): un segno verbale può essere tradotto in altri segni della stessa lingua (traduzione intralinguistica), in un’altra lingua (traduzione interlinguistica) o in un altro sistema non verbale di simboli (traduzione intersemiotica o trasmutazione)2. Al momento della pubblicazione, la conquista dell’articolo di Jakobson stava nell’introduzione di una prospettiva più ampia sulla traduzione (Levy 1974:35; Steiner 1998 [1975]:274), che ha reso possibile l’introduzione della traduzione intersemiotica (Eco 2001:67).

Gideon Toury ha proposto la prima rilettura della tipologia di Jakobson nel suo articolo «Translation: A cultural-semiotic perspective», scritto per l’Enciclopedic Dictionary of Semiotics (1986). Toury cerca di formare un punto di vista sistematico sulle questioni inerenti alla traduzione, viste da una prospettiva semiotico-culturale ed è obbligato ad ammettere che la scienza della traduzione è a corto di tipologie per i processi traduttivi e le attività traduttive.


Jakobson’s classification, Toury maintains, is the ‘only typology which has gained some currency’ in translation studies (Toury 1986:1113), and is an elaboration of the relations between the basic types of two codes. Toury has several objections to Jakobson’s classification: his typology is obviously biased towards linguistic translating,3 and it is ‘readily applicable only to texts, that is, to semiotic entities which have surface, overt representations’ (Toury 1986:1113) adding that Jakobson’s typology is unable to account for the fact that texts, ‘when undergoing an act of translating … may have more than one semiotic border to cross’ (Toury 1986:1113). For Toury, however, the notion that ‘translating is an act (or a process) which is performed (or occurs) over and across systemic borders’ (1986:1112) is precisely the differentia specifica of translating as a type of semiotic activity and should therefore be taken account of. In his opinion, a typology of translating processes based on the relations between the underlying codes could have been rendered more general, and by way of example, he offers his own version based on Jakobson’s typology where the most general division is made between intrasemiotic and intersemiotic translating, with the first category further divided into intrasystemic and intersystemic translating. Thus, in Toury’s scheme, ways of translating that involve language (intralingual, interlingual, and translation from language to non-language) are reduced to the level of possible examples of translative processes within or between different systems (Toury 1986:1114).

Toury’s typology is constructed from a different viewpoint than Jakobson’s approach. Jakobson’s point of departure is natural language: he outlines the various possibilities of interpreting a verbal sign. Toury so-to-say steps outside the natural language, decentralizes it, and reorganizes Jakobson’s single-level tripartition into a two-level typology.

Another scholar to have taken up Jakobson’s typology and developed it according to his views is Umberto Eco


La classificazione di Jakobson, afferma Toury, è «l’unica tipologia che ha ottenuto un minimo di diffusione» nella scienza della traduzione (Toury 1986:1113), ed è un’elaborazione dei rapporti tra i tipi base di due codici. Toury contesta in vari modi la classificazione di Jakobson: la sua tipologia è ovviamente sbilanciata verso la traduzione verbale3 ed è «applicabile senza difficoltà solo ai testi, ovvero a entità semiotiche che hanno delle rappresentazioni superficiali ed evidenti» (Toury 1986:1113) e aggiunge che la tipologia di Jakobson non è in grado di giustificare il fatto che i testi «quando sono soggetti a un atto traduttivo […] possono avere più di un confine semiotico da attraversare» (Toury 1986:1113). Tuttavia, per Toury l’idea che «tradurre è un atto (o un processo) che si compie (o avviene) al di là di e attraverso confini sistemici» (1986:1112) è precisamente la differentia specifica della traduzione come tipo di attività semiotica e perciò dovrebbe essere presa in considerazione. Secondo lui, una tipologia dei processi traduttivi basata sui rapporti tra i codici coinvolti sarebbe potuta essere più generale e, con un esempio, propone la propria versione basata sulla tipologia di Jakobson, in cui la divisione più generale è tra traduzione intrasemiotica e intersemiotica e la prima categoria è a sua volta divisa in traduzione intrasistemica e intersistemica. Perciò, secondo lo schema di Toury, i modi di tradurre che coinvolgono la lingua (traduzione intralinguistica, interlinguistica o traduzione da una lingua a una non lingua) si riducono al livello di possibili esempi di processi traduttivi in o tra sistemi diversi (Toury 1986:1114).

La tipologia di Toury è costruita da un punto di vista diverso dall’approccio di Jakobson. Il punto di partenza di Jakobson è il linguaggio naturale e delinea le varie possibilità d’interpretazione di un segno verbale. Toury, per così dire, esce dal mondo del linguaggio naturale, lo decentra e riorganizza la tripartizione Jakobsoniana a un livello in una tipologia a due livelli.

Un altro studioso che ha ripreso la tipologia Jakobsoniana e la ha sviluppata secondo il proprio punto di vista è Umberto Eco,


in his book Experiences in Translation (2001) and later in its Italian and expanded version Dire quasi la stessa cosa (2003). Eco suggests, first, that Jakobson most probably meant that his three types of translation are in fact three types of interpretation, and if one did not pay closer attention, ‘it would be easy to succumb to the temptation to identify the totality of semiosis with a continuous process of translation; in other words, to identify the concept of translation with that of interpretation’ (Eco 2001:68). Eco explains Jakobson’s indifference towards clarifying the relations between translation and interpretation with the fact that Jakobson, the first linguist to discover ‘the fecundity of Peircean concepts’ (Eco 2001:68), fell prey to Peirce’s ‘notoriously protean and often impressionistic’ vocabulary (Eco 2001:69), which led to the use of the word ‘translation’ as a synecdoche for ‘interpretation.’ Eco, however, insists that the identification of the concepts of translation and interpretation should be avoided and sets out to ‘to show that the universe of interpretations is vaster than that of translation proper’ (Eco 2001:73).

Thus, Eco proposes a different classification of the forms of interpretation, a classification where ‘due importance is attached to the problems posed by variations in both the substance and the purport of the expression’ (Eco 2001:99-100). As is evident from Eco’s choice of words, his point of reference here is Louis Hjelmslev’s theory of language with the distinctions between form, substance, and purport (or continuum).4 Besides the influence of Hjelmslev and the obvious point of departure in Jakobson’s tripartition, Eco’s classification shows also some similarities with Toury’s typology as discussed above (although Toury’s name goes unmentioned in Eco). While Jakobson’s original typology distinguished between three categories and Toury’s modification resulted in four general categories divided between two levels, Eco’s classification has a total of thirteen categories divided between three levels.


nel suo libro Experiences in Translation (2001) e poi in Dire quasi la stessa cosa (2003), la versione italiana più estesa. Eco sostiene, per prima cosa, che molto probabilmente Jakobson pensava che i suoi tre tipi di traduzione fossero in realtà tre tipi di interpretazione e se non ci si prestasse particolare attenzione «sarebbe facile soccombere alla tentazione di identificare la semiosi nella sua totalità con un continuo processo di traduzione; in altre parole, di identificare il concetto di “traduzione” con quello d’“interpretazione”» (Eco 2001:68). Eco spiega l’indifferenza di Jakobson nei confronti della precisazione dei rapporti tra traduzione e interpretazione con il fatto che Jakobson, il primo linguista a scoprire «la fecondità delle idee di Peirce» (Eco 2001:68), è stato vittima del vocabolario di Peirce «notoriamente mutevole e spesso impressionistico» (Eco 2001:69), che ha portato all’uso della parola «traduzione» come sineddoche di «interpretazione». Tuttavia, Eco sostiene che si debba evitare l’identificazione dei concetti di «traduzione» e «interpretazione» e si propone «di mostrare che l’universo delle interpretazioni è più vasto di quello della traduzione vera e propria» (Eco 2001:73).

Perciò Eco propone una diversa classificazione delle forme d’interpretazione, una classificazione in cui «si dà la giusta importanza ai problemi posti dalle variazioni sia nella sostanza, sia nella portata dell’espressione» (Eco 2001:99-100). Come appare evidente dalla scelta di parole di Eco, qui il suo punto di riferimento è la teoria del linguaggio di Louis Hjelmslev e le distinzioni tra forma, sostanza e portata (o continuum)4. Oltre all’influenza di Hjelmslev e all’ovvio punto di partenza nella tripartizione di Jakobson, la classificazione di Eco mostra anche qualche somiglianza con la tipologia di Toury di cui sopra (anche se il nome di Toury non viene menzionato da Eco). Mentre la tipologia originale di Jakobson distingueva tre categorie e la variazione di Toury ha avuto come risultato quattro categorie generali divise in due livelli, la classificazione di Eco ha un totale di tredici categorie divise in tre livelli.


Similarly to Jakobson, Eco’s initial division on the highest level is tripartite, but since the first class, interpretation by transcription, is soon dismissed as taking place by automatic substitution and therefore as uninteresting for the discussion at hand (Eco 2001:100), the initial division is left essentially with two classes, intrasystemic interpretation and intersystemic interpretation.

This division is already rather similar to Toury’s typology, with the main difference lying in the fact that for Toury, the word ‘semiotic’ is more general than ‘systemic’ (e.g. in Toury’s typology, intrasemiotic translating is subdivided into intrasystemic and intersystemic translating). For Eco, on the contrary, ‘systemic’ is a wider concept than ‘semiotic.’ As already mentioned, the first class of the most general level (interpretation by transcription) has no further subdivisions at all. The second class (intrasystemic interpretation) has three subclasses (intralinguistic interpretation, intrasemiotic interpretation, and performance), and the third class (intersystemic interpretation) falls into two subdivisions (with marked variation in the substance and with mutation of continuum), the first one of which has three further subclasses (interlinguistic interpretation, rewriting, and translation between other semiotic systems) and the second has two subclasses (parasynonymy and adaptation).

Since Eco’s central concern is to single out ‘translation proper’ (that is, what is generally understood by ‘translation’ and takes place between natural languages) from among other types of interpretation, translation in natural language remains the implicit focal point of his typology. This may explain why the word ‘linguistic’ appears in Eco’s classification on the same classificatory level as ‘semiotic,’ not as a subclass of ‘semiotic.’ The semiolinguistic category is further supported by the long tradition in (anthropo)semiotics that regards natural language as the central and pri- mary means of communication, the primary modeling system.5


Similmente a Jakobson, la divisione iniziale di Eco al livello più elevato è tripartita, ma poiché la prima classe, «interpretazione per trascrizione», viene presto scartata perché avviene tramite sostituzione automatica e perciò non è rilevante per la discussione in questione (Eco 2001:100), la divisione iniziale rimane essenzialmente con due classi, l’interpretazione intrasistemica e l’interpretazione intersistemica.

Questa divisione è già piuttosto simile alla tipologia di Toury; la differenza principale risiede nel fatto che per Toury la parola «semiotico» è più generica di «sistemico» (per esempio, nella tipologia di Toury la traduzione intrasemiotica è suddivisa in traduzione intrasistemica e intersistemica). Per Eco, invece, «sistemico» è un concetto più ampio di «semiotico». Come già accennato, la prima classe del livello più generico (interpretazione per trascrizione) non ha ulteriori suddivisioni. La seconda classe (interpretazione intrasistemica) ha tre sottoclassi (interpretazione intralinguistica, interpretazione intrasemiotica e performance) e la terza classe (interpretazione intersistemica) è soggetta a due suddivisioni (in base a una variazione marcata nella sostanza o a una mutazione del continuum), la prima delle quali ha altre tre sottoclassi (interpretazione interlinguistica, riscrittura, e traduzione tra altri sistemi semiotici) e la seconda ha due sottoclassi (parasinonimia e adattamento).

Poiché l’interesse principale di Eco è selezionare la «traduzione vera e propria» (ovvero, ciò che generalmente s’intende con «traduzione» e che avviene tra linguaggi naturali) da altri tipi d’interpretazione, la traduzione in una lingua naturale rimane il punto focale implicito della sua tipologia. Questo forse spiega perché la parola «linguistico» nella classificazione di Eco appaia allo stesso livello classificatorio di «semiotico», non come sottoclasse di «semiotico». La categoria semiolinguistica è inoltre sostenuta dalla lunga tradizione dell’antroposemiotica che considera il linguaggio naturale il mezzo di comunicazione principale e più importante, il sistema di modellizzazione più importante.5


The most recently published interpretation of Jakobson’s typology comes from Susan Petrilli in her article ‘Translation and semiosis. Introduction’ (2003). Combining Jakobson’s typology with Peircean semiotics, she states at the very beginning that ‘in the first place to translate is to interpret’ (Petrilli 2003:17), that translation is constitutive of the sign and that sign activity is, in fact, a translative process. This means that, quoting Petrilli, ‘translation does not only concern the human world, anthroposemiosis, but rather is a constitutive modality of semiosis, or more exactly, of biosemiosis’ (Petrilli 2003:17) and therefore, translative processes can be said to pervade the entire living world, the biosphere.6

Petrilli proposes a comprehensive typology of translating processes, ranging from intersemiosic translation (translative processes across two or more sign systems) and endosemiosic translation (translative processes internal to a given system) in biosemiosphere to diamesic, diaphasic, and diglossic translation (translation between written and oral language, across registers, and between a standard language and a dialect, respectively) (Petrilli 2003:19-20). Petrilli prefers to use the prefix endo- instead of intra- in the terms endosemiosic, endolinguistic, endoverbal, endolingual. Usually, terms that work together belong to the same system: thus, a term with a prefix ‘endo-’ would normally assume the use of its counterpart, a term with a prefix ‘exo-,’ and similarly, ‘inter-’ would assume its counterpart ‘intra-’. Therefore the terminological field of Petrilli’s classification makes a somewhat heterogeneous and disorienting model, particularly in the case of endolingual translation which essentially corresponds to Jakobson’s intralingual translation. Also, following Petrilli’s argument, it seems that the typology could include two more categories, endosemiotic and interverbal translation, which, however, are missing.


L’interpretazione della tipologia di Jakobson di più recente pubblicazione è quella di Susan Petrilli, nel suo articolo «Traduzione e semiosi. Considerazioni introduttive» (2000). Unendo la tipologia di Jakobson con la semiotica di Peirce, afferma fin dall’inizio che «tradurre è in primo luogo interpretare» (Petrilli 2000:9), che la traduzione è una parte costitutiva del segno e che l’attività segnica è di fatto un processo traduttivo. Ciò significa che, citando Petrilli, «la traduzione non riguarda soltanto il mondo umano, l’antroposemiosi, ma è una modalità costitutiva della semiosi […], della biosemiosi» (Petrilli 2000:9) e perciò si può affermare che i processi traduttivi pervadono l’intero mondo vivente, la biosfera6.

Petrilli propone una tipologia globale dei processi traduttivi, spaziando dalla traduzione intersemiosica (processi traduttivi tra due o più sistemi di segni) e dalla traduzione endosemiosica (processi traduttivi all’interno di un sistema dato) nella biosemiosfera alla traduzione diamesia, diafasica e diglossica (rispettivamente la traduzione tra lingua scritta e orale, tra registri diversi e tra una lingua standard e un dialetto) (Petrilli 2000:10). Petrilli preferisce usare il prefisso «endo-» invece di «intra-» nei termini «endosemiosico», «endolinguistico», «endoverbale», «endolinguale». Di solito i termini collegati tra loro appartengono allo stesso sistema: perciò un termine con il prefisso «endo-» dovrebbe di norma far presumere l’uso della sua controparte, ovvero un termine con il prefisso «eso-» e, similmente, «inter-» dovrebbe avere come controparte «intra-». Di conseguenza, il campo terminologico della classificazione di Petrilli forma un modello alquanto eterogeneo e confusionario, in particolare nel caso della traduzione endolinguale che in realtà corrisponde alla traduzione intralinguistica di Jakobson. E poi, seguendo l’argomentazione di Petrilli, sembra che la tipologia possa comprendere altre due categorie, la traduzione endosemiotica e interverbale, che, tuttavia, mancano.


When compared to Jakobson’s typology and its later modifications by Toury and Eco, Petrilli’s scheme has an explicit conceptual innovation: the inclusion of translative processes outside the human world. In contrast to Eco, who tries to establish the boundaries of translation (in its ‘proper’ sense), drawing attention to the fact that ‘the variety of semiosis gives rise to phenomena whose difference is of the maximum importance for the semiologist’ (Eco 2001:73), Petrilli goes to the other extreme, maximally extending the notion of translation.

It seems natural that the search for translational processes extending beyond human verbal language would start with the generality of semiotic laws. Jakobson found in Peirce’s works fundamental rules for discussing the nature of sign and meaning as well as translation and ‘insisted that a widened definition of translation – as the interpretation of sign by another – was an essential aspect of semiotic activity’ (Rudy and Waugh 1998:2262). Peirce is naturally present in the discussions about translation of the semioticians Eco and Petrilli. Toury is the only one of the three who, commenting on Jakobson, does not mention Peirce at all (even though he is writing for a specifically semiotic encyclopedia); his semiotic background is more in line with the tradition of semiotics of culture. Surprisingly, Toury radically decentralizes natural language in his typology of translation. Eco remains centered on translation in natural language and, in fact, so does Petrilli, even though she extends the notion of translation beyond the human sphere. Petrilli’s typology unfolds into more and more detail with regard to specifically natural language, ending with a tripartite division between varieties of translational processes within a single natural language. In general, however, ‘methodologically the tradition that has its roots in Jakobson and in part also in Peirce has been characterized by bringing the concepts of meaning, interpretation and translation close to one another and viewing culture as a mechanism of translation’ (Torop 2002:598).


Se messo a confronto con la tipologia Jakobsoniana e le successive modifiche di Toury ed Eco, lo schema di Petrilli ha un’innovazione concettuale esplicita: l’inserimento dei processi traduttivi al di fuori della sfera umana. Diversamente da Eco, che cerca di stabilire i confini della traduzione (in senso “vero e proprio”) e si concentra sul fatto che «la molteplicità della semiosi dà origine a fenomeni di cui la differenza è dimassima importanza per il semiologo» (Eco 2001:73), Petrilli va verso il polo opposto e amplia al massimo grado il concetto di «traduzione».

Sembra del tutto naturale che la ricerca di processi traduttivi che si estendono al di là del linguaggio verbale umano parta dai concetti generali delle leggi semiotiche. Negli scritti di Peirce, Jakobson ha trovato le leggi fondamentali per discutere della natura sia del segno e del significato, sia della traduzione e «ha sostenuto che una definizione estesa di traduzione – come interpretazione di un segno in un altro – fosse un aspetto essenziale dell’attività semiotica» (Rudy and Waugh 1998:2262). È naturale che, nella discussione sulla traduzione dei semiotici Eco e Petrilli, sia presente Peirce. Toury è l’unico dei tre che, commentando Jakobson, non cita per nulla Peirce (anche se scrive per un’enciclopedia specificamente semiotica); la sua formazione semiotica è più in linea con la tradizione della semiotica della cultura. A sorpresa, nella sua tipologia della traduzione, Toury decentra il linguaggio naturale in modo radicale. Eco rimane concentrato sulla traduzione nel linguaggio naturale e, in effetti, anche Petrilli, anche se quest’ultima estende il concetto di traduzione al di là della sfera umana. La tipologia di Petrilli ha delle suddivisioni sempre più dettagliate riguardo al linguaggio naturale nello specifico e si conclude con una divisione tripartita tra le varietà dei processi traduttivi all’interno di una singola lingua. Tuttavia, in generale, «a livello metodologico la tradizione che affonda le proprie radici in Jakobson e, in parte, anche in Peirce è caratterizzata dall’avvicinamento dei concetti di significato, interpretazione e traduzione e dalla considerazione della cultura come meccanismo traduttivo» (Torop 2002:598).


Jakobson’s concepts of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation as a repeatedly reconceptualized three-way typology brings the problems of the present-day translation studies as well as semiotics back to the turning point that Jakobson seems to represent. Jakobson’s interest in the issues of translation can be regarded as a quest for deeper understanding of communication processes, and his views on translation cannot be isolated from his general theory of communication. Jakobson envisioned a total science of communication within which he distinguished between linguistics as a means to study verbal messages and semiotics as a means to study any messages (Jakobson 1971:666). He anticipated that the study of communication would grow increasingly aware of the relevance of translation and related issues, for example: ‘Besides encoding and decoding, also the procedure of recoding, code switching, briefly, the various facets of translation, is becoming one of the focal concerns of linguistics and of communication theory […]’ (Jakobson 1971 [1961]:576).

Part of the complexity of the phenomenon of communication comes from the realization that ‘the nature of the signans itself is of great importance for the structure of messages and their typology. All five external senses carry semiotic functions in human society’ (Jakobson 1971 [1968]:701). From here, Jakobson starts to unfold the logic of translation: ‘Signans meant the perceptible and signatum the intelligible, translatable aspect of the signum (sign)’ (Jakobson 1985 [1974]:99). Intelligibility as translation is, however, only the first step, for understanding messages in a communication process presupposes a more elaborated approach: ‘The study of communication must distinguish between homogeneous messages which use a single semiotic system and syncretic messages based on a combination or merger of different sign patterns’ (Jakobson 1971 [1961]:705).


I concetti Jakobsoniani di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica in quanto tipologia a tre riconcettualizzata più volte, riportano i problemi della scienza della traduzione contemporanea e la semiotica al punto di svolta rappresentato da Jakobson. Si può considerare l’interesse di Jakobson verso la questione della traduzione la ricerca di una comprensione più profonda dei processi di comunicazione e non si possono separare le sue considerazioni sulla traduzione dalla teoria generale della comunicazione. Jakobson ha immaginato una scienza totale della comunicazione all’interno della quale distingueva tra la linguistica come mezzo per studiare i messaggi verbali e la semiotica come mezzo per studiare qualsiasi messaggio (Jakobson 1971:666). Ha previsto che lo studio della comunicazione sarebbe diventato sempre più consapevole della rilevanza della traduzione e delle questioni affini, per esempio: «Oltre alla codifica e alla decodifica, anche la procedura di ricodifica, il cambiamento di codice, in poche parole le varie sfaccettature della traduzione stanno diventando uno degli interessi fondamentali della linguistica e della teoria della comunicazione […]» (Jakobson 1971 [1961]:576).

Una parte della complessità del fenomeno della comunicazione deriva dalla presa di coscienza che «la natura del signans in sé è di grande importanza per la struttura dei messaggi e la loro tipologia. Tutti e cinque i sensi esterni hanno funzioni semiotiche nella società umana» (Jakobson 1971 [1968]:701). Da qui Jakobson comincia a sviluppare la logica della traduzione: «Il signans è percepibile e il signatum intellegibile, l’aspetto traducibile del signum (segno)» (Jakobson 1985 [1974]:99). Tuttavia, l’intelligibilità come traduzione è solo il primo passo, perché la comprensione dei messaggi in un processo comunicativo presuppone un approccio più elaborato: «Lo studio della comunicazione deve fare una distinzione tra messaggi omogenei che usano un signolo sistema semiotico e messaggi sincretici basati sulla combinazione o fusione di pattern di segni diversi» (Jakobson 1971 [1961]:705).


This means that the investigation of the functions of language must be transferred to a more semiotic framework:

The cardinal functions of language – referential, emotive, conative, phatic, poetic, and metalingual – and their different hierarchy in the diverse types of messages have been outlined and repeatedly discussed. This pragmatic approach to language must lead mutatis mutandis to an analogous study of the other semiotic systems: with which of these or other functions are they endowed, in what combinations and in what hierarchical order? (Jakobson 1971 [1961]:703)

Seeing language and other sign systems in their mutual relationship and juxtaposing them hierarchically, paying attention to both the processes of perception and of understanding as well as the processes of message production and reception, leads to a systemic view of communication, which accommodates syncretic messages and the association of (sensual) perception with (intellectual) understanding. On the other hand, an important presumption to understanding translation process as well as any communication is the realization that language as a means of communication works not only in interpersonal communication, but has an equally important role also in intrapersonal communication: ‘While interpersonal communication bridges space, intrapersonal communication proves to be the chief vehicle for bridging time’ (Jakobson 1985 [1974]:98).

These considerations form the background to Jakobson’s distinction between three kinds of translation. The interest of various outstanding scholars in a deeper examination of these kinds of translation is brought about by the need to understand in the present-day culture the ways of existence of both the inter- and intrapersonal, of the homogeneous and the syncretic, of the invariant and the variance. As the concept of translation broadens, it approaches the concept of understanding – understanding through translation and understanding the translation itself. To understand different kinds of translation means to understand both communication and autocommunication processes, and to understand


Ciò significa che l’indagine sulle funzioni del linguaggio deve essere inserita in una struttura più semiotica:

Le funzioni cardinali del linguaggio – referenziale, emotiva, conativa, fatica, poetica e metalinguistica – e la loro diversa gerarchia in diversi tipi di messaggi sono state esposte e discusse più volte. Questo approccio pragmatico al linguaggio deve portare, mutatis mutandis, a uno studio analogo degli altri sistemi semiotici: di quali tra queste o altre funzioni sono dotati, in quale combinazione e secondo quale ordine gerarchico? (Jakobson 1971 [1961]:703)

Prendere in considerazione il linguaggio e altri sistemi di segni nei loro rapporti reciproci e confrontandoli a livello gerarchico, prestare attenzione sia ai processi di percezione e comprensione, sia ai processi di produzione e ricezione dei messaggi porta a una visione sistemica della comunicazione, che concilia i messaggi sincretici e l’associazione della percezione (dei sensi) con la comprensione (dell’intelletto). D’altro canto, un presupposto importante per la comprensione sia del processo traduttivo, sia di qualsiasi (atto di) comunicazione è la consapevolezza che il linguaggio come mezzo di comunicazione non è attivo solo nella comunicazione interpersonale, ma ha un ruolo ugualmente importante anche nella comunicazione intrapersonale: «Mentre la comunicazione interpersonale crea ponti nello spazio, la comunicazione intrapersonale prova di essere il veicolo fondamentale per creare ponti nel tempo» (Jakobson 1985 [1974]:98).

Queste considerazioni formano il contesto della distinzione jakobsoniana fra tre tipi di traduzione. L’interesse di vari eminenti studiosi per un esame più profondo di questi tipi di traduzione nasce dal bisogno di comprendere le modalità di esistenza sia della componente interpersonale, sia di quella intrapersonale, di quella omogenea e di quella sincretica, dell’invariante e della varianza nella cultura contemporanea. A mano a mano che il concetto di «traduzione» si amplia, raggiunge il concetto di «comprensione»: comprensione attraverso la traduzione e comprensione della traduzione stessa. Comprendere tipi di traduzione diversi significa comprendere sia i processi di comunicazione, sia di autocomunicazione, e comprendere la


communication means to understand the infinite transformation processes of culture, including translation.

4.         Conclusion: Processual boundaries

The dynamics of the development of culture towards integrating interdiscursivity and intermediality have strongly affected the conceptions of identities. Alongside textual identity, we speak of discursive or medial identity, but also of interdiscursive and inter- or multimedial identity. Translation is no longer simply translation of a text into another text; it is also a translation of a text into a medium or a discourse. The ontological status of the text in culture has changed as well. One and the same verbal text may exist within culture simultaneously as a verbal, multi-medial, audiovisual, or audial text. These diverse texts form a simultaneous set in which causal relations, the order of original text production and translation do not play any significant role any more. More important is the influence of this set as a simultaneous semiotic whole on the processes of reception, on cultural memory, and hence on the mental existence of the text in culture. This intracultural process of translation is as important as intercultural translation for it reflects the changing of verbal language under the influence of different communication technologies and environments, but also the ways in which verbal language is related to other semiotic systems in culture.

Today, translation studies are in a difficult position, especially considering the integration of the technological aspect of cultural dynamics. However, the processes taking place within new media can be regarded as a transfer of the experiences of earlier periods in culture into new technological conditions. This means that one result of the use of new media is a better understanding of traditional interlinguistic translation, since several aspects of translation activity, which had so far remained implicit,


comunicazione significa comprendere gli infiniti processi di trasformazione della cultura, compresa la traduzione.

4. Conclusione: i confini processuali

La dinamica dello sviluppo della cultura verso l’integrazione di interdiscorsività e intermedialità ha influenzato in modo considerevole le concezioni delle identità. Insieme all’identità testuale parliamo di identità discorsiva o mediale, ma anche di identità interdiscorsiva e intermediale, o multimediale. La traduzione non è più la semplice traduzione di un testo in un altro testo; è anche la traduzione di un testo in un medium o in un discorso. Anche lo status ontologico del testo nella cultura è cambiato. Uno stesso testo verbale può esistere in una cultura contemporaneamente come testo verbale, multimediale, audiovisivo o uditivo. Questi testi diversi formano una serie simultanea in cui i rapporti causali, l’ordine della produzione del testo originale e la traduzione non hanno più un ruolo fondamentale. È più importante l’influenza di questa serie, in quanto blocco semiotico simultaneo, sui processi di ricezione, sulla memoria della cultura e perciò sull’esistenza mentale del testo nella cultura. Questo processo intraculturale di traduzione è importante quanto la traduzione interculturale poiché riflette il cambiamento del linguaggio influenzato da tecnologie e ambienti di comunicazione diversi, ma anche i modi in cui il linguaggio verbale è collegato ad altri sistemi semiotici della cultura.

Oggi la scienza della traduzione è in una posizione difficile, specie se si prende in considerazione l’integrazione dell’aspetto tecnologico della dinamica culturale. Tuttavia, si possono considerare i processi che hanno luogo all’interno dei nuovi media come trasferimento delle esperienze di periodi precedenti della cultura nelle condizioni tecnologiche nuove. Ciò significa che uno dei risultati dell’uso dei nuovi media è la migliore comprensione della traduzione interlinguistica tradizionale, poiché diversi aspetti dell’attività traduttiva, che finora erano rimasti impliciti,


have become explicit under new conditions. The visual side of a verbal (translation) text, once an invisible problem regarding the quality of the text, has become visible by the comparison of translation and film adaptations of literature. The new multimedia and new media environment has brought back the relevance of the old methods of translator training, that in the first stages of teaching placed great emphasis on intralinguistic translation in the form of either interdiscursive translation or textual manipulation (abridgement, recomposition etc.). Another new tendency in the training of translators is the introduction of intersemiotic translation, for reasons that are both pedagogical (comprehension of the visual aspect of the text) and pragmatic (translating into a visual environment, such as newspaper layout etc.). Translation pedagogy is perhaps the best indication of the changing boundaries of translation processes.

The widening of the boundaries of translation process results in the intensified search for appropriate methodologies. One indication of this is the repeated reconceptualization or further elaboration of Jakobson’s typology of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation at the intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication. This broadening of Jakobson’s works must be integrated into the growth of translation studies, where the signs of methodological innovation are accompanied by steps toward semiotics. Semiotics, on the other hand, seems to be undergoing an actualization of translation issues, and the concept of semiotranslation refers to the possibilities of methodological synthesis between translation studies and semiotics. Methodological innovation is needed both in translation studies as a separate discipline and within semiotics in its complex interpretation of communication processes. Translating into the totality of culture exists side by side with culture as total translation.


sono diventati espliciti alle condizioni nuove. Il lato visivo di un testo verbale (traduzione), una volta un problema invisibile che riguardava la qualità del testo, è diventato visibile grazie al confronto fra traduzione e adattamenti filmici delle opere testuali. L’ambiente dei nuovi multimedia e dei nuovi media ha reintrodotto la rilevanza degli antichi metodi di formazione del traduttore, che nelle prime fasi d’insegnamento davano grande importanza alla traduzione intralinguistica sotto forma di traduzione interdiscorsiva o manipolazione testuale (versioni ridotte, ricomposizioni, eccetera). Un’altra nuova tendenza nella formazione dei traduttori riguarda l’introduzione della traduzione intersemiotica, per ragioni sia pedagogiche (comprensione dell’aspetto visivo del testo) sia pragmatiche (tradurre in un ambiente visivo, come per esempio l’impaginazione di un giornale, eccetera). La pedagogia della traduzione è forse il segno migliore del cambiamento dei confini dei processi traduttivi.

L’ampliarsi dei confini del processo traduttivo ha come risultato una ricerca più intensa di metodologie appropriate. La riconcettualizzazione ripetuta o l’ulteriore elaborazione della tipologia Jakobsoniana di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica come punto d’incrocio tra semiotica, scienza della traduzione, analisi della cultura e comunicazione è indicativa di questo fenomeno. Questo patrimonio allargato delle opere di Jakobson va inserito nello sviluppo della scienza della traduzione, dove i segni dell’innovazione tecnologica sono accompagnati dal progresso verso la semiotica. La semiotica, invece, sembra sottoposta all’attualizzazione delle questioni traduttive e il concetto di «semiotraduzione» fa riferimento alle possibilità di sintesi metodologica tra scienza della traduzione e semiotica. È necessaria un’innovazione metodologica sia nella scienza della traduzione in quanto disciplina a sé stante, sia all’interno della semiotica nella complessa interpretazione dei processi di comunicazione. La traduzione della cultura nella sua totalità esiste fianco a fianco con la cultura come traduzione totale.


Notes

* Special thanks are due to the Estonian Science Foundation (ETF) for its support (Grant no. 5717), which granted us the time to devote to writing this article.

1 An affinity with Jakobson’s typology and thought is discussed in Peeter Torop’s model of total translation. As a taxonomic model of the translation process it is based on ‘the general characteristics of text and communication and leads to the conviction that a description of the translation process is applicable to other types of text communication’ (Torop 2000a:72). For further details, see Torop (1995, 2000b).

2 Although references to Jakobson’s distinction between three kinds of translation are generally made on the basis of his article published in 1959, one can be reminded here that Jakobson spoke of the three kinds of translation already in 1952 in his concluding report at the conference of anthropologists and linguists. This report was also published as an article in 1953 (Jakobson 1971 [1953]). Here, Jakobson discussed the possibilities of interpreting the word ‘pork’: it can be interpreted by using the intralingual method, that is, by circumlocution; or it can be interpreted by using interlingual method, that is, it can be translated into another language; and finally, it can be interpreted by using the intersemiotic method if, for example, non-linguistic pictorial signs are resorted to (Jakobson 1971 [1953]:566).

3 Toury softens his objection stating that Jakobson’s ‘preference [for linguistic translating] is understandable, if not to say acceptable’ (Toury 1986:1113) – perhaps especially in view of the fact that, for Jakobson, language always remained the primary communication system and linguistics, respectively, the science around which other sciences of man centered (Jakobson 1971 [1961], 1971).

4 For an overview of Eco’s interpretation of Hjelmslev, see Eco (2001:82-88).

5 In his book Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003), Eco sets forth a similar classification with slight but nonetheless significant adjustments comparable to those made by Toury in his revision of Jakobson’s typology (1986). Compared to the classification presented in Experiences in Translation, in the subdivision of intrasystemic interpretation (interpretazione intrasistemica) Eco exchanges the positions of intralinguistic (intralinguistica) and intrasemiotic (intrasemiotica) interpretations. At the same time, in the subdivision of intersystemic interpretation (interpretazione intersistemica) he rearranges the order of the slightly rephrased types of interlinguistic interpretation, rewriting, and translation between other semiotic systems. Eco now gives: first, interpretazione intersemiotica, second, interpretazione interlinguistica, and last, rifacimento (Eco 2003: 236). In other words, Eco reorders his types according to the logic that ‘semiotic’ is a broader, more comprehensive category than ‘linguistic’ and should therefore come first.

Note

 

1 Nel modello di traduzione totale di Peeter Torop si discute l’affinità con la tipologia e il pensiero di Jakobson. In quanto modello tassonomico del processo traduttivo, si basa sulle «caratteristiche generali del testo e della comunicazione e porta all’idea che una descrizione del processo traduttivo è applicabile ad altri tipi di comunicazione» (Torop 2000a:72). Per ulteriori dettagli consultare Torop (1995, 2000b).

2 Anche se generalmente i riferimenti alla distinzione Jakobsoniana fra tre tipi di traduzione si fanno sulla base del suo articolo pubblicato nel 1959, in questo caso bisogna ricordare che Jakobson aveva parlato di tre tipi di traduzione già nel 1952 nella sua relazione finale a una conferenza di antropologi e linguisti. Questa relazione è stata anche pubblicata come articolo nel 1953 (Jakobson 1971 [1953]). Qui Jakobson discuteva le possibilità d’interpretare la parola «carne di maiale»: si può interpretarla usando il metodo intralinguistico, ovvero con la circonlocuzione; o si può interpretarla usando il metodo interlinguistico, ovvero si può tradurla in un’altra lingua; e infine si può interpretarla usando il metodo intersemiotico se, per esempio, si ricorre a segni pittorici non linguistici (Jakobson 1971 [1953]:566).

3 Toury smorza il suo dissenso affermando che «la preferenza» di Jakobson «[per la traduzione linguistica] è comprensibile, anche se non accettabile» (Toury 1986: 1113), forse proprio in vista del fatto che, per Jakobson, il linguaggio è sempre rimasto il sistema primario di comunicazione e la linguistica, rispettivamente, la scienza intorno a cui gravitavano la altre scienze umane (Jakobson 1971 [1961], 1971).

4 Per una panoramica dell’interpretazione di Hjelmslev da parte di Eco consultare Eco (2001:82-88).

5 Nel suo libro Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003), Eco mette in atto una classificazione simile con cambiamenti minimi ma comunque significativi, paragonabili a quelli fatti da Toury nella sua revisione della tipologia Jakobsoniana (1986). Facendo un confronto con la classificazione presentata in Experiences in Translation, nella suddivisione dell’interpretazione intrasistemica Eco scambia le posizioni delle interpretazioni intralinguistica e intrasemiotica. Allo stesso tempo, nella suddivisione dell’intepretazione intersistemica, riorganizza l’ordine dei tipi – leggermente riformulati – d’interpretazione interlinguistica, rifacimento e traduzione tra altri sistemi semiotici. Ora Eco espone per prima l’interpretazione intersemiotica, per seconda l’interpretazione interlinguistica e per ultimo il rifacimento (Eco 2003:236). In altre parole Eco riordina le tipologie in base alla logica che «semiotica» è una categoria più ampia, più generale di «linguistica» e perciò deve venire per prima.


6 The idea of translational processes taking place outside human culture transpiring in the rest of the biosphere, has been dealt with in the description of biotranslation in the article written by Kalevi Kull and Peeter Torop (2003). Translation is said to mean ‘that some signs in one Umwelt are put into correspondence with some signs in another Umwelt’ (Kull and Torop 2003:318).


6 Nella descrizione della biotraduzione presente nell’articolo scritto da Kalevi Kull e Peeter Torop (2003) si affronta l’idea che i processi traduttivi che avvengono al di fuori della cultura umana si espandono nel resto della biosfera. Si dice che la traduzione significa «che alcuni segni in un Umwelt corrispondono ad alcuni segni in un altro Umwelt» (Kull e Torop 2003:318).

 

 


References

 

Bassnett-McGuire, Susan (1980). Translation Studies. London/New York: Methuen.

Cattrysse, Patrick (1992). Film (adaptation) as translation: Some methodological proposals. Target 4 (1), 53–70.

– (2001). Multimedia and translation: Methodological considerations. In (Multi)Media Translation. Concepts, Practices, and Research, Yves Gambier and Henrik Gottlieb (eds.), 1–12. Amsterdam/Philadelphia: John Benjamins.

Caws, Mary Ann (1986). Literal or liberal: Translating perception. Critical Inquiry 13 (1), 49–63.

Chesterman, Andrew and Arrojo, Rosemary (2000). Shared ground in translation studies.Target 12 (1), 151–160.

Eco, Umberto (2001). Experiences in Translation. Toronto: University of Toronto Press.

– (2003). Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione. Milan: Bompiani.

Gentzler, Edwin (2003). Interdisciplinary connections. Perspectives: Studies in Translatology 11 (1), 11–24.

Gorlée, Dinda L. (1994). Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce. Amsterdam/Atlanta: Rodopi.

– (2004). On Translating Signs. Exploring Text and Semio-Translation. Amsterdam/New York: Rodopi. Gottlieb, Henrik (2003). Parameters of translation. Perspectives: Studies in Translatology 11 (3), 167–187.

Halliday, M. A. K. (2001). Towards a theory of good translation. In Exploring Translation and Multilingual Text Production: Beyond Content, Erich Steiner and Colin Yallop (eds.), 13–18. Berlin/New York: Mouton de Gruyter.

Herman, David (2004). Toward a transmedial narratology. In Narrative Across Media: The Languages of Storytelling, Marie-Laure Ryan (ed.), 47–75. Lincoln: University of Nebraska Press.


Riferimenti bibliografici

BASSNETT-MCGUIRE, S. 1980, Translation Studies, London/New York, Methuen.

CATTRYSSE, P. 1992, «Film (adaptation) as translation: Some methodological proposals», Target 4 (1):53-70.

CATTRYSSE, P.2001, «Multimedia and translation: Methodological considerations», in (Multi)Media Translation. Concepts, Practices, and Research,  a cura di Yves Gambier e Henrik Gottlieb, Amsterdam/Filadelfia, John Benjamins:1-12.

CAWS, M. A. 1986, Literal or liberal: Translating perception, Critical Inquiry 13 (1):49-63.

CHESTERMAN, A. e ARROJO, R. 2000, «Shared ground in translation studies», Target 12 (1):151-160.

ECO, U. 2001, Experiences in Translation. Toronto: University of Toronto Press.

ECO, U. 2003, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.

GENTZLER, E. 2003, «Interdisciplinary connections», in Perspectives: Studies in Translatology 11 (1):11-24.

GORLÉE, D. L. 1994, Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce, Amsterdam/Atlanta, Rodopi.

GORLÉE, D. L. 2004, On Translating Signs. Exploring Text and Semio-Translation, Amsterdam/New York, Rodopi.

GOTTLIEB, H. 2003, «Parameters of translation», in Perspectives: Studies in Translatology 11 (3):167-187.

HALLIDAY, M. A. K. 2001, «Towards a theory of good translation», in Exploring Translation and Multilingual Text Production: Beyond Content, a cura di Erich Steiner e Colin Yallop, Berlin/New York, Mouton de Gruyter:13-18.

HERMAN, D. 2004, «Toward a transmedial narratology», in Narrative Across Media: The Languages of Storytelling, a cura di Marie-Laure Ryan, Lincoln, University of Nebraska Press:47-75.


Holmes, James S. (1988). Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies.Amsterdam: Rodopi.

Jakobson, Roman (1971 [1968]). Language in relation to other communication systems. In Selected Writings II: Word and Language, 697–708. The Hague/Paris: Mouton.

– (1971 [1961]). Linguistics and communication theory. In Selected Writings II: Word and Language, 570–579. The Hague/Paris: Mouton.

– (1971). Linguistics in relation to other sciences. In Selected Writings II: Word and Language, 655–695. The Hague/Paris: Mouton.

– (1971 [1959]). On linguistic aspects of translation. In Selected Writings II: Word and Language, 260–266. The Hague/Paris: Mouton.

– (1971 [1953]). Results of a joint conference of anthropologists and linguists. In Selected Writings II: Word and Language, 554–567. The Hague/Paris: Mouton.

– (1985 [1977]). A few remarks on Peirce, pathfinder in the science of language. In Selected Writings VII: Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology, 1972–1982, Stephen Rudy (ed.), 248–253. Berlin: Mouton.

– (1985 [1974]). Communication and society. In Selected Writings VII: Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology, 1972–1982, Stephen Rudy (ed.), 98–100. Berlin: Mouton.

Kress, Gunther (2004). Media discourse-extensions, mixes, and hybrids: Some comments on pressing issues. Text 24 (3), 443–446.

Kull, Kalevi and Torop, Peeter (2003). Biotranslation: translation between Umwelten. In Translation Translation, Susan Petrilli (ed.), 315–328. Amsterdam/New York: Rodopi.

Levý, Jiřý (1974). Iskusstvo perevoda [The art of translation]. Moscow: Progress.


HOLMES, J. S. 1988, Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies, Amsterdam, Rodopi.

JAKOBSON, R. 1971 [1968], «Language in relation to other communication systems», in Selected Writings II: Word and Language, The Hague/Paris, Mouton:697-708.

JAKOBSON, R. 1971 [1961], «Linguistics and communication theory», in Selected Writings II: Word and Language, The Hague/Paris, Mouton:570-579.

JAKOBSON, R. (1971), «Linguistics in relation to other sciences», in Selected Writings II: Word and Language, The Hague/Paris, Mouton:655-695.

JAKOBSON, R. 1971 [1959], «On linguistic aspects of translation», in Selected Writings II: Word and Language, The Hague/Paris, Mouton: 260-266.

JAKOBSON, R. 1971 [1953], «Results of a joint conference of anthropologists and linguists», in Selected Writings II: Word and Language, The Hague/Paris, Mouton:554-567

JAKOBSON, R. 1985 [1977], «A few remarks on Peirce, pathfinder in the science of language», in Selected Writings VII: Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology, 1972–1982, a cura di Stephen Rudy, Berlin, Mouton:248-253.

JAKOBSON, R. 1985 [1974], «Communication and society», in Selected Writings VII: Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology, 1972–1982, a cura di Stephen Rudy, Berlin, Mouton:98-100.

KRESS, G. 2004, «Media discourse-extensions, mixes, and hybrids: Some comments on pressing issues», in Text 24 (3):443-446.

KULL, K. e TOROP, P. 2003, «Biotranslation: translation between Umwelten», in Translation Translation, a cura di Susan Petrilli, Amsterdam/New York, Rodopi:315-328.

LEVÝ, J. 1974, Iskusstvo perevoda [The art of translation], Moscow, Progress.

LEVÝ, J. 1999, «Multimedia communication of the Biblical message», in Fidelity and Translation. Communicating the Bible in New Media, a cura di Paul A. Soukup and Robert Hodgson, New York, American Bible Society:119-131.


Nida, Eugene (1976). Framework for the analysis and evolution of theories of translation. In Translation: Applications and Research, R. W. Brislin (ed.), 66–79. New York: Gardner Press.

– (1999). Multimedia communication of the Biblical message. In Fidelity and Translation. Communicating the Bible in New Media, Paul A. Soukup and Robert Hodgson (eds.), 119–131. New York: American Bible Society.

Osimo, Bruno (2002). On psychological aspects of translation. Sign Systems Studies 30 (2), 607–627.

Petrilli, Susan (2003). Translation and semiosis. Introduction. In Translation Translation, Susan Petrilli (ed.), 17–37. Amsterdam/New York: Rodopi.

Poyatos, Fernando (1997). Aspects, problems and challenges of nonverbal communication in literary translation. In Nonverbal Communication and translation. New Perspectives and Challenges in literature, Interpretation and the Media, Fernando Poyatos (ed.), 17–47. Amsterdam/Philadelphia: John Benjamins.

Purchase, Helen C. (1999). A semiotic definition of multimedia communication. Semiotica 123 (3/4), 247–259.

Radó, György (1985). Basic principles and organized research of the history, theory and history of theory of translation. In Der Übersetzer und seine Stellung in der Öffentlichkeit, H. Bühler (ed.). Vienna: Wilhelm Braumüller.

Remael, Aline (1995). Film adaptation as translation and the case of the screenplay. In Translation and Manipulation of Discourse, Peter Jansen (ed.), 125–132. Leuven: CETRA.

– (2001). Some thoughts on the study of multimodal and multimedia translation. In (Multi)Media Translation. Concepts, Practices, and Research, Yves Gambier and Henrik Gottlieb (eds.), 13–22. Amsterdam/Philadelphia: John Benjamins.


NIDA, E. 1976, «Framework for the analysis and evolution of theories of translation», in Translation: Applications and Research, a cura di R. W. Brislin, New York, Gardner Press:66-79.

OSIMO, B. 2002, «On psychological aspects of translation», in Sign Systems Studies 30 (2):607-627.

PETRILLI, S. 2000, «Traduzione e semiosi: considerazioni introduttive», in La Traduzione, a cura di Susan Petrilli, Roma, Melteni:8-21.

POYATOS, F. 1997, «Aspects, problems and challenges of nonverbal communication in literary translation», in Nonverbal Communication and translation. New Perspectives and Challenges in literature, Interpretation and the Media, a cura di Fernando Poyatos, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins:17-47.

PURCHASE, H. C. 1999, «A semiotic definition of multimedia communication», in Semiotica 123 (3/4):247-259.

RADÓ, G. 1985, «Basic principles and organized research of the history, theory and history of theory of translation», in Der Übersetzer und seine Stellung in der Öffentlichkeit, a cura di H. Bühler, Vienna, Wilhelm Braumüller.

REMAEL, A. 1995, «Film adaptation as translation and the case of the screenplay», in Translation and Manipulation of Discourse, a cura di Peter Jansen, Leuven, CETRA:125-132.

REMAEL, A. 2001, «Some thoughts on the study of multimodal and multimedia translation», in (Multi)Media Translation. Concepts, Practices, and Research, a cura di Yves Gambier and Henrik Gottlieb, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins:13-22.


Rudy, Stephen and Waugh, Linda (1998). Jakobson and structuralism. In Semiotik: Ein Handbuch zu den zeichentheoretischen Grundlagen von Natur und Kultur / Semiotics: A Handbook on the Sign-Theoretic Foundations of Nature and Culture. 2. Teilband, vol. 2, Roland Posner, Klaus Robering, and Thomas A. Sebeok (eds.), 2256–2271. Berlin/New York: Walter de Gruyter.

Schäffner, Christina (1998). From ‘good’ to ‘functionally appropriate’: Assessing translation quality. In Translation and Quality, Christina Scha ̈¤ner (ed.), 1–5. Clevedon: Multilingual Matters.

Schulte, Rainer (1980). Translation: An interpretative act through visualization. Pacific Moana Quarterly 5 (1), 81–86.

Stecconi, Ubaldo (2004). Interpretive semiotics and translation theory: The semiotic condi- tions to translation. Semiotica 150 (1/4), 471–489.

Steiner, George (1998 [1975]). After Babel: Aspects of Language and Translation. Oxford: Oxford University Press.

Torop, Peeter (1995). Total’nyj perevod [Total translation]. Tartu: Tartu University Press.

– (2000a). Intersemiosis and intersemiotic translation. S: European Journal for Semiotic Studies 12 (1), 71–100.

– (2000b). La traduzione totale. Modena: Guaraldi Logos. —(2000c). Towards the semiotics of translation. Semiotica 128 (3/4), 597–609. —(2001). Coexistence of semiotics and translation studies. In Mission, Vision, Strategies, and Values, Pirjo Kukkonen and Ritva Hartama-Heinonen (eds.), 211–220. Helsinki: Helsinki University Press.

– (2002). Translation as translating as culture. Sign Systems Studies 30 (2), 593–605.

Toury, Gideon (1986). Translation: A cultural-semiotic perspective. In Encyclopedic Dictionary of Semiotics, vol. 2, Thomas A. Sebeok (ed.), 1111–1124. Berlin: Mouton de Gruyter.


RUDY, S. and WAUGH, L. 1998, «Jakobson and structuralism», in Semiotik: Ein Handbuch zu den zeichentheoretischen Grundlagen von Natur und Kultur/Semiotics: A Handbook on the Sign-Theoretic Foundations of Nature and Culture. 2. Teilband, vol. 2, a cura di Roland Posner, Klaus Robering, and Thomas A. Sebeok, Berlin/New York, Walter de Gruyter:2256-2271.

SCHÄFFNER, C. 1998, «From ‘good’ to ‘functionally appropriate’: Assessing translation quality», in Translation and Quality, a cura di Christina Schäffner, Clevedon, Multilingual Matters:1-5.

SCHULTE, R. 1980, «Translation: An interpretative act through visualization», in Pacific Moana Quarterly 5 (1):81-86.

STECCONI, U. 2004, «Interpretive semiotics and translation theory: The semiotic condi- tions to translation», in Semiotica 150 (1/4):471-489.

STEINER, G. 1998 [1975], After Babel: Aspects of Language and Translation, Oxford, Oxford University Press.

TOROP, P. 1995, Total’nyj perevod [Total translation], Tartu, Tartu University Press.

TOROP, P. 2000a, «Intersemiosis and intersemiotic translation», in S: European Journal for Semiotic Studies 12 (1):71-100.

TOROP, P. 2000b, «Towards the semiotics of translation», in Semiotica 128 (3/4):597-609.

TOROP, P. 2001, «Coexistence of semiotics and translation studies», in Mission, Vision, Strategies, and Values, a cura di Pirjo Kukkonen e Ritva Hartama-Heinonen, Helsinki: Helsinki University Press:211-220.

TOROP, P. 2002, «Translation as translating as culture», in Sign Systems Studies 30 (2):593–605.

TOROP, P. 2010, La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

TOURY, G. 1986, «Translation: A cultural-semiotic perspective», in Encyclopedic Dictionary of Semiotics, vol. 2, a cura di Thomas A. Sebeok, Berlin, Mouton de Gruyter:1111-1124.


Wilss, Wolfram (1982). The Science of Translation. Problems and Methods. Tübingen: Narr.

– (2004). Translation studies — the state of the art. Meta 49 (4), 777–785.


WILSS, W. 1982, The Science of Translation. Problems and Methods, Tübingen, Narr.

WILLS, W. 2004, «Translation studies – the state of the art», in Meta 49 (4):777-785.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Analisi testuale dell’originale

 

 


2.1 Contenuto

Il saggio che ho tradotto s’intitola «Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies» ed è stato scritto a quattro mani nel 2007 da Peeter Torop ed Elin Sütiste, allora dottoranda dell’Università di Tartu. Come si evince già dal titolo, l’articolo propone un’analisi dei confini processuali della traduzione e del rapporto tra scienza della traduzione e semiotica.

La trattazione comincia con la constatazione che, per riuscire a comprendere l’evoluzione delle scienze – di qualunque scienza, che sia la scienza della traduzione, la sociologia, o la psicologia –, bisogna per prima cosa comprendere i metalinguaggi usati e i modi di pensare che si celano dietro quest’ultimi nei diversi periodi storici. Per dirla con parole che ricordano quelle di Lyotard, bisogna analizzare le «piccole narrative» (Lyotard:74) tramite le quali si esprimono i concetti all’interno di una scienza, senza perdere di vista il medium utilizzato per esprimerli.

Nella nostra società, soprattutto nell’ultimo secolo, i mezzi di comunicazione si sono rapidamente evoluti e si è verificato un grande cambiamento nei metodi di rappresentazione, caratterizzati sempre più da una crescente presenza di multimedialità e ipermedialità. Gunther Kress ha affrontato in modo molto esaustivo questo argomento, constatando che i cambiamenti tecnologici hanno portato alla compenetrazione di diverse forme di rappresentazione – immagine e testo scritto, per esempio – e alla compresenza di diversi media in un solo testo:

Multimedia messaging is already available. […] a Californian company is developing ‘multimodality’ in the form of programs that convert gesture to writing. […] the possibility of direct voice-to-machine interaction has existed for some time now, even though with limitations. There are the major forms of transduction which already exist – in the latter case from a mode based on sound to a mode based on graphic substance. All we can do at the moment is […] to imagine the characteristics of a theory which can account for the processes of making meaning in the environments of multimodal representation in multimediated communication, of cultural plurality and of social and economic instability. Such a theory will represent a decisive move away from the assumptions of mainstream theories of the last century about meaning, language and learning. The major shifts concern a whole range of hitherto taken-for-granted understandings, for instance about stable systems of representation, about the stability (guaranteed by the force of convention) of rule-systems, about the arbitrariness of the constitution of signs (Kress 2003:245).

 

Tenendo ben presente quest’evoluzione e osservando come nella nostra quotidianità l’immagine ormai è un elemento quasi imprescindibile per un testo scritto (siti web, le icone di qualsiasi programma informatico di elaborazione testuale) appare inevitabile la graduale scomparsa delle regole fisse legate al concetto di «testo», così come a quello di «traduzione». Un metatesto (testo tradotto) non può prescindere dal prototesto, dal suo originale, ma la domanda che s’interroga su “cosa è testo” complica ulteriormente la questione: sono proprio i confini processuali analizzati da Sütiste e Torop a sfumare sempre di più e a rendere difficile l’individuazione di un confine netto tra ciò che è traduzione e ciò che non lo è. Le categorie classificatorie della narratologia di Genette non possono più esserci d’aiuto, proprio a causa di quei continui cambiamenti che rendono sdrucciolevole il terreno su cui si muove la scienza della traduzione.

Superando la questione dei media in cui si presenta una traduzione e di quanto essi possano influenzare il significato, l’unico appiglio che «enable(s) different areas of study to be combined in terms of their common methodology» (Sütiste, Torop:2) è il concetto di «invarianza»[2] che rappresenta quella costante comune a diverse discipline in grado di mettere ordine tra le numerose variabili. Nel caso della scienza della traduzione, tra il concetto di «traduzione», i media di rappresentazione, la cultura della traduzione, la ricezione del testo e tutte le trasformazioni insite nel processo traduttivo. Di questo concetto si occupa ampiamente il semiotico bulgaro Lûdskanov, mettendo in evidenza come sia inevitabile un approccio semiotico alla traduzione.

Nel saggio di Sütiste e Torop viene messo in evidenza come la scienza della traduzione non sia ancora una disciplina unificata a livello metodologico, soprattutto a causa della sua “giovane età”. Gli studi sulla traduzione – translation studies – sono una disciplina nata nel secolo scorso e sviluppatasi soprattutto negli ultimi decenni, a partire dalle tre tendenze della scienza della traduzione individuate da Nida negli anni Settanta. Le teorie di Wolfram Wills hanno poi spostato il focus verso un orizzonte puramente metodologico – la necessità di una metodologia comune sia alla teoria, sia alla pratica della traduzione, considerata anche in quanto fenomeno culturale – mentre il contributo di James Holmes ha puntato verso la creazione di una teoria del processo traduttivo tenendo conto della ricezione del testo nella cultura ricevente. Tutte queste teorie sono tutt’oggi valide, anche se quello che manca è un vero dialogo multidisciplinare, soprattutto in Italia, dove la traduzione è considerata pura letteratura e non viene analizzata da un punto di vista scientifico, e ancor meno semiotico.

Tornando alla domanda «da cosa capiamo che una traduzione è una traduzione?», la risposta non è certo semplice. Innanzitutto bisogna riconoscere un confine tra la traduzione e il testo originale, e poi la traduzione e la cultura ricevente. Una traduzione è facilmente riconoscibile da numerosi tratti della sua struttura e a questo proposito si è già espresso il teorico slovacco della letteratura Anton Popovič, teorizzando il concetto di «traduzionalità»[3]. Un metatesto – in quanto prodotto di una metacomunicazione – può presentare un livello di traduzionalità più o meno elevato, ovvero possiamo accorgerci più o meno immediatamente che il testo in questione è stato tradotto. Un elemento determinante nel riconoscere la qualità di una traduzione, inoltre, è «the perceptual integrity of translation» (Sütiste, Torop:3), ovvero una buona struttura linguistica, la coerenza semiotica e la capacità del testo di attivare delle fughe d’immaginazione, nonché il fatto che la traduzione sia «perceptually an integrated whole and can be effectively visualized in the imagination of the reader» (Sütiste, Torop:4).

Il fenomeno della multimedialità ha perciò contributo alle riflessioni sulla natura semiotica della traduzione, ma si deve fare un passo indietro per citare la preziosissima classificazione jakobsoniana[4] di traduzione interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica, espressa nel suo famoso articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione». Queste categorie sono state riviste nel corso degli anni da molti studiosi, tra cui Gideon Toury, Umberto Eco e Susan Petrilli. L’articolo di Sütiste e Torop prende in esame tutte queste rielaborazioni della classificazione traduttiva di Jakobson, evidenziandone le differenze e le premesse di base. È interessante rilevare come lo studioso israeliano consideri la «differentia specifica» della traduzione proprio il fatto che sia un’attività semiotica, ovvero che si muova tra sistemi di segni diversi:

[…] from a semiotic point of view, the differentia specifica of this type of process, is of a twofold nature:

(a) like any other semiotic entity, it is part of the system to which it belongs (namely, the “target,” or “recipient” system);

(b) unlike “ordinary” (that is, primary, underived) semiotic entities, it is also a representation of another entity, belonging to another system, in a certain way and/or to a certain extent, by virtue of the invariant common to it and to theinitial entity (Toury 1980:13).

 

Per quanto riguarda la tipologia traduttiva, Toury divide la traduzione in intersemiotica e intrasemiotica, proponendo una classificazione generale dei fenomeni interpretative di un segno verbale senza concentrarsi sul linguaggio naturale – allontanandosi, quindi, dal punto di partenza di Jakobson.

La classificazione proposta da Eco, invece, è molto più complessa e orientata verso la catalogazione dei fenomeni traduttivi “veri e propri”. Secondo il semiotico italiano, infatti, Jakobson non avrebbe compreso bene i concetti peirciani facendosi trarre in inganno dallo stile del grande semiotico americano e accostando il concetto di «traduzione» a quello più generico di «interpretazione»:

È noto come il lessico peirciano sia mutevole e non di rado impressionistico, ed è facile accorgersi che […], Peirce usi translation in senso figurato: non come una metafora, bensì come pars pro toto (nel senso che assume traduzione come sineddoche di interpretazione) (Eco 2003:227).

 

Petrilli, dal canto suo, presenta una tipologia globale dei processi traduttivi sia tra sistemi di segni diversi, sia all’interno dello stesso sistema di segni. La sua classificazione, però, risulta incoerente dal punto di vista terminologico poiché teorizza l’esistenza di alcune tipologie traduttive – come la traduzione endolinguale – senza proporne poi un corrispettivo con il prefisso opposto.

Nonostante le varie rielaborazioni successive, bisogna tener presente che le considerazioni di Jakobson sulla traduzione non prescindevano affatto dalla teoria generale della comunicazione, sia interpersonale sia intrapersonale. Ampliando l’orizzonte di analisi si può quindi arrivare ad affermare che «to understand communication means to understand the infinite transformation processes of culture, including translation» (Sütiste, Torop:17).

La summa delle riflessioni di Sütiste e Torop si può riassumere nella consapevolezza che la scienza della traduzione necessita di un approccio semiotico e di una metodologia comune per ampliarsi ed evolversi, mantenendo come punto di partenza e concetto cardine la tipologia jakobsoniana quale «intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication».

2.2 Struttura

La struttura del saggio appare molto chiara ed efficace, rispetta i parametri del genere in cui si inscrive il testo e rende la lettura abbastanza scorrevole. L’articolo è diviso in quattro paragrafi, ciascuno dei quali affronta un aspetto specifico dell’argomento generale indicato dal titolo, ed è corredato di una breve introduzione.

Il primo paragrafo s’intitola «Sull’identità della scienza della traduzione» ed è una panoramica dell’evoluzione di questa disciplina negli ultimi decenni. Risulta scorrevole, piuttosto breve e con due sole citazioni ad altri testi.

Anche il secondo paragrafo, «L’aspetto della semiotica della traduzione», non è particolarmente lungo, ma sono presenti numerosi riferimenti ad altri testi. In questo paragrafo si affronta l’annosa questione “cosa è traduzione” e, a sostegno della tesi di fondo, sono forniti diversi estratti da pubblicazioni di altri studiosi, quali Cattrysse, Chesterman e Arrojo e Remael.

Il terzo paragrafo, intitolato «La prospettiva di Jakobson», è il più lungo tra i quattro ed è quello in cui si affronta la tipologia jakobsoniana e la sua rielaborazione nel corso degli anni da parte di diversi studiosi che si sono occupati di scienza della traduzione.

Nel quarto e ultimo paragrafo «Conclusione: i confini processuali» troviamo un breve riassunto delle riflessioni dei due autori che funge, appunto, da conclusione del saggio.

2.3 Qualche considerazione aggiuntiva

Sarebbe del tutto superfluo dilungarsi in una disquisizione sullo stile degli autori di questo saggio, poiché il testo è una pubblicazione accademica usata come parte di una tesi di dottorato. Però si può comunque riflettere sul modo in cui è stato scritto.

Il lessico appare appropriato e la ricerca terminologica è evidente, come si può facilmente intuire non solo dalla terminologia, ma anche dall’ampia documentazione fornita dalle numerose citazioni a sostegno della tesi espressa. La sintassi è caratterizzata dalla presenza di paratassi, i periodi sono di media lunghezza e non sono presenti frasi particolarmente involute o oscure. Essendo un trattato di semiotica di traduzione, però, il lessico molto specifico e la complessità dei contenuti rendono la lettura poco scorrevole. Per un testo di questo tipo, infatti, è necessaria una lettura attenta e molta concentrazione da parte del lettore.

Nonostante gli autori non siano di madrelingua inglese, mostrano una perfetta padronanza della lingua in cui scrivono e non sono presenti errori di alcun tipo.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Analisi traduttologica

 

 


3.1 Introduzione

Dopo aver tradotto il saggio di Sütiste e Torop ho capito che il concetto imprescindibile alla base di tutte le riflessioni sul rapporto tra semiotica e scienza della traduzione presuppone che la traduzione – intesa come semiosi, ma a maggior ragione anche come traduzione interlinguistica – sia considerata un insieme di processi traduttivi intersemiotici. Quando facciamo associazioni mentali osservando un oggetto compiamo un atto semiotico, ma la questione si complica quando dobbiamo tradurre un testo scritto in una lingua diversa da quella dell’originale o, per usare un termine coniato da Lûdskanov, in un diverso «linguaggio d’intermediazione»:

Il traduttore deve individuare il significato facendo riferimento a qualcosa. Questo “qualcosa” è il suo “sistema di riferimenti”. Per i traduttori e per tutti i bilingui, questo sistema è un metalinguaggio in cui deve essere codificata la conoscenza della lingua della cultura emittente, della lingua della cultura ricevente e della realtà riflessa in entrambe le lingue (Lûdskanov in Osimo 2008:XIII-XIV).

Per prima cosa, durante la lettura, ogni simbolo – parola – che leggiamo scatena nella nostra mente una serie pressoché infinita di interpretanti, ovvero di segni mentali tramite i quali interpretiamo le parole scritte. Questa è una prima forma di traduzione intersemiotica, ovvero una traduzione da un codice verbale scritto al nostro codice mentale. La presenza di un «linguaggio interno» è stata teorizzata negli anni Trenta dallo psicolgo russo Lev Vygotskij durante i suoi studi sulla relazione tra linguaggio e pensiero nei bambini e negli adulti. Il linguaggio interno è un linguaggio particolare, a sé, che necessita di una traduzione nel linguaggio esterno – quello naturale, con cui ci esprimiamo in qualsiasi atto di comunicazione interpersonale – proprio per le sue caratteristiche intrinseche:

La prima e più importante caratteristica del linguaggio interno è la sua particolare sintassi. […] Questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del linguaggio interno rispetto a quello esterno. […] conserva il predicato e le parti della proposizione che gli sono legate a spese dell’omissione del soggetto e delle parole che gli sono legate (Vygotskij in Osimo 2002:139).

Già a questo livello, quindi, avviene una prima traduzione interlinguistica e intersemiotica spontanea, perché traduciamo automaticamente le parole di una lingua straniera in interpretanti nella nostra lingua madre. La componente intersemiotica si ha poiché si verifica un passaggio dalla parola al pensiero, ossia un processo di «volatilizzazione»:

Qui abbiamo un processo […] dall’esterno all’interno, un processo di volatilizzazione del discorso nel pensiero. Da qui la struttura di questo linguaggio e tutte le sue differenze rispetto alla struttura del linguaggio esterno (Vygotskij in Osimo 2002:138).

Quando poi ci accingiamo a produrre un metatesto scritto, la traduzione interlinguistica si compie del tutto grazie a un ulteriore passaggio di traduzione intersemiotica: dal linguaggio mentale traduciamo in linguaggio verbale scritto – ma questa volta in un’altra lingua – il materiale mentale formatosi dalla prima fase. Questa seconda fase si chiama «materializzazione del pensiero»:

[…] il linguaggio interno è una formazione particolare per la sua natura psicologica, un tipo particolare di attività linguistica, che ha caratteristiche assolutamente specifiche e sta in un rapporto complesso con gli altri tipi di attività linguistica. […] Il linguaggio esterno è un processo di trasformazione del pensiero nella parola, la sua materializzazione e oggettivazione (Vygotskij in Osimo 2002:138).

Oggi questi concetti possono sembrare scontati, soprattutto a chi si occupa da anni delle riflessioni sul rapporto tra semiotica e traduzione, ma non è sempre stato così. La scienza della traduzione è una scienza molto giovane e ancora oggi non molto diffusa in Italia, perché il nostro ambiente accademico è lungi dal considerare la traduzione – soprattutto la pratica quotidiana della traduzione – una scienza. In Italia paghiamo le conseguenze di una classe di studiosi e accademici antiquata e rigida nel sostenere l’obsoleta distinzione tra scienza e letteratura. La traduzione e gli studi riguardanti questa materia ricadono nell’ambito della “letteratura” intesa come insieme di opere letterarie, perciò non viene loro riservato un approccio scientifico. A tale proposito si è espresso lo studioso bulgaro Aleksandăr Lûdskanov nella sua pubblicazione, uscita nell’edizione italiana a cura di Bruno Osimo nel 2008, Un approccio semiotico alla traduzione:

[…] i primi passi dei fautori della concezione linguistica della traduzione hanno incontrato una forte resistenza da parte degli esponenti della concezione teorico-letteraria (soprattutto dei traduttori stessi). Questi contestavano la natura linguistica del processo traduttivo che, secondo loro, avrebbe carattere puramente letterario (o quasi) (Lûdskanov 1967:61).

Leggendo questo estratto, però, ci rendiamo subito conto che, per comprendere a fondo il significato delle parole dello studioso bulgaro, è necessario specificare che con «concezione linguistica» egli intendeva  quella che noi chiamiamo «concezione scientifica», ossia semiotica, la controparte di quella concezione che fa ricadere la scienza della traduzione all’interno del grande gruppo delle letterature comparate. In base a questa concezione, imperante nel nostro Paese, per la traduzione letteraria è necessario un approccio letterario, quindi a rigor di logica per ogni tipo di testo sarà necessario un approccio particolare:

Si pensi al punto di vista molto diffuso e in sé giusto secondo cui il traduttore di testi scientifici (per esempio un trattato di chimica organica o zoologia) deve avere conoscenze nei rispettivi àmbiti scientifici. Queste conoscenze però sono necessarie unicamente alla realizzazione dell’analisi extralinguistica. Questo incontestabile fatto ci permette di affermare che la traduzione di testi scientifici di questo tipo è di natura chimica o zoologica e richiede un approccio chimico o zoologico? (Lûdskanov 1967:62-63).

È evidente l’ironia di fondo di Lûdskanov ma, nonostante il suo prezioso contributo, in Italia l’approccio semiotico alla traduzione resta quasi inesistente e gli accademici che si occupano dell’insegnamento di questa disciplina in numerosi atenei potranno giovarsi di queste riflessioni. Considerata la natura del saggio che ho tradotto, oltre alla tradizionale analisi traduttologia in cui individuo e spiego i concetti cardine di lettore modello, dominante e strategia traduttiva, mi accingo a fornire una panoramica cronologica dell’evoluzione del rapporto tra semiotica e scienza della traduzione, che è andato sviluppandosi soprattutto negli ultimi sessant’anni grazie a numerosi contributi. Il tema è talmente ampio che sarebbe sciocco prefiggersi come scopo quello di delineare una panoramica esaustiva e approfondita di tutti i contributi dati in questo campo negli ultimi decenni. Per questo motivo mi concentrerò su alcuni autori – o su alcuni concetti elaborati da questi autori – che ho incontrato durante il mio percorso di studi e che hanno stimolato la mia curiosità.

 

3.2 La dominante e il residuo traduttivo: Jakobson e la semiotica della traduzione

Il punto di partenza delle mie riflessioni non può che essere l’opera di Roman Jakobson, personalità poliedrica e complessa, nonché pilastro in molteplici discipline: linguistica, critica letteraria, semiotica, filologia e molte altre. Ma, soprattutto, è di Jakobson la famosa tipologia della traduzione – interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica – rielaborata più volte negli anni ed esaminata nell’articolo di Torop e Sütiste. Jakobson espone per la prima volta la sua tipologia nell’articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione», che, però, non è stato del tutto compreso dagli studiosi europei: si è diffusa la convinzione che Jakobson, parlando di traduzione intralinguistica e intersemiotica, parlasse di un tipo di traduzione totalmente diverso da quella interlinguistica. Quando Jakobson parla del processo traduttivo come intersemiotico e intralinguistico, non vuole fare riferimento soltanto a processi traduttivi diversi da quello interlinguistico, ma alla traduzione vera e propria. Non bisogna dimenticare che Jakobson aveva già ampiamente studiato Peirce, e si era anche già allontanato dalla semiologia saussuriana, criticandola in termini peirceiani. Jakobson pone alla base delle sue riflessioni il secondo elemento della significazione secondo Peirce, l’interpretante, che nasce proprio nella mente soggettiva dell’individuo: l’interpretante è nella mente dell’interprete. E questo elemento è riconducibile al discorso interno di Vygotskij: si tratta di decodificare mentalmente un segno e di collegarlo a un oggetto, collegamento che ha una coincidenza solo parziale con quello operato da altre persone che parlano la stessa lingua, poiché in ognuno di noi nasce una lunga serie di interpretanti diversi:

For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which is more fully developed”, as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Jakobson 1959:261).

Da queste riflessioni si evince che ogni processo traduttivo interlinguistico può essere considerato un insieme di processi traduttivi intersemiotici:

[…] intersemiotic translation or transmutation is an in interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems (Jakobson 1959:261).

Un altro problema che ha portato molti studiosi a interpretare in modo forse incompleto l’articolo di Jakobson è l’aggettivo «linguistic» nel titolo: Jakobson suggeriva un approccio scientifico alla traduzione, mentre nell’Europa Occidentale – a causa del’enfasi saussuriana sulla componente verbale – l’aggettivo linguistico è stato interpretato in riferimento a un testo senza alcuna implicazione extraverbale. Jakobson partiva da premesse totalmente diverse rispetto agli studiosi europei, considerava la traduzione e la lingua da un punto di vista scientifico, molto vicino a quello della matematica e della fisica:

[…] linguistics is recognized both by anthropologists and pychologists as the most progressive and precise among sciences of man and, hence, as a methodological model for the remainder of those disciplines (Jakobson 1967:656).

È abbastanza chiaro che l’approccio jakobsoniano alla traduzione, imbevuto della semiotica peirceiana e inserito in un contesto in cui la traduzione è considerata una scienza, sia stato la prima grande svolta nell’evoluzione della scienza della traduzione, senza la quale oggi non potremmo nemmeno concepire un approccio semiotico alla traduzione e baseremmo le nostre riflessioni solo sulla dicotomia signifiant-signifié di Saussure.

Alla luce di tutte queste affermazioni, la dominante applicata nella traduzione del saggio di Sütiste e Torop è sicuramente orientata verso la precisa e impeccabile trasposizione del contenuto del prototesto. Durante la traduzione è stato inevitabile considerare non solo la forma, ma anche il contenuto di ciò che stavo traducendo, e questo mi ha spinto a privilegiare scelte non addomesticanti – anche se, considerata la natura del testo, non ho incontrato frasi che necessitassero di essere “addomesticate”, ovvero rese più vicine alla cultura ricevente. La dominante nella mia traduzione si è fondata, quindi, sulla necessità di rendere chiari i concetti enunciati nel prototesto, senza però rinunciare alla precisione terminologica e all’esattezza lessicale in favore di generalizzazioni che avrebbero impoverito il testo o alterato il senso delle enunciazioni.

3.3 Strategia traduttiva

3.3.1 Una questione d’invariante

Ho potuto attuare senza difficoltà una strategia traduttiva che avesse come dominante la piena conservazione del contenuto del prototesto anche grazie al fatto che il mio lettore modello è un lettore adulto, colto e specializzato nella materia e nell’argomento di cui tratta il saggio in questione. Essendo un articolo di scienza della traduzione – nonché parte di una tesi di dottorato dell’Università di Tartu – il prototesto sarà letto da studiosi di scienza della traduzione, teorici, semiotici e, presumibilmente, accademici in generale. All’individuazione di questo tipo di lettore modello si lega anche la mancanza di un cospicuo apparato metatestuale, proprio perché la presenza di lessico specialistico in un articolo pubblicato su una rivista specializzata Semiotica fa sì che non ci sia bisogno di note esplicative che avvicinino il lettore italiano al testo. La precisione lessicale elimina casi di ambiguità nella cultura ricevente, ulteriormente ridotti dalla totale mancanza di realia o riferimenti culturali impliciti alla cultura emittente.

Perciò alla base della mia strategia traduttiva, per dirlo in termini un po’ più semiotici, c’è stato il trasferimento di un nucleo informativo necessario e per forza presente sia nel prototesto sia nel metatesto. Questo mi permette di riallacciarmi al pensiero di Aleksandr Lûdskanov, che ho già citato nel paragrafo 3.1. Bisogna per prima cosa affermare che l’intento di Lûdskanov era quello di teorizzare e riuscire a mettere in pratica la traduzione automatica: il suo scopo ha certamente contribuito a rendere il suo approccio alla traduzione il più scientifico possibile. Non si deve però fare l’errore di considerare le riflessioni di questo grande studioso pertinenti soltanto all’area della traduzione tecnico-scientifica, bensì sono utili e fondamentali per lo studio e l’approccio verso qualsiasi tipo di testo. Come ho già sottolineato nell’introduzione, la formazione dello studioso bulgaro non risente della divisione tra scienza e letteratura tipica dell’Europa occidentale: Lûdskanov rientra nel novero di quegli studiosi dell’Europa dell’Est che non considerano “scandaloso” un approccio scientifico anche alle cosiddette traduzioni “letterarie”.

Lûdskanov parla di approccio e punto di vista semiotico proprio perché crede che la semiotica, con la sua terminologia esatta e precisa, sia la scienza migliore per approcciarsi alla traduzione: la traduzione interlinguistica non è altro che la comunicazione di informazioni in codici diversi e la semiotica si occupa dello studio della trasformazione di un messaggio da un codice all’altro, ovvero della formazione del senso. Il rapporto tra semiotica e traduzione è imprescindibile, così come l’applicazione pratica delle sue teorie. La scienza della traduzione trova posto all’interno della semiotica: Lûdskanov non crede che il suo posto sia nella linguistica, nella letteratura o in altre discipline:

Una scienza della traduzione è possibile. Questa scienza deve essere una teoria generale delle trasformazioni semiotiche. (ciò definisce l’oggetto di studio di questa scienza.) Il suo posto è nella semiotica, non nella linguistica, né nella letteratura (Lûdskanov in Osimo 2008:XVII).

Dovendo riuscire a mettere in pratica la traduzione automatica, ovvero a ridurre il processo traduttivo a varianti e invarianti logiche – algoritmi traduttivi – per Lûdskanov era impensabile scindere la teoria dalla pratica. È per questo che le sue riflessioni possono esserci oggi molto utili.

Essendo la traduzione il trasferimento di informazioni da un codice all’altro, Lûdskanov teorizza un concetto fondamentale, quello di «invariante», ovvero quell’informazione che si trasmette in ogni atto di comunicazione:

Poiché lo scopo di qualsiasi atto comunicativo consiste nella trasmissione di una certa informazione, lo scopo del processo traduttivo è lo stesso, cioè trasmettere la medesima informazione. […] il processo che si è abituati a chiamare «traduzione» consiste in una trasformazione (sostituzione) di elementi linguistici del messaggio nel linguaggio naturale del prototesto con elementi di linguaggio naturale del metatesto, conservando la stessa informazione (Ludskanov 1967:41).

In ogni traduzione c’è una parte d’informazione che deve necessariamente essere trasferita da un codice in un altro. L’invariante è sicuramente un parametro molto importante per la valutazione delle traduzioni e per la pratica della traduzione stessa, perché permette un vero e proprio approccio scientifico (approccio che però non sostituisce la creatività nella traduzione). Anche nella traduzione interlinguistica, che sia traduzione di poesie, testi per il teatro, film, manuali, eccetera, bisogna essere certi che nulla si distrugga, ma qualcosa si crei, e in tutto questo resta comunque un residuo.

Il passaggio tra linguaggi naturali o tra diversi sistemi di segni implica per forza un residuo, una perdita – loss, in inglese -, ormai considerato parte integrante del processo traduttivo: «In qualsiasi forma di comunicazione, che comporti traduzione o no, si verifica una perdita» (Lefevere in Osimo 2004:104). Uno dei primi a individuare la presenza di un residuo in qualsiasi forma di comunicazione è stato John Dryden nel 1700 quando, alle prese con la traduzione di Chaucer, si è resto conto di non riuscire ad affrontare l’originale senza aiuti: «I grant that that something must be lost in all transfusion, that is, in all translations» (Dryden in Osimo 2004:33).

3.3.2 All’insegna della traduzionalità

Nel tracciare il percorso che ha portato alla formazione e consolidamento della scienza della traduzione sarebbe imperdonabile non citare il contributo apportato dallo slovacco Anton Popovič, soprattutto poiché la mia strategia traduttiva si è rivelata all’insegna di uno dei concetti coniati proprio da questo studioso, la «traduzionalità». Con «traduzionalità» Popovič intende tutte quelle caratteristiche che fanno capire che un testo è stato tradotto, che a monte della traduzione si trova un originale scritto in un diverso linguaggio naturale:

La traduzionalità è l’espressione della contraddizione proprio versus altrui nel testo, e può essere suddivisa in una serie di opposizioni come per esempio naturalizzazione (addomesticamento) versus erotizzazione, folklorizzazione versus urbanizzazione, storicizzazione (arcaizzazione) versus modernizzazione. […] parliamo di traduzionalità come norma di ricezione in una certa situazione comunicativa (Popovič 2006:48).

Nel tradurre l’articolo di Sütiste e Torop avevo bene in mente questo concetto e non temevo certo di creare un metatesto ad alta traduzionalità, anzi. Ma, come ho già spiegato nel paragrafo 3.2, il prototesto non presenta punti in cui ho dovuto ricorrere alla creazione di un apparato metatestuale, elemento che avrebbe sicuramente fatto aumentare l’indice di traduzionalità della mia traduzione.  Questo concetto non è certo qualcosa di astratto senza alcuna utilità pratica, ma si rivela molto utile nella valutazione delle traduzioni e, insieme al resto della terminologia precisa coniata da questo studioso, contribuisce a rendere sempre più scientifico l’approccio alla traduzione.

Superando e rendendo obsolete tutte le altre definizioni – testo di partenza, di arrivo, eccetera – Popovič conia i termini «prototesto» e «metatesto» per fare riferimento al testo originale e a quello tradotto. Ma la terminologia popoviciana non si ferma qui: la forte impostazione semiotica mutuata perlopiù dalla scienza sovietica della traduzione lo spinge ad aggiungere a tale terminologia termini nuovi nel caso in cui il concetto che vuole esprimere non sia ancora stato individuato. Conia, per esempio il termine «quasimetatesto» per descrivere quel tipo di metatesto che sfrutta le aspettative che ha il lettore modello per la formazione di un testo proprio, e anche il termine «metatesto conflittuale», ovvero una traduzione critica, polemica e negativa nei confronti dell’originale. Popovič approfondisce l’analisi dei concetti di «variante» e «invariante» postulati da Lûdskanov e condivide l’approccio scientifico alla traduzione:

Il tratto principale comune al testo della comunicazione primaria […] e di quella secondaria è il passaggio del nucleo semantico da un testo all’altro. Ciò che unisce i due testi viene definito «invariante intertestuale». Accanto a tale nucleo invariante nel metatesto ci sono “perdite”, o residui, e “guadagni”, che costituiscono la componente variante del testo (Popovič 2006:128).

Popovič considera controproducente la concezione di un approccio “letterario” alla traduzione, proprio perché proviene dall’Europa dell’Est come lo studioso bulgaro. In Slovacchia come in Bulgaria, tutti i tipi di traduzione prevedono un approccio scientifico, semiotico, siano essi testi chiusi o testi aperti (dal manuale d’istruzioni alla poesia). A questa concezione si ricollega la necessità di una precisione terminologica estrema da parte di Popovič , che considerava controproducente l’uso di aggettivi come «fedele» o «libero» per descrivere le traduzioni: «la contrapposizione empiricamente riconoscibile tra le cosiddette traduzioni “fedele” e “libera” non spiega le operazioni traduttive dal punto di vista funzionale, pertanto è inaccettabile» (Popovič in Osimo 2006:XVI). Dopo aver stabilito la necessità di fondamenta terminologiche solide nel campo della traduzione, Popovič va ricordato anche per le riflessioni sulle categorie dello stile, influenzate dalla stretta collaborazione con František Miko. Quest’ultimo si è distinto per la categorizzazione stilistica del testo e la sua impostazione è stata molto utile per l’analisi e la critica della traduzione di Popovič, permettendo di analizzare molti tipi di testo sulla base di categorie fisse e di raffrontarli con facilità. In questo modo, si possono raffrontare anche tutti i tipi di prototesto e metatesto, ovvero di traduzioni:

[…] tale sistema è utilizzabile nell’analisi del testo letterario, del testo scientifico e del testo di altri tipi, ossia ovunque si abbia a che fare con problemi di stile. In un certo senso la lingua del sistema dei mezzi espressivi è universale, perché possono essere utili nell’analisi di qualunque testo. […] Grazie al suo carattere universale, si può usare il sistema delle categorie stilistiche anche nel raffronto prototesto-metatesto (Popovič in Osimo 2006:XXII).

Popovič ha dato un forte contributo all’approccio semiotico della traduzione anche perché egli considera la traduzione un processo di «metacomunicazione» e sostiene che il suo aspetto semiotico riguardi tutti quei cambiamenti che ci sono in un metatesto dovuti al processo traduttivo. Questi cambiamenti sono inevitabili perché derivanti da un processo trasformativo, dalla creazione di un testo diverso sia nello spazio sia nel tempo:

(la traduzione è una) attività derivata, di secondo grado. In relazione al ricevente è metacomunicazione. L’aspetto semiotico della traduzione riguarda le differenze che occorrono nel processo traduttivo in conseguenza della diversa realizzazione spaziotemporale del metatesto (Popovič in Osimo 2006:XXIII).

 

3.4 Conclusione

Per concludere la breve panoramica dei concetti che contribuiscono a creare una scienza della traduzione e che mi hanno sicuramente influenzato durante il processo traduttivo, non mi resta che citare il co-autore dell’articolo che ho tradotto, Peeter Torop. Con la sua pubblicazione del 1995 tradotta in italiano con il titolo La traduzione totale, Torop s’inserisce in una tradizione accademica ormai consolidata, quella della semiotica nell’Europa dell’est, che dà per scontati molti concetti poco diffusi in Europa occidentale. Primo fra tutti, il concetto di linguaggio interno di Vygotskij, che non è un linguaggio verbale e di cui ho già parlato nel paragrafo 3.1. Bisogna considerare anche che in Paesi come l’Estonia (e la Finlandia) la semiotica è una disciplina molto importante, se non addirittura fondamentale, perciò un approccio semiotico alla traduzione è dato per scontato, come possiamo evincere dal saggio scritto a quattro mani con Sütiste. In Italia, invece, questa materia viene spesso considerata difficile, incomprensibile ai più e marginale. Questo rende ancora più importanti le riflessioni di Torop che, avendo come base un approccio scientifico e semiotico alla traduzione, può regalare molti stimoli allo sviluppo della scienza della traduzione anche nel nostro Paese o in altri meno “fortunati” da questo punto di vista.

Anche le riflessioni di Lotman sono considerate fondamentali da Torop, che non potrebbe prescindere dal concetto di semiosfera e dalla semiotica della cultura elaborate dal suo predecessore nonché maestro. Lotman considera la cultura come un processo di pretraduzione, ovvero un filtro imprescindibile che ogni traduttore non può fare a meno di usare quando traduce. Questo concetto è molto diffuso in Estonia e nella scuola semiotica di Tartu:

Ogni libro può essere letto, ogni film può essere visto e ogni sinfonia può essere suonata liberamente, e questa libertà di percezione (che giunge all’interpretazione arbitraria) è un fatto di qualsiasi cultura. Ma esiste anche la cultura come istruzione, memoria e percezione da parte del lettore di ciascun nuovo testo a seconda dell’esperienza culturale di chi percepisce, al punto che in un certo senso qualsiasi testo che finisca nelle mani di un lettore è già stato letto; in altre parole, viene subito convenzionalizzato (Torop 2010:70).

Un altro punto fondamentale trattato nel libro di Torop è la necessità di uniformare il metalinguaggio usato nella scienza della traduzione che, in quanto interdisciplina, non dispone di una terminologia uniforme nei vari Paesi e permette agli studiosi di rimanere nel limbo dell’indeterminatezza terminologica, creando solo caos e imprecisioni. Un approccio scientifico alla traduzione è, in questo caso, molto più difficile:

Da una parte l’abbondanza di metalinguaggi ostacola la comprensione reciproca nell’àmbito di una stessa disciplina scientifica. Dall’altra parte, lo sfruttamento eccessivo di uno-due metalinguaggi nei quali vengono tradotti i risultati di tutte le analisi, e questa stessa traduzione nel metalinguaggio semiotico, creano l’illusione di acquisire conoscenze, conferendo una parvenza di scientificità anche a risultati banali (Torop 2010:6).

Per Torop, come per gli altri studiosi già citati, l’approccio scientifico è, invece, fondamentale: bisogna abolire il «liberismo terminologico» a favore di una maggiore chiarezza, anche in questa disciplina, per eliminare ogni forma di sinonimia.

Due concetti importantissimi nella concezione di traduzione di Torop sono quello di «traducibilità», legato alla presenza imprescindibile di un residuo in ogni processo traduttivo. Torop si allontana ovviamente dalle teorie che sostengono una traducibilità assoluta dei testi. Egli analizza le singole traduzioni in termini di intraducibilità (o traducibilità) relativa e di residuo:

La traduzione senza residuo non esiste. Perciò, alla base dell’attività traduttiva, sta la «scelta dell’elemento che consideri più importante nel testo tradotto» (Brûsov 1975: 106), ossia un’analisi oggettiva del testo che faccia emergere la dominante come vertice della struttura gerarchica intorno a cui si integra il testo (Torop 2010:99).

Anche se in Estonia Peirce non è molto studiato, forse oscurato dal gigante Lotman e dalla presenza del muro di Berlino, alla base delle riflessioni di Torop si riconosce la triade peirceiana – già presente nei filtri traduttivi bilingui di Lotman – per la presenza di una componente mentale, l’interpretante, che determina l’unicità di ogni metatesto creato. Avremo quindi tante traduzioni quanti sono i traduttori: ogni traduttore sceglie una propria strategia traduttiva dettata dai propri criteri di traducibilità e questa strategia ha lo scopo di far prevalere una dominante su tutte le altre. Ritorniamo quindi al concetto di «dominante», espresso per la prima volta da Jakobson nel 1935:

Nel processo traduttivo la dominante […] può stare nel prototesto, nel traduttore o nella cultura ricevente. Nel primo caso, è il prototesto stesso a dettare la propria traducibilità ottimale (Torop 2010:79).

 

Il pensiero di Torop mi è utile per specificare ulteriormente la dominante della mia strategia traduttiva: ho deciso di individuarla nel prototesto, mettendo in atto questo primo caso enunciato da Torop. Questa riflessione, inoltre, è di fondamentale importanza per la valutazione delle traduzioni, un altro argomento affrontato da Torop nella suo libro. Ogni traduzione deve essere valutata in base alla strategia traduttiva adottata, dopo un’appropriata analisi traduttologica, tenendo ben presente che non esiste una traduzione assoluta e perfetta, ma che da ogni prototesto può nascere una serie di metatesti diversi per ogni traduttore. Tutto ciò, purtroppo, non è affatto scontato nella valutazione quotidiana delle traduzioni italiane.

Il saggio che ho tradotto parte senza dubbio dalle considerazioni che ho appena illustrato, essendo frutto di una scrittura a quattro mani di Torop ed Elin Sütiste, una sua allieva. L’articolo va sì inserito nel contesto di un’ampia riflessione sul rapporto tra scienza della traduzione e semiotica, senza però prescindere dal background degli autori.

 

3.5 Riferimenti bibliografici

DRYDEN, J. 1700, Fables ancient and modern: translated into verse, from Homer, Ovid, Boccace and Chaucher, London, Gray’s Inn Gate.

ECO, U. 2003, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.

JAKOBSON, R. 1959, «On linguistic aspects of translation», in Selected Writings – Word and Language (vol. II), The Hague-Paris, Mouton.

KRESS, G. R. 2003, Literacy in the New Media Age, New York, RoutledgeFalmer.

LOTMAN, Y. 1990, Universe of the mind. A semiotic theory of culture, New York, Tauris.

LÛDSKANOV, A. 1967, Un approccio semiotico alla traduzione, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2008.

LYOTARD, J. F. 1979, La condizione postmoderna, traduzione di Carlo Formenti, Milano, Feltrinelli, 1985.

OSIMO, B. 2002, Storia della traduzione, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2004, Manuale del traduttore, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2006, «Jakobson: meaning as imputed similarity», in Sign System Studies 34.2, Tartu University Press.

OSIMO, B. 2007, La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2010, Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli.

POPOVIČ, A. 1975, La scienza della traduzione, traduzione di Daniela Laudani e Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

SÜTISTE, E. e TOROP, P. 2007, «Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies», in Semiotica 123 (1/4), Tartu, Walter de Gruyter.

TOROP, P. 2010, La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

TOURY, G. 1980, «Communication in Translated Texts. A Semiotic Approach», in In Search of A Theory of Translation, a cura di Gideon Toury, Tel Aviv, Porter Institute Tel Aviv University:11-18.

VYGOTSKIJ, L. S. 1990, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Bari, Laterza.



[1] Tutte le citazioni, ove non diversamente indicato, sono da intendersi a cura dell’autrice del Mémoire.

[2] Si veda il paragrafo 3.3.1

[3] Si veda il paragrafo 3.3.2

[4] Si veda il paragrafo 3.2

Philip Roth La controvita The counterlife

Philip Roth

 

La controvita
La bocca era il suo mestiere, certo – e anche di Wendy – eppure parlarne in quel modo, a fine giornata, con la porta chiusa, e l’esile, giovane biondina che si offriva per un lavoro – si stava rivelando incredibilmente stimolante. Si ricordò del suono della voce di Maria che gli diceva tutte quelle cose su quanto fosse meraviglioso il suo cazzo – «Ti metto la mano nei pantaloni, e mi lascia a bocca aperta, è così grosso e gonfio e duro». «Il controllo che hai», gli diceva sempre, «quanto lo fai durare, non c’è nessuno come te, Henry». Se Wendy si fosse alzata e fosse andata alla scrivania e gli avesse infilato la mano nelle mutande, avrebbe scoperto quello di cui parlava Maria.
«La bocca», stava dicendo Wendy, «è proprio la cosa più personale con cui un dottore può avere a che fare».
«Sei una delle poche persone che l’abbia mai detto», le disse Henry. «Te ne rendi conto?»
Quando si accorse che il complimento l’aveva fatta arrossire, spinse il discorso su un terreno ancora più ambiguo, sapendo, tuttavia, che nessuno che avesse origliato avrebbe potuto accusarlo di parlare con lei di qualcosa di diverso dalle sue qualifiche per il lavoro. Non che qualcuno potesse in qualche modo sentirli.
«Un anno fa la tua bocca la davi per scontata?» le chiese.
«A confronto di quanto faccio adesso, sì. Ovviamente, mi sono sempre presa cura dei miei denti, del mio sorriso…»
«Ti sei presa cura di te», fece Henry, con approvazione.
Sorridendo – e quello era un bel sorriso, il segno di un abbandono del tutto innocente, bambinesco – lei prese la palla al balzo. «Sì, certo, mi prendo cura di me stessa ma non mi ero resa conto di quanto per l’odontoiatria contasse l’aspetto psicologico».
Lo stava forse dicendo perché ci andasse piano, gli stava forse educatamente chiedendo di lasciar perdere la sua bocca? Forse lei non era così innocente come credeva – ma quello era anche più eccitante. «Parlamene un po’», disse Henry.
«Be’, quello che ho detto prima – il rapporto con il tuo sorriso è un riflesso del tuo rapporto con te stesso e di come ti poni di fronte agli altri. Penso che l’intera personalità possa svilupparsi, non riguardo ai denti, ma a tutto quello la riguarda. In uno studio dentistico hai a che fare con la persona nella sua totalità, anche se sembra di aver solo a che fare con la bocca. Come posso accontentare la persona interamente, bocca compresa? E quando si parla di odontoiatria cosmetica, è pura psicologia. Nello studio del Dott. Wexler avevamo qualche problema con le persone che si facevano mettere le capsule e volevano denti bianchi-bianchi, che non stavano bene con i loro denti, con la loro colorazione. Devi fargli capire quali sono i denti che hanno un effetto naturale. Gli dici, ‘Avrai il sorriso perfetto per te, ma non puoi arrivare e semplicemente scegliere il sorriso perfetto e fartelo piazzare in bocca.’»
«Ed avere una bocca», aggiunse Henry, dandole una mano, «che sembra la tua».
«Giusto».
«Voglio che tu lavori per me».
«Oh, fantastico».
«Penso che potremmo farlo», disse Henry, ma prima che farlo potesse assumere troppi significati, si sbrigò a presentare subito le sue idee alla nuova assistente, come se concentrarsi seriamente sull’odontoiatria potesse in qualche modo trattenerlo dall’essere pesantemente allusivo. Si sbagliava. «Molta gente, come già saprai, non pensa che la sua bocca faccia parte del suo corpo. Né che i denti facciano parte del corpo. Non inconsciamente, almeno. La bocca è un vuoto, la bocca non è niente. Molte persone, al contrario di te, non ti diranno mai cosa rappresentala loro bocca. Se sono spaventati dall’odontoiatria a volte è per qualche tremenda esperienza di molto tempo prima, ma soprattutto è per quello che significa la bocca. Chi la tocca è un intruso o un aiuto. Portarli dal pensare che lavorare su di loro è come intromettersi all’idea che lo stai facendo per aiutarli, è quasi come avere un’esperienza sessuale. Per molte persone, la bocca è qualcosa di segreto, è il loro nascondiglio. Proprio come i genitali. Ricorderai che a livello embriologico la bocca è correlata ai genitali».
«L’ho studiato».
«Davvero? Bene. Poi capisci che le persone vogliono che tu sia molto delicato con la loro bocca. La delicatezza è l’aspetto più importante. Con tutti i soggetti. E, stranamente, gli uomini sono più vulnerabili, soprattutto se non hanno più i denti. Perché per un uomo perdere i denti è un’esperienza forte. Un dente per un uomo è come un mini-pene».
«Con ci avevo mai pensato», disse, ma non era sembrata affatto turbata.
«Be’, che idea ti fai della prestanza sessuale di un uomo senza denti? Cosa pensi che lui pensi? Mi è capitato qui un tipo molto in vista. Aveva perso tutti i denti e aveva una fidanzata giovane. Non voleva farle sapere che aveva la dentiera, perché significava che era un vecchio, e lei era una ragazza. Più o meno della tua età. Ventuno?»
«Ventidue».
«Aveva ventun anni. Così gli ho fatto degli impianti, invece che la dentiera, e lui era felice, lei era felice».
«Il Dottor Wexler diceva sempre che la soddisfazione più grande viene dalle imprese più ardue, di solito da un caso disperato».
Wexler se l’era scopata? Henry ancora non era andato oltre il classico flirtare con qualsiasi assistente di qualunque età – non solo era poco professionale ma un’incredibile distrazione in uno studio pieno di lavoro, e il caso disperato allora diventava il dentista. In quel momento capì che non avrebbe mai dovuto assumerla; era stato del tutto esageratamente impulsivo, e adesso rendeva tutto ancora più complicato con quelle chiacchiere sul mini-pene che glielo stavano facendo venire duro. E nonostante tutto quello che stava succedendo in quei giorni e che lo faceva sentire tanto spavaldo, non riusciva a smettere. Qual era la cosa peggiore che poteva capitargli? Spavaldo com’era, non ne aveva idea. «La bocca, non devi dimenticare, è l’organo primario dell’esperienza…» Continuava, guardandola sfrontatamente senza batter ciglio.
Tuttavia, passarono sei intere settimane prima che risolvesse i suoi dubbi, non solo sull’oltrepassare la linea più di quanto avesse fatto al colloquio ma proprio sul tenerla in studio, nonostante il lavoro eccellente che stava facendo. Tutto quello che aveva detto a Carol sul suo conto si era rivelato vero, anche se gli suonava come la razionalizzazione più trasparente del perché lei fosse lì. «È sveglia e vivace, è graziosa e piace alla gente, ci sa fare e mi aiuta incredibilmente –per merito suo, quando entro, posso mettermi subito al lavoro. Questa ragazza», aveva detto a Carol, anche più spesso di quanto avrebbe dovuto nel corso di quelle prime settimane, «mi fa guadagnare due o tre ore al giorno».
Poi una sera dopo il lavoro, mentre Wendy ripuliva il vassoio e lui si stava lavando come al solito, si girò verso di lei e, dato che sembrava proprio non esserci più un modo per uscirne fuori, si mise a ridere. «Guarda», disse, «facciamo un gioco. Tu sei l’assistente e io sono il dentista». «Ma io sono l’assistente», disse Wendy. «Lo so», rispose, «e io sono il dentista – ma fingiamo lo stesso.” «E così», disse Henry a Nathan, «ecco com’è andata». «Giocavate al dentista», disse Zuckerman. «A quanto pare», disse Henry, «lei ha fatto finta di chiamarsi ‘Wendy’ e io ho fatto finta di chiamarmi ‘Dott. Zuckerman’, e abbiamo fatto finta di essere nel mio studio dentistico. E poi abbiamo fatto finta di far sesso – e l’abbiamo fatto». «Interessante», disse Zuckerman. «Era, era selvaggio, ci faceva impazzire – è stata la cosa più folle che io abbia mai fatto. L’abbiamo fatto per settimane, fingevamo così, e lei diceva continuamente, ‘Perché è così eccitante quando tutti fingiamo di essere quello che siamo?’ Dio, se era fantastico! Che bomba!»
Be’, quel folle gioco piccante era ormai acqua passata, non c’era più il malizioso trasformare ciò-che-era in ciò-che-non-era o cosa-potrebbe-essere in cosa-era – c’era solo la desolante realtà di questo-è-quanto. Non c’è niente che un uomo di successo, oberato e brillante ami più della piccola Wendy accanto a lui, e niente che potrebbe rallegrare la piccola Wendy più che chiamare il suo amante «Dottor Z» – lei è giovane, è disponibile, è nel suo studio, lui è il capo, lo guarda nel suo grembiule bianco mentre tutti lo adorano, vede la moglie che scarrozza i bambini e le iniziano a spuntare i capelli bianchi e lei neanche si rende conto dei centimetri del girovita… incantevole a tutto tondo. Sì, le sedute con Wendy erano stati arte per Henry; lo studio dentistico, dopo la chiusura, un atelier; e la sua impotenza, pensò Zuckerman, come la vena di un artista che si prosciuga per sempre. Gli era stata riattribuita l’arte della responsabilità –sfortunatamente giusto a quel punto la routine lavorativa dalla quale aveva bisogno di prendersi vacanze sempre più lunghe per poter sopravvivere. Era stato ricacciato nel suo talento per la banalità, esattamente quello in cui era stato rinchiuso per tutta la vita. Zuckerman si era sentito male per lui e, come uno stupido, come uno stupido, non aveva fatto niente per fermarlo.

 

VALERIA SANNA Peircean Reflections on Psychotic Discourse Riflessioni peirciane sul discorso psicotico James Phillips

Peircean Reflections on Pyschotic Discourse Riflessioni peirciane sul discorso psicotico

VALERIA SANNA

Université Marc Bloch
Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales Scuole Civiche di Milano
Corso di Specializzazione in Traduzione

primo supervisore: professor Bruno OSIMO secondo supervisore: professoressa Anna RUCHAT

Master: Langages, Cultures et Sociétés Mention: Langues et Interculturalité Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence
Parcours: Traduction littéraire

giugno 2008

© Forum on Psychiatry and the Humanities of the Washington School of Psychiatry 2000

© Valeria Sanna per l’edizione italiana 2008

Abstract

This dissertation consists in the translation from English into Italian of the article Peircean Reflections on Psychotic Discourse by James Phillips, a psychiatrist from Connecticut. The research focuses on Peirce’s most general notions concerning thought and sign. Particular attention is dedicated to psychotic patients who – in their relationships both to the world and to the Self – are overwhelmed by the externality of the sign and confound not only sign, object, and interpretant, but also symbols and indexes. The study also focuses on the developmental implications of Peircean semiotic notions, suggesting the need for actual embodiment of the semiotic triad in early development and the failure of the latter in the potential psychotic.

Sommario

Traduzione con testo a fronte………………………………………………………………….. 1 Commento alla traduzione ……………………………………………………………………. 69 1. Descrizione del materiale……………………………………………………………….. 70 2. Testo narrativo versus testo saggistico…………………………………………….. 70 2.1 Il testo narrativo……………………………………………………………………….. 71 2.1.1 Lo stile ……………………………………………………………………………… 71 2.1.2 Il linguaggio ………………………………………………………………………. 72 2.1.3 Elementi del testo narrativo …………………………………………………. 72 2.2 Il testo saggistico ………………………………………………………………….. 73 2.2.2. Il linguaggio ……………………………………………………………………… 74 3. Charles Sanders Peirce e il segno…………………………………………………… 75 3.1 Icona ……………………………………………………………………………………… 77 3.2 Indice……………………………………………………………………………………… 77 3.3 Simbolo ………………………………………………………………………………….. 77 4. Lo psicotico e il segno……………………………………………………………………. 78 5. Il traduttore e il segno ……………………………………………………………………. 80 6. Analisi del prototesto …………………………………………………………………….. 81 7. La strategia traduttiva ……………………………………………………………………. 82 8. I problemi traduttivi ……………………………………………………………………….. 83 8.1 Capire prima di tradurre ……………………………………………………………. 83 8.2 Il linguaggio appropriato ……………………………………………………………. 84 8.2.1 Speech, language, e discourse ……………………………………………. 85 8.2.2 Thing e Object …………………………………………………………………… 87 8.3. Eleganza formale versus aderenza all’originale …………………………… 87 8.4 Le citazioni ……………………………………………………………………………… 88 8.4.1 Alcune traduzioni a confronto ………………………………………………. 89 9. Interventi redazionali……………………………………………………………………… 92 9.1 Le citazioni di Peirce ……………………………………………………………….. 93 9.2 Un’ulteriore precisazione…………………………………………………………… 94 Riferimenti bibliografici …………………………………………………………………………. 95

Traduzione con testo a fronte

Peircean Reflections on Psychotic Discourse

It is common knowledge among readers of Peirce that his goal was to develop a general semiotics at a level of abstraction that went well beyond the domain of human psychology. Drawing his semiotic theory back into the territory of human behaviour and speech is thus clearly moving in a direction that was not Peirce’s primary concern. It is in recognition of this discordance that the current effort to apply Peircean notions to an understanding of psychotic discourse is carried out. That such an application is not where Peirce’s interest lay does not in itself gainsay the possibility and potential value of the application.

This Peircean reflection on psychosis will proceed on two levels. The first will be that of Peirce’s most general notions regarding the mind and the semiotic process. At this level, what may be said of Peirce might also be said of many other semioticians, with due acknowledgement that Peirce said most of it first. The treatment of semiotics and psychosis at this level will break into two sections dealing with the world and the self in psychosis. At a further level we then enter into the specifics of Peirce’s semiotic theory, particularly his notion of the sign as a triadic entity. At this level our discussion will move from general semiotic principles to uniquely Peircean semiotics. Finally, we will end with some suggestions concerning a Peircean contribution to developmental issues in psychosis.

Three further introductory remarks need to be made. First, this chapter is in no way intended to present a comprehensive theory or understanding of schizophrenia and the other psychotic disorders. It is intended rather to suggest what Peircean semiotics might offer for such theory or understanding. Second (and related to the first remark), with the exception of some suggestions regarding psychological development in the final section, the chapter avoids issues of etiology and remains closer to the form of psychotic process. The semiotic distortions found in psychosis may indeed be present regardless of the etiology of the particular condition.

2

Riflessioni peirciane sul discorso psicotico

È noto a tutti i lettori di Peirce che il suo scopo era sviluppare una semiotica generale a un livello di astrazione che andasse ben oltre il campo della psicologia umana. Riportare la sua teoria semiotica sul territorio del discorso e del comportamento umano significa quindi spostarsi chiaramente in una direzione che non era la principale preoccupazione di Peirce. È sulla base di questa discordanza che al momento si porta avanti lo sforzo di applicare i concetti peirciani alla comprensione del discorso psicotico. Che una tale applicazione non rappresenti il centro dell’interesse di Peirce, non contraddice di per sé la possibilità di questa applicazione né il suo valore potenziale.

Questa riflessione peirciana sulla psicosi procede a due livelli. Il primo riguarda i concetti più generali di Peirce sulla mente e sul processo semiotico. A questo livello ciò che si può dire di Peirce si potrebbe dire anche di molti altri semiotici, con il dovuto riconoscimento a Peirce per aver sostenuto la maggior parte delle cose per primo. La sezione riguardante semiotica e psicosi a questo livello si divide in due paragrafi che trattano il mondo e il Sé nella psicosi. A un livello successivo entrerò quindi nel dettaglio della teoria semiotica di Peirce, in particolare del suo concetto di «segno» come entità triadica. A questo livello, la discussione si allontana dai princìpi generali della semiotica per concentrarsi nello specifico sulla semiotica di Peirce. Esporrò infine alcune ipotesi riguardanti il contributo di Peirce alle questioni evolutive nella psicosi.

Sono tuttavia necessarie tre ulteriori precisazioni introduttive. Primo: questo capitolo non intende in nessun modo presentare una teoria esaustiva e comprensiva della schizofrenia e degli altri disturbi psicotici; intende piuttosto dare un’idea di cosa potrebbe offrire la semiotica di Peirce a una tale teoria o concezione. Secondo (e collegato al primo punto): a eccezione di alcune ipotesi nella sezione finale riguardanti lo sviluppo psicologico, l’articolo evita questioni di eziologia e resta più vicino alla forma del processo psicotico. Di fatto, le distorsioni semiotiche che si trovano nella psicosi possono essere presenti a prescindere dell’eziologia di questa condizione particolare.

3

Third and finally, this chapter ignores the differentiation of the various psychotic conditions. I attempt to look at the semiotic dimensions of psychotic thinking in general, not, for instance, of schizophrenic thinking versus manic psychotic thinking. Indeed, current research points to the nonspecificity of the thought disorders of the various psychotic conditions (Harrow and Quinlan 1985).

Sign and Psychosis

As just indicated, a first level of reflection addresses Peirce’s most general statements regarding semiosis and the human subject. In a gnomic utterance (for Short, “a dark saying . . .much beloved by semioticists [that] still passes [his] own understanding” [1992, 124]), Peirce declares that man is a sign.

It is sufficient to say that there is no element whatever of man’s consciousness which has not something corresponding to it in the word; and the reason is obvious. It is that the word or sign which man uses is the man himself. For, as the fact that every thought is a sign, taken in conjunction with the fact that life is a train of thought, proves that man is a sign; so, that every thought is an external sign, proves that man is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total of myself; for the man is the thought. [1868b, 854]

4

Terzo, e ultimo: questo capitolo non tiene conto della distinzione tra le diverse condizioni psicotiche. Cerco di guardare alla dimensione semiotica del pensiero psicotico in generale, e non, per esempio, del pensiero schizofrenico versus il pensiero psicotico maniacale. Questo articolo mostra piuttosto la non specificità dei disturbi del pensiero nelle varie condizioni psicotiche (Harrow e Quinlan 1985).

Segno e psicosi

Come detto, un primo livello di riflessione concerne le affermazioni più generali di Peirce riguardanti la semiosi e il soggetto umano. In una affermazione gnomica (per Short: «una dichiarazione oscura […] molto amata dai semiotici [che] va tuttora al di là [della sua] comprensione»; 1992:124) Peirce dichiara che l’uomo è un segno.

È sufficiente dire che non vi è alcun elemento della coscienza umana che non abbia qualcosa che gli corrisponda nella parola; e la ragione è ovvia. È che la parola o segno che l’uomo usa è l’uomo stesso. Poiché, come il fatto che ogni pensiero è un segno, considerato insieme al fatto che la vita è una concatenazione di pensieri, prova che l’uomo è un segno; così, [il fatto] che ogni pensiero è un segno esterno prova che l’uomo è un segno esterno. Vale a dire che l’uomo e il segno esterno sono identici, nello stesso senso in cui sono identiche le parole homo e uomo. Il mio linguaggio è pertanto la somma totale di me stesso, poiché l’uomo è il pensiero (1868b: 854)1.

1

It is sufficient to say that there is no element whatever of man’s consciousness which has not something corresponding to it in the word; and the reason is obvious. It is that the word or sign which man uses is the man himself. For, as the fact that every thought is a sign, taken in conjunction with the fact that life is a train of thought, proves that man is a sign; so, that every thought is an external sign, proves that man is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total for myself; for the man is the though (CP 5.314).

5

At this level we are not yet considering Peirce’s distinctive analysis of the sign as a triadic entity but rather his more global assimilation or identification of mind and semiotic process. The major implication of this identification is that our access to things (and to ourselves) is by way of signs and that we ourselves are this semiotic process. With this assertion Peirce anticipates and joins company with those of our contemporaries who have also emphasized that there is no “thought” or “mind” behind the articulated thoughts.

What is immediately striking about Peirce’s pronouncement that man is a sign is that this is not at all obvious. Indeed, the opposite would seem to be the case. Common sense would declare that we are in immediate contact with things and do not require the mediation of signs. The ordinary condition of signs is thus transparency. As we see through signs to the world, we do not take note of the signs. Paul Ricoeur reminds us of this transparency of signs: “If, with the ancients, and again with the Port-Royal grammarians, the sign is defined as a thing that represents some other thing, then transparency consists in the fact that the sign, in order to represent, tends to fade away and so to be forgotten as a thing” (1992, 41). The same phenomenon is evoked by Maurice Merleau- Ponty in describing the communicative capacity of language: “When someone — an author or a friend — succeeds in expressing himself, the signs are immediately forgotten; all that remains is the meaning. The perfection of language lies in its capacity to pass unnoticed. But therein lies the virtue of language: it is language which propels us toward the things it signifies. In the way it works, language hides itself from us. Its triumph is to efface itself and to take us beyond the words to the author’s very thoughts, so that we imagine we are engaged with him in a wordless meeting of minds” (1973, 10).

6

A questo livello non sto ancora considerando l’analisi specifica peirciana del segno come entità triadica, ma piuttosto la sua più generale assimilazione o identificazione di mente e processo semiotico. Il principale risvolto di tale identificazione consiste nel fatto che il nostro accesso alle cose (e a noi stessi) avviene per mezzo di segni e che noi stessi siamo questo processo semiotico. Con questa affermazione Peirce anticipa il gruppo di quei nostri contemporanei che hanno anche rimarcato che, dietro ai pensieri articolati, non c’è un «pensiero» né una «mente», e si unisce a loro.

Ciò che delle parole di Peirce – il quale dichiara che l’uomo è un segno – colpisce all’istante, è che questo non è affatto ovvio. Anzi, parrebbe vero il contrario. Secondo il senso comune, noi siamo in contatto diretto con le cose, e non ci occorre la mediazione dei segni. La condizione comune dei segni è quindi la trasparenza. Dal momento che noi guardiamo al mondo attraverso i segni, non prestiamo attenzione ai segni. Paul Ricoeur ci richiama alla mente questa trasparenza dei segni:

Se, con gli Antichi e ancora con i grammatici di Port Royal, si definisce il segno come una cosa che rappresenta un’altra cosa, la trasparenza consiste nel fatto che, per rappresentare, il segno tende a scomparire e a farsi, così, dimenticare in quanto cosa (2005:120).

Lo stesso fenomeno è evocato da Maurice Merleau-Ponty quando descrive la capacità comunicativa del linguaggio:

Quando qualcuno – autore o amico – ha saputo esprimersi, i segni vengono subito dimenticati; resta solo il senso, e la perfezione del linguaggio è tale da passare inosservata.
Ma proprio questa è la virtù del linguaggio: è lui a rimandarci a ciò che significa; si dissimula ai nostri occhi con la sua stessa operazione; il suo trionfo è di cancellarsi e di dare accesso, al di là delle parole, al pensiero stesso dell’autore, in modo che, poi, crediamo di esserci intrattenuti con lui senza parole, da mente a mente (1984:38).

7

If the usual fate of signs is to be transparent, to go unnoticed, where does this stop? What are the circumstances in which signs assert their presence? For Peirce they assert their presence when we reflect on the process of thought. As he says in “Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man”: “If we seek the light of external facts. But we have seen that only by external facts can thought be known at all. The only thought, then, which can possibly be cognized is thought in signs. But thought which cannot be cognized does not exist. All thought, therefore, must necessarily be in signs” (1868a, 24). Others have focused on the varied circumstances in which the sign quality of thought stands out. Ricoeur continues the statement just quoted: “This obliteration of the sign as a thing is never complete, however. There are circumstances in which the sign does not succeed in making itself absent as a thing; by becoming opaque, it attests once more to the fact of being a thing and reveals its eminently paradoxical structure of an entity at once present and absent” (Ricoeur 1992, 41). As examples of the opaqueness of the sign, Ricoeur highlights speech acts in which the fact of utterance is reflected in the sense of the statement.

8

Se, in genere, il destino dei segni è essere trasparenti e passare inosservati, quando non è così? Quali sono le circostanze in cui i segni asseriscono la loro presenza? Secondo Peirce asseriscono la loro presenza quando noi riflettiamo sul processo del pensiero. Come sostiene in Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man [Questioni concernenti certe pretese facoltà umane]:

Se cerchiamo la luce dei fatti esterni, i soli casi di pensiero che possiamo reperire sono casi di pensiero in segni. È evidente che nessun altro pensiero può essere evidenziato da fatti esterni. Ma abbiamo visto che è possibile comprendere il pensiero soltanto attraverso fatti esterni. Dunque, il solo pensiero che può forse essere conosciuto è il pensiero in segni. Ma il pensiero che non può essere conosciuto non esiste. Ogni pensiero deve pertanto essere necessariamente in segni2.

Altri si sono concentrati sulle svariate circostanze in cui emerge la qualità segnica del pensiero. Prosegue Ricoeur:

Ma questa obliterazione del segno in quanto cosa non è mai completa. Ci sono circostanze in cui il segno non riesce a rendersi tanto assente; opacizzandosi, esso si attesta nuovamente come cosa e rivela la sua struttura eminentemente paradossale di entità presente-assente (2005:121).

Come esempi di opacità del segno, Ricoeur porta gli atti discorsuali in cui nel senso dell’enunciazione si riflette il fatto stesso che è un’affermazione.

2

If we seek the light of external facts, the only cases of thought which we can find are of thought in signs. Plainly, no other thought can be evidenced by external facts. But we have seen that only by external facts can thought be known at all. The only thought, then, which can possibly be cognized is thought in signs. But thought which cannot be cognized does not exist. All thought, therefore, must necessarily be in signs (CP 5.251).

9

Thus, when the statement, “the cat is on the mat” is replaced by “I affirm that the cat is on the mat,” the sign-making “I” of the second version obtrudes itself on the transparency of the first.

For his part, Merleau-Ponty finds the opaqueness of the sign exposed in poetic language (and even more in painting), with its curious admixture of transparency, mediation, and opacity (1973, 9 – 46). In the same vein, Jakobson emphasizes that poetry as such foregoes direct referentiality in the service of lingering over the word-signs that comprise the poem (quoted in Ricoeur, 1978, 150). And, as is well known, in a movement that extends from Mallarmé to Derrida, the independence of the text from even a necessary indirect referentiality has resulted in an acute focus on the sign status of the text. In Steiner’s words, “This move is first declared in Mallarmé’s disjunction of language from external reference and in Rimbaud’s deconstruction of the first person singular. These two proceedings, and all that they entail, splinter the foundations of the Hebraic-Hellenic-Cartesian edifice in which the ratio and psychology of the Western communicative tradition had lodged” (1989, 94 – Se, 95). Finally, in certain poets we find a direct thematizing of the process of poetizing — the use of signs to muse over the use of signs. Thus, for instance, in “The Man with the Blue Guitar,” Wallace Stevens writes,

10

Quindi, quando la frase «il gatto è sullo zerbino» è sostituita da «io affermo che il gatto è sullo zerbino», l’«io» della seconda versione, che diventa un segno, s’impone sulla trasparenza della prima.

Dal canto suo, Merleau-Ponty trova esposta l’opacità del segno all’interno del linguaggio poetico (e ancora di più nella pittura), con la sua curiosa mescolanza di trasparenza, mediazione e opacità (1984:37-67). Allo stesso modo Jakobson sottolinea che la poesia, in quanto tale, rinuncia alla referenzialità diretta per soffermarsi sulle parole-segno di cui consiste il componimento poetico (citato in Ricoeur 1978:150). Inoltre, come è ben noto, in un movimento che si estende da Mallarmé a Derrida, l’indipendenza del testo è passata da una referenzialità anche solo indiretta necessaria, a una focalizzazione intensiva sullo stato del segno nel testo. Come sostiene Steiner:

Questa traslazione è dichiarata per la prima volta nella disgiunzione della lingua dal referente esterno di Mallarmé, e nella decostruzione della prima persona singolare da parte di Rimbaud. Questi due procedimenti e tutte le loro implicazioni spaccano le fondamenta dell’edificio ebraico-ellenico-cartesiano in cui risiedevano la ratio e la psicologia della tradizione comunicativa occidentale (1992:97).

Infine, in alcuni poeti troviamo una tematizzazione diretta del processo del poetare – l’uso di segni per riflettere sull’uso di segni. Quindi, per esempio, in L’uomo dalla chitarra azzurra Wallace Stevens scrive:

11

“They said, ‘You have a blue guitar, / You do not play things as they are.’ / The man replied, “Things as they are / Are changed upon the blue guitar.’ / And they said then, ‘ But play, you must, / A tune beyond us, yet ourselves, / A tune upon the blue guitar / Of things exactly as they are’” (1959, 73 – 74). And T. S. Eliot in “Four Quartets” writes, “Trying to learn to use words, and every attempt / Is a wholly new start, and a different kind of failure / Because one has only learnt to get the better of words / For the thing one no longer has to say, or the way in which / One is no longer disposed to say it. And so each venture / Is a new beginning, a raid on the inarticulate imprecision of feeling, / Undisciplined squads of emotion” (1962, 128).

These are all circumstances in which signs call attention to themselves in a productive, reflective manner. And this list of circumstances is hardly complete. Others could be mentioned, but it is time to lead the discussion in another direction, that in which the consciousness of signs betokens a crack in the normal semiotic process. Here we begin to speak of a breakdown of the everyday transparency of signs. For the schizophrenic who becomes acutely aware of his or her own words or gestures as words or gesture, they suddenly reveal their nature as signs — or semiotic things.

12

Gli dissero: «sulla chitarra azzurra / tu non suoni le cose come sono». / Egli disse: «Le cose come sono / si cambiano sulla chitarra azzurra». / Risposero: «Ma tu devi suonare / un’aria che sia noi e ci trascenda, / un’aria sopra la chitarra azzurra / delle cose così come esse sono»3 (1959:29).

E T.S. Eliot in Four Quartets [Quattro quartetti] scrive:

A cercar d’imparare l’uso delle parole, e ogni tentativo / è un rifar tutto da capo, e una specie diversa di fallimento / perché si è imparato a servirsi bene delle parole / soltanto per quello che non si ha più da dire, o nel modo in cui / non si è più disposti a dirlo. E così ogni impresa / è un cominciar di nuovo, un’incursione nel vago / con logori strumenti che peggiorano sempre / nella gran confusione dei sentimenti imprecisi, / squadre indisciplinate di emozioni4 (1986:285).

Queste sono tutte circostanze in cui i segni richiamano su di sé l’attenzione in un modo produttivo e riflessivo. Difficilmente questa lista di circostanze sarà completa. Se ne potrebbero citare altre, ma è tempo di portare la discussione in un’altra direzione, quella in cui la consapevolezza dei segni rappresenta una crepa nel normale processo semiotico. Qui cominciamo a parlare del crollo della trasparenza quotidiana dei segni. Per lo schizofrenico che diventa ben consapevole delle sue parole o dei suoi gesti in quanto parole o gesti, [questi] rivelano improvvisamente la loro natura di segni – o di cose semiotiche.

3

They said, “You have a blue guitar, / You do not play things as they are.” / The man replied, “Things as they are / Are changed upon the blue guitar.” / And they said then, “But play, you must, / A tune beyond us, yet ourselves, / A tune upon the blue guitar / Of things exaclty as they are” (1959:73-74).

4

Trying to learn to use words, and every attempt / Is a wholly new start, and a different kind of failure / Because one has only learnt to get the better of words / For the thing one no longer has to say, or the way in which / One is no longer disposed to say it. And so each venture / Is a new beginning, a raid on the inarticulate / With shabby equipment always deteriorating / In the general mess of imprecision of feeling, / Undisciplined squads of emotion (1962:128).

13

If, according to Peirce, it is the case that “we are in thought, and not that thoughts are in us” (1868b, 42), the schizophrenic is often not only in them, but engulfed by them. If the remarkable fact about semiosis is that thoughts as external signs are things and yet transport us beyond themselves, for the schizophrenic this transport often breaks down, and the patient is confronted with word-things that do not assume their usual function. The patient becomes stuck in them. They no longer transport him or her to the object or the other person. Schizophrenic ambivalence, for instance, which Bleuler attributes to loosening of associations and the attribution of both positive and negative feelings to every situation, may also be understood as a paralysis in the normal semiotic process ([1911] 1950, 53 – 55). Asked to sit on the chair, the patient puzzles, “Chair, what is a chair?” Invited to eat, he pauses over and studies the fork, whose meaning as an implement has ceased to be transparent for him, and he gets caught up in the word-things — fork, food.

For the psychotic, these are not detached reflections or musings on the semiotic understructure of human reality. They are terrifying experiences in which that very structure is breaking down. Certainly the acute anxiety that accompanies psychotic experience is at least in part explained by this collapse of the basic semiotic structuring of human experience. What Freud described as the end-of-the-world experience in psychosis and attributed to a libidinal decathexis of the world (S.E. 12:69 – 71) may thus be reinterpreted from a semiotic perspective. The familiar semiotically structured world is indeed disintegrating.

With the loss of sign transparency in psychosis, the normal semiotic structure of sign, object, and interpretant may be deeply altered. As already suggested, thoughts as sign-things bear a dimension of externality and are not the pure internal presences they are often imagined to be.

14

Se, secondo Peirce, questo è il caso in cui «noi siamo nel pensiero e non […] i pensieri sono in noi»5, lo schizofrenico spesso non soltanto è dentro loro, ma ne è sommerso. Se l’aspetto notevole della semiosi consiste nel fatto che i pensieri, in quanto segni esterni, sono cose, e tuttavia ci trasportano oltre sé stessi, per lo schizofrenico questo trasporto spesso viene meno, e il paziente si confronta con parole-cose che non svolgono le loro solite funzioni. Il paziente si ritrova incastrato al loro interno. Le parole-cose non lo trasportano più verso l’oggetto né verso l’altra persona. L’ambivalenza schizofrenica, per esempio, che Bleuler attribuisce allo scioglimento delle associazioni, e l’attribuzione di sensazioni positive e negative a ogni situazione, possono essere anche intese come paralisi del normale processo semiotico (1950:53-55). Quando è stato chiesto al paziente di sedersi sulla sedia, il paziente ha risposto disorientato: «Sedia, che cos’è una sedia?». Invitato a mangiare, si sofferma sulla forchetta e la studia; il suo significato di utensile ha cessato di essere trasparente per lui, e viene catturato dalle parole-cose: forchetta, cibo.

Per lo psicotico non si tratta di riflessioni distaccate né meditazioni sulla sottostruttura semiotica della realtà umana, ma di esperienze terrificanti in cui è proprio quella struttura ad andare in crisi. Di certo la forte angoscia che accompagna l’esperienza psicotica è spiegata almeno in parte da questo crollo della struttura semiotica alla base dell’esperienza umana. Quello che Freud descrisse come l’esperienza della fine del mondo nella psicosi e attribuì a un disinvestimento libidico dal mondo (S.E. 12:69-71) può essere quindi reinterpretato da una prospettiva semiotica. Si tratta della disintegrazione del mondo strutturato semioticamente che conosciamo.

Con la perdita della trasparenza del segno nella psicosi può essere profondamente alterata la normale struttura semiotica composta da segno, interpretante, e oggetto. Come già ipotizzato, i pensieri in quanto segni-cose portano una dimensione di esteriorità e non sono pure presenze interne, come spesso le si crede.

5

We are in thought, and not that thoughts are in us (CP 5.289).

15

Peirce emphasized this in the above-cited statement in declaring that man is an external sign (1868b, 854). In psychosis, with the disappearance of normal sign transparency, this externality is taken to its furthest extreme, and the thought- signs are materialized into entities of the external world: voices of others, commands from on high, influencing machines, recording machines in the brain, material objects that convey hidden meanings.

It is at this point that the semiotic account confronts the psychoanalytic understanding of psychosis — that is, as loss of ego boundaries in the earlier writers (e.g., Federn 1953; Freeman, Cameron, and McGhie 1958) and as a fusion of self and object representations in later ones (e.g., Kernberg 1975). The psychoanalytic understanding is based on a separation of the internal and the external — self and object, self-representation and object representation — and the blurring of these. The significant reinterpretation that semiotic theory brings to this account is the externality of the sign. If thought already possesses a dimension of externality, it is a shorter step toward full externalization of the thought. The vulnerability of any subject to psychosis is thus exposed.

Among psychoanalysts the externality of the sign has been most clearly recognized by Lacan, who, with his category of the symbolic order, has been particularly sensitive to the semiotic dimension. Working out of a framework that is both Lacanian and Peircean, Muller has explained the breakdown of normal language use in schizophrenia as a failure to use language in its mediating role between the subject and the unarticulated, unsymbolized world — what Lacan terms the Real.

16

Nell’affermazione citata in precedenza, dichiarando che l’uomo è un segno esterno (1868b:854), Peirce ha enfatizzato questo concetto. Nella psicosi, con la scomparsa della normale trasparenza del segno, questa esteriorità viene portata al suo estremo e il pensiero-segno si materializza in entità del mondo esterno: voci di altri, ordini dall’alto, macchine manipolatrici, registratori nella mente, oggetti materiali che hanno un significato nascosto.

È a questo punto che la concezione semiotica si contrappone alla comprensione psicoanalitica della psicosi – ossia una perdita dei limiti dell’Io nei primi autori (es. Federn 1953; Freeman, Cameron, e McGhie 1958) e la fusione delle rappresentazioni del Sé e dell’oggetto negli autori successivi (es. Kernberg 1975). La concezione psicoanalitica si basa sulla separazione tra ciò che è interno e ciò che è esterno – Sé e oggetto, rappresentazione del Sé e rappresentazione dell’oggetto – e il loro reciproco sconfinamento. La significativa reinterpretazione della concezione semiotica è l’esteriorità del segno. Se il pensiero possiede già una dimensione di esteriorità, è più vicino alla piena esteriorizzazione del pensiero. Si capisce quindi la vulnerabilità dei soggetti psicotici.

Tra gli psicoanalisti chi ha saputo riconoscere al meglio l’esteriorità del segno è stato Lacan che, con la sua categoria dell’ordine simbolico, è stato particolarmente sensibile alla dimensione semiotica. Al di fuori di una cornice sia lacaniana che peirciana, Muller ha spiegato il crollo dell’uso normale della lingua nella schizofrenia come un mancato uso della lingua per il suo ruolo di mediazione tra il soggetto e il mondo inarticolato e non simbolizzato – che Lacan definisce «il Reale».

17

Now what if language does not function as such a recourse against the Real? What if the Real is experienced without the mediation of language? What if words themselves lose their referential context and are experienced as in the Real? To say that words are in the Real is to say that words have become like things: whether they come from the therapist or the titles of books or the “internal tape recorder,” they can strike the patient’s ears, eyes, forehead, chest, like objects. They do not mediate and refer to objects. [1996, 97]

With his understanding of the symbolic order as above, over against, or external to the subject, Lacan offers a unique way of envisioning the externality of the sign. It is thus not surprising that, as Muller explicates, the Lacanian analysis of psychosis emphasizes the thinglike quality of psychotic language.

One patient offers a vivid illustration of the confusion that may occur in connection with the externality of the sign. On the one hand, he is acutely aware of all his mental experiences — thoughts, feelings, sensations, impulses, inclinations — and treats these as external sign-phenomena that have been placed “in” him for some reason. On the other hand, he invests indifferent external communications such as the radio or television with increased and distorted semiotic significance. The internal is thus treated as external and the external as internal. In focusing in this way on this man’s profoundly confused use of signs, we are giving a semiotic account of what in general psychiatry would be called thought insertion and ideas of reference.

Another patient illustrates the way in which the externalization of the thought-sign leads to a deeply altered experience in which the world of indifferent things becomes an inexhaustible reservoir of gesture and meaning. A young man with bipolar disorder would intermittently slip into psychotic thinking in which things everywhere would take on significance. There was not a coherent theme that could be elicited from the abundance of “meanings” and “signs” he would describe. What was paramount was simply that there were signs everywhere.

18

E se la lingua non svolgesse la funzione di riferimento al Reale? E se il Reale fosse percepito senza la mediazione della lingua? E se le parole stesse perdessero il loro contesto referenziale e fossero percepite come nel Reale? Dire che le parole sono nel Reale è dire che le parole sono diventate come delle cose: che vengano da un terapeuta o dal titolo di un libro o dal “registratore mentale” possono colpire l’orecchio del paziente, l’occhio, la fronte, il petto, come degli oggetti. Non mediano né rimandano a oggetti (1996:97).

Con questa concezione dell’ordine simbolico che si riferisce all’oggetto o che gli è esterno, Lacan propone un modo unico di figurarsi l’esteriorità del segno. Non sorprende che, come chiarisce Muller, l’analisi lacaniana della psicosi enfatizzi la cosità del linguaggio psicotico.

Un paziente mostra chiaramente la confusione che può generarsi in caso di esteriorità del segno. Da un lato è ben consapevole delle sue percezioni mentali – pensieri, emozioni, sensazioni, impulsi, inclinazioni – e le tratta come fenomeni-segno esterni che per qualche ragione sono stati posti “in” lui. Dall’altro, investe di significatività accresciuta e distorta comunicazioni esterne ricevute per esempio dalla radio o dalla televisione. L’interno è quindi trattato come esterno, e l’esterno come interno. Concentrarsi così sull’uso profondamente confuso dei segni di quest’uomo descrive, da un punto di vista semiotico, quello che la psichiatria generale chiamerebbe «inserimento di pensieri» e «idee di riferimento».

Un altro paziente mostra come l’esteriorizzazione del pensiero-segno porti a un’esperienza profondamente alterata in cui il mondo delle cose indifferenti diventa una fonte inesauribile di gesti e significati. Un giovane affetto da disturbo bipolare di tanto in tanto scivolava nel pensiero psicotico in cui ovunque cose assumono significato. Non si è presentato un tema coerente che possa essere desunto dall’abbondanza di «significati» e «segni» che ha descritto. La cosa più rilevante consiste semplicemente nel fatto che c’erano segni ovunque.

19

What is suggested in the experiences of such patients is that terror from the collapse of semiotic structure is such that the restitution must involve an overinvestment of the world with meaning.

In this discussion of the severe distortions of normal semiotic processes found in chronic psychoses, one point must be kept in mind. While the usual transparency of signs is abolished in these conditions, this does not generally represent a real self-consciousness of signs on the part of the patient. It is the observer whois made aware of the opacity and externality of signs in the patient’s speech through the latter’s odd use of them. This is of course a way of distinguishing the poet from the psychotic. In both, signs assert their presence and opacity, but it is the former who is in control of this process. That said, we may also acknowledge that the statement is an oversimplification of a more nuanced situation. First, there are the psychotics who are aware of their semiotic transformations; then there are those few, for example, Nerval, who simply cover both categories of poet and psychotic.

In this regard it should be acknowledged that in his recently published Madness and Modernism, Louis Sass has strongly opposed any poet-versus- schizophrenic polarity of the sort I suggest in this chapter. In what he calls “autonomization,” Sass describes a feature of schizophrenic language that is similar to what is being presented here: “A second characteristic of schizophrenic language involves tendencies for language to lose its transparent and subordinate status, to shed its function as a communicative tool and to emerge instead as an independent focus of attention or autonomous source of control over speech and understanding” (1992, 178). Sass does not, however, see this autonomization of language in schizophrenia as qualitatively different from what he calls the “apotheosis of the word” in figures like Mallarmé, Barthes, and Derrida.

20

Ciò che emerge dall’esperienza di questi pazienti è che il terrore derivante dal crollo della struttura semiotica è tale che, per compensare, si deve eccedere nell’investire il mondo di significato.

Nel corso di questa discussione sulle gravi distorsioni del normale processo semiotico individuate nelle psicosi croniche, è necessario tenere a mente una cosa. Anche se in queste condizioni la consueta trasparenza del segno viene meno, di solito ciò non rappresenta una vera metaconsapevolezza dei segni da parte del paziente. È chi osserva a essere consapevole dell’opacità e dell’esteriorità dei segni nel discorso del paziente attraverso l’uso bizzarro che questi ne fa. Di certo è un criterio per distinguere il poeta dallo psicotico. Per entrambi, i segni asseriscono la propria presenza e opacità, ma è solo il primo a riuscire a controllare questo processo. Detto questo, possiamo riconoscere che quest’affermazione è un’ipersemplificazione di una situazione più sfumata. In primo luogo, esistono psicotici che sono consapevoli delle loro trasformazioni semiotiche; poi ci sono quei pochi, per esempio Nerval, che semplicemente rientrano in entrambe le categorie: poeta e psicotico.

A questo proposito è bene ricordare che in Madness and Modernism, di recente pubblicazione, Louis Sass si è opposto con forza a qualsiasi polarità poeta versus schizofrenico del genere che propongo in questo capitolo. In ciò che chiama «autonomizzazione», Sass descrive una caratteristica del linguaggio schizofrenico simile a quella che è qui presentata:

una seconda peculiarità del linguaggio schizofrenico comporta la tendenza della lingua a perdere il suo status di trasparenza e subordinazione, a cedere la sua funzione di strumento di comunicazione ed emergere invece come centro dell’attenzione indipendente o come fonte di controllo autonoma sul discorso e sulla comprensione (1992:178).

Sass, a ogni modo, non considera questa autonomizzazione della lingua nella schizofrenia diversa, da un punto di vista qualitativo, da quella che chiama «apoteosi della parola» in autori come Mallarmé, Barthes e Derrida.

21

Although there are clearly similarities and overlaps between schizophrenic and deconstructionist uses of language, and although, as indicated above, a stark contrast between the two is certainly oversimplified, I would in the end argue that Sass’s argument for a lack o qualitative difference does not do justice to the disturbed, uncontrolled, and anguished quality of schizophrenic language and existence.

Signs of the Self

Thus far we have concentrated on the semiotic restructuring (or “destructuring” of the world in psychosis. Peirce’s semiotic description of the mind was pursued in its implications for how the world is encountered in health and psychosis. The emphasis was on the heightened opacity and externality of the sign in the psychotic’s encounter with the world. We must now shift our focus from the world to the subject itself. The declaration that a person is a sign was above taken to mean that the subject is in contact with a coherent world only by way of signs. But this declaration has a second meaning, namely that the subject relates to him or herself through signs. This is of course the strongly anti- Cartesian bias of Peircean semiotics. There is no direct intuition or vision of the self. While in this section we will again witness the problems inherent in the opacity and the externality of signs — now of the self — the emphasis will fall on the disorder that may follow from the sheer complexity of the range and structure of signs that define a self.

The loss of Cartesian intuition (and with it the loss of the self as substance in the traditional sense) has become a familiar theme in contemporary thought and has had varying consequences.

22

Pur essendoci evidenti somiglianze e sovrapposizioni tra l’uso del linguaggio schizofrenico e quello decostruzionista e, come indicato sopra, nonostante un forte contrasto tra i due usi del linguaggio sia sicuramente ipersemplificante, concluderei sostenendo che la tesi di Sass riguardo alla mancanza di una differenza qualitativa non rende giustizia alla qualità della lingua e non chiarisce come mai il discorso e l’esistenza dello schizofrenico siano disturbati, incontrollati e angosciati.

Segni del Sé

Fino a questo momento mi sono concentrato sulla ristrutturazione (o «destrutturazione») semiotica del mondo nella psicosi. La descrizione semiotica peirciana della mente è stata approfondita nelle sue implicazioni riguardo a come ci si confronta con il mondo in caso di salute e di psicosi. L’enfasi è stata posta sull’aumento dell’opacità e sull’esteriorità del segno nell’incontro dello psicotico con il mondo. È ora necessario spostare l’attenzione dal mondo al soggetto stesso. La dichiarazione secondo la quale una persona è un segno era stata usata in precedenza per indicare che il soggetto è a contatto con un mondo coerente soltanto per mezzo di segni. Questa dichiarazione ha tuttavia un secondo significato e precisamente: il soggetto si rapporta a sé stesso attraverso i segni. Questo è certamente un atteggiamento fortemente anticartesiano della semiotica peirciana. Non c’è un’intuizione diretta o una visione del Sé. Oltre a testimoniare i problemi inerenti all’opacità e all’esteriorità del segno – ora del Sé –, in questa sezione porrò l’enfasi sulla sindrome derivante puramente dalla complessità della gamma e della struttura dei segni che definiscono il Sé.

La perdita dell’intuizione cartesiana (e con essa la perdita del Sé come sostanza nel senso tradizionale) è diventata un tema ricorrente nelle riflessioni contemporanee e ha comportato numerose conseguenze.

23

At the opposite pole from the Cartesian self, in a movement inaugurated by Nietzsche, the loss of the intuited, substantial self has united thinkers from fields as diverse as analytic philosophy, cognitive science, and Buddhism in the conclusion that there is no self. Others, rejecting both the intuited, substantial self of Descartes and the opposite stance of an absence of self, have taken a middle ground, arguing for a self that is real albeit not a substance, a self that can be known not directly but through its effects — and its signs. It is in this company that we will locate Peirce. If his contemporary Nietzsche announced the death of the Cartesian substantial self, it was Peirce who proclaimed the birth of a self that could be known indirectly — the semiotic self.

What is this self that is known through its effects and its signs? This is the self of gender, proper name, age and stage of life, profession, avocation, religion — and further, of relationships, marital status, children, and so forth. If I attempt to know myself through pure introspection, the yield is negligible. But if I take the indirect route and approach myself through the series of signs just mentioned, the yield is considerable. I am male, married, middle aged, a psychiatrist, and so forth. To the argument that none of these signs defines the “real” me, there is only one response: With the loss of belief in substance and intuition, we will accept this modest self of indirection, this self of signs.

In addition to the list of categories that mark a typical life, there are two particular classes of verbal signs that signify an identity. The first is that of the personal pronouns. The individual must be able to indicate him or herself as “I,” and as Benveniste has spelled out, the use of “I” implies both a “you” and the implicit awareness that the “you” is also an “I” for whom I am a “you.” In his words,

24

All’estremo opposto del Sé cartesiano, in un movimento inaugurato da Nietzsche, la perdita del Sé intuìto e sostanziale ha visto concordare pensatori dei più svariati campi, dalla filosofia analitica, alla scienza cognitiva, al buddismo, nella conclusione che non esiste un Sé. Altri, rifiutando sia il Sé intuìto e sostanziale di Cartesio sia la posizione opposta di assenza del Sé, hanno scelto una strada di mezzo, sostenendo l’esistenza di un Sé reale, sebbene non si tratti di una sostanza; un Sé che può essere conosciuto non direttamente ma attraverso i suoi effetti – e i suoi segni. È all’interno di questo gruppo che va collocato Peirce. Se il suo contemporaneo Nietzsche ha annunciato la morte del Sé sostanziale cartesiano, è stato Peirce a proclamare la nascita di un Sé che potesse essere conosciuto indirettamente: il Sé semiotico.

Che cosa è questo Sé che è noto attraverso i suoi effetti e i suoi segni? È il Sé del genere, del nome proprio, dell’età e della fase della vita, della professione, degli hobby, della religione – e poi ancora, delle relazioni, dello stato civile, dei figli e così via. Se cerco di conoscere me stesso attraverso la pura introspezione, ottengo pochi risultati. Se invece intraprendo il percorso indiretto e mi avvicino a me stesso grazie alla serie di segni appena menzionati, i risultati sono notevoli. Sono maschio, sposato, di mezza età, psichiatra, e così via. C’è una sola risposta all’osservazione che nessuno di questi segni definisce il “vero” me, e cioè che con la perdita della convinzione nella sostanza e nell’intuizione accetteremo questo modesto Sé indiretto; questo Sé di segni.

Esistono due particolari classi di segni verbali, che significano identità, da aggiungere alla lista delle categorie che definiscono una vita tipica. La prima è quella dei pronomi personali. L’individuo deve essere in grado di indicare sé stesso come «io» e, come ha dichiarato Benveniste, l’uso [del pronome] «io» implica sia un «tu» sia l’implicita consapevolezza che anche il «tu» è un «io» per il quale io sono un «tu». Queste le sue parole:

25

“The consciousness of oneself is possible only if it is experienced by contrast. I only employ I in addressing someone else, who will be in my allocution a you. It is this condition of dialogue that is constitutive of the person, for it implies a reciprocity in which I become you in the allocution of the other who in his turn designates himself by I” (1966, 260). Benveniste also points out that the use of personal pronouns is always accompanied by deictic indicators that locate the speaker in space and time (253). As in the above analysis, these personal pronouns, as well the deictic indicators surrounding them, enjoy a large degree of transparency. We are generally not conscious of the sign in quality of “I,” “you,” “here,” “now,” and so forth.

The second class of self-signifying signs consists of those terms that indicate the material-psychic balance of the human person, the sense of the person as a matter and spirit, or body and mind, or as an embodied consciousness. With this class we see a predominance of metaphorical locutions. Since we do not have an adequate language of soul or mind — of our inner states — we borrow categories of the world and of our bodies to express the psychological side of our existence. For instance, Lakoff and Johnson, in a work that develops this use of metaphor in great detail, describe the use of orientation (e.g., “I’m feeling up”) and entity (e.g., “My mind isn’t operating today”) metaphors — that is, aspects of the material world — to describe states of the mental or psychic world (1980, 14, 27).

To complete this picture of a self known indirectly through its signs, we must add a final dimension to the categories of signs as just described: that of the narrative self, the self as evolved over a lifetime, with a past, present, and future.Narrativity brings to the self the dimensions of temporality and memory, and the integration of these into the more-or-less coherent story of a single destiny. Each of the categories finds its place in the life narrative: the child grows into the adult, chooses and develops in a particular profession, forms relationships and a family, and so forth.

26

La coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non uso io se non rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione sarà un tu. È questa condizione di dialogo che è costitutiva della persona, poiché implica reciprocamente che io divenga tu nell’allocuzione di chi a sua volta si designa con io (1994:312).

Benveniste precisa inoltre che l’uso dei pronomi personali è sempre accompagnato dai deittici che localizzano nel tempo e nello spazio chi parla (303). Nell’analisi precedente, questi pronomi personali, come anche i deittici che li circondano, godono di un ampio grado di trasparenza. In genere noi non siamo consapevoli della qualità segnica di «io», «tu», «qui», «ora», e così via.

La seconda classe di segni che significano il Sé consiste nei termini che designano l’equilibrio materiale-psichico di un essere umano, il senso della persona come materia e spirito, o corpo e mente, o come coscienza incarnata. In questa classe si osserva una predominanza di locuzioni metaforiche. Dal momento che non disponiamo di un linguaggio adeguato dell’anima o della mente – del nostro stato interiore –, prendiamo in prestito categorie del mondo e dei nostri corpi per esprimere il lato psicologico della nostra esistenza. Per esempio, Lakoff e Johnson, in un’opera che analizza con minuzia questo uso delle metafore, descrivono l’uso di metafore di orientamento (esempio «sono su di morale») e di entità (esempio «oggi la mia mente non funziona») – ovvero, aspetti del mondo materiale – per descrivere stati di mondo mentale o fisico (1980:14; 27).

Per completare il quadro di questo Sé, di cui si viene a conoscenza indirettamente attraverso i suoi segni, è necessario aggiungere un’ultima dimensione alle categorie di segno appena descritte: quelle di un Sé narrante, il Sé come si è evoluto nel corso della vita, con il suo passato, presente e futuro. La narratività conferisce al Sé le dimensioni di temporalità e memoria, e il loro inserimento nella storia, più o meno coerente, del destino di un signolo. Ciascuna di queste categorie trova il suo posto all’interno della narrazione della vita: il bambino cresce e diventa adulto, sceglie una certa professione e si evolve in essa, si crea legami e una famiglia, e così via.

27

Human identity as narrationial is a process, ultimately a reflective process. At a first level life is simply lived in habit and routine. Yet even here the unexamined life has, in Ricoeur’s terms, a prenarrative or prefigured quality (1984). A story is being lived, if not yet told. At a further, more reflective level, the story embodied in the life is told. The implicit narrative becomes an explicit narrative. Of course the actual process is far more complicated. The balance of the lived and the told is always changing. The average life may have many narratives, and the narrative of one’s own life intermingles with that of the narratives of others. One is thus a character in one’s own narratives as well as in those of others. In Kerby’s words:

Self-narration, I have argued, is what first raises our temporal existence out of the closets of memorial traces and routine and unthematic activity, constituting thereby a self as its implied subject. This self is, then, the implied subject of a narrated history. Stated another way, in order to be we must be as something or someone, and this someone that we take ourselves to be is the character delineated in our personal narratives. The unity of the self, where such unity exists, is exhibited as an identity in difference, which is all a temporal character can be. [1991, 109]

It should be added, finally, that metaphor is again deeply involved in the structuring of a narrated life. Such notions as story, character, and narrative are, after all, borrowed from literary genres. And locutions such as the “passage” or “flow” of life are based on such implicit metaphors as “life as a river.” Ultimately, given the polysemy of signs, most signs of the self are metaphorical, and we never really transcend this level. Such is the consequence of knowing the self through the indirection of signs.

28

L’identità umana in quanto narrativa è un processo, e sostanzialmente un processo riflessivo. A un primo livello la vita viene semplicemente vissuta nelle sue abitudini e nella sua routine. Eppure anche qui la vita non esaminata ha, come ha scritto Ricoeur, una qualità prenarrativa e prefigurata (1984). Una storia viene vissuta, anche se non ancora raccontata. A un livello avanzato e più riflessivo, la storia racchiusa nella vita viene raccontata. Il racconto implicito diventa un racconto esplicito. Di certo il processo vero e proprio è ben più complicato. L’equilibrio tra il vissuto e il detto cambia di continuo. Una vita media può avere molti racconti, e il racconto della vita di qualcuno si mescola con quello di altri. Una persona è quindi personaggio del proprio racconto e anche dei racconti di altri. Come ha scritto Kerby:

La narrazione del Sé, ho argomentato, è ciò che estrae la nostra esistenza temporale dall’armadio delle tracce di memoria, routine, e di attività atematiche, costituendo così un Sé in qualità di soggetto implicito. Questo Sé è quindi il soggetto implicito di una storia raccontata. Detto in altre parole, per poter essere dobbiamo essere in qualità di qualcosa o qualcuno, e questo qualcuno che noi decidiamo di essere è il personaggio delineato nei nostri racconti personali. L’unità del Sé, laddove esista questa unità, viene espressa come identità nella differenza, che è tutto ciò che un personaggio temporale può essere (1991:109).

Va aggiunto infine che, ancora una volta, nella strutturazione della vita raccontata la metafora ha un ruolo importante. Concetti come «storia», «personaggio» e «racconto» sono, in fondo, presi in prestito dai generi letterari. E locuzioni come «lo scorrere» o «il corso» della vita si basano su metafore implicite del tipo «la vita è un fiume». Infine, data la polisemia, la maggior parte dei segni del Sé è metaforica, e noi non riusciamo mai a trascendere veramente questo livello. È questa la conseguenza del conoscere il Sé attraverso l’azione indiretta dei segni.

29

In view of the complexity of personal identity as a self-narrated network of signs, it is not hard to imagine the difficulties of someone in the course of a psychosis. Since there never was a clear, introspected “I,” we cannot technically speak of the loss of this “I” in psychosis. What we look for, rather, is a collapse of the network of signs through which the self is constituted. We regularly see problems with the use of the personal pronouns, as with those patients who use third person locutions to avoid the use of “I” in speaking about themselves. Here the externality of the “I” as sign is transformed into the use of “he” to refer to the self. In this regard, Peirce’s remarks about the child’s learning to name him- or herself by being named by the parents (Peirce 1868a, 18 – 21) (and the child’s well-known tendency to refer to him or herself in the third person) are apposite. If the child’s first experience with the personal pronoun is a self-label learned from another, the externality of the “I” sign is highlighted from the beginning of speaking life. Muller describes a psychotic patient who avoids the use of personal pronouns and other deictic references (1996, 108), and Sass elaborates on this abandonment of deictic indicators in schizophrenia (1992, 177).

The need to use metaphoric expressions to express the psycho-body duality leads to distortions in both directions. A patient in the midst of an acute psychosis and struggling with the material and biological dimensions of his identity said over and over again that he was nothing but a hollow tube in which food entered at one end and shit exited at the other. Not able to tolerate his condition as an embodied, biological organism, he exaggerated this into his entire identity. A contrasting resolution for the same conflict was offered by a psychotically depressed man who insisted that he had no body.

The categories that serve to mark and anchor one’s identity into a narrative unity are often employed in a distorted and disorganized manner. A chronically schizophrenic man whom I have known for years has a set of categories with which he attempts to demarcate himself: good student in high school, marine, construction worker, husband, father, unable to work for many years, schizophrenic.

30

Alla luce della complessità dell’identità personale come rete di segni che narrano il Sé, non è difficile immaginarsi le difficoltà di un soggetto psicotico. Dal momento che non c’è mai stato un «Io» frutto di introspezione ben definito, nella psicosi non è tecnicamente possibile parlare della perdita di questo «Io». Ciò che invece intendo mostrare è il crollo di una rete di segni che costituisce il Sé. Di solito vediamo i problemi attraverso l’uso dei pronomi personali, come in quei pazienti che usano la terza persona per evitare l’uso [del pronome] «Io» quando parlano di sé stessi. Qui l’esteriorità di «io» in quanto segno si trasforma nell’uso di «egli» per riferirsi a sé. A questo proposito, sono appropriate le osservazioni di Peirce sul bambino che impara a nominare sé stesso quando viene nominato dai genitori (Peirce 1868:96-99) (e la nota tendenza che il bambino ha a riferirsi a sé stesso in terza persona). Se la prima esperienza che il bambino ha con il pronome personale è un’etichetta del Sé appresa da un altro, l’esteriorità del segno «Io» viene evidenziata nelle prime fasi dell’uso della parola. Muller descrive un paziente psicotico che evita di usare i pronomi personali e altri deittici (1996:108), e Sass approfondisce l’abbandono dei deittici nella schizofrenia (1992:177).

La necessità di ricorrere a espressioni metaforiche per esprimere la dualità corpo-psiche porta a distorsioni in entrambe le direzioni. Un paziente affetto da psicosi acuta e che si scontra con la dimensione materiale della sua identità e con quella biologica ha sostenuto più e più volte di non essere nient’altro che un tubo cavo in cui del cibo entrava da una estremità e della merda usciva dall’altra. Incapace di tollerare questa sua condizione di organismo biologico concreto, l’ha portata all’estremo fino a ridurre la propria identità a questo. Una soluzione opposta al medesimo conflitto è stata data da uno psicotico depresso che insisteva nel sostenere di non avere un corpo.

Le categorie necessarie a contraddistinguere e fissare l’identità di una persona in un’unità narrativa sono spesso impiegate in modo distorto e disorganizzato. Un uomo affetto da schizofrenia cronica che conosco da anni possiede una serie di categorie con le quali cerca di demarcare sé stesso: «bravo studente alle superiori», «marine», «operaio edile», «marito», «padre», «impossibilitato a lavorare per diversi anni», «schizofrenico».

31

These are, however, never ordered in a meaningful way with expectable priorities, hierarchies, and temporal layerings, nor are they narrated into an integrated life. For instance, categories that have not been relevant for decades (e.g., marine, construction worker) are placed alongside contemporary categories, with little sense of current relevance and the temporal passage from one to the other. This man also demonstrates the way in which many patients use the category of “mental patient” or “schizophrenic” as an identity tag that sums up all that is wrong with them in a way that cannot be further articulated.

Finally, the routine use of metaphors to describe aspects of the self offers endless opportunities for confused, psychotic thinking and speech. To take a simple example, Lakoff and Johnson offer the following specimens of “the mind is a machine” metaphor: “My mind just isn’t operating today”; “Boy, the wheels are turning now”; I’m a little rusty today”; “We’ve been working on this problem all day and now we’re running out of steam” (1980, 27). With each of these statements, taking the expression literally rather than figuratively will lead to the most bizarre notions about one’s own mind. Metaphor always operates through a dialectic of similarity and dissimilarity. Thus, each of the above statements has the general form of “my mind is like a machine.” If the “like” is removed, the result is literal, concrete, metaphoric, and possibly psychotic.

The Triadic Sign and Psychosis

The above discussion has focused on the implications of general principles of Peircean semiotics for an understanding of psychotic thinking and speech. It is now time to concentrate on Peirce’s unique triadic conception of the sign to see what further light it sheds on psychotic thought. The line of thought developed in this section is not intended to replace or supersede but rather to extend that developed above.

32

A ogni modo queste categorie non sono mai ordinate in modo significativo o in ordine di priorità, gerarchia, o livello temporale prevedibile, e non sono neppure raccontate dando forma a una vita integrata. Per esempio, categorie che non sono rilevanti da decenni (come «marine» e «operaio edile») vengono poste accanto a categorie contemporanee, dimostrando scarso senso di ciò che è attuale e del passaggio temporale dall’una all’altra. Quest’uomo dimostra inoltre come molti pazienti utilizzino la categoria di «paziente psichiatrico» o «schizofrenico» come etichetta che riassume tutto ciò che c’è di sbagliato in loro in un modo non ulteriormente articolabile.

Infine, l’uso consuetudinario delle metafore per descrivere aspetti del Sé offre infinite possibilità di pensieri e discorsi psicotici e confusi. Per fare un esempio semplice, Lakoff e Johnson propongono i seguenti esempi della metafora «la mente è una macchina». «Oggi la mente non mi funziona»; «Gente, ora le rotelle stanno girando»; «Oggi sono un po’ arrugginito»; «È tutto il giorno che lavoriamo a questo problema e adesso abbiamo esaurito le batterie» (1980:27). Nel caso di ciascuna di queste affermazioni, prendere l’espressione alla lettera, e non in senso figurato, porta a pensare le cose più assurde della mente di una persona. Le metafore funzionano sempre attraverso la dialettica della somiglianza e dissomiglianza. Pertanto, ciascuna delle affermazioni di cui sopra ha la forma generale di «la mia mente è come una macchina». Se viene eliminato il «come», il risultato è letterale, concreto, metaforico e, infine, psicotico.

Il segno triadico e la psicosi

La discussione precedente si è focalizzata sulle implicazioni dei principi generali della semiotica peirciana per una concezione del pensiero e del discorso psicotico. È ora il momento di concentrarsi sulla concezione triadica del segno tipica di Peirce, per vedere come ha approfondito ulteriormente il pensiero psicotico. La linea di pensiero sviluppata in questa sezione non intende sostituire quella appena sviluppata, ma intende piuttosto ampliarla.

33

In the varied definitions of the sign he offered over several decades, Peirce always included the triad of sign, object, and interpretant. In Houser’s summary:

In its most abbreviated form, Peirce’s theory of signs goes something like this. A sign is anything which stands for something to something. What the sign stands for is its object, what it stands to is the interpretant. The sign relation is fundamentally triadic: eliminate either the object or the interpretant and you annihilate the sign. This was the key insight of Peirce’s semiotic, and one that distinguishes it from most theories of representation that attempt to make sense of signs (representations) that are related only to objects. [1992, xxxvi]

The triadic nature of the sign may be illustrated with one of Peirce’s own examples, a thermometer (quoted in Deely 1990, 24). As a physical thing in the natural world, the thermometer’s column of mercury is caused to rise by an increase in the ambient temperature. As such, the thermometer is a thing among things and a part of the natural causal order. It is not yet a sign. What transforms this thermometer-thing into a sign is that it “stands for something to something.” It stands for its object, the ambient temperature, to its interpretant, the person recognizinig the thermometer as a thermometer. One reason for Peirce’s neologism, “interpretant,” as opposed to “interpreter,” is to focus on the fact that the interpretant is more precisely not the “interpreting” person but rather the thought generated in the mind of the “interpreting” person or consciousness. The interpretant of the thermometer-sign is thus the idea of such and such ambient temperature in the mind of the observer. The sign is said to mediate between object — the ambient temperature — and interpretant — the idea of the ambient temperature. In this example, then, by means of the thermometer-sign, the observer can form an idea of the ambient temperature.

34

Nelle varie definizioni di segno che ci ha donato nel corso di molti decenni, Peirce si è sempre concentrato sulla triade di segno, oggetto e interpretante. Come riassume Houser:

Nella sua forma più abbreviata, la teoria dei segni di Peirce afferma qualcosa del tipo: un segno è qualunque cosa che in base a qualcosa sta per qualcosa. Quello per cui sta il segno è il suo oggetto, l’effetto tramite il quale sta per l’oggetto. La relazione segnica è fondamentalmente triadica: eliminando l’oggetto o l’interpretante, si annienta il segno. Era questa l’intuizione chiave della semiotica di Peirce, e ciò che la distingue dalla maggior parte delle teorie della rappresentazione che cercano di dare un senso ai segni (rappresentazioni) che sono in relazione soltanto con gli oggetti (1992: XXXVI).

La natura triadica del segno può essere illustrata con uno degli esempi di Peirce: un termometro (citato in Deely 1990:24). In quanto cosa fisica nel mondo naturale, la colonnina di mercurio del termometro cresce a causa di un aumento della temperatura nell’ambiente. In quanto tale il termometro è una cosa tra le cose ed è parte dell’ordine naturale causale. Non è ancora un segno. Ciò che trasforma questa cosa-termometro in un segno è che il termometro «in base a qualcosa sta per qualcosa». In base al suo interpretante, la persona che riconosce il termometro come termometro, sta per il suo oggetto, la temperatura ambientale. La scelta di Peirce di coniare il neologismo «interpretante», in contrapposizione a «interprete» è stata dettata dal fatto che «interpretante», per essere più precisi, non è la persona «che interpreta» ma invece il pensiero che si genera nella mente o nella coscienza della persona «che interpreta». L’interpretante del segno termometro è perciò l’idea di una certa temperatura ambientale nella mente di chi osserva. Il segno si dice che faccia da mediatore tra oggetto – la temperatura ambientale – e interpretante – l’idea della temperatura ambientale. Secondo questo esempio, dunque, l’osservatore riesce a formarsi un’idea della temperatura ambientale per mezzo del segno-termometro.

35

The most commonsense understanding of the Peircean sign is that of the sign as word or gesture, not a thing as in the example of the thermometer. As word or gesture the sign structure is that of one person signifying something about the world to another person. The sign is the statement or gesture of the first person, the object is that about which this person is speaking or signifying, and the interpretant is the second person (or second person’s thought) to whom the first person is communicating. The triadic structure in this case would involve one person signifying something to another person about something. In a much-quoted letter of 1908, Peirce described the sign structure in this manner: “I define a Sign as anything which is so determined by something else, called its Object, and so determines an effect upon a person, which I call its Interpretant, that the latter is thereby mediately determined by the former” (1977, 80 – 81).

Peirce was vigorous in his insistence, however, that the sign need not involve separate individuals in this way. Specifically, the interpretant need not be another person or mind. The above quote is immediately followed by the sentence: “My insertion of ‘upon a person’ is a sop to Cerberus, because I despair of making my own broader conception understood” (ibid.). Thus, the interpretant may be the thought of another person, but may as well be simply the further thought of the first person.

36

La concezione più diffusa del segno peirciano è quella del segno come parola o gesto, e non come cosa, come nell’esempio del termometro. In quanto parola o gesto, la struttura segnica è quella di una persona che significa qualcosa riguardante il mondo comunicando con un’altra persona. Il segno è l’affermazione o il gesto della prima persona, l’oggetto è ciò di cui questa persona sta parlando o che sta significando, e l’interpretante è la seconda persona (o il pensiero della seconda persona) a cui la prima persona sta comunicando. La struttura triadica in questo caso coinvolgerebbe una persona che significa qualcosa comunicando con un’altra persona riguardo a qualcosa. In una lettera molto citata del 1908, Peirce descrive così la struttura segnica:

Definisco «segno» qualunque cosa che è così determinata da qualcos’altro, chiamato il suo «oggetto» e [che] determina così un effetto su una persona, che chiamo il suo «interpretante», che quest’ultimo è di conseguenza determinato in modo mediato dal precedente (1977:80-81)6.

Tuttavia, Peirce insisteva con vigore che il segno non deve necessariamente coinvolgere due individui distinti. Nello specifico, l’interpretante non deve essere necessariamente un’altra persona o un’altra mente. Alla citazione riportata qui sopra segue la frase:

Il fatto che abbia inserito «su una persona» è un boccone lanciato a Cerbero, perché dispero di far capire la mia concezione più ampia (ibidem)7.

L’interpretante può pertanto essere il pensiero di un’altra persona, ma può anche essere semplicemente un ulteriore pensiero della prima persona.

6

determines an effect upon a person, which I call its Interpretant, that the latter is thereby

mediately determined by the former.

I define a Sign as anything which is so determined by something else, called its Object, and so

7
broader conception understood.

My insertion of “upon a person” is a sop to Cerberus, because I despair of making my own

37

In any process of thought, for example, in any soliloquy, the succeeding thought is the interpretant of the preceding thought. That is, each thought interprets the thought that has preceded it. A particular thought is then both the interpretant of the thought that precedes it and the object of the interpretant thought that succeeds it.

This generalization of the sign relationship to a process that can take place in one mind and need not involve the participation of two minds, although clearly an abstraction from the more straightforward, two-person notion of semiotic process, is still not the level of generalization that Peirce wished to reach for the sign. In his most abstract, most general understanding of the sign, it need not involve any mind at all. As he wrote in 1902, “If the logician is to talk of the operations of the mind at all . . . he must mean by ‘mind’ something quite different from the object of study of the psychologist. . . . Logic will here be defined as formal semiotic. A definition of a sign will be given which no more refers to human thought than does the definition of a line as the place which a particle occupies, part by part, during a lapse of time” (quoted in Fisch 1986, 343).

As this statement indicates, Peirce was interested in an understanding of logic and semiotics that was wholly independent of psychology. For our purposes, however, we will have to draw him back to psychology — specifically to such questions as to how semiotic processes develop and how they actually work in human beings.

38

In ogni processo di pensiero, per esempio, in ogni soliloquio, il pensiero seguente è l’intepretante del pensiero che lo precede. Ovvero, ciascun pensiero interpreta il pensiero che lo ha preceduto. Un certo pensiero è quindi sia l’interpretante del pensiero che lo precede che l’oggetto del pensiero interpretante che lo segue.

Tale generalizzazione della relazione segnica come processo che può aver luogo nella mente di un individuo e non implica necessariamente il coinvolgimento di due menti, seppure sia chiaramente un’astrazione dal concetto di processo semiotico più diretto e che coinvolge due persone, non è comunque il livello di generalizzazione che Peirce desiderava raggiungere per il segno. Nella sua concezione più astratta e generica di segno, il segno non deve per forza coinvolgere una mente. Come ha scritto nel 1902:

Se il logico deve necessariamente parlare delle operazioni della mente […] per «mente» deve intendere qualcosa di molto diverso dall’oggetto di studio dello psicologo. […] Qui la logica verrà definita semiotica formale. Verrà data una definizione di segno che non si riferisce al pensiero umano più di quanto non lo faccia la definizione di una linea come il posto occupato da una particella, pezzo per pezzo, in un arco di tempo (citato in Fisch 1986:343)8.

Come si evince da questa affermazione, Peirce era interessato a una concezione di logica e semiotica del tutto indipendente dalla psicologia. Per i fini che mi propongo è tuttavia necessario riportarlo alla psicologia e, nello specifico, a quelle questioni riguardanti le modalità di sviluppo dei processi semiotici e il loro funzionamento effettivo negli esseri umani.

8

If the logician is to talk of the operations of the mind at all […] he must mean by “mind” something wuite different from the object of study of the psychologist. […] Logic will here be defined as formal semiotic. A definition of a sign will be given which no more refers to human thought than does the definition of a line as the place which a particle occupies, part by part, during a lapse of time.

39

For these questions the final abstraction is of limited use, while the less abstract levels of sign process — involving either one or two persons (or minds) — will prove to be of great use. Although for Peirce “the interpretant is deliberately not described as being necessarily an idea in the mind of someone” (Colapietro 1989, 7), our focus, remaining as we will at a more psychological level, will be on the interpretant as an idea in the mind of someone.

If we try to imagine actual sign use in ordinary circumstances, we must envisage a complex and changing situation in which the subject may occupy any (or all) of the positions of the sign triad at any particular moment. The subject may thus be the sign, the object (to him or herself or another), or the interpretant (of his or her own thought or that of another). In an encounter between two people, each speaker’s utterance will be the sign referring about something, the object, to the other person, the interpretant. But the speaker will at the same time also be the interpretant and object of his or her own ongoing speech, and as well the object in another sense if referring to him- or herself. The situation then quickly reverses as the other begins to speak. And as the dialogue continues and begins to take the form of a single thought process with two voices — a notion with which Peirce was highly sympathetic, referring to us as “mere cells of a social organism” (quoted in Colapietro 1989, 65) — we may say that it becomes a kind of soliloquy. In that event the sign and the interpretant (and at times the object) are at all times both of the speakers. But then recalling that for Peirce, in agreement with Plato, “all thought is dialogue” (quoted in Colapietro 1989, xiv), we conclude that the distinctions between soliloquy and dialogue — between a one-person and a two-person thought process — blur. A dialogue is always a soliloquy and a soliloquy is always a dialogue. In each case the same triadic sign process obtains.

Peirce elaborated his analysis of signs by classifyin them into three trichotomies (and then later into a tenfold classification).

40

L’astrazione definitiva è di poco aiuto per rispondere a tali domande, mentre livelli di astrazione minore del processo segnico – che coinvolgono una o due persone (o menti) – si riveleranno di grande aiuto. Sebbene secondo Peirce «l’interpretante sia deliberatamente descritto come qualcosa che non è necessariamente un’idea nella mente di qualcuno» (Colapietro 1989:7), per attenermi, come farò, a un livello più psicologico, porrò l’attenzione sull’interpretante in quanto idea nella mente di qualcuno.

Se proviamo a immaginare un uso effettivo del segno in circostanze ordinarie, dobbiamo raffigurarci nella mente una situazione complessa e in continuo cambiamento nella quale il soggetto in qualunque momento può occupare una qualsiasi posizione della triade segnica (o anche tutte). Il soggetto può quindi essere il segno, l’oggetto (per lui o per lei o per un’altra persona), o l’interpretante (del suo pensiero o di quello di qualcun altro). Nell’incontro tra due persone, ciascuna enunciazione del parlante sarà il segno che si riferisce a qualcosa, l’oggetto, per l’altra persona, l’interpretante. Ma chi parla, allo stesso tempo sarà interpretante e oggetto del suo discorso così come l’oggetto in un altro senso se fa riferimento a sé stesso. La situazione quindi si rovescia velocemente quando l’altro inizia a parlare. E dal momento che il dialogo continua e inizia a prendere la forma di un singolo processo di pensiero a due voci – concetto che Peirce condivideva parecchio, riferendosi a noi come «mere cellule di un organismo sociale» (citato in Colapietro 1989:65) – possiamo dire che diventa una sorta di soliloquio. In quel caso il segno e l’interpretante (e talvolta l’oggetto) appartengono entrambi al parlante. Se però richiamiamo alla mente Peirce che, in accordo con Platone, sosteneva che «ogni pensiero è un dialogo» (citato in Colapietro 1989:XIV), si può concludere che la distinzione tra soliloquio e dialogo – tra un processo di pensiero a una persona e a due persone – si confonde. Un dialogo è sempre un soliloquio, e un soliloquio è sempre un dialogo. In entrambi i casi si presenta lo stesso processo segnico triadico.

Peirce elaborò la sua analisi dei segni classificandoli in tre tricotomie (e poi in seguito in dieci classi).

41

For our purposes we need only focus on one of the first trichotomies, that of the relation of sign to object, and within that division only the distinction between index and symbol. The indexical sign has an actual connection with its object. As Peirce puts it, “An Index is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of being really affected by that Object” (1897, 102). Examples are a footprint in the sand or a rap on the door. In contrast, the symbolic sign has an arbitrary, conventional relation to its object. Again in Peirce’s words, “A Symbol is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of a law, usually an association of general ideas, which operates to cause the symbol to be interpreted as referring to that Object” (ibid.). The immediate examples are words, which, except for occasional onomatopoeic qualities, are associated with their referents in a wholly arbitrary, conventional manner.

Appreciating, then, the complexity of the semiotic processes in the most ordinary speech or thought, it is not hard to imagine the range of distortions these processes may undergo in psychosis. In what follows I will first describe some examples of these distortions and then suggest the developmental processes and disturbances that may be related to them.

Let us begin with the patient described above who carefully examines his mental experiences and often overinterprets and misinterprets them. For instance, he experiences a sexual sensation when in the presence of a woman at work. In Peircean terms this sensation is an index of the patient’s arousal and of the woman as the object of his desire. Further, we would say that the interpretant of the sign is the further thought that follows the patient’s sudden urge, such as a thought that he might like to go out with the woman (or whatever thought occurs in the woman, if he indicates his desire to her).

42

Considerato l’obiettivo che mi sono prefissato, è necessario che mi soffermi soltanto su una delle prime tricotomie, quella del rapporto tra segno e oggetto, e all’interno di tale divisione sulla sola distinzione tra indice e simbolo. Il segno indicale ha una connessione effettiva con il suo oggetto. Come sostiene Peirce: «Un Indice è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù del fatto che è realmente determinato da quell’Oggetto» (1897:102)9. Esempi sono le impronte sulla sabbia e il bussare alla porta. Diversamente, il segno simbolico è in rapporto arbitrario e convenzionale con il suo oggetto. Utilizzando ancora le parole di Peirce: «Un Simbolo è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee generali, che opera in modo che il Simbolo sia interpretato come riferentesi a quell’Oggetto» (ibidem)10. Esempi immediati sono parole che, a eccezione di occasionali qualità onomatopeiche, sono associate ai loro referenti in modo del tutto arbitrario e convenzionale.

Comprendendo pertanto la complessità dei processi semiotici nel più ordinario discorso o pensiero, non è difficile immaginare la gamma di distorsioni che questi processi possono subire nella psicosi. In quanto segue descriverò in primo luogo alcuni esempi di queste distorsioni e proseguirò poi con ipotesi sui processi evolutivi e i disturbi che possono esservi collegati.

Per cominciare riprendo l’esempio, descritto in precedenza, del paziente che esamina con attenzione le proprie esperienze mentali e che spesso le interpreta in modo esagerato ed erroneo. Il paziente ha, per esempio, una sensazione sessuale quando al lavoro si trova in presenza di una donna. In termini peirciani questa sensazione è un indice dell’eccitazione del paziente, e della donna come oggetto del suo desiderio. Direi inoltre che l’intepretante del segno è il pensiero successivo che segue l’improvviso bisogno del paziente, come per esempio che a lui potrebbe far piacere uscire con quella donna (o qualunque pensiero si presenti nella donna qualora lui le esprimesse questo desiderio nei confronti di lei).

9
that Object (CP 2.247).

An Index is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of being really affected by

10

A Symbol is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of a law, usually an association of general ideas, which operates to cause the Symbol to be interpreted as referring to that Object (CP 2.249).

43

However, things are not so simple for this patient. As soon as he experiences the sensation he quickly concludes (1) that the woman has provoked the feeling, and (2) that she was ordained to do this so that he will have sexual experience. The sensation has now shifted from an indexical to a symbolic plane. The patient is not simply affected by the object, the woman, which would make his feeling an index. There is an intention from an outside force that is being communicated to him. His feeling thus has the power of a symbolic communication, although not with the full clarity of spoken language. Furthermore, the positions of sign, object, and interpretant become increasingly complex and confused. Since he also assumes that the woman has had desire toward him placed in her, they are each both object and interpretant: objects both for each other and of the outside force, and interpretants of the other’s desire as well as of the outside intention.

Another patient asks me to uncross my legs after I have crossed them in the middle of a session. Asked to explain her request, she informs me that she takes the crossing of my legs to be a sexual pass toward her. This woman has taken a rather simple, low-level sign — the leg-crossing as an index drawing attention to me (and possibly of my discomfort or restlessness) — and treated it as a gesture of my desire toward her. Again, there is a shift from index to symbol. The leg-crossing has taken on elaborate symbolic significance. Moreover, she has completely altered the relationships of sign, object, and interpretant. The object —what is represented by the leg-crossing —is no longer my discomfort but is now herself, the object of my desire and gesture. And the interpretant has become herself as the interpreting agent with all the reactions evoked or provoked by my putative advance.

Finally, let me suggest a more complex example, that of the paranoid patient. How may he be analyzed from a semiotic perspective?

44

A ogni modo, per questo paziente le cose non sono così semplici. Non appena prova questa sensazione conclude subito (1) che la donna ha provocato quel sentimento e (2) che le era stato imposto di comportarsi così in modo che lui avesse un’eccitazione. La sensazione si è spostata ora da un piano indicale a uno simbolico. Il paziente non è semplicemente colpito dall’oggetto, la donna, il che renderebbe il suo sentimento un indice. C’è l’intenzione di una forza esterna, che gli viene comunicata. Il suo sentimento ha pertanto il potere di una comunicazione simbolica, sebbene non abbia la piena chiarezza della lingua parlata. Inoltre, la posizione di segno, oggetto e intepretante si fa sempre più complessa e confusa. Dal momento che anche lui presume che la donna abbia avuto un desiderio nei suoi confronti che le è stato imposto, sono entrambi sia oggetto che interpretante: oggetti sia l’uno per l’altro che della forza esterna, e interpretanti dell’altrui desiderio così come dell’intenzione esterna.

Un’altra paziente durante una seduta mi chiede di non tenere le gambe accavallate come le avevo appena messe. Quando le ho chiesto di spiegare la sua richiesta mi ha risposto che lei percepisce il mio accavallare le gambe come un’avance sessuale verso di lei. Questa donna ha preso un segno piuttosto semplice e di basso livello – l’accavallamento delle gambe come indice che richiama l’attenzione su di me (e possibilmente del mio disagio o della mia irrequietezza) – e lo ha considerato un segno del mio desiderio nei suoi confronti. Ancora una volta si presenta un passaggio da indice a simbolo. Accavallare le gambe ha assunto un significato simbolico elaborato. La donna ha inoltre alterato completamente le relazioni di segno, oggetto e interpretante. L’oggetto – ciò che è rappresentato dall’accavallamento delle gambe – non è più il mio disagio, ora è invece lei stessa l’oggetto del mio desidero e del mio gesto. Inoltre l’interpretante è diventato lei stessa in quanto agente interpretante con tutte le reazioni evocate o provocate dalla mia ipotetica avance.

Mi si permetta infine di ragionare su un esempio più complesso, quello di un paziente paranoide. Come potrebbe essere analizzato da un punto di vista semiotico?

45

To begin, he is someone who identifies himself as the object of the signifying and interpreting activities of others. They talk and plan about him. Sometimes they signify (so he thinks) to him. It then becomes his task to interpret their communications (about him or to him). He does not really talk to or with anyone; he is unable to assume the position of the signifying agent that would be required for this. Even in an apparent conversation, he is busy placing himself as object and interpreting the hidden meanings of his interlocutor. There is certainly a jumble of sign classes in his distorted thinking. As in the above examples, simple indexes are taken for symbolic communications. The striking effect of these shifts is the way in which he becomes the object and interpretant of signs that in fact have nothing to do with him. Caught in these distorted and exaggerated poles of the sign triad as the object and the interpretant, and never the signifying agent, he loses the freedom that goes with that position.

What emerges from these examples is the generalization that, in psychotic thinking, the specification of the precise Peircean sign category is less important than the recognition that in all cases there is an overinterpretation of simple indexes into symbols. Events in the world that do nothing but call attention to themselves (e.g., a spontaneous cry) or provide information about the object in question (e.g., a weathercock) are taken to mean more that they are. This corrupted meaning always implies some other agency generating the meaning, however anonymous that agency remains; and with that implicit agency there is an improper shuffling of the positions of sign, object, and interpretant. In this psychotic process a rustling of the trees does not remain a simple index of wind and current weather conditions. It carries the symbolic weight of hidden presence and communication, and the psychotic subject is not a neutral observer of the wind but rather the intended object and interpreter of whatever message is carried by the gesturing leaves.

46

Per iniziare, il soggetto è una persona che indentifica sé come oggetto delle attività di significazione e interpretazione degli altri. Loro parlano di lui e confabulano su di lui. Allora è suo compito interpretare quello che comunicano (su di lui o a lui). A volte loro significano (questo è quello che pensa lui) riferendosi a lui. Non parla realmente a o con qualcuno; è incapace di assumere la posizione dell’agente significante che sarebbe necessaria per farlo. Perfino in una conversazione immaginaria è impegnato a mettere sé stesso come oggetto e a interpretare i significati nascosti del suo interlocutore. Di certo nel suo pensiero distorto c’è un miscuglio di classi segniche. Come negli esempi precedenti, semplici indici sono presi per comunicazioni simboliche. L’effetto sorprendente di questi passaggi è il modo in cui il paziente diviene l’oggetto e l’interpretante di segni che in realtà non hanno niente a che fare con lui. Incastrato in questi poli di triade segnica distorti ed esagerati come l’oggetto e l’interpretante, e mai l’entità significativa, egli perde la libertà che pertiene a quella posizione.

Ciò che emerge da questi esempi è una generalizzazione, ovvero che nel pensiero psicotico la specificazione della precisa categoria segnica peirciana è meno importante rispetto al riconoscimento che in tutti i casi si ha un’iperinterpretazione di indici semplici fino a farli diventare simboli. Eventi del mondo che non fanno nient’altro che richiamare a sé l’attenzione (es. un grido spontaneo) o forniscono informazioni sull’oggetto in questione (es. una banderuola) vengono investiti di un significato maggiore rispetto a quello che hanno in realtà. Questo significato corrotto implica sempre qualche altra entità che genera il significato, per quanto anonima rimanga quell’entità, e con quell’entità implicita si ha un cambiamento improprio delle posizioni di segno, oggetto, e interpretante. In questo processo psicotico il frusciare degli alberi non resta un indice semplice del vento e delle condizioni climatiche in quel momento. Porta con sé il peso simbolico della presenza e della comunicazione nascoste, e il soggetto psicotico non è un osservatore neutrale del vento, ma piuttosto l’oggetto voluto e l’interprete di qualunque messaggio venga portato dalle foglie che gesticolano.

47

Sebeok has called attention to the importance of indexicality in Peirce’s conception of the sign:

Peirce contended that no matter of fact can be stated without the use of some sign serving as an index, the reason for this being the inclusion of designators as one of the main classes of indexes. He regarded designations as “absolutely indispensable both to communication and to thought. No assertion has any meaning unless there is some designation to show whether the universe of reality or what universe of fiction is referred to.” Deictics of various sorts, including tenses, constitute perhaps the most clear-cut examples of designations. Peirce identified universal and existential quantifiers with selective pronouns, which he classified with designation as well. [1995, 224]

Indexes are deictic indicators that anchor the speaker in the world, the world of this particular here and now and the world of this particular intersubjective situation. The psychotic may simply abandon the use of deictic references (as with Muller’s patient, whose speech contained no first-person references [1996, 108]) or, as emphasized in the above examples, confuse index with symbol. The consequence of this confusion is that, in the terminology of Peirce just cited by Sebeok, the psychotic does not offer adequate “designation to show whether the universe of reality or what universe of fiction is referred to.” But this is not for lack o designating indexes; it is rather that the psychotic, in confusing index and symbol, has thoroughly confounded the universes of reality and fantasy.

48

Sebeok ha richiamato l’attenzione sull’importanza dell’indicalità nella concezione peirciana di segno:

Peirce sosteneva che nessun fatto evidente può essere affermato senza l’uso di qualche segno che funga da indice; dal momento che i designatori sono considerati una delle classi principali di indici. [Peirce] considerava le designazioni «assolutamente indispensabili sia per comunicare che per pensare». Nessuna asserzione ha un significato a meno che non vi sia una designazione che mostri l’universo di realtà o l’universo di finzione a cui si riferisce». I deittici di ogni tipo, inclusi i tempi verbali, costituiscono forse gli esempi più limpidi di designazioni. Peirce identifica quantificatori universali e esistenziali con pronomi selettivi che ha classificato come designazioni (1995:224).

Gli indici sono indicatori deittici che ancorano al mondo chi parla, il mondo di questo particolare qui e ora e il mondo di questo particolare situazione intersoggettiva. Lo psicotico può semplicemente abbandonare l’uso dei riferimenti deittici (come nel caso del paziente di Muller, il cui discorso non conteneva nessun riferimento di prima persona (1996:108) oppure, come è stato evidenziato negli esempi precedenti, confondere l’indice con il simbolo. La conseguenza di questa confusione è che, per usare la terminologia di Peirce appena citato da Sebeok, lo psicotico non fornisce una adeguata «designazione che mostri l’universo di realtà o l’universo di finzione a cui si riferisce». Questo non avviene però per mancanza di indici di designazione, ma piuttosto perché lo psicotico, confondendo indice e simbolo, confonde del tutto gli universi di realtà e finzione.

49

Developmental Considerations

I would like to conclude with some suggestions, obviously quite speculative, concerning developmental processes that might be associated with the psychotic distortions of normal semiotic processes. In this discussion I will pass over the issue of the enormously complex relationship of constitution and development. It is common knowledge that the highly complex semiotic processes that Peirce has illuminated and that are part of ordinary adult thought and speech must be learned by children in the company of correctly thinking and speaking adults. The child development literature is replete with examples of child’s efforts to get its semiosis right. Indeed, Peirce himself offers perspicuous remarks about the way in which the child learns to recognize him- or herself through the comments made by adults about him or her. The child’s sense of self is a product of their testimony: “A child hears it said that the stove is hot. But it is not, he says; and indeed, that central body is not touching it, and only what that touches is hot or cold. But he touches it, and finds the testimony confirmed in a striking way. Thus, he becomes aware of ignorance, and it is necessary to suppose a self in which this ignorance can inhere. So testimony gives the first dawning of self-consciousness” (1868a, 20).

The seminal work in developmental semiotics has been carried out recently by Muller in Beyond the Psychoanalytic Dyad (1996).

50

Considerazioni evolutive

Desidero concludere con alcune osservazioni, decisamente teoriche, riguardanti processi evolutivi che potrebbero essere associati ai disturbi psicotici dei normali processi semiotici. In questa sezione non mi soffermerò sulla questione della relazione enormemente complessa di costituzione e sviluppo. Allo stesso modo non parlerò di quanto è generalmente noto e accettato riguardo allo sviluppo cognitivo e piscologico, ma lo terrò bene a mente. È noto a tutti che i processi semiotici altamente complessi che Peirce ha approfondito, e che fanno parte del normale pensiero e discorso adulto, devono essere appresi da bambini in presenza di adulti che pensano e parlano correttamente. La letteratura sull’età evolutiva è colma di esempi di sforzi dei bambini per capire bene la semiosi; Peirce stesso propone infatti numerose osservazioni sul modo in cui il bambino impara a riconoscere sé stesso attraverso i commenti che gli adulti fanno su di lui. La percezione di sé del bambino è il prodotto della testimonianza degli adulti:

Un bambino sente dire che la stufa è calda. Ma non è vero, dice; e, infatti, quel corpo centrale non la sta toccando, e soltanto ciò che si tocca è caldo o freddo. Tuttavia lo tocca e trova confermata la testimonianza in modo sorprendente. [Il bambino] diviene così consapevole dell’ignoranza, ed è necessario supporre un Sé a cui questa ignoranza possa inerire. La testimonianza pone le basi della coscienza di sé (1868a:20)11.

Il lavoro fondamentale nella semiotica evolutiva è stato portato avanti di recente da Muller in beyond the Psychoanalytic Dyad (1996).

11

A child hears it said that the stove is hot. But it is not, he says; and, indeed, that central body is not touching it, and only what that touches is hot or cold. But he touches it, and finds the testimony confirmed in a striking way. Thus, he becomes aware of ignorance, and it is necessary to suppose a self in which this ignorance can inhere. So testimony gives the first dawning of self-consciousness (CP 5.233).

51

Muller reviews the infant developmental literature extensively and demonstrates that the dyadic relationship of mother and infant is framed and held by the cultural system of signs to which they belong. This system is assimilated by Muller both to Peirce’s category of Third as well as to Lacan’s symbolic order. Muller shows further that it is the presence of this Third that prevents the mother-infant dyad from sliding into merger and fusion.

The Third is required to frame the dyad and thereby enable the partners to relate without merging. . . . The complexity of intersubjectivity . . . can best be understood when the dyadic processes of empathy and recognition are taken as operating in a triadic context in which a semiotic code frames and holds the dyad. It is the determining presence of such a code, shaping culture, communication, and context, that makes possible the saying of “I” and “you” whereby the human horizon is opened to reach of intimacy, both personal and perhaps also transcendent. [1996, 61 – 62]

I focus on another aspect of development that depends on a different aspect of Third. While in his most general descriptions of the categories Peirce connected Third to mediation and generality, he also applied the categories to specific domains such as that of the sign. On the one hand, the sign plays the mediating role that is associated with Third. In Greenlee’s words, “What the sign succeeds in mediating is the object-interpretant relation; for either actually or potentially the sign renders the object available to the interpreter (in whatever way available, whether for thinking, saying, acting, making, etc.)” (1973, 33 – 34).

52

Muller esamina nel dettaglio la letteratura sull’età evolutiva e dimostra come la relazione diadica di madre e neonato sia inquadrata e contenuta dal sistema di segni culturale a cui appartiene. Muller ha assimilato questo sistema sia alla categoria peirciana di «terzo» sia all’ordine simbolico di Lacan. Muller mostra inoltre che è la presenza di questo «terzo» a impedire alla diade madre- neonato di degenerare.

Il Terzo è richiesto per inquadrare la diade e permettere così ai partner di relazionarsi senza fondersi. […] La complessità dell’intersoggettività […] può essere spiegata meglio quando il processo diadico di empatia e riconoscimento viene dato per operante in un contesto triadico in cui un codice semiotico inquadra e regge la diade. È la presenza determinante di questo codice, che plasma la cultura, la comunicazione, e il contesto, a permettere di dire «io» e «tu» con i quali l’orizzonte umano si amplia fino a raggiungere la sfera intima, sia personale sia forse anche trascendente (1996:61-62).

Mi focalizzo su un altro aspetto dello sviluppo che dipende da un diverso aspetto del Terzo. Nelle sue descrizioni più generali delle categorie, Peirce collegava il Terzo alla mediazione e alla generalità; inoltre, allo stesso tempo, applicò le categorie a campi specifici come quello del segno. Da un lato il segno svolge il ruolo di mediatore associato al Terzo. Come affermò Greenlee:

Quello che il segno riesce a mediare è la relazione oggetto- interpretante; poiché effettivamente o potenzialmente il segno rende l’oggetto disponibile a chi interpreta (disponibile in qualunque modo, che sia per pensare, parlare, agire, fare, eccetera) (1973:33-34).

53

In this vein Peirce wrote, “In its genuine form, Third is the triadic relation existing between a sign, its object, and its interpreting thought, itself a sign, considered as constituting the mode of being of a sign. A sign mediates between the interpretant sign and its object” (1966, 389).

On the other hand, Peirce also brought all the categories to bear on the sign relationship: “A Sign, or Representamen, is a First which stands in such a genuine triadic relation to a Second, called its Object, as to be capable of determining a Third, called its Interpretant” (quoted in Anderson 1995, 46). In what follows I will emphasize the actual embodiment of Third in a real person in early development. While this may seem a departure from Muller’s understanding of the Third as the symbolic order, there is in fact no real departure, given Lacan’s instantiation of the symbolic order in the figure of the father.

Now what might be a Peircean reading of the early development of the triadic sign and its relation to psychosis? Let us begin by recalling that Peirce’s unique contribution to semiotics in his insistence on the triadic nature of the sign.

54

Su questa linea di pensiero Peirce scrisse:

Nella sua forma genuina, [la Thirdness]12 è la relazione triadica esistente tra un segno, il suo oggetto, e il suo pensiero interpretante, a sua volta un segno, considerato come elemento che costituisce il modo di essere di un segno. Un segno fa da mediatore tra il segno interpretante e il suo oggetto (1966:389)13.

D’altro canto, in Peirce tutte le categorie riguardano la relazione segnica:

Un segno, o Representamen, è un Primo che sta in una tale relazione triadica genuina con un Secondo, chiamato «oggetto», da essere in grado di determinare un Terzo, chiamato il suo «interpretante» (citato in Anderson 1995:46)14.

In quanto segue porrò l’accento sulla vera incarnazione del Terzo in una persona reale nelle prime fasi dello sviluppo. Sebbene possa sembrare un allontanamento dalla concezione che Muller ha del Terzo come ordine simbolico, in realtà non c’è un vero e proprio allontanamento, data l’esemplificazione di Lacan dell’ordine simbolico nella figura del padre.

Quale potrebbe essere dunque una lettura peirciana delle prime fasi dello sviluppo del segno triadico e della sua relazione con la psicosi? Per cominciare, si può richiamare alla mente quel contributo unico alla semiotica che fece Peirce insistendo sulla natura triadica del segno.

12
aveva utilizzato la parola Thirdness [terzità] N.d.T.

Nella versione originale citata dall’autore compare la parola Third [«terzo»]; Peirce, in realtà

13

interpreting thought, itself a sign, considered as constituting the mode of being of a sign. A sign

mediates between the interpretant sign and its object (CP 8.332).

14

A Sign, or Representamen, is a First which stands in such a genuine triadic relation to a Second, called its Object, as to be capable of determining a Third, called its Interpretant (CP 2.274).

In its genuine form, Thirdness is the triadic relation existing between a sign, its object, and the

55

“The sign relation is fundamentally triadic: eliminate either the object or the interpretant and you annihilate the sign. This was the key insight of Peirce’s semiotic, and one that distinguishes it from most theories of representation that attempt to make sense of signs (representations) that are related only to objects” (Houser 1992, xxxvi). The developmental question that inserts itself into this discussion is how the triadic nature of the sign is learned. The suggestion I wish to propose is that in early development — in learning semiosis —actual individuals may be important in a way that they are not in adult semiotic process. As was described above, an adult soliloquy is a triadic semiotic process in which sign, object ,and interpretant are all present in the single train of thought.(And also, as was described above, because the three components are all present, the soliloquy has qualities of a dialogue.)

The infant, however, does not begin in soliloquy; it begins in communicational interchange with its mother or care giver. What will later be the ability to have a “conversation” with itself must start with a “conversation” with its mother. It is as this conversation is internalized that the internal dialogue can take place. Now, since a dialogue must always involve the three components of the sign —in the straightforward case, one person talking to another about something — might it not be the case that not two but three real people (or more) are necessary to inculcate semiosis at the beginning of life? In other words, at the beginning, each component of the semiotic triad would be embodied in an actual person. Semiotically, the father would represent the critical third in the dialogue of mother and infant. Given Peirce’s identification of the interpretant as the third in the sign triad, the paradigmatic case would place the father as the interpretant of the mother-infant dialogue. In fact, however, the developing conversation with the infant would entail the usual alternation of roles as each of the three assumed the role of signifying agent, object, or interpretant.

56

La relazione segnica è fondamentalmente triadica: eliminando l’oggetto o l’interpretante si annienta il segno. Era questa l’intuizione chiave della semiotica di Peirce, e ciò che la distingue dalla maggior parte delle teorie della rappresentazione che cercano di dare un senso ai segni (rappresentazioni) in relazione soltanto con gli oggetti (Houser 1992:XXXVI).

La questione evolutiva che si inserisce in questa discussione riguarda la modalità di apprendimento della natura triadica del segno. Desidero osservare che nelle prime fasi dello sviluppo – nell’apprendimento della semiosi – individui reali possono essere importanti in modo diverso rispetto a quanto non lo siano nel processo semiotico adulto. Come è stato descritto in precedenza, un soliloquio adulto è un processo semiotico triadico in cui segno, oggetto, e interpretante sono tutti presenti nella singola concatenazione di pensieri. (Dal momento che, inoltre, come descritto in precedenza, sono presenti tutte e tre le componenti, il soliloquio ha le qualità di un dialogo).

A ogni modo, il neonato non inizia con un soliloquo; inizia con l’interscambio comunicativo con sua madre o con l’accuditore. Quella che in futuro sarà la capacità di fare una «conversazione» con sé stesso deve cominciare con una «conversazione» con sua madre. È quando questa conversazione viene interiorizzata che può avere luogo il dialogo interno. Ora, dal momento che un dialogo deve sempre coinvolgere i tre componenti del segno – nel caso diretto, una persona che parla di qualcosa a qualcuno – potrebbe non essere vero che siano necessarie non due ma tre (o più) persone reali per instillare la semiosi all’inizio della vita? In altre parole, all’inizio, ciascun componente della triade semiotica sarebbe rappresentato da una persona reale. Dal punto di vista semiotico, il padre rappresenterebbe il terzo critico nel dialogo tra madre e neonato. Data l’identificazione peirciana dell’interpretante con il Terzo nella triade segnica, il caso paradigmatico posizionerebbe il padre al posto dell’interpretante del dialogo madre-neonato. In effetti, comunque, la conversazione che si sviluppa con il neonato comporterebbe il solito alternarsi di ruoli ciascuno dei tre assume il ruolo di agente significativo, oggetto, o interpretante.

57

Indeed, a critical aspect of the evolution of the mother-infant dyad would be the ability of the mother and father to treat the infant as the object of their dialogue, in which case the child would experience itself as object of a semiotic process, as well as interpretant of the parental dialogue.

Whatever the apportionment of roles at a particular moment, the important point is the need for actual persons representing the three positions in the inculcation of semiosis. This would be the Peircean reading of early development and the tendency for a pathologically exclusive mother-infant relationship to promote psychosis. Adult object relationships require semiotic competence, and the development of semiotic competence depends on early object relationship. If actual people are necessary for early training in the semiotic triad, and a pathologically exclusive mother-infant relationship prevents the entrance of a third into relationship, the result will be a failure to inculcate the mastery of normal semiosis. (It should be noted, finally, that in this discussion I am not insisting on the literal presence of the child’s father but rather on the presence of another or others — or even of the father or another as a symbolic presence.)

Among the many possible failure scenarios — or aspects of what is really one failure scenario — in early semiotic development, let me mention three. The first would be that in which the mother’s interactions with the infant did not permit the presence of the father (literally or symbolically). In this case, with the father absent both as semiotic object as well as interpreter/interpretant of the mother-infant dialogue, the language would remain highly subjective, and the semiotic object would not achieve independence of subjective meaning. Conversation would never be about something truly exterior to the conversants. The second scenario would be the one in which the parents could not make the infant an object of their conversation. In this case the mother would not be sufficiently extricated from the dyadic relationship with the infant, and the infant would not experience itself wholly as object, or as interpreter/interpretant of a conversation about it.

58

In realtà, un aspetto critico dell’evoluzione della diade madre-neonato consisterebbe nella capacità della madre e del padre di trattare il neonato come oggetto del loro dialogo, caso in cui il bambino avrebbe un’esperienza di sé come oggetto di un processo semiotico, oltre che come interpretante del dialogo tra i genitori.

Qualunque sia la ripartizione dei ruoli in un momento particolare, l’aspetto importante è la necessità delle persone reali di rappresentare le tre posizioni quando instillano la semiosi. Questa sarebbe la lettura peirciana delle prime fasi dello sviluppo e la tendenza a promuovere la psicosi a relazione patologicamente esclusiva madre-neonato. Le relazioni oggettuali adulte richiedono una competenza semiotica, e lo sviluppo della competenza semiotica dipende dalle relazioni oggettuali infantili. Se per la formazione infantile alla triade semiotica sono necessarie persone reali, e una relazione patologicamente esclusiva madre-figlio impedisce l’ingresso di un terzo nella relazione, ne consegue l’impossibilità di instillare la padronanza della semiosi normale. (Va notato, infine, che in questa sezione non insisto sulla presenza letterale del padre del bambino, ma piuttosto sulla presenza di un altro o di altri – o anche del padre o di un altro come presenza simbolica).

Tra i tanti possibili scenari di tale insuccesso – o aspetti di ciò che è realmente uno scenario di insuccesso – nel primo sviluppo semiotico, permettetemi di menzionarne tre. Il primo sarebbe quello in cui l’interazione della madre con il neonato non ammette la presenza del padre (letterale o simbolico). In questo caso, con l’assenza del padre sia come oggetto semiotico che come interprete/interpretante del dialogo madre-neonato, la lingua rimarrebbe altamente soggettiva, e l’oggetto semiotico non raggiungerebbe l’indipendenza del significato soggettivo. La conversazione non riguarderebbe mai qualcosa di veramente esterno agli interlocutori. Il secondo scenario sarebbe quello in cui i genitori non sono riusciti a fare del neonato l’oggetto della loro conversazione. In questo caso la madre non viene sradicata a sufficienza dalla relazione diadica con il neonato, e il neonato non avrebbe una piena esperienza di sé come oggetto, né come interprete/interpretante di una conversazione che lo riguarda.

59

The third scenario would be one in which the infant and father could not engage in an interaction that took the mother as object. Here the infant would not have the experience of the mother as object as well as subject, and as in the second scenario, as someone fully separate from itself. Each scenario thus represents a variation on the need for embodiment of the various positions of the semiotic triad in actual persons in the early inculcation of semiosis.

Conclusion

This reflection of Peircean semiotics and psychosis has moved through three stages. In a first stage I focused on Peirce’s most general notions concerning the dependence of thought on signs and concerning the externality of the sign. In his or her relationships both to the world and to the self, the psychotic was seen as foundering on the externality of the sign. In a second stage I focused more specifically on Peirce’s triadic understanding of the sign. Here the emphasis fell, on the one hand, on the psychotic’s conflation of sign, object, and interpretant, and on the other hand, on his or her confusion of index and symbol. In a third and final stage, I questioned the developemenal implications of a Peircean analysis, suggesting the need for actual embodiment of the semiotic trad in early development and the failure of this in the potential psychotic.

60

Il terzo scenario sarebbe quello in cui il neonato e il padre non riescono a sviluppare un’interazione che abbia la madre come oggetto. In questo caso il neonato non avrebbe l’esperienza della madre come oggetto né come soggetto, né, come nel caso del secondo scenario, come qualcuno del tutto separato da sé stesso. Ciascuno scenario rappresenta pertanto una variante sulla necessità di incarnare, durante la prima fase di instillazione della semiosi, le diverse posizioni della triade semiotica con persone reali.

Conclusione

Questa riflessione sulla semiotica di Peirce e sulla psicosi ha seguito tre fasi. In una prima fase mi sono concentrato sulle più generali concezioni di Peirce riguardanti la dipendenza del pensiero dai segni e l’esteriorità del segno. Nelle sue relazioni sia con il mondo che con il Sé, lo psicotico è stato visto andare in crisi sull’esteriorità del segno. In una seconda fase mi sono concentrato più specificamente sulla concezione triadica peirciana del segno. Qui ho posto l’enfasi, da un lato, sulla fusione psicotica di segno, oggetto, e interpretante, e dall’altro, sulla confusione psicotica di indice e simbolo. In una terza e ultima fase, ho messo in questione le implicazioni evolutive dell’analisi peirciana, ipotizzando che, nelle prime fasi dello sviluppo, sia necessaria l’incarnazione della triade semiotica in persone reali, e che nello psicotico potenziale tale incarnazione sia venuta meno.

61

References

Anderson, Douglas. Strands of System: The Philosphy of Charles Peirce. West Lafayette, Ind.:Purdue University Press, 1995.

Benveniste, Émile. Problèmes de linguistiques générale. Paris: Gallimard, 1966. Bleuler, Eugen. Dementia Praecox; or, The Group of Schizophrenias (1911).

Translated by J. Zinkin. New York: International Universities Press, 1950. Colapietro, Vincent M. Peirce’s Approach to the Self: A Semiotic perspective on

Human Subjectivity. Albany: State University of New York Press, 1989. Deely, John. Basics of Semiotics. Bloomington: Indiana University Press, 1990. Eliot, T. S. The Complete Poems and Plays: 1909 – 1950. New York: Harcourt,

Brace and World, 1962.
Federn, Paul. Ego Psychology and the Psychoses. London: Imago Publishing

Company, 1953.
Fisch, Max. Peirce, Semiotic, and Pragmatism: Essays by Max H. Fisch. Edited

by K. L. Ketner and C.J.W. Kloesel. Bloomington: Indiana University Press,

1986.
Freeman, T., Cameron, J., and McGhie, A. Chronic Schizophrenia. London:

Tavistock Publications, 1958.
Freud, Sigmund. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of

Sigmund Freud. Edited and translated by James Strachey. 24 vols. London:

Hogarth Press, 1953 – 74.
——. “Psycho-Analytic Notes on an Autobiographical Account of a Case of

Paranoia (Dementia Paranoides)” (1911), vol. 12.
Greenlee, Douglas. Peirce’s Concept of Sign. The Hague: Mouton, 1973.

62

Riferimenti bibliografici

Anderson, D. Strands of System: The Philosphy of Charles Peirce, West Lafayette (Indiana), Purdue University Press, 1995.

Benveniste, É. Problèmes de linguistiques générale. Paris, Gallimard, 1966. Trad. it.: Problemi di linguistica generale, a c. di M. Vittoria Giuliani, Milano, Il Saggiatore, 1994, ISBN: 88-428-0140-2.

Bleuler, E. Dementia Praecox; or, The Group of Schizophrenias (1911). Translated by J. Zinkin, New York, International Universities Press, 1950. Trad. it.: Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, a. c. di L. Cancrini, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1985.

Colapietro, V. M. Peirce’s Approach to the Self: A Semiotic perspective on Human Subjectivity, Albany, State University of New York Press, 1989.

Deely, J. Basics of Semiotics. Bloomington, Indiana University Press, 1990. Trad. it.: Basi di semiotica, a c. di M. Leone, Bari, Laterza, 2004, ISBN: 88- 8231-298-4.

Eliot, T. S. The Complete Poems and Plays: 1909 – 1950. New York, Harcourt, Brace and World, 1962. Trad. it.: Opere, a c. di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 1986.

Federn, P. Ego Psychology and the Psychoses. London, Imago, 1953.
Fisch, M. Peirce, Semiotic, and Pragmatism: Essays by Max H. Fisch. A c. di K.

L. Ketner e C. J. W. Kloesel, Bloomington, Indiana University Press, 1986. Freeman, T., Cameron, J., e McGhie, A. Chronic Schizophrenia. London,

Tavistock Publications, 1958.
Freud, S. Psycho-Analytic Notes on an Autobiographical Account of a Case of

Paranoia (Dementia Paranoides), in The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. A c. di J. Strachey, 24 vol., London, Hogarth Press, 1953–74 (1911), vol. 12. Trad. it. Il presidente Schreber. Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente, a c. di R. Colorni e P. Veltri, Torino, Boringhieri, 1975.

Greenlee, D. Peirce’s Concept of Sign. The Hague, Mouton, 1973.

63

Harrow, M., and Quinlan, D. Disordered Thinking and Schizophrenic Psychopathology. New York: Gardner Press, 1985.

Houser, Nathan. Introduction to Peirce (1992), xix-xli.
Kerby, Anthony. Narrative and the Self. Bloomington: Indiana University Press,

1991.
Kernberg, Otto. Borderline Conditions and Pathological Narcissism. New York:

Jason Aronson, 1975.
Lakoff, G., and Johnson, M.Metaphors We Live By. Chicago: University of

Chicago Press, 1980.
Merleau-Ponty, Maurice. The Prose of the World. Edited by C. Lefort and

translated by J. O’Neill. Evanston, Ill.: Northwestern University Press, 1973. Muller, John. Beyond the Psychoanalytic Dyad: Developmental Semiotics in

Freud, Peirce, and Lacan. New York: Routledge, 1996.
Peirce, Charles Sanders. The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings.

Edited by Nathan Houser and Christian Kloesel. Vol. 1 (1867- 93).

Bloomington: Indiana University Press, 1992.
——. “Questions Consequences of Four Incapacities” (1868b). In Peirce (1992),

28 – 55.
——. “Logic as Semiotic: The Theory of Signs” (1897). In Philosophical Writings

of Peirce, edited by J. Buchler, 98 – 119. New York: Dover Publications,

1955.
——. Selected Writings. Edited by P. Wiener. New York: Dover Publications,

1966.
——. Semiotic and Significs: The Correspondence between Charles S. Peirce

and Victoria Lady Welby. Edited by Charles Hardwick. Bloomington: Indiana University Press, 1977.

64

Harrow, M., e Quinlan, D. Disordered Thinking and Schizophrenic Psychopathology. New York, Gardner Press, 1985.

Houser, N. “Introduction to Peirce” in Peirce, Charles Sanders. The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings. A c. di N. Houser and C. Kloesel, Vol. 1 (1867-93), Bloomington, Indiana University Press, 1992, p. xix-xli.

Kerby, Anthony. Narrative and the Self. Bloomington, Indiana University Press, 1991.

Kernberg, Otto. Borderline Conditions and Pathological Narcissism. New York, Jason Aronson, 1975.

Lakoff, G., e Johnson, M. Metaphors We Live By. Chicago, University of Chicago Press, 1980.

Merleau-Ponty, Maurice. The Prose of the World. A c. di C. Lefort e tradotto da J. O’Neill. Evanston (Illinois), Northwestern University Press, 1973. Trad. it. La prosa del mondo, a c. di Marina Sanlorenzo, Roma, Editori Riuniti, 1984, ISBN: 88-359-2757-9.

Muller, John. Beyond the Psychoanalytic Dyad: Developmental Semiotics in Freud, Peirce, and Lacan. New York, Routledge, 1996.

Peirce, Charles Sanders. “Questions Consequences of Four Incapacities” (1868b). In The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings. A c. di Nathan Houser e Christian Kloesel, Vol. 1 (1867-93), Bloomington, Indiana University Press, 1992. p. 28–55.

——. “Logic as Semiotic: The Theory of Signs” (1897). In Philosophical Writings of Peirce. A c. di J. Buchler, New York, Dover, 1955, p. 98–119.

——. Selected Writings. A c. di P. Wiener, New York, Dover Publications, 1966. ——. Semiotic and Significs: The Correspondence between Charles S. Peirce and Victoria Lady Welby. A c. di Charles Hardwick, Bloomington, Indiana

University Press, 1977.

65

Ricoeur, Paul. “The Metaphorical Process as Cognition, Imagination, and Feeling.” In On Metaphor; edited by Sheldon Sacks, 141 – 58. Chicago: University of Chicago Press, 1978.

——. Time and Narrative. Vol. 1. Translated by K. Mclaughlin and D. Pellauer. Chicago: University of Chicago Press, 1984.

——. Oneself as Another. Translated by K. Blamey. Chicago: University of Chicago Press, 1992.

Sass, Louis. Madness and Modernism: Insanity in the Light of Modern Art, Literature, and Thought. New York: Basic Books, 1992.

Sebeok, Thomas. “Indexicality.” In Peirce and Contemporary Thought: Philosophical Inquiries, edited by Kenneth Ketner, 222 – 42. New York: Fordham University Press, 1995.

Short, T. “Peirce’s Semiotic Theory of the Self.” Semiotica 91 (1992): 124. Steiner, G. Real Presences. Chicago: University of Chicago Press, 1989. Stevens, W. Poems. Selected by Samuel French Morse. New York: Vintage

Books, 1959.

66

Ricoeur, Paul. “The Metaphorical Process as Cognition, Imagination, and Feeling.” In On Metaphor. A c. di Sheldon Sacks, Chicago, University of Chicago Press, 1978, p. 141 – 58.

——. Time and Narrative. Vol. 1. Tradotto da K. Mclaughlin e D. Pellauer, Chicago, University of Chicago Press, 1984. Trad. it.: Tempo e racconto, vol. 1, a c. di Giuseppe Grampa, Milano, Jaca Book, 1994 [1986], ISBN: 88- 16-40165-6.

——. Oneself as Another. Tradotto da K. Blamey, Chicago, University of Chicago Press, 1992. Trad. it.: Sé come un altro, a c. di Daniella Iannotta, Milano, Jaca Book, 2005 [1993], ISBN: 88-16-40325-X.

Sass, Louis. Madness and Modernism: Insanity in the Light of Modern Art, Literature, and Thought. New York, Basic Books, 1992.

Sebeok, Thomas. “Indexicality.” In Peirce and Contemporary Thought: Philosophical Inquiries. A c. di Kenneth Ketner, 222 – 42, New York, Fordham University Press, 1995.

Short, T. “Peirce’s Semiotic Theory of the Self.” Semiotica 91 (1992), p.124. Steiner, G. Real Presences. Chicago, University of Chicago Press, 1989. Trad. it.: Vere presenze, a c. di Claude Béguin, Milano, Garzanti, 1992, ISBN: 88-

11-59881-8.
Stevens, W. Poems. A c. di Samuel French Morse. New York, Vintage Books,

1959. Trad. it.: Mattino domenicale e altre poesie, a c. di Renato Poggioli, Torino, Einaudi, 1988, ISBN: 88-06-11397-6.

67

68

Commento alla traduzione

69

1. Descrizione del materiale

Il saggio da me scelto e tradotto come elaborato finale del percorso di studi in traduzione è tratto dal volume Peirce, Semiotics, and Psychoanalysis; una raccolta di saggi che presentano i concetti fondamentali della semiotica peirciana e si concentrano sulle possibili applicazioni al campo della psicoanalisi e della filosofia. Autore del testo è l’americano James Phillips, psichiatra a New Haven, Connecticut, e docente di psichiatria alla Yale University.

In Peircean Reflections on Psychotic Discourse, James Phillips affronta in modo innovativo la semiotica peirciana focalizzando l’attenzione sulla sua possibile applicazione alla psicosi. Il testo approfondisce i più generali concetti peirciani di «segno», «interpretante» e «oggetto», e il ruolo che questi elementi svolgono nel caso di psicosi e, più precisamente, nei vari tipi di psicosi. Dopo essersi concentrato sulla triade segnica peirciana, l’autore sviluppa e approfondisce il discorso del Sé, la sua funzione all’interno della narrazione quotidiana, come si forma e come si evolve nel passaggio da neonato a adulto, e il ruolo determinante dei genitori – o delle figure di riferimento – in questo processo. Per «narrazione quotidiana» si intende il discorso umano interpersonale nella vita di tutti i giorni osservato da un punto di vista testologico.

2. Testo narrativo versus testo saggistico

Nei due anni di specializzazione in traduzione letteraria i miei studi si sono concentrati principalmente su due tipi di testo: il testo narrativo e il testo saggistico. Queste due categorie di testo sono profondamente diverse tra loro, e la loro diversità comporta un approccio particolare e mirato in fase di traduzione. È bene dunque avere un’idea chiara dei punti in comune ai due testi e, soprattutto, delle loro divergenze.

70

2.1 Il testo narrativo

Il testo narrativo è forse il testo più complesso da descrivere. Si potrebbe definire il testo narrativo una macrocategoria di testi finzionali volti a intrattenere il lettore, all’interno della quale è possibile identificare diversi generi: il racconto, il romanzo, la novella, la fiaba, la favola, il mito, la poesia, il diario. Alla voce «narrare» di un vocabolario della lingua italiana15 si legge «esporre, riferire oralmente, per iscritto nel loro svolgimento temporale, lo svolgersi di fatti reali o fantastici, in modo chiaro e dettagliato»; il testo narrativo è quindi quel testo particolare in cui viene descritto un avvenimento, reale o meno, secondo un ordine temporale.

2.1.1 Lo stile

Come ho appena affermato, lo scopo primario del testo narrativo è intrattenere; sta poi all’autore decidere come impostare il testo, che tono conferire alle proprie parole, su che elementi puntare, e come sviluppare la narrazione. Il testo narrativo è quindi un testo plastico che prende forma nelle mani dello scrittore, il quale lo modella e lo plasma a proprio piacimento. Per catturare l’attenzione del lettore, l’autore, durante la narrazione, può decidere di ricorrere a ogni sorta di espedienti: può giocare sul piano temporale, e spostarsi così dal presente al passato, o addirittura anticipare eventi; può ricorrere a salti di registro, variando così le scelte sintattiche e lessicali, o presentare personaggi ben caratterizzati e definirli attraverso descrizioni accurate. In genere il testo narrativo, se di buon livello, ha una propria eleganza formale ed è curato nei minimi dettagli. Compito del traduttore è attenersi il più possibile alle scelte dell’autore e renderle al meglio nella sua traduzione.

15

De Mauro:2000

71

2.1.2 Il linguaggio

Data la libertà che contraddistingue il testo narrativo non si può parlare di un linguaggio “tipico” o “ricorrente”. L’autore, narrando, fa un uso libero (e proprio) della parola, può coniare neologismi o utilizzare espressioni ormai cadute in disuso, qualora lo ritenesse necessario, magari per rendere al meglio l’atmosfera di tempi lontani. Il testo narrativo non contiene in genere termini, eppure in molti casi alcune parole hanno la medesima funzione, in quanto diventano parole chiave e si trasformano in rimandi intratestuali che vanno individuati e rispettati. Può inoltre capitare che all’interno di un romanzo, per esempio, compaia la descrizione di un oggetto, una macchina, un animale, e che si presentino quindi dei termini veri e propri.

2.1.3 Elementi del testo narrativo

Il testo narrativo, per essere definito tale, presenta in genere alcuni elementi fondamentali legati alla formula più semplice che sta alla base di ogni narrazione: qualcuno fa qualcosa in un certo momento; è come viene narrato questo «qualcosa» a fare la differenza. La più grande distinzione che può essere fatta all’interno di un testo narrativo è quella tra «fabula» (storia) e «intreccio» (discorso); per fabula si intende la serie di eventi secondo il normale ordine cronologico, per intreccio si intende invece la scelta dell’autore di disporre questi avvenimenti (può quindi sovvertire il normale ordine cronologico). Gli eventi seguono generalmente uno schema narrativo (pressoché standard nei romanzi tradizionali): una situazione iniziale di equilibrio viene turbata fino a raggiungere un culmine di tensione per poi risolversi in un equilibrio finale, non necessariamente positivo. All’interno dello spazio si muovono dei personaggi, più o meno definiti, che interagiscono tra loro attraverso dialoghi, è compito del narratore cedere di volta in volta la parola, e il punto di vista, ai personaggi. Ogni personaggio può essere definito caratterialmente anche attraverso alla descrizione che ne viene fatta e alle parole che escono dalla sua bocca.

72

È nel passaggio da un piano temporale all’altro, nel cambiamento del punto di vista e nella modalità di esprimere i pensieri dei personaggi e del narratore che sta la maestria dello scrittore; compito del traduttore, e in questo si riscontra la sua abilità, è riconoscere queste peripezie narrative e rispettarle.

Più valore artistico viene riconosciuto al prototesto narrativo, meno possibilità di intervento avrà il traduttore in fase di narrazione. In altri casi, quando il testo che si accinge ha tradurre non ha valenze letterarie e, anzi, è scritto frettolosamente e con poca accuratezza, può spettare al traduttore occuparsi di inserire accorgimenti per renderlo più fruibile e, possibilmente, migliore.

2.2 Il testo saggistico

Il testo saggistico spesso non viene preso abbastanza in considerazione; è infatti tendenza diffusa, generalmente, distinguere i testi in ”letterari” e “tecnici”. Dal momento che non appartiene né alla categoria dei testi narrativi, né a quella dei testi scientifici, tecnici, o comunque prettamente settoriali, il testo saggistico è da considerarsi un testo “ibrido”, con molte peculiarità simili ai tipi di testo appena nominati, e quindi con particolari ripercussioni inevitabili sulla strategia traduttiva da applicare. Un saggio può infatti avere lo stesso peso e la stessa valenza artistica di un racconto, con la stessa cura nello stile e un’estrema accuratezza per quanto riguarda lo stile e la scelta dei vocaboli. È però vero che esistono saggi che si rivolgono agli “addetti ai lavori” e che trattano quindi argomenti scientifici o tecnici con una terminologia accurata e precisa, che in traduzione va curata.

2.2.1 Lo stile

Il testo saggistico ha un’identità che cambia a seconda dello scopo che si prefigge e del lettore a cui aspira a rivolgersi. Il tema centrale del saggio è, in genere, legato a un campo del sapere; può quindi trattare di politica, filosofia, scienza, cultura. All’autore di un testo saggistico non è richiesto, solitamente, inserire citazioni o argomentare al meglio le sue teorie; spesso questi può dare

73

per scontati molti concetti, scegliendo di non esprimerli. È compito del lettore documentarsi e fare ricerche per capire al meglio quanto viene esposto nel saggio. Ciò che distingue un saggio da un testo scientifico è, spesso, la cura del linguaggio e dello stile. È pur vero che può accadere che a scrivere saggi siano quegli esperti che, per professione, non si occupano di scrittura e di conseguenza i loro scritti risultano oscuri e dalla lettura difficile.

Sebbene il testo saggistico possa assumere le più svariate forme, ed essere quindi scritto con l’estro più creativo o con rigore e freddezza scientifica, esistono punti fissi e quasi inalienabili alla base della stesura di un saggio.
Il primo punto fermo del testo saggistico è il suo obiettivo. Il saggio, infatti, non sempre mira soltanto a intrattenere il lettore, bensì a informarlo. L’autore, scrivendo, cerca di approfondire un argomento sviluppandolo con ordine e coerenza. Il saggio è pertanto un testo non finzionale caratterizzato da uno stile fortemente codificato coerente alla struttura logico-consequenziale del discorso, stile che, considerato l’elevato tasso di formalità, generalmente lo accomuna ai testi scientifici

2.2.2. Il linguaggio

Il saggio può apparire spesso freddo e “asettico”, scarsamente personalizzato e originale dal punto di vista del linguaggio; tuttavia, esistono saggi di tipo divulgativo che sono destinati a un pubblico più ampio, ed è proprio questo tipo di saggi che può contenere un maggior tasso di creatività e originalità per quanto riguarda stile e linguaggio.

Testi saggistici dalla valenza fortemente scientifica tendono a includere numerosi termini tecnici-scientifici estremamente precisi, che non possono essere sostituiti in alcun modo. In fase di traduzione, il traduttore dovrà adoperarsi per ricercare il termine, uno e uno soltanto, che gli corrisponda, avvalendosi della consultazione di glossari e memorie di traduzione. Dal momento che non si tratta di un testo esclusivamente connotativo né tanto meno evocativo, il saggio non vuole stimolare i sensi del lettore (eccezione fatta per i saggi poetici o di approfondimento su qualche esponente del mondo

74

letterario) ma si limita a esporre una tesi. Può capitare che il saggio rimandi ad altri testi, magari portando esempi e citazioni estratte da altre opere per avvalorare la tesi che l’autore vuole sviluppare. In questo caso il traduttore dovrà individuare i rimandi intertestuali impliciti o espliciti e tradurli al meglio qualora non fossero già tradotti, oppure individuare le traduzioni in circolazione nel proprio paese e riportare la versione “ufficiale”. Compito del traduttore è inoltre tradurre i riferimenti bibliografici del prototesto indicando la traduzione di cui si è servito durante il suo lavoro.

Per quanto riguarda il testo saggistico, il traduttore può impostare la propria strategia traduttiva a seconda del lettore modello che si prefigura: può scegliere infatti di conferire al saggio un tono meno solenne e più chiaro per renderlo accessibile a una potenziale vasta porzione di pubblico; può altrimenti attenersi a un linguaggio più tecnico e formale se stabilisce che il pubblico cui è destinato il saggio è costituito da esperti e uomini di scienza. Di certo, il saggio, così come il testo narrativo, non può rivolgersi alle persone non alfabetizzate, che possono fruire soltanto di testi multimediali quali film o audiolibri16.

3. Charles Sanders Peirce e il segno

L’apporto di Charles Sanders Peirce (1839-1914) alla moderna semiotica inizia a essere sempre più preso in considerazione anche da esponenti di altre discipline, sia umanistiche che scientifiche, grazie alle applicazioni che la semiotica peirciana può avere nelle più svariate discipline. È questo il caso del testo da me tradotto, in cui la teoria di Peirce riguardante il segno, e con essa il ruolo dell’interpretante, è stata applicata al discorso psicotico e, nello specifico, a casi di soggetti schizofrenici o paranoidi. Il contributo significativo di Peirce consiste proprio nel considerare il segno un elemento fondamentale attorno al quale si forma il nostro pensiero: noi siamo segni, pensiamo attraverso segni, e i nostri pensieri non sono nient’altro che un continuum di semiosi in cui un

16

Per ulteriori chiarimenti sulle caratteristiche del testo saggistico rimando a Osimo 2008.

75

oggetto (nel senso peirciano del termine) diventa il segno del pensiero successivo. Peirce sostiene infatti che:

[…] non vi è alcun elemento della coscienza umana che non abbia qualcosa che gli corrisponda nella parola; e la ragione è ovvia. È che la parola o segno che l’uomo usa è l’uomo stesso. Poiché, come il fatto che ogni pensiero è un segno, considerato insieme al fatto che la vita è una concatenazione di pensieri, prova che l’uomo è un segno; così, [il fatto] che ogni pensiero è un segno esterno prova che l’uomo è un segno esterno. Vale a dire che l’uomo e il segno esterno sono identici, nello stesso senso in cui sono identiche le parole homo e uomo. Il mio linguaggio è pertanto la somma totale di me stesso, poiché l’uomo è il pensiero17.

Peirce definisce il segno come qualcosa che secondo qualcuno sta per qualcosa e crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse più evoluto, che Peirce stesso chiama «interpretante». Ciò a cui rimanda il segno è il suo «oggetto». Il segno, secondo Peirce, è quindi un elemento triadico dalla seguente struttura:

17

[…] there is no element whatever of man’s consciousness which has not something corresponding to it in the word; and the reason is obvious. It is that the word or sign which man uses is the man himself. For, as the fact that every thought is a sign, taken in conjunction with the fact that life is a train of thought, proves that man is a sign; so, that every thought is an external sign, proves that man is an external sign. That is to say, the man and the external sign

76

Peirce non si limita a questa definizione di segni ma, forse affezionato al numero tre, identifica tre classi segniche ben definite: icona, indice, e simbolo18.

3.1 Icona

Peirce definisce «icona» un segno che si riferisce all’oggetto che vuole rappresentare in virtù di una somiglianza; spetta a chi osserva (o ascolta) cogliere questa somiglianza e collegare il segno all’oggetto. Sono esempi di icona i ritratti, i disegni, gli ideogrammi.

3.2 Indice

Secondo Peirce un «indice» è un segno che si riferisce all’oggetto a cui rimanda in virtù del fatto che è realmente determinato da quell’oggetto, ne è influenzato. Il rapporto tra il segno in questione e il suo oggetto non si basa su una somiglianza. L’esempio più classico è quello del fumo (segno) che denota la presenza del fuoco (l’oggetto), che lo ha generato.

3.3 Simbolo

La definizione che Peirce dà di «simbolo» è quella di un segno che si riferisce all’oggetto che denota in virtù di una legge che stabilisce che quel simbolo deve essere interpretato come facente riferimento a quell’oggetto. La relazione tra il segno e il suo oggetto è quindi prettamente convenzionale, culturospecifica, e soggettiva.

are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my

language is the sum total of myself; for the man is the thought (CP 5.314).

18

Si vedano a tale proposito i paragrafi 2.247, 2.248, e 2.249 dei Collected Papers di Peirce.

77

4. Lo psicotico e il segno

Quanto ho affermato finora è valido in una situazione non patologica, ovvero nel caso di individui nel pieno delle proprie facoltà mentali. È pertanto palese il fatto che la triade segnica peirciana, il ruolo dell’interpretante, e la distinzione dei vari tipi di segni entrino in crisi nel caso di soggetti psicotici.

Secondo un accreditato dizionario di psicoanalisi, la psicosi è una

Forma di disturbo mentale caratterizzato da una notevole regressione dell’Io e della libido con conseguente grave disorganizzazione della personalità. Le psicosi si dividono in due gruppi, quelle organiche e quelle funzionali. Quelle della prima categoria sono secondarie a malattia fisica (per esempio paresi generale da sifilide, tumore del cervello, arteriosclerosi); le seconde sono connesse principalmente a fattori psicosociali, sebbene vi possano essere anche predisposizioni biologiche. Le principali psicosi funzionali sono i disturbi dell’affettività (psicosi maniaco-depressiva) e i disturbi del pensiero (schizofrenia e paranoia)19.

È possibile dare un’interpretazione semiotica della psicosi. Lo psicotico è un soggetto dall’Io non ben definito né sviluppato; come afferma Phillips, in caso di psicosi si ha «il crollo di una rete di segni che costituisce il Sé» (2000:25): lo psicotico non sa chi è, e non sa chi o cosa non è. Per confermare ulteriormente questo concetto ricordo infatti che, di frequente, accade che soggetti psicotici si esprimano in terza persona quando vogliono parlare di sé20. Questa indeterminatezza si ripercuote inoltre verso l’esterno e genera l’impossibilità del paziente di distinguere il segno da quello che intende significare (il suo oggetto). Proseguendo la lettura della definizione appena citata si legge:

19 20

Burness, E. Moore 1993 Phillips 2000:25

78

[…] La concettualizzazione freudiana della psicopatologia delle psicosi mette in evidenza una sostanziale unità tra i processi mentali delle psicosi e delle nevrosi. Tuttavia Freud mise in risalto anche certe differenze importanti. Una è che l’individuo psicotico è inconsciamente fissato a un livello precedente di sviluppo libidico, la fase narcisistica. Ciò conduce, mediante la regressione, alla caratteristica più importante nello sviluppo della psicosi: il cambiamento delle relazioni del paziente con le persone e gli oggetti del suo ambiente. In certi casi il paziente vede gli altri isolati e distaccati o anche fortemente ostili. Ciò solitamente è collegato all’idea che il mondo e le persone sono in qualche modo cambiati, e a volte la fantasia si estende fino a pensare che il mondo sia distrutto e tutti siano irreali. Freud riteneva che questi sintomi rappresentassero la rottura del paziente con la realtà e la caratteristica più tipica delle psicosi»21.

Lo schizofrenico, in quanto psicotico, si confronta quindi con parole-cose ma non riesce ad andare oltre; è il caso dell’esempio del paziente che, invitato a mangiare, si sofferma sulla cosa-forchetta e la analizza non riuscendo a passare alla fase successiva, ovvero a mangiare un boccone di cibo per mezzo della forchetta (2000:20). Un caso particolare di psicosi è quello del paranoide, il quale non solo si sofferma sulle parole-segno o sulle cose-segno ma le percepisce come elemento negativo nei suoi confronti. Il soggetto percepisce tutto ciò che lo circonda – persone, cose, animali, rumori – come un “nemico”, un elemento ostile nei suoi confronti, e si ferma a questo livello. È quindi evidente come, in caso di psicosi, non ci sia una percezione del segno come entità che svolge un ruolo di mediazione tra il suo interpretante e il suo oggetto, bensì come entità a sé stante, incomprensibile o minacciosa che sia.

Alla luce di quanto detto finora è possibile trarre una conclusione, e cioè che per innescare il processo di semiosi attraverso il segno occorre trascenderlo, e giungere così – attraverso un’entità mentale (l’interpretante) – al suo oggetto.

21

Burness, E. Moore 1993

79

Come sostiene Phillips: «La condizione comune dei segni è quindi la trasparenza. Dal momento che noi guardiamo al mondo attraverso i segni non prestiamo attenzione ai segni» (2000:17). Nella psicosi questa trasparenza viene meno: il soggetto psicotico si focalizza sul segno e non riesce a figurarsi nessun interpretante, né tanto meno riesce a comprenderne il senso. Il segno diventa opaco e il soggetto psicotico si ferma al Primo percependolo come «cosa» e facendo crollare il processo di semiosi; l’esteriorità del segno viene dunque «portata al suo estremo, e il segno-pensiero si materializza in entità del mondo esterno: voci di altri, ordini dall’alto […]» (2000:20). Una situazione di questo tipo è, per lo psicotico, un’esperienza terrificante: il soggetto è sopraffatto dalla cosa-segno. Cose del mondo che sono comunemente insignificanti vengono percepite in modo amplificato ed esagerato dal soggetto psicotico, il quale le investe di significato accresciuto (e distorto).

5. Il traduttore e il segno

Nello svolgere la sua professione capita al traduttore di ritrovarsi a riflettere a lungo su parole o termini per scegliere quale inserire nella propria traduzione. Accade dunque che, riflettendo, il traduttore si concentri sulla parola in quanto segno, e non sull’oggetto a cui rimanda. La parola-segno perde così trasparenza e il traduttore si ferma al primo elemento della semiosi: il segno vero e proprio. Come nel caso dello psicotico, nel caso di metalinguaggio, crolla il processo di significazione.

Una riflessione sulla parola in sé di questo tipo può essere esemplificata dal seguente schema distorto della famosa triade di Peirce.

80

6. Analisi del prototesto

Alla luce di quanto affermato nel paragrafo 2 posso sostenere che il testo da me tradotto appartiene alla categoria dei testi saggistici. Tuttavia, Peircean Reflections on Psychotic Discourse è da considerarsi un saggio “atipico”, dal momento che contiene numerose citazioni e rimandi ad altre opere. Il lettore modello a cui si rivolge l’autore del testo, considerato anche il volume all’interno del quale il saggio è racchiuso, è una persona istruita che si occupa di psicologia o psichiatria, che possiede inoltre delle solide basi filosofiche, o comunque umanistiche, e che conosce i fondamenti della dottrina di Peirce, dal momento che molto viene lasciato non detto. Il saggio è scritto da una persona colta e istruita ma che, tuttavia, di professione non si occupa di scrittura: l’aspetto formale soccombe dunque al contenuto; l’autore ha deciso di concentrarsi su cosa espone, e non su come lo fa. Nel testo sono infatti presenti forti salti di registro: si passa da espressioni come «inexhaustible reservoir of gesture» (2000:21) e «perspicuous remarks» (2000:31) a espressioni più colloquali come per esempio: «As Pierce puts it…» (2000:29). Molte volte, proprio per come sono espressi i concetti, è difficile comprendere cosa vuole esprimere l’autore. In questi casi non bisogna concentrarsi sulla struttura della frase in sé, ma piuttosto occorre cercare di interpretarla grazie

81

anche al co-testo22 in cui è inserita. Un altro elemento che avvalora la mia tesi sull’autore è il continuo passaggio che questi, forse inavvertitamente, compie dalla prima persona singolare alla prima persona plurale. Il testo esordisce con una forma impersonale «this Peircean reflection on psychosis will proceed on two levels» (2000:16) per poi proseguire con «at this level our discussion will move…» e «we will end…» (ibidem), e terminare dopo poche righe con «finally […] I attempt to look at the semiotic dimension of psychotic thinking» (2000:17). Questa frammentarietà nella scelta del soggetto ricorre di continuo nel testo; è compito del traduttore decidere come comportarsi e a che linea attenersi in fase di traduzione.

7. La strategia traduttiva

Dopo aver letto più volte il testo e averne bene inquadrato contenuto e lettore modello, ho stabilito una linea da seguire in fase di traduzione. Per prima cosa ho deciso di conservare il linguaggio specifico e di tradurre tutti termini con la massima accuratezza. Ho ritenuto necessario rendere il testo il più chiaro e semplice possibile, in modo che il testo, nonostante i contenuti, risultasse comprensibile a una porzione di pubblico più ampia. La mia «dominante» è stata pertanto la valenza scientifica del testo accompagnata alla sua possibile fruibilità. Il saggio presenta numerosi rimandi intertestuali a svariate discipline, con un occhio di riguardo al campo della filosofia. Il lettore mediamente istruito, o comunque specializzato in altre discipline, potrebbe trovare faticosa la lettura del testo e avere spesso l’impressione di non riuscire a coglierne il senso. Per ovviare alla presenza di questo «residuo» è possibile ricorrere a note a piè di pagina o a un qualsiasi apparato metatestuale (volendo, anche all’inserimento di un glossario); ho tuttavia scelto di lasciare inespresso il sottinteso per rispettare la scelta dell’autore. Il “lettore medio”23 italiano si trova pertanto nella stessa condizione del “lettore medio” inglese: entrambi possono decidere se

22

Per «co-testo» si intende la parte di testo che precede o segue l’enunciato in questione.

82

fermarsi a una lettura superficiale del testo o se approfondire autonomamente i concetti in esso contenuti consultando enciclopedie o manuali e ricorrendo magari alla bibliografia inserita dall’autore. Se James Phillips, infatti, avesse deciso di scrivere un testo comprensibile a tutti, allora lui stesso avrebbe inserito note a piè di pagina oppure si sarebbe forse concentrato maggiormente sulla scelta delle parole.

8. I problemi traduttivi

In fase di traduzione mi sono ritrovata a dover affrontare più problemi di quanti ne avessi individuati con la prima lettura del testo. Una prima lettura, sebbene attenta e eseguita con occhio critico, non è mai tanto approfondita quanto l’analisi del testo che si compie quando si traduce, momento in cui ci si scontra con le più diverse difficoltà: dalla scelta dei vocaboli, alla coerenza del testo, dal registro all’impaginazione.

8.1 Capire prima di tradurre

Il primo problema reale avuto confrontandomi con il testo è stato afferrare il contenuto del testo in modo che mi fosse chiaro del tutto. Il saggio concentra in poche pagine concetti di filosofia e psicoanalisi, nonché di semiotica, temi con i quali, purtroppo, non ho molta dimestichezza. Considerate quindi le mie limitate conoscenze sugli argomenti ho ritenuto necessario documentarmi ricorrendo a ogni mezzo di informazione possibile: ho infatti consultato persone esperte in materia nonché siti internet specifici, manuali, enciclopedie e dizionari settoriali. Dopo questa prima fase ho proceduto con la traduzione vera e propria, scontrandomi con i problemi che man mano mi si presentavano.

23

Per «lettore medio» intendo la persona adulta mediamente istruita che fruisce del testo.

83

8.2 Il linguaggio appropriato

Gli elementi del testo che mi hanno creato maggiori difficoltà sono stati forse i termini settoriali legati alla psicoanalisi come, per esempio, i nomi dei vari disturbi mentali e dei vari tipi di psicosi, quali psychotic disorder, bipolar disorder, psychotically depressed, o espressioni come self-representation, libidinal decathexis, e parole ricorrenti nel gergo piscoanalitico come speech, thought, discourse, language, e thinking, e la necessità di distinguerle tra loro ove possibile. In ciascuno di questi casi ho verificato sempre che fonti attendibili attestassero il traducente da me individuato. È il caso dell’espressione – in apparenza molto banale – ideas of reference, da me tradotta come «idee di riferimento». Per avere conferma della mia traduzione ho provato come prima cosa a inserire entrambe le locuzioni – quella inglese e quella italiana – e ho verificato che il mio «idee di riferimento» era stato usato per tradurre ideas of reference nel titolo di un saggio del 1962 intitolato Hallucinations, delusions, and ideas of reference treated with psychotherapy (Allucinazioni, deliri e idee di riferimento trattati con la psicoterapia) e contenuto nell’American Journal of Psychoterapy24. Per essere del tutto sicura di quanto mi accingevo a scrivere ho consultato un dizionario di psicologia25, nel quale, alla voce «idea» si legge la seguente definizione di «idea di riferimento»:

[…] interpretazione di gesti, parole, opinioni, notizie di per sé indifferenti come se contenessero riferimenti al soggetto interpretante. Queste idee non cedono alla critica e all’evidenza, e nei casi di paranoia, hanno un contenuto persecutorio, nei casi di depressione un contenuto colpevolizzante che il soggetto ritiene meritato.

Ho dunque capito che «idee di riferimento» si inseriva perfettamente nel co- testo: l’autore ha infatti utilizzato questa locuzione illustrando il caso di un paziente psicotico che «investe di significatività accresciuta e distorta

24
American Journal of Psychotherapy 16, New York, 1962, ISSN 0002-9564, p. 52-60.

Arieti, S. Hallucinations, delusions, and ideas of reference treated with psychotherapy, in

84

comunicazioni esterne» (2000:21). Phillips prosegue sostenendo che il paziente tratta l’interno come esterno, e l’esterno come interno e che «concentrarsi […] sull’uso dei segni profondamente confuso di quest’uomo, descrive, da un punto di vista semiotico, quello che la psichiatria generale chiamerebbe inserimento di pensieri e idee di riferimento» (ibidem).

8.2.1 Speech, language, e discourse

Alcune parole ricorrenti nel saggio sono speech, language, e discourse, che, a seconda dell’uso che l’autore ne fa, possono essere tradotte in modo diverso e, pertanto, meritano un approfondimento a parte.
È bene innanzitutto avere presente cosa si intende per «lingua» «linguaggio» e «discorso». Alla voce «lingua» del Dizionario della lingua italiana26 si legge:

parlata, idioma, ant. favella, loquela, talora linguaggio come facoltà umana; più spesso modo di parlare peculiare di una comunità umana, appreso dagli individui (in condizioni normali) fin dai primi mesi di vita, affiancato, per le popolazioni alfabetizzate, da modalità ortografiche e di stile connesse alla pratica dello scrivere e del leggere; nelle innumeri manifestazioni di tale modo di parlare e di scrivere si riconosce la presenza di un vocabolario comune alla generalità dei parlanti della comunità.

La «lingua» è dunque ciò che permette a ogni individuo di comunicare (scrivendo o parlando) con chi appartiene alla sua stessa comunità. E si distingue dal «linguaggio» che, secondo il Dizionario di psicologia27 è un

Insieme di codici che permettono di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni tramite segni intersoggettivi in grado di significare altro da sé. Esso, pur essendo dislocato rispetto

25 26 27

Galimberti, U. 1994 De Mauro 2000 Galimberti, U. 1994

85

all’immediatezza sensibile del segno, da questo è richiamato mediante l’atto del denotare e del connotare. […] il linguaggio umano […] si evolve nel corso della vita dell’individuo.

Una persona, attraverso il linguaggio, può comunicare anche con persone che non appartengono alla stessa cultura. Si parla infatti anche di «linguaggio del corpo», poiché anche attraverso i gesti si può significare qualcosa a qualcuno. Con «discorso» si intende invece:

esposizione di un pensiero, di un’idea, di una tesi per mezzo della parola28.

In ambito semiotico si ricorre al termine «discorso» quando si desidera mettere in risalto che ci si occupa non del linguaggio inteso come codice, come dizionario, ma come attualizzazione pratica concreta di quel linguaggio. Quindi, così come si può dire «il discorso pronunciato da X in una certa occasione» si può anche dire «il discorso psicotico» sottintendendo che si fa riferimento non a un singolo discorso, ma al modo di attualizzare il linguaggio da parte di uno psicotico. In questo saggio non si usano in modo rigido i termini «discorso» e «linguaggio», perciò, in certi casi, si ricorre a quell’accezione di «linguaggio» che non denota tecnicamente un codice ma, più discorsivamente, si riferisce appunto al modo di esprimersi di un gruppo di persone. Alla luce di queste considerazioni ho deciso di comportarmi liberamente e di scegliere, di volta in volta, che traducente utilizzare per rendere al meglio il concetto espresso dall’autore; «discorso» traduce quindi non solo discourse, ma anche speech e language, speech viene tradotto anche come parola, e language come linguaggio.

28

De Mauro 2000

86

8.2.2 Thing e Object

Desidero soffermarmi inoltre sulle parole thing e object dal momento che più volte mi sono ritrovata a rivedere le mie scelte in proposito. Molto spesso nel testo si parla di cose comuni – sedie, forchette, termometri, eccetera – come di things. Utilizzare la parola «cosa» all’interno di un saggio scientifico di questo tipo, mi sembra uno smacco al registro scelto; avrei infatti preferito ricorrere al quasi corrispondente «oggetto». Tuttavia mi sono dovuta arrendere e ho dovuto utilizzare «cosa» dal momento che «oggetto» in alcune parti del testo avrebbe costituito una fonte di ambiguità. Dal momento che il saggio tratta anche di semiotica, nel testo ricorrono di continuo i termini peirciani «segno», «interpretante», e «oggetto», appunto. Per distinguere dunque quello che è un oggetto comune, dall’oggetto peirciano (il «Secondo» nella triade di Peirce) ho tradotto thing con «cosa». In un punto del testo in particolare questa mia scelta traduttiva ha trovato riscontro, e cioè quando l’autore, parlando di un soggetto schizofrenico, afferma che questi «diventa ben consapevole delle sue parole o dei suoi gesti in quanto parole o gesti» e che dunque le parole o i gesti «rivelano improvvisamente la loro natura di segni – o di cose semiotiche» (2000:19). In presenza dell’aggettivo «semiotico» è impossibile tradurre thing con «oggetto», poiché si verrebbe a creare una grossa ambiguità che avrebbe creato confusione nella mente del lettore.

8.3. Eleganza formale versus aderenza all’originale

Molti critici puntano il dito contro il traduttore e la sua versione attaccandosi al concetto di “fedeltà”. Partendo dal presupposto che non si può parlare di “fedeltà” posso argomentare molte mie scelte traduttive. Come ho già affermato la dominante sulla quale mi sono concentrata maggiormente è stata il rispetto del contenuto e, di conseguenza, di tutti i termini specifici, affinché non risultassero screditati i concetti espressi dall’autore. Ho tuttavia ritenuto importante conferire uniformità al testo, soprattutto per quanto riguarda il registro, in modo che avesse una maggiore dignità; a questo è dovuta la mia

87

decisione di non rispettare totalmente il modo di esprimersi dell’autore: così facendo sono intervenuta soltanto su quelle espressioni macchinose o ridondanti che si presentavano. Per tradurre parole come affirmation, statement, sentence, pronounciation, utterance, declaration, che non vanno considerate come parole chiave da conservare rigorosamente, sono ricorsa a traducenti diversi che di volta in volta meglio si adattavano al contesto, intervenendo in certi casi anche sulla sintassi.

Anche nel caso degli aggettivi actual e real, per esempio, non ho scelto a priori un traducente per l’uno e l’altro, ma di volta in volta ho deciso come tradurli; spesso il co-testo mi ha spinta a inserire ripetizioni usando lo stesso traducente per i due aggettivi.

8.4 Le citazioni

Grazie agli OPAC (online public access catalogue) delle varie biblioteche, nonché a quello del Sistema Bibliotecario Nazionale, sono riuscita a recuperare le edizioni italiane delle opere citate nel saggio, e ho potuto così inserire le traduzioni “ufficiali” esistenti. Le citazioni delle opere di Peirce hanno costituito per me la principale difficoltà. In Italia esistono infatti numerose edizioni degli scritti di Peirce, nessuna completa, ed esistono svariati volumi che comprendono una selezione di saggi diversi. Prima di scegliere quale versione inserire nel testo ho passato in rassegna tre volumi29 contenenti i saggi che mi interessavano. Dopo un’attenta analisi ho deciso di tradurre di mio pugno le citazioni riportate nel testo dal momento che in ognuna delle versioni da me esaminate presentava qualche lacuna, seppur minima a volte; lacuna che ho cercato di colmare nel massimo rispetto dell’originale.

29

Peirce, C.S. 1978; 2003; 2005

88

8.4.1 Alcune traduzioni a confronto

Di seguito riporto una tabella con la quale raffronto alcune citazioni tradotte estratte dalle tre edizioni italiane da me reperite in fase di traduzione per mostrare come differiscano tra loro. Le citazioni che riporto sono tratte dal saggio Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man. Per ultima inserisco la mia variante per mostare dove sono intervenuta e cosa ho modificato rispetto alle altre traduzioni, sulla base di questo piccolo estratto è possibile intuire il mio atteggiamento nel tradurre le citazioni delle opere di Peirce.

P = prototesto
M = metatesto
M1 = Scritti di filosofia, a cura di William J. Callaghan M2 = Scritti scelti, a cura di Giovanni Maddalena
M3 = Opere, a cura di Massimo Bonfantini

P

Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man

If we seek the light of external facts, the only cases of thought which we can find are of thought in signs. Plainly, no other thought can be evidenced by external facts. But we have seen that only by external facts can thought be known at all. The only thought, then, which can possibly be cognized is thought in signs. But thought wich cannot be cognized does not exist. All thought, therefore, must necessarily be in signs.

[…]

A child hears it said that the stove is hot. But it is not, he says; and indeed, that central body is not touching it, and only what that thouches is hot or cold. But hetouches it, and finds the testimony confirmed in a striking way. Thus, he becomes aware of ignorance, and it is necessary to suppose a self in which this ignorance can inhere. So testimony gives the first dawning of self-consciousness.

89

M1

Questioni concernenti certe pretese facoltà umane

Se cerchiamo la luce dei fatti esterni, i soli casi di pensiero che possiamo reperire sono casi di pensiero in segni. Ovviamente, nessun altro pensiero può essere evidenziato da fatti esterni. Ma abbiamo visto che si può conoscere il pensiero solo da fatti esterni. Allora il solo pensiero che sia assolutamente possibile conoscere è pensiero in segni. Ma il pensiero che non può essere conosciuto non esiste. Ogni pensiero perciò deve necessariamente essere pensiero in segni.

[…]

Un bambino ode dire che il fornello è caldo. Ma non lo è, egli dice; e, in verità, quel corpo centrale non lo sta toccando e solo ciò che quello tocca è caldo o freddo. Egli lo tocca, però, e trova confermata in maniera essenziale la testimonianza. In questo modo egli diviene consapevole dell’ignoranza, ed è necessario suppore un io a cui questo non sapere possa inerire. La testimonianza produce così il primo inizio dell’autocoscienza.

M2

Questioni riguardo a certe pretese capacità umane

Se guardiamo ai fatti esteriori, i soli casi di pensiero che possiamo rinvenire sono di pensieri in forma di segni. È chiaro chei fatti esteriori non mettono in luce alcun altro pensiero. Ma abbiamo visto che ilpensiero può essre conosciuto solo ed esclusivamente per fatti esteriori. Il solo pensiero, allora, che può essere conosciuto è il pensiero attraverso i segni. Ma il pensiero che non può essre conosciuto non esiste, quindi tutto il pensiero deve necessariamente essere per segni.

[…]

Un bambino sente dire che la stufa è calda. Non è vero, egli dice; in effetti, il corpo centrale non la sta toccando e solo ciò che esso tocca può essere caldo o freddo. Allora egli la tocca e scopre che la testimonianza viene dolorosamente confermata. Così diventa consapevole dell’ignoranza ed è necessario supporre un io al quale questa ignoranza possa inerire. In questo modo la testimonianza è all’origine dell’autocoscienza.

90

M3

Questioni concernenti certe pretese facoltà umane

Se ci basiamo sui fatti esterni, i soli casi di pensiero che possiamo trovare sono quelli di pensiero in segni. È chiaro che nessun altro pensiero può essere evidenziato da fatti esterni. Ma abbiamo visto che il pensiero si può conoscere solamente attraverso i fatti esterni. Dunque, il solo pensiero che è possibile conoscere è, senza eccezione, il pensiero in segni. Ma il pensiero che non può essere conosciuto non esiste. Perciò ogni pensiero deve necessariamente essere pensiero in segni.

[…]

Un bimbo sente dire che la stufa è calda. Ma non è vero, egli dice; e, infatti, quell’altro corpo centrale che gli sta parlando non la sta toccando, e solo ciò che si tocca è caldo o freddo. Allora il bambino la tocca, e scopre che la testimonianza è dolorosamente confermata. Così, diventa consapevole dell’ignoranza, ed è necessario supporre un io cui questa ignoranza possa inerire. In tal modo la testimonianza comporta il primo avvio dell’autocoscienza.

M4

Se cerchiamo la luce dei fatti esterni, i soli casi di pensiero che possiamo individuare sono casi di pensiero in segni. È evidente che nessun altro pensiero può essere evidenziato da fatti esterni. Ma abbiamo visto che è possibile comprendere il pensiero soltanto attraverso fatti esterni. Dunque, il solo pensiero che può forse essere conosciuto è il pensiero in segni. Ma il pensiero che non può essere conosciuto non esiste. Ogni pensiero deve pertanto essere necessariamente in segni

[…]

Un bambino sente dire che la stufa è calda. Ma non è vero, dice; e, infatti, quel corpo centrale non la sta toccando, e soltanto ciò che si tocca è caldo o freddo. Tuttavia lo tocca e trova confermata la testimonianza in modo sorprendente. [Il bambino] diviene così consapevole dell’ignoranza, ed è necessario supporre un sé a cui questa ignoranza possa inerire. La testimonianza pone le basi della coscienza di sé.

91

Risulta evidente come la prima traduzione (M1), nonché la più datata, sia molto aderente all’originale, spesso a tal punto da rendere difficoltosa la lettura. Le altre due traduzioni (M2 e M3), più recenti, sono invece più scorrevoli; tuttavia M2 sembra essere molto più appropriante e meno aderente all’originale. M3, nonostante sia la traduzione migliore tra le tre da me individuate, presenta alcune lacune (seppur minime) che ho cercato di integrare al meglio proponendo una mia traduzione (M4).

9. Interventi redazionali

Una volta ultimata la traduzione non ho ritenuto concluso il mio lavoro; mi sono infatti preoccupata di intervenire su alcuni aspetti, spesso considerati secondari, che fanno la differenza.
Il primo impatto che si ha con un prodotto è sempre un impatto visivo; è pertanto significativo intervenire sull’aspetto “estetico” del testo e assicurarsi che sia mantenuta una certa coerenza nell’aspetto formale. Per quanto riguarda questo saggio sono dovuta intervenire principalmente laddove l’autore aveva inserito citazioni. È infatti consuetudine diffusa lasciare inserite nel testo in corpo normale le citazioni corte; per quanto riguarda invece le citazioni più lunghe è buona riportare il testo in corpo minore, con un margine più ampio, e in modo che sia ben distaccato dal testo che precede la citazione e da quello che la segue. Da questo punto di vista risulta evidente come Peircean Reflections on Psychotic Discourse non sia stato rivisto accuratamente prima di essere dato alle stampe; le citazioni lunghe risultano inserite nel testo senza coerenza: a volte sono riportate in corpo minore e ben distaccate dal resto del testo, altre volte, invece, sono state lasciate inserite nel testo in corpo normale. A tale proposito si veda, per esempio, la citazione dell’opera di Maurice Merleau-Ponty (Phillips 2000:18)

Sempre a proposito delle citazioni riportate, i riferimenti di anno e pagina, che rimandano alla fonte da cui la citazione è tratta, nel testo originale sono inseriti

92

a volte in parentesi tonde e altre volte in parentesi quadre. Anche in questo caso ho optato per una soluzione omogenea, scegliendo la formula: (anno:pagina).
La mancanza di cura dell’aspetto redazionale è palese anche nel caso dei riferimenti bibliografici: spesso sono riportati secondo criteri diversi; a volte, per esempio, il nome dell’autore è trascritto per intero, altre volte viene segnata soltanto l’iniziale. Sono intervenuta quindi non solo inserendo il testo di riferimento italiano, ma anche sulla trascrizione delle fonti originali.

9.1 Le citazioni di Peirce

Nel testo di Phillips sono presenti numerose citazioni di Peirce, spesso non tratte dalla fonte primaria, bensì da altre fonti in cui sono state riportate le parole di Peirce. Ho deciso di inserire in nota a piè di pagina il testo originale e di inserire, come riferimento, il numero del paragrafo da cui sono state tratte le citazioni, in modo da agevolare il lettore che avesse intenzione di approfondire la lettura nei Collected Papers. In fase di traduzione ho però avuto un piccolo intoppo nel momento in cui l’autore ha inserito una citazione di Peirce riportata all’interno di un altro volume (in Phillips 2000:32):

In its genuine form, Third is the triadic relation existing between a sign, its object, and the interpreting thought, itself a sign, considered as constituting the mode of being of a sign. A sign mediates between the interpretant sign and its object.

In realtà, Peirce, nei Collected Papers, non ha usato la parola Third, bensì Thirdness; ho dunque deciso di correggere la citazione e segnalare il mio intervento ricorrendo a una nota a piè di pagina.

93

9.2 Un’ulteriore precisazione

Ho deciso di inserire in nota (per le citazioni di Peirce, Eliot, e Stevenson) il testo inglese di riferimento nonostante in questa tesi sia previsto il testo a fronte. Questa mia decisione è stata dettata dal fatto che il testo a fronte è inserito in questa tesi per fini meramente didattici. In una situazione professionale, in cui viene esclusa l’ipotesi di un testo a fronte, mi sarei comportata in questo modo; alla luce di questa riflessione ho agito di conseguenza.

94

Riferimenti bibliografici

Burness E. Moore, Bernard D. Fine. (a cura di), Dizionario di psicoanalisi, trad. di Bruno Osimo, Milano, Sperling & Kupfer, 1993, ISBN 88-200-1549-8.

De Mauro, Tullio (a cura di). Il dizionario della lingua italiana, Milano, Paravia, Bruno Mondadori Editori, 2000, ISBN 88-203-5023-2.

Galimberti, Umberto. (a cura di). Dizionario di psicologia, Torino, UTET, 1994 (1992), ISBN 88-02-04613-4.

Osimo, Bruno. Manuale del traduttore, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203- 3269-8.

Osimo, Bruno. Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli, 2005 (2001), ISBN 88-203-2935-2.

Osimo, Bruno. La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli, 2007, ISBN 88-203-3741-X.

Osimo, Bruno (a cura di). Corso di traduzione [online], [Modena] Logos, 2000- 2004 Disponibile dal world wide web: http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.traduzione?lang=it [ultima consultazione: 25 maggio 2008].

Peirce, Charles Sanders. The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1-6 a cura di Charles Hartshorne and Paul Weiss, vol. 7-8 a cura di Arthur W. Burks, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1931-1935, 1958.

95

Peirce, Charles Sanders. Scritti di filosofia, a cura di William J. Callaghan, Bologna, Cappelli editore, 1978.

Peirce, Charles Sanders. Scritti scelti, a cura di Giovanni Maddalena, Torino, UTET, 2005, ISBN 88-02-06072-X.

Peirce, Charles Sanders. Opere, a cura di Massimo Bonfantini, Milano, Bompiani, 2003, ISBN 88-452-9216-9.

Phillips, James. Peircean Reflections on Psychotic Discourse, in Peirce, Semiotics, and Psychoanalysis, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 2000, a cura di John Muller e Joseph Brent, ISBN 0-8018-6288-4, p. 16-36.

96

MICHELA PALMIERI Alice in Wonderland I nomi propri e i giochi di parole: Christiane Nord

Alice in Wonderland

I nomi propri e i giochi di parole: Christiane Nord

MICHELA PALMIERI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di Partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Marzo 2008

© Les Presses de l’Université de Montréal, 2003 © Michela Palmieri per l’edizione italiana 2008

Alice in Wonderland – I nomi propri e i giochi di parole: Christiane Nord

Alice in Wonderland – Proper Names and Puns: Christiane Nord

ABSTRACT IN ITALIANO
Oltre alla traduzione di un saggio di Christiane Nord che tratta le diverse possibilità di resa dei nomi propri e le difficoltà connesse alla loro traduzione, la tesi contiene una prefazione in cui i giochi di parole sono suddivisi per categorie a seconda del meccanismo che li fa funzionare. I giochi di parole sono strettamente legati al contesto linguistico e culturale in cui vengono creati, e per tale motivo risultano particolarmente difficili da tradurre. Ma che cosa sono i giochi di parole? Quali sono i meccanismi che li fanno funzionare? Esistono una o più strategie creative cui essi si possano ricondurre, ovvero è possibile farne una classificazione? Nel rispondere a tali interrogativi, questa tesi prende in esame un testo particolarmente ricco di giochi di parole: Alice’s Adventures in Wonderland, un testo che presenta innumerevoli difficoltà traduttive proprio a causa dell’importanza dei suoni e dei segni dell’originale, paragonabile a quella del contenuto denotativo. Tale considerazione si può fare anche per un altro elemento presente nel racconto: i nomi propri, che nascondono informazioni o riferimenti alla cultura o all’ambiente dell’autore. In definitiva però, vista l’intraducibilità del gioco di parole, ossia l’impossibilità di ricrearne uno equivalente all’originale in un’altra lingua, si ha la possibilità di apprezzare appieno un gioco di parole soltanto nell’ambito della lingua e della cultura che lo hanno creato.

ENGLISH ABSTRACT
Besides presenting a translation of an essay by Christiane Nord which deals with the different possibilities of rendering proper names and the relevant translation difficulties, this thesis contains a preface where puns are subdivided into categories according to their underlying mechanisms. Puns are strictly connected to their original linguistic and cultural background, which is the reason why it is so difficult to translate them. But what are puns? What are the mechanisms that make them work? Are there one or more creative strategies they might be traced back to, which therefore could be catalogued? This thesis aims at answering such questions by analysing a text which is particularly rich in puns: Alice’s Adventures in Wonderland. This text presents innumerable translation difficulties because sounds and signs are just as important as their meaning. The same remark can be made for another element in the story: proper names, which may hide some information or reference to the author’s culture and background. In conclusion, however, since puns are practically untranslatable – recreating a pun which is the exact equivalent of the original is usually impossible – a pun can be fully appreciated only within the framework of its original language and culture.

3

ZUSAMMENFASSUNG
Diese Diplomarbeit besteht aus der Übersetzung eines Aufsatzes von Christiane Nord, der von den verschiedenen Übersetzungsmöglichkeiten und -schwierigkeiten von Eigennamen handelt, und aus einem Vorwort, in dem Wortspiele in Kategorien unterteilt werden, je nach dem Mechanismus, der sie funktionieren lässt. Wortspiele sind mit dem Sprach- und Kulturkontext, in dem sie entstanden sind, eng verbunden; deshalb ist es besonders schwierig, sie zu übersetzen. Aber was sind eigentlich Wortspiele? Welche Mechanismen lassen sie funktionieren? Gibt es eine oder mehrere schöpferische Strategien, auf die man sie zurückführen kann? Kann man sie etwa nach Typen einteilen? Um diese Fragen zu beantworten, befasst sich die vorliegende Diplomarbeit mit einem an Wortspielen besonders reichen Text: Alice’s Adventures in Wonderland. Dieser Text weist unzählige Übersetzungsschwierigkeiten auf, gerade weil Laute und Zeichen im Originaltext genauso wichtig sind wie der denotative Inhalt. Dasselbe gilt für ein weiteres Element dieses Werks: die Eigennamen, welche Auskünfte über die Kultur oder das Umfeld des Autors oder Verweise darauf enthalten können. Wegen der Unübersetzbarkeit von Wortspielen beziehungsweise der Unmöglichkeit, in einer anderen Sprache ein dem Original völlig entsprechendes Wortspiel zu schaffen, kann man ein Wortspiel nur im Rahmen der Sprache und der Kultur, in denen es entstanden ist, vollkommen begreifen und wirklich schätzen.

4

Sommario

Abstract in italiano ……………………………………………………………….. 3 English Abstract……………………………………………………………………. 3 Zusammenfassung………………………………………………………………… 4 Sommario ……………………………………………………………………………. 5 Indice delle tabelle ……………………………………………………………….. 6 1. Prefazione: i giochi di parole in Alice in Wonderland ………………. 7

2. Giochi di parole basati sul senso………………………………………….. 7 2.1. Omonimia…………………………………………………………………………….. 7 2.2. Polisemia……………………………………………………………………………… 9

3. Giochi di parole basati sul suono ……………………………………….. 12 3.1. Omofonia……………………………………………………………………………..12 3.2. Paronimia…………………………………………………………………………….14 3.3. Paronomasia ………………………………………………………………………..16

4. Giochi di parole basati sui rimandi intertestuali……………………. 17 5. Giochi di parole basati sui pronomi…………………………………….. 18 6. Conclusioni …………………………………………………………………….. 20 7. Proper Names in Translations for Children ………………………….. 21 Riferimenti bibliografici ……………………………………………………….. 23 Traduzione con testo a fronte ……………………………………………….. 24

5

Indice delle tabelle

Tabella 1……………………………………………………………………………. 39 Tabella 2……………………………………………………………………………. 43

Tabella 3……………………………………………………………………………. 45 Tabella 4……………………………………………………………………………. 45 Tabella 5……………………………………………………………………………. 49 Tabella 6……………………………………………………………………………. 51 Tabella 7……………………………………………………………………………. 53 Tabella 8……………………………………………………………………………. 55 Tabella 9……………………………………………………………………………. 57 Tabella 10………………………………………………………………………….. 61 Tabella 11………………………………………………………………………….. 63 Tabella 12………………………………………………………………………….. 65

6

1. Prefazione: i giochi di parole in Alice in Wonderland

Alice’s Adventures in Wonderland, meglio noto con il titolo abbreviato di Alice in Wonderland, è un’opera letteraria che si basa in gran parte sul nonsense e sui giochi di parole. Sono appunto i giochi di parole, o pun, l’elemento che vorrei analizzare con questa tesi, proponendone una sorta di “catalogazione”, sebbene non sia così semplice schematizzarli in quanto sono molto vari e i confini che separano un tipo di gioco di parole dall’altro non sono sempre facili da stabilire. Ho tuttavia tentato la seguente classificazione sulla base del meccanismo che sottende ai vari pun presenti nel testo, al fine di metterne in evidenza la straordinaria varietà e quindi anche l’incredibile fantasia creativa dell’autore. Segue dunque un elenco di categorie, di modi in cui è possibile “giocare” con le parole.

2. Giochi di parole basati sul senso

Uno dei modi per creare un gioco di parole è quello di confondere più significati utilizzando una sola parola. Ciò è possibile nel caso degli omonimi o delle parole che hanno più sfumature di significato (polisemia). Il meccanismo di questo tipo di pun fa sì che la parola scelta sia collocata in un contesto in cui può essere interpretata in (almeno) due modi diversi, uscendo dalla consuetudine in quanto il contesto viene appunto usato per confonderne il significato anziché per chiarirlo.

2.1. Omonimia

Un omonimo è una parola che si scrive e si pronuncia esattamente come un’altra ma ha un significato diverso. Per comprendere il meccanismo che consente di creare giochi di parole sulla base del senso è utile in primo luogo stabilire la differenza tra la parola e il significato, in termini tecnici «significante» e «significato», se vogliamo basarci sulla dottrina di Saussure, o «segno» e «oggetto», se vogliamo basarci su quella di Peirce. Preferirei prendere in considerazione la teoria di Peirce perché comprende un terzo elemento, l’interpretante, il segno mentale attraverso il quale ogni lettore o ricevente di un messaggio interpreta un segno scritto e lo fa corrispondere a

7

un oggetto concreto o astratto (Osimo 2004:12). L’interpretante di uno stesso segno si forma di volta in volta sulla base delle conoscenze del lettore e del contesto in cui il segno appare, e proprio qui entra in gioco la confusione voluta dall’autore, per cui il contesto offre più possibilità interpretative di una sola parola creando così un gioco di parole. Nel caso dell’omonimia, dunque, a un solo segno corrispondono oggetti diversi, i quali, a differenza del caso della polisemia, non sono legati tra loro da estensioni metaforiche del significato originario e non discendono quindi da un significato fondamentale comune (Cammarata 2002). Per citare un esempio, si veda l’identità di pronuncia e di ortografia del sostantivo «corte», e dell’aggettivo «corte»; i significati delle due parole non sono in alcun modo connessi, si può anzi dire che le due parole si ritrovino ad essere pronunciate e scritte allo stesso modo per puro caso.

Ma vediamo qualche esempio concreto di giochi di parole basati sull’omonimia in Alice in Wonderland; qui, come nei prossimi paragrafi, citerò solo i più significativi, ma il libro ne contiene in tale quantità che credo non abbia precedenti né casi analoghi successivi, se non la seconda storia di Alice, Through the Looking Glass.

‘You can draw water out of a water-well,’ said the Hatter; ‘so I should think you could draw treacle out of a treacle-well—eh, stupid?’
‘But they were in the well,’ Alice said to the Dormouse, not choosing to notice this last remark.

‘Of course they were’, said the Dormouse; ‘—well in.’ (Carroll 2002:68)

Qui la parola «well» è utilizzata insieme al suo omonimo, che ha naturalmente un significato diverso: se nella prima e nella seconda battuta si parla di un pozzo, nella terza la stessa parola «well» non è più un sostantivo ma un avverbio, che sta a significare che le tre sorelle, protagoniste del racconto del Ghiro, sono ben dentro al pozzo, o ben in fondo. L’effetto che questo gioco di parole ha sul lettore, come sulla povera Alice, è quello di confonderlo momentaneamente: avendo appena letto la parola «well» con l’accezione di «pozzo», infatti, il lettore impiega qualche

8

istante ad accorgersi, grazie al contesto, che l’accezione della parola è cambiata, per poi rendersi conto di avere a che fare con un gioco di parole.

‘there’s a large mustard-mine near here. And the moral of that is—“The more there is of mine, the less there is of yours.”’ (Carroll 2002:83)

In questo passaggio è la parola «mine» ad essere citata insieme al suo omonimo. Dopo che Alice e la Duchessa hanno concluso che la senape debba essere un minerale, il che è un esempio lampante del nonsense che regna nel paese delle meraviglie, la Duchessa parla di una miniera di senape, utilizzando perciò «mine» con l’accezione di «miniera», e poi trae la morale della storia, anche questa piuttosto assurda, in cui però la parola «mine» è usata nel senso di «mio», cosa che il lettore capisce, sempre dopo qualche istante di confusione, grazie al contesto, in cui «mine» è contrapposto a «yours». Ma prima di capirlo, il lettore percepisce una frase assurda, che ha per soggetti una miniera e qualcosa di «tuo», ed è questo che rende divertente il gioco di parole.

2.2. Polisemia

Nel caso della polisemia i vari significati che si ricavano da una parola discendono da un significato fondamentale, che viene esteso per metafora o metonimia a nuovi significati (Cammarata 2002). Si distingue perciò dall’omonimia: se prendiamo di nuovo ad esempio il sostantivo «corte», vediamo che la corte può essere un cortile, ma anche la residenza di un sovrano, o l’insieme dei magistrati che formano l’organo giudicante in un processo (De Mauro 2007). L’estensione dei significati è molto frequente in tutte le lingue, e molto utile in quanto consente di ampliare il significato di una parola senza crearne di nuove, ma semplicemente attribuendo a una parola esistente molte sfumature di significato connesse a quello originario. Tale processo è decisamente culturospecifico, poiché sono proprio i parlanti che, con l’uso di una parola in un determinato senso, creano e consolidano il nuovo significato. Questo è un esempio della formazione spontanea dei codici naturali, che ne causa l’anisomorfismo, ossia la mancanza di una corrispondenza biunivoca fra una parola di una determinata lingua, con i

9

significati a essa connessi, e una parola in un’altra lingua, che difficilmente comprenderà esattamente gli stessi significati (Osimo 2004:80). Per comprendere quale sia l’accezione che la parola ha di volta in volta, il lettore necessita di competenze linguistiche e culturali e, come nel caso dell’omonimia, il contesto svolge un ruolo fondamentale nella disambiguazione del segno, ed è proprio sulla base di tale meccanismo che l’autore, fornendo due contesti diversi, riesce a cambiare il significato che il lettore attribuirà alla parola nel giro di poche righe o addirittura all’interno di una stessa frase. Per questi motivi i pun che si basano sulla polisemia, come quelli che si basano sull’omonimia, sono particolarmente difficili da tradurre, e richiedono spesso di sacrificare almeno uno dei significati espressi dal gioco di parole originale.

Un esempio interessante dell’uso di questi giochi di parole si ritrova nella descrizione del mazzo di carte di cui fanno parte i soldati, i giardinieri, i cortigiani e i figli del Re e della Regina di cuori:

First came ten soldiers carrying clubs; these were all shaped like the three gardeners, oblong and flat, with their hands and feet at the corners: next the ten courtiers; these were ornamented all over with diamonds, and walked two and two, as the soldiers did (Carroll 2002:72).

«Clubs» e «diamonds» corrispondono a due semi di carte, in italiano rispettivamente «fiori» o «bastoni» e «quadri» o «denari». E infatti è di carte che si parla, come ho detto: le carte di picche sono i giardinieri, i fiori i soldati, i quadri i cortigiani e i cuori sono i figli della Regina. Ma i soldati, secondo il gioco di parole di Carroll, portano dei bastoni, non solo nel senso del seme, ma anche nel senso di armi, se così si pò definire un bastone. E così i cortigiani: sono del seme dei quadri, ma sono ornati di «diamonds», diamanti, una parola che, associata a «ornamented» fa subito venire in mente le pietre preziose piuttosto che il seme delle carte. Perciò il lettore si trova davanti a un contesto in cui sarebbe logico pensare in primo luogo agli oggetti concreti, bastoni nel caso dei soldati, che portano sempre con sé delle armi, e diamanti nel caso dei cortigiani, se non altro perché il testo

10

dice che essi ne sono ornati. Poi, però, guardando le illustrazioni, e capendo anche dal contesto verbale che questi personaggi sono in realtà un mazzo di carte vivente, il lettore associa tali parole anche ai semi. Dunque il gioco di parole in questione crea un effetto di polisemia, appunto, ma la polisemia è un concetto che si può applicare a una parola astratta da un contesto; quando la parola non è isolata ma si trova in un testo, il lettore decide quale accezione attribuirle in quel contesto, ne sceglie una sola e, al momento di verificare l’esattezza delle proprie inferenze, decide se quell’accezione è corretta o se invece è meglio optare per un’altra (Osimo 2004:23). In questo caso, invece, due possibilità interpretative vengono confermate dal contesto, perciò la parola mantiene la sua polisemia sebbene si trovi all’interno di un testo.

Un altro esempio di pun basato sulla polisemia è menzionato anche nel saggio di Christiane Nord che ho tradotto; si parla, nel paragrafo 4.1., della «dryness» (vedi anche la nota alla traduzione) del racconto del Topo, riferendosi in particolare a questo passo:

At last the Mouse, who seemed to be a person of authority among them, called out, ‘Sit down, all of you, and listen to me! I’ll soon make you dry enough!’ They all sat down at once, in a large ring, with the Mouse in the middle. Alice kept her eyes anxiously fixed on it, for she felt sure she would catch a bad cold if she did not get dry very soon.

‘Ahem!’ said the Mouse with an important air, ‘are you all ready? This is the driest thing I know. […]’ (Carroll 2002:23)

Qui l’aggettivo «dry» è usato contemporaneamente con due accezioni diverse: se da un lato i personaggi vogliono asciugarsi dopo essere usciti dall’acqua, dall’altro il Topo propone di asciugarli raccontando loro una storia noiosa. Ciò è “possibile” grazie ai due diversi significati della parola «dry», che significa sia «asciutto» sia «noioso», perciò la cosa più noiosa che il Topo conosce può essere contemporaneamente anche la più asciutta, e quindi aiutare i personaggi a raggiungere il proprio obiettivo.

11

3. Giochi di parole basati sul suono

Ho fatto rientrare in questa categoria tutti i giochi di parole che funzionano grazie alla pronuncia simile o uguale di più parole. Con questo meccanismo si può confondere una parola con un’altra semplicemente pronunciando lo stesso suono in contesti diversi, come nel caso dell’omofonia, oppure pronunciando, in un contesto dove ci si aspetterebbe di trovare una determinata parola, una parola che ha suono simile ma significato diverso, come nel caso della paronimia, facendo così venire in mente al lettore la parola che si aspettava ma creando confusione perché quella effettivamente pronunciata non c’entra con il contesto. Si capisce dal fatto che io usi il verbo «pronunciare» che tali meccanismi funzionino più facilmente nella comunicazione orale, ma Lewis Carroll è stato molto abile nell’applicarli al suo racconto. Esistono poi dei giochi di parole basati sulla paronomasia, ossia sull’accostamento di parole dal suono simile ma dal significato diverso.

3.1. Omofonia

Un omofono è una parola che si pronuncia esattamente allo stesso modo di un’altra ma si scrive diversamente, e ha naturalmente un significato diverso, del tutto indipendente dal significato dell’altra parola, come nel caso dell’omonimia. L’omofonia è infatti una sorta di “sottocategoria” dell’omonimia: l’«omonimia piena» (Cammarata 2002) si realizza infatti quando la parola si scrive e si pronuncia esattamente allo stesso modo, mentre quando l’ortografia coincide ma la pronuncia no si parla di omografia, come nel caso delle parole «àncora» e «ancóra». Naturalmente anche l’omografia può essere funzionale alla creazione di un gioco di parole, tuttavia non ho trovato, in Alice in Wonderland, esempi di pun di questo tipo. L’omofonia è decisamente più frequente in inglese che in italiano, in quanto la pronuncia della lingua italiana ha regole molto più semplici e univoche, mentre in inglese non è raro che uno stesso gruppo di lettere si possa pronunciare in modi diversi o viceversa che più gruppi di lettere abbiano una pronuncia analoga. Riporto tuttavia uno dei rari esempi italiani di omofonia: la parola «hanno» si legge esattamente come la parola «anno», ma il rapporto che lega le due parole si limita alla coincidenza di pronuncia:

12

come per gli omonimi e gli omografi, non ci sono altri legami, né di senso né di etimologia. Un gioco di parole può far leva proprio su questa contraddizione: da una parte, le due parole si pronunciano in modo analogo, dall’altra, non sono legate in nessun modo.

In Alice in Wonderland troviamo più di una volta questo tipo di giochi di parole; qui ho scelto come esempio il racconto del Topo:

‘Mine is a long and a sad tale!’ said the Mouse, turning to Alice, and sighing.
‘It is a long tail, certainly,’ said Alice, looking down with wonder at the Mouse’s tail; ‘but why do you call it sad?’ (Carroll 2002:26)

Ciò che fa funzionare questo gioco di parole è l’omofonia che lega la parola «tale», racconto, alla parola «tail», coda. È certo che un lettore inglese, o un lettore che conosca a sufficienza la lingua inglese, si rende subito conto del motivo per cui Alice pensa che il topo stia parlando della propria coda, e non di un racconto: immaginando il dialogo in forma orale, è molto semplice figurarsi questo tipo di fraintendimento. In questo caso, però, a differenza dei giochi di parole basati sulla polisemia, il lettore non deve assegnare alla parola due significati diversi contemporaneamente, bensì rendersi conto che il topo dà a quel suono un significato mentre Alice gliene attribuisce un altro. Il meccanismo funzionerebbe invece in modo simile a quello della polisemia se il ricevente del messaggio lo ascoltasse, invece di leggerlo: in tal caso, dovrebbe attribuire due significati al medesimo suono. Invece la nostra Alice interpreta il suono esclusivamente come «tail» e, dopo aver immaginato la storia del Topo come una lunga coda, lo fraintende di nuovo:

‘You are not attending!’ said the Mouse to Alice severely. ‘What are you thinking of?’
‘I beg your pardon,’ said Alice very humbly: ‘you had got to the fifth bend, I think?’

‘I had not!’ cried the Mouse, sharply and very angrily.
‘A knot!’ said Alice, always ready to make herself useful, and looking anxiously about her. ‘Oh, do let me help to undo it!’ (Carroll 2002:28)

13

Perciò vediamo che l’immagine suscitata dal gioco di parole va ben oltre la semplice omofonia: la confusione tra i due omofoni fa sì che Alice immagini la storia del Topo proprio come una coda, in quella che si può a buon diritto definire una «poesia visiva» (Carroll 1993:123), e che la porta a pensare che l’animale parli di un nodo perché la parola «knot» si pronuncia esattamente come «not». Anche qui possiamo immaginare che l’effetto del gioco di parole su un ascoltatore possa essere paragonato a quello di un pun basato sulla polisemia. Il contesto servirebbe all’ascoltatore per capire il significato del suono [nα:t], che cambia tra la terza e la quarta battuta. Al lettore è invece sufficiente constatare la diversa ortografia e risalire al gioco di parole immaginando la pronuncia di «not» e «knot».

3.2. Paronimia

La paronimia è lo scambio di parole simili per suono ma diverse per significato. È questo un fenomeno che ha luogo solitamente tra i parlanti poco cólti; si verifica quando un parlante pronuncia una parola in luogo di un’altra, sia per presunti (e inesistenti) legami etimologici, sia per lievi errori di pronuncia che possono portare anche alla formulazione di parole inesistenti, ma fonologicamente simili a quella che si voleva pronunciare, o a miscugli di parole. In particolare, nel primo caso si parla di paretimologia: il parlante associa etimologicamente una parola a un’altra erroneamente e solo sulla base del suono. La paretimologia è molto simile al fenomeno del malapropism, la pronuncia leggermente errata di una parola, specie se cólta o appartenente ad àmbiti specialistici. Il termine malapropism deriva da un personaggio di una commedia di Sheridan, Mrs. Malaprop, particolarmente incline a commettere errori del genere. Gli esempi di malapropism fanno sorridere perché la parola errata ricorda immediatamente quella giusta, a causa del suono simile, e quindi l’errore si individua immediatamente, come nel caso di «le impronte vegetali». Un’altra possibilità è quella della metatesi, lo scambio di due lettere o di due sillabe all’interno di una parola, che acquista il nome di spoonerism quando lo scambio avviene tra i fonemi iniziali di due o più parole diverse, come potrebbe accadere se per dire «cercare un termine» si pronunciasse in realtà «termare un cerchine». In questo modo si possono quindi “creare” parole inesistenti, ma è possibile

14

che lo scambio di suoni porti a pronunciare altre parole esistenti, spesso con effetti piuttosto comici, come nell’inglese «go and shake a tower» in luogo di «go and have a shower». La metonimia e lo spoonerism sono fenomeni tipicamente involontari della lingua parlata, ma, soprattutto in inglese, grazie alla facilità con cui si possono ottenere altre parole esistenti attraverso tali meccanismi, vengono a volte utilizzati di proposito in testi scritti per sortire l’effetto comico di cui sopra. È proprio questo l’uso che ne faceva il reverendo William Archibald Spooner, che come si intuisce dà il nome al fenomeno e che pronunciò l’esempio appena citato.

Gli esempi che ho trovato in Alice in Wonderland si basano in gran parte sul secondo caso di paronimia, il malapropism.

‘no wise fish would go anywhere without a porpoise.’
‘Wouldn’t it really?’ said Alice in a tone of great surprise.
‘Of course not,’ said the Mock Turtle: ‘why, if a fish came to me, and told me he was going a journey, I should say “With what porpoise?”’ ‘Don’t you mean “purpose”?’ said Alice (Carroll 2002:93).

In questo gioco di parole, il lettore percepisce subito il collegamento fra «porpoise», focena, e «purpose», scopo. Tale collegamento è suggerito contemporaneamente dal contesto e dalla somiglianza di suono tra le due parole. Anche se Alice non ci dicesse qual è la parola che «porpoise» fa venire in mente in quel contesto, sicuramente il lettore che conosce la lingua inglese non può fare a meno di pensare a «purpose», sia nella prima battuta che, soprattutto, nella terza. È questo il meccanismo di confusione che questo tipo di gioco di parole riesce a creare: il lettore si aspetta, dato il contesto, una determinata parola, ma ne trova un’altra dal suono simile, la quale gli suggerisce ancor più la parola esatta. Nel frattempo, però, nonostante le conclusioni tratte dal lettore, il gioco di parole si realizza dando per buona la parola “sbagliata”, e lasciando così quell’atmosfera di nonsense che caratterizza tutta la storia; l’assurdo dialogo si conclude infatti con una battuta stizzita della Fintartaruga: «I mean what I say» (Carroll 2002:93). Battuta che suona anche come ironia rivolta contro le persone che, peccando di egocentrismo (o di etnocentrismo se si tratta di

15

un gruppo) non si rendono conto che quello che uno dice non ha un significato assoluto, ma solo relativo.

C’è soltanto un esempio di gioco di parole basato sulla paronimia che, invece di utilizzare il malapropism, suggerisce un legame di senso ed etimologia tra due parole dal suono simile, e che rientra quindi nella paretimologia (e non nella paronomasia, perché il legame è spiegato e in qualche modo giustificato, anche se in modo volutamente erroneo, e non semplicemente suggerito attraverso l’assonanza):

‘That’s the reason they’re called lessons,’ the Gryphon remarked: ‘because they lessen from day to day.’ (Carroll 2002:88)

Il Grifone dà per certo che il sostantivo «lessons» e il verbo «lessen» siano legati etimologicamente in quanto simili per suono, ossia che la prima parola derivi dalla seconda. È inutile dire che qui la paretimologia non è un errore involontario, ma espressamente voluto per associare due parole che Alice non avrebbe mai collegato altrimenti, per dare una spiegazione “logica” di un fenomeno che invece non lo è: anche per quanto riguarda il senso dell’affermazione citata, purtroppo non mi risulta che la durata delle lezioni abbia la tendenza generale a diminuire di giorno in giorno.

3.3. Paronomasia

Capita spesso di leggere o sentire coppie di parole di suono simile ma di significato diverso: si parla in questo caso di paronomasia. Si tratta di una figura retorica spesso utilizzata per suggerire un’associazione di senso tra le due parole, come nel famoso titolo «Fratelli coltelli». Le due parole utilizzate sono del tutto indipendenti l’una dall’altra in senso etimologico e la loro affinità si basa esclusivamente sul suono, ma l’intenzione di chi crea un tale gioco di parole è proprio quella di far pensare al lettore che esista tra loro un legame sul piano semantico al pari di quello sul piano fonetico.

But do cats eat bats, I wonder?’ And here Alice began to get rather sleepy, and went on saying to herself, in a dreamy sort of way, ‘Do cats eat bats? Do cats eat bats?’ and sometimes, ‘Do bats eat cats?’ for, you

16

see, as she couldn’t answer either question, it didn’t much matter which way she put it (Carroll 2002:9).

Qui è la stessa Alice a confondere le due parole sulla base della somiglianza sonora. Non possiamo dire che Carroll abbia avuto l’intenzione di suggerire un legame semantico tra «cats» e «bats», ma il fine sembra proprio quello di ottenere un monologo insensato da parte di Alice, una riflessione assurda che parte semplicemente dall’assonanza di due parole. C’è da dire che non sono molti, nel libro, i giochi di parole che utilizzano la paronomasia; l’unico esempio che ho trovato, oltre a quello appena citato, è una domanda del Gatto del Cheshire che come Alice confonde due parole dal significato diverso soltanto perché queste hanno suono simile: «‘Did you say pig, or fig?’» (Carroll 2002:59).

4. Giochi di parole basati sui rimandi intertestuali

Rientrano nella categoria «rimandi intertestuali» tutte quelle parole, o gruppi di parole, o frasi, che si riferiscono a elementi culturali della cultura emittente, siano essi intratesti, ossia citazioni precise di altri testi (Osimo 2004:42), oppure semplici riferimenti agli impliciti culturali propri di quella cultura. Tali rimandi non sono facili da cogliere se non si conosce la cultura in cui il testo in questione (in questo caso il racconto di Lewis Carroll) è nato. Il modo più semplice per chiarire questi concetti è esemplificarli. In Alice in Wonderland non sono rari i riferimenti impliciti (in quanto non segnalati da note o spiegazioni dell’autore) alla cultura inglese e non solo.

Molti degli esempi di tali giochi di parole riguardano i nomi propri scelti dall’autore, analizzati da Christiane Nord nel saggio che ho tradotto. Questi nomi contengono rimandi a impliciti culturali che è molto difficile mantenere nella traduzione e che quindi non saranno così immediati come nell’originale, ma più verosimilmente saranno rivelati dall’apparato metatestuale aggiunto dal traduttore. Per tali esempi rimando al paragrafo 4.2. del saggio di Nord (vedi più avanti).

La stessa difficoltà di resa si ha, per esempio, quando il Ghiro racconta ad Alice che cosa disegnavano le tre sorelline che abitavano nel

17

pozzo di melassa: «‘[…] did you ever see such a thing as a drawing of a muchness?’» (Carroll 2002:68). La parola «muchness» viene usata in inglese esclusivamente nell’espressione «it is much of a muchness», che “equivale” all’italiano «se non è zuppa è pan bagnato» (Carroll 1993:128). Da qui la difficoltà di Alice a immaginare un disegno che raffiguri un simile “oggetto”, trattandosi non semplicemente di un concetto astratto ma di una parola usata solo in un’espressione idiomatica. Ci sono poi rimandi probabilmente più difficili da cogliere, come nel caso «the Duchess was very ugly» (Carroll 2002:81). Qui l’autore fa riferimento a un dipinto, risalente al Cinquecento, del pittore fiammingo Quentin Matsys. Ciò che fa pensare al riferimento è in primo luogo l’enfasi posta sulla parola «very» per mezzo del corsivo. Sembra infatti che Carroll dia per scontato che la Duchessa debba essere brutta, commentando semplicemente che in effetti è «molto» brutta. Se andiamo a vedere il ritratto, ne scopriremo un’incredibile somiglianza con l’illustrazione di Tenniel che raffigura il personaggio della Duchessa di Alice in Wonderland.

5. Giochi di parole basati sui pronomi

Una particolare categoria di giochi di parole in cui ci si imbatte leggendo Alice in Wonderland è quella che si basa sulle particelle pronominali, particolarmente favorita dalla struttura della lingua inglese, che fa un uso molto più abbondante dei pronomi rispetto all’italiano. Tali particelle sono spesso polivalenti, ovvero possono avere valore e significato diverso a seconda della frase in cui sono inserite. È questo il meccanismo che fa funzionare certi giochi di parole presenti in Alice in Wonderland.

‘What do you mean by that?’ said the Caterpillar sternly. ‘Explain yourself!’
‘I can’t explain myself, I’m afraid, sir’ said Alice, ‘because I’m not myself, you see.’ (Carroll 2002:40)

Questo pun, per esempio, funziona grazie alla polivalenza del pronome «myself», qui usato sia per rendere il significato di «spiegarsi» che di «spiegare sé stessi». Alice è convinta di non essere più sé stessa dopo tutte

18

le trasformazioni che ha subìto da quando è entrata nel paese delle meraviglie, e per questo motivo non può spiegarsi, o meglio spiegare sé stessa. La protagonista interpreta infatti l’esortazione del Millepiedi a spiegarsi come un invito a spiegare la propria persona. Tale meccanismo è assimilabile a quello dei giochi di parole basati sulla polisemia, che danno per buone contemporaneamente due accezioni della stessa parola.

‘Take off your hat,’ the King said to the Hatter. ‘It isn’t mine,’ said the Hatter (Carroll 2002:100).

In questo passaggio il Re intima al Cappellaio di togliersi il cappello. Un parlante italiano non direbbe mai «togli il tuo cappello», ma in inglese, come già detto, i pronomi si utilizzano molto più frequentemente e, in una frase del genere, il significato di «your hat» non è tanto l’effettiva appartenenza del cappello alla persona che lo porta, quanto il fatto che è proprio lui a indossarlo. Appare dunque alquanto fuori luogo la risposta del Cappellaio, essendo assolutamente irrilevante il fatto che il cappello sia suo o no. Il gioco di parole funziona però su questa sorta di contraddizione: in inglese si esprime sempre un pronome possessivo per indicare, oltre alle parti del corpo, anche gli indumenti, o gli accessori di vario genere che si indossano; tale uso, però, non tiene conto del fatto che, a differenza delle parti del corpo, che si suppone siano di proprietà di chi le “porta”, gli indumenti e gli accessori non necessariamente lo sono. E il nonsense di Carroll fa sì che la risposta del Cappellaio influenzi anche le successive considerazioni del Re, che lo accuserà di aver rubato il cappello e in seguito dimenticherà la sua stessa richiesta di toglierlo, come se davvero la cosa importante fosse stabilire di chi sia il cappello. La differenza strutturale che abbiamo visto in questo caso tra l’inglese e l’italiano è un esempio di come la lingua influenzi il modo di pensare e di «suddividere il mondo in categorie» (Osimo 2004:30).

19

6. Conclusioni

Gli innumerevoli giochi di parole contenuti in Alice in Wonderland possono essere suddivisi nelle sette categorie sopra elencate; è tuttavia da sottolineare il fatto che perfino i pun appartenenti a una stessa categoria non si basano quasi mai su meccanismi identici, ma presentano differenze più o meno sottili, il che fa sì che ogni nuovo gioco di parole soprenda il lettore come il precedente. L’analisi effettuata vuole essere un punto di partenza per comprendere lo straordinario modo in cui Carroll riesce a trasformare la logica della lingua in un elemento generatore di confusione, di concetti, situazioni e dialoghi illogici, ottenendo effetti comici e mostrandoci nuovi punti di vista sulla realtà, quotidiana e non. L’incredibile varietà dei giochi di parole e la frequenza con cui si presentano al lettore stravolgendone ogni volta le certezze e proponendo nuovi «come» e nuovi «perché» sul mondo che lo circonda rendono questo libro un esemplare unico nel suo genere e sicuramente una sfida particolarmente ardua, ma anche particolarmente allettante, per qualsiasi traduttore. Il lavoro svolto ambisce a essere eventualmente un sostegno per chi si trovi a dover tradurre un gioco di parole, perché per tradurlo è indispensabile saperlo individuare e riconoscere, ed è utile capire qual è il meccanismo del suo funzionamento, magari per poter ricreare un gioco di parole analogo nella cultura ricevente. E in effetti trovo sia più corretto parlare di «ricreare» un gioco di parole, piuttosto che di «tradurlo», in quanto si tratta di una parte di testo che presenta particolarità culturospecifiche: abbiamo visto che la lingua, e quindi anche la cultura a cui la lingua appartiene, è un modo di vedere la realtà, e che tutte le lingue si formano spontaneamente e dunque ognuna si sviluppa in modo diverso dalle altre. Abbiamo anche visto che i pun fanno leva su determinati meccanismi della lingua e della cultura, su somiglianze di suoni e di parole, su differenze di significato, su impliciti culturali, su particolarità strutturali, sintattiche o grammaticali, insomma su molti elementi che sono propri di una lingua (e perciò di una cultura) e che sicuramente non avranno equivalenti perfetti in un’altra. Per tale motivo la resa di un gioco di parole in una lingua diversa da quella in cui è stato concepito lascerà un residuo traduttivo molto più cospicuo rispetto alle altre

20

parti di testo, costringendo il traduttore a sacrificare di volta in volta parte del senso o parte del suono, o rimandi culturali, o a cambiare una o più delle immagini evocate dal gioco di parole stesso. Perciò in primo luogo chi si assume il compito di “tradurre” i pun in un’altra lingua dovrebbe avere, oltre alle competenze traduttive, una buona dose di fantasia e di creatività, e cercare appunto di ricreare dei nuovi giochi di parole nella cultura ricevente. Data l’impossibilità di rendere un gioco di parole in un’altra lingua che corrisponda perfettamente in tutti i suoi aspetti a quello originale, il traduttore deve scegliere, come per ogni traduzione, una dominante, un aspetto a cui dare la priorità, o eventualmente più di uno, e in ogni caso cercare, più che di tradurre ogni aspetto del gioco di parole, di far sì che questo possa avere sul pubblico della cultura ricevente un effetto quanto meno simile a quello che l’originale ha sul pubblico della cultura emittente. In secondo luogo vorrei osservare che, per tutti questi motivi, l’unico modo per apprezzare appieno i giochi di parole di Alice in Wonderland o di qualsiasi altro testo ne contenga, è quello di addentrarsi, armati di una certa competenza linguistica e culturale e/o di un’edizione corredata di note, nella lettura dell’originale.

7. Proper Names in Translations for Children

Il saggio della traduttologa tedesca Christiane Nord analizza i nomi propri di Alice in Wonderland, le loro funzioni e gli eventuali rimandi culturali. L’analisi dei giochi di parole, contenuta nella mia prefazione, si propone di integrare quella di Nord sui nomi propri, prendendo in considerazione un altro aspetto particolarmente difficile da tradurre del racconto di Lewis Carroll. A differenza della prefazione, il saggio prende in esame anche le versioni che vari traduttori hanno scelto per rendere i nomi propri di Alice in Wonderland in diverse lingue. In particolare c’è un’osservazione che, in quanto madrelingua italiana, vorrei fare sull’analisi che Nord ha fatto sulla traduzione verso l’italiano di un nome che rimanda ad un implicito culturale: nel paragrafo 4.2. si parla del Ghiro, nell’originale «Dormouse». Secondo Nord, mentre nell’originale il nome dell’animale evoca un personaggio particolarmente incline alla sonnolenza, la traduzione «Ghiro» non

21

sortirebbe lo stesso effetto sul pubblico italiano. Quest’affermazione si basa sull’assenza, all’interno della parola «ghiro», di qualche suono che ricordi la parola «dormire» o qualche altra parola affine per significato (vedi esempio di Nord su «Dormouse»/«dormitory»). In realtà Nord non ha qui preso in considerazione proprio quei rimandi agli impliciti culturali che la parola «ghiro» evoca immediatamente a qualsiasi parlante italiano. Inoltre, leggendo la traduzione di Ruggero Bianchi, che Nord prende in considerazione nella sua analisi, troviamo addirittura l’esplicitazione di tale implicito culturale:

«Ecco, ad ogni modo, il Ghiro ha detto…» proseguì il Cappellaio, guardandosi attorno con ansia per vedere se anche lui si sarebbe messo a negare. Ma il Ghiro non negò nulla, perché stava dormendo come un ghiro (Carroll 1993:110).

Nell’originale invece compare soltanto il nome dell’animale e lo si descrive sì mentre dorme, ma senza fare rimandi culturali espliciti:

‘Well, at any rate, the Dormouse said—’ the Hatter went on, looking anxiously round to see if he would deny it too: but the Dormouse denied nothing, being fast asleep (Carroll 2002:101).

L’analisi di Nord è comunque molto utile per chi si trova a tradurre testi, destinati a un pubblico adulto o infantile, che contengono nomi propri, siano essi nomi di personaggi storici, di luoghi, di persone conosciute dall’autore o nomi inventati, e nascondano o no informazioni sul personaggio o rimandi culturali. In particolare, come già detto, rimando al paragrafo 4.2. per l’analisi dei rimandi culturali impliciti nei nomi propri, che a loro volta danno luogo a giochi di parole.

22

Riferimenti bibliografici

CAMMARATA, ADELE, La ricreazione di Alice, 2002, InTRAlinea – rivista online di traduttologia, disponibile in internet all’indirizzo http://www.intralinea.it/parallel/ita_more.php?id=138_0_31_0_C, consultato l’8 febbraio 2008.

CARROLL, LEWIS, Alice’s Adventures in Wonderland, DjVu, 2002.
CARROLL, LEWIS, Alice nel Paese delle Meraviglie, traduzione di Ruggero

Bianchi, Milano, Mursia, 1993.

DE MAURO, TULLIO, Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio, Torino, Paravia, 2007, disponibile in internet all’indirizzo http://www.demauroparavia.it/, consultato il 9 febbraio 2008.

NORD, CHRISTIANE, Proper Names in Translations for Children – Alice in Wonderland as a Case in Point, Les Presses de l’Université de Montréal, 2003, volume 48, n. 1/2, mag.

OSIMO, BRUNO, Manuale del traduttore, Milano, Hoepli, 2004.

23

Traduzione con testo a fronte

24

Proper Names in Translations for Children Alice in Wonderland as a Case in Point

Author
Christiane Nord
University of Applied Sciences Magdeburg-Stendal, Magdeburg, Germany

1. Preliminary Considerations

“Proper names are never translated” seems to be a rule deeply rooted in many people’s minds. Yet looking at translated texts we find that translators do all sorts of things with proper names: non-translation (en[1]. Ada > de., es., fr., it. Ada), non-translation that leads to a different pronunciation in the target language (en. Alice > de., fr. Alice [A’li:s], it. Alice [a’litche]), transcription or transliteration from non-Latin alphabets (es. Chaikovski vs. de. Tschaikowsky or Čaikowskij), morphological adaptation to the target language (en. Alice > es. Alicia), cultural adaptation (en. Alice > fi. Liisa), substitution (en. Ada > br. Marina, en. Bill > de. Egon) and so on. It is interesting to note, moreover, that translators do not always use the same techniques with all the proper names of a particular text they are translating.

Translations of fiction and of non-fiction seem to differ only in that there are no substitutions in the latter, unless we consider the “translation” es. Carlos I (of Spain) > de. Karl V. (of Germany) as a cultural substitution. All the other procedures are found not only in fiction, but also in non- fictional texts, where proper names refer to real-life historical persons: es. el rey Juan Carlos > de. König Juan Carlos, de. Johann Wolfgang von Goethe > es. Juan Wolfgango de Goethe, en. Prince Charles > de. Prinz Charles, es. el príncipe Carlos, en. Queen Elizabeth II. > de. Königin

25

I nomi propri nelle traduzioni per bambini
Alice in Wonderland come esempio significativo1

Autore
Christiane Nord
Università di scienze applicate di Magdeburg-Stendal, Magdeburg, Germania

1. Considerazioni preliminari

«I nomi propri non vanno mai tradotti» sembra una regola molto radicata nella mente di molte persone. Eppure osservando i testi tradotti possiamo notare che i traduttori, quando hanno a che fare con i nomi propri, trovano le soluzioni più svariate: non traduzione (en[12]. Ada > de., es., fr., it. Ada), non traduzione che comporta una pronuncia diversa nella lingua ricevente (en. Alice > de., fr. Alice [a’li:s], it. Alice [a’litche]), trascrizioni o traslitterazioni da alfabeti non latini (es. Chaikovski versus de. Tschaikowsky o Čaikovskij 2 ), adattamenti alla morfologia della lingua ricevente (en. Alice > es. Alicia), adattamenti culturali (en. Alice > fi. Liisa), sostituzioni (en. Ada > br. Marina, en. Bill > de. Egon) e così via. Inoltre è interessante notare che non sempre un traduttore usa la stessa tecnica con tutti i nomi propri di un determinato testo.

La traduzione di testi finzionali sembra differire da quella di testi non finzionali solo per il fatto che la seconda non ammette sostituzioni, a meno che non si consideri la traduzione [es. Carlos I (di Spagna) > de. Karl V. (di Germania)] una sostituzione culturale. Tutti gli altri procedimenti si trovano non solo nei testi finzionali ma anche in quelli non finzionali, in cui i nomi propri si riferiscono a personaggi storici della vita reale: es. el rey Juan Carlos > de. König Juan Carlos, de. Johann Wolfgang von Goethe > es. Juan Wolfgango de Goethe, en. Prince Charles > de. Prinz Charles, es. el príncipe Carlos, en. Queen Elizabeth II. > de. Königin Elisabeth II., es. la reina

1 NORD, CHRISTIANE, Proper Names in Translations for Children – Alice in Wonderland as a Case in Point, Les Presses de l’Université de Montréal, 2003, volume 48, n. 1/2, mag.
2 Probabilmente a causa di un’interferenza della lingua tedesca, Nord scrive quest’ultima versione del nome con la W invece che con la V [N.d.T.].

26

Elisabeth II., es. la reina Isabel II, but, illogically, es. Isabel I la Católica > de. Isabella I., die Katholische, and not *Elisabeth I., die Katholische. It is obvious that proper names are indeed translated, if we regard “translation” as a process of linguistic and/or cultural transfer.

In fictional texts, like novels or children’s books, proper names do not refer to real, existing people in a factual way. They may, however, refer to real persons indirectly, like in Alice in Wonderland. But still, the Alice of the book is a fictional character, and no reader would expect her to be a true reproduction of the “real” Alice Liddell for whom Lewis Carroll wrote the story.

To find a name for their fictional characters, authors can draw on the whole repertoire of names existing in their culture, and they can invent new, fantastic, absurd or descriptive names for the characters they create. We may safely assume, therefore, that there is no name in fiction without some kind of auctorial intention behind it, although, of course, this intention may be more obvious to the readers in one case than in another.
5In the following paper, I would like to analyse the forms and functions of proper names in Lewis Carroll’s Alice in Wonderland and the way they have been translated into German, Spanish, French, Italian, and Brazilian Portuguese.

2. Forms and Functions of Proper Names

Unlike generic nouns, proper names are mono-referential, but they are by no means mono-functional. Their main function is to identify an individual referent. It has often been claimed that proper names lack descriptive meaning:

An ordinary personal name is, roughly, a word, used referringly, of which the use is not dictated by any descriptive meaning the word may have.

Strawson 1971: 23

27

Isabel II, ma, inspiegabilmente, es. Isabel I la Católica > de. Isabella I., die Katholische, e non *Elisabeth I., die Katholische. Se guardiamo alla traduzione come a un processo di trasferimento linguistico e culturale, risulta evidente che i nomi propri vengono tradotti eccome.

Nei testi finzionali, come romanzi o libri per bambini, i nomi propri non si riferiscono esplicitamente a personaggi realmente esistenti. Capita invece che si riferiscano a persone reali in modo indiretto, come in Alice in Wonderland. Nondimeno, la Alice del libro è un personaggio di fantasia, e nessun lettore potrebbe immaginare che sia in effetti una riproduzione della “vera” Alice Liddell, per la quale Lewis Carroll scrisse la storia.

Per dare un nome ai personaggi di fantasia, gli autori possono attingere a tutto un repertorio di nomi esistenti nella loro cultura, e inventare nomi nuovi, bizzarri, assurdi oppure descrittivi per i personaggi creati. Si può perciò tranquillamente supporre che non esista nome finzionale che non nasconda una qualche intenzione da parte dell’autore, sebbene, naturalmente, quest’intenzione appaia più evidente ai lettori in alcuni casi piuttosto che in altri.

In questo articolo analizzerò le diverse forme e funzioni dei nomi propri in Alice in Wonderland di Lewis Carroll, e il modo in cui sono stati tradotti in tedesco, spagnolo, francese, italiano e portoghese brasiliano.

2. Forme e funzioni dei nomi propri

A differenza dei nomi comuni, i nomi propri sono monoreferenziali, ma non sono affatto monofunzionali. La loro funzione principale è quella di identificare un singolo referente. È un’idea diffusa che i nomi propri manchino di significato descrittivo:

Di solito un nome di persona è semplicemente una parola usata come riferimento, il cui uso non è dettato da alcun significato descrittivo che la parola possa avere (Strawson 1971).

28

In the real world, proper names may be non-descriptive, but they are obviously not non-informative: If we are familiar with the culture in question, a proper name can tell us whether the referent is a female or male person (Alice – Bill), maybe even about their age (some people name their new-born child after a pop star or a character of a film that happens to be en vogue) or their geographical origin within the same language community (e.g., surnames like McPherson or O’Connor, a first name like Pat) or from another country, a pet (there are “typical” names for dogs, cats, horses, canaries, etc., like Pussy or Fury), a place (Mount Everest), etc. Such indicators may lead us astray in real life, but they can be assumed to be intentional in fiction.

Titles and forms of address can also be problematic in translation. The protagonist of the Spanish children’s book El muñeco de don Bepo, by Carmen Vázquez-Vigo, is don Bepo, a circus ventriloquist. In the German translation, he is called Herr Beppo. The Spanish honorific title don is always combined with a first name, whereas Herr can only be used with a surname. Since German circus performers “typically” have Italian stage names, it would have been more adequate to translate don Bepo by Don Beppo.

In certain cases (like in Mount Everest or Lake Placid), a generic noun indicating the referent forms part of the name. Unless it is an internationalism (like King’s College – cf. es. Colegio – fr. Collège – de. Kolleg), the reference may be incomprehensible to someone who does not know the language, which then causes a translation problem.

Apart from names typically denoting a particular kind of referent, like pet names, authors sometimes use names which explicitly describe the referent in question (“descriptive names”). If, in a Spanish novel, a protagonist is called Don Modesto or Doña Perfecta, the readers will

29

Nel mondo reale i nomi propri saranno anche non-descrittivi, ma è evidente che non sono non-informativi: se abbiamo familiarità con la cultura in questione, un nome proprio può dirci se il referente è maschio o femmina («Alice» – «Bill»), magari può dirci qualcosa anche sulla sua età (alcune persone scelgono il nome per il proprio figlio ispirandosi a una pop star o al personaggio di un film en vogue al momento) o sulle sue origni geografiche all’interno di una stessa comunità linguistica (per esempio cognomi come «McPherson» e «O’Connor» o nomi come «Pat»); se proviene da un altro paese; se è un animale (ci sono nomi “tipici” per cani, gatti, cavalli, canarini, ecc., come ad esempio «Pussy» o «Fury»), un luogo («Monte Bianco3»), ecc. Tali indicatori possono fuorviarci nella vita reale, ma nelle opere finzionali si può presumere che siano intenzionali.

Anche i titoli e gli appellativi possono creare problemi di traduzione. Il protagonista del libro per bambini spagnolo «El muñeco de don Bepo» di Carmen Vázquez-Vigo è «don Bepo», un ventriloquo del circo. Nella traduzione tedesca viene chiamato «Herr Beppo». Il titolo onorifico spagnolo «don» si accompagna sempre al nome, mentre «Herr» si può usare solo con il cognome. Poiché chi lavora in uno spettacolo circense utilizza “tipicamente” un nome d’arte italiano, sarebbe stato più adeguato tradurre «don Bepo» con «Don Beppo».

In certi casi (come «Monte Bianco4» o «Lake Placid») il nome proprio comprende un nome comune con un riferimento preciso. A meno che non si tratti di un internazionalismo (come King’s College – cfr. es. Colegio – fr. Collège – de. Kolleg), il riferimento può risultare incomprensibile a qualcuno che non conosca la lingua, il che causa perciò un problema traduttivo.

Fatta eccezione per quei nomi che denotano tipicamente un particolare tipo di referente, come i nomi di animali, gli autori a volte utilizzano nomi che descrivono esplicitamente il referente in questione («nomi descrittivi»). Se in un romanzo spagnolo un protagonista si chiama «Don Modesto» o «Doña Perfecta», il lettore intenderà il nome come una

3 Per rendere l’esempio più efficace ho sostituito «Monte Everest» con «Monte Bianco» (in italiano il Monte Everest è spesso chiamato semplicemente «Everest», omettendo quindi la parte del nome che ci interessa in questo caso) [N.d.T.].
4 Vedi nota n.2

30

understand the name as a description of the character. In the case of the White Rabbit or the blue Caterpillar in Alice in Wonderland, the author proceeds in the opposite direction, using capital letters in order to turn the descriptive denomination into a proper name, which is bound to cause a translation problem as soon as W. Rabbit appears on the nameplate at the white rabbit’s house (see below).

In some cultures, there is the convention that fictional proper names can serve as “culture markers,” i.e., they implicitly indicate to which culture the character belongs. In German literature, for example, if a woman called Joséphine appears in a story with a plot set in Germany, she will automatically be assumed to be French. On the contrary, in Spanish literature, proper names are more generally adapted to Spanish morphology. A doctor named don Federico appearing in a Spanish setting (in the novel La Gaviota by Fernán Caballero) could be Spanish or German or French, and if the author wants him to be recognized as a German, she has to make this explicit in the context. This is a literary convention that might have to be taken into account in the analysis and translation of personal proper names in fictional texts.

Geographical names often have specific forms in other languages (exonyms), which may differ not only in pronunciation (e.g., de. Berlin > en. Berlin) or spelling (en. Pennsylvania > es. Pensilvania), but also with respect to morphology (es. Andalucía > de. Andalusien, en. Andalusia; es. La Habana > en., de. Havanna) or seem to be different lexical entities, as in de. München > es., en. Munich, it. Monaco [di Baviera]. Some are literal translations, like de. Niedersachsen > en. Lower Saxony, es. Baja Sajonia, and others go back to ancient Latin forms, like de. Aachen > es. Aquisgrán, de. Köln > en. Cologne, es. Colonia.

31

descrizione del personaggio. Nel caso del Coniglio Bianco5 o del Millepiedi blu in Alice in Wonderland, l’autore procede nella direzione opposta, utilizzando la lettera maiuscola per trasformare la definizione descrittiva in un nome proprio. Questo procedimento è destinato a causare problemi di traduzione quando sulla targhetta della porta di casa del Coniglio Bianco si legge W. Rabbit (vedi più avanti).

In alcune culture, per convenzione, i nomi finzionali possono servire come indicatori culturali, ovvero indicare implicitamente a quale cultura appartiene il personaggio. Nella letteratura tedesca, per esempio, se una donna di nome «Joséphine» compare in una storia ambientata in Germania, automaticamente si supporrà che sia francese. Nella letteratura spagnola, invece, i nomi propri vengono generalmente adattati alla morfologia spagnola. Un dottore di nome «don Federico» che compare in un’ambientazione spagnola (nel romanzo La Gaviota di Fernán Caballero) potrebbe essere spagnolo, tedesco o francese, e se l’autrice vuole far capire che è tedesco deve esplicitarlo nel contesto. Questa è una convenzione letteraria di cui a volte bisogna tenere conto nell’analisi e nella traduzione dei nomi propri di persona nei testi finzionali.

I nomi geografici hanno spesso forme specifiche nelle altre lingue (esonimi) che possono distinguersi non solo per la pronuncia (per esempio de. Berlin > en. Berlin) o per l’ortografia (en. Pennsylvania > es. Pensilvania), ma anche in relazione alla morfologia (es. Andalucía > de. Andalusien, en. Andalusia; es. La Habana > en., de. Havanna); oppure può sembrare che abbiano componenti lessicali differenti, per esempio de. München > es., en. Munich, it. Monaco [di Baviera]. Alcune sono traduzioni letterali, come de. Niedersachsen > en. Lower Saxony, es. Baja Sajonia; altre si rifanno alle antiche forme latine, come de. Aachen > es. Aquisgrán, de. Köln > en. Cologne, es. Colonia.

5 Per la traduzione italiana di tutti gli esempi presi da Alice in Wonderland ho fatto riferimento a Carroll 1990 [N.d.T].

32

3. Some Translation Problems Connected with Proper Names

In spite of the “translation rule” quoted above, there are no rules for the translation of proper names. In non-fictional texts, it seems to be a convention to use the target-culture exonym of a source-culture name, if there is one, but if a translator prefers to use the source-culture form, nobody will mind as long as it is clear what place the name refers to. Perhaps the audience will think that the translator is showing off her knowledge too much. Wherever the function of the proper name is limited to identifying an individual referent, the main criterion for translation will be to make this identifying function work for the target audience.

In fiction, things are not quite as simple as that. We have assumed that in fictional texts there is no name that has no informative function at all, however subtle it may be. If this information is explicit, as in a descriptive name, it can be translated – although a translation may interfere with the function of culture marker. If the information is implicit, however, or if the marker function has priority over the informative function of the proper name, this aspect will be lost in the translation, unless the translator decides to compensate for the loss by providing the information in the context.

Of course, there are proper names that exist in the same form both in the source and the target culture. But this causes other problems: The character changes “nationality” just because the name is pronounced in a different way. An English Richard thus turns into a German Richard, and a French Robert into an English Robert – which may interfere with the homogeneity of the setting if some names are “bicultural” and others are not. For example: In a little comic strip I translated with my students in the Spanish-German translation class, the two characters, brothers, are called Miguelito and Hugo (cf. Nord 2001: 58ff.). If we leave the names as they are, Miguelito will be clearly recognizable as a Spanish boy in the translation,

33

3. Alcuni problemi traduttivi legati ai nomi propri

Malgrado la “regola traduttiva” sopra citata, non esistono regole per la traduzione dei nomi propri. Nei testi non finzionali sembra valere la convenzione di utilizzare per il nome della cultura emittente il corrispondente esonimo della cultura ricevente, se ne esiste uno, ma se una traduttrice preferisce utilizzare la forma della cultura emittente ciò non darà fastidio a nessuno, purché sia chiaro qual è il luogo a cui il nome si riferisce. Magari il pubblico penserà che la traduttrice stia facendo sfoggio del suo sapere. Nei casi in cui la funzione del nome proprio è solo quella di identificare un singolo referente, il criterio principale di traduzione sarà quello di far sì che tale funzione identificativa si realizzi per il pubblico della cultura ricevente.

Nelle opere finzionali le cose non sono così semplici. Ci siamo basati sul presupposto che nei testi finzionali non esiste nome che non abbia una qualche funzione informativa, per quanto possa essere sottile. Se questa informazione è esplicita, come in un nome descrittivo, può essere tradotta, benché la traduzione possa interferire nella funzione di indicatore culturale. Se l’informazione è implicita o se la funzione di indicatore del nome proprio ha la priorità su quella informativa, però, questo aspetto andrà perso nella traduzione, a meno che la traduttrice non decida di compensare il residuo fornendo l’informazione nel contesto.

Naturalmente ci sono dei nomi propri che esistono nella stessa forma sia nella cultura emittente che in quella ricevente. Ma questo crea altri problemi: il personaggio cambia “nazionalità” solo perché il nome viene pronunciato in modo diverso. Così un Richard inglese diventa un Richard tedesco, e un Robert francese diventa un Robert inglese, il che può interferire nell’omogeneità dell’ambientazione se alcuni nomi sono “biculturali” e altri no. Un esempio: in un breve fumetto che ho tradotto con i miei studenti del corso di traduzione dallo spagnolo al tedesco, i protagonisti, due fratelli, si chiamano Miguelito e Hugo (cfr. Nord 2001: 58segg.). Se lasciamo i nomi come sono, nella traduzione Miguelito sarà chiaramente riconoscibile come un ragazzo spagnolo, mentre Hugo potrebbe

34

whereas Hugo may be identified as a German. In order to avoid the impression that this is a bicultural setting, the translator would have to either substitute Miguelito by a clearly German name or replace Hugo by a typical Spanish name, depending on whether the text is intended to appeal to the audience as “exotic” or “familiar.”

This is a very common problem in the translation of children’s books, especially if there is a pedagogical message underlying the plot. A story set in the receiver’s own cultural world allows for identification, whereas a story set in a strange, possibly exotic world may induce the reader to stay “at a distance.” This can be clearly shown by an analysis of the Brazilian translation of Alice in Wonderland, where all the culture markers, including the proper names, are consistently adapted to the target culture (cf. Nord 1994).

Different name conventions in literature can also lead to translation problems. If, as stated above, names are adapted to the Spanish language and culture in Spanish literature and, on the contrary, serve as culture- markers in German literature, the translator should take this into account. In a Spanish play set in France (Max Aub, El puerto), the characters are called Claudio, señora Bernard, Josefina, Andrés, Marcela, Julio and Matilde (all of them French) and Estanislao Garin Bolchenko (Polish) in the original. In the German translation (Max Aub, Der Hafen), all the French characters have French names (Claude, Madame Bernard, Joséphine, André, Marcelle, Jules, Mathilde) and the Pole is called Stanislas Garin Bolschenko (in German transcription).

In the following section, we will apply these considerations to the translation of proper names in Alice in Wonderland. We will first look at the forms and functions of the proper names appearing in the book and then discuss the translation procedures found in the various translations which constitute our corpus and their possible effects for the reception of the book. Thus, our approach is both functional and descriptive.

35

essere identificato come tedesco. Per evitare l’impressione che si tratti di un’ambientazione biculturale, la traduttrice dovrebbe sostituire Miguelito con un nome chiaramente tedesco oppure Hugo con un nome tipicamente spagnolo, a seconda che il testo aspiri a indirizzarsi al pubblico come “esotico” o “familiare”.

Questo è un problema molto diffuso nella traduzione di libri per bambini, specialmente se la trama nasconde un messaggio pedagogico. Una storia ambientata nel mondo culturale del destinatario permette l’identificazione, mentre una storia ambientata in un mondo strano, magari esotico, può indurre il lettore a “mantenere le distanze”. Ciò può essere chiaramente illustrato analizzando la traduzione brasiliana di Alice in Wonderland, in cui tutti gli indicatori culturali, compresi i nomi propri, sono costantemente adattati alla cultura ricevente (cfr. Nord 1994).

Anche convenzioni letterarie diverse riguardo ai nomi possono causare problemi traduttivi. Se, come già detto, nella letteratura spagnola i nomi vengono adattati alla lingua e alla cultura spagnola, mentre in quella tedesca servono come indicatori culturali, la traduttrice dovrebbe tenerne conto. In un lavoro teatrale spagnolo ambientato in Francia (Max Aub, «El puerto»), i personaggi nell’originale si chiamano Claudio, señora Bernard, Josefina, Andrés, Marcela, Julio e Matilde (tutti francesi), ed Estanislao Garin Bolchenko (polacco). Nella traduzione tedesca (Max Aub, «Der Hafen»), tutti i personaggi francesi hanno nomi francesi (Claude, Madame Bernard, Joséphine, André, Marcelle, Jules, Mathilde), e il polacco si chiama Stanislas Garin Bolschenko (secondo la trascrizione tedesca).

Nei seguenti paragrafi applicheremo queste considerazioni alla traduzione dei nomi propri di Alice in Wonderland. Per prima cosa analizzeremo le forme e le funzioni dei nomi propri che compaiono nel libro, poi discuteremo le procedure traduttive che si riscontrano nelle diverse traduzioni del nostro corpus e i possibili effetti che queste possono avere sulla ricezione del libro. Il nostro approccio, dunque, è sia funzionale che descrittivo.

36

4. The translation of proper names in Alice in Wonderland

As is well known, Lewis Carroll, alias Charles Dodgson, wrote Alice in Wonderland in 1862 for his little friend Alice Liddell, 10, and her two sisters Lorina Charlotte, 13, and Edith Liddell, 8 years old. Certain characters or figures of the story are explicitly or implicitly taken from the girls’ real situation, and we may assume that this must have amused them very much. Others are pure fiction.

In Alice in Wonderland, we find the following forms of proper names:

  1. names explicitly referring to the real world of author and original addressees,
  2. names implicitly alluding to the real world of author and original addressees by means of wordplay,
  3. names referring to fictitious characters.

4.1. Proper names referring to the real world of author and original addressees

The “real” world is England in the second half of the 19th century, including historical facts presupposed to be known by the first addressees of the story, namely Alice Liddell and her sisters. Apart from the first addressees A1, as soon as it is published, the book is directed at a broader audience A2, namely children and/or adults, probably sharing the same real-world knowledge. The names explicitly referring to the real world of author and A1 can be assumed to fulfil their identifying function also for A2.

In the story or in the poems quoted in the story, we find several names of persons belonging to the “real world” of the author and the audience A1 (Alice, her nurse Mary Ann, her school mates Ada and Mabel), of places (New Zealand, Australia, London, Rome, Paris, the Nile), and historical personalities (Shakespeare, Edwin, the Earl of Mercia, Morcar, the Earl of Northumbria, Stigand, the Archbishop of Canterbury, Edgar Atheling,

37

4. La traduzione dei nomi propri in Alice in Wonderland

Com’è noto, Lewis Carrol, alias Charles Dodgson, scrisse Alice in Wonderland nel 1862 per la sua piccola amica Alice Liddell, di 10 anni, e le sue due sorelle Lorina Charlotte, di 13 anni, ed Edith Liddel, di 8. Alcuni personaggi della storia sono ripresi esplicitamente o implicitamente dalla vita reale delle tre bambine, e possiamo supporre che ciò debba averle divertite molto. Altri invece sono di pura fantasia.

In Alice in Wonderland troviamo le seguenti categorie di nomi propri:

  1. nomi riferiti esplicitamente al mondo reale dell’autore e dei destinatari originali
  2. nomi che alludono implicitamente al mondo reale dell’autore e dei destinatari originali per mezzo di giochi di parole
  3. nomi riferiti a personaggi inventati

4.1. Nomi propri riferiti al mondo reale dell’autore e dei destinatari originali

Il mondo “reale” è l’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento, e comprende eventi storici che si presuppone fossero noti ai primi destinatari della storia, ovvero Alice Liddell e le sue sorelle. Oltre ai primi destinatari, che qui chiameremo D1, i quali avrebbero letto il libro appena pubblicato, il racconto è indirizzato a un più ampio pubblico (D2), ossia bambini e/o adulti che probabilmente condividono la stessa conoscenza del mondo reale. Si può supporre che i nomi riferiti esplicitamente al mondo reale dell’autore e dei D1 adempiano alla propria funzione di identificazione anche nel caso dei D2.

Nella storia e nelle poesie in essa citate troviamo diversi nomi di persone appartenenti al “mondo reale” dell’autore e del pubblico D1 (Alice, la sua bambinaia Mary Ann, le sue compagne di scuola Ada e Mabel), nomi di luoghi (la Nuova Zelanda, l’Australia, Londra, Roma, Parigi, il Nilo), e di personaggi storici (Shakespeare, Edwin e Morcar, conti di Mercia e di Northumbria, Stigand, Arcivescovo di Canterbury, Edgar Atheling, Guglielmo

38

William the Conqueror). These names are primarily identifying, and this function relies on the receiver’s previous knowledge. For the addressees A1, it is guaranteed, since the historical allusions are indirect quotations or travesties of schoolbook texts. This is probably true also of the reference to “Shakespeare in the pictures of him,” which is used to illustrate how the Dodo is sitting “for a long time with one finger pressed upon its forehead.” The name of the game mentioned in the third chapter, the Caucus race, too, is probably formed using a buzzword of the time – it sounds somehow funny, but it is probably incomprehensible to children.

For the audience A2, the geographical and historical references will also be clear. However, Alice, Ada and Mabel and Mary Ann will be fictitious characters for them. This would not cause a comprehension problem, since the characters are introduced in contexts where their identity is made clear. Nevertheless, the appellative function of being amused when the receivers read about themselves and their own situation, which characterizes the reception of A1, does not work for A2.

For modern readers of the translations, whom we might call audience A3, the situation is more or less the same as for A2, as far as the references to living persons and to places is concerned. They may not know the pictures of Shakespeare, but since the position is described explicitly, there will be no comprehension problem, but probably no appellative recognition of something known either.

The examples show that different techniques are used to render the names of the persons alive at the time of text production. It may not be

39

il Conquistatore). Questi nomi sono essenzialmente identificativi, e tale funzione presuppone che il destinatario abbia delle conoscenze pregresse. Per i destinatari D1 ciò è indubbio, dato che le allusioni storiche sono citazioni indirette o parodie di testi provenienti da libri scolastici. Lo stesso vale probabilmente anche per il riferimento alla «posizione in cui si vede di solito Shakespeare nei ritratti», usato per illustrare come il Dronte sta seduto «per un tempo interminabile con un dito puntato sulla fronte». Anche il nome del gioco citato nel terzo capitolo, la Corsa Caucus, deriva probabilmente da un’espressione in voga a quel tempo; sembra piuttosto buffo, ma è probabilmente incomprensibile per i bambini.

Anche per il pubblico D2 i riferimenti geografici e storici sono chiari. Alice, Ada e Mabel e Mary Ann, però, sono per loro personaggi di fantasia. Ciò non crea problemi di comprensione perché ogni personaggio viene presentato in un contesto in cui appare chiara la sua identità. Tuttavia la funzione conativa grazie alla quale i destinatari trovano divertente leggere di sé stessi e della propria situazione, che caratterizza la ricezione da parte dei D1, non funziona per i D2.

Per i moderni lettori delle traduzioni, che possiamo chiamare pubblico D3, la situazione è più o meno la stessa dei D2 per quanto riguarda i riferimenti a persone esistenti e a luoghi. Possono non conoscere i ritratti di Shakespeare ma, dal momento che la posizione è descritta esplicitamente, non ci saranno problemi di comprensione, ma probabilmente nemmeno il riconoscimento conativo di qualcosa di già noto.

Gli esempi mostrano che vengono utilizzate tecniche differenti per tradurre i nomi delle persone che erano vive quando il testo è stato

40

surprising that the name of the protagonist, Alice, is left as it is by almost all translators. The Spanish translator follows the convention of adapting the form of the name to Spanish morphology. German, French, Italian and Brazilian readers will pronounce the name according to their respective phonologies. The Brazilian translator consistently adapted all the names, so did Enzensberger (DE-ENZ), with the exception of Ada and Mabel. Ada is not a German name, nor is Mabel, which sounds rather weird in German pronunciation. In an adaptation, we might also expect “typical” names for pets (like Mimi in BR, which would be Mieze for a German cat) or housemaids.

As we have mentioned before, for A3, like for A2, the characters are fictitious anyway. Therefore, an adaptation of the names allows for easier pronunciation and does not interfere with the identifying function. However, target-culture proper names mark the setting as belonging to the target addressee’s own real world, and the translator should make sure to keep up this strategy throughout the story, in order not to produce culturally incoherent scenes.

The Brazilian translator is very consistent in this respect and omits all references to historical figures. It was a ship-wreck, and not William the Conqueror that had brought the Mouse over, and the “dry story” about the unpronounceable Earls is turned into a “very dull old story,” which is not reproduced in detail. The German translator Teutsch (DE-TEU) is not quite as radical, but she composes a new schoolbook text with many dates and references to English history, using German exonyms for the names of persons. Enzensberger (DE-ENZ) uses a cultural substitution, referring to German historical figures. This is consistent with the general procedure he uses translating proper names, but it is not always in line with his translation of other cultural references, as I have tried to show in Nord 1994.

The names of the historical persons (apart from William the Conqueror, for whom the other languages have exonyms) are rather hard to pronounce for anybody who is not familiar with the English language. If the

41

prodotto. Non sorprende il fatto che il nome della protagonista, Alice, venga lasciato così com’è da quasi tutti i traduttori. Il traduttore spagnolo segue la convenzione di adattare la forma del nome alla morfologia della lingua spagnola. I lettori tedeschi, francesi, italiani e brasiliani pronunceranno il nome secondo le rispettive fonologie. La traduttrice brasiliana adatta regolarmente tutti i nomi, è così fa anche Enzensberger (DE-ENZ), a eccezione di Ada e Mabel. Ada non è un nome tedesco, e nemmeno Mabel, che risulta piuttosto bizzarro nella pronuncia tedesca. In un adattamento è lecito aspettarsi anche dei nomi “tipici” per gli animali domestici (come «Mimi» nella traduzione brasiliana, che sarebbe «Mieze» per un gatto tedesco [l’equivalente di «Micio» in italiano, N.d.T.]) o per le governanti.

Come abbiamo già detto, per i D3, così come per i D2, i personaggi sono comunque di fantasia. Perciò l’adattamento dei nomi ne facilita la pronuncia e non interferisce nella funzione identificativa. Tuttavia i nomi propri tipici della cultura ricevente fanno apparire l’ambientazione come appartenente al mondo reale proprio del destinatario, e il traduttore dovrebbe assicurarsi di mantenere tale strategia per tutta la storia, in modo da non produrre scene culturalmente incoerenti.

La traduttrice brasiliana è molto costante da questo punto di vista e omette tutti i riferimenti ai personaggi storici. È stato il relitto di una nave naufragata, e non Guglielmo il Conquistatore, a portare con sé il Topo, e la “storia seccante” sugli impronunciabili Conti diventa una «vecchia storia molto noiosa» che non viene riprodotta nei particolari. La traduttrice tedesca Teutsch (DE-TEU) non è così radicale, ma compone un nuovo testo scolastico con molte date e riferimenti alla storia inglese, utilizzando esonimi tedeschi per i nomi delle persone. Enzensberger (DE-ENZ) opera una sostituzione culturale, riferendosi a personaggi della storia tedesca. Ciò è conforme al metodo generale che egli utilizza nel tradurre i nomi propri, ma non è sempre in linea con la sua traduzione di altri riferimenti culturali, come ho cercato di dimostrare in Nord 1994.

I nomi dei personaggi storici (fatta eccezione per Guglielmo il Conquistatore, per cui le altre lingue dispongono di esonimi) sono piuttosto difficili da pronunciare per chiunque non abbia familiarità con la lingua

42

readers cannot be expected anyway to have heard these names before, it would not undermine the functionality of the translation to replace them by others, since they are mentioned in a paragraph where the Mouse’s recites “the driest thing she knows.” So the focus is on the “dryness” of the citation and not on the historical facts related in it. Yet the reader would probably expect the facts to be historically true or, at least, consistent. The substitution of Earl by es. duque or fr. seigneur is not necessary from the point of view of addressee orientation or cultural transfer.

As far as the geographical references are concerned, all translators use exonyms either phonologically or morphologically adapted to the target languages. The Brazilian translator has also adapted the reference to the Antipodes, thus avoiding pragmatic incoherence. This shows clearly that she intended to “transfer” the story to Brazil.

43

inglese. Dal momento che non si può dare per scontato che i lettori abbiano già sentito questi nomi, sostituirli con altri non ostacolerebbe la funzionalità della traduzione, dato che essi sono citati in un paragrafo in cui il Topo recita «la cosa più seccante che [conosce]». Perciò l’attenzione si concentra sulla “dryness”6 della citazione e non sui fatti storici in essa riportati. Tuttavia il lettore si aspetta probabilmente che tali fatti siano storicamente esatti o perlomeno coerenti. La sostituzione di «Earl» con lo spagnolo «duque» o il francese «seigneur» non è necessaria dal punto di vista del trasferimento culturale o dell’orientamento al destinatario.

Per quanto riguarda i riferimenti geografici, tutti i traduttori utilizzano esonimi adattati fonologicamente o morfologicamente alla lingua ricevente. La traduttrice brasiliana adatta anche il riferimento agli «antipodi», evitando così un’incoerenza pragmatica. Ciò dimostra chiaramente l’intenzione di “trasferire” la storia in Brasile.

6 Il gioco di parole si basa sul fatto che dry significa sia «asciutto» sia «noioso», perciò i personaggi pretendono di asciugarsi ascoltando un racconto noioso [N.d.T.].

44

The reference to Shakespeare is adapted by Enzensberger (DE-ENZ) and generalized by Bublitz (DE-BUB) and Remané (DE-REM). The problem with adaptation here is that the pictures of Goethe a reader may recall do not show him in this particular posture. Therefore, the appellative function (i.e., to make the receiver remember something known) works neither with Goethe, nor with famous poets (DE-BUB) or grand philosophers (DE-REM). A translation like grand philosophers could evoke Rodin’s Penseur, but then the translator would have to substitute pictures by images. This is why Teutsch (DE-TEU) and the Brazilian translator omit the reference altogether. Comparisons are usually intended to clarify the verbal description and not to mystify it. Some researchers assume that the comparison was a private joke between the author and his first addressees (the Liddell sisters), because it is difficult to find a picture showing Shakespeare precisely in this position. Nevertheless, a translator may want to make the target text “work” for its addressees.

In the translations of Caucus race, some translators try more or less faithfully to reproduce the meaning of the word (DE-BUB, ES, IT), others

45

Il riferimento a Shakespeare viene adattato da Enzensberger (DE-ENZ) e generalizzato da Bublitz (DE-BUB) e Remané (DE-REM). Qui il problema dell’adattamento è che, nei ritratti di Goethe che un lettore potrebbe ricordare, il poeta non appare in questa particolare postura. Perciò la funzione conativa (ovvero quella che ricorda al ricevente qualcosa a lui noto) non funziona né con «Goethe», né con i «celebri poeti» (DE-BUB) o i «grandi filosofi» (DE-REM). Una traduzione come «grandi filosofi» può far venire in mente il Penseur di Rodin, ma in questo caso il traduttore dovrebbe sostituire «ritratti» con «immagini». Ecco perché Teutsch (DE-TEU) e la traduttrice brasiliana omettono del tutto il riferimento. Le similitudini hanno in genere lo scopo di chiarire la descrizione verbale, e non di creare confusione. Alcuni studiosi ipotizzano che la similitudine fosse uno scherzo personale tra l’autore e i suoi primi destinatari (le sorelle Liddell), perché è difficile trovare un ritratto in cui Shakespeare appaia precisamente in questa posizione. Ciononostante è possibile che un traduttore desideri che il metatesto “funzioni” per i nuovi destinatari.

Nelle traduzioni della corsa Caucus, alcuni traduttori cercano di riprodurre più o meno fedelmente il significato della parola (DE-BUB, ES, IT),

46

use a political term probably incomprehensible to children (DE-ENZ, DE- REM), the Brazilian translator plainly describes the “crazy race” without giving it a proper name, and Teutsch (DE-TEU) gives a pseudo-description with nice, incomprehensible latinisms. The French translator’s decision simply to use the English word seems to work just as well, since the word sounds beautiful in French pronunciation and means nothing. The example shows the importance of translating functions instead of words.

4.2. Names implicitly alluding to the real world of author and addressees by means of wordplay

An important element of the real world of author and addressees is the English language. Apart from certain proper names in Alice in Wonderland that allude to real persons in an indirect way, we find names alluding to idiomatic expressions. In both cases, the allusion will have produced a particularly appellative function for the audience A1 when detecting the hidden reference. The implicit allusions to real persons is bound to be lost for both A2 and A3, whereas the indirect reference to idioms and set phrases will probably work at least for A2. For A3, they can only fulfil an analogous function in a target-oriented translation.

The Spanish translator opts for a meta-text and adds a long list of annotations to his translation. He informs the reader that the Dodo, apart from its reference to the idiomatic expression “as dead as a Dodo,” is an allusion to Lewis Carroll’s slightly stuttering way of pronouncing his own name: Do-Do-Dodgson. The Duck refers to his friend, the reverend Duckworth, and the Lory and the Eaglet to Alice’s sisters Lorina Charlotte and Edith, respectively. The three little sisters living in the treacle well, Elsie, Lacie and Tillie, also represent the Liddell sisters: Elsie stands for Lorina

47

altri utilizzano un termine politico probabilmente incomprensibile ai bambini (DE-ENZ, DE-REM), la traduttrice brasiliana descrive chiaramente la «corsa pazza» senza attribuirle un nome proprio, e Teutsch (DE-TEU) fa una pseudo-descrizione con raffinati e incomprensibili latinismi. La decisione del traduttore francese di usare semplicemente la parola inglese sembra funzionare altrettanto bene, poiché la parola pronunciata in francese suona benissimo e non significa niente. L’esempio rivela l’importanza di tradurre funzioni anziché parole.

4.2. Nomi che alludono implicitamente al mondo reale dell’autore e dei destinatari per mezzo di giochi di parole

Un importante elemento del mondo reale dell’autore e dei destinatari è la lingua inglese. Oltre a determinati nomi propri che alludono a persone reali in modo indiretto, in Alice in Wonderland troviamo nomi che alludono a espressioni idiomatiche. In entrambi i casi si presume che le allusioni svolgessero una particolare funzione conativa per i lettori D1 nel momento in cui questi scoprivano il riferimento nascosto. Le allusioni implicite a persone reali sono destinate ad andare perse sia per i D2 sia per i D3, mentre i riferimenti indiretti a espressioni idiomatiche e frasi fatte dovrebbero funzionare almeno per i D2. Per i D3 essi possono adempiere a una funzione analoga solamente nell’ambito di una traduzione orientata al destinatario.

Il traduttore spagnolo opta per un metatesto, aggiungendo alla traduzione una lunga lista di annotazioni. Egli informa il lettore che il Dronte (Dodo), oltre a far riferimento all’espressione idiomatica «as dead as a Dodo7», è un’allusione al modo in cui Lewis Carroll pronunciava il proprio nome, balbettando leggermente: «Do-Do-Dodgson». L’anatra (Duck) fa riferimento al reverendo Duckworth, amico di Carroll, mentre la Cocorita (Lory) e l’Aquilotto (Eaglet) ricordano rispettivamente Lorina Charlotte ed Edith, sorelle di Alice. Anche le tre «sorelline» che vivono nel pozzo di melassa, Elsie, Lacie e Tillie, rappresentano le sorelle Liddell: Elsie sta per

7 «Morto e sepolto» [N.d.T.].

48

Charlotte (“L.C.”!), Tillie for Edith Mathilda, and Lacie is an anagram of Alice. Thus, independently of whether the translator adds the annotations, these names turn into purely identifying or descriptive names for the audiences A2 and A3. The Duck, the Lory, the Eaglet, the Gryphon and the Dodo are represented in the illustrations by Tenniel, so the translators are bound to establish coherence between verbal and nonverbal text. The Duck and the Gryphon remain what they are in all translations of the corpus. The Lory is substituted by a Brachvogel, a kind of snipe, by Enzensberger (DE- ENZ). This does not seem very plausible since German readers can be more easily expected to know a Lory than a Brachvogel, which, by the way, cannot be detected in the illustration reproduced in the Enzensberger edition. Enzensberger is the only one to replace the Eaglet by a Weih, a fantasy creature, whose name he needs for an adapted wordplay in the

context.

The Dodo is an interesting case since it is known as an extinct bird in the target cultures too. Dronte (DE-BUB) is another name for the same bird, and its encyclopaedic description corresponds to the creative translation given by Teutsch (DE-TEU): a gigantic bird like a mixture of pigeon and turkey. The Brazilian translator adapts to papagaio, a word which in Brazilian Portuguese is less frequent than arara, her translation for the Lory. Although it is not clear why Enzensberger and Remané replaced the Dodo by a Marabu (DE-ENZ) or a Pelikan (DE-REM), the substitution does not

49

Lorina Charlotte («L.C.»8!), Tillie sta per Edith Mathilda, e Lacie è un anagramma di Alice.

Di conseguenza, a prescindere dal fatto che il traduttore aggiunga le annotazioni o meno, questi nomi diventano nomi puramente identificativi o descrittivi per il pubblico D2 e D3. L’Anatra, la Cocorita, l’Aquilotto, il Grifone e il Dronte sono raffigurati nelle illustrazioni di Tenniel, perciò i traduttori sono costretti a mantenere una certa coerenza fra il testo verbale e quello non verbale. L’Anatra e il Grifone rimangono un’anatra e un grifone in tutte le traduzioni del corpus. Enzensberger (DE-ENZ) sostituisce la Cocorita con un Brachvogel, una specie di beccaccino. Non sembra una soluzione molto plausibile, dal momento che è più facile che i lettori tedeschi conoscano la cocorita piuttosto che il beccaccino, che, tra l’altro, non è quello che si vede nelle illustrazioni riportate nell’edizione di Enzensberger. Enzensberger è l’unico a sostituire l’Aquilotto con una creatura di fantasia da lui chiamata Weih, un nome che gli serve nel contesto per l’adattamento di un gioco di parole.

L’animale che nell’originale è chiamato Dodo costituisce un caso interessante in quanto è conosciuto come uccello estinto anche nelle culture riceventi. Un altro nome per lo stesso uccello è Dronte (DE-BUB), e la sua descrizione enciclopedica corrisponde alla traduzione creativa fornita da Teutsch (DE-TEU): un uccello gigante che sembra un incrocio tra un piccione e un tacchino. La traduttrice brasiliana lo adatta utilizzando la parola papagaio, che in portoghese brasiliano è molto meno usata rispetto ad arara, la sua traduzione di Lory. Sebbene non sia chiaro il motivo per cui Enzensberger e Remané abbiano sostituito il Dronte rispettivamente con un Marabù (DE-ENZ) e un Pellicano (DE-REM), la sostituzione non causa

8 La pronuncia delle iniziali «L.C.» in inglese risulta analoga a quella del nome «Elsie» [N.d.T.].

50

cause any inconveniences either. In the Remané edition, the illustration indeed shows a Pelican.

Like the Dodo, the Hatter and the March Hare allude to idiomatic expressions “as mad as a Hatter” and “as mad as a March Hare,” which have no direct equivalents in the other languages. Remané (DE-REM) tries to preserve the connotation by translating the March Hare by Schnapphase, explaining the name in the context: because he was übergeschnappt (“mad”). The explanation is not really convincing. According to German morphology rules, a Schnapphase is understood as a hare that snatches something away. Whereas the idea of hares which are mad (for a mate) in March may be evoked in some readers, the idea of a hatter being particularly mad will probably not come to the mind of the audiences. But since the Hatter is depicted as a rather weird figure both in the context and in the illustrations, this may not be a comprehension problem.

The Cheshire Cat is an allusion to a particular brand of Cheshire cheese which had a picture of a grinning cat on the package and seems to be the origin of the idiomatic expression “to grin like a Cheshire Cat.” This connotation does not work in the other cultures, and a substitution (e.g., by a cow in French, cf. la vache qui rit, or a honey-cake horse in German, cf. grinsen wie ein Honigkuchenpferd) would be out of place because of the illustrations which show a grinning cat. Therefore, the allusions to some

51

inconvenienti in nessuno dei due casi. Anzi, nell’edizione di Remané l’illustrazione raffigura per l’appunto un pellicano.

Come il Dronte, anche il Cappellaio (Hatter) e la Lepre Marzolina (March Hare) alludono a espressioni idiomatiche, in questo caso «as mad as a Hatter» e «as mad as a March Hare»9, che non hanno equivalenti diretti nelle altre lingue. Remané (DE-REM) cerca di mantenere la connotazione traducendo March Hare con Schnapphase, spiegando il nome nel contesto: la lepre sarebbe übergeschnappt («matta»). In realtà la spiegazione non è convincente. Secondo le regole della morfologia tedesca, una Schnapphase sarebbe intesa come una lepre che «porta via» qualcosa. Mentre ad alcuni lettori può venire in mente l’idea di una lepre che a marzo impazzisce (alla ricerca di un compagno), è meno probabile che ciò accada con l’immagine di un cappellaio particolarmente pazzo. Ma dal momento che il Cappellaio viene presentato come un personaggio piuttosto bizzarro sia nel contesto che nelle illustrazioni, non per forza questo costituisce un problema di comprensione.

Il Gatto del Cheshire (Cheshire Cat) allude a una particolare marca di formaggio del Cheshire che aveva sulla confezione l’immagine di un gatto che sogghigna, immagine che sembra aver dato origine all’espressione «to grin like a Cheshire Cat»10. Questa connotazione non funziona nelle altre culture, e una sostituzione (per esempio con «mucca» in francese, cfr. «la vache qui rit» o con «cavallo di panpepato» in tedesco, cfr. «grinsen wie ein Honigkuchenpferd») sarebbe fuori luogo visto che le illustrazioni raffigurano un gatto che sogghigna. Perciò le allusioni a un qualche tipo di formaggio

9 Entrambe le espressioni significano «matto da legare» [N.d.T.]. 10 «Ridacchiare frequentemente e scioccamente» [N.d.T.].

52

kind of cheese (DE-BUB, DE-ENZ, FR) are as pointless as the literal translation (es, br, it). This is, by the way, the only case where the Brazilian translator deviates from her adaptive strategy.

The Dormouse may evoke connotations of sleepiness in English even if the reader does not know exactly what kind of animal it is. The name sounds a bit like dorm(itory), which seems to be a rather obvious association, at least for teenage children in England. In German, there are several names for the animal in question, of which Schlafmaus (DE-BUB) and, particularly, Siebenschläfer (DE-TEU) seem the most appropriate in this context because the names refer to schlafen (“to sleep”). The name Haselmaus, although zoologically correct, seems as unmotivated as the respective equivalents in Spanish, Portuguese, French and Italian.

The Mock Turtle (which introduces itself by saying that it used to be a Real Turtle once) is a particular challenge for any translator. In Germany, where Mockturtle(suppe) seems to have disappeared from the shelves of supermarkets and delicatessen shops, the referent itself will appear extremely strange to the readers, especially to children. Teutsch (DE-TEU) therefore creates an Oxtail Turtle, which preserves the reference to soup (important in the context) and makes recognition easier. A False (Soup) Turtle (DE-ENZ, DE-REM, es, br, it) is consistent with the illustrations, which show a turtle with a calf’s head, but not quite coherent for readers who do not know that mock-turtle soup is made of veal broth. Therefore, the French translator created an ingenious compound referring precisely to this aspect.

53

(DE-BUB, DE-ENZ, FR) sono insensate così come la traduzione letterale (ES, BR, IT). Fra parentesi, questo è l’unico caso in cui la traduttrice brasiliana si discosta dalla propria strategia basata sull’adattamento.

Il Ghiro (Dormouse) può evocare in inglese connotazioni di sonnolenza anche se il lettore non sa esattamente di che specie di animale si tratti. Il nome somiglia un po’ a dorm(itory), un’associazione piuttosto ovvia, almeno per i ragazzini inglesi. In tedesco ci sono svariati nomi per l’animale in questione, tra cui Schlafmaus (DE-BUB) e, in particolare, Siebenschläfer (DE-TEU), che sembrano i più appropriati in questo contesto perché fanno riferimento a schlafen («dormire»). Il nome Haselmaus, benché zoologicamente corretto, sembra una scelta immotivata, così come i rispettivi equivalenti in spagnolo, portoghese, francese e italiano.

La Fintartaruga (Mock Turtle), che si presenta affermando di essere stata un tempo una «Tartaruga vera», rappresenta una sfida particolare per qualsiasi traduttore. In Germania, dove la Mockturtle(suppe) sembra scomparsa dagli scaffali dei supermercati e dei negozi di gastronomia, l’oggetto stesso del riferimento appare molto strano ai lettori, soprattutto ai bambini. Per questo motivo Teutsch (DE-TEU) crea una «Tartaruga con la coda di bue» (Oxtail Turtle), che mantiene il riferimento alla zuppa (importante nel contesto) e rende più facile il riconoscimento. Una «Finta (Zuppa di) Tartaruga» (DE-ENZ, DE-REM, ES, BR, IT) è coerente con le illustrazioni, le quali raffigurano una tartaruga con la testa di un vitello, ma non altrettanto coerente per i lettori che non sanno che la zuppa di finta tartaruga si fa con il brodo di vitello. Ecco perché il traduttore francese crea un’ingegnosa parola composta che fa riferimento proprio a questo aspetto.

54

Bill is a lizard. His name is used in a pun in the very title of the chapter: THE RABBIT SENDS IN A LITTLE BILL. The majority of the translators skip this pun, except Bublitz (DE-BUB), who plays with Bill and billig (“cheap”), and the Spanish translator, who uses the diminutive of Pepe, Pepito, which means “a little lump of meat.” Although it is not bits of meat but of cake that are sent in by the Rabbit, the pun will probably work for Spanish readers. Enzensberger’s solution (DE-ENZ) is in line with his general adapting strategy, but the name Egon seems completely unmotivated. This is a frequent problem with substitutions; once you have started, it is difficult to tell where to stop.

Type names, i.e., typical names for certain classes of objects, also refer to the real world of author and addressee because they are culture-specific. The only name of this kind in Alice in Wonderland is Fury. Since this name appears in the Mouse’s tale where she justifies why she hates cats and dogs, a literal translation rendering the proper name by a generic noun (as in DE- ENZ, ES and IT) destroys the coherence between the context and the tale. Bublitz (DE-BUB) uses a typical German name for a big and dangerous dog. For modern German children, Fury would refer to a famous TV horse.

There are two more instances referring to “typical” proper names in the book. One is the address of the Christmas parcel Alice thinks of sending to her foot when she has grown very tall, and the other refers to the White Rabbit’s doorplate. In both cases, it is the culture-specific form of the name which seems to cause translation problems.

In English, the author uses the conventional form of address with the addressee’s name and residence. Hearthrug, near the Fender imitates the

55

Bill è una lucertola. Il suo nome viene utilizzato in un gioco di parole proprio nel titolo del capitolo: «IL CONIGLIO SPEDISCE UN BILLETTO». La maggior parte dei traduttori omette questo gioco di parole, a eccezione di Bublitz (DE-BUB), che gioca con Bill e billig (da quattro soldi), e il traduttore spagnolo, il quale usa il diminutivo di Pepe, Pepito, che significa «un pezzettino di carne». Sebbene il Coniglio non lanci pezzetti di carne ma pasticcini, il gioco di parole probabilmente funziona anche per i lettori spagnoli. La soluzione di Enzensberger (DE-ENZ) è in linea con la sua strategia generale di adattamento, ma la scelta del nome Egon appare totalmente immotivata. Questo è un problema ricorrente quando si tratta di sostituire: una volta iniziato, è difficile decidere quando fermarsi.

Anche i nomi propri evocativi, ovvero nomi tipici per determinate classi di oggetti, essendo culturospecifici, si riferiscono al mondo reale dell’autore e dei destinatari. L’unico nome di questo tipo in Alice in Wonderland è Fury. Poiché questo nome compare nel racconto con cui il Topo spiega i motivi per cui odia cani e gatti, tradurre letteralmente il nome proprio trasformandolo in un nome comune (DE-ENZ, ES, IT) annulla la coerenza tra il contesto e il racconto. Bublitz (DE-BUB) utilizza un nome tedesco tipico per un grosso cane pericoloso. Ai bambini tedeschi di oggi, Fury ricorderebbe un famoso cavallo della TV.

Nel libro ci sono altri due esempi relativi a nomi propri “tipici”. Uno è l’indirizzo del pacco di Natale che Alice pensa di mandare al proprio piede dopo essere diventata altissima, e l’altro si ritrova sulla targhetta della porta del Coniglio Bianco. In entrambi i casi sembra che sia la forma culturospecifica del nome a causare problemi traduttivi.

In inglese l’autore utilizza lo schema convenzionale dell’indirizzo, con il nome e il domicilio del destinatario. Hearthrug, near the Fender (Tappeto Parascintille, Caminetto Presso Parafuoco) imita il nome di un paesino nei

56

name of a little village in the neighbourhood of a bigger town. In spite of the fact that Esq. used to be no more than a politeness marker which does not imply that the addressee belongs to aristocracy, almost all translators use some kind of very formal treatment. The Brazilian translator skips over the problem by avoiding the address form altogether. Teutsch, again, is the one who adapts the forms of both the name and the address in the most consistent way. She uses the abbreviation “z.Z.” (= “zur Zeit”), which is only found in letter heads or on envelopes to mark a temporary address.

In an illustration, we see a house, and beside the door a doorplate with W. Rabbit on it. In English, this combination of initial and surname seems quite natural, because White does not sound very different from Walt or William. In German, the adjective weiß (“white”) must be declined, and Weißes (DE- BUB, DE-ENZ, DE-REM) does not at all sound like a first name. Changing Kaninchen into Kanin by omitting the diminutive suffix (DE-TEU) is not very logical either. On the other hand, Weiß is a usual surname in Germany, so Weiß, K. might be an acceptable solution since people often put their first name after the surname on doorplates. In the Spanish

57

pressi di una città più grande. Sebbene Esq. (Preg.mo) non fosse, ai tempi dell’autore, nient’altro che un titolo di cortesia che non implica necessariamente l’origine aristocratica del destinatario, quasi tutti i traduttori utilizzano un certo tipo di riguardo molto formale. La traduttrice brasiliana evita il problema omettendo del tutto l’appellativo. Teutsch è di nuovo quella che trova il modo più coerente di adattare la forma del nome e dell’indirizzo. Inoltre inserisce l’abbreviazione «z.Z.» («zur Zeit») che si utilizza nelle intestazioni di lettere e buste solo per indicare un indirizzo temporaneo.

In un’illustrazione si vede una casa, e accanto alla porta una targhetta con scritto W. Rabbit. In inglese, risulta molto facile pensare a una combinazione di cognome e iniziale del nome, perché White non è molto diverso da Walt o William. In tedesco l’aggettivo weiß («bianco») deve essere declinato, e Weißes (DE-BUB, DE-ENZ, DE-REM) non suona affatto come un nome di persona. Non ha molto senso nemmeno trasformare Kaninchen in Kanin omettendo il suffisso diminutivo (DE-TEU). D’altra parte, Weiß è un cognome molto comune in Germania, perciò Weiß, K. potrebbe essere una soluzione accettabile dato che spesso sulla targhetta della porta si mette il nome dopo il cognome. Nella traduzione

58

translation, B. Conejo is not coherent with Conejo Blanco. Spaniards use two surnames, the father’s name and the mother’s name, so the whole expression Conejo Blanco would be a perfect surname, perhaps together with any initial for a first name, e.g., F. Conejo Blanco. This is the solution the Brazilian translator has chosen, and she is lucky because Coelho Branco is, indeed, a usual surname.

4.3. Names referring to fictitious characters

It is a specific characteristic of Alice in Wonderland that, with very few exceptions (like Alice, Pat, Bill), the fictitious characters have no names in the conventional sense of the word. Characters, mostly animals or fantasy creatures, are usually introduced by a description which is afterwards used as a proper name just by writing it with a capital letter. For example, at the end of chapter IV we read: “She stretched herself up on tiptoe, and peeped over the edge of the mushroom, and her eyes immediately met those of a large blue caterpillar, that was sitting on the top with its arms folded, quietly smoking a long hookah, and taking not the smallest notice of her or of anything else.” The next chapter begins as follows: “The Caterpillar and Alice looked at each other for some time in silence…” (emphasis C.N.).

White Rabbit is one of the numerous generic nouns turned into a proper name: The White Rabbit, the Mouse, the Duchess, the Gryphon. Translating into Romance languages it is easy just to follow the author’s model capitalizing the generic nouns. In German, however, all nouns are written with a capital first letter, therefore, capitalization cannot be used as a means to mark them as proper names. The only way out of the dilemma would have been to use the nouns without the definite article, but this procedure cannot be found in the German translations of our corpus.

Apart from this group of names we find personifications of playing cards: Five, Two or Three, together with the King, the Queen and the Knaves. There are no translation problems here, and the illustrations support the text, especially for readers in cultures where other kinds of playing cards are used.

59

spagnola, B. Conejo non è coerente con Conejo Blanco. Gli spagnoli usano due cognomi, quello del padre e quello della madre, perciò l’intera espressione Conejo Blanco sarebbe un cognome perfetto, magari con l’aggiunta di un’iniziale qualsiasi per il primo nome, per esempio F. Conejo Blanco. Questa è la soluzione scelta dalla traduttrice brasiliana, che è fortunata perché Coelho Branco è effettivamente un cognome diffuso.

4.3. Nomi riferiti a personaggi inventati

È tipico di Alice in Wonderland che, tranne pochissime eccezioni (come Alice, Pat, Bill), i personaggi inventati non abbiano nomi nel senso convenzionale del termine. I personaggi, per lo più animali o creature di fantasia, vengono solitamente presentati con una descrizione che più avanti viene usata come nome proprio semplicemente scrivendola con la lettera maiuscola. Per esempio, alla fine del IV capitolo si legge: «Si alzò in punta di piedi e guardò oltre il bordo del fungo, e subito i suoi occhi incontrarono quelli di un grosso millepiedi blu, che se ne stava seduto lassù con le braccia conserte, fumando placido un lungo narghilé, senza prestare la minima attenzione a lei e a tutto il resto». Il capitolo successivo inizia con la seguente frase: «Il Millepiedi e Alice si squadrarono in silenzio per un po’ di tempo […]» (corsivo di C.N.).

Coniglio Bianco (White Rabbit) è uno dei numerosi nomi comuni trasformati in nomi propri: il Coniglio Bianco, il Topo, la Duchessa, il Grifone. Traducendo verso lingue romanze è facile seguire semplicemente la strategia dell’autore di utilizzare la lettera maiuscola per i nomi comuni. In tedesco, però, tutti i sostantivi si scrivono con l’iniziale maiuscola, perciò non la si può usare per contrassegnarli come nomi propri. L’unica soluzione al dilemma sarebbe stata di usare i nomi senza l’articolo determinativo, ma nelle traduzioni tedesche del corpus questo metodo non viene utilizzato.

Oltre a questo gruppo di nomi troviamo la personificazione delle carte da gioco: Cinque, Due e Tre, insieme a Re, Regina e Fante. Qui non ci sono problemi di traduzione, e le illustrazioni facilitano la comprensione del testo, specialmente per i lettori appartenenti a culture in cui si usano tipi diversi di carte da gioco.

60

The last proper name I would like to mention is Pat. Pat appears in the same scene with Bill, the Lizard, and it does not become clear what kind of creature he is, perhaps one of the guinea pigs that are mentioned in the context. By his way of speaking, Pat is characterized as an uneducated person, perhaps a farmer. Judging by his name, he could be an Irishman. The author comments on his pronunciation of the word arm: He pronounced it “arrum.” This could also be a North England or Scottish accent.

The annotations do not say anything about Pat’s identity, but it seems to me that there would be some kind of model for Pat in the real world of author and original addressees. All translators try to give the pronunciation some kind of dialect touch. In German, Aam or Ahm (DE-BUB, DE-ENZ, DE-TEU) points to someone from North Germany, the regional connotation of Arrem (DE-REM) is not obvious to me. In Spanish, the pronunciation brasso characterizes an Andalusian or Latin American speaker. The French brraa could indicate a person from Corsica. However, according to my sources, bracco for braccio is not possible in any Italian dialect. Anyway, in none of the translations do we find a correspondence between the name and the way of speaking.

5. Conclusions

We have seen that there are various strategies for dealing with proper names in translation. It would be interesting to see whether a particular strategy correlates with addressee-orientation. Since experts are still debating whether the original Alice in Wonderland is a book for children or for adults, we have to look at the form of publication to find out whether a translation is directed at children or adults. As far as the German translations are concerned, BUB, REM and TEU are definitely books for

61

L’ultimo nome proprio che voglio citare è Pat. Pat compare nella stessa scena in cui compare Bill la Lucertola, e non è chiaro di che creatura si tratti, forse uno dei porcellini d’India citati nel contesto. Per il suo modo di parlare, Pat appare come una persona poco istruita, forse un contadino. A giudicare dal nome potrebbe essere un irlandese. L’autore commenta il suo modo di pronunciare la parola arm: lo pronuncia arrum. Questo potrebbe indicare un accento dell’Inghilterra del nord o scozzese.

Le annotazioni non dicono niente sull’identità di Pat, ma secondo me potrebbe esistere nel mondo reale dell’autore e dei destinatari un modello a cui questo personaggio è ispirato. Tutti i traduttori cercano di conferire alla sua pronuncia qualche tocco dialettale. In Tedesco, Aam o Ahm (DE-BUB, DE-ENZ, DE-TEU) vuole ricordare la pronuncia del nord della Germania; la connotazione regionale di Arrem (DE-REM) per me non salta subito all’occhio. In spagnolo, brasso è una pronuncia tipica di un parlante andaluso o latino americano. Il francese brraa potrebbe indicare una persona corsa. Tuttavia, secondo le mie fonti, in nessun dialetto italiano si pronuncerebbe «bracco» invece di «braccio». E comunque in nessuna delle traduzioni troviamo corrispondenza fra il nome e il modo di parlare.

5. Conclusioni

Abbiamo visto che esistono diverse strategie per tradurre i nomi propri. Sarebbe interessante verificare se una particolare strategia rispecchi l’orientamento al destinatario di quel traduttore. Dal momento che gli esperti non hanno ancora stabilito se l’originale Alice in Wonderland sia un libro per bambini o per adulti, dobbiamo guardare alla forma della pubblicazione per scoprire se la traduzione sia diretta ai bambini o agli adulti. Per quanto riguarda le traduzioni tedesche, BUB, REM e TEU sono

62

children, they have been published in children’s books series. REM and BUB have new illustrations, the ones in BUB following Tenniel’s footsteps, the ones in REM showing a rather modern Alice in mini-skirt and ponytail. TEU reproduces the original illustrations by John Tenniel. ENZ also uses the Tenniel pictures, but the publication of the book in the prestigious Insel Verlag points to an adult audience.

A quantitative analysis of translation procedures shows the following results. The reproduction of source-language names without any changes in the form (repro), although usually with an adaptation of the pronunciation to target-language norms, is the most frequently used technique in DE-BUB (38%), DE-REM and FR (both 48%) as well as IT (55%). The use of adaptation of source-cultural names to target-language morphology (adapt) and of exonyms (exonym) is most frequent in the Spanish translation (ES, together 58.6%), which confirms the assumption that the adaptation of proper names is conventional in Spanish literature. The substitution of source-culture names by target culture names (subst) is the favourite procedure in DE-ENZ (44.8%). Together with the proper names rendered as generic nouns, which also has an adapting effect, substitutions sum up to 65.5% in DE-ENZ. As we have seen before, the Brazilian translator has left out a large number (38%) of the proper names and substituted another 31%, which makes her translation the most target-oriented of our corpus. Actually, on the front page of the book, the text is characterized as an “adaptação.” The only translator who has no real “favourite” technique is DE-TEU, but adaptations, substitutions and translation by generic nouns represent 62% of her procedures. Therefore, her translation also has a strong target-orientation.

63

decisamente edizioni per bambini, in quanto pubblicate in collane di libri per l’infanzia. REM e BUB hanno illustrazioni nuove, quelle nell’edizione di BUB sono sulla falsariga di quelle di Tenniel, quelle nella versione di REM mostrano un’Alice piuttosto moderna in minigonna e con la coda di cavallo. TEU riproduce le illustrazioni originali di John Tenniel. Anche ENZ utilizza le immagini originali, ma la pubblicazione del libro presso la prestigiosa Insel Verlag suggerisce un pubblico adulto.

Un’analisi quantitativa dei metodi di traduzione dà i seguenti risultati. La scelta di riprodurre i nomi della lingua emittente senza modificarne la forma (repro), ma adattandone solitamente la pronuncia alle regole della lingua ricevente, rappresenta la tecnica più utilizzata da DE-BUB (38%), DE-REM e FR (entrambi 48%) e IT (55%). L’adattamento dei nomi della cultura emittente alla morfologia della lingua ricevente (adapt) e l’uso di esonimi (exonym) sono molto frequenti nella traduzione spagnola (ES, in totale 58,6%), il che conferma la tendenza convenzionale ad adattare i nomi propri nella letteratura spagnola. La sostituzione di nomi tipici della cultura emittente con nomi appartenenti alla cultura ricevente (subst) è il metodo preferito da DE-ENZ (44,8%). Le sostituzioni raggiungono il 65,5% in DE- ENZ se sommate alla trasformazione dei nomi propri in nomi comuni, la quale sortisce lo stesso effetto dell’adattamento. Come abbiamo già visto, la traduttrice brasiliana tralascia un gran numero di nomi propri (il 38%), e ne sostituisce un altro 31%, il che fa della sua traduzione quella più orientata al destinatario nell’intero corpus. E in effetti in copertina il testo è definito come un’adaptação. L’unica traduttrice che non sembra avere una tecnica “preferita” è DE-TEU, tuttavia il 62% delle tecniche da lei utilizzate è rappresentato da adattamenti, sostituzioni e trasformazioni in nomi comuni. Perciò anche la sua traduzione è decisamente orientata al destinatario.

64

Neutralizations (neutr) are cases where a culture-specific name is rendered by a culture-unspecific or “transcultural” reference. They mark neither the source nor the target culture, but it can be empirically proved that readers tend to “domesticate” such references. Calques are literal target-language translations of source-language names. As such, they preserve their semantic strangeness but lose their foreign look. Both neutralizations and calques are not found very often in the corpus.

Coming back to the question whether there is a correlation between the number of adaptive procedures and addressee orientation we have to state that the analysis of the corpus does not confirm the assumption that adaptive strategies would generally be more frequent in children’s books than in translations for adults. Both DE-REM and FR use mainly reproductive techniques although they are translating for children, and DE-ENZ uses adaptive strategies although he is translating for adults.

In several cases, adaptation was impossible because the illustrations showed the source-text referents (cf. Cheshire Cat). The W. Rabbit example shows that the pictures sometimes can cause additional translation problems where the text itself would not be difficult to translate. If the translator had an influence on the pictures, certain translation problems would be easier to solve.

65

Le neutralizzazioni sono casi in cui un nome culturospecifico viene trasformato in uno non culturospecifico o in un riferimento “transculturale”. Non rimandano né alla cultura emittente né a quella ricevente, ma è empiricamente dimostrabile che il lettore tende ad “addomesticare” questo tipo di riferimenti. I calchi sono traduzioni letterali di nomi della lingua di partenza nella lingua d’arrivo, e in quanto tali essi conservano la stranezza semantica ma perdono l’aspetto straniero. Sono rari, nel corpus, sia gli esempi di neutralizzazione che i calchi.

Tornando alla questione iniziale, ovvero se esista un collegamento tra il numero di procedure di adattamento e l’orientamento al destinatario, possiamo affermare che l’analisi del corpus non conferma il presupposto che le strategie di adattamento siano più frequenti nei libri per bambini che nelle traduzioni per adulti. Sia DE-REM che FR utilizzano per lo più tecniche di riproduzione pur avendo come destinatari i bambini, mentre DE-ENZ utilizza strategie di adattamento sebbene traduca per gli adulti.

In diversi casi non è possibile ricorrere all’adattamento poiché le illustrazioni mostrano i referenti del testo della cultura emittente (cfr. «Gatto del Cheshire»). L’esempio di W. Rabbit dimostra che a volte le immagini possono causare ulteriori problemi traduttivi quando il testo in sé non sarebbe difficile da tradurre. Se il traduttore potesse modificare le illustrazioni a sua discrezione, certi problemi di traduzione sarebbero più facili da risolvere.

66

The last aspect I would like to mention is annotation. Notes are meta- texts, and meta-texts are usually referential. In Alice in Wonderland, the notes inform the reader about the appellative function(s) of the original. The problem with the explanation of puns or jokes is that it kills them: a joke that has to be explained is as dead as a Dodo. Moreover, the reader receives two texts, i.e., a text where the names seem to be purely identifying or referential, and another text that explains why these names are not purely referential. This procedure will necessarily change the whole communicative effect of a text. To my view, the decision for, or against, annotations must be guided by addressee-orientation. For an adult readership, it may be interesting to read the two texts, either “side by side” or one after the other. For children, one text will probably be sufficient. Consequently, in our corpus, annotations and translators’ commentaries are only found in the translations for adults (DE-ENZ and ES).

67

L’ultimo aspetto che vorrei menzionare è l’annotazione. L’insieme delle note costituisce il metatesto, e quest’ultimo è solitamente referenziale. Le note di Alice in Wonderland informano il lettore a proposito delle funzioni conative dell’originale. Il problema dei giochi di parole o delle battute è che spiegandoli se ne annulla l’effetto, “uccidendole”: una battuta che ha bisogno di essere spiegata è “morta e sepolta”11. Inoltre il lettore riceve due testi: uno in cui i nomi sembrano puramente identificativi o referenziali, e un altro che spiega perché questi ultimi non sono puramente referenziali. Questo procedimento cambia necessariamente l’intero effetto comunicativo del testo. A mio avviso la decisione a favore o contro le annotazioni deve essere guidata dal tipo di orientamento al destinatario. Per dei lettori adulti può essere interessante leggere entrambi i testi, con testo a fronte oppure uno dopo l’altro. Per i bambini sarà probabilmente sufficiente un solo testo. Di conseguenza, nel nostro corpus, le annotazioni e i commenti dei traduttori si trovano solo nelle versioni per adulti (DE-ENZ e ES).

11 Nord cita l’espressione idiomatica «as dead as a Dodo» (cfr. par. 4.2), applicandola all’affermazione appena fatta [N.d.T.].

68

References

Carroll, L. (1946): Alice in Wonderland and Through the Looking Glass. New York: Grosset & Dunlap. (= EN)

Carroll, L. (1970): Alicia en el País de las Maravillas. Transl. Jaime Ojeda. Madrid: Alianza. (ES)

Carroll, L. (1973a): Alice im Wunderland. Transl. Christian Enzensberger. Frankfurt/M.: Insel. (= DE-ENZ)

Carroll, L. (1973b): Alice im Wunderland. Transl. Liselotte Remané. Munich: dtv. (= DE-REM)

Carroll, L. (1985): Alice au Pays des Merveilles suivi de De l’Autre Côté du Miroir. Transl. André Bay. Paris/Bratislava. (= FR)

Carroll, L. (1989): Alice im Wunderland. Transl. Barbara Teutsch. Hamburg: Dressler. (= DE-TEU)

Carroll, L. (1990): Alice nel Paese delle Meraviglie. Transl. Ruggero Bianchi. Milano. (= IT)

Carroll, L. s.a. Alice no Pais das Maravilhas. Adapt. M. T. Cunha de Giacomo. São Paulo. (= BR)

Nord, C. (1994): “It’s Tea-Time in Wonderland: culture-markers in fictional texts.” In: Heiner Pürschel et al. (eds.): Intercultural Communication. Proceedings of the 17th International L.A.U.D. Symposium Duisburg 1992. Frankfurt etc.: Peter Lang (1994), 523-538.

Nord, C. (2001): Lernziel: Professionelles Übersetzen Spanisch-Deutsch. Einführungskurs in 15 Lektionen. Wilhelmsfeld: Gottfried Egert.

Strawson, P. F. (1971): “On Referring.” In: id., Logico Linguistic Papers. 1- 21. London.

69

Riferimenti bibliografici

CARROLL, L., Alice in Wonderland and Through the Looking Glass, New York, Grosset & Dunlap, 1946 (= EN)

CARROLL, L., Alicia en el País de las Maravillas, traduzione di Jaime Ojeda, Madrid, Alianza, 1970 (= ES)

CARROLL, L., Alice im Wunderland, traduzione di Christian Enzensberger, Francoforte sul Meno, Insel, 1973a (= DE-ENZ)

CARROLL, L., Alice im Wunderland, traduzione di Liselotte Remané, Monaco di Baviera, dtv, 1973b (= DE-REM)

CARROLL, L., Alice au Pays des Merveilles suivi de De l’Autre Côté du Miroir, traduzione di André Bay, Parigi/Bratislava, 1985 (= FR)

CARROLL, L., Alice im Wunderland, traduzione di Barbara Teutsch, Amburgo, Dressler, 1989 (= DE-TEU)

CARROLL, L., Alice nel Paese delle Meraviglie, traduzione di Ruggero Bianchi, Milano, 1990 (= IT)

CARROLL, L., Alice no Pais das Maravilhas, adattamento di M. T. Cunha de Giacomo, San Paolo, s.a. (= BR)

NORD, C., It’s Tea-Time in Wonderland: culture-markers in fictional texts, Heiner Pürschel et al. (eds.): Intercultural Communication. Proceedings of the 17th International L.A.U.D. Symposium Duisburg 1992, 1994, Francoforte ecc., Peter Lang (1994), 523-538

NORD, C., Lernziel: Professionelles Übersetzen Spanisch-Deutsch. Einführungskurs in 15 Lektionen, Wilhelmsfeld, Gottfried Egert, 2001

STRAWSON, P. F., On Referring, id., Logico Linguistic Papers, 1971, 1-21, Londra

70

Note

[1] I will be using the ISO abbreviations to indicate language codes: br. = Brazilian, de. = German, en. = English, es. = Spanish, fi. = Finnish, fr. = French, it. = Italian. If used as a reference to the translation, the abbreviation is capitalized (BR, DE, ES, FR, IT). The four German translations are distinguished by acronyms using the first three letters of the translator’s surname: DE-BUB, DE-ENZ, DE-REM, DE-TEU.

71

Nota

[12] Per indicare i codici delle lingue uso le abbreviazioni ISO: br. = brasiliano, de. = tedesco, en. = inglese, es. = spagnolo, fi. = finlandese, fr. = francese, it. = italiano. Se usata come riferimento alla traduzione, l’abbreviazione è scritta in lettere maiuscole (BR, DE, ES, FR, IT). Le quattro traduzioni tedesche si distinguono per mezzo di una sigla composta dalle prime tre lettere del cognome del traduttore: DE-BUB, DE-ENZ, DE-REM, DE-TEU.

72

MICHELA IMPERIO I think-aloud protocol come strumento per indagare il processo mentale della traduzione

I think-aloud protocol come strumento per indagare il processo mentale della traduzione

MICHELA IMPERIO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: Professor Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Marzo 2008

© University of Joensuu, Joensuu and Riitta Jääskeläinen 1999 © Michela Imperio 2008

I think-aloud protocol come strumento per indagare il processo mentale della traduzione.

Think-aloud protocols as a method to investigate the mental process of translation.
Michela Imperio

ABSTRACT IN ITALIANO

I processi cognitivi dell’uomo – e in particolare il processo mentale della traduzione – sono stati studiati attraverso diversi metodi di indagine, dall’osservazione di reazioni a stimoli specifici, all’analisi degli errori e dei risultati relativi a un compito svolto. Nel vasto panorama di ricerca in questo campo, think-aloud protocol (TAPs) si distinguono in quanto strumento più adeguato per indagare il complesso processo creativo del tradurre. Essi danno la possibilità di raccogliere dati sui pensieri del traduttore nello stesso momento in cui quest’ultimo li verbalizza, riducendo al minimo il rischio di ottenere informazioni errate o incomplete, dovuto ai limiti della memoria umana. La base teorica su cui poggiano i TAPs sono gli studi sul processo cognitivo umano inteso come processo di elaborazione delle informazioni. Verso la fine degli anni ottanta del novecento, alcuni studiosi pionieri hanno iniziato ad applicare TAPs all’attività traduttiva svolta da studenti di lingue straniere, con fini principalmente pedagogici. La successiva generazione di ricercatori, sulle orme dei primi esperimenti, ha applicato questo metodo con modalità diverse, proponendosi nuovi obbiettivi e avanzando nuove ipotesi (studio delle differenze tra traduttori professionali e non; confronto tra TAPs e joint translation). I TAPs continuano ad avere una grande varietà di applicazione che, se da una parte mette in luce la complessità del processo traduttivo, dall’altra non permette di mettere a confronto gli esperimenti realizzati e di controllare i risultati ottenuti.

ENGLISH ABSTRACT

Human cognitive processes – and particularly the mental process of translation – have been investigated in different ways, e.g. observing reaction to specific stimuli, analyzing the errors and the results of a task performance etc. Think-aloud protocols are the best suited method to investigate the complex and creative process of translating. This method allows to collect data about the translator’s thoughts at the same time he verbalizes them, reducing the risk of getting wrong or incomplete information caused by memory limitations. The theoretical framework for TAP experiments is provided mainly by the studies on human cognition as information processing. In the late 1980s, some pioneer scholars began to apply TAPs to translation tasks carried out by foreign language learners, with pedagogical aims. Following the early experiments, the next generation of researchers applied TAPs in different ways, investigating more specific hypotheses (the study of professional vs. non-professional translator; think-aloud protocol vs. joint translation). The different interests and backgrounds of the researchers involved have resulted in a large variety of independent approaches. TAPs involve different methods of analysis, which, from one hand sheds light on the complexity of the translation process, and from the other makes it difficult to compare different experiments and to test the data collected.

ABSTRACT EN ESPAÑOL

Los procesos cognitivos del hombre – en particular el proceso mental de la traducción –han sido estudiados con distintos métodos de investigación, de la observación de las

1

reacciones a estímulos específicos, al análisis de las faltas y de los resultados relativos a una tarea desarrollada. En el marco de la investigación en este ámbito, los protocolos de pensamiento en voz alta (TAPs) se destacan como el instrumento más adecuado para estudiar el complejo y creativo proceso traslativo. Ellos ofrecen la posibilidad de recoger datos sobre los pensamientos del traductor al mismo tiempo que éste los verbaliza. De esta manera se reduce el riesgo de obtener informaciones erradas o incompletas, debido a los límites de la memoria humana. La base teórica sobre la cual descansan los TAPs son los estudios sobre el proceso cognitivo humano como proceso de elaboración de las informaciones. Hacia la fin de los años ochenta del siglo XIX, algunos estudiosos pioneros empezaron a aplicar los TAPs a la actividad traslativa desempeñada por estudiantes de lenguas extranjeras, con fines pedagógicos. Los investigadores de la generación sucesiva, siguiendo los primeros experimentos, aplicaron este método de distintas maneras, se propusieron nuevos objetivos y propusieron nuevas hipótesis (estudio de las diferencias entre traductores profesionales y no; comparación entre TAPs y actividad en grupos). Hoy, se sigue a aplicar los TAPs en muchas maneras distintas; esto, por un lado saca a luz la complejidad del proceso traslativo, y por el otro, no permite poner en comparación los experimentos desarrollados y averiguar los resultados obtenidos.

2

SOMMARIO

Prefazione 4

  1. Problem solving 6
  2. Methods of data collection 7

    2. 1. Different verbalizing procedures 8 2. 1. 1. Introspection 8 2. 1. 2. Retrospection 8 2. 1. 3. Questions and prompting 10 2. 1. 4. Thinking aloud 10 2. 1. 5. Dialogue protocols 11

  3. Think-aloud protocols – theoretical framework 12 3. 1. The study of the human mind 12 3. 2. Ericsson and Simon’s model 13

    3. 2. 1. Implications of Ericsson and Simon’s model 14 3. 3. Goals 17

  4. TAPs in translation studies 18 4. 1. First studies on foreign language learners 20 4. 2. Further studies: different aims and hypothesis 23
  5. Thinking aloud vs. Joint translation 26 5. 1. Joint-translation’s limits 29
  6. Traduzione con testo a fronte 31
  7. Conclusion 66 Appendice: il testo di riferimento per gli esempi 68 69 70

Ringraziamenti Riferimenti bibliografici

3

PREFAZIONE

Una delle sfide più grandi con cui l’uomo, da sempre, si confronta è quella di capire come agisce la propria mente, quali sono i meccanismi che stanno alla base dei propri ragionamenti. Perché certe situazioni fanno scaturire determinate reazioni comportamentali, perché si fanno o dicono determinate cose, che cosa ci spinge ad affrontare un problema in un modo piuttosto che in un altro, da che cosa dipendono le decisioni che prendiamo? Non sempre, trovandosi di fronte a situazioni problematiche – dalla risoluzione di un’equazione matematica, alla scelta del vestito da mettersi – l’uomo reagisce ponderando tutti i pro e contro del caso in modo conscio; molte reazioni, gesti, parole, nascono da un ragionamento inconscio, che non siamo in grado di spiegare a noi stessi e agli altri, soprattutto se a distanza di tempo.

La soluzione di situazioni problematiche dipende da molti fattori: l’esperienza personale accumulata, la capacità di raccogliere e analizzare le informazioni necessarie dalla propria memoria o dall’ambiente esterno, il fattore emotivo e così via. Lo studio dei processi mediante i quali le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, trasformate, elaborate, archiviate e recuperate è affidato alla psicologia cognitiva; essa analizza principalmente processi mentali come la percezione, l’apprendimento, la risoluzione dei problemi, la memoria, l’attenzione, il linguaggio e le emozioni.

La traduzione, fra molte altre, è un’attività complessa, che comporta la risoluzione di tanti piccoli problemi; è un processo di scomposizione, comprensione e analisi del prototesto, di ricerca di strategie traduttive, di nuova sintesi per la creazione del metatesto nella lingua della cultura ricevente: attività che qualsiasi traduttore compie in modo più o meno consapevole, ma che richiedono un grande sforzo di concentrazione, in quanto parte di un’opera creativa. La traduzione, quindi, è frutto di un complicato processo mentale, soggettivo e creativo, di cui è impossibile cogliere tutti i passaggi e le sfumature, senza affidarsi a metodi di studio specifici.

È in tempi relativamente recenti (anni ottanta del novecento) che alcuni studiosi europei, insoddisfatti degli studi fino ad allora realizzati, hanno

4

iniziato a sondare più a fondo le dinamiche del processo mentale del traduttore, affidandosi a metodi di indagine induttivi ed empirici. I think- aloud protocol sono stati, finora, lo strumento più diffuso e adatto a questo tipo di indagine; si tratta, infatti, di una procedura di verbalizzazione che avviene simultaneamente al compito svolto dal traduttore, al quale viene chiesto di riferire ad alta voce ciò che avviene nella sua mente, mentre traduce.

Lo scopo di questo studio è quello di offrire una panoramica dei diversi metodi utilizzati nel corso degli anni per indagare il processo mentale della traduzione e, nello specifico, di presentare – attraverso alcuni studi esemplari realizzati negli ultimi trent’anni – la grande varietà di applicazione dei think- aloud protocol, varietà che, se da una parte apre orizzonti verso nuovi oggetti di studio e nuovi metodi di indagine, dall’altra non permette di mettere a confronto le ricerche condotte e di controllare i risultati ottenuti.

5

1. PROBLEM SOLVING

Problem solving is the process of finding solutions to complex problems for which the answer is not necessarily evident. It can be described as a goal- directed cognitive process that requires effort and concentration. This can be caused by the fact that we can’t retrieve the answer directly from memory, but we must construct it from the information available in memory or information obtained from the environment (for example, the givens of a problem or extra information that can be requested). In other cases, “finding the answer involves exploring many possible answers none of which is immediately recognized as the solution to the problem” (Someren, Barnard and Sandberg 1994: 8). Therefore, we don’t find the solution directly in a single step but via intermediate reasoning steps, some of which may later appear useless or false.

A person’s ability to solve problems relies on his innate ability to mentally organize stimuli into relevant and useful schemas that can be used to deduce a solution from a limited stock of information. People frequently have to deal with problem-solving activities, professionally as well as privately. Some of these problems are well defined, for example algebraic equations, questions in a school chemistry test, medical diagnosis problems in a standard setting; in other cases, the problem itself and its potential solution are not so well defined and it is not so easy to evaluate the solution in terms of correctness. Examples of these activities are: designing websites, buying a new house, selecting a new bass player for a band, translating a text. Such activities require the solution of many smaller problems.

In everyday life one has to solve a lot of problems. What cloths shall we put on today, what is the most efficient route to the university, how much does a kilo of apples cost given the price of a pound, how to discuss troubles with one’s friend etc. Sometimes we are well aware of the fact that we are trying to solve a problem, for instance when we are trying to calculate how much something costs in a foreign currency: we consciously try to remember the exchange rate, in order to perform the mathematical operations required. But at times problem solving goes on without noticing, i.e. we may not perceive our mental process as problem solving.

6

There can be different reasons to study problem-solving processes. For example, a psychologist may want to investigate what mechanisms underlie human reasoning, what causes errors, the character and origin of people’s different performances. An educational scientist may be interested in the effect of education or in children’s difficulties in solving exercise problems. A knowledge engineer may want to analyze how a subject carries out a task, in order to try to build a computer system that can do the same. The aim the researcher may have partly determines the nature of the procedure he follows when using protocol analysis for collecting data about the cognitive process (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

2. METHODS OF DATA COLLECTION

One class of methods of data collection on the problem-solving process is based on observation of problem-solving behavior. The first one, product analysis, uses the results of problem solving: the solution to a problem may reveal aspects of the problem-solving behavior. It is possible to obtain further information by observing the problem-solving behavior concurrently while it takes place.

Besides simple observation of results and behavior during problem solving, properties that are not directly visible or audible may be examined by using special equipment: researchers may register eye movements during problem solving or even measure activity in various parts of the brain by special techniques, which may provide data on what information is being focused on and processed at a certain moment.

Behavioral observations are registered as action protocols. One of the few techniques that give access to data about the problem-solving process is storing a behavior trace if a person manipulates objects during problem solving (for example when using a computer).

Another class of techniques used both in psychology and in knowledge acquisition, is based on predefined forms in which the subject should express his knowledge. According to the task and the purpose of the research, it is possible to use an infinite variety of formats. One of them are questions with

7

predefined answers from which one or more is selected (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

A final class of methods involves unstructured verbal reports of problem solving, which can be obtained in different ways.

2. 1. DIFFERENT VERBALIZING PROCEDURES

“It is assumed that those mental activities which are dealt with in working memory (i.e. which are to some degree conscious) can be verbalized” (Jääskeläinen 1999: 62).

According to Ericsson and Simon (1984) a distinction should be made between various kinds of verbal report procedures (or introspective methods), and particularly between classical introspective reports, retrospective responses to specific probes and think-aloud protocols. This distinction is crucial in determining the reliability and the validity of these methods of data collection (Jääskeläinen 1999).

2. 1. 1. INTROSPECTION

Classic introspection consists in instructing the subject to report his thoughts at intermediate points of the problem-solving task, which are chosen by him. As used by psychologists in the 1920s and 1930s, researchers also ask the subject to give an accurate, complete and coherent report on his cognitive processes. As a result, introspective reports involve the use of psychological terminology and interpretation by the subject; for this reason, they are also more subject to memory errors and misinterpretations than other methods (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

The problem involved is that “the informant is also expected to act as the analyst/researcher. Consequently, both the data and the analysis are subjective” (Jääskeläinen 1999: 63); there is no objectivity in the sense of the object of research being independent of the researcher.

2. 1. 2. RETROSPECTION

In retrospective responses to specific probes subjects are invited to perform a task and afterwards they are asked questions about their behavior

8

during the performance. The problem-solving session can also be recorded on video; this way, the experimenter can then review the video-tape together with the subject, who can give his interpretation of what happened” (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

“The informant is therefore no longer the analyst, which makes the analysis more objective and the findings open to falsification” (Jääskeläinen 1999: 66).

However, there seem to be some problems. In fact, a person could find it difficult to remember exactly what he did, especially if some time has passed after the task has been carried out. Sometimes even, one is not aware of what he is doing. Furthermore, subjects may tend to report their thought process as more coherent and intelligent than it originally was, giving the false impression of perfectly rational behavior (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

This kind of post hoc rationalizing can be intentional or unintentional. In fact, humans tend to reconstruct events as more structured than they originally were, because their memory is guided by their knowledge of the result.

Some researchers have shown that the data obtained by retrospection are not always valid (Nisbett and Wilson, 1979; Ericsson and Simon, 1993). They examined closely the conditions under which reports are considered unreliable and they discovered that

all discrepancies were found in situations in which there was either a delay in time between the cognitive process and the report, or there was a question by the experimenter that required an interpretation rather than a direct report, (‘Why did you do X instead of Y?’), or both. (Someren, Barnard and Sandberg 1994: 22)

When subjects are asked for memories, explanations or motivations, they don’t answer from direct memory of the cognitive process but from an interpretation of it that can be influenced by expectations.

9

The memory model can explain why. Retrospection means that people must retrieve information from long-term memory and then verbalize it. The inconvenience is that the retrieval process may not reproduce all the information that was actually present in working memory during the problem- solving activity.

Furthermore, it is also possible that people retrieve information that was not actually in working memory as if it was. “After solving the problem, the solution will help to remember the steps that actually led to it” and to reconstruct them easily. “However, odd and fruitless steps that occurred on the way are less likely to be retrieved” (Someren, Barnard and Sandberg 1994: 22).

2. 1. 3. QUESTIONS AND PROMPTING

Another verbalizing procedure implies actually interrupting the problem- solving process: subjects are asked questions during the activity or are prompted at given intervals to tell what they are thinking or doing. Therefore, they don’t have the chance to smooth over the answer as in retrospection. The drawback of this method is that it interrupts the problem-solving process and subjects may have difficulty in taking up the thread. Moreover, prompts that require interpretation may affect the problem-solving process (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

2. 1. 4. THINKING ALOUD

The thinking aloud method differs from classical introspection and retrospection in that it is undirected and concurrent. The verbalizations are produced simultaneously with the task performance, but the subject is not as a rule required to verbalize specific information. “Due to memory limitations concurrent and undirected reporting is likely to capture more of the process (less is forgotten) more reliably (less is distorted)” (Jääskeläinen 1999: 66).

According to Ericsson & Simon (1993), thinking aloud does not interfere with the task performance and the thought process. The subject solves a problem while the talking is executed almost automatically; in fact, almost all

10

of his conscious effort is aimed at solving the problem, and there is no room left for reflecting on what he is doing. For this reason, there is no delay and the data gathered are direct; the subject does not interpret his thoughts nor is he required to bring them into a predefined form, but he renders them just as they come to mind. However, think aloud protocols are not necessarily complete because a subject may verbalize only part of his thoughts (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

With tasks in which thinking aloud is not possible (e.g. simultaneous interpreting), data can be collected through retrospective verbal reports.

“They ought to be elicited immediately after the task performance (immediate retrospection) and with as little interference from the experimenter as possible” (Ericsson and Simon 1984: 19).

2. 1. 5. DIALOGUE PROTOCOLS

Although monologue protocols are still predominantly the main tool for collecting data, the artificiality that still remains has led some researchers (House 1988; Hönig 1990 and 1991; Kussmaul 1989a, 1989b, 1993 and 1994; Schmid 1994) to get subjects to talk to each other. In a small-scale experiment, House compared monologue and dialogue protocols applied to translation tasks. The findings show that in monologue protocols processes as selecting target language items, weighing alternatives and choosing a particular translation equivalent remained unverbalized (House 1988). In contrast, when people collaborate they will sometimes have differing opinions. Thus they are forced to give arguments, to clarify steps of their thinking processes. In fact, when talking in pairs, subjects negotiated solutions to translation problems and each individual’s thoughts appeared to have been consistently shaped due to the necessity of having to verbalize them. House concluded that the dialogue situation provided richer data than monologue protocols (House 1988). “Later TAP experiments have shown, however, that the richness of data depends on the type of subjects and the translation brief, and, above all, on the priorities of the researcher” (Kussmaul and Tirkkonen-Condit: 180).

11

3. THINK-ALOUD PROTOCOLS – THEORETICAL FRAMEWORK

Over the last three decades, think-aloud protocols have become a widely- used method in the study of cognitive processes as problem solving, reading and writing and human-computer interactions.

As I mentioned before, the method of thinking aloud consists in organizing an experiment in which subjects are asked to carry out a task and to verbalize their thoughts while performing. The task performance is recorded on audio- or, preferably, on video-tape. The resulting recordings are then transcribed (think-aloud protocols, or TAPs) and subjected to analysis.

It is important to note, however, that “thinking aloud” as a method of eliciting data is not the same as “thinking aloud” in the everyday sense; it entails more than sitting people down next to tape-recorder and asking them to talk (Jääskeläinen 1999: 9).

3.1. THE STUDY OF THE HUMAN MIND

The think-aloud method has its roots in psychological research.

One of the hardest problems in research dealing with mental process is that the workings of the human mind cannot be observed directly the way some other objects of scientific endeavors can be. Instead, indirect means are necessary, which creates obvious problems for research (Jääskeläinen 1999: 53).

One of the first approaches to the study of the mind (in the late 19th century) was to train people to introspect upon their own thought process. Classical introspection is based on the idea that events that take place in consciousness can be observed, more or less the same way events in the outside world can be. It is a problematic research method, mainly because the events that take place in consciousness, which are to be analyzed and explained, are accessible only to a single observer, who also performs the thought process. The source of data also provides the analysis of the data; therefore the analysis is totally subjective and it is impossible to replicate empirical studies and thereby to settle scientific discussions about thought

12

processes. Due to the built-in limitation of the introspective method, psychologists turn away from it and from all associated theories. But introspection was a central method in studying cognitive processes and consequently psychological research turned away from cognitive processes too (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

Understandable counter-reactions followed. One of them was the behaviorist paradigm (1930s) which promoted psychology as a hard positivist science. Its purpose was to limit psychological research to objectively observable behavior. This entailed abandoning subjective research methods like introspection, because “the objective, i.e. scientific, study of the human behavior could only be based on the analysis of the relationship between external stimuli and behavioral responses” (Jääskeläinen 1999: 55).

Behaviorism dominated American psychology, while European researchers, particularly representatives of the Gestalt Psychology school of thought, had a slightly different view of how to do psychology. Although they also rejected classical introspection as a research method, they wanted to study thought and not just behavioral responses to stimuli. They also developed more sophisticated methods of data collection on the thought process: phenomenological observation, phenomenological introspection, and the method of thinking aloud (Börsch 1986). The beginnings of the cognitive paradigm are usually dated in the mid 1950s and picked up where Gestalt Psychology left off (due to the beginning of the Second World War) (Jääskeläinen 1999).

3. 2. ERICSSON AND SIMON’S MODEL

Thinking aloud as a method for scientific research rests on a solid scientific foundation in cognitive psychology, a science that studies human cognition, i.e. how humans receive, store, manipulate, and use knowledge.

The theoretical framework for TAP experiments is provided mainly by the work of Ericsson and Simon (1984). These scholars base their theory of verbalization on the information-processing approach in cognitive psychology,

13

i.e. they assume that human cognition is information processing. According to Ericsson and Simon’s model, humans keep information in different memory stores, characterized by different access and storage capabilities: short-term memory (STM) present easy access but severely limited storage space, whereas long-term memory (LTM) is characterized by more difficult access and larger storage space (Bernardini 1999).

Information input will first be heeded by the STM and when its capacity and storage time is exhausted, the information is transferred to the LTM. A certain loss both prior and during this transfer is assumed, but it does not seem to be a substantial loss (M. A. Schmidt 2005: 27).

Only information present in STM, that is information which is currently being processed, can be directly accessed and reported; LTM contains information which has left consciousness, but which can later be retrieved back to STM for further processing.

The STM is also called working memory (WM); it is the primary site of the procedural memory. LTM, by contrast, serves as the vessel for the declarative memory (M. A. Schmidt 2005). As far as the translation process is concerned, it is important to consider the function and capacity of the STM because translating relies as much on procedural knowledge as on declarative knowledge. “This distinction is crucial because the cognitive processes, as well as information that is not currently being processed, cannot be reported but must be inferred by the analyst on the basis of the verbalizations” (Bernardini 1999: 2).

The implications of Ericsson and Simon’s model are manifold.

3. 2. 1. IMPLICATIONS OF ERICSSON AND SIMON’S MODEL

First of all, according to Ericsson and Simon’s model, only concurrent verbalization of thoughts exhaustively reflect the mental states of a subject carrying out a relatively long task, which takes longer than ten seconds to complete, according to Ericsson and Simon (Bernardini 1999). It is important to notice that a cognitive process takes longer when the subject thinks aloud.

14

“This means that people are able to slow down the normal process to synchronize it with verbalization” (Someren, Barnard and Sandberg 1994: 33). When the subject has completed the task, part of the information moves

on to LTM, leaving behind retrieval cues in STM: in such cases, it has been found that post hoc verbalization is difficult and often incomplete (Ericsson and Simon, 1993). Moreover, under these circumstances, it can be extremely problematic to exclude the possibility that a subject is interpreting his own thought processes or even generating them anew, instead of retrieving them from LTM.

Secondly, to make sure that the subject actually reports his mental states without distorting them, it is important that he does not feel he is taking part in a social interaction: although conversation is obviously a natural situation, it involves reworking thoughts to conform them to socially established norms; this process might sensibly alter the information attended to (Bernardini 1999). Emotional and motivational factors can produce a cognitive process different from the process that would take place without thinking aloud. “There is not much evidence that thinking aloud adds much to the effect of being studied and evaluated that is inevitable in knowledge acquisition and experimental settings” (Someren, Barnard and Sandberg 1994: 33). The interaction between subject and experimenter (or between subjects) should therefore be avoided or at least reduced to a minimum. There is one other cause for concern: if the subject keeps silent for a long time, the verbalization will become useless, because significant parts of the cognitive process in STM may not be tracked down. To avoid this, the experimenter is allowed to repeat to the subject to think aloud with a short and non-intrusive reminder; Ericsson and Simon propose to use the phrase “keep talking” (Krahmer and Ummelen 2004).

Thirdly, “practice and experience may affect the amount of processing carried out in STM, so that fewer mental states will be available for verbalization to subjects experienced in a task” (Bernardini 1999: 2). This process, known as ‘automation’ refers to the fact that “as particular processes

15

become highly practiced, they become more and more fully automated” (Ericsson and Simon 1984:15) and do not require active processing in working memory, i.e. they are executed at an unconscious level and become less accessible for verbalization. “To give a simple example, a novice driver has to focus all of his attention to driving; after most of the process involved in driving has become automatized, it is possible to engage in a conversation while driving” (Jääskeläinen 1999: 59). These kinds of processes are faster and more efficient than those under conscious control, but they are also less flexible and more difficult to modify at need. However, it is possible to bring at least some automatized processes back to conscious attention; otherwise teaching would be virtually impossible.

There exist several other obstacles on access to process, for example, a heavy cognitive load during a task performance. Due to STM’s storage limitations, subjects tend to stop verbalizing if they have to pay attention to too many things at the same time. “In some cases, processing uses all the available capacity and none is left for producing verbalizations” (Jääskeläinen 1999: 59).

For example, if reasoning takes place in verbal form, verbalizing the working memory’s contents is easy and doesn’t use memory capacity. However, if the information is non-verbal and complicated, verbalization will take time and space in working memory because it becomes a cognitive process itself. Consequently, the report of the original process will be incomplete and the process itself can even be disrupted (Someren, Barnard and Sandberg 1994).

Finally, Ericsson and Simon take into account the effects of personality and personal history over the data collected through TAPs. Individual differences in knowledge and ability to verbalize thoughts can heavily bias the data collected through TAPs. The problem here is the object of study and not the methodology used: individual differences exist, and research should not conceal them. However, it seems advisable to try to limit the effects of

16

individual differences and to take them into account when analyzing the data, in order to obtain more reliable and generalizable data (Bernardini 1999).

All these limitations imply that verbalizations represent but a minute fraction of the total amount of mental activities occurring at any moment in time. However, this does not mean that this fraction would be somehow unimportant or uninteresting for research. Moreover, the fragmentary verbal reports can be completed with other kinds of data, such as questionnaires, process-product comparisons, eye-movements, pauses, etc. (Jääskeläinen 1999).

Thinking aloud is unnatural. Therefore, Ericsson and Simon recommend an initial warm-up session in which subjects are taught to verbalize their thoughts. During this practicing phase, the experimenter should feel free to disrupt the task and talk to the subject, whereas during the experiment he should be very concerned not to interfere. During warming-up

subjects should learn the difference between describing what they are doing (“I now move a disk from here to there”) and thinking aloud (“since this disk is smaller than that one, I put it on another pin first” (Krahmer and Ummelen 2004: 3).

They are also instructed to avoid making analytic comments about their tasks. Verbalizations are non-limited: the participants are instructed to say

aloud what comes into their minds without any restrictions.

3. 3. GOALS

Think-aloud protocols have been used for three types of goals:
1. To find evidence for models and theories of cognitive processes: Newell & Simon for instance, used TAPs for collecting data to develop and support a theory of human problem solving. Many other researchers have been working at the development of models of the cognitive processes involved in writing. One of the most known is Flower and Hayes’ model, presented in 1981. It was

17

the starting point for a discussion about the use of the think-aloud method in writing research.
2. “To discover and understand general patterns of behavior in the interaction with documents or applications, in order to create a scientific basis for designing them” (Krahmer and Ummelen 2004: 1). Carroll, for example, used TAPs to investigate how learners interacted with new software. It has been found that they were annoyed by the huge quantity of irrelevant information contained in tutorial manuals. In fact, manuals appeared not to satisfy the users’ goals and questions. TAPs analyses also showed how software users learn to work with a new system; consequently, researchers were able to develop a new design for software manuals: the minimal manual.

3. To test and revise functional documents and applications such as manuals and websites. Researchers like Schriver and Nielsen used verbal protocols (usability testing, pre-testing, formative testing) to gather users’ information to support the design of a specific product (Krahmer and Ummelen 2004).

4. TAPs IN TRANSLATION STUDIES

The analysis of think-aloud protocols (TAPs) in translation studies began in Europe in the late 1980s. Scholars felt the necessity to develop empirical and inductive methods in order to complement the predominantly deductive and often also normative models of the translation process presented until then, which usually described what ideally happened or rather – with a pedagogical aim – what should happen, in translating. It was researchers like Krings, Königs and Lörscher in Germany, Dechert and Sandrock in Britain, Jääskeläinen and Tirkkonen-Condit in Finland, who began to ask what actually happens when people translate (Kussmaul and Tirkkonen-Condit).

This new trend can be partly explained by developments in the adjacent disciplines: psychology had renewed its interest in the study of the mental process (as opposed to patterns of external behavior) with the consequent choice of appropriate or legitimate methods of research. This change had an

18

impact on psycholinguistic research, including research on second language learning, and, via L2 research, on translation studies (Jääskeläinen 1999).

“There has always been a kind of empirical research, like translation criticism and error analysis, but this was product- and not process-oriented” (Kussmaul and Tirkkonen-Condit: 177). In fact, when comparing the target text with the source text or when looking at errors, one could at best speculate in retrospect about what had occurred in the translator’s mind during translation. What was needed was a way to discover what actually happens, “to get a glimpse into the ‘black box’, as it were” (Kussmaul and Tirkkonen- Condit: 178).

In this sense, viewing translation mainly as a problem-solving activity, some scholars proposed that it should be possible to study it by means of TAPs, and set up experiments to test this hypothesis. The different interests and backgrounds of the researchers involved have resulted in a large variety of independent approaches (Bernardini 1999).

This kind of analyses increases our potential for describing and explaining the translation processes, and thus our theoretical understanding; moreover, they have at least two pedagogical purposes. (1) The different strategies observed in the TAPs may serve as models for successful translating (Lörscher 1992a; Jääskeläinen 1993; Krings 1988; Kussmaul 1993). (2) If translation students are used as subjects, TAPs may be used to find out where they have problems. The data collected can then form a basis for translation pedagogy (Krings, 1988; Kussmaul, 1989a+b, 1994). It might be argued that teachers of translation, from years of experience, already know which strategies to recommend to learners. But sometimes they draw the wrong conclusions from their students’ translations. Teachers may, for instance, have the impression that students have problems with text-comprehension while, when talking to them, they find that students actually have problems expressing what they had understood. TAPs can help teachers to see matters more clearly (Kussmaul and Tirkkonen-Condit).

19

In fact, one of the first areas to apply verbal reports procedures to the study of language use was research on foreign language (FL) learning; other areas were research on writing processes and on FL reading processes. Some of the researches on L2 learning/acquisition have used translation tasks to elicit data on students’ text processing strategies (Gerloff 1986) or on the organization of cognitive planning in a translation task. Consequently, these studies may offer interesting insights and hypothesis for translation-oriented research.

The empirical investigation of the translation process, (data are collected asking subjects to think aloud during a translation task) vary in terms of subject population (language learners, translation students, professional translators), translation task (oral or written translation), text-types (news articles, advertisements, editorials, etc.); source and target languages, access to reference material, translation briefs, limited or unlimited time, etc. In addition, and more importantly, TAP studies offer a lot of definitions of translating, research interest and objectives, and methods of analysis. “Failure to recognize the variety of approaches taken by TAP researchers can lead to misleading over-generalizations (or even discarding all such studies as ‘uninteresting’ for translation studies)” (Jääskeläinen 1999: 39).

It is important to know what are the general aims and frames of reference and the experimental details of different TAP studies, in order to assess their findings and relate them to other kinds of research. The first essential distinction is to see whether the emphasis of a research is on translation studies or psycholinguistics. This means, whether the aim is to understand the nature of translating or whether translation is used as an experimental task to collect data on the nature of language processing (Jääskeläinen 1999).

4. 1. FIRST STUDIES ON FOREIGN LANGUAGE LEARNERS

The very first studies by Sandrock (1982) and Krings (1986) already show the advantages and the limitations of this method of elicitation and set the

20

standards for the design of similar studies. Kings’ extensive study of the translation process of eight advanced students of French demonstrates the immense wealth and richness of data that can be obtained by TAP as well as the necessity to choose among all the possible variables for both the aim and the analysis.

From the point of view of Translation Studies though, the research has a drawback: the participants were not involved in translation as a professional or even potentially professional activity; they were foreign language students and teachers-in-training and translated their tasks the same way they would have translated an ordinary assignment in a language class. In fact, the translation brief specified they should translate in their usual manner.

Thus, the objective of Kings’ study was translating in a pedagogical context or didactic translation, which is a rather different task than translation as a professional activity. Nevertheless, the study provided a number of research questions and categories to apply to analysis as well as a highly fruitful way to use TAP in the study of the translation process (Schmidt 2005: 22).

Gerloff published her study in 1988. She investigated and compared the translation process of three different subject populations: four college students of French, four bilingual speakers English/French without any experience of translation, and four professional translators, normally translating from French into English. The study focused on translation in one direction i.e. from L2 (French) to L1 (English). Gerloff used essentially the same coding and classifying categories as Krings. The most important finding is that more experienced translators (experience here is defined in the context of translating being an innate ability in bilinguals), such as both the professionals and the bilinguals in her sample, do not necessarily translate more easily or faster than the less experienced translators (here defined as the foreign language students). From that, along with other indicators, she concluded that experienced translators are more aware of the difficulty of the problems they find and of their possible solutions; furthermore, they set higher

21

standards for their performance than novices. From this comes the quality of their translations and of their text production.

According to Krings and Gerloff, the results of their experiments are determined by a difference in strategy. Inexperienced translators, in fact, employ more local strategies, i.e. they are concerned only with the fragment they are working on, without considering the text as a whole. Moreover, they don’t relate to their own world-knowledge. More experienced translators, in contrast, use more global strategies, that relate the problem to their world- knowledge, to the text as a whole and to its overall theme.

The two studies also shared other important results: the subjects mostly rendered small syntactic units, working their way through the task in a linear way, i.e. “translation is done proceeding from item A to item B in a text without looking forward or backward further than to the next sentence boundary” (Schmidt 2005: 23).

Lörscher (1991) investigated the translation process in foreign language learners using as subjects of his experiment first- or second-year students of English at the university he was working at (they were not even advanced learners). He assumed that oral translation would provide richer material then written translation. Therefore, he instructed his participants to translate a written text orally and recorded their spoken translations, including all concurrent verbalization. With this research, Lörscher claims to investigate the translation process itself, even if he recognizes that his model does not resemble a “real mediating situation”, as he calls it because:

[…] it is still unknown whether translation processes in real mediating situations are different – in detail or in principle – from translation processes in artificial mediating situations (Lörscher 1991: 4).

Despite the discrepancies between the design and the aim of his study, Lörscher developed a refined model for analyzing TAP, providing a useful tool for further research.

22

In all of these experiments, the subjects were foreign language learners, rather than students of translation, which has received a fair amount of criticism, because their findings can hardly account for professional translators’ performance. However, they have laid the methodological basis for subsequent TAP studies and have provided important information about translating by foreign language learners, which can be used for comparisons between non-professional, semi-professional (translation students) and professional translation, a design feature that can be seen in the studies by Königs 1987, Kussmaul 1998 and Jonasson 1998 (Jääskeläinen 1999).

4. 2. FURTHER STUDIES: DIFFERENT AIMS AND HYPOTHESIS

Following these pioneers, a number of other translation researchers have since used TAP to elicit data for their studies. These studies have different settings and involve different subject populations (translation students, professional translators, teacher of translation, laypersons, bilingual, a combination of these categories); different language pairs (depending partly on where the research has been carried out); different types of task and experimental conditions (translating a written text orally, producing a written translation, translating alone, in pairs or in small groups; translating with o without access to reference material, limited or unlimited available time); different text-types (political satire, newspaper editorials, tourist brochures, government documents) and translation briefs (faithful translation, cultural adaptation, shortening or popularizing the ST, rewriting procedures); different categories of analysis (identification of translation problems and problem- solving strategies, focus on conscious attention, role of affective factors on translation).

“TAP studies on translating could also be conceptualized in terms of their general purposes and the specificity of their hypothesis” (Jääskeläinen 1999: 44). On this basis, they could be divided into first- and second-generation studies; the first group would include those with a relatively general aim of discovering what happens in translation (Krings and Lörscher) or what

23

distinguishes between professional vs. non-professional translation (Jääskeläinen, Tirkkonen-Condit). The second group, in turn, focus on investigating more specific hypotheses, often derived from the findings of the first-generation studies. TAP research carried out at the Savolinna School of Translation Studies makes part of this second kind of studies.

The purpose of the first TAP experiments at Savolinna was to identify differences between professional vs. non-professional translation (Jääskeläinen and Tirkkonen-Condit). The designation of ‘professional’ and ‘non-professional’ referred, misleadingly, to fifth-year and first-year students of translation respectively. However, it has been frequently pointed out that the differences between first-year and fifth-year students’ translation processes may not depend on different levels of translation competence alone, but on other factors, such as differences in their world knowledge (in its quantity, because the quality of world knowledge is naturally different in every single individual). As a consequence, Pöntinen and Romanov (1989) organized a TAP experiment with two subjects: the first one was a teacher of translation and free-lance translator; the second one was a subject specialist. They were about the same age with a high level of education. The data collected showed some interesting differences between the two subjects’ decision criteria: the translator relied more on textual knowledge than the subject specialist (Jääskeläinen 1999).

A further generation of researchers on the translation process turned their interest to even more specific aspects, e.g. the semantic change and the reading and comprehension process involved in translation (Dancette 1994).

Several of the most recent TAP studies on the translation process, are aimed to explore the difference between categories of translators such as professionals, advanced students in translation training programs and language students with respect to their translational behavior (Englund Dimitrova 2005, Norberg 2003). Some of them wanted to discover what kind of linguistic and extra linguistic factors influence the production of “good”

24

translations. Jensen (2000) and Jääskeläinen looked at the influence of routine vs. non-routine tasks on task performance and investigate the differences between professionals and laymen. Künzli (2003) explored the impact of emotional and affective states on subjects’ performance.

Some researchers in Denmark proposed including methods of logging the writing process during translation to develop and corroborate data collected by means of TAP. Their studies point towards a possible design combining different analyzing methods that could be able to elicit and evaluate data telling us more about the complex structures that govern the translation process (Schmidt 2005).

The list of TAP studies presented above shows that it exists a heterogeneous group of investigations. In fact, the first process-oriented research projects started in isolation, independently of each other; therefore they reflect very different translation theoretical frameworks ad research aims.

Furthermore, in the absence of previous research, methods of analysis have been developed to describe a particular body of data. As a result, applying the methods of analysis to other kinds of data has, as a rule, resulted in modifications or in the introduction of new methods of analysis (Jääskeläinen 1999: 46).

On the whole, the presence of different researches has the advantage to shed light on different aspects of different kinds of translation processes. This increases our understanding of the complex mechanisms underlying translation. “Indeed the great variety of TAP approaches has highlighted the fact that ‘the’ translation process does not exist; instead, there are many different translation processes which are the outcome of many kinds of factors. However, the differences in the kinds of data collected, analyses carried out, and the overall goals of research have made it more difficult to test the methods employed in previous experiments.

25

Moreover, due to the difficult and time-consuming methods of data collection and analysis involved in TAP research, the numbers of subjects have remained relatively small (ranging from one to 48) and investigators have been extremely careful in generalizing on the basis of the data collected, even if it would be very important to be able to test research findings and conclusions with those of other studies, particularly at the early stages of process-oriented research (Jääskeläinen 1999).

5. THINKING ALOUD VS. JOINT TRANSLATION

Due to the limitations involved in the use of TAPs, it has been suggested that a better and more natural way to investigate the translation process would be to ask subjects to translate in small groups (“joint translation”, Matrat 1992).

House’s, Matrat’s and Séguinot’s experiments provide data to discuss on the validity of this method.

House asked to German university students of English (not translation students) to translate a text from English into German. One group translated in pairs and another alone, while thinking aloud. The students in the think- aloud session were not trained to spontaneous think aloud with the help of a warm-up task, and this makes it difficult to compare the two bodies of data.

House’s findings show that the students translating in pairs were using more sophisticated strategies. For example, while students in the think-aloud session focused exclusively on lexicon-semantic problems in a text which was chosen for its syntactic difficulty, the student-pairs frequently dealt with grammatical problems.

House concludes that “the introspective data produced by pairs is less artificial, richer in translation strategies and simply much more interesting” (House 1988:95).

But, until a systematic methodological survey is carried out, it can also be speculated that translating in pairs may help externalize knowledge which is poorly employed or access when students are translating alone.

26

Matrat (1992) carried out a systematic comparison of three categories of subjects (novice, advanced and expert translators) performing translation tasks in a think-aloud vs. joint activity translating experiment.

Matrat’s approach is embedded in Vygotsky’s psychological theory that proposes consciousness as “the highest level of organization of mental functions comprising both intellect and affect”, and thus as “the fundamental object of psychological research” (Jääskeläinen 1999: 75).

Vygotsky rejected introspective methods and reducing psychology to the studying of isolated components of mind; he argued that interdisciplinary research could account for the interrelationship between cultural, linguistic and psychological phenomena (Matrat 1992). According to him, consciousness is socially constructed and consequently he proposed that observing joint activity would be the appropriate method (genetic method) to investigate human cognitive processes. He also proposed to introduce obstacles and difficulties into the experimental task in order to disrupt routine methods of problem-solving and, thus to discover new skills.

In Matrat’s experiment, the three groups of students produced a written translation of a written source text from English into Italian (their native language). The same subjects took part in two experiments: first a think-aloud experiment and then a joint translating activity. The source texts were different for the two activities, but to retain the same level of difficulty they were different paragraphs of the same text. The use of dictionary was not allowed and the time was limited. There appears to have been no articulated translation brief. The experimental sessions were video-taped.

The setting of Matrat’s experiments shows that more variables may have contributed to her findings (choice to use text excerpts from the same text, limited time, no access to reference books). Moreover, a problem arises: when the subjects started the joint activity, they were already familiar with the source text.

Matrat compares the collected data in terms of (1) problem definition and structure and (2) strategic processing. The findings indicate that in joint

27

translating, students identified problems more clearly and recognized they have a complex structure. Furthermore, evidence of strategic processing was more easily identifiable than in think-aloud protocols.

As far as TAPs are concerned, advanced students were the best subjects, as their training had provided them with the metalanguage to discuss translation problems. This observation shows Matrat expects the subjects to provide sophisticated analyses, i.e. to introspect rather than to think aloud, which, in turn, reflects her interest in the emergence of metacognition.

“One of the most puzzling findings is that none of the protocols showed evidence of decision-making strategies or decision criteria, whereas other TAP studies contain plenty of verbalizations on decision-making” (Jääskeläinen 1999: 78). In fact, the subjects discussed problems, but were not able to decide on a solution, then moved on and never came back to the problem (Matrat 1992). This may have been the result of time constraint or of the fact that the text was incomplete.

In addition, the subjects’ interpretation of the purpose of the experiment may also have played a role: in one example of joint translation, one of the subjects said that the experimenters were interested in what subjects said and not in how they translated. This comment is important in relation to the methodological comparison: if the subjects felt that their ability to talk about translating was being investigated, they might have been intimidated by the demands of the task when translating alone, while it seems reasonable to assume that tackling the task together (and with some previous experience with the text) would be less face-threatening to the subjects.

In sum, it seems that Matrat’s investigation in not only trying to compare the appropriateness of the two methods of data collection, but also to argue for the appropriateness of Vygotsky’s theory on human consciousness in relation with translation. This complicates the assessment of the validity of her methodological comparison.

28

5. 1. JOINT-TRANSLATION’S LIMITS

Someone could argue that “making people translate together is as artificial as asking them to think aloud while translating, since most translators usually work alone” (Jääskeläinen 1999: 80). For this reason, Séguinot studied the translation processes of two professional translators who were used to work together. Findings show that dialogue protocols illuminate the ‘non-rational’ element in translation: during the translation process, the translators’ discussion shifted to areas which had nothing to do with the task at hand (Séguinot 1996). The findings also “indicate that translation is non- linear and iterative, i.e. the mind keeps looking for alternatives even after a translation problem has been solved” (Jääskeläinen 1999: 80). Furthermore, there is evidence of parallel processing during translating.

Data from joint activity may be richer, more natural and even more interesting than think-aloud reports, but they do not provide access to the solitary translation process. The object of the research is different in the two experimental conditions. Moreover, it seems that joint activity elicits more sophisticated strategies form the subjects. This can be due to the re-activation of automatized processes in the case of professional translators or externalizing unused strategies in the case of translation students or, as House or Matrat argue, that joint activity is better able to capture the underlying mental processes than thinking-aloud. However, on the bases of these studies, the latter conclusion seems premature.

Another problem with joint activities is that they may distort the results. One of the subjects may assume a leading role, because of his personality. Thus, other subjects may accept solutions not because they are better but because they are proposed by the more dynamic person. In other cases, subjects may hold back their ideas for reasons of politeness, or even chivalry. When analyzing the dialogue protocols the researcher should therefore take care to observe only those processes where subjects take an equal part in solution-finding. One way of minimizing this kind of problems would be to choose “matching” subjects, with no psychological or social superiority of one over the other and where personalities are quite similar (Kussmaul, 1995).

29

However, one should be aware of the fact that variables cannot be completely controlled (Kussmaul and Tirkkonen-Condit).

30

6. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

The following section talks about the importance of taking into account subjects’ social-psychological factors, when carrying out a TAP experiment and analyzing the data collected. Variables such as subject’s personal history and emotional factors can result in unexpected behavior by the subjects and alter the results of the experiment.

The whole section is a text taken from Tapping the process: an explorative study of the cognitive and affective factors involved in translating (Jääskeläinen 1999: 137-151), which I have also translated into Italian.

31

SUBJECTS’ BACKGROUND AND SOCIAL-PSYCHOLOGICAL FACTORS

As has been mentioned in the previous sections the unexpected features of the subjects’ behaviour in the experimental task may be explained by their personal histories. In addition, social-psychological factors, such as Goffman’s (1961) notion of role distancing, may also provide explanations. I will begin with a discussion of the subjects’ personal histories as an explaining factor and then move on to describing the types of behaviour which I see as potential displays of role distancing in the present data.

The first example of a subject’s personal history as an explanation deals with one of the non-professional translators, Laura. As was mentioned in section 4. 1., Laura had written her doctoral dissertation in English. In her professional career she had also reported on her research both in English and in Finnish, i.e. she had considerable experience in reporting her own thoughts in two languages. Nida argues (1964: 242) that ‘if a person is to serve as a translator, – he must have had a good deal of experience in language shifting’. Although Laura had had no experience in translating, which she explicitly pointed out in the background questionnaire, she had accumulated a great deal of experience in language shifting. As a consequence, Laura also seemed to have moved away from the ‘school translation’ approach to translating and was able to produce a relatively fluent and idiomatic Finnish text. Furthermore, Laura can also be regarded as an experienced writer, which makes her a less ‘naive’ language user than the other non-professional translators in the present data.

32

BACKGROUND DEI SOGGETTI E FATTORI SOCIO-PSICOLOGICI

Come accennato nelle sezioni precedenti, le caratteristiche inattese del comportamento dei soggetti durante il compito sperimentale possono essere chiarite attraverso la storia personale dei soggetti stessi. Possono fornire spiegazioni anche fattori socio-psicologici, come il concetto di «distanza dal ruolo» delineato da Goffman (2003). Inizierò con un approfondimento sulla storia personale dei soggetti intesa come fattore esplicativo, per poi descrivere i modelli di comportamento che ritengo siano potenziali manifestazioni di distanza dal ruolo, in questo studio.

Il primo esempio di storia personale dei soggetti come fattore esplicativo riguarda uno dei traduttori non professionali, Laura. Come accennato nella sezione 4.1., Laura aveva scritto la sua tesi dottorale in inglese. Nel corso della sua carriera professionale aveva anche scritto relazioni sulla sua ricerca sia in inglese sia in finlandese e aveva quindi notevole esperienza nel riferire i propri pensieri in due lingue. Nida sostiene (1964: 242) che «se una persona svolge la funzione di traduttore, deve avere avuto molta esperienza nel passaggio da una lingua all’altra». Nonostante Laura non avesse esperienza nel campo della traduzione, come ha affermato esplicitamente nel questionario sul background dei soggetti, aveva accumulato molta esperienza nel passaggio da una lingua all’altra. Di conseguenza, sembra anche che Laura si fosse distaccata dall’approccio “scolastico” alla traduzione e fosse in grado di produrre un testo in un finlandese relativamente scorrevole e idiomatico. Inoltre, Laura può essere considerata una professionista della scrittura, il che fa di lei un utente del linguaggio meno “ingenuo” rispetto agli altri traduttori non professionali, in questo studio.

33

However, Laura’s liberal views of translating are not entirely unproblematic. Laura treats the ST as if it were her own creation; as a result, her translation is factually vague, even incorrect, at places. This can be illustrated by two examples. The first of these relates to the translation of the ST phrase ‘mop all the excess fats’. Laura translated this as poistaa kaikki ylimääräiset rasvakudokset (‘remove all the excess fatty tissues’). Laura’s verbalisations indicate that she did not stop to ponder what kind of fats are meant here, but she simply weighed alternative Finnish expressions, rasvakerrokset and rasvakudokset (‘layers of fat’ and ‘fatty tissues’), and eventually chose the one which to her seemed to be more idiomatic Finnish. As a result, her translation of the phrase is factually incorrect, since the ST is concerned with the types of fats contained in blood, for instance, and not with the visible fatty tissues in a human body. Laura may also have been misled by the headline, which talks about staying slim, or she may have failed to utilise textual information which would have made clear the nature of the ‘fats’ referred to.

The second example deals with Laura’s translation of the expression ‘to feed a diet to rats’. Her solution runs as follows: rotat noudattivat epätavallisen rasvaista ruokavaliota (‘rats followed an unusually fatty diet’). Here, as elsewhere, Laura’s main concern was to find idiomatic TL expressions by using the ST only as a relatively flexible framework for the search. As a consequence, Laura’s translation in the above example involves a shift in meaning; the Finnish expression noudattaa roukavaliota implies that the rats chose be on a fatty diet, instead of being forced to eat whatever the experimenters decided to feed them.

34

Tuttavia, la concezione libera che Laura ha della traduzione non è del tutto acritica. Laura tratta il prototesto come fosse una creazione propria; ne consegue una traduzione di fatto vaga, in alcuni punti anzi scorretta. Questo può essere dimostrato attraverso due esempi. Il primo riguarda la traduzione della frase «mop all the excess fats» [eliminare tutti i grassi in eccesso]. Laura ha tradotto «poistaa kaikki ylimääräiset rasvakudokset» («rimuovere tutti i tessuti adiposi in eccesso»). Come indicano le verbalizzazioni, Laura non si è fermata a pensare a che tipo di grassi alludesse il testo, ma ha semplicemente valutato le alternative espressioni finlandesi, «rasvakerrokset» e «rasvakudokset» («strati di grasso» e «tessuti adiposi»), e infine ha scelto quella che secondo lei era la più idiomatica in finlandese. Ne risulta una traduzione denotativamente scorretta, visto che il prototesto prende in considerazione i tipi di grassi contenuti nel sangue, per esempio, ma non i tessuti adiposi visibili nel corpo umano. Probabilmente Laura è stata fuorviata dal titolo, che parla di mantenere la linea, o forse non ha utilizzato le informazioni testuali che avrebbero chiarito la natura dei grassi cui si fa riferimento.

Il secondo esempio riguarda il modo in cui Laura ha tradotto l’espressione «to feed a diet to rats» [sottoporre i ratti a una dieta]. Ha risolto in questo modo: «rotat noudattivat epätavallisen rasvaista ruokavaliota» («i ratti hanno seguito una dieta insolitamente grassa»). Qui, come in altri punti, la preoccupazione principale di Laura è stata quella di trovare espressioni idiomatiche da inserire nel metatesto, servendosi del prototesto solo come un modello di riferimento relativamente flessibile per la ricerca. Di conseguenza, la traduzione dell’espressione nell’esempio comporta un cambiamento di significato; il finlandese «noudattaa roukavaliota» significa che i ratti hanno scelto di seguire una dieta ricca di grassi, e non che sono stati costretti a mangiare tutto quello che gli sperimentatori gli davano.

35

In sum, Laura seems to work exclusively with her own ‘text’ as it were and ignore what is the ST saying1. While translators always work with their own interpretation of the ST, it seems that Laura has taken this one step further: she is working with her own response to the ST and not checking it against the ST. Tirkkonen-Condit (1992) reports on a similar finding in an experiment with a professional translator and a subject specialist as subjects (Pöntinen and Romanov 1989). One of the significant differences between the two was that while the subject specialist relied on her own world knowledge, the professional translator used a great deal of textual knowledge to be able to determine what the ST was saying. Laffling (1993: 124f.), in turn, draws attention to a similar incident reported in Krings (1988a) of a professional translator overlooking textual information and relying (misguidedly) on her own encyclopedic knowledge instead. These findings illustrate the complicated nature of translating; while understanding a text is necessarily subjective, in translation the subjective interpretation is usually checked against the ST to maintain a balance between the ST author’s ideas and the translator’s interpretation of them. In sum, Laura’s experience in language shifting seems to have been a double-edged sword; on the one hand, it has freed her from the confines of the ST and helped her produce a relatively fluent Finnish text. On the other hand, Laura ignores the ST to such an extent that her translation contains wrong information.

1 The two examples discussed here differ in their gravity as translation ‘errors’. The former I would regard as an error because it changes the meaning; i.e. it promises a slimming effect which is not in the text. (The headline may have influenced this interpretation as well). The latter, however, I would consider as a borderline case; although it gives the wrong idea, the effect is humorous rather than disastrous, which could be acceptable in a text to be published in the target column.

36

In breve, pare che Laura lavori, per così dire, esclusivamente con il proprio “testo” ignorando il contenuto del prototesto.2 Mentre i traduttori lavorano sempre con la propria interpretazione del prototesto, pare che Laura abbia fatto un passo avanti: lavora con la sua personale risposta al prototesto senza confrontarla con il prototesto. Tirkkonen-Condit (1992) parla di un risultato simile in un esperimento che aveva come soggetti un traduttore professionale e una specialista in materia (Pöntinen e Romanov 1989). Una delle differenze più significative tra i due era che mentre la specialista in materia si basava sulla propria conoscenza del mondo, il traduttore professionale utilizzava moltissime informazioni testuali per essere in grado di determinare il contenuto del prototesto. Laffling (1993: 124f.), a sua volta, pone l’attenzione su un caso simile descritto in Krings (1998a) riguardo a una traduttrice professionale che ignorava le informazioni testuali basandosi invece (in modo fuorviante) sulla propria cultura enciclopedica. Questi risultati illustrano la complicata natura del processo traduttivo; mentre la comprensione di un testo è necessariamente soggettiva, nella traduzione, l’interpretazione soggettiva viene solitamente messa a confronto con il prototesto, per mantenere un equilibrio tra le idee dell’autore del prototesto e l’interpretazione delle stesse da parte del traduttore. Per concludere, l’esperienza di Laura nel passare da una lingua all’altra si è rivelata un’arma a doppio taglio: da una parte, l’ha liberata dai vincoli del prototesto e l’ha aiutata a produrre un testo in un finlandese relativamente scorrevole; dall’altra, Laura ignora il prototesto a tal punto che la sua traduzione contiene informazioni errate.

2 I due esempi qui analizzati differiscono per la loro gravità di “errori” di traduzione. Considererei il primo un errore, perchè comporta un cambiamento del significato; infatti, promette un effetto dimagrante, non menzionato nel testo (questa interpretazione potrebbe anche essere stata influenzata dal titolo). Tuttavia, considererei il secondo un caso limite; nonostante trasmetta l’informazione sbagliata, l’effetto è comico e non disastroso, e potrebbe essere accettato in un testo da pubblicare in quel periodico.

37

The second example of personal history as an explanation concerns Penny, a professional translator whose translation was rated as ‘mediocre’. Penny’s verbalisations as well as her comments in the follow-up letter (see examples below) imply that her experience with translating medical texts resulted in her translating for the wrong audience in the experiment. This observation is linked to the effects of the experimental situation. In cognitive psychology (e.g. Saariluoma 1988b: 56), it has been observed that in problem- solving situations subjects often make so-called cognitive errors, i.e. the subjects do not perceive the situation correctly and, as a result, are not able to collect and utilise all the information relevant to successful task performance. Cognitive errors take place in ‘natural’ problem-solving situations, too, but it stands to reason that the additional strain created by the experimental situation might increase their probability.

Evidence of Penny’s misinterpretation of the task is shown in example (4). Here Penny decides to retain the original English explanation of ‘NADPH’ in the translation, because she thinks that the readers of the translation will be familiar with the acronym. This implies that the potential readers Penny has in mind were experts in medicine rather than ordinary newspaper readers.
(4) ja (.) sitten laitan sulkuihin ihan tos englanninkielisessä

kirjotusasuasussaan tää nicotineamide adenine dinucleotide phosphate hybri-hybridi
mä en tietäs muita mitää muuta ku että se on fosfaattihybridi mutta (2.0) mut touta (1.0) mä luulen että (.) et et ne ihmiset jotka (3.0) tai olenkin varma et et (.) et joille toi NADPH jotaki tarkottaa ni (1.0) ni ne he (.) he tietää sen ihan tolla lyhenteellä (.) (Penny: P)

38

Il secondo esempio di storia personale come fattore esplicativo riguarda Penny, una traduttrice professionale la cui traduzione è stata giudicata «mediocre». Le verbalizzazioni di Penny e i commenti contenuti nella lettera di follow-up (vedi esempio sottostante) implicano che la sua esperienza nel tradurre testi medici l’ha indotta a rivolgere la traduzione dell’esperimento a un pubblico non adeguato. Quest’osservazione è legata all’influenza esercitata dalla situazione sperimentale. Nella psicologia cognitiva (per esempio, Saariluoma 1988b: 56), è stato osservato che in situazioni di problem-solving i soggetti commettono spesso i cosiddetti «errori cognitivi»; non interpretando la situazione nel modo corretto, non sono in grado di raccogliere e utilizzare tutte le informazioni rilevanti per svolgere con successo il compito. Si fanno errori cognitivi anche in situazioni di problem-solving “naturali”, ma va da sé che la maggiore tensione creata dalla situazione sperimentale può aumentare la loro occorrenza.

L’esempio (4) fornisce alcune prove del travisamento da parte di Penny. Qui Penny decide di mantenere la spiegazione inglese originale di «NADPH», perchè pensa che i lettori della traduzione conoscano l’acronimo. Questo implica che i lettori modello che Penny aveva in mente fossero esperti di medicina e non normali lettori di un giornale.
(4) ja (.) sitten laitan sulkuihin ihan tos englanninkielisessä

kirjotusasuasussaan tää nicotineamide adenine dinucleotide phosphate hybri-hybridi

mä en tietäs muita mitää muuta ku että se on fosfaattihybridi mutta (2.0) mut touta (1.0) mä luulen että (.) et et ne ihmiset jotka (3.0) tai olenkin varma et et (.) et joille toi NADPH jotaki tarkottaa ni (1.0) ni ne he (.) he tietää sen ihan tolla lyhenteellä (.) (Penny: P)

39

and (.) then I’ll put that in brackets using that English spel- spelling this NICOTINEAMIDE ADENINE DINUCLEOTIDE PHOSPHATE HYBRI-hybride
I wouldn’t know any other parts except that it is phosphate hybride but (2.0) but well (1.0) I think that (.) that that those people who (3.0) or actually I’m sure that (1.0) those for whom that NADPH means something (1.0) that that they (.) will be familiar with the abbreviation

As Penny did not refer explicitly to the translation brief during the experiment, it was underlined in the post-experimental questionnaire (cf. section 4. 4.). In the post-experimental stage, Penny crossed out the English explanation of ‘NADPH’ as well as the source reference to ‘Experientia’. In the follow-up letter Penny gave the following comment (my translation from English) on both omissions:

(5) I leave these out now that I know where the translation will be published. Somehow I thought in the experiment that the intention was to produce a translation which would be as faithful to the original as possible. Therefore I did not ask, at least not explicitly, where the translation will be published. (Penny: P)

Penny’s comment corroborates the assumption that she ignored the task description in the experiment. In fact, she seems to suspect that she has been deliberately misled in this respect. It is highly probable that when Penny saw, in the somewhat unnerving experimental situation, what the source text dealt with, she immediately slipped into her old familiar role as a medical translator.

40

e (.) allora quello lo metto tra parentesi usando quello spel- spelling inglese questo NICOTINEAMIDE ADENINE DINUCLEOTIDE PHOSPHATE HYBRI-hybride
non saperi cosa siano tutte le altre parti a parte che è un fosfato ma (2.0) ma be’ (1.0) penso che (.) che che quelle persone che (3.0) o a dire il vero sono sicura che (1.0) coloro per i quali quel NADPH significa qualcosa (1.0) che loro loro (.) conosceranno l’abbreviazione

Visto che, durante l’esperimento, Penny non ha fatto esplicitamente riferimento al translation brief, ciò è stato sottolineato nel questionario post- sperimentale (cfr. sezione 4.4.). Nella fase post-sperimentale, Penny ha cancellato la spiegazione inglese di «NADPH» così come la fonte di riferimento «Experientia». Nella lettera di follow-up, Penny ha commentato come segue (mia traduzione dal finlandese) su entrambe le omissioni:

(5) Ora che so dove verrà pubblicata la traduzione, lascio via queste. Per qualche ragione, durante l’esperimento, ho pensato che l’intenzione fosse quella di produrre una traduzione che fosse fedele il più possibile all’originale. Perciò non ho chiesto, o per lo meno non esplicitamente, dove sarebbe stata pubblicata la traduzione (Penny:P)

Il commento di Penny conferma l’ipotesi secondo la quale avrebbe ignorato la descrizione del compito dell’esperimento. Infatti, in questo senso, sembra che Penny sospetti di essere stata fuorviata deliberatamente. È molto probabile che, all’interno di una situazione sperimentale alquanto snervante, quando ha visto di che cosa trattava il prototesto, Penny sia immediatamente ricaduta nel suo vecchio e familiare ruolo di traduttrice di testi medici.

41

As a result, she overlooked the translation brief and translated the text for a wrong target group, which may explain the lower-than-expected quality of her translation.3 Penny’s behaviour seems a particularly conspicuous example of a cognitive error, i.e. misinterpreting the situation and therefore not being able to use all the information relevant to successful task performance. However, and somewhat more alarmingly, Penny’s implicit assumption that a faithful translation was required could also reflect her understanding (and her experiences) of the variety of translating prevailing in translator training.

The third example of the role of personal history relates to Lucy’s (professional translator) poor success in the experimental task. Lucy differed from the other professional translators in terms of her occupation; she worked as a ‘business correspondent’, while Fran, John and Penny worked as free lance translators at the time. Lucy also reported that she worked with four non-native languages, whereas the free lance translators reported only two (in fact, Fran reported that she worked almost solely with English). As a consequence, the working conditions of Lucy vs. the other professionals can be assumed to be quite different. According to Toury (1984: 191), ‘the norms which govern [the] ‘well-formedness’ of translated utterances involve, like any other norm, sanctions’. The nature of these sanctions, which partly determine how the translator approaches each translation task, depends on the nature of each translating situation.

3 In spite of the ‘cosmetic’ revisions (i.e. the above-mentioned omissions), Penny’s translation remained too difficult for the target column. It is possible that Penny used heavy structures with low readability, because she was translating for an expert audience.

42

Di conseguenza, ha ignorato il translation brief e ha tradotto il testo per un lettore modello errato, fatto che spiegherebbe perchè la qualità della sua traduzione deluda le aspettative.4 Il comportamento di Penny sembra un esempio particolarmente evidente di errore cognitivo, ossia travisare la situazione e quindi non essere in grado di usare tutte le informazioni rilevanti per una buona riuscita del compito. Tuttavia, e in modo più allarmante, il fatto che Penny abbia implicitamente supposto che venisse richiesta una traduzione fedele, riflette la sua conoscenza (e la sua esperienza) del tipo di traduzione prevalente nella formazione professionale dei traduttori.

Il terzo esempio del ruolo della storia personale riguarda gli scarsi risultati ottenuti da Lucy (traduttrice professionale) durante il compito di traduzione sperimentale. Lucy si distingueva dagli altri traduttori professionali per la sua occupazione: era corrispondente commerciale, mentre Fran, John e Penny al momento erano traduttori free lance. Lucy ha dichiarato di lavorare con quattro lingue B, mentre i traduttori free lance solo con due (in realtà, Fran ha dichiarato di lavorare quasi esclusivamente con l’inglese). Di conseguenza, potremmo ipotizzare che le condizioni di lavoro di Lucy fossero abbastanza diverse rispetto a quelle degli altri professionisti. Secondo Toury (1984: 91), «le norme che governano la “bella forma” delle frasi tradotte implicano, come qualsiasi altra norma, delle sanzioni». La natura di queste sanzioni, che in parte determinano il tipo di approccio del traduttore ad ogni lavoro di traduzione, dipende dalla natura di ogni situazione traduttiva.

4 Nonostante la revisione “superficiale” (le omissioni sopraccitate), la traduzione di Penny è ancora troppo difficile per il periodico a cui è destinata. È possibile che Penny abbia usato delle strutture complicate con un basso grado di leggibilità, perché stava traducendo per un pubblico esperto.

43

Even though Toury clearly refers to translation quality (‘well-formedness’) here, it could be argued that the demands and sanctions imposed upon translators often relate to both quantity and quality of translating. Usually the translator must compromise between the opposed demands of quality and quantity, but, in some translating situations the emphasis is clearly on quantity, that is, the translator is expected to produce enormous quantities of text and to do it fast.

Lucy’s behaviour in the experiment seems to indicate that the sanctions imposed upon Lucy as a translator have emphasised speed and efficiency to such an extent that the quality of the product is affected. Lucy’s attitude towards the use of time can be illustrated by her comment in our telephone conversation about scheduling the experiment. I told Lucy that the experiment would take about one hour. When she found out how short the source text was, she burst into laughter and said: ‘If I spent one hour for translating such short texts I would’ve been fired ages ago!’ Lucy’s comment points to a ‘quantitative’ attitude to translation, i.e. a short source text will take only a short time to translate. In contrast, a ‘qualitative’ attitude to translation would imply, among other things, that before any estimate can be made as to how long the translation process is likely to take, one should at least see the source text. Moreover, Lucy’s above comment reveals the nature of the sanctions imposed upon her: ‘If you do not work fast, you will be fired’.5

Lucy’s attitudes can also be observed in the excerpt in example (6) in which she is working on the medical term ‘NADPH (nicotineamide adenine dinucleotide phosphate hybride)’.

5 Here we could also talk about translational ‘sub-cultures’ to refer to the translational norms prevailing in different working environments (cf. chapter 6)

44

Anche se Toury si riferisce chiaramente alla qualità della traduzione (“bella forma”), qui, si può affermare che le esigenze e le sanzioni imposte ai traduttori spesso riguardano sia la quantità sia la qualità della traduzione. Solitamente il traduttore deve trovare un compromesso tra le esigenze opposte di qualità e quantità, ma in alcune situazioni traduttive l’enfasi è chiaramente posta sulla quantità, quindi ci si aspetta che il traduttore produca enormi quantità di testo, e che lo faccia velocemente.

Il comportamento di Lucy durante l’esperimento sembra indicare che le sanzioni imposte al suo ruolo di traduttrice hanno enfatizzato la velocità e l’efficienza a tal punto da compromettere la qualità del prodotto. L’atteggiamento di Lucy riguardo all’uso del tempo può essere chiarito dal suo commento durante la nostra telefonata per la programmazione dell’esperimento. Ho detto a Lucy che l’esperimento sarebbe durato circa un’ora. Quando ha visto quanto era breve il testo, è scoppiata a ridere e ha detto: «Se ci mettessi un’ora a tradurre un testo così breve, mi avrebbero licenziata da un bel pezzo!». Il commento di Lucy rivela un approccio “quantitativo” alla traduzione: la traduzione di un prototesto breve dovrà richiedere un lasso di tempo breve. Al contrario, un approccio “qualitativo” alla traduzione implicherebbe, tra le altre cose, che prima di poter avanzare qualsiasi tipo di ipotesi sul tempo che il processo traduttivo potrebbe richiedere, bisognerebbe almeno leggere il prototesto. Inoltre, il commento di Lucy sopraccitato, rivela la natura delle sanzioni a lei imposte: «Se non lavori in fretta, verrai licenziata».6

Possiamo osservare l’atteggiamento di Lucy nell’estratto portato come esempio (6) nel quale sta lavorando al termine medico «NADPH (nicotineamide adenine dinucleotide phosphate hybride)».

6 Qui si potrebbe anche parlare di “sottoculture” traduttive, per far riferimento alle norme traduttive prevalenti nei diversi ambienti di lavoro (cfr. Capitolo 6)

45

After writing down the acronym, Lucy reads aloud the first two components of the explanation, after which she points out that the easiest way of solving the problem would be to call up a doctor. Lucy makes this decision rather quickly (in two or three seconds) and effortlessly (i.e. it is clearly a non-problematic decision).

(6) jonka lyhenne (5.0) on N A P (1.0) eiku D (.) P H (2.0) nikotiiniamidi adeniini ni ni di di di (1.0)

ja tätä tällästä minä en edes etsi sanakirjasta koska (1.0) hyvin paljon helpommalla pääsee ku soittaa jollekii lääkärille (2.0) (Lucy:P)

whose abbreviation (5.0) is N A P (1.0) no D (.) P H (2.0) nicotineamide adenine ne ne de de de (1.0)

and this sort of a term I won’t even look for in a dictionary because (1.0) you get off much more easily when you call up some doctor

Example (6) illustrates Lucy’s inclination to high efficiency; she does not want to waste time on trying to find the Finnish term in reference books and simply points to the easiest and quickest way to solve the problem. Admittedly, asking for expert help with terminological problems is in principle sound professional practice. However, Lucy did not call up a doctor to check the Finnish term; thus her translation remained incomplete. This also seems to imply that she was not motivated enough to produce a refined translation product (cf. section 5. 2. 2. 3.).

On the basis of these observations it can be argues that Lucy’s view of the qualities of a good translator seems to be more or less quantitative; that is, she seems to place most weight on speed and efficient problem-solving in translation.

46

Dopo aver scritto l’acronimo, Lucy legge ad alta voce le prime due parole della spiegazione, dopo di che fa notare che il modo più semplice per risolvere il problema sarebbe telefonare a un dottore. Lucy prende questa decisione abbastanza in fretta (in due o tre secondi) e spontaneamente (è chiaramente una decisione non problematica).

(6) jonka lyhenne (5.0) on N A P (1.0) eiku D (.) P H (2.0) nikotiiniamidi adeniini ni ni di di di (1.0)

ja tätä tällästä minä en edes etsi sanakirjasta koska (1.0) hyvin paljon helpommalla pääsee ku soittaa jollekii lääkärille (2.0) (Lucy: P)

la cui abbreviazione (5.0) è N A P (1.0) no D (.) P H (2.0) nicotinamide adenin ne ne di di di (1.0)
e questo genere di termini non lo cercherò nemmeno sul dizionario perchè (1.0) perchè te la cavi molto più semplicemente se chiami un dottore

L’esempio (6) dimostra l’inclinazione di Lucy verso l’alta efficienza; non vuole sprecare tempo cercando di trovare il termine finlandese in testi di consultazione e semplicemente indica il modo più facile e veloce di risolvere il problema. In verità, chiedere l’aiuto di un esperto per i problemi terminologici è una pratica professionale valida. Tuttavia, Lucy non ha chiamato un dottore per controllare il termine finlandese e, di conseguenza, la sua traduzione è rimasta incompleta. Questo sembra anche implicare che non era abbastanza motivata per produrre una traduzione raffinata (cfr. sezione 5.2.2.3.).

Sulla base di queste osservazioni, è possibile sostenere che la concezione che Lucy ha delle qualità di un buon traduttore è per lo più quantitativa; infatti, in ambito traduttivo, sembra dare più peso alla velocità e all’efficienza nel problem-solving.

47

These are naturally desirable qualities of all translators; however as far as the experimental translation task is concerned, the emphasis on quantity has clearly resulted in low quality. However, it should be stressed that Lucy’s poor success in translating may be limited to the experimental situation; her conduct may be successful in translating routine texts on the job.

Lucy’s nonchalant translational behaviour can also be explained through social-psychological factors, namely by looking at the subjects’ role behaviour in the experiment. It seems that role theory, particularly the notion of role distance (Goffman 1961)7 can offer useful insights for understanding the subjects’ behaviour (see also Jääskeläinen 1996b).

In role theory human behaviour is analysed in terms of the roles people perform in society. Goffman (1961: 93) defines roles as ‘the typical response of individuals in a particular position’. However, people do not always produce ‘the typical response’ expected of them, i.e. people do not always live up to their roles. Goffman therefore maintains that typical roles must ‘be distinguished from the actual role performance of a concrete individual in a given position’ and, it could be added, in a given situation. Roles carry with them a large array of expectations which serve to identify individuals; in a sense, we are defined (correctly or incorrectly) by our roles. Furthermore, roles involve norms which govern the behaviour of individuals in particular positions. Consequently, roles are closely related to issues of self-image and the image conveyed to other people, which may or may not coincide. According to Goffman (1961: 87):

7 I am grateful to Stephen Condit for bringing this reference to my attention.

48

Queste sono qualità naturalmente auspicabili in tutti i traduttori; tuttavia, per quanto riguarda il compito di traduzione sperimentale, l’enfasi sulla quantità ha chiaramente portato a una bassa qualità. Ad ogni modo, bisogna sottolineare che l’esito mediocre ottenuto da Lucy nella traduzione potrebbe essere limitato alla situazione sperimentale; in ambito lavorativo, il suo comportamento potrebbe portare risultati positivi nella traduzione di testi di routine.

Il comportamento disinvolto di Lucy nel tradurre può essere chiarito anche attraverso fattori socio-spicologici, ossia osservando il comportamento di ruolo dei soggetti durante l’esperimento. Pare che la teoria dei ruoli, in particolare il concetto di distanza dal ruolo (Goffman 2003)8, possa offrire intuizioni utili per comprendere il comportamento dei soggetti (vedi anche Jääskeläinen 1996b).

Nella teoria dei ruoli, il comportamento umano è analizzato in base al ruolo che le persone svolgono nella società. Goffman (2003: 108) definisce il ruolo come «la risposta tipica degli individui che si trovano in una posizione particolare». Tuttavia, le persone non sempre producono «la risposta tipica» che da loro ci si aspetta, cioè non sempre tengono fede al loro ruolo. Perciò Goffman sostiene che «si deve distinguere il ruolo tipico dall’esecuzione di ruolo effettiva da parte di un individuo concreto in una data posizione» e, potremmo aggiungere, in una data situazione. I ruoli portano con sé una lunga serie di aspettative che servono a identificare gli individui; in un certo senso, siamo definiti (in modo corretto o no) in base ai nostri ruoli. Inoltre, i ruoli implicano norme che governano il comportamento degli individui in particolari posizioni. Di conseguenza, sono strettamente legati a questioni riguardanti l’immagine di sé e l’immagine trasmessa agli altri, che possono coincidere o no. Secondo Goffman (2003: 103):

8 Sono riconoscente a Stephen Condit per aver sottoposto questo riferimento alla mia attenzione.

49

— in performing a role the individual must see to it that the impressions of him that are conveyed in the situation are compatible with [the] role-appropriate personal qualities effectively imputed to him: a judge is supposed to be deliberate and sober; a pilot, in a cockpit, to be cool; a book-keeper to be accurate and neat doing his work. These personal qualities, — provide a basis of self-image for the incumbent and a basis for the image that his role others9.

In terms of role theory the subjects in the present study were faced with different situations, the professional translators were acting in their familiar role of a ‘translator’ which, presumably, forms a part of their self-image. The non-professional translators, in turn, were asked to act in an unfamiliar role. As a result, there were two kinds of constraints operating within the experimental group. For the professional translators the experimental situation is potentially face-threatening, because it entails exposing a part of their ‘self’ to outside observation. The non-professionals, in turn, may have found the situation threatening because they were asked to perform a role which was outside their competence. Instead, as adults they possessed other roles by which they wished to be defined.

To describe actual role performances of individuals (instead of typical roles on the basis of observing groups of people), Goffman introduces a number of new role concepts (1961: 95ff.), of which the notions of ‘role distance’ and ‘attachment to a role’ seem to have direct relevance to explaining the subjects’ behaviour in the present study.

9 “Role others” refer to the other people invvolved in the situation where roles are performed, i.e. “relevant audiences” (Goffman 1961: 85).

50

[…] nell’eseguire un ruolo, l’individuo deve far sì che le impressioni di se stesso che vengono comunicate nella situazione siano compatibili con le qualità personali appropriate al ruolo che gli sono attribuite nei fatti: si presume che un giudice sia ponderato e non ubriaco; un pilota in una cabina di pilotaggio non deve apparire agitato; un contabile dev’essere preciso e ordinato nel fare il suo lavoro.

Queste qualità personali, […] forniscono una base per l’immagine del sé, e una base per l’immagine che avranno su di lui i suoi altri di ruolo10.

Per quanto riguarda la teoria dei ruoli, i soggetti di questo studio sono stati sottoposti a diverse situazioni. I traduttori professionali eseguivano il loro abituale ruolo di traduttori che, presumibilmente, fa parte della loro immagine di sé. Ai traduttori non professionali, a loro volta, è stato chiesto di eseguire un ruolo non abituale. Di conseguenza, sul gruppo sperimentale agivano due forzature. Per i traduttori professionali la situazione sperimentale è potenzialmente face-threatening, in quanto richiede l’esposizione di una parte del loro Sé all’osservazione esterna. I traduttori non professionali, a loro volta, potrebbero aver trovato la situazione minacciosa, perchè è stato chiesto loro di svolgere un ruolo al di fuori della loro competenza. In quanto adulti, invece, possedevano altri ruoli in base ai quali desideravano essere definiti.

Per descrivere le effettive performance di ruolo degli individui (anziché il ruolo tipico, sulla base dell’osservazione di gruppi di persone), Goffman introduce alcuni nuovi concetti di ruolo (2003: 105), tra cui i concetti di «distanza dal ruolo» e «attaccamento a un ruolo» sembrano particolarmente rilevanti per spiegare il comportamento dei soggetti in questo studio.

10 «Altri di ruolo» si riferisce alle altre persone coinvolte nella situazione all’interno della quale si svolgono i ruoli, cioè «pubblici rilevanti» (Goffman 1961: 85).

51

Goffman uses the notion of role distance ‘to refer to [the] actions which effectively convey some disdainful detachment of the performer from a role he is performing’ (1961: 110). In contrast, attachment to a role is described as follows (1961: 89)

The self-image available for anyone entering a particular position is one of which he may become affectively and cognitively enamoured, desiring and expecting to see himself in terms of the enactment of the role and the self-identification emerging form this enactment.

As a rule, people are attached to the roles they perform regularly. In fact, Goffman points out that it is considered to be ‘sound mental hygiene for an individual to be attached to the role he performs’ (1961: 89f.). However, on some occasions it may be equally necessary, partly in terms of ‘mental hygiene’, to express detachment from the role which is being performed (see examples below).

Role distancing can be manifested by explanations, apologies or joking which are, according to Goffman, ‘ways in which the individual makes a plea for disqualifying some of the expressive features of the situation as sources of definitions of himself’ (1961: 105). The reasons for expressing role distance, i.e. the functions of role distancing, may vary greatly, depending on the role performer and on the situation. Expressions of role distance may show a general detachment of the role (‘This is not the real me’); alternatively, role distance can also be a momentary escape from a role, to which the role performer is in fact attached. The function of the latter kind of role distance can be, for instance, to secure the functionability of a whole system of roles, which Goffman calls ‘situated activity systems’, such as a surgical operation (Goffman 1961: 126ff.).

52

Goffman usa il concetto di «distanza dal ruolo» «per descrivere atti che comunicano efficacemente un certo sprezzante distacco dell’esecutore da un ruolo che sta eseguendo» (2003: 127). Al contrario, l’attaccamento a un ruolo è descritto come segue (2003: 105):

L’immagine di sé che viene offerta da una certa posizione a chi la occupa può essere qualcosa di cui ci si innamora col cuore e con l’intelletto; non si aspetta altro che di calarsi nel ruolo e di sfruttare i vantaggi in termini di identità che ciò può dare.

Di norma, le persone sono attaccate al ruolo che svolgono regolarmente. In realtà, Goffman fa notare che si considera «buona igiene mentale per un individuo sentirsi attaccato al ruolo che svolge» (2003: 105.). Tuttavia, in alcune occasioni potrebbe essere ugualmente necessario, in parte in termini di «igiene mentale», esprimere la distanza dal ruolo che si sta svolgendo (vedi esempio sottostante).

La distanza dal ruolo può manifestarsi attraverso spiegazioni, scuse o battute che sono, secondo Goffman, «modi in cui l’individuo pretende di screditare alcuni degli aspetti espressivi della situazione in quanto fonti di definizione del suo Sé» (2003: 121). I motivi della manifestazione della distanza dal ruolo, cioè le funzioni della distanza dal ruolo, possono variare molto, in base all’esecutore del ruolo e alla situazione. Le manifestazioni della distanza dal ruolo possono mostrare un generale distacco dal ruolo («questo non è il vero me»); alternativamente, la distanza dal ruolo può anche essere una fuga momentanea dal proprio ruolo, al quale l’esecutore è di fatto attaccato. La funzione dell’ultimo tipo di distanza dal ruolo può essere, per esempio, quella di assicurare la funzionalità di un intero sistema dei ruoli, che Goffman chiama «sistema situato di attività», come le operazioni chirurgiche (Goffman 2003: 111.).

53

As think-aloud experiments cannot be defined as ‘situated activity systems’ in the same sense as surgical operations, the manifestations of role distancing in the present data seem to be connected to the function of role distancing as a form o psychological self-defence. Conspicuous displays of role distancing were observable only in the new data, and in the non-professional subjects’ behaviour in particular. There are two potential reasons for the apparent absence of displays of role distancing in the students’ translation processes. First, Goffman maintains (1961: 139f.) that learners are granted certain liberties in the period of learning, i.e. in the period of ‘role-taking’. The role-taker is allowed to make mistakes which would otherwise be considered discreditable, because ‘he has a learner’s period of grace in which to make them – a period in which he is not yet quite the person he will shortly be, and, therefore, cannot badly damage himself by the damaging expression of his maladroit actions’ (1961: 139). It seems possible that the students of translation see themselves as learners and, therefore, do not feel threatened by exposing themselves to observation n the experimental situation. Second, Goffman argues (1961: 109) that ‘immediate audiences figure very directly in the display of role distance’. In the two parts of my experiment, the immediate audience, i.e. the experimenter, may have occupied a slightly different role. In the first sessions, which were organised to collect data for my pro gradu thesis, the experimenter was ‘just a fellow student’ and, as a result, did not pose any kind of thereat to the students acting as subjects. In the new sessions, in addition to all the subjects having more firmly established roles in society, the experimenter as ‘a researcher’ might also have occupied a slightly different position, which, in turn, might have created a more face-threatening situation favourable to expressions of role distance.

54

Dato che gli esperimenti di think-aloud non possono essere definiti «sistemi situati di attività» al pari delle operazioni chirurgiche, le manifestazioni di distanza dal ruolo in questo studio sembrano legate alla funzione della distanza dal ruolo come forma di autodifesa psicologica. Dimostrazioni evidenti di distanza dal ruolo sono state osservate solo nei nuovi dati, e in particolare nel comportamento dei soggetti non professionali. Ci sono due potenziali cause dell’apparente assenza di manifestazioni della distanza dal ruolo nei processi traduttivi degli studenti. In primo luogo, Goffman afferma (2003: 156) che, durante il periodo di apprendimento, cioè il periodo in cui un individuo comincia a entrare nel proprio ruolo, ai principianti vengono concesse certe libertà. Al principiante viene concesso di commettere errori che altrimenti sarebbero considerati screditanti, perchè «dispone del periodo di grazia dell’apprendista per cui questi sbagli gli sono concessi: un periodo in cui egli non è ancora del tutto la persona che sarà tra poco e non può quindi danneggiare gravemente se stesso con la dannosa manifestazione delle sue azioni maldestre» (2003: 156). È possibile che gli studenti di traduzione si vedano come apprendisti e, perciò, non si sentano minacciati nell’esporsi all’osservazione in una situazione sperimentale. In secondo luogo, Goffman afferma (2003: 126) che «il pubblico presente ha una parte diretta nell’esibizione della distanza dal ruolo». Nelle due parti del mio esperimento, il pubblico presente, cioè lo sperimentatore, avrebbe occupato un ruolo leggermente diverso. Nelle prime sessioni, organizzate per raccogliere dati per la mia tesi di laurea, lo sperimentatore era “solo un compagno di corso” e, di conseguenza, non rappresentava alcun tipo di minaccia per gli studenti soggetti dello studio. Nella nuova sessione, oltre al fatto che tutti i soggetti avevano ruoli ben definiti nella società, lo sperimentatore in qualità di ricercatore avrebbe occupato una posizione leggermente diversa, che, a sua volta, avrebbe potuto creare una situazione più face-threatening che avrebbe favorito la manifestazione della distanza dal ruolo.

55

As was mentioned earlier, the most conspicuous examples of role distancing can be found in the non-professional translators’ (particularly Ann’s, Laura’s and Paul’s) behaviour. As they found themselves performing a role in which they did not feel comfortable, or with which they did not wish to identify themselves, they seemed to want to convince the observers that ‘this is not the real me, you must not take my actions seriously’. This was expressed by constant laughter (especially Ann and Laura) and joking. Consider, for instance, the following examples (verbalisations of interest are printed in bold).

(7) mikä tuo dicky on [D2:POCKETa] (25.0) ohhoh (5.0) dicky (3.0) nyt mie en ymmärrä ei tässä oo kyllä semmosta (laugh)
onks täällä oikein (laugh) (2.0)
dicky heart ku se on istuin (.) auton takaosassa (1.0) paidan etumus (1.0) dicky bird on tipu (3.0) (laugh)

voiks se olla lintusydän (laugh) (8.0)
Ei mut sillä täytyy olla jotain sell merkityksiä joita ei oo tähän laitettu (1.0) pitäskö se sitten olla joku isompi sanakirja (3.0) (Ann:N-P)

what that DICKY is [D2:POCKETa] (25.0) ohhoh (5.0) DICKY (3.0) now I don’t understand here’s no such thing (laugh)
it is correct here (laugh)
DICKY HEART as it’s a seat (.) at the back of a car (1.0) shirt- front (1.0) DICKY BIRD is a birdie (3.0) (laugh)

can it be a bird heart (laugh) (8.0)
no it’s got to have some meanings which haven’t been put here (1.0) should it be a bigger dictionary then (3.0)

56

Come accennato in precedenza, gli esempi più evidenti di distanza dal ruolo possono essere osservati nel comportamento dei traduttori non professionali (in particolare Ann, Laura e Paul). Trovandosi a svolgere un ruolo nel quale non si sentivano a loro agio, o con il quale non volevano identificarsi, sembravano voler convincere gli osservatori che «questo non è il vero me, non devi prendere le mie azioni sul serio ». Questo veniva espresso da riso continuo (in particolare Ann e Laura) e battute. Consideriamo, per esempio, quanto segue (le verbalizzazioni di maggior interesse sono in neretto).
(7) mikä tuo dicky on [D2:POCKETa] (25.0) ohhoh (5.0) dicky (3.0)

nyt mie en ymmärrä ei tässä oo kyllä semmosta (laugh) onks täällä oikein (laugh) (2.0)

dicky heart ku se on istuin (.) auton takaosassa (1.0) paidan etumus (1.0) dicky bird on tipu (3.0) (laugh)

voiks se olla lintusydän (laugh) (8.0)
Ei mut sillä täytyy olla jotain sell merkityksiä joita ei oo tähän laitettu (1.0) pitäskö se sitten olla joku isompi sanakirja (3.0) (Ann:N-P)

cos è quel DICKY [D2:POCKETa] (25.0) ohhoh (5.0) DICKY (3.0) ora non capisco qui non c’è niente del genere (ride)
è giusto qui (ride)
DICKY HEART come se fosse un sedile (.) posteriore dell’auto (1.0) pettino

(1.0) DICKY BIRD è un uccellino (3.0) (ride)
può essere il cuore di un uccello (ride) (8.0)
no deve avere qualche significato che qui non c’è (1.0) dovrebbe essere un dizionario più grande allora (3.0)

57

  1. (8)  nää on aina kauheen vaikeita kääntää nää nimet (2.0)
    (sigh) siis (2.0) Olof Sodimu (.) Peter Joosef ja (1.0) Günter Augusti (1.0) koolla (laugh) (1.0) Kuustaa Augusti (3.0) (Paul:N-P)

    these are always very difficult to translate these names (2.0)
    (sigh) so (2.0) Olof Sodimu (.) Peter Joseph and (1.0) Günter Augusti (1.0) with a K (laugh) (1.0) Kustaa Augusti (3.0)

  2. (9)  mutta (3.0) voisikohan voisiko (1.0) valkosipulista (1.0) kosipulista

    (1.0) olla (1.0)
    käännetään vapaasti
    apua (1.0)
    toi on turha kääntää voisko se nyt pelastaa (1.0) pulasta (1.0) mutta voisiko valkosipulista olla apua
    pannaan näin (1.0)
    pannaan (laugh) olla pelastava enkeli (2.0) (Laura:N-P)

    but (3.0) could could (1.0) garlic (1.0) garlic (1.0) be (1.0)
    let’s translate freely
    of help (1.0)
    that’s unnecessary to translate that could it rescue (1.0) from trouble

    (1.0) but could garlic be of help
    Let’s put it like that (1.0)
    let’s put (laugh) be a rescuing angel (2.0)

    This type of joking, i.e. producing ludicrous or non-sensical translation

variants, which were, furthermore, clearly identifies as such by laughter, was typical of the non-professional translators, and practically non-existent

58

  1. (8)  nää on aina kauheen vaikeita kääntää nää nimet (2.0)
    (sigh) siis (2.0) Olof Sodimu (.) Peter Joosef ja (1.0) Günter Augusti
    (1.0) koolla (laugh) (1.0) Kuustaa Augusti (3.0) (Paul:N-P)

    questi sono sempre difficilissimi da tradurre questi nomi (2.0) (sospira) dunque (2.0) Olof Sodimu (.) Peter Joseph e (1.0) Günter Augusti
    (1.0) con la K (ride) (1.0) Kustaa Augusti (3.0)

  2. (9)  mutta (3.0) voisikohan voisiko (1.0) valkosipulista (1.0) kosipulista

    (1.0) olla (1.0)
    käännetään vapaasti
    apua (1.0)
    toi on turha kääntää voisko se nyt pelastaa (1.0) pulasta (1.0) mutta voisiko valkosipulista olla apua
    pannaan näin (1.0)
    pannaan (laugh) olla pelastava enkeli (2.0) (Laura:N-P)

    ma (3.0) può può (1.0) l’aglio (1.0) aglio (1.0) essere (1.0) provo a tradurre liberamente
    d’aiuto (1.0)
    non è necessario tradurre che può salvare (1.0) dai problemi (1.0) ma l’aglio può essere d’aiuto

    mettiamolo così (1.0)

    mettiamo (ride) essere un angelo salvatore (2.0)

    Questo tipo di battute, cioè delle varianti traduttive grottesche e senza

senso, oltretutto chiaramente identificate come tali dal riso, erano tipiche dei traduttori non professionali, e praticamente inesistenti nel

59

in the other subjects’ behaviour. These examples seem to be expressions of role distancing, which the subjects employed to detach themselves from the translator’s role they had been compelled to perform. In fact, Goffman maintains (1961: 112) that in situation where novices or non-experts are performing an unfamiliar role, manifesting role distance gives the performers some elbow room in which to manoeuvre. By expressing role distancing, the role performer is telling the observers that ‘I am not to be judged by this incompetence’. Goffman also points put that such ‘out-of-character situations can easily be created experimentally by asking subjects to perform tasks that are inappropriate to persons of their kind’ (1961: 112). Even though the non- professional subjects might not have felt that the translation task was inappropriate, they probably did feel that the task was not within their sphere of competence.

As was mentioned earlier, manifestations of role distance are harder to find in the professional translators’ behaviour, with one notable exception, namely Lucy. To my mind, Lucy’s behaviour in the experiment resembled closely Goffman’s description of displays of role distance in what he calls an ‘unserious setting’, i.e. the merry-go-round. Goffman describes the behaviour of the operator of the merry-go-round as follows (1961: 109):

Not only does he show that the ride itself is not – as a ride – an event to him, but he also gets off and on and around the moving platform with grace and ease that can only be displayed by safely taking what for children and even adults would be chances.

The ‘grace and ease’ of Lucy’s decisions to solve problems by contacting experts could be considered as manifestations of role distance.

60

comportamento degli altri soggetti. Questi esempi sembrano manifestazioni di distanza dal ruolo, usata dai soggetti per allontanarsi dal ruolo di traduttore che sono stati obbligati a svolgere. Infatti, Goffman sostiene (2003: 129) che in situazioni in cui gli apprendisti o i non esperti svolgono un ruolo non familiare, la manifestazione della distanza dal ruolo dà loro un certo spazio di manovra. Manifestando la distanza dal ruolo, l’esecutore sta dicendo agli osservatori: «Non devo essere giudicato in base a questa incompetenza». Goffman afferma anche che «analoghe situazioni “fuori personaggio” possono essere create sperimentalmente senza difficoltà; occorre solo chiedere a qualcuno di eseguire compiti che non sono appropriati a persone del suo tipo» (2003: 129). Anche se i soggetti non professionali potrebbero non aver percepito che il compito di traduzione era inappropriato, hanno probabilmente capito che il compito non apparteneva alla loro sfera di competenza.

Come detto in precedenza, è più difficile riscontrare manifestazioni della distanza dal ruolo nel comportamento dei traduttori professionali, con un’importante eccezione, e precisamente Lucy. A mio parere, il comportamento di Lucy durante l’esperimento riproduce nei minimi dettagli l’esibizione della distanza dal ruolo in quello che Goffman chiama «un setting poco serio», vale a dire la giostra. Goffman descrive il comportamento dell’addetto alla giostra come segue (2003: 126):

Non solo egli mostra che la corsa in se stessa non è (in quanto corsa) un evento per lui, ma per di più sale e scende dalla piattaforma in moto con un’eleganza e un’agilità che possono essere ottenuti solo a prezzo di correre tranquillamente dei rischi impensabili per i bambini o anche per gli adulti.

L’«eleganza e l’agilità» delle decisioni di Lucy di risolvere i problemi contattando degli esperti potrebbe considerarsi come una manifestazione di distanza dal ruolo.

61

That is, Lucy seemed to be trying to convey an image of a highly efficient and competent translator, who is in absolute control of the situation. Certainly, had the quality of the translations not been assessed at all, Lucy’s behaviour would, on the surface, have supported the early hypotheses about professional behaviour in translation (cf. section 2. 4.), namely that professional translators rely on automatised processing and are able to sail through translation tasks quickly and effortlessly. However, none of the other professional translators performed the experimental translation task with similar ‘grace and ease’; on the contrary, they spent considerably more time and effort on it. Moreover, there were few instances in their protocols which could be categorised offhand as manifestations of role distancing.

Goffman argues (1961: 130) that a person ‘who manifests much role distance may, in fact, be alienated from the role’, but the opposite may equally well be true, as ‘in some cases only those who feel secure in their attachment may be able to chance the expression of distance’. Without more information about the subjects, it is impossible to say conclusively what might have been the reason for the obvious manifestations of role distancing in Lucy’s behaviour, as opposed to their apparent absence from the other professional translators’ behaviour. However, Goffman contends that (1961: 102):

Whatever the individual does and however he appears, he knowingly and unknowingly makes information available concerning the attributes that might be imputed to him and hence the categories in which he might be placed.

On this basis, we can hypothesise that the differences in the professional translators’ behaviour may imply that they wished (unconsciously) to convey different images of their roles as translators,

62

Sembra cioè che Lucy stia tentando di trasmettere l’immagine di una traduttrice molto efficiente e competente, che ha pieno controllo della situazione. Certamente, se la qualità delle traduzioni non fosse stata valutata, il comportamento di Lucy, in superficie, avrebbe assecondato le prime ipotesi sul comportamento professionale nella traduzione, cioè che i traduttori professionali si basano su esecuzioni automatizzate e sono in grado di superare il compito di traduzione velocemente e senza sforzo. Tuttavia, nessuno degli altri traduttori professionali ha eseguito il compito di traduzione sperimentale con simile «eleganza e agilità»; al contrario, gli hanno dedicato molto più tempo e fatica. Inoltre, nei loro protocolli c’erano pochi esempi classificabili, su due piedi, come manifestazioni di distanza dal ruolo.

Goffman afferma (2003: 145) che una persona «che manifesta molta distanza dal ruolo può essere effettivamente alienata dal ruolo», ma anche l’opposto potrebbe essere vero, in quanto «in certi casi solo quelli che sono certi del loro attaccamento possono essere capaci di rischiare un’espressione di distanza». Senza ulteriori informazioni riguardo ai soggetti, è impossibile dire definitivamente quale potrebbe essere stato il motivo delle evidenti manifestazioni di distanza dal ruolo nel comportamento di Lucy, in contrasto con la loro apparente assenza nel comportamento degli altri traduttori professionali. Tuttavia, Goffman sostiene che (2003: 118):

Qualunque cosa un individuo faccia e quali che siano le sue apparenze, egli, consapevolmente o inconsapevolmente, rende disponibili delle informazioni relative alle qualifiche che possono essergli attribuite e quindi alle categorie in cui può essere collocato.

In base questo, possiamo ipotizzare che le differenze nel comportamento dei traduttori professionali implicano il loro desiderio (inconscio) di trasmettere immagini diverse dei propri ruoli di traduttore,

63

which may, in turn, reflect different self-images. Lucy may have wished to give the impression of a highly efficient translator who knows hoe to solve problems quickly whereas Fran may have aimed at an impression of a conscientious and meticulous translator by behaving in a potentially over- conscientious fashion in the experiment. Obviously there is also the possibility that in an experimental situation subjects may to some extent manipulate (probably unconsciously) their behaviour to please the researcher. Thus Lucy may have behaved with exaggerated ease in the experiment, at the expense of translation quality, while Fran may have overdone her ‘meticulous translator act’. If this is true, it is particularly interesting that Lucy and Fran should have manipulated their behaviour into opposite directions with regard to the demands of quantity vs. quality in translation. This seems to reveal a difference in their (implicit) definitions of a ‘good translator’, as it seems unlikely that they would have wanted to give an example of a ‘bad translator’ in the experiment.

The observations discussed in this section highlight the complexity of investigating translation process, or of any type of human behaviour for that matter. I would like to stress that it is not the purpose of the present study to discredit any of the professional translators who took part in the experiment; the success or failure in the experimental task may have little to do with how they succeed in their own work. However these observations seem to support the hypothesis that professional translators may behave differently when performing routine vs. non-routine tasks. In fact, one of the most plausible explanations for the unexpectedly poor success of the two professional translators, Penny and Lucy, is that they applied a routine approach to a non- routine task. The consequences were less dramatic for Penny, for whom the topic of the ST represented a familiar special field.

64

che possono, a loro volta, riflettere immagini di Sé diverse. Può darsi che Lucy desiderasse dare l’impressione di un traduttore molto efficiente, che sa come risolvere i problemi velocemente, mentre che Fran volesse dare l’impressione di un traduttore scrupoloso e meticoloso comportandosi in modo potenzialmente troppo scrupoloso nell’esperimento. Ovviamente, esiste anche la possibilità che in una situazione sperimentale i soggetti manipolino (probabilmente in modo inconscio) il loro comportamento in una certa misura per assecondare il ricercatore. Perciò Lucy potrebbe essersi comportata con esagerata “agilità” nell’esperimento, ai danni della qualità della traduzione, mentre Fran potrebbe aver esagerato il suo «atto traduttivo meticoloso». Se questo è vero, è molto interessante che Lucy e Fran avrebbero dovuto manipolare i loro comportamenti in direzioni diverse rispetto alle richieste di qualità vs. quantità in traduzione. Questo sembra rivelare una differenza nelle loro definizioni (implicite) di “buon traduttore”, visto che sembra improbabile che nell’esperimento volessero dare l’esempio di “cattivo traduttore”.

L’osservazione esaminata in questa sezione sottolinea la complessità dello studio dei processi traduttivi, o se è per quello, di qualsiasi tipo di comportamento umano. Vorrei sottolineare che non è obiettivo di questo studio screditare i traduttori professionali che hanno preso parte all’esperimento; la buona o la cattiva riuscita nel compito sperimentale può avere poco a che fare con i risultati che ottengono nel loro lavoro. Tuttavia, queste osservazioni sembrano supportare l’ipotesi secondo la quale i traduttori professionali possono comportarsi diversamente a seconda che eseguano compiti di routine o no. Infatti, una delle spiegazioni più plausibili per l’inaspettata poca riuscita delle due traduttrici professionali, Penny e Lucy, è che abbiano usato un approccio abituale per un compito non abituale. Le conseguenze sono state meno accentuate per Penny, per la quale l’argomento del prototesto apparteneva a un campo specifico familiare.

65

7. CONCLUSION

The purpose of the present research was to portray think-aloud protocols as the best suited method for collecting data and investigating the human mind processes, particularly the translation process. At the same time, it presents the problems this verbalizing procedure entails and the limits researchers meet, when trying to compare different TAP experiments.

According to cognitive psychological literature, verbal reports yield valid and reliable data on human thought processes. However, cognitive psychology has always dealt mainly with well-defined problem-solving tasks, for which it is possible to determine a priori correct solutions and problem-solving strategies. Translating, in turn, as a creative and subjective process, represents an fuzzy form of problem-solving. Furthermore, translating and thinking aloud are both verbal tasks, which means that they may draw on the same memory resources, and thus interfere with each other.

To avoid these kinds of problems, researchers tried to use joint translating as a method of data elicitation. Although the studies comparing think-aloud protocols and joint translation have offered interesting results, particularly with regard to didactic applications, these experiments contain other variables, which makes it impossible to state that joint translating would be a better method for studying translating than thinking aloud.

In both cases, it is important to remember that subjects are asked to verbalize their thoughts; this is not a simple task, because it requires them to reorganize their mental discourse into an oral one. And even if experimenters recommend them to say things just as they come to mind, they’ll probably try to communicate their mental ideas in a way other people would understand. Moreover, many other elements, such as the subjects’ personal history, emotional factors, the effect of the experimental situation, fear of failure etc. (cf. section 7), may alter the results of TAP experiments.

More attention should be paid to identifying and isolating these variables by, for example, using pre-experimental testing; then, they should be carefully taken into account when examining the results of verbal reports. The

66

experimental situation should be more carefully analyzed in terms of limitations on time, access to reference material and ST difficulty. Furthermore, the validity and reliability of various methods of data collection in relation to translating should be determined by a study specifically designed for that purpose.

There exists a wide spectrum of research interests in TAP studies on the translation process; for this reason, the methods of analysis have been equally varied, which makes it difficult to use previous methods of analysis in new experiments. There is a lack of experimental tradition in this field and consequently most TAP studies on translating suffer from methodological weakness.

Nevertheless, the great variety of aims and strategies offered by TAP experiments shows the complexity of the translation process, and all the mechanisms and factors involved. Moreover, the peculiarity of every single experiment could represent the starting point for new methods of investigation.

67

APPENDICE: IL TESTO DI RIFERIMENTO PER GLI ESEMPI

Stay slim – eat garlic

Everyone knows that eating fatty foods is no good for you, especially if you have a dicky heart. However, the search for a miracle drug that could safely mop all the excess fats has been somewhat difficult… but could garlic come to the rescue?

O. Sodimu, P. Joseph and K. Augusti at the University of Maidugari in Nigeria, fed an exceptionally fatty diet to rats. Not surprisingly, the creatures accumulated cholesterol in their blood, liver and kidneys. But adding garlic oil to the same high-fat diet prevented the rise in the fatty constituents: cholesterol, triglycerides, and total lipids (Experientia, vol 40, p 5).

How does the garlic work? The authors speculate that it knocks out some of the key enzymes involved in making fatty acid or cholesterol. Alternatively, garlic may nobble the energy-carrying compound NADPH (nicotineamide adenine dinucleotide phosphate hybride), which is necessary for making lipids.

68

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tutte le persone che in un modo o nell’altro, mi hanno supportato e sopportato nel corso di questi anni di studio. Non deve essere stato facile starmi vicino nei miei frequenti momenti di stress e tensione, ma è grazie alla loro presenza, alla loro comprensione, alle loro parole a volte anche dure e ai loro consigli che sono riuscita ad arrivare fin qui.

Ringrazio tutti i professori con cui ho potuto lavorare in questi anni, per i loro insegnamenti non solo scolastici, ma “di vita”, in particolare il professor Bruno Osimo, che oltre ad avermi seguito nella stesura di questa tesi, è stato disponibile e gentilissimo nell’offrirmi ascolto e consigli importanti.

Un ringraziamento speciale ai miei genitori, che hanno sempre creduto in me, nella mia determinazione, e mi hanno sempre dato la libertà di scegliere la strada che volevo seguire.

Grazie ai miei fratelli, che nonostante tutto mi vogliono bene.
Grazie alla nonna che si è sempre ricordata le date dei miei esami. Grazie ad Andrea e alla sua famiglia, da cui ho sempre ricevuto

sostegno, comprensione, conforto, simpatia e una casa dove rifugiarmi a studiare.

Grazie a Silvia, con cui ho condiviso bellissimi anni di faticosi ma soddisfacenti studi.

69

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

ARNTZ R. AND THOME G. (a cura di) 1990 Übersetzungswissenschaft. Ergebnisse und Perspektiven. Festschrift für Wolfram Wilsszum 65. Geburtstag, Tübingen, Narr.

BERNARDINI S. 1999 Using think-aloud protocols to investigate the translation process: methodological aspects, Bologna, University of Bologna.

BEYLARD-OZEROFF, KRÁLOVA A. J. AND MOSER-MERCER (a cura di) 1998 Translators’ strategies and creativity. Selected papers form the 9th international conference on translation and interpreting, Prague, September 1995, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins.

BÖRSCH S. 1986 Introspective methods in research on interlingual and intercultural communication in House J. and Blum-Kulka S. (a cura di): 195-209.

DANCETTE J. 1994 Comprehension in the translation process: an analysis of think-aloud protocols in Dollerup C. and Lindegaard A. (a cura di): 113- 120.

DIMITROVA E. 2005 Expertise and explicitation in the translation process, Amsterdam /Philadelphia, John Benjamins, ISBN 90-272-1670-3.

DOLLERUP C. AND LINDEGAARD A. (a cura di) 1994 Teaching translation and interpreting 2. Insights, aims, visions, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins, ISBN 90-272-1617-7.

ERICSSON K. A. and SIMON H. A. 1984 Protocol Analysis. Verbal reports as data, Cambridge, MIT Press, ISBN 0-262-55012-1.

ERICSSON K. A. and SIMON H. A. 1993 Protocol Analysis: Verbal reports as data (Revised edition), Cambridge, MIT Press, ISBN 0-262-55023-7.

GERLOFF P. 1986 Second language learners’ reports on the interpretive process: talk-aloud protocols of translation, in House J. and Blum-Kulka S. (a cura di): 243-262.

GOFFMAN E. 1961 Encounters: two studies in the sociology of interaction, Indianapolis, Bobbs-Merill, [trad. it. di Paolo Maranini 2003 Espressione e identità. Gioco, ruoli, teatralità, Bologna, Il Mulino, ISBN 88-15-09079- 7]: 101-174.

HAUTAMÄKI A. (a cura di) 1988b Kognitiotiede, Helsinki, Gaudeamus. 70

HOLZ-MÄNTTÄRI J. (a cura di) 1998 Translationstheorie – Grundlagen und Standorte, Studia translatologica, Ser. A, Vol. 1., Tampere, University of Tampere, ISBN 951-44-2387-9.

HOLZ-MÄNTTÄRI J. AND NORD C. (a cura di) 1993 Traducere navem. Festschrift für Katharina Reiß zum 70. Geburtstag, Tampere, University library, ISBN 951-44-3262-2.

HÖNIG H. G. 1990 Sagen, was man nicht weiß – wissen was man nicht sagt. Überlegungen zur übersetzerischen Intuition in Arntz R. and Thome G. (a cura di): 91-101.

HÖNIG H. G. 1991 Holmes’ “Mapping Theory” and the landscape of mental translation processes in Van Leuven-Zwart K. M. and Naaijkens T. (a cura di): 77-89.

HOUSE J. 1988 Talking to oneself or thinking with others? On using different thinking aloud methods in translation, Fremdsprachen Lehren und Lernen Vol. 17.

HOUSE J. AND BLUM-KULKA S. (a cura di) 1986 Interlingual and intercultural communication. Discourse and cognition in translation and second language acquisition studies, Tübingen, Gunter Narr.

JÄÄSKELÄINEN R. 1993 Investigating Translation Strategies in Tirkkonen- Condit S. and Laffling J. (a cura di): 99-120.

JÄÄSKELÄINEN R. 1999 Tapping the process: an explorative study of the cognitive and affective factors involved in translating, Joensuu, University of Joensuu, ISBN 951-708-734-8.

JENSEN A. 2000 The effects of time on cognitive process and strategies in translation, København, Unpublished PhD thesis, Copenhagen Business School.

JONASSON K. 1998 Degree of a text awareness in professional vs. non- professional translators in Beylard-Ozeroff, Králova A. J. and Moser- Mercer (a cura di): 189-200.

KÖNIGS, F. G. 1987 Was beim Übersetzen passiert: Theoretische Aspekte, empirische Befunde und praktische Konsequenzen, Die Neueren Sprachen.

71

KRAHMER E. and UMMELEN N. 2004 Thinking About Thinking Aloud. A comparison of two verbal protocols for usability testing, Netherlands, Tilburg University, ISSN 0361-1434.

KRINGS H. P. 1986. Translation problems and translation strategies of advanced German learners of French (L2) in House J and Blum-Kulka S. (a cura di): 263-276.

KRINGS H. P. 1988 Thesen zu einer empirischen Übersetzungswissenschaft in Holz-Mänttäri J. (a cura di): 58-71.

KÜNZLI A. 2003 Quelques stratégies et principes dans la traduction technique français-allemand et français-suédois, Stockholm, Akademitryck, ISBN 91- 974284-6-9.

KUSSMAUL P. 1989a Toward an Empirical Investigation of the Translation Process: Translating a Passage from S. I. Hayakawa: Symbol, Status and Personality in Von Bardeleben R. (a cura di): 369-380.

KUSSMAUL P. 1989b Interferenzen im Übersetzungsprozess – Diagnose und Therapie in Schmidt H. (a cura di): 19-28.

KUSSMAUL P. 1993 Empirische Grundlagen einer Übersetzungsdidaktik: Kreativität im Übersetzungsprozeß in Holz-Mänttäri J. and Nord C. (a cura di): 275-286.

KUSSMAUL P. 1994 Möglichkeiten einer empirisch begründeten Übersetzungsdidaktik in Snell-Hornby M., Pöchhacker F. and Kaindl K (a cura di): 377-386.

KUSSMAUL P. 1995 Training the Translator, Amsterdam, John Benjamins, ISBN 9027216231.

KUSSMAUL P. 1998 Die Erforschung von Übersetzungsprozessen: Resultate und Desiserate, München, Lebende Sprachen.

KUSSMAUL P. and TIRKKONEN-CONDIT S. 1995 Think-Aloud Protocol analysis in translation studies, TTR – Traduction Terminologie Rédaction Vol 8 n 1.

LAFFLING J. 1993a Corpus-based analysis dictionary for machine (and human) translation in Tirkkonen-Condit S. and Laffling J. (a cura di): 121-136.

72

LEWANDOWSKA-TOMASZCZYK B. AND THELEN M. (a cura di) 1992 Translation and meaning, Part 2, Maastricht, Rijkshogeschool Maastricht, Faculty of translation and interpreting.

LÖRSCHER W. 1992 Process-Oriented Research into Translation and Implications for Translation Teaching, Neubrandenburg, University of Greifswald.

MATRAT C. M. 1992 Investigating the translation process: thinking-aloud versus joint activity, Unpublished doctoral dissertation, Ann Arbor: University Microfilms International.

NIDA E. A. 1964 Towards a science of translating, Leiden, Brill, ISBN 9004026053

NIELSEN J. 1993 Usability Engineering, Cambridge, Academic Press. NISBETT R. E. and WILSON T. D. 1979 Telling more than we can know: verbal

reports on mental processes, Psychological review.
NORBERG 2003 Übersetzen mit doppeltem skopos. Eine empirische Prozess-

und produktstudie, Uppsala, Uppsala University Library.
PÖNTINEN T. and ROMANOV T. 1989 Professional vs. non-professional translator: a think-aloud protocol study, Joensuu, University of Joensuu,

Savonlinna School of Translation Studies.
SAARILUOMA P. 1988b Ajattelu kognitiivisena prosessina in Hautamäki A. (a

cura di): 43-70.
SANDROCK U. 1982 Thinking-aloud protocols (TAPs). Ein Instrument zur

Dekomposition des Komplexen Prozesses “Übersetzen”, Stockholm, Kassel

Svenska Akademiens ordlista.
SCHMID A. 1994 Gruppenprotokolle – ein Einblick in die black box des

Übersetzens, TexTconTexT 9.
SCHMIDT H. 1993 Interferenz in der Translation, Leipzig, Enzyklopädie, ISBN

3-324-00476-4.
SCHMIDT M. A. 2005 How do you do it anyway? A longitudinal study of three

translator students translating from Russian into Swedish, Stockholm,

Acta Universitatis Stockholmiensis, ISBN 91-85445-19-3.
SCHRIVER K .A. 1997 Dynamics in Document Design: Creating Text for

Readers, New York, Wiley, ISBN: 978-0-471-30636-8. 73

SÉGUINOT C. 1996 Some thoughts about think-aloud protocols, Target vol. 8, no1: 79-95, Amsterdam, Benjamins, ISSN 0924-1884.

SNELL-HORNBY M., PÖCHHACKER F. AND KAINDL K. (a cura di) 1994 Translation Studies. An Interdiscipline, Amsterdam, John Benjamins, ISBN 1556194781.

SOMEREN M. W., BARNARD Y. F. and SANDBERG J. A. C. (a cura di) 1994 The think aloud method. A practical guide to modelling cognitive processes, London, Academic Press, ISBN 0-12-714270-3.

TIRKKONEN-CONDIT S. 1992 The interaction of world knowledge and linguistic knowledge in the process of translation. A think-aloud protocol study in Lewandowska-Tomaszczyk B. and Thelen M. (a cura di): 433- 440.

TIRKKONEN-CONDIT S. AND LAFFLING J. (a cura di) 1993 Recent Trends in Empirical Translation Research, [Studies in Languages 28.] Joensuu, University of Joensuu, ISBN 951-708-150-2.

TOURY G. 1984 The notino of “native translator” and translation teaching in Wilss W. and Thome G. (a cura di): 186-195.

VAN LEUVEN-ZWART K. M. AND NAAIJKENS T. (a cura di) 1991

Translation Studies, The state of the art. Proceedings of the first James S. Holmes symposium on Translation Studies, Amsterdam, Rodopi, ISBN 90- 5183-257-5.

VON BARDELEBEN R. 1989 Wege amerikanischer Kultur. Ways and Byways of American Culture. Aufsätze zu Ehren von Gustav H. Blanke, Frankfurt am Main, Lang, ISBN 363142454.

WILSS W. AND THOME G. (a cura di) 1984 Die Theorie des Übersetzens und ihr Aufschlusswert für die Übersetzer- und Dolmetscherausbildung Tübingen, Gunter Narr.

74

FEDERICA FRIGERIO M. Lekomceva, B. Uspenskij: Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

M. Lekomceva, B. Uspenskij:

Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

 

 

 

 

 

FEDERICA FRIGERIO

 

 

Scuole Civiche di Milano

Fondazione di partecipazione

Dipartimento Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

 

 

 Relatore: professor Bruno OSIMO

 

Diploma in Scienze della mediazione linguistica

marzo 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Lekomceva-Uspenskij 1965

© Federica Frigerio per l’edizione italiana 2008


Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

Describing a semiotic system with a simple syntax

M. Lekomceva, B. Uspenskij

 

ABSTRACT IN ITALIANO

Nonostante la riflessione sul segno abbia una lunga tradizione che percorre la storia della filosofia occidentale a partire dal periodo greco, la nascita della semiotica vera e propria risale agli inizi del Novecento e si identifica inizialmente in due diverse prospettive, una di origine statunitense e una europea. Negli anni Sessanta nasce la scuola semiotica di Tartu-Mosca, che si distingue per lo spirito innovativo dei suoi ricercatori. Animati da spirito di sperimentazione, essi realizzano una serie di lavori sui fenomeni comunicativi più disparati, inquadrandoli in un progetto globale di modellizzazione della comunicazione umana, compresa quella non verbale. Attraverso la semiotica, cercano di applicare il metodo scientifico alla descrizione di fenomeni umani che scientifici non sono, per esempio alla cartomanzia. Il linguaggio di quest’ultima viene descritto in termini sintattici, semantici e pragmatici al fine di ottenere una formalizzazione dei passaggi logici che intervengono durante una seduta di predizione del futuro. Qui si propone una traduzione del lavoro di M. Lekomceva e B. Uspenskij con testo a fronte.

 

ENGLISH ABSTRACT

Although the debate on sign has a long tradition throughout the history of Western philosophy starting from the Greek period, the real semiotic discipline dates back to the beginning of the 20th century. Initially it was identified in two different perspectives, an American and a European perspective. The Tartu-Moscow semiotic school started in the sixties and distinguished itself thanks to the innovative spirit of its researchers. Driven by a spirit of experimentation, they carried out research on the most varied communicative phenomena and documented the results in a global project of modelization of human communication, including non-verbal communication. Through semiotics they tried to apply the scientifc method to the description of non-scientific human phenomena, for example cartomancy. The language of cartomancy was described in syntactic, semantic and pragmatic terms, in order to obtain a formalization of the logical steps that characterize a fortune-telling session. The Italian translation of M. Lekomceva and B. Uspenskij’s work is here proposed.

 

RÉSUMÉ EN FRANÇAIS

Bien que la réflexion sur le signe ait, depuis la période grecque, une longue tradition qui parcourt l’histoire de la philosophie occidentale, la naissance d’une véritable discipline sémiotique remonte au début du XXe siècle. Elle se manifeste initialement suivant deux perspectives, l’une américaine, l’autre européenne. Puis, l’école sémiotique de Tartu-Moscou voit le jour au cours des années soixante, se distinguant par l’esprit innovateur de ses chercheurs. Animés d’un esprit d’expérimentation, ceux-ci réalisent une série de travaux sur les phénomènes de communication les plus divers qu’ils encadrent dans un projet global de modélisation de la communication humaine, y compris la communication non verbale. À travers la sémiotique, ils cherchent à appliquer la méthode scientifique à des phénomènes humains qui ne sont pas scientifiques, par exemple à la cartomancie. Le langage de cette dernière est décrit en termes syntaxiques, sémantiques et pragmatiques afin d’obtenir une formalisation des passages logiques qui interviennent durant une séance de prédiction de l’avenir. On propose ici la traduction en italien du travail de M. Lekomceva et B. Uspenskij avec le texte original en regard.


Sommario

 

 

1. Prefazione……………………………………………………………………………3

 

1.1 La semiotica……………………………………………………………..…3

 

1.2 I contesti storici principali………………………………………….………4

 

1.3 Ferdinand de Saussure….………………………………………………..7

 

1.4 Charles Sanders Peirce………………………………………………..…8

 

1.5 Ûrij Lotman e la scuola di Tartu.……………………………………..…10

 

1.6 La cartomanzia come sistema semiotico….…………………………..12

1.7 Riferimenti bibliografici……    ………………………………………….16

 

 

2. Traduzione con testo a fronte……………………………………………………18

 

 

 

 

 

 

 


1. Prefazione

 

 

1.1 La semiotica

«Non è possibile non comunicare». Questo semplice principio è il primo dei cinque assiomi fondamentali della comunicazione definiti dallo psicologo di origine austriaca Paul Watzlawick[1] ed è anche il punto di partenza della semiotica: ogni persona, oggetto, elemento naturale o artificiale comunica continuamente. Tutto ciò che è comunicazione è segno: si comunica quando si parla, si canta, si scrive, ci si veste, ci si gratta il naso, ci si muove. Sono comunicazione i libri, giornali, i gesti del corpo, i cartelli stradali e quelli pubblicitari, i film, le foto, i numeri, i suoni, le parole e così via. Molti segni presuppongono un’intenzione di comunicare, un’azione volontaria. In realtà esistono anche i segni non volontari: una rondine ci dice che è arrivata la primavera, il fumo ci dice che c’è fuoco, forse un incendio, le nuvole grigie ci dicono che arriverà un temporale, la sensazione di nausea ci dice che non abbiamo digerito… Anche senza la volontà di comunicare, tutti i segni comunicano; l’importante è che ci sia qualcuno che li recepisca.

Ma che cos’è un segno? Nella definizione classica, risalente al periodo greco, un segno è aliquid pro aliquo, qualcosa che è riconosciuto da qualcuno come indicazione di qualcos’altro. In altre parole, qualcosa che non rimanda solo a sé stessa, ma ad altro; ad esempio, il fumo citato sopra ci rimanda al fuoco.

Tutti i segni volontari e non, il loro uso, il loro funzionamento, il loro valore nella comunicazione, costituiscono l’oggetto di studio della semiotica.

Si tratta di una disciplina relativamente giovane, a fatica le si può dare un secolo di vita, ma in realtà, forse senza saperlo, i primi semiotici esistevano già duemila anni fa. La stessa parola «semiotica» deriva dal greco semeion (segno) e può essere definita «la scienza dei segni». Essa studia, sotto ogni aspetto, i segni che gli esseri umani utilizzano per comunicare, dai più evidenti – come le parole o i suoni – ai più nascosti – come gli ornamenti del corpo o i colori.

Si può affermare che la semiotica “non consapevole” esiste da quando l’uomo ha cominciato a riflettere sulla comunicazione e su ciò che la rende possibile, ovvero l’interpretazione dei segni.

 

1.2 I contesti storici principali

Ecco quindi una panoramica dei contesti principali in cui è nato il concetto semiotico più importante, il segno.

Il termine «segno» è rintracciabile già in Omero e in Esiodo, dove sta a indicare il segno naturale (le nuvole per la pioggia), il segno divino (il prodigio che rinvia alla volontà del cielo) e il segno convenzionale (il segno di riconoscimento delle truppe). Per Platone (429-347 a.C.), i segni sono strumenti per rappresentare delle cose che rimandano ai loro referenti metafisici, le Idee.

Aristotele (384-322 a.C.), il vero fondatore della logica, dà un grande contributo allo studio del linguaggio, dedicandogli un’intera opera, il De Interpretatione. Per la prima volta, Aristotele utilizza la parola «segno» nel senso moderno del termine, vale a dire, come qualcosa che rinvia a qualcos’altro. Sono tuttavia gli Stoici a dare, per primi, una chiara definizione di segno, cioè «ciò che è indicativo di una cosa oscura» (Calabrese: 26), di una cosa che non è presente al momento della comunicazione.

Dal punto di vista del pensiero cristiano, con Sant’Agostino (354-430 d.C.) si fa un passo avanti verso la modernità, in quanto si mettono insieme la teoria del segno e quella del linguaggio verbale, cioè la parola o il segno verbale viene collocato all’interno di una più generale teoria del segno. Nella sua opera De doctrina christiana, Agostino definisce il segno come «una cosa che, più che l’impressione che essa produce sui sensi, fa venire di per sé alla mente qualche altra cosa» (Calabrese: 46). In Sant’Agostino si può anche ritrovare una certa consapevolezza del carattere sociale dei segni, in quanto, sempre nella stessa opera, egli sottolinea che «perché una cosa funzioni come segno, bisogna che l’interprete sappia che essa è un segno», ovvero i due attori della comunicazione devono riconoscere il segno in quanto tale (Calabrese: 46).

Nel medioevo, la dottrina dei segni riguarda maggiormente l’interpretazione delle Scritture e il segno è interpretato con precise finalità religiose.

Tommaso d’Aquino (1225-1274), nella sua Summa theologiae, sostiene che il segno delle Scritture non è un segno equivoco e non va quindi interpretato in senso allegorico; al contrario, è qualcosa di rigorosamente unico e referenziale.

Con l’umanesimo si afferma la visione di un mondo come una specie di testo prodotto da un’entità superiore con una sua logica interna; ogni oggetto del mondo è correlato al sistema e ne costituisce un segno, identificabile dall’intelletto umano. L’autore che meglio definisce questo concetto di “semiotica del mondo naturale” è Pico della Mirandola.

Con l’empirismo inglese del 1600 inizia una vera e propria rimeditazione dei problemi linguistici, scaturita da un rinnovato interesse dei filosofi-scienziati per la scienza in tutte le sue branche, che porta alla vera e propria definizione della semiotica con John Locke (1632-1704). Appartiene a quest’ultimo, infatti, il testo più ampio e consapevole dedicato alla teoria dei segni. L’autore dà una definizione di semiotica all’interno del quarto e ultimo libro del suo Saggio sull’intelligenza umana, del 1690:

 

[…] Il terzo ramo può essere chiamato dottrina dei segni; e poiché la parte più consueta di essa è rappresentata dalle parole, assai acconciamente essa viene anche chiamata logica. Il suo compito è di considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose, o per trasmettere ad altri la sua conoscenza. Poiché le cose che la mente contempla non essendo mai, tranne la mente stessa, presenti all’intelletto, è necessario che qualcos’altro, come un segno o una rappresentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spirito, e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all’immediata visione di un altro, né essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comunicare ad altri i nostri pensieri, nonché per registrarli a uso nostro, sono altresì necessari dei segni delle nostre idee, e quelli che gli uomini hanno trovato più convenienti a tale scopo, e di cui perciò fanno uso generalmente, sono i suoni articolati. Perciò la considerazione delle idee e delle parole, in quanto grandi strumenti della conoscenza di chi voglia esaminare la conoscenza umana in tutta l’estensione sua (Calabrese: 79).

 

Il Saggio sull’intelligenza umana è un vero e proprio trattato di semiotica, poiché l’indagine sulla conoscenza umana parte dal presupposto che essa formi un sistema di segni, così come le parole sono segni rispetto alle idee.

Nonostante si sia occupato in modo marginale del linguaggio, anche Cartesio (1596-1650) offre il suo contributo, proponendo nel Mondo, una struttura triadica del segno, costituita da una parte materiale (i suoni delle parole), un aspetto mentale a loro collegato (il significato) e i fenomeni della realtà che le parole rappresentano. Il linguaggio, che per Cartesio è arbitrario (cioè non vi è relazione diretta fra parole e cose), comprende anche fenomeni non verbali, come la luce, il ridere, il piangere o i gesti dei sordomuti, quando sono usati come segni. Per finire, Hegel (1770-1831), che invece ha dato molta importanza al segno e alla significazione. La rappresentazione dello spirito si realizza sensibilmente attraverso i segni ed è soggettiva, arbitraria. Secondo il filosofo il segno è «una certa intuizione immediata che rappresenta un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé» (Calabrese: 133). Il luogo vero del segno è l’intelligenza, che svolge la sua attività creatrice di rappresentazione.

 

La semiotica vera e propria, tuttavia, è una scienza relativamente giovane, che si identifica nelle riflessioni di due figure fondamentali, il filosofo statunitense Charles Sanders Peirce e il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, i quali, tra Ottocento e Novecento e in modo indipendente, gettano le basi della disciplina. Per questo motivo nella semiotica convivono fin dal principio due differenti prospettive: una più ampia legata alle teorie di Peirce e una più strettamente linguistica derivata da Saussure. Inizialmente il termine «semiotics» (semiotica) si rifaceva alla prospettiva peirciana, mentre il termine «sémiologie» indicava la prospettiva saussuriana, proprio perché fu lo stesso linguista a coniare il termine. Nell’uso successivo il termine «semiotica» è passato a identificare le riflessioni generali teoriche e di metodo sulla disciplina (quella che Umberto Eco definisce «semiotica generale»), mentre per «semiologia» si intendono le diverse applicazioni del metodo semiotico a particolari contesti saussuriani o oggetti di ricerca perlopiù di area francofona. Peirce e Saussure propongono sostanzialmente due concezioni del segno, o meglio, del rapporto di significazione, abbastanza differenti.

 

1.3 Ferdinand de Saussure

Nasce a Ginevra nel 1857 da una coltissima famiglia di scienziati. Compie gli studi in questa città e nelle università di Berlino, Parigi e Lipsia: qui si laurea nel 1880. Insegna dal 1881 al 1901 presso l’Università di Parigi, e dal 1901 a Ginevra, dove viene creata per lui la cattedra di linguistica generale. La sua fama è dovuta all’opera Cours de linguistique générale, una raccolta di appunti dei corsi di linguistica generale da lui tenuti, pubblicata postuma da Charles Bally e Albert Séchehaye, due dei suoi allievi.

Saussure affronta il problema del segno secondo modalità tipiche di un’impostazione linguistica. Secondo Saussure il segno è costituito da un signifiant, cioè il suono emesso da un parlante per indicare qualcosa, e da un signifié, cioè il concetto a cui tale signifiant rimanda; il segno è quindi diadico, poiché mette in gioco due elementi. La relazione tra questi due elementi, chiamata «significazione» (signification), è arbitraria (dove «arbitrario» non sta per soggettivo, libero, ma per «immotivato», cioè non necessario in rapporto al significato che viene espresso) ed è stabilita sulla base di un sistema di regole astratto, la langue, che nasce dal consenso collettivo. Ciò presuppone che tutti i parlanti di una lingua attribuiscano un identico valore comune ai segni. In questo senso la lingua viene concepita come un codice, un sistema di corrispondenze regolari fra signifiant e signifié. La caratteristica di arbitrarietà fa si che le lingue (i codici naturali) siano diverse fra loro, fa sì che l’italiano cane diventi chien in francese o dog in inglese; se la relazione non fosse arbitraria esisterebbe un unico linguaggio universale. La teoria di Saussure è quindi fondata sui codici naturali; anche se la lingua è solo uno dei tanti sistemi di segni presi in considerazione dalla semiologia, essa è considerata il sistema di riferimento per tutti gli altri. La lingua è infatti comparabile ad altri sistemi di segni, tra i quali il linguista annovera ad esempio la scrittura, l’alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, i segnali militari (Caprettini: 43). Roman Jackobson spiegherà poi che la maggior parte delle “scoperte” di Saussure risale in realtà in parte alla filosofia classica greca e in parte ai linguisti della scuola di Kazan.

 

1.4 Charles Sanders Peirce

Nato nel 1839 a Cambridge, Massachusetts, Peirce è una sorta di bambino prodigio. A dodici anni rimane affascinato dal libro Elements of Logic di Richard Whatley e a quattordici studia con passione chimica, matematica, filosofia e logica. Si laurea alla Harvard University e nel 1861 ottiene un incarico presso l’agenzia United States Coast Survey (il servizio costiero degli Stati Uniti) della quale suo padre è sovrintendente. Qui elabora diversi lavori scientifici di risonanza internazionale. Nel 1879 insegna logica alla Harvard, ma per vicende private legate al suo divorzio, perde il posto dopo cinque anni e da quel momento nessuna università vuole mai più conferirgli un incarico. Nel 1887 Peirce si ritira a vita privata e trascorre in isolamento e povertà gli ultimi anni della sua vita; riesce ad andare avanti solo grazie all’aiuto degli amici, tra i quali il notissimo psicologo William James. Peirce ha scritto migliaia e migliaia di pagine; ciononostante ha pubblicato solo una serie di articoli che, mentre era in vita, non hanno mai avuto grande risonanza. Il filosofo statunitense muore lasciando un gran numero di scritti, che poi la moglie venderà alla Harvard. Le sue opere sono state pubblicate solo a partire dagli anni Trenta e per questo il suo pensiero è ancora in parte da scoprire.

 

In un frammento risalente al 1897, Peirce scriveva:

 

A sign or representamen is something which stands to somebody for something in some respect or capacity

 

Il segno è qualsiasi cosa percettibile, senza la quale è impossibile conoscere l’oggetto. L’oggetto è ciò a cui rimanda il segno, determina il segno stesso ed esiste a prescindere dal segno. L’interpretante è un segno, un pensiero che interpreta un segno precedente. Esiste perciò una triade segno-oggetto-interpretante. In altre parole, perché un segno potenziale funga effettivamente da segno, deve entrare in relazione con un oggetto, essere interpretato e produrre nella mente del soggetto un interpretante. Questo processo è chiamato «semiosi». Per ciascuno di noi la relazione tra un segno e un oggetto ha un preciso senso, legato a esperienze e ricordi personali, perciò la semiosi in Peirce è soggettiva, e non arbitraria come in Saussure. L’interpretante, a sua volta, è un segno e, a sua volta, può generare altri oggetti e altri interpretanti: da qui parte quindi un processo che viene chiamato da Peirce «semiosi illimitata».

 

Al di là delle due grandi figure che hanno gettato le basi della semiotica, altri grandi studiosi si sono occupati della disciplina, apportando diversi contributi. È doveroso citarne almeno alcuni: Charles Morris, che nella sua opera Foundations of the Theory of Signs del 1938 ha definito la semiotica come l’insieme della triade sintassi-semantica-pragmatica; Louis Trolle Hjemslev, che nella sua opera Prolegomena: A Theory of Language ha approfondito in particolare il concetto di «glossematica», la teoria secondo la quale ogni sistema linguistico è basato sulla relazione fra un numero finito di unità varianti, i glossemi; Umberto Eco, che ha portato avanti – e continua a farlo – il problema dell’interpretazione testuale e del significato; Algirdas Julien Greimas, che ha sviluppato il concetto di semiotica generativa, cercando di spostare l’attenzione della disciplina dal segno al sistema di significazione; Ûrij Lotman, che ha sviluppato un approccio semiotico allo studio della cultura e fondato la scuola di Tartu.

Molti altri studiosi si occupano tuttora di semiotica, dal momento che la riflessione semiotica sta diventando sempre più importante in diverse aree di ricerca e sviluppo. Negli ultimi anni la disciplina si è occupata sempre più di analizzare diversi tipi di discorso (giornalistico, scientifico, pubblicitario, religioso, economico ecc…) che possono essere riuniti perlopiù nel grande insieme della sociosemiotica.

 

 

 

1.5 Ûrij Lotman e la scuola di Tartu

Per capire quale eredità culturale e quale ammirazione Ûrij Mihajlovič Lotman abbia lasciato nei suoi allievi, e negli allievi dei suoi allievi, basta citare una speciale maglietta celebrativa stampata dagli studenti di semiotica dell’università di Tartu, in Estonia, in occasione di una conferenza dedicata a questo studioso, tenutasi dal 25 febbraio al 2 marzo del 2002. Sulla maglietta compaiono due figure, poste una fianco all’altra per indicare il paragone: da un lato Einstein, inventore della teoria della relatività, dall’altro Lotman, inventore della semiotica della cultura e fondatore della scuola semiotica di Tartu. La somiglianza è innegabile: folti capelli disposti a raggiera intorno a una fronte spaziosa, grandi baffi, sguardo vivo. Sul retro di questa maglietta appare una frase in lingua estone: «Koik mu ümber märgiks muutub, mida näen vòi mida puutum», che significa «Tutto ciò che osservo, tutto ciò che tocco, si trasforma in un segno» (Leone: 2002). La conferenza del 2002 a lui dedicata ha tentato di precisare le linee generali dei lavori e delle ricerche di questo semiotico e storico della cultura, grazie agli interventi di studiosi provenienti da tutto il mondo.

 

Ûrij Lotman nasce a Pietrogrado nel 1922. Si iscrive all’Università statale di Leningrado nel 1939, dove studia filologia e riceve gli insegnamenti di molti protagonisti del formalismo e dello strutturalismo del ventennio precedente (Propp, Tolstoj…). Dopo la parentesi della Seconda guerra mondiale, durante la quale viene arruolato, Lotman si laurea in lettere a pieni voti. Non riuscendo a trovare alcun posto di lavoro a causa della politica antisemita in atto (Lotman era ebreo), si trasferisce in Estonia nel 1950, dove le autorità erano troppo impegnate a combattere la resistenza della popolazione ostile al regime sovietico e non avevano risorse per attuare una politica antisemita.

È proprio in Estonia che Lotman inizia la sua carriera, diventando docente alla prestigiosa università di Tartu, fondata nel 1632. Lotman si concentra in particolare sui metodi di analisi del testo poetico e sulle ricerche di modelli ideologici della cultura.

Quello di Tartu è uno dei due grandi centri per la semiotica nati negli anni Sessanta, assieme a quello di Mosca. Proprio il gruppo di Mosca, formato da studiosi quali Uspenskij, Toporov, Ivanov, Segal, Revzin, organizza nel 1962 un simposio sullo studio strutturale dei sistemi dei segni, dove vengono presentate delle relazioni di semiotica della lingua, ma anche di semiotica logica, traduzione automatica, semiotica dell’arte, mitologia, descrizione del linguaggio dei sistemi di comunicazione non verbale (segnali stradali, linguaggio della cartomanzia…), semiotica della comunicazione coi sordomuti e semiotica del rituale. Ma l’innovazione non è vista di buon occhio e così le autorità censurano questo nuovo tipo di ricerca. Gli studiosi moscoviti accettano di conseguenza la proposta di Ûrij Lotman: dare vita alla prima scuola di semiotica all’università di Tartu, che verrà chiamata «scuola semiotica di Tartu-Mosca».

Nel 1964 si tiene la prima grande conferenza della nuova scuola e nasce la rivista sulla quale vengono pubblicate le ricerche dei semiotici moscoviti. La rivista, chiamata Trudy po znakovym sistemam, esiste tuttora ed è un punto di riferimento importante per la semiotica mondiale. Viene pubblicata semestralmente e ha un titolo in altre tre lingue: «Sign System Studies» in inglese, «Töid märgisüsteemide alalt» in estone e «Semeiotikè» in greco. La scuola di Tartu-Mosca comprende studiosi che rappresentano due tradizioni culturali. I moscoviti sono in maggior parte linguisti, dalla linguistica sono approdati alla semiotica, mentre i componenti del gruppo di Tartu sono studiosi di letteratura che in qualche modo si sono occupati di semiotica. Questo diverso sfondo culturale si è rivelato fruttuoso, perché i due gruppi si sono arricchiti reciprocamente: l’incontro con la letteratura ha determinato l’interesse dei moscoviti linguisti per il testo e il contesto culturale, mentre l’incontro con i linguisti ha orientato gli studiosi di letteratura verso la lingua, verso la sua capacità di generare e produrre testi.

Grazie a Lotman, nella biblioteca dell’università di Tartu si è andato formando un gran numero di testi di teoria semiotica e letteratura, meticolosamente curati e analizzati dalla nuova generazione di semiotici estoni, guidati da Peeter Torop, principale allievo di Lotman e attuale responsabile della cattedra di semiotica, e da Mihhail, figlio dello stesso Ûrij.

Basandosi sui risultati della cibernetica, della teoria dell’informazione, della linguistica strutturale, gli esponenti di questa nuova scuola semiotica realizzano ricerche brillanti e minuziose sui fenomeni comunicativi più disparati, come il linguaggio gestuale, la segnaletica stradale, il sistema della notazione musicale, la tipologia delle culture, il mito, l’etichetta, la struttura familiare, la cartomanzia… Tutte queste ricerche, tuttavia, sono inquadrate in un progetto globale di modellizzazione della comunicazione umana e propongono un nuovo ruolo della scienza semiotica nell’indagine scientifica dell’uomo e della società: una scienza che offra la possibilità di studiare tutti quei fenomeni da un unico punto di vista, che proponga l’elaborazione di modelli per rappresentare la realtà e evidenziarne gli aspetti strutturali più significativi, dando vita a un nuovo «umanesimo scientifico» (Eco, Faccani: 35). Con l’obiettivo di descrivere quei fenomeni che non hanno ancora ricevuto una spiegazione scientifica, alle ricerche vengono spesso applicati gli strumenti di statistica, le strategie della teoria dei giochi, della matematica, della logica e così via. Pian piano si profila l’idea di una semiotica come scienza generale dei segni che aspira a una matematizzazione, a una formalizzazione del proprio sapere.

 

1.6 La cartomanzia come sistema semiotico

Tra le relazioni presentate al simposio del 1962 figura anche quella di Uspenskij  e Lekomceva, di cui più avanti è proposta una traduzione con testo a fronte. La prima versione del lavoro, pubblicata nel 1962 nelle Tesi del simposio, porta il titolo Gadanie na igral´nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema; quella qui proposta è invece una seconda versione dell’articolo, dove gli autori hanno sostanzialmente rielaborato e sviluppato le stesse idee. Opisanie odnoj sistemy s prostym sintaksisom, questo il titolo, viene pubblicato nel 1965 nella già citata Trudy po znakovym sistemam.

 

Com’è stato detto finora, i concetti principali della semiotica sono il segno e il processo di significazione; tuttavia la semiotica, proprio perché studia ogni fenomeno di comunicazione, si è trovata ad affrontare un oggetto di analisi più complesso del singolo segno, cioè il testo. Il concetto di «testo» in semiotica si identifica in «qualsiasi oggetto dotato di una particolare struttura e mirato a ottenere un certo scopo comunicativo» (Caprettini: 33). In questo caso gli autori analizzano il testo di una situazione di predizione del futuro e cercano di proporre una descrizione formale del fenomeno nei tre aspetti del sistema segnico (sintassi, semantica e pragmatica), per arrivare a una formalizzazione dei passaggi logici del processo di divinazione.

La lettura dei tarocchi (o delle semplici carte da gioco) possiede caratteristiche interessanti dal punto di vista semiotico. Come si è detto sopra, si tratta in primo luogo di un testo: lo scopo comunicativo è chiaramente quello di dare delle informazioni, a chi si rivolge al cartomante, riguardo all’amore, ai soldi, alla salute o altro. Alla funzione pragmatica del linguaggio, cioè al modo in cui la lingua funziona a livello pratico, all’effetto che i segni hanno sul comportamento degli interlocutori, è dedicato molto spazio nell’articolo: attraverso la lettura delle carte, il cartomante deve proporre un certo tipo di comportamento al consultante, influenzarlo e indicargli una direzione da seguire. I due autori dell’articolo fanno notare quanto un cartomante si concentri molto di più sul passato e sul presente piuttosto che sul futuro, poiché il passato e il presente offrono diversi spunti per la conversazione e le reazioni del consultante servono poi al cartomante come punto di partenza per poter parlare del futuro. A questo proposito Egorov, in un altro lavoro pubblicato nella rivista Trudy po znakovym sistemam del 1965, afferma che

 

Per il cartomante professionale le carte sono pura finzione, in quanto l’informazione non è ottenuta dalle carte, ma dall’aspetto esterno (e interiore) del soggetto, dalle sue reazioni, ecc; anche la predizione del futuro, per lo più non è ricavata dalle carte: sulla base dello studio del carattere della vittima viene costruito il futuro capace di sortire l’effetto più interessato (Eco, Faccani: 249).

 

In una situazione di predizione del futuro, quindi, entrano in gioco anche le capacità psicologiche del cartomante, che deve riuscire a estrapolare più informazioni possibili dal consultante e influenzare il suo stato emotivo.

In secondo luogo, attraverso le carte si costruisce un processo di significazione che vede coinvolti il cartomante e il consultante: secondo la terminologia peirciana si parte da un segno (le carte), che, attraverso le parole del cartomante, rimanda a un oggetto (per esempio il re di quadri rimanda a un uomo biondo[2]), il quale, nella mente del consultante, crea un interpretante (l’uomo biondo viene riferito a una persona che il consultante conosce).

Il processo di significazione viene completato solo se il consultante sostituisce il significante variabile con un significato specifico riferito alla sua situazione personale. La semiosi, infatti, è un qualcosa di soggettivo e il consultante fa riferimento a suoi ricordi, alle sue esperienze, ai suoi segni mentali che sono diversi da quelli di chiunque altro. È a questo punto che il segno, una volta interpretato, diventa effettivamente tale.

Per quanto riguarda il significato

 

va ricordato che di solito a ogni carta si assegna un solo significato, quello che meglio si adatta al quesito posto e alla natura del problema, tenendo conto della posizione che occupa nello schema, della vicinanza di altre carte e di varie considerazioni complementari (Sciuto: 11).

 

Allo stesso modo, nel linguaggio verbale, quando si parla o si scrive, si verifica un processo di questo tipo; è necessario scegliere le parole che meglio si adattano al tipo di messaggio che si vuole trasmettere. Le parole possono avere più significati, ma quello che si assegna in quella specifica situazione dipende dal contesto, cioè dall’ambito culturale di un enunciato (il background creato durante la consultazione) e dal co-testo, il contesto linguistico (le carte che vengono prima e dopo).

Solitamente le carte vengono interpretate in relazione ad alcuni piani fondamentali, che sono il piano amoroso (matrimonio, fidanzamento, rottura…) e il piano economico (perdite, guadagni, aumenti…).

Il significato delle carte determina anche la sintassi, cioè l’ordine di lettura delle carte: quelle che contengono meno informazioni, infatti, sono quelle che vengono lette per prime, perché permettono al cartomante di prendere tempo e constatare le reazioni del consultante. La sintassi è quindi molto libera, in quanto gli elementi che costituiscono il vocabolario sono limitati e perciò più facili da gestire.

 

Come la lettura di un libro, di un giornale, di un manuale, anche la lettura delle carte è un atto semiotico. In questo caso il lettore è il cartomante, che ricava significati dalle carte e in più deve trasmetterli al consultante.

Come afferma Osimo, nel suo Corso di traduzione,

 

ogni volta che il lettore si trova di fronte a un segno, deve affrontare un processo decisionale che porta con sé conseguenze a catena sull’interpretazione dei segni successivi e del testo nell’insieme.

 

Questo è più o meno quello che succede al cartomante: egli deve prendere decisioni a partire da quello che dicono la carte, ma deve anche – e soprattutto – tener conto delle informazioni che fino a quel momento ha raccolto e del racconto che fino a quel momento ha costruito. Chiaramente il rischio che il cartomante corre è di distruggere il rapporto fiduciario che era nato nel momento della richiesta di consultazione.

In quest’ottica, la lettura come atto semiotico, compresa la lettura delle carte, ha qualcosa in comune con i giochi di abilità o di strategia: esiste un insieme di regole da rispettare (le carte e i loro significati), ma esiste anche un certo grado di creatività che il cartomante deve saper gestire (creatività che, tra l’altro, diminuisce man mano che la divinazione procede), nonché un certo grado di rischio (di cui si è accennato sopra). Alla fine di questo processo, come ricorda ancora Osimo, «la lettura esercita una certa influenza sulla visione del mondo del lettore». Visto che finora il lettore è stato associato al cartomante, è possibile ipotizzare che stia al cartomante, attraverso le sua abilità pragmatiche di cui si è discusso prima, portare il consultante a modellizzare il suo mondo, a seguire la direzione da lui indicatagli.

 

Sempre in riferimento al nuovo «umanesimo scientifico» e per mantenere un approccio scientifico nei confronti di una pratica che di scientifico ha ben poco, gli autori dell’articolo fanno riferimento a due concetti matematici e li applicano alla cartomanzia: la teoria dei giochi e il gioco a informazione completa. La teoria dei giochi è definita come

 

la scienza matematica che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni tramite dei modelli, ovvero uno studio delle decisioni individuali in situazioni in cui vi sono interazioni tra diversi soggetti, tali per cui le decisioni di un soggetto possono influire sui risultati conseguibili da parte di un rivale (Morgenstern: 78).

 

In effetti può succedere che cartomante e consultante siano rivali: la situazione conflittuale nasce, infatti, nel momento in cui entrambi conoscono le regole del gioco, cioè i significati delle carte: a quel punto per il cartomante è più difficile vincere, qualsiasi decisione prenda. La teoria dei giochi in questo caso servirebbe ad analizzare quali decisioni il cartomante prende e per quali motivi. Quando, in un gioco che vede minimo due avversari, ogni giocatore è a conoscenza del contesto, delle regole, ma non delle azioni degli altri giocatori – come succede nel gioco degli scacchi o della dama – si parla di «gioco a informazione completa». Il gioco a informazione completa ricorda quei sistemi di divinazione in cui vengono distribuite tutte le carte (per esempio in quella romanì) e di conseguenza non viene lasciato spazio all’elemento del caso.

 

1.7 Riferimenti bibliografici

 

 

CALABRESE, OMAR, Breve storia della semiotica, Milano, Feltrinelli, 2001.

 

CAPRETTINI, GIAN PAOLO, Aspetti della semiotica, Torino, Einaudi, 1980.

 

ECO, UMBERTO, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975.

 

ECO, UMBERTO e FACCANI, REMO, I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, Milano, Bompiani, 1969.

 

EGOROV, BORIS FËDOROVIČ., «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Eco 1969: 249-260.

 

LEONE, MASSIMO, «Un genio tra le nevi», in Golem l’indispensabile, 2002, disponibile in internet all’indirizzo http://www.golemindispensabile.ilsole24ore.com/index.php?_idnodo=8699 consultato nel dicembre 2007.

 

LOTMAN, JURIJ e USPENSKIJ, BORIS, Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS, a cura di Clara Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1973.

 

MORGENSTERN, OSKAR, Teoria dei giochi, Torino, Boringhieri, 1969.

 

OSIMO, BRUNO, Corso di traduzione, Modena, Logos, 2000-2004, disponibile in internet all’indirizzo http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_15?lang=it consultato nel dicembre 2007.

 

SCIUTO, GIOVANNI, ABC della cartomanzia, Firenze, Salani, 1989.

 

VOLLI, UGO, Manuale di semiotica, Bari, Laterza, 2005.

 

WATZLAWICK, PAUL e BEAVIN, JANET, HELMICK e JACKSON, DON D., Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971.

 

 

 

Traduzione con testo a fronte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Describing a semiotic system with a simple syntax

M.I. LEKOMCEVA AND B.A. USPENSKIJ

 

Cartomancy, fortune-telling with playing cards, is a relatively simple semiotic system that can be of interest for general semiotics – for instance, in elaborating methods of descriptive semiotics – and also for general linguistics, since it is necessary to compare language with other semiotic systems in order to define it1.For this semiotic comparison, it is necessary to elaborate a semiotic typology, which can only be accomplished through uniform description of diverse semiotic systems. We can conjecture that describing simple semiotic systems is just as important for the construction of a general theory of semiotics as describing simple games like roulette, dice, and hide-and-seek is for the construction of a mathematical theory of conflict situations.

We shall describe cartomancy through two terminological systems: first the field data of cartomancy will be set forth in the metalanguage of linguistic terminology (part 1); then basic inferences will be described in terms of the Peirce-Morris logical classification of semiotic phenomena (part 2).2 In conclusion, systems of cartomancy will be compared with natural languages (part 3).

 

1. Field data of cartomancy described in the metalanguage of linguistic terminology

 

Linguistic terminology is suitable for describing semiotic systems because linguistics has obviously been more fully elaborated than other semiotic disciplines. Let us note that in practice, linguistic terminology constitutes the metalanguage of semiotics. Some examples: the term “language” is now used in science to designate any sign system that functions as a program, in expressions such as “language of biology”, “language of mathematics”; the term “word” in mathematical texts; the linguistic terminology of contemporary molecular biology, and so on.

Therefore we shall describe cartomancy in linguistic terminology.
Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

M.I. LEKOMCEVA E B.A. USPENSKIJ

 

La cartomanzia, la predizione del futuro per mezzo di carte da gioco, è un sistema semiotico relativamente semplice che può essere interessante sia per la semiotica generale, per esempio nell’elaborazione di metodi di semiotica descrittiva, sia per la linguistica generale, poiché per poter definire un linguaggio è necessario metterlo a confronto con altri sistemi semiotici1. Per fare questo paragone semiotico è necessario elaborare una tipologia semiotica, che può essere realizzata solo attraverso una descrizione uniforme di sistemi semiotici diversi. Possiamo pensare che la descrizione di sistemi semiotici semplici sia importante per la formulazione di una teoria generale della semiotica, tanto quanto la descrizione di semplici giochi come la roulette, i dadi o tris lo è per la formulazione di una teoria matematica delle situazioni conflittuali.

Descriveremo la cartomanzia attraverso due sistemi terminologici: in primo luogo verranno presentati i dati empirici della cartomanzia nel metalinguaggio della terminologia linguistica (parte 1); poi verranno espressi dei primi risultati nei termini della classificazione logica dei fenomeni semiotici secondo Peirce-Morris (parte 2) 2. Infine, verranno paragonati i sistemi di cartomanzia ai linguaggi naturali (parte 3).

 

1. Dati empirici della cartomanzia descritti nel metalinguaggio della terminologia linguistica

 

La terminologia linguistica si presta alla descrizione di sistemi semiotici, perché la linguistica è stata ovviamente analizzata in modo più completo rispetto ad altre discipline semiotiche. Osserviamo che, in pratica, la terminologia linguistica costituisce il metalinguaggio della semiotica. Alcuni esempi: il termine «linguaggio» oggi è utilizzato nelle scienze per indicare qualsiasi sistema di segni che funga da programma, in espressioni come «linguaggio della biologia», «linguaggio della matematica»; il termine «parola» nei testi matematici; la terminologia linguistica della biologia molecolare attuale e così via.

Descriveremo perciò la cartomanzia utilizzando una terminologia linguistica.


1.1 Cartomancy as a language

Cartomancy is a language. In Chomsky’s terms, it can be defined as «a language with a finite number of states”.»3

 

1.2 Elements of cartomancy

Any system of cartomancy is characterized by the following components:

a) Distribution, a mechanism for generating sentences.

b) Vocabulary, which explains the cards’ meanings. There are cases where several cards form a new meaning not deducible from their original significance; for example, K♠ + 10♠ = “success in business”, 3 X 9 (three nines) = “surprise”. Such sequences are regarded as idioms and are analogous in function to individual cards (words).

 

1.2.1 Distribution

A distributive mechanism for generating sentences is given. A key semantic indicator is attributed to each sentence so that it can be read as, for instance, “what happened”, “what will happen”, “what will soothe.” In this description of fortune-telling with a pack of thirty-six cards, the cards are laid out in the following manner.

First distribution. A face card or “one’s heart” is chosen as the basis for the fortune-telling. A card (no. 1) is drawn at random and placed face up on this face card, thus expressing “what is in one’s heart”. The pack is laid out in four piles in the order indicated by figure 1.

 

 Figure 1

1.1 La cartomanzia come linguaggio

La cartomanzia è un linguaggio. In termini chomskiani può essere definita «un linguaggio con un numero finito di stati»3.

 

1.2 Elementi del sistema cartomantico

Ogni sistema di cartomanzia è caratterizzato dai seguenti elementi:

a) distribuzione, un meccanismo per generare le frasi;

b) vocabolario, per spiegare il significato delle carte. Ci sono casi in cui più carte formano un nuovo significato che non è deducibile dal loro significato originale; per esempio, K♠ + 10♠ = «successo negli affari», 3 X 9 (tre nove) = «sorpresa». Tali sequenze sono considerate espressioni idiomatiche e hanno una funzione analoga a quella delle singole carte (parole).

 

1.2.1 Distribuzione

Il meccanismo di distribuzione per generare le frasi è stabilito. A ogni frase viene attribuito un indicatore semantico specifico, che permette di leggere la frase stessa come, per esempio, «cos’è successo», «cosa succederà», «cosa tranquillizzerà». In questa descrizione di predizione della fortuna con trentasei carte, le carte vengono disposte nel modo seguente.

Prima distribuzione. Come base per la predizione viene scelta una figura [carta illustrata, N.d.T.], «il cuore». Una carta (numero 1) viene pescata a caso dal mazzo e messa scoperta sopra questa figura, esprimendo così «quello che uno ha nel cuore». Le carte sono divise in quattro mazzi nell’ordine indicato dalla figura 1.

Figura 1

Then cards 2 and 3 are laid down from pile one, 4 and 5 form pile two, 6 and 7 from pile three, 8 and 9 from pile four, and 10 through 17 consecutively from the remaining deck. Then three cards are discarded and number 18 is laid down; another three cards are discarded and number 19 is laid down; three more discards, and number 20 is laid down; three more discards, and number 21 is laid down (see figure 2).

 

Figure 2

The cards held in one’s hand, number 1 and numbers 18-21, play a fundamental role for the person by showing “what is happening in one’s heart” (the first sentence). Cards 2, 3, 10, 14, 12, and 16 are “nearby thoughts and events” now taking place (the second sentence). Cards 4, 5, 13, 17, 11 and 15 are “more distant thoughts and events” (the third sentence).

Second distribution. Cards of the same denomination are discarded by pairs, first those having the same color, then those of different colors; the discarded cards no longer take part in the fortune-telling. The remaining deck is shuffled, and cards are drawn from it one at time until the total number of cards reaches sixteen.


Successivamente si dispongono le carte 2 e 3 del primo mazzo, la 4 e la 5 del secondo mazzo, la 6 e la 7 del terzo mazzo, la 8 e la 9 del quarto mazzo, e dalla decima alla diciassettesima del mazzo rimanente. Poi si scartano tre carte e si dispone la numero 18; si scartano ancora tre carte e si dispone la numero 19; tre scarti ancora e si dispone la numero 20; tre scarti ancora e si dispone la numero 21 (figura 2).

 

Figura 2

 

Un ruolo fondamentale è svolto dalle carte numero 1 e 18-21 (che si tengono in mano), perché mostrano che cosa a una certa persona «succede nel cuore» (la prima frase). Le carte 2, 3, 10, 14, 12 e 16 sono «pensieri ed eventi vicini» che si stanno verificando ora (la seconda frase). Le carte 4, 5, 13, 17, 11 e 15 sono «pensieri ed eventi più lontani» (la terza frase).

Seconda distribuzione. Le carte dello stesso valore vengono scartate a coppie, prima quelle dello stesso colore, poi quelle di colore diverso; le carte scartate non saranno più utilizzate per la predizione. Le carte che rimangono nel mazzo vengono mescolate e prese una a una fino a che il numero totale non raggiunge sedici carte.


These sixteen cards are shuffled and laid out in six small groups in the order depicted in the illustration (see figure 3). The meanings of the groups are: I, “for you”; II, “for thought”; III, “for one’s heart”; IV, “what will happen”; V, “what you do not expect”; and VI, “what will soothe you” (sentences 4 – 9).

 

 

Figure 3

 

 

1.2.2 Vocabulary

The cards have the following meanings in the system being described (see table 1).4


Queste sedici carte vengono mescolate e distribuite in sei piccoli gruppi nell’ordine indicato dalla figura (figura 3). I significati dei gruppi sono: I, «per te»; II, «per il pensiero»; III, «per il cuore»; IV, «cosa succederà»; V, «cosa non ti aspetti»; e VI, «cosa ti tranquillizzerà» (frasi 4-9).

 

 

Figura 3

1.2.2 Vocabolario

Nel sistema che stiamo descrivendo, le carte hanno i seguenti significati (tabella 1)4.


Table 1

Denomination

Spades

Clubs

Diamonds

Hearts

Ace

Great unexpected trouble

(+ 10♠ = death)

(+ K♠ = bank)

(+ K♠ + A♣ = bank note)

A letter

(+ K♣ o Q♣ = house of clubs)

Great interest

(+ A♣ = interesting letter)

(+ K♦ o Q♦ = house of diamonds)

House of hearts

(+ A♣ = affectionate message)

                                                                                                   4 × A = fulfilment of wishes

                                                                                                        3 × A = change in hopes and undertakings

King

Important person

Dark-haired man

Fair-haired man

Brown-haired man

K + Q of the same suit = family man

Presence of Q of the same suit as the K whose fortune is being told increases the probability of the events indicated by the cards surrounding the Q

4 × K o 3 × K = large or small male society

Queen

Boredom

Brunette

Blonde

Brown-haired woman

Q♣ + Q♦ + Q♥ = female society

4 × Q = gossips

Presence of K of the same suit as the Q whose fortune is being told increases the probability of the events indicated by cards surrounding the K

Every Q in the presence of Q♠ signifies a sly woman

Jack

Troublesome  cares

(+ K♠ = troubles in work or in business in general)

Troubles of the suit to which J belongs

4 × J = great troubles

10

Unpleasantness

(+ K♠ = success in business or work)

Change in life

(+ 9♣ = complete change in life)

Money

(+ A♦ = a great deal of money)

Wedding

(+ 9♥ = perfect wedding)

                                                                                                                                         3 × 10 = change in life

       4 × 10 = change in circumstances for the better

9

Losses

(+ Q♠ = boredom at heart)

Betrothal

                                                                                                            9 + K o Q of the same suit = disposition at heart

8

Illness

(+ K♠ = meeting with K♠)

Tears

Belongings

8 + K o Q of the same suit = a meeting

                                                                    4 × 8 = amorous rendez-vous

7

Quarrel

(+ K♠ = conversation with K♠)

Conversation

                                                               4 × 7 = idle conversations

6

Unpleasant journey

(+ K♠ = long journey)

Journey to the corresponding suit


Tabella 1

Denominazione

Picche

Fiori

Quadri

Cuori

Asso

Grande problema inaspettato

(+ 10♠ = morte)

(+ K♠ = banca)

(+ K♠ + A♣ = banconota)

Lettera

(+ K♣ o Q♣ = casa dei fiori)

Grande interesse

(+ A♣ = lettera interessante)

(+ K♦ o Q♦ = casa dei quadri)

Casa dei cuori

(+ A♣ = messaggio d’amore)

                                                                                                   4 × A = realizzazione di desideri

                                                                                                        3 × A = cambiamento delle speranze e delle iniziative

Re

Persona importante

Uomo bruno

Uomo biondo

Uomo biondo scuro

K + Q dello stesso seme = uomo di famiglia

La presenza di Q dello stesso seme di K della persona a cui è letta la fortuna aumenta la probabilità degli eventi indicati dalle carte che circondano Q

4 × K o 3 × K = compagnia maschile grande o piccola

Donna

Noia

Bruna

Bionda

Bionda scura

Q♣ + Q♦ + Q♥ = compagnia femminile

4 × Q = pettegolezzi

La presenza di K dello stesso seme di Q della persona a cui è letta la fortuna aumenta la probabilità degli eventi indicati dalle carte attorno a K

Qualsiasi Q in presenza di Q♠ significa donna astuta

Fante

Preoccupazioni spiacevoli

(+ K♠ = problemi di lavoro o di affari in generale)

Preoccupazioni del seme a cui appartiene J

4 × J = grandi preoccupazioni

10

Seccatura

(+ K♠ = successo negli affari o nel lavoro)

Cambiamento nella vita

(+ 9♣ = completo cambiamento nella vita)

Soldi

(+ A♦ = grande quantità di soldi)

Matrimonio

(+ 9♥ = matrimonio perfetto)

                                                                                                                                         3 × 10 = cambiamento nella vita

  4 × 10 = cambiamento in positivo delle circostanze

9

Perdite

(+ Q♠ = malinconia)

Fidanzamento

                                                                                                            9 + K o Q dello stesso seme = disposizione cordiale

8

Malattia

(+ K♠ = appuntamento con K♠)

Lacrime

Cose

8 + K o Q dello stesso seme = appuntamento

                                                                    4 ×8 = appuntamento amoroso

7

Lite

(+ K♠ = conversazione con K♠)

Conversazione

                                                               4 × 7 = discorsi inutili

6

Viaggio sgradito

(+ K♠ = lunga strada)

Viaggio verso il seme corrispondente

 


2. SEMIOTIC DESCRIPTION OF CARTOMANCY

 

The system of fortune-telling will be described in terms of the logical classification of semiotic phenomena.

 

2.1 Pragmatics

The system of fortune-telling, as a simple semiotic system with a small vocabulary, always contains the potential for several interpretations. The fortune-teller, whom we shall designate as A, always possesses several degrees of freedom, although the amount of freedom decreases from the beginning of divination to its end. The choice of a particular interpretation is wholly determined by pragmatics.

 

2.1.1 Fortune-telling’s specific character and pragmatic tasks

People usually resort to fortune-telling in order to obtain certitude about some behavioral program by learning “what destiny will say”. A, the fortune-teller, proceeds from this fact. A has primarily psychological tasks: he must exert a strong influence on the person whose fortune is being told, whom we shall designate as B, and must bring him to some extreme psychological state, whether one of calm or agitation. B does not simply seek advice or sympathy, but objective information pertaining to the future; A reputedly has the mystical capacity to furnish such information. A’s other task is to furnish a behavioral program. The vocabulary is the means of objectification in fortune-telling. The vocabulary consists of invariable elements accepted as being basic and sufficient to describe all possible events. The vocabulary is determined by those basic situations encountered in a specific ethnic collective. It is significant in this respect to compare Gypsy and French fortune-telling: the king of spades in French divination is “doctor”, in Gypsy, “bailiff,” and in Russian, “bureaucrat”; the French meaning, “a change in life,” is made specific in Gypsy divination as “risk in gambling or business”. Domestic and business matters, “marriage” and “finance” are the situations usually modeled in fortune-telling.


2. Descrizione semiotica della cartomanzia

 

Il sistema di predizione del futuro sarà descritto nei termini della classificazione logica dei fenomeni semiotici.

 

2.1 Pragmatica

Il sistema di predizione del futuro, essendo un sistema semiotico semplice con un vocabolario limitato, contiene sempre il potenziale per interpretazioni diverse. Il cartomante, che chiameremo A, possiede sempre diversi gradi di libertà, anche se la libertà diminuisce man mano che si arriva al termine della predizione. La scelta di una certa interpretazione ha una determinazione del tutto pragmatica.

 

2.1.1 Il ruolo specifico della cartomanzia e i suoi compiti pragmatici

In genere una persona ricorre alla predizione del futuro per avere certezze su alcuni programmi comportamentali apprendendo «quello che dirà il destino». A, il cartomante, parte da questo punto. A, prima di tutto, ha dei compiti psicologici: deve esercitare una forte influenza sulla persona alla quale sta leggendo il futuro, che chiameremo B, e deve portarla a una sorta di stato psicologico estremo, sia questo di calma o di agitazione. B non cerca semplicemente un consiglio o comprensione, ma delle informazioni oggettive riguardanti il futuro; presumibilmente A ha una capacità mistica di fornire tali informazioni. L’altro compito di A è di proporre un programma di comportamento. Il vocabolario è il mezzo di oggettivazione nella predizione del futuro. Il vocabolario è costituito da elementi invariabili accettati in quanto fondamentali e sufficienti a descrivere tutti gli eventi possibili. Il vocabolario è determinato da quelle situazioni di base incontrate in una certa collettività etnica. A questo proposito è interessante confrontare la predizione del futuro romanì con quella francese: in quella francese il re di picche significa «medico», in quella romanì «balivo» e in quella russa «plenipotenziario»; il significato francese di «un cambiamento nella vita» diventa più specifico presso i rom, cioè «rischio nel gioco d’azzardo o negli affari». Le questioni familiari ed economiche, il «matrimonio» e «le finanze» sono le situazioni che solitamente vengono modellizzate nella predizione del futuro.


The cards receive concrete meanings on these planes.

The meanings of the cards are known to A and B. While these meanings function as signifiers on the plane of expression, what is signified may be only known by B, who substitutes specific meanings from his situation for the variable signifiers; for instance, he may interpret the words “a benevolent dark-haired man” as referring to a person he knows. If a meaning is not substituted, the sentence is naturally forgotten or omitted. A and B use the same system of divination, the same language, but do so in different ways: the elements of the system function for B mainly as a code pertaining to a message, that is, as c/m, but for A as a code pertaining to a code, as proper names function; in this resides the substantial originality of the semiotics of cartomancy.5 In terms of G. Frege’s triangle of sign-meaning-referent, we can say that A only uses meanings and signs in the strict sense of the word, while B substitutes referents to complete the triangle; thus the triangle only functions in the act of communication between A and B. This is also a characteristic feature of other programming systems.

 

2.1.2 Fortune-telling’s modeling function in interpreting the present and the past

For fortune-telling to be convincing, A must not only imagine the future but also set forth B’s present and past, a topic in which B can control A. A conflict situation arises in which both A and B know the rules of the meanings of the cards, but only B knows his own present and past, and he does not communicate them to A. The situation with regard to the present and past can be described as a game for two with a passive opponent, in which personal moves are made and the element of chance is introduced because not all the cards take part in the distribution of some systems. All the cards participate in Gypsy fortune-telling, and in this sense it corresponds to a game with complete information, such as chess.6

A’s move consists of making a statement that interprets some of the cards; B’s move is to react to this. Before the interpretations, if possible, or else during them, A must collect as much information as he can about B.

 


Le carte acquistano significati concreti su questi piani.

A e B conoscono i significati delle carte. Mentre questi significati fungono da significanti sul piano dell’espressione, ciò che è significato può essere noto solo a B, che sostituisce ai significanti variabili significati specifici della sua situazione; per esempio, potrebbe interpretare le parole «un uomo bruno gentile» come riferito a una persona che conosce. Se un significato non viene sostituito, la frase viene naturalmente dimenticata od omessa. A e B utilizzano lo stesso sistema di divinazione, lo stesso linguaggio, ma lo fanno in modi diversi: gli elementi del sistema fungono per B principalmente da codice relativo a un messaggio, cioè da c/m, ma per A da codice relativo a un codice, cioè, c/c, come succede per i nomi propri; in questo risiede la sostanziale originalità della semiotica della cartomanzia5. Nei termini della triade segno-senso-riferimento di G. Frege, possiamo dire che A utilizza solo il senso e il segno nel senso stretto delle parole, mentre B sostituisce i riferimenti per completare la triade; perciò la triade funziona solo nell’atto di comunicazione tra A e B. Questa è anche una caratteristica tipica di altri sistemi di programmazione.

 

2.1.2 La funzione modellizzante della predizione del futuro nell’interpretare il presente e il passato

Perché la predizione del futuro sia convincente, A non solo deve immaginare il futuro, ma deve anche riferire il presente e il passato di B, campo in cui B può controllare A. Una situazione conflittuale nasce nel momento in cui sia A sia B conoscono le regole dei significati delle carte, ma solo B conosce il proprio presente e passato e non li riferisce ad A. La situazione del presente e del passato può essere descritta come un gioco a due con un avversario passivo, un gioco in cui si fanno le proprie mosse personali e s’introduce l’elemento del caso, perché in alcuni sistemi non tutte le carte vengono distribuite. Nella predizione del futuro romanì, invece, si utilizzano tutte le carte, e in questo senso essa corrisponde a un gioco a informazione completa, come gli scacchi6.

La mossa di A consiste nel costruire una frase che interpreti alcune carte; la mossa di B è reagire. Possibilmente prima delle interpretazioni, o anche durante, A deve raccogliere più informazioni possibili riguardo a B.


It is significant that a Gypsy camp, in leaving a village, leaves behind coded information about the inhabitants and imminent events in an agreed place; professional urban fortune-tellers may have a special information service, a kind of investigative section. Some quantity of information accumulates during the course of the fortune-telling in connection with the reactions of response; those features that most agitate B during the course of the divinatory process are picked out and special attention is focused on them. Hypotheses are consecutively constructed and verified on the basis of this material and information gathered before-hand. What B says conditions the order in which the cards are read. The least informative cards, such as “change”, are read first, and the fortune-teller passes from them to cards that convey an ever greater amount of information. Consecutive distributions of the cards are significant, for in this way the cards receive a more definite meaning.

Divination of past and present is a game: if it succeeds, A wins B’s confidence; if it fails and the game is lost, A usually refuses to continue with the divination, since the “card did not turn up.” As a result of successful divination, B’s internal and external world is modeled, and he ascertains conventional ties between A’s terms and his own concrete substitutions.

 

2.1.3 Fortune-telling’s programming function in interpreting the future

A then proceeds to foretell B’s future, which is a programming rather than a modeling function. A situation has already taken shape, and much is determined by the system itself, so that A now has far less freedom. The whole divination in its entirety can thus be defined as a self-generating system. The outcome of divination can create a certain state of mind in B that influences his subsequent behavior voluntarily or involuntarily and inclines him in the direction of the predicted behavior. In this sense we can speak of the reality of prognostications of the future. The fortune-teller’s parapsychological abilities can also be used in the pragmatics of fortune-telling.


È significativo che un accampamento rom, allontanandosi da un paese, lascia in un luogo convenuto informazioni in codice sugli abitanti e sugli eventi imminenti; certi cartomanti urbani professionali hanno un servizio speciale di informazione, una sorta di sezione investigativa. Alcune informazioni vengono accumulate nel corso della predizione in base alle reazioni; si individuano gli elementi che più agitano B durante il processo divinatorio e a questi si presta un’attenzione speciale. Le ipotesi sono costruite e verificate una dopo l’altra, in base a questo materiale e alle informazioni raccolte precedentemente. Quello che dice B condiziona l’ordine in cui vengono lette le carte. Le carte meno informative, come «cambiamento», vengono lette per prime; il cartomante passa poi alle carte che trasmettono una quantità maggiore di informazioni. Le successive distribuzioni di carte sono importanti, perché in questo modo le carte acquistano un significato più definito.

La divinazione del passato e del presente è un gioco: se riesce, A si guadagna la fiducia di B; se fallisce e il gioco è perso, A in genere si rifiuta di continuare con la predizione perché le carte «non sono venute». Se la divinazione ha successo, il mondo interno ed esterno di B viene modellizzato ed egli può verificare i legami convenzionali tra le parole di A e le sue sostituzioni concrete.

 

2.1.3 La funzione di programmazione della predizione nell’interpretare il futuro

A continua poi a predire il futuro di B; questa è una funzione di programmazione piuttosto che di modellizzazione. Una situazione ha già preso forma, e il grosso è determinato dal sistema stesso così che, ora, A ha molta meno libertà. L’intera divinazione, nella sua globalità, può essere perciò definita come sistema autogenerante. L’esito della divinazione può creare un determinato stato d’animo in B, che influenza volontariamente o involontariamente il suo successivo comportamento e lo porta nella direzione del comportamento predetto. In questo senso possiamo parlare di realtà della predizione del futuro. Le capacità parapsicologiche del cartomante possono anche essere utilizzate nella pragmatica della predizione del futuro.

 


2.2 Semantics

2.2.1 Subject and predicate in fortune-telling

Cards belong according to their meanings either to the class of persons, subjects, or to the class of predicates. The most important indicator is B, the person whose fortune is being told.

 

2.2.2 Key planes in fortune telling

As we said concerning pragmatics, meanings can be interpreted concretely according to the general plane on which the situation manifests itself, usually the marital or financial plane; and also according to particular planes such as “for one’s heart,” “for thought,” “what will happen,” or “what will soothe,” as in a musical key or mathematical quantum. The general plane pertains to all the sentences of fortune-telling, to the entire “text”, while the particular planes define the separate sentences. Meanings are actually composed of the totality of these general and particular planes along with the basic meanings of the cards.

 

2.2.3 Description of the basic meanings of the cards

We can describe the semantics of the system of fortune-telling by means of a table of semantic factors (see table 2). The table is relatively simple, and the overwhelming majority of meanings are described by pairs of semantic factors. Let us note that the number of factors can be reduced, but that the table then becomes more complicated and less obvious with the appearance of polynomial meanings7, for whose graphic representation a multidimensional space is required. It is surmised further that the proposed semantic factors are real not only for the system being described here, but for the majority of cartomantic systems. A polynomial meaning such as “unpleasant troubles” – “unpleasantness, conversations, business,” where the left factor defines the right, can be described either through binomials, or else as “unpleasant business” + “conversational business”, regarding each attribute as directly defining the factor which is furthest to the right
2.2 Semantica

2.2.1 Soggetto e predicato nella predizione del futuro

A seconda dei loro significati, le carte appartengono o alla classe delle persone, i soggetti, o alla classe dei predicati. L’indicatore più importante è B, la persona a cui viene letta la fortuna.

 

2.2.2 Piani fondamentali nella predizione del futuro

Come è stato detto riguardo alla pragmatica, i significati possono essere interpretati concretamente a seconda del piano generale sul quale la situazione si manifesta, solitamente il piano matrimoniale o finanziario, e anche a seconda di piani particolari come «quello che uno ha nel cuore», «il pensiero», «cosa succederà» o «cosa tranquillizzerà», come in una chiave musicale o un quanto matematico. Il piano generale è relativo a tutte le frasi della predizione, al testo intero, mentre i piani particolari definiscono le singole frasi. I significati sono in realtà composti dall’insieme del piano generale, del piano particolare e dai significati base delle carte.

 

2.2.3 Descrizione dei significati base delle carte

Possiamo descrivere la semantica del sistema di predizione del futuro attraverso una tabella di fattori semantici (vedi tabella 2). La tabella è relativamente semplice e la schiacciante maggioranza dei significati è descritta con delle coppie di fattori semantici. Notiamo che il numero dei fattori può essere ridotto, ma che la tabella, con la comparsa di significati polinomiali per la cui rappresentazione grafica è necessario uno spazio pluridimensionale, diventa poi più complicata e meno chiara. Si suppone, in seguito, che i fattori semantici proposti siano reali non solo per il sistema che stiamo descrivendo, ma per la maggior parte dei sistemi di cartomanzia. Un significato polinomiale come «preoccupazioni seccanti» – «seccatura, discorsi, affari», dove il fattore di sinistra definisce quello di destra, può essere descritto sia attraverso dei binomi, cioè come «affari seccanti» + «affari discorsivi», considerando che ogni attributo definisce direttamente il fattore che sta più a destra,


or as “unpleasant conversations” + “conversational business,” regarding each factor as defining the factor which follows to the right.

In a table of the type being proposed, it is more convenient to choose the latter method.

 

2.3 Syntax

The order in which the cards are read is determined by their semantics. Face cards, the subjects, come first. The remaining cards, the predicates, can be assessed for significance by the determining force of the reading order; a card’s force in inversely proportional to the quantity of information contained in its meaning, as discussed above regarding pragmatics. The syntax of the cartomantic system is very simple, and there is great freedom in the order of reading its elements, as should be expected from a simple language with a limited vocabulary, for instance the language of naval signals.


sia come “discorsi seccanti” + “affari discorsivi” considerando che ogni fattore definisce il fattore che segue a destra.

Nel tipo di tabella che stiamo proponendo è più comodo scegliere il secondo metodo.

 

2.3 Sintassi

L’ordine in cui vengono lette le carte è determinato dalla semantica delle carte stesse. Le figure (i soggetti) vengono per prime. Delle carte rimanenti, i predicati, è possibile valutare la significatività a seconda della forza determinante dell’ordine di lettura; la forza di una carta è inversamente proporzionale alla quantità di informazioni contenute nel suo significato, come si è detto prima per la pragmatica. La sintassi del sistema della cartomanzia è molto semplice e c’è grande libertà nell’ordine di lettura dei suoi elementi, come ci si dovrebbe aspettare da un linguaggio semplice con un vocabolario limitato, per esempio il linguaggio dei segnali navali.


3. THE SYSTEM OF CARTOMANCY COMPARED TO NATURAL LANGUAGES

The system of cartomancy is a language with a finite number of states, limited semantics, and very simple syntax. The reading order in cartomancy is not determined by the sequence of cards, but by their semantics, in a manner similar to certain artificial languages with a limited semantics.

From a typological standpoint, the language of cartomancy should be related to the number of isolating elements. In some systems, the meanings of the cards vary regularly according to the position in which the cards lie, which can be determined either by particular features of distribution, or by the substance of the material; for example, some cartomantic systems are designed with asymmetrical cards that have a top and bottom. This phenomenon is formally analogous to the paradigm of words in natural languages; but it is distinguished in content by the fact that the paradigm’s meanings are not relational but specifying, as particularly in the paradigm of word-building in isolating languages.

 

Different readings of the cards’ meanings, which depend on the initially given situation, are analogous to variations of meaning depending on context in natural languages. The same holds true for the Aranda language, in which a meaningful text cannot be perceived without a preliminary artificial recreation of the situation by means of dramatic enactment,8 since in practice any segment of the text is so polysemantic that it has no meaning outside the situation. As in natural languages, preceding words influence following words, and preceding sentences influence following sentences. Like natural languages, cartomantic systems are socially and ethnically conditioned. Some cartomantic relations possess a certain secrecy, and in this respect fortune-telling resembles the secret argot of closed societies.


3. Il sistema della cartomanzia comparato ai linguaggi naturali

Il sistema della cartomanzia è un linguaggio con un numero finito di stati, una semantica limitata e una sintassi molto semplice. La sequenza di lettura nella cartomanzia non è determinata dalla sequenza delle carte, ma dalla loro semantica, come in alcuni linguaggi artificiali a semantica limitata.

Dal punto di vista tipologico, il linguaggio della cartomanzia va messo in relazione con il numero di elementi isolanti. In alcuni sistemi, i significati delle carte variano regolarmente a seconda della posizione nella quale si trovano le carte, che può essere determinata da caratteristiche particolari di distribuzione o dal contenuto del materiale; per esempio, alcuni sistemi di cartomanzia sono disegnati con carte asimmetriche che hanno una parte alta e una bassa. Formalmente questo fenomeno è analogo al paradigma delle parole nei linguaggi naturali; ma si distingue nel contenuto per il fatto che i significati dei paradigmi non sono relazionali ma specifici, in particolare come nel paradigma di costruzione delle parole nei linguaggi isolanti.

 

Le diverse letture dei significati delle carte, che dipendono dalla situazione iniziale data, sono analoghe alle variazioni di significato che nei linguaggi naturali dipendono dal contesto. Lo stesso vale per la lingua aranda, in cui un testo significativo non può essere percepito senza una preliminare ri-creazione artificiale della situazione attraverso una rappresentazione teatrale8, poiché in pratica ogni frammento del testo è talmente polisemantico da non avere significato al di fuori di quella situazione. Come nei linguaggi naturali, le parole precedenti influenzano quelle successive, e le frasi precedenti influenzano quelle successive. Come i linguaggi naturali, i sistemi di cartomanzia sono etnicamente e socialmente condizionati. Alcune relazioni nella cartomanzia hanno una certa segretezza, e a questo proposito la predizione del futuro ricorda il gergo in codice delle società segrete.


Table 2

Defined Factors  1. News 2. House 3. Unpleasant 4. Pleasant 5. Journey 6. Conversation 7. Belongings 8. Interest (feeling) 9. Marriage 10. Change 11. Business (financial) 12. Man 13. Woman 14. Fair-haired 15. Dark-haired 16. Brown-haired
Defining Factors
1. News A♣
2. House Q♠
3. Unpleasant A♠10♠ 6♠ 7♠3J♠ 19♠ 8♣ 8♠ Q+Q♠
4. Pleasant A♥+
A♣
9+Q,9+K 4 X 10
5. Journey
6. Conversation 7♣,
7♦,
7♥,
8 + K,
8 + Q
J,4 X J,

J♠3,

(J♠

+

K♠)4

7. Belongings 10♦,10♦,

+ A♦

8♦ 9♠1,(A♠

+

10♠)2

8. Interest (feeling) A♦ +

A♣

4 X A 4 X Q A♦ 3 X A
9. Marriage 9♥ 4 X 8 10♥,10♥ +

9♥

10. Change 10♣,10♦ +

10♥ +

10♣

11.Business (financial) A♠ +K♠ +

A♣

A♠ +K♠ 10♣ +K♠ 4(J♠+ K♠) K♠
12. Man
2
(A♠ 
13. Woman 10♠) 4 X 7
14. Fair-haired A♦ +

K♦,

A♦ +

Q♦

6♦ K♦ Q♦
15. Dark-haired A♣ +K♣,

A♣ +

Q♣

6♣ K♣ Q♣
16. Brown-haired A♥ 6♥ K♥ Q♥

 

NOTE. The following signs are used in the table: the sign “,” means “or”; the sign “+” means “and”. Sequences consisting only of the designations of denominations rather than suits, such as 8 + K, mean that any cards with these denomination can be used provided that they come from the same suit. Small Arabic numerals placed as indices slightly above the designations of the cards, as in 19 and 91, are applied to the numerous meanings that are brought together as binomials. These indices are written to the left above defining meanings and are written to the right above the designations of defined meanings. There are an equal number of binomial defining and defined meanings, which together correspond to a single polynomial meaning. For example, the meaning of “loss” is formed by adding together the meanings of quadrants 3.7 and 7.10. It is apparent from the index written to the right above the name of the card in quadrant 7.10. that it needs a definition with an index number corresponding to the index number of what is being defined. We find such a definition in quadrant 3.7.

 

Tabella 2

Fattori definiti  1. Notizia 2. Casa 3. Seccante 4. Gradevole 5. Strada 6. Conversazione 7. Cose 8. Interesse (sentimento) 9. Matrimonio 10. Cambiamento 11. Affari (finanziari) 12. Uomo 13. Donna 14. Biondo 15. Bruno 16. Biondo scuro
Fattori definitori
1. Notizia A♣
2. Casa Q♠
3. Seccante A♠10♠ 6♠ 7♠3J♠ 19♠ 8♣ 8♠ Q+Q♠
4. Gradevole A♥+
A♣
9+Q,9+K 4 X 10
5. Strada
6. Conversazione 7♣,
7♦,
7♥,
8 + K,
8 + Q
J,4 X J,

J♠3,

(J♠

+

K♠)4

7. Cose 10♦,10♦,

+ A♦

8♦ 9♠1,(A♠

+

10♠)2

8. Interesse (sentimento) A♦ +

A♣

4 X A 4 X Q A♦ 3 X A
9. Matrimonio 9♥ 4 X 8 10♥,10♥ +

9♥

10. Cambiamento 10♣,10♦ +

10♥ +

10♣

11. Affari (finanziari) A♠ +K♠ +

A♣

A♠ +K♠ 10♣ +K♠ 4(J♠+ K♠) K♠
12. Uomo
2
(A♠ 
13. Donna 10♠) 4 X 7
14. Biondo A♦ +

K♦,

A♦ +

Q♦

6♦ K♦ Q♦
15. Bruno A♣ +K♣,

A♣ +

Q♣

6♣ K♣ Q♣
16. Biondo scuro A♥ 6♥ K♥ Q♥

 

NOTA. I segni seguenti sono utilizzati nella tabella: il segno «,» significa «oppure»; il segno «+» significa «e». Le sequenze formate solo da valori e non da semi, come 8 + K, significano che possono essere utilizzate tutte le carte con quei valori, purché appartengano allo stesso seme. I numeri collocati in apice ad alcune carte, come 19 e 91, sono applicati ai numerosi significati che vengono uniti in quanto binomi. Questi numeri sono messi in alto a sinistra ai significati definitori e in alto a destra ai significati definiti. Esiste un numero uguale di binomi definitori e significati definiti, che insieme corrispondono a un unico significato polinomiale. Per esempio, il significato di «perdita» viene formato unendo i significati dei quadranti 3.7 e 7.10. Dal numero messo in alto a destra al nome della carta nel quadrante 7.10, si capisce che il significato ha bisogno di una definizione con un numero che corrisponde al numero di ciò che viene definito. Troviamo tale definizione nel quadrante 3.7.

 

NOTES

 

 

  1. See F. de Saussure, Cours de linguistique générale (Paris, 1960), p. 32-35 ; L. Hjelmslev, “Prolegomeny k teorii âzyka” [Prolegomena to a theory of language], in sb. Novoe v lingvistike [the anthology, Current linguistics] (Moskow: Izd-vo inostrannoj literatury, 1960), p. 21.

(Hjelmslev’s book is available in English as Prolegomena to a Theory of Language, trans. F. J. Whitfield, 2d rev. ed. [Madison: University of Winsconsin Press, 1961]–Trans.)

 

  1. C. Morris, Foundations of the Theory of Signs (Chicago: University of Chicago Press, 1938).

 

  1. N. Chomsky, “Tri modeli opisanija jazyka” [Three models for the description of language], in Kibernetičeskij sbornink [Cybernetic anthology] (Moskow, 1961), p. 241.

(Chomsky’s 1956 article, “Three Models for the Description of  Language”, has been anthologized in Readings in Mathematical Psychology, ed. R. Duncan Luce et al. [New York: John Wiley e Sons, 1965], vol. 2, pp. 105-24–Trans.)

 

  1. The face card that is the basis for the fortune-telling does not enter into idiomatic constructions except in the case of combinations between kings and queens.

 

  1. This sentence is taken from the first published version of this essay “Gadanie na igral’nyh kartax kak semiotičeskaja sistema» [Fortune-telling with playing cards as a semiotic system], which appeared in Simpozium po strukturnomu izučenijû znakovyx sistem: Tezisy dokladov [Symposium on the Structural Study of Sign Systems: theses of the reports] (Moscow: AN SSSR, 1962), p. 84–Trans.

 

 

NOTE

 

 

  1. Si veda F. de Saussure, Cours de linguistique générale (Parigi, 1960), 32-35; L. Hjelmslev, «Prolegomeny k teorii âzyka» [Prolegomena to a theory of language], in Novoe v lingvistike (Moskvà: Izdatel´stvo inostrannoj literatury, 1960), 21.

(Il libro di Hjelmslev è disponibile in inglese come Prolegomena to a Theory of Language, trad. F. J. Whitfield, seconda edizione riveduta [Madison: University of Winsconsin Press, 1961].

 

  1. C. Morris, Foundations of the Theory of Signs (Chicago: University of Chicago Press, 1938).

 

  1. N. Chomsky, «Tri modeli opisaniâ âzyka» in Kibernetičeskij sbornink (Moskvà, 1961), 241.

(L’articolo di Chomsky del 1956, «Three models for the Description of Language», è stato pubblicato in Readings in Mathematical Psychology, a cura di R. Duncan Luce e al. [New York: John Wiley e Sons, 1965], vol. 2, 105-24).

 

  1. La figura, che è la base della predizione del futuro, non rientra nei costrutti idiomatici tranne in caso di combinazioni tra re e regine.

 

  1. Questa frase è stata presa dalla prima versione pubblicata di questo saggio, «Gadanie na igral´nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema» apparsa in Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov (Moskvà: AN SSSR, 1962), 84.

 

 

 

 

 

  1. See R. Duncan Luce and Howard Raiffa, Igri i rešeniâ [Games and decisions] (Moscow, 1961).

(Luce and Raiffa’s Games and Decisions was originally published in  New York by John Wiley and Sons in 1957–Trans).

 

  1. Polynomial meanings are those meanings that can only be described by using more than two semantic factors.

 

  1. See A. Sommerfelt, La langue et la société (Oslo, 1938), p. 124. See also S .D. Kacnel’son, “Jazyk poèzii i pervobytnaja obraznaja reč” [The language of poetry and primitive figurative speech], Izvestija OLJa AN SSSR [Proceedings of the Department of Literature and Language of the Academy of Sciences, USSR] 6, no. 4 (1947).

 

  1. Si veda R. Duncan Luce e Howard Raiffa, Igry i rešeniâ (Moskvà, 1961).

(Games and Decisions di Luce e Raiffa fu originariamente pubblicato a New York da John Wiley e Sons nel 1957).

 

  1. I significati polinomiali sono quei significati che possono essere descritti usando più di due fattori semantici.

 

  1. Si veda A. Sommerfelt, La langue et la société (Oslo, 1938), 124. Si veda anche S .D. Kacnel´son, «Âzyk poeziû i pervobytnaâ obraznaâ reč», Izvestiâ OLÂ AN SSSR 6, n. 4 (1947).

 

 

 



[1] Con J.H. Beavin e D.D. Jackson in Pragmatica della comunicazione umana.

[2] Per i significati delle carte si veda la tabella 1.

ELISABETTA FELLONI William Arrowsmith, Le convenzioni dominanti della traduzione

William Arrowsmith,
Le convenzioni dominanti della traduzione

ELISABETTA FELLONI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della mediazione linguistica primavera 2008

© William Arrowsmith – 1961
© Elisabetta Felloni per l’edizione italiana – 2008

Abstract in italiano

William Arrowsmith, The lively conventions of translation, 1961. Questo saggio – scritto in un’epoca precedente alla fondazione di una disciplina specificamente dedicata allo studio della traduzione – è opera del curatore del libro-raccolta The Craft and Context of Translation. Pur essendo calato in un contesto culturale in cui mancavano ancora i concetti di «adeguatezza» e «accettabilità», di «traduzione postcoloniale» e di «culturocentrismo traduttivo», Arrowsmith, usando come materiale empirico le traduzioni dal greco antico all’inglese contemporaneo delle commedie di Aristofane, fa delle affermazioni di grandissima attualità. Ne sono esempio il concetto di «traduzione per convenzioni» in contrapposizione alla «traduzione per parole», che esprime l’importanza della culturospecificità di molti elementi, non necessariamente linguistici, presenti nelle commedie e assolutamente indispensabili per conservare l’aspetto comico del testo. Tale comicità viene giustamente considerata una vera e propria «dominante» della traduzione, concetto quest’ultimo già elaborato da Jakobson negli anni Trenta ma che sarebbe stato diffuso nella letteratura scientifica occidentale soltanto in séguito.

English Abstract

William Arrowsmith, The lively conventions of translation, 1961. This essay is taken from the collection The Craft and Context of Translation edited by William Arrowsmith in the 1960s, before a specific science of translation was founded. In a cultural period when the notions of ‘adequacy’ and ‘acceptability’, ‘postcolonial translation’ and ‘ethnocentrism in translation’ were not explored yet, Arrowsmith analyses the difficulties in translating Greek comedies into contemporary English in an adequate way, that is, keeping the original wit, and arrives at conclusions that preserve their actuality. To Arrowosmith, ‘translation by convention’ – rather than word by word translation – is necessary to convey the humour. Greek comedy has many culture–specific – not necessarily linguistic – elements that must be conveyed to keep the humour. Wit in the Greek comedy is then considered a real dominant trait. In translation, this concept was developed by Jakobson in the 1930s and only later became known in European research.

Résumé en français

William Arrowsmith, The lively conventions of translation, 1961. Cet essai, écrit à une époque antérieure à la fondation d’une discipline pour l’étude de la traduction, a été rédigé par le coordinateur du recueil d’essais The Craft and Context of Translation. Bien que le contexte culturel de l’époque ne connaisse pas les concepts d’“adéquat” et d’“acceptable”, de “traduction postcoloniale” et de “culturo-centrisme de la traduction”, Arrowsmith, en utilisant les traductions des comédies d’Aristophane du grec ancien à l’anglais contemporain, parvient à des conclusions avantgardistes pour son époque. Le concept de “traduction par convention” par rapport à la “traduction par les mots” en est un exemple et démontre l’importance de la spécificité culturelle de beaucoup d’éléments – pas nécessairement linguistiques – qui se trouvent dans les comédies et qui sont nécessaires pour maintenir l’esprit comique. Ce comique est considéré à juste titre comme une véritable “dominante” de la traduction, concept déjà développé par Jakobson dans les années Trente, mais diffusé plus tard seulement dans la littérature occidentale.

1

Sommario

Abstract in italiano ……………………………………………………………………………………………. 1 English Abstract………………………………………………………………………………………………… 1 Résumé en français ……………………………………………………………………………………………. 1 Sommario …………………………………………………………………………………………………………. 2 Prefazione ………………………………………………………………………………………………………… 3

Biografia ………………………………………………………………………………………………………. 3

Conclusioni …………………………………………………………………………………………………… 5 Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………… 6 Traduzione con testo a fronte ……………………………………………………………………………… 7

2

Biografia

Prefazione

William Arrowsmith nacque il 13 aprile 1924 a Orange, nel New Jersey. La professione di docente universitario lo portò in molte città degli Stati Uniti, per stabilirsi poi definitivamente in un lussuoso appartamento sulla Fifth Avenue a New York, insieme alla compagna Marianne Meyer. La sua morte nel 1992 privò la vita intellettuale americana di uno dei suoi più brillanti uomini di cultura. William Arrowsmith era un uomo di corporatura robusta, di media altezza, con la barba appena accennata e i modi imperiosi di un comandante in capo. Era un attore per istinto, cantava, recitava e improvvisava con abbandono e amava l’ilarità oscena, proprio come Aristofane. La sua risata era contagiosa (James W. Tuttleton 1994).

La sua personalità eclettica lo spinse a dedicarsi alla cultura in svariate forme: era docente universitario, studioso di teorie dell’insegnamento, poeta e traduttore, classicista, esperto di teatro e critico cinematografico, autorità in materia di letteratura italiana moderna e grande appassionato dell’Italia.

Dovunque andasse, William Arrowsmith otteneva riconoscimenti, lauree honoris causa (da Princeton a Oxford), premi e finanziamenti per la ricerca sui metodi di insegnamento. Pubblicò numerosi saggi e articoli innovativi sulle principali riviste americane, che lo resero noto al grande pubblico: da Harper’ s Magazine a Life.

La sua carriera universitaria lo portò nelle più importanti università americane, dove riusciva a prestare la sua opera solo per qualche anno. La sua critica feroce verso i classicisti, che definiva pedanti e ignoranti, e la rabbia verso le istituzioni, accentuata dal periodo storico di

3

quegli anni di contestazioni e lotte per i diritti civili lo portavano a creare agitazione ovunque andasse.

Arrowsmith fu sicuramente influenzato dal periodo storico sociale in cui prestò la sua opera. Gli anni Sessanta furono un periodo tumultuoso per le università americane. La guerra in Vietnam produsse forti movimenti studenteschi antimilitari e pacifisti, ma gli studenti dimostravano anche contro un sistema universitario che non permetteva il dialogo. In questo contesto, le teorie innovative di Arrowsmith sull’importanza dell’insegnamento e sul fallimento dell’educazione universitaria tradizionale erano assolutamente il riflesso dei tempi.

Nei suoi saggi “Arts and Education” e “Graduate Study and Emulation” ha descritto brillantemente il disagio che si respirava nelle università. Nei saggi “The shame of the Graduate Schools” e “The future of Teaching” affermava che la vita universitaria negli Stati Uniti era timida, priva d’immaginazione, inefficace, destrutturata e futile perché «gli umanisti avevano tradito le discipline classiche». Non accettava, dell’insegnamento americano, di aver scelto il modello tedesco, un sistema in cui un dubbio scientismo, volto meramente a inculcare informazioni, era stato adottato anche per le discipline umanistiche. L’idea di una ragione al controllo del sé, del corpo e delle passioni era insomma un concetto piuttosto arido, per niente congeniale all’autore e del resto alla cultura emergente del suo tempo. L’insegnamento per Arrowsmith era quello socratico, fondato cioè sul “principio dell’influenza personale e dell’esempio”. Egli maturò un proprio metodo contrapposto all’aridità dei classicisti e fondato sulla capacità critica, «a habit of mind based on knowledge and love». Per essendo un classicista, non diede preminenza alla lucidità del razionalismo greco o latino, ma fece proprie le istanze dell’eroe della tragedia greca di Sofocle, l’uomo tormentato dalla sua doppia natura, metà dio e metà animale, e in eterna lotta per realizzare il suo destino, trascendendo la sua parte animale. Così vedeva i docenti umanistici. Eroi da emulare o almeno esempi di chi conosceva la grandezza dell’eroe e la desiderava per sé e per i propri studenti.

In tal senso si può affermare che Arrowsmith sia stato plasmato dagli anni Sessanta. Pur non avendo mai fatto riferimento esplicito alla situazione storica sociale dell’epoca, è chiaro che alcuni aspetti delle sue teorie fossero assolutamente frutto dell’epoca in cui operò.

La profonda conoscenza dei classici e della letteratura lo portò anche a dedicarsi in

4

prima persona alla traduzione dei suoi autori preferiti. Nel 1951 pubblicò la traduzione di Satyricon, nel 1961 tradusse Gli uccelli di Aristofane e nel 1962 pubblicò la traduzione di Le nuvole di Aristofane. Da traduttore a editore, coordinò la realizzazione di una collana completa delle tragedie greche, tra cui traduce in prima persona Euripide.

Nel frattempo scrive saggi di traduzione, tra cui nel 1961 The Craft and Context of Translation, la raccolta da cui è tratto il testo di seguito tradotto. Appassionato della cultura italiana e amante dell’Italia traduce Cesare Pavese e Montale di cui traduce Ossi di Seppia (Fishbones), che gli valse anche il titolo di poeta. Critico cinematografico, nutriva una vera passione per Antonioni.

Conclusioni

William Arrowsmith fu senza dubbio un uomo dalla personalità spiccata, talvolta accattivante, ma anche difficile e spigolosa. Il saggio di seguito riportato e tradotto riflette lo stile di questa fervida mente. Il suo modo di costruire le frasi, la scelta delle parole e degli aggettivi, il continuo contrasto tra una struttura sintattica molto ricercata e la scelta di un registro talvolta molto colloquiale, talvolta persino scurrile, in alcuni passi invece aulico e altisonante (proprio come Aristofane), la scelta di espressioni italiane, francesi, latine e parole “costruite”, collocazioni audaci molto figurate rendono questo saggio un testo vivace, colorito, molto connotativo dell’autore, creando nel lettore un’immediata e forte simpatia nei confronti di un autore che trasuda personalità nei suoi scritti. Tradurre il suo saggio è stato per me inizialmente una grande sfida, trovandomi di fronte a un testo complesso e difficile da rendere nelle sue mille sfaccettature. Poi è diventato oltre che un onore, un vero e proprio piacere nell’analizzare le singole scelte linguistiche e lessicali dell’autore. Di fronte a uno stile così ricercato e volutamente studiato dove nemmeno una virgola è lasciata al caso, ho ritenuto che la miglior strategia da adottare fosse rimanere il più possibile aderente al testo originale, mantenendo quindi la complessità delle frasi e accordandomi di volta in volta al livello di registro scelto dall’autore. Per quanto riguarda gli aspetti contenutistici del testo, l’autore si colloca in un periodo in cui ancora non esisteva ufficialmente una scuola di traduttologia, ma egli anticipa una serie di concetti che saranno ampiamente trattati dalla scuola semiotica. L’autore sviscera il tema delle convenzioni dominanti all’interno della traduzione prendendo come esempio la

5

traduzione della commedia greca, uno dei generi forse più difficili da tradurre, per la difficoltà di riportare l’elemento comico nella cultura ricevente.

Riferimenti bibliografici

FELDER, RICHARD, «The Myth of the Superhuman Professor» in Journal of Engineering Education, 82(2), 105–110 (1994). Disponibile in internet all’indirizzo http://www4.ncsu.edu/unity/lockers/users/f/felder/public/Papers/Mythpap.html; consultato nel mese di gennaio 2008.

HARRIS, WILLIAM, «Some thoughts about Bill Arrowsmith» in Humanities and the liberal arts. Disponibile in internet all’indirizzo http://community.middlebury.edu/~harris/Classics/Arrowsmith.html; consultato nel mese di gennaio 2008.

JAKOBSON R. «On linguistic aspects of translation». Traduzione: «Aspetti linguistici della traduzione», 1959, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966: 56–64.

OSIMO B. Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002.

OSIMO, B. Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001.

POPOVIČ A. La scienza della traduzione. Aspetti metodologici – La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2006.

TUTTLETON, JAMES W., «William Arrowsmith: a recollection» in The New Criterion Vol. 12, No. 10, June 1994. Disponibile in internet all’indirizzo http://www.newcriterion.com/archive/12/jun94/tutu.htm; consultato nel mese di gennaio 2008.

6

Traduzione con testo a fronte

7

WILLIAM ARROWSMITH

The Lively Conventions of Translation

When we speak of a ‘literary convention’, convention means less actual agreement than some shared assent, either conscious or unconscious. It looks like habit which creates the expectation that the habit will be continued; habit grown tacit, an inarticulate assent to a ‘promise’ that somehow sprang up and whose existence dismisses the questions that might otherwise trouble its status, its absurd artificiality and its pleasure in the effects of its pretence. Wherever we look in literature, convention is with us; and nowhere is it –or ought it to be – more prominent than in the act of translation. And yet what more startling convention could there be than this assent on which translation rests, this fiction of the impossible or downright absurd? Hektor the Trojan speaks Greek, and we accept it; and then in translation we also accept Hektor the Greek–speaking Trojan who speaks English. This fact of absurdity, this indispensable pretence, is the central lively convention of all translation.

But translation has other conventions too. We translate, for instance, into the literary ‘conventions’ of our own age, and although these conventions are not absolute – since the central convention allows the translator a certain strangeness, an oddness playing now and then over the language or erupting in the unassimilable artifacts of a culture not our own – they are something we disregard at our peril. And there are all the various conventions of culture too, both of the language from which we translate and our own; and these compose a necessity whose boundaries must be discovered or explored, unless we give up translation for simple ‘adaptation’. There are even conventions which we may have borrowed from other translators without being aware of the indebtedness; an obvious instance would be the assumption – or convention – that the only proper form for translating a choral ode from Greek tragedy is ‘free verse’.

8

WILLIAM ARROWSMITH

Le convenzioni dominanti della traduzione

Quando parliamo di “convenzione letteraria”, non pensiamo a un vero e proprio accordo quale può essere un consenso condiviso, consapevolmente o non. Sembra più una consuetudine, che crea l’aspettativa che tale consuetudine continuerà; una consuetudine divenuta tacita, un consenso indistinto verso una “promessa” che in qualche modo prese vita e la cui esistenza allontana i dubbi che potrebbero altrimenti turbare il suo stato, la sua assurda artificiosità e il suo piacere per gli effetti della sua finzione. Dovunque guardiamo in letteratura, la convenzione è presente; e mai quanto nell’atto della traduzione è o dovrebbe essere così importante. Eppure, quale convenzione più sorprendente ci potrebbe essere di questo consenso su cui posa la traduzione, questa finzione dell’impossibile o del vero e proprio assurdo? Ettore il Troiano parla greco, e noi lo accettiamo; e nella traduzione accettiamo anche che Ettore il Troiano che parla greco, parli inglese. Questa assurdità, questa finzione indispensabile è la convenzione dominante al centro di qualsiasi traduzione.

Ma la traduzione ha anche altre convenzioni. Traduciamo per esempio nelle “convenzioni” letterarie del nostro tempo, e sebbene non siano assolute – dato che la convenzione centrale permette al traduttore una certa estraneità, una certa bizzarria che gioca qua e là con la lingua o che erutta negli artefatti inassimilabili di una cultura che non ci appartiene – tali convenzioni sono qualcosa che ignoriamo a nostro rischio e pericolo. Ci sono inoltre tutte le varie convenzioni culturali, sia della lingua dalla quale traduciamo che della nostra; e queste costituiscono una necessità i cui confini devono essere scoperti o esplorati, a meno che non si rinunci alla traduzione per andare verso un semplice “adattamento”. Ci sono anche convenzioni prese a prestito da altri traduttori, senza neppure essere consapevoli di tale debito; un esempio ovvio potrebbe essere il concetto – o convenzione – che l’unica forma propria di traduzione di un’ode corale della tragedia greca sia il “verso libero”.

9

And if we have our own conventions, the original has its specific conventions too, such as the chorus and stichomythia in Greek drama. And the more conventions there are the more ticklish translation becomes. In some cases, the conventions may become so numerous that the only way of handling them with decent loyalty is to adopt a ‘language of conventions’, renouncing the effort to render the smaller verbal units of the original, and translating from the original’s convention into a different but analogous convention of your own language. Such attempts are almost always denounced as treacheries, either because the necessity that sparks them is not appreciated or because the argument of necessity is so frequently abused. But true necessity requires the risks of loyal improvisation and there are times – far more frequent than most scholars suppose – when the worst possible treachery is the simple–minded faith in ‘accuracy’ and literal loyalty to the original. More pertinent is the fact that literalism fails precisely because it conflicts with a convention whose demands it cannot satisfy except by becoming less literal. Only by recourse to living conventions can the difficulties be mitigated or solved.

In translating Greek comedy the conventions, whether Greek or comic or English, with which the translator must cope are so numerous as to be downright bewildering. His responsibility to his Greek text may be shaped by his responsibility to English; and that responsibility will in turn be conditioned by the kind of stage for which he is translating and even by the skills or lack of skills of the actors who will – if he is lucky – interpret it. And even supposing that the linguistic problems were easily solved, how will he solve the cultural incompatibilities between societies separated not only by custom and language but also by time? If you translate from one modern language to another, the problems are ticklish enough, but the problems of sustaining the crucial convention of ancient Greek comedy in contemporary cultural terms are as formidable as translating fiction into fact.

10

Se noi abbiamo le nostre convenzioni, anche l’originale ha le proprie convenzioni i

specifiche, come per esempio il coro e la sticomitia nella tragedia greca. E più convenzioni ci sono, più la traduzione diventa delicata. In alcuni casi, le convenzioni possono diventare così numerose che l’unico modo di gestirle con dignitosa lealtà è quello di adottare un “linguaggio delle convenzioni”, rinunciando al tentativo di rendere le più piccole unità verbali dell’originale, e traducendo la convenzione originale in una analoga della propria lingua, seppur diversa da quella originaria. Tali tentativi sono spesso denunciati come tradimenti, o perché non viene colta la necessità che li sottende, o perché si abusa del pretesto della necessità. Ma la vera necessità richiede i rischi dell’improvvisazione leale e ci sono casi – molto più frequenti di quanto buona parte degli studiosi pensino – in cui la semplicistica fede nella “precisione” e la fedeltà letterale all’originale è il peggior tradimento. La traduzione letterale infatti fallisce proprio perché entra in conflitto con una convenzione di cui non riesce a soddisfare le esigenze, a meno di non diventare meno letterale. Solo facendo ricorso alle convenzioni dominanti è possibile mitigare o risolvere le difficoltà della traduzione.

Nella traduzione della commedia greca, le convenzioni con cui il traduttore deve cimentarsi sono così numerose da essere a dir poco stupefacenti, siano esse della lingua greca, inglese o insite nella comicità stessa. La responsabilità del traduttore nei confronti del testo greco può venire a patti soltanto con la sua responsabilità verso l’inglese: e questa sarà a sua volta condizionata dal tipo di pubblico per il quale sta traducendo e persino dall’abilità o mancanza di abilità degli attori che – se è fortunato – interpreteranno il testo. E anche supponendo che i problemi linguistici siano facilmente risolvibili, come risolverà le incompatibilità culturali tra società lontane non solo per abitudini e lingua ma anche nel tempo? La traduzione da una lingua moderna a un’altra è già abbastanza delicata, ma la difficoltà di sostenere la convenzione cruciale della commedia greca antica in termini culturali contemporanei è tanto straordinaria quanto tradurre la finzione in fatti.

11

The very convention itself – the translation of an ancient classic into contemporary language and concepts – is already under the maximum possible strain. How does the translator sustain the tact that can keep so preposterous a convention from shattering into a thousand pieces?

It is initially the hard facts of culture that most torment the translator of Greek comedy,

since comedy everywhere touches common culture and the peculiar habits and

commodities that compose it. Tragedy – even Euripidean tragedy – keeps a decent

distance from common life, but comedy dumps into the translator’s lap an intolerable

profusion of things – odd bits of clothing, alien cuisine, unidentifiable objects, pots and

pans and utensils of bewildering variety and function, unfamiliar currency, etc. What, for

instance, is good idiomatic English for chitōn1 or worse, chitōnion2, or still worse, a 3

spolas ? How do we translate a currency made of talents, minas, drachmas and obols? What the devil can a translator do with a culture in which women, for esthetic reasons, depilate their pubic hairs, or with a comedian who can build a whole recognition–scene on the fact? What is reasonable English for the ‘Old–New Day’ in Clouds, or that famous effeminate kneading–trough which must also have the same gender as Kleonymos? How can you effectively translate jokes based on distinctions of gender or case in a language which fails to observe either? Before such apparent impossibilities, all translators are equal – though some are more equal than others. But the crucial requirement is tact: first, the tact of discretion by which the translator distinguishes between what is difficult and what is impossible; and second, the tact of skill with which he improvises before impossibility. Nothing more effectively dooms a translation than the failure of the translator to improvise when confronted with transparent impossibility, or the converse, the habit of improvising before what is merely difficult. In the first case, we get an intolerable literalism that threatens our central convention, while in the second, the true trials of the translator are sloughed off in the name of a spurious freedom.

1

2 Diminutive of chitōn, i.e. a little woolen undershirt.

3

A woolen undershirt; frock; kirtle.

A buff jerkin!

12

La convenzione in se stessa – la traduzione di un classico antico in lingua e concetti contemporanei – è già sotto la tensione massima possibile. Come può il traduttore evitare che una convenzione così assurda si frantumi in mille pezzi?

Inizialmente sono i crudi fatti della cultura a tormentare soprattutto il traduttore della commedia greca, dato che la commedia contiene, in tutto e per tutto, elementi della cultura comune, le particolari abitudini e gli oggetti che la compongono. La tragedia – anche quella di Euripide – mantiene una certa distanza dalla vita comune; la commedia invece scarica sul traduttore un’intollerabile profusione di cose: strani pezzi di tessuto, piatti esotici, oggetti non identificabili, pentole, padelle e utensili di incredibile varietà e funzione, monete non familiari ecc. Qual è per esempio una buona traduzione idiomatica

456 in inglese per la parola greca chitön , o peggio chitönion ? o ancora peggio, spolas ?

Come si traduce un sistema monetario fatto di talenti, mine, dracme, e oboli? Che diavolo

potrà mai fare il traduttore con una cultura in cui le donne, per ragioni estetiche, si

depilano il pube o con un commediografo che può costruire un’intera scena di

riconoscimento su questo fatto? Qual è una traduzione ragionevole in inglese per the

“Old–New Day” nelle Nuvole, o la famosa madia al femminile che può avere lo stesso ii

genere di Cleònimo ? Come si può tradurre efficacemente battute che si basano sulle distinzioni di genere o caso in una lingua che non li distingue? Di fronte a tale apparente impossibilità, tutti i traduttori sono uguali, anche se alcuni sono più uguali di altri. Il requisito fondamentale è la sensibilità: in primo luogo, la sensibilità nel discernimento mediante cui il traduttore distingue tra ciò che è difficile e ciò che è impossibile; in secondo luogo la capacità di improvvisare di fronte all’impossibilità di tradurre. Non c’è niente che possa adombrare una traduzione più dell’incapacità del traduttore di improvvisare di fronte all’evidente impossibilità, o al contrario, l’abitudine di improvvisare di fronte a ciò che è solo difficile. Nel primo caso, si assiste ad un intollerabile letteralismo che minaccia la convenzione centrale, mentre nel secondo caso i veri tentativi del traduttore vengono abbandonati in nome di una falsa libertà.

1 maglietta, camiciola di lana, tonaca

5 6

diminutivo di chiton, per es. una maglietta di lana scaldacuore scamosciato

13

If we return to those questions which I imagined the translator of comedy asking, it will be apparent that most of them are perplexing difficulties rather than impossibilities. And in the case of money and clothing, the difficulties are more apparent than real. In each case the criterion is whether or not a particular crux can be brought within the framework of our central convention or a subsidiary convention – for instance, a convention of character or rhetoric. If it can, it is a difficulty merely; if it cannot, it is either an impossibility or its difficulty is such that it requires the translator to accomplish the almost impossible, that is, to create a new convention quite literally from nothing. For clearly no convention can possibly cope with a situation in which the laws of the original language are at total odds with the translator’s own language. If Aristophanes makes puns out of the resemblances between a vocative and a feminine termination, these puns cannot possibly be carried over into English; and in such cases the translator must of necessity improvise or fail to translate at all. His improvisations, if responsible, will naturally aim at an analogous effect, but following the thrust, rather than the words or grammar, of the original.

Mere difficulty, as opposed to impossibility, can often be successfully resolved within the framework of the central convention; and if handled with tact and craft, it will in turn support the convention by which it is resolved. Here everything depends upon the effectiveness with which the central convention is sustained and shaped and the translator’s success in securing that assent without which he cannot work at all. Given a strong convention, strongly sustained, such difficulties as alien currency and clothing become comparatively trivial. But not entirely so. After all, if convention allows the translator of Italian to speak of lire rather than dollars, there is no reason why the Greek should not have his drachmas. Lire may be more familiar to modern ears, but a little shaping and emphasis by the translator, even an intruded gloss where required, will make of drachmas and obols a perfectly acceptable convention, since monetary contexts are almost second nature.

14

Ritornando alle questioni che immagino si ponga il traduttore di commedia, è evidente che si tratta per la maggior parte di grandi difficoltà ma non di impossibilità. E nel caso della moneta o degli indumenti, le difficoltà sono più apparenti che reali. Il criterio decisivo, in qualunque caso, è valutare se un dettaglio particolare può essere riportato nell’ambito della convenzione centrale, o se invece è riconducibile a una convenzione secondaria, per esempio una convenzione legata a un personaggio, oppure retorica. Nel primo caso, si tratta decisamente di una difficoltà; altrimenti, o si tratta di un‘impossibilità o la difficoltà è tale che il traduttore deve compiere quasi l’impossibile, cioè creare una nuova convenzione, quasi letteralmente dal nulla. Molto difficilmente una convenzione può ragionevolmente reggere una situazione in cui le leggi della lingua originale sono completamente agli antipodi con la lingua del traduttore. Quando Aristofane fa delle battute sfruttando le desinenze simili tra un vocativo e un femminile, tali battute non possono chiaramente essere riportate in inglese; in questi casi, il traduttore deve necessariamente improvvisare o rinunciare a tradurre del tutto. Le sue improvvisazioni, se pertinenti, devono naturalmente perseguire un effetto simile, seguendo l’impeto, piuttosto che le parole o la grammatica dell’originale.

La semplice difficoltà, in contrapposizione all’impossibilità, spesso può essere risolta con successo all’interno della convenzione centrale; e se gestita con tatto e mestiere, può a sua volta supportare la stessa convenzione con la quale è stata risolta. Tutto dipende dall’efficacia con cui è sostenuta e modellata la convenzione centrale e dal successo del traduttore nel mantenere quel consenso senza il quale egli non può proprio lavorare. Data una convenzione forte, fortemente sostenuta, le difficoltà come la moneta e gli abiti estranei diventano, a confronto, banali. Ma non è del tutto così. Dopo tutto, se la convenzione permette al traduttore italiano di parlare di lire piuttosto che di dollari, non c’è ragione per cui il greco non mantenga le sue dracme. Le lire possono sembrare più familiari all’orecchio moderno, ma con un piccolo intervento e un po’ d’enfasi da parte del traduttore, e persino con l’inserimento di una glossa se necessario, si può fare delle dracme o degli oboli una convenzione perfettamente accettabile, dal momento che il contesto monetario comunque è dato per scontato.

15

But once we establish the right of Greeks to deal in drachmas, we make it correspondingly easier for our audiences to accept still stranger conventions. A spectator who can take obols in his stride is better prepared to appreciate, say, the odd preference of the Greek male for a mons Veneris shorn of its shrubs. And it is only by making demands upon a convention that a translator can extend it and shape it. It is a perilous labor, and a crafty one too, for a jarred or broken convention spells the end of illusion. But surely the central convention itself allows, even expects, a certain strangeness, an exotic flavor: we do not require our Greeks to bear English names, and we disbelieve in them when they wear business suits or codpieces or swear by Jesus Christ. It is this fact, the initial permissiveness, the licensing of essential and nonessential oddities (as well as the prohibition of total cultural translation), which the translator enjoys by virtue of his central convention. If he is wise, he exploits it to the fullest possible advantage, deftly, gently, tactfully extending wherever possible the range of his illusion so that permitted strangenesses shore up less permitted strangenesses in a steadily rising arc of earned freedom. This freedom is, of course, limited, but it is the only meaningful freedom there is in translation. Translation is not an heroic activity nor are translators heroes, but their necessities, triumphs and failures are similar. The translator’s necessity is convention, and like most human necessities, it is ambiguous, both a blessing and a curse. What matters is how it is met and used, and whether or not the translator can earn freedom rather than slavery in accepting it. Courage in translation is patience and tact and skill, taking in order to give, sustaining complex crossed loyalties, plus a great deal of sharp practice and hankypanky in the dirty business of good language. Translation is the skill of honorable deception, which is why it is not a mug’s game.

But how far should the translator of comedy go in the direction of total cultural translation? If we dislike the literal Lysistrata of the Bohn translator, with its hideous deformities of English idiom, do we really want a Sexual Summit Conference presided over by a committee of Russian and American womanhood? Or a Knights with a demagogue called McKleon?

16

Ma, una volta stabilito il diritto dei greci di utilizzare le dracme, per il pubblico diventa anche più semplice accettare convenzioni ancora più strane. Uno spettatore che può accettare gli oboli senza batter ciglio, è più preparato ad apprezzare, poniamo, le strane preferenze del maschio Greco per un Mons Veneris privo del suo cespuglio. Ed è solo esercitando delle pretese sulla convenzione che il traduttore può estenderla e modellarla. È un compito rischioso, e che richiede abilità, in quanto una convenzione stridente o infranta rompe l’incantesimo. Ma la convenzione centrale stessa permette sicuramente, anzi richiede, una certa singolarità, un sapore esotico: non ci aspettiamo dai greci che abbiano nomi inglesi, e non li reputiamo credibili se indossano abiti da manager o la conchiglia o giurano su Gesù Cristo. Di fatto, è la permissività iniziale, la concessione di stranezze essenziali o non essenziali (così come la proibizione di una traduzione culturale totale) che il traduttore strutta a suo favore, in virtù della convenzione centrale. Il traduttore saggio la sfrutta al massimo a suo vantaggio, abilmente, tranquillamente estendendo con sensibilità fino a dove possibile la gamma della sua illusione, in modo che la stranezza permessa rafforzi le stranezze meno permesse, in un crescendo di libertà sempre maggiore. Questa libertà è naturalmente limitata, ma è la sola libertà significativa nella traduzione. La traduzione non è un’attività eroica e i traduttori non sono eroi, ma i loro bisogni, trionfi e fallimenti sono simili. La convenzione è la necessità del traduttore e come la maggior parte dei bisogni degli esseri umani, è ambigua; una benedizione ma anche una maledizione. Ciò che conta è come viene affrontata e utilizzata, e se accettandola il traduttore può ottenerne libertà piuttosto che schiavitù. Il coraggio nella traduzione è pazienza e sensibilità e talento, è la capacità di prendere per dare, mantenendo fedeltà incrociate e complesse, più una buona dose di dura pratica e mano lesta nello sporco gioco del bello scrivere. La traduzione è l’abilità di frodare onorevolmente, e per questo non è un gioco da ragazzi.

Ma quanto deve spingersi il traduttore di commedie nella direzione della traduzione culturale totale? Se da un lato non apprezziamo la traduzione letterale di Lisistrata del traduttore di Bohn, con le sue brutte deformazioni dell’idioma inglese, vogliamo però davvero un Summit Sessuale presieduto da un comitato di donne russe e americane? O un Cavalieri con un demagogo chiamato Mc Leon?

17

Or is the answer a compromise in which the translator draws a line and says: at this point no further concessions will be made, either to the conventions of my own culture, society and age, or to the linguistic and social idiosyncracies of Greek culture? As I see it, such a line could be drawn, but should not be. For although the Greek may impose a stern necessity upon the translator, and although he must, if he is to translate at all, negotiate with the conventions of his audience and contemporary theatrical form and practice, these are conventions and necessities whose limits have not been ascertained.

On the side of Greek, the translator’s advantage is not only the relative freedom which the central convention allows him, but our very ignorance of Greek culture and language. For language requires precision, and if we cannot tell the exact shade or freshness of a Greek metaphor or the degree of inflection in a pivotal word, this very inability is the translator’s ticket to improvise, provided that the improvisation be, in terms of the Greek, a defensible one. On the English side, his advantages are the very amorphousness of our own theatrical conventions as well as their richness, and similarly the richness and amorphousness of the culture that supports our richly impoverished theater. Never before, I think, has the translator enjoyed such extraordinary freedom, such an embarras de choix in the matter of exploitable conventions. But this very multiplicity of available conventions means that the force of any one, its ability to command instant assent, is attenuated; and this in turn means that the translator’s difficulties are complicated. My point, however, is not to assess the translator’s troubles, but to show how he forges his advantage from his two enveloping necessities, tactfully searching for English and theatrical conventions which, properly introduced and sustained, might housebreak the oddity of much Greek experience and culture, and how at the same time he tactfully uses the freedom granted to him because he translates Greek, ancient Greek, to validate and, if possible, enlarge his English conventions. By so doing, he holds the possibility, however modest, of reshaping his own theater.

But I was speaking of total cultural translation and the lengths to which the translator should go. Tot homines, tot opiniones.

18

Oppure la risposta è un compromesso in cui il traduttore traccia una linea e dice: a questo punto non verranno fatte ulteriori concessioni, né alle convenzioni della mia cultura, società ed epoca, né verso le preferenze linguistiche e sociali della cultura greca? Per come vedo le cose, questa linea potrebbe essere tracciata, ma sarebbe meglio se non lo fosse. In quanto, anche se la lingua greca può imporre un necessario rigore al traduttore, e anche se egli, volendo tradurre, deve negoziare con le convenzioni del suo pubblico e con la forma e la pratica del teatro contemporaneo, i limiti di tali convenzioni e necessità non sono stati fissati.

Sul fronte del greco, il vantaggio del traduttore non è soltanto la relativa libertà che la convenzione centrale gli concede, ma anche la nostra grande ignoranza della cultura e della lingua greca. La lingua richiede precisione, e se non siamo in grado di rendere la sfumatura esatta o la freschezza di una metafora greca o il grado d’inflessione in una parola fondamentale, questa stessa incapacità diventa la carta che permette al traduttore di improvvisare, sempre che l’improvvisazione sia difendibile nei confronti del greco. Sul fronte dell’inglese, i vantaggi sono la totale disorganizzazione delle convenzioni teatrali così come la loro ricchezza, e allo stesso modo la ricchezza e amorfismo della cultura alla base del nostro teatro floridamente impoverito. Mai prima d’ora, credo, il traduttore ha goduto di tanta straordinaria libertà, un tale embarras de choix in tema di convenzioni sfruttabili. Proprio questa varietà di convenzioni disponibili significa che la forza di ciascuna, l’abilità nel dirigere l’immediato consenso, è attenuata; e ciò significa di conseguenza che le difficoltà del traduttore sono complicate. Il mio punto però non è valutare i problemi del traduttore, ma mostrare come egli tragga vantaggio dalle due necessità in cui è stretto: cercare con delicatezza convenzioni inglesi e teatrali, che, propriamente introdotte e mantenute, potrebbero privare la maggior parte della cultura ed esperienza greca della loro estraneità; e come nello stesso tempo utilizzare con abilità la libertà che gli deriva dal tradurre il greco, il greco antico, per convalidare e, se possibile, ampliare le convenzioni dell’inglese. Così facendo, egli ha l’opportunità, seppur modesta, di ridefinire il proprio teatro.

Ma stavo parlando della traduzione culturale totale, e fino a che punto il traduttore debba arrivare. Tot homines, tot opiniones.

19

So far as Greek comedy is concerned, it seems to me that the translator should avoid like the very devil any attempt at total ‘transfer’, just as he should avoid any word or phrase whose excessively local or temporal applications might threaten the stability of his convention. The Greek characters in Ezra Pound’s shabby Women of Trachis, for instance, manage to persuade us that they are neither Greek nor American nor English by employing a bastard argot never spoken by anybody but Pound, and in consequence, the whole convention founders. Similarly I think the translator should avoid underscoring the obvious by heavy–handed topicality where a hint will do the trick. Kleon is not quite McCarthy, though he suggests him, and Nikias, for all his ponderous piety and cautious incompetence, is not quite Eisenhower. Nor is Athens America, though Aristophanes’ Athens must suggest America. It is not, of course, that topicality is wrong of itself ; indeed, translators sometimes talk as though topicality were risky because it condemned their translations to early obsolescence – as though the translator had any right to refuse the risks that Aristophanes took and overcame. What is wrong is the heavy and insistent topicality which asserts that Athens not merely resembles America but is America; for this emphasis destroys completely the only real advantage the translator enjoys – his happy and ticklish position between two disparate cultures and ages, his license to an allowed absurdity. What he wants is basically a simile, not an identity. Once he asserts that Athens is America, his title to an occasional but crucial strangeness vanishes; he must follow his idiot metaphor logically to all of its absurd conclusions. But surely it is the sustained suggestion of similarity that is the source of everything: on it rests the translator’s best hope of generalizing his experience. Who, for example, could possibly watch a well– translated and well–performed Knights and not see, all the more powerfully for its being left allusive and anachronistic, both the face of McCarthy and the history of human demagogy superimposed upon Kleon? And it is surely a sound theatrical economy to leave some of the work to your audience. Yet those who drastically dub into Aristophanes’ lines our own social bugaboos and catchphrases deprive his plays of their generalizing power by the sheer weight of simpleminded insistence.

20

Per quanto riguarda la commedia greca, mi sembra che il traduttore debba evitare come la peste qualsiasi tentativo di un “trasferimento” totale, così come dovrebbe evitare qualsiasi parola o frase le cui accezioni eccessivamente locali o temporali possano minacciare la stabilità della sua convenzione. I personaggi greci nello squallido Donne di Trachis di Ezra Pound per esempio riescono a persuaderci di non essere né greci, né americani, né inglesi, utilizzando un gergo bastardo, mai parlato da nessun altro che da Pound, e di conseguenza l’intera convenzione affonda. Analogamente credo che il traduttore debba evitare di evidenziare ciò che è ovvio con una pesante modernizzazione, dove sarebbe sufficiente un semplice indizio. Cleone non è affatto Mc Carthy, anche se lo ricorda e Nikias, con tutta la sua ampollosa pietas e la sua cauta incompetenza non è per niente Eisenhower. Cosi come Atene non è l’America, anche se l’Atene di Aristofane può ricordare l’America. Naturalmente non è che la modernizzazione sia sbagliata in sé, anzi, i traduttori a volte parlano come se la modernizzazione fosse rischiosa, in quanto condanna le loro traduzioni alla precoce obsolescenza – come se il traduttore avesse qualche diritto di rifiutare i rischi che Aristofane si assunse e superò. Ciò che è sbagliato è la pesante e insistente modernizzazione secondo cui Atene non solo assomiglia all’America, ma è l’America; perché quest’enfasi distrugge completamente l’unico reale vantaggio di cui il traduttore gode – la sua posizione fortunata e delicata tra due culture ed epoche disparate; la sua licenza di compiere assurdità ammesse. Ciò che vuole è fondamentalmente una similitudine, non un’identità. Una volta che egli asserisce che Atene è l’America, il suo diritto a una stranezza occasionale ma cruciale svanisce; deve seguire la sua idiota metafora coerentemente, fino a tutte le sue assurde conclusioni. Ma è sicuramente la preservazione di questo accenno di somiglianza ad essere la fonte di tutto: su di esso riposa la principale speranza del traduttore di generalizzare la propria esperienza. Chi per esempio, potrebbe davvero guardare un Cavalieri ben tradotto e ben recitato, e non vedere, con tanta più potenza in quanto lasciato allusivo e anacronistico, sia il volto di Mc Carthy che la storia dell’umana demagogia sovrapposti a Cleone? Ed è certamente un bel “risparmio” teatrale lasciare un po’ di lavoro al pubblico. Eppure, coloro che doppiano drasticamente nei versi di Aristofane i nostri spauracchi e cliché sociali privano le sue commedie del loro potere generalizzante, con il semplice peso dell’insistenza ingenua.

21

Greek comedy was performed in masks and this fact, combined with the enormous size of the Greek theater, made the actor dependent upon gross physical gesture and a formal rhetoric – less formal than that of tragedy, but formal indeed when compared with the language of contemporary comedy. Hence, the translator is immediately confronted with the task of compensating for the loss of a whole dimension of expressive power, since the loss of physical gesture in our own theater is more or less irreparable, and to this fact the translator must bow. But although naturalism may be the dominant mode in contemporary theater, it is not the only mode; among audiences familiar with traditional repertory (among which we must surely count the possible audience for Greek comedy), there is still, however tenuous, an awareness of the traditions and conventions of English comic rhetoric. Moreover, by virtue of translating a Greek play, the translator, as we have seen, enjoys a special position, and a title to a little unconventionality; that is, he has a right to rhetoric, even though his need for rhetoric is not absolute. No translator of an Aristophanic comedy could possibly translate a page of trimeter dialogue without realizing that his dialogue must be essentially colloquial; that it cannot afford the full flood of traditional rhetoric. Indeed, the essential condition for Aristophanic dialogue is precisely a balance between the colloquial and rhetorical modes, since the incongruity between different modes – fustian and slapstick, cant and wisecrack, lyric and obscenity, poetry and doggerel – is the source of Aristophanic wit.

And the translator may even be encouraged if he believes, as I do, that the basic naturalism and distrust of rhetoric which our contemporary theater exhibits is a slander against contemporary speech : our ordinary prose habits may be firmly unpoetical but they are not therefore unrhetorical. If so, his strategy will be clear. He needs a rhetoric but not a consistent rhetoric; and he requires a rhetoric beyond what the Greek text may literally permit him, since he knows that his text has been impoverished by the loss of the language of gesture. Between the rhetorical and the colloquial modes, he must take care that natural enjambement is possible.

22

La commedia greca era recitata con le maschera e questo fatto, unito all’enorme grandezza del teatro greco, costringeva l’attore a dipendere da una pesante gestualità fisica e retorica formale – meno formale rispetto alla tragedia, ma molto formale se confrontata con il linguaggio della commedia contemporanea. Di conseguenza, il traduttore si trova immediatamente di fronte al compito di compensare la perdita di un’intera dimensione di potere espressivo, in quanto la perdita della gestualità fisica nel nostro teatro è più o meno irreparabile, e di fronte a ciò, il traduttore non può far altro che piegarsi. Ma sebbene il naturalismo possa essere la modalità dominante nel teatro contemporaneo, non è l’unica modalità; tra un pubblico familiare al repertorio tradizionale (tra cui dobbiamo sicuramente annoverare l’eventuale pubblico della commedia greca) è rimasta, anche se rarefatta, una consapevolezza delle tradizioni e convenzioni della retorica comica inglese. Inoltre, per il fatto stesso di tradurre una commedia greca, il traduttore, come abbiamo visto, gode di una posizione speciale e ha diritto a un po’ di anticonformismo, ha cioè diritto alla retorica, anche se il suo bisogno di retorica non è assoluto. Nessun traduttore di una commedia aristofanica potrebbe mai tradurre una pagina di dialogo in trimetri senza accorgersi che il suo dialogo deve essere essenzialmente colloquiale, che non puo’ permettersi un’inondazione di retorica tradizionale. Infatti, la condizione essenziale per il dialogo aristofanico è proprio un equilibrio tra modalità colloquiali e retoriche, in quanto l’incongruità tra modalità diverse – magniloquenza e farsa, gergo e battute, lirica e oscenità, poesia e burla – è la fonte dello umorismo aristofanico.

E il traduttore può persino essere incoraggiato, se crede, come me, che il puro naturalismo e la sfiducia nella retorica, che il nostro teatro contemporaneo esibisce, è un insulto alla lingua contemporanea: le nostre abitudini di prosa quotidiana possono non essere per niente poetiche ma non per questo prive di retorica. Così stando le cose, la sua strategia sarà chiara. Il traduttore ha bisogno di retorica, ma non di una retorica continua, e ha bisogno di una retorica al di là di ciò che il testo greco possa letteralmente concedergli, in quanto è ben consapevole che il suo testo è stato impoverito dalla perdita del linguaggio dei gesti. Tra le modalità retoriche e colloquiali, deve fare attenzione a mantenere il naturale enjambement.

23

The rhetorical must rise naturally from the colloquial and cede to it in closing, just as the meter must be flexible enough to sustain the illusion of colloquial speech and yet be able to adapt itself to the formal parody of tragedy or traditional ‘eloquence’. And it must also be adapted to making good poetry in its own right when the thrust of Aristophanes’ language suddenly turns unmistakably passionate or memorable.

Thus my own choice of a five–beat line – rather than Lattimore’s supple six–beater – was based on the belief that the stylization required could best be achieved by a meter capable of modulating, without jar or difficulty, back to the norm of English dramatic verse, the blank. It offered a base that looked reassuringly conventional and so flexible that it could be converted at need into a line traditional enough to support both fustian and dignified statement. At its most humdrum such a line was indistinguishable from prose; worked up, patterned with regular stresses or set off in an incongruous prosy context, it could be ‘traditionalized’ into tragic cant or realized as poetry. Moreover, if the loose five– beater were carefully handled, it might also, I thought, insensibly establish its own convention to the ear, its own pauses, movement and variations; and once this convention were established, the line would acquire that wonderful flexibility that comes of being bound by the expectations of familiarity. A convention makes a promise, and depending on whether the promise is merely kept, postponed, anticipated, overfulfilled or flagrantly broken, the translator can contrive wit, satisfaction, resolution, gratitude, surprise or shock. The very wit, the verbal play and rhetorical incongruities upon which Aristophanic comedy depend, are helpless without conventional rapport. And though it may be true that contemporary audiences lack that finesse of ear which makes possible this complicity in convention, the translator has no choice. If his comedy requires a convention, and the convention needed is non–existent or moribund, it must be invented or re–created. If you want rapport, you must first speak a possible language of rapport. Or so I saw it.

24

La retorica deve spuntare naturalmente dal colloquiale e cedere ad esso in chiusura, così come la metrica deve essere abbastanza flessibile da sostenere l’illusione di un discorso colloquiale, pur riuscendo ad adattarsi alla parodia formale della tragedia o dell’“eloquenza” tradizionale. E deve anche essere adattata a poter creare una buona poesia in se stessa quando l’impeto della lingua di Aristofane diventa improvvisamente e inequivocabilmente appassionato o memorabile.

Pertanto la mia personale scelta del verso a cinque piedi – invece del duttile verso a sei piedi di Lattimore – fu dovuta alla convinzione che la stilizzazione richiesta potesse essere raggiunta al meglio con un metro modulabile senza dissonanze o difficoltà, ritornando al modello del verso teatrale inglese, il blank verse. Offriva una base che appariva rassicurante nella sua convenzionalità e così flessibile da poter essere convertita al bisogno in un verso abbastanza tradizionale da poter sostenere sia la magniloquenza sia un’affermazione austera. Al massimo della sua monotonia, tale verso era indistinguibile dalla prosa; lavorato, modellato con accenti regolari o disposto in un incongruo contesto di prosa, può essere “tradizionalizzato” in una tragica ipocrisia o attualizzato come poesia. Inoltre se il verso sciolto a cinque piedi fosse maneggiato con attenzione, poteva anche, pensavo, instaurare inconsapevolmente la sua propria convenzione all’orecchio, le sue pause, movimenti e variazioni; e una volta che questa convenzione fosse stata instaurata, il verso avrebbe acquisito quella meravigliosa flessibilità che deriva dall’essere collegata con le aspettative della familiarità. Una convenzione fa una promessa, e in funzione del fatto che la promessa venga meramente mantenuta, posticipata, anticipata, eccessivamente soddisfatta o infranta in flagrante, il traduttore può ottenere comicità, soddisfazione, risolutezza, gratitudine, sorpresa o shock. L’umorismo stesso, i giochi di parole e le incongruità retoriche da cui dipende la comicità aristofanica sono inutili senza una relazione convenzionale. E anche se può essere vero che il pubblico contemporaneo manca di quella finezza d’orecchio che rende possibile questa complicità nella convenzione, il traduttore non ha scelta. Se la sua commedia ha bisogno di una convenzione, e la convenzione necessaria non esiste o è moribonda, deve essere inventata o ricreata. Se vuoi relazione, devi prima parlare un linguaggio possibile per la relazione. O per lo meno, io l’ho vista così.

25

There were also practical considerations. It seemed to me that actors experienced great difficulty in getting their mouths around a line that exceeded five stresses and speaking it as a natural poetry, just as they experienced difficulty in reading blank verse without a Shakesperean emphasis. The natural solution was therefore a loose five–stress line, so constructed that it would be impossible, except when useful, to speak it with a ranting inflation or Shakesperean cadence. Once this step was taken, it seemed natural to go further. Thus I have everywhere broken down the staccato pattern of formal stichomythia on the grounds that this convention, however powerful in Greek, could not be domesticated into the contemporary theater without intolerable awkwardness. Both of these strategies were practical concessions to the conventions (and therefore to the necessities) of our own theater, but the first concession – the flexible five–stress line – seemed to promise advantages which more than outweighed the real loss of formal stichomythia.

Consider a fairly simple example of the rhetorical problems involved and the relevance of rhetorical conventions. In Aristophanes’ Birds, the herald from Earth comes rushing in to hail the successful Pisthetairos with a long string of superlatives:

Ō Pisthetair’, ō makari’,ō sophōtate,
ō kleinotat’, ō sophötat’, ō glafihurōtate,
ō trismakari’, ō katakeleuson.. .
O Pisthetairos, O Blest, O Wisest,
O Most Glorious, O Wisest, O Most Refined, O Thrice–Blest, O– give the word…

Despite the flat literal translation, the Greek here is extravagant and fulsome heraldese, whose fun is not merely the pompous ratatat of the continuous superlatives and the giveaway repetition of sophōtate, but the herald’s inability to halt the momentum of his own professional rhetoric.

26

C’erano anche considerazioni pratiche. Mi sembrava che gli attori provassero grande difficoltà nell’articolare un verso che superava i cinque piedi e nel recitarlo in poesia in modo naturale, come se avessero difficoltà nel leggere il verso sciolto senza un’enfasi shakespeariana. La soluzione naturale fu pertanto un verso sciolto a cinque piedi, costruito in modo che fosse impossibile, tranne quando utile, recitarlo con un’inflessione enfatica o una cadenza shakespeariana. Una volta fatto questo passo, sembrava naturale andare avanti. Quindi ho infranto dappertutto il modello dello staccato della sticomitia formale sulla base del fatto che questa convenzione, seppur potente nel greco, non poteva essere addomesticata nel teatro contemporaneo senza un intollerabile disagio. Entrambe queste strategie erano concessioni pratiche alle convenzioni (e perciò alle necessità) del nostro teatro, ma la prima concessione – il verso flessibile a cinque piedi – sembrava promettere vantaggi che oltrepassavano ampiamente la vera perdita di sticomitia formale.

Consideriamo un esempio piuttosto semplice di problemi retorici e la rilevanza delle convenzioni retoriche. Negli Uccelli di Aristofane il messaggero della Terra accorre ad acclamare il vittorioso Pistetairo con una lunga serie di superlativi:

Ō Pisthetair’, ō makari’,ō sophōtate,
ō kleinotat’, ō sophötat’, ō glafihurōtate,
ō trismakari’, ō katakeleuson.. .
O Pisthetairos, O Blest, O Wisest,
O Most Glorious, O Wisest, O Most Refined, O Thrice–Blest, O– give the word…

A prescindere dalla piatta traduzione letterale, il greco qui è stravagante ed eccessivamente araldico, e la sua comicità non è soltanto il pomposo ratatat dei continui superlativi e la gratuita ripetizione di sophōtate, ma l’incapacità dell’araldo di fermare l’impeto della sua retorica professionale.

27

He can’t untangle himself from the coils of his own superlatives, and he typically and grotesquely stops only by asking Pisthetairos, in a command phrased as still another superlative, to intervene. Clearly translation of this passage requires a comic English equivalent both of the rhetoric and its cant and the sudden colloquial pause which, as so often in Aristophanes, brings the rhetoric tumbling down in comic ruin.

Consider a few examples of possible solutions. First, the extremely literal version of the great Victorian translator, B.B. Rogers:

O Pisthetairus, O thou wisest, best,
thou wisest, deepest, happiest of mankind, most glorious, most – O give the word…

The failure is obvious and radical, typical of the deep losses of literal translation. By transcribing the Greek rather than translating it, Rogers has completely lost the comedy. The herald’s language is not really fulsome and it has renounced the sound of the Greek superlatives without the slightest compensation in English; worse still, the incongruity between the herald’s ‘high style’ and his collapse into colloquialism is unfelt because there is nothing high about his language and nothing clearly colloquial about his collapse. Rhetorically speaking, the whole passage takes place on a single humdrum plane; it is flat, dull and unfunny. No actor could possibly realize the lines because the words are not working at the power of the Greek. They have not been translated.

Second, the solution of Dudley Fitts:

O Pisthetairos, 0 blessedest! 0 sagaciousest!
O Superlativest! 0 Sagaciousest! 0 Perspicaciousest! O Thrice Blessedest! 0 And so forth!

The sensitivity to the requirements of the passage is instantly visible, Fitts makes fine comic rhetoric by simply inventing a humorous series of ungrammatical English superlatives. The sound of Ale Greek superlatives is comically matched in English because the similar ungrammatical endings draw attention to themselves and the fulsomeness of the words to which they are attached.

28

Non riesce a districarsi dalle spire dei suoi stessi superlativi, e si ferma tipicamente e grottescamente solo chiedendo a Pistetairo, in un ordine formulato, come fosse ancora un altro superlativo, di intervenire. Chiaramente la traduzione di questo passo richiede un inglese comico, equivalente sia alla retorica e alla sua magniloquenza, sia all’improvvisa pausa colloquiale che, come spesso in Aristofane, porta la retorica a precipitare rovinosamente nel comico.

Consideriamo qualche esempio di soluzioni possibili. Per primo, la versione estremamente letterale del grande traduttore vittoriano B.B. Rogers:

O Pisthetairus, O thou wisest, best,
thou wisest, deepest, happiest of mankind, most glorious, most – O give the word…

L’insuccesso è ovvio e radicale, tipico delle perdite profonde della traduzione letterale. Trascrivendo il greco invece di tradurlo, Rogers ha completamente perso la commedia. Il linguaggio dell’araldo non è veramente eccessivo, e ha rinunciato al suono dei superlativi greci senza la minima compensazione in inglese, ancor peggio, l’incongruenza tra lo “stile elevato” dell’araldo e il suo crollo nel linguaggio colloquiale non si sente, perché non c’è niente di aulico nel suo linguaggio e niente di chiaramente colloquiale nel suo crollo. Retoricamente parlando, l’intero passo si svolge su un unico piano monotono, è piatto, spento e noioso. Nessun attore potrebbe mai recitare questi versi perché le parole non sono altrettanto potenti del greco. Non sono state tradotte.

Secondo, la soluzione di Dudley Fitts :

O Pisthetairos, 0 blessedest! 0 sagaciousest!
O Superlativest! 0 Sagaciousest! 0 Perspicaciousest! O Thrice Blessedest! 0 And so forth!

La sensibilità alle esigenze del passo è immediatamente visibile. Fitts fa della sottile comicità retorica, semplicemente inventando una serie umoristica di superlativi inglesi sgrammaticati. Il suono dei superlativi greci è comicamente uguagliato in inglese dalle simili desinenze sgrammaticate che attirano l’attenzione verso di sé e sull’eccessività delle parole a cui sono attaccate.

29

Better still, the adjectives are chosen for their inflation and their position in a series: sagaciousest is precise comic English for sophōtate (as opposed to Rogers’ dull wisest), and 0 Sagaciousest! 0 Perspicaciousest! marches miraculously with the ascending fulsome absurdity of the Greek’s ō saphōtat’, ō glaphurōtate. If there is a weakness in this version, it is the O And so Forth! with which Fitts closes, to my ear and understanding of the Greek too bland and bored to earn the wanted incongruity. But the whole version is remarkably close to the Greek and also theatrically viable.

The third version, and probably the most radical of the three, is my own :

Pisthetairos! 0 Paragon! 0 Pink!
Thou Apogee of Genius! 0 Phoenix of Fame! O… Apogee of Genius! 0 Flower of Finesse! O happy happy Chap! 0 Blest! 0 Most!
O Best!

– oh balls.

Whatever its virtues or inadequacies, this version provides a simple and compact instance of translating by convention rather than by words. Confronted with a series of overblown Greek superlatives, I thought the most effective translation could be achieved through an equivalent – though different – English rhetoric of comic exaggeration. I wanted, that is, not superlatives but supersuperlatives, immediately identifiable as such, and arranged in a marked comic crescendo. But compared with the Greek, normal English superlatives are colorless and weak. However, if English lacks the fine –otatos flourish of the Greek superlative, it compensates for it, both in literature and colloquial speech, by its richness of metaphorical superlatives and the ease with which it yokes two nouns together in the service of a single exaggeration. Accordingly, I constructed a series of absurd rhetorical superlatives for each adjective of the Greek, counting on the conventions of conventional stage–comedy for support, and attempting to make up for the loss of the sound of the Greek superlatives by heavy alliteration and assonance.

30

Ancora meglio, gli aggettivi sono scelti per la loro inflessione e la loro posizione in serie: sagaciousest è esattamente l’inglese umoristico per sophōtate (in opposizione al banale wisest di Rogers), e O Sagaciousest! 0 Perspicaciousest! marcia miracolosamente con l’eccessiva crescente assurdità del greco ö saphōtat’, ö glaphurōtate. Se c’è una debolezza in questa versione, è O And so Forth con cui Fitts chiude, per il mio orecchio e la mia comprensione del greco, troppo blando e annoiato per ottenere l’incongruità voluta. Ma l’intera versione è significativamente vicina al greco e anche teatralmente recitabile.

La terza versione e probabilmente la più radicale delle tre è la mia :

Pisthetairos! 0 Paragon! 0 Pink!
Thou Apogee of Genius! 0 Phoenix of Fame! O… Apogee of Genius! 0 Flower of Finesse! O happy happy Chap! 0 Blest! 0 Most!
O Best!

– oh balls.

Quali che siano le sue virtù o inadeguatezze, questa versione fornisce un esempio semplice e compatto della traduzione per convenzione, invece che per parole. Di fronte a una serie di superlativi greci gonfiati, ho pensato che la traduzione più efficace potesse essere realizzata tramite un’equivalente – anche se diversa – retorica inglese di esagerazione comica. Volevo, cioè, non superlativi, ma super superlativi, immediatamente identificabili come tali, e disposti in un marcato crescendo comico. Ma rispetto al greco, i normali superlativi inglesi sono privi di colore e deboli. Comunque se l’inglese non ha la raffinata floridezza del superlativo greco –otatos, compensa sia nella letteratura che nel linguaggio colloquiale con la sua ricchezza di superlativi metaforici e la disinvoltura con cui unisce due sostantivi in uno, al servizio di una singola esagerazione. Così ho costruito una serie di superlativi retorici assurdi per ogni aggettivo del greco, contando sul supporto delle convenzioni dell’umorismo convenzionale da palcoscenico e cercando di compensare la perdita del suono dei superlativi greci con una pesante allitterazione e assonanza.

31

I tried to truss the rhetorical conventional tone with metrical emphasis as well: thus the first three lines are – like the lines which precede them – basically five–stress lines, while the last line and a half is pompous blank verse, intended to score the climax and its crash. The final adjective in the Greek is trismakari’ (thrice–blest), and to the Greek ear this is a superlative so outrageous, so fulsome, that it cannot be capped; having said it, all the herald can do is to collapse into repetition or silence. For this reason I have deliberately expanded the English equivalent, beginning low and trying to end on a breathless staccato high. And for the same reason I have, at the expense of what the Greek literally says, ended the herald’s high–notes with a low colloquial anticlimax.

In view of the economy and neatness of Fitts’ solution, my own may seem unnecessarily extravagant. But frequently Aristophanes leaves the translator no choice: he must translate by convention or not translate at all. And nowhere is this more true than when he is dealing with Aristophanes’ spoofs of professional jargon, scientific cant and officialese. Greek jargon and officialese, after all, are not ours, and a literal translation of an alien jabberwocky may sound quaint, obscure or even profound. In The Birds, for instance, Aristophanes’ uses the astronomer, city–planner and geometrician Meton to make a delightful burlesque of scientific jargon and humbug. Asked by Pisthetairos who he is and what he wants in Cloudcuckooland, Meton replies literally as follows:

I have come to survey the plains of your air and to parcel them out into lots…. You see, the spaces of the air have precisely the shape of a celestial oven. Now with this bent ruler, I draw a line from top to bottom; from one of its points I describe a circle within the compass, and with this straight ruler I set to work to square the circle. In its center will be the marketplace into which the streets, all straight, will lead, converging on this center like a star which, although orbicular, sends forth its rays in a straight line from all sides.

32

Ho anche cercato di intessere il tono retorico convenzionale con l’enfasi metrica: quindi i primi tre versi sono – come i versi che li precedono – sostanzialmente versi a cinque piedi, mentre l’ultimo verso e mezzo è un pomposo verso sciolto, inteso a segnare il climax e il suo crollo. L’aggettivo finale nel greco è trismakari’ (triplamente benedetto) e, all’orecchio greco, questo è un superlativo così oltraggioso, così eccessivo che non può essere superato; avendolo detto, tutto ciò che l’araldo può fare è sprofondare nella ripetizione o nel silenzio. Per questa ragione, ho deliberatamente esteso l’equivalente inglese, cominciando basso e cercando di finire in un mozzafiato staccato aulico. E per la stessa ragione, a spese di ciò che il greco letteralmente dice, ho concluso gli aulici canti dell’araldo con un basso anticlimax colloquiale.

Davanti alla soluzione di Fitts, concisa e pulita la mia sembra impropriamente stravagante. Ma spesso Aristofane non lascia scelta al traduttore: deve tradurre per convenzione o non tradurre affatto. E in nessun altro autore è più vero che quando il traduttore ha a che fare con le parodie del gergo professionale, della magniloquenza scientifica e dell’ufficialese di Aristofane. Il gergo e l’ufficialese greci dopo tutto non sono nostri, e una traduzione letterale di un jabberwocky estraneo può suonare bizzarra, oscura o persino profonda. Negli Uccelli per esempio, Aristofane usa l’astronomo, urbanista e geometra Meton per fare una splendida burla del gergo e dell’ipocrisia scientifici. Quando Pistetauro gli chiede chi sia e che cosa voglia a Nuvolandia, Meton risponde letteralmente come segue:

I have come to survey the plains of your air and to parcel them out into lots…. You see, the spaces of the air have precisely the shape of a celestial oven. Now with this bent ruler, I draw a line from top to bottom; from one of its points I describe a circle within the compass, and with this straight ruler I set to work to square the circle. In its center will be the marketplace into which the streets, all straight, will lead, converging on this center like a star which, although orbicular, sends forth its rays in a straight line from all sides.

33

Now this is low–pressure jargon at low linguistic pressure, but the pressure is not Aristophanes’ doing. His parody of a city–planner’s geometry is based upon what we might call a relatively immature professional jargon; compared to our glorious modern proliferations, the Greek seems remarkably chaste. And yet the pedantry with which Meton speaks is surely a genuine jargon, as offensive and amusing – in small doses – to the Greek ear as the vernacular of modern sociology is to ours. In such a situation the translator must heighten the Greek and jargonize it in terms of our own jargon conventions until he achieves the putative effect of the Greek. My own version of the scene reads as follows:

METON:

My purpose here
is a geodetic survey o f your collective atmosphere

and the allocation of all this aerial area into cubic acres.

Now attend.

Taken in extenso
our welkin resembles a vast and cosmical oven
or common potbellied stove worked by convection, though vaster. Now then, with the flue as my base
and twirling the callipers thus, I quickly obtain
the azimuth, whence by calibrating the arc subscribed – you follow me?
PISTHETAIROS :

No, I don’t follow you.

34

Ebbene, questo è un gergo a bassa pressione in un contesto linguistico a bassa pressione, ma la pressione non è affare di Aristofane. La sua parodia della geometria dell’urbanista si basa su ciò che noi potremmo definire un gergo professionale relativamente immaturo; confrontato alle nostre gloriose proliferazioni moderne, il greco sembra straordinariamente casto. Eppure la pedanteria con cui Meton parla è sicuramente un autentico gergo, offensivo e divertente – in piccole dosi – all’orecchio greco quanto il vernacolo della sociologia moderna al nostro. In tale situazione, il traduttore deve elevare il greco, gergalizzarlo con le nostre convenzioni gergali fino a raggiungere l’effetto putativo del greco. La mia versione della scena recita come segue:

METON:

My purpose here
is a geodetic survey o f your collective atmosphere

and the allocation of all this aerial area into cubic acres.

Now attend.

Taken in extenso
our welkin resembles a vast and cosmical oven
or common potbellied stove worked by convection, though vaster. Now then, with the flue as my base
and twirling the callipers thus, I quickly obtain
the azimuth, whence by calibrating the arc subscribed – you follow me?
PISTHETAIROS :

No, I don’t follow you.

35

METON:
No matter. Now then, by training the theodolite here on the vectored zenith at the apex A,
I deftly square the circle whose inward con flux or C, I designate as the center or axial hub
of your Cloudcuckooland.

This may be too extreme an expansion, but I am convinced that the strategy behind it is sound; even at the cost of intruding a gloss (as I have done here with Meton’s ‘cosmical oven’), anachronizing (as with azimuth, theodolite and in extenso), or jargonizing, the thrust of the Greek rather than its words must be followed in order for translation to take place.

And this counsel is especially appropriate to the theater. Consider the minor problem of the entrance of the martial braggart Lamachos in Acharnians. To an Athenian audience Lamachos carried his own meaning; everyone knew him or knew of him, and therefore when he appears, he appears without introduction. But a modern audience has no such knowledge, and Lamachos’ appearance is so brief that unless the translator instantly, through the right convention, identifies his type, the scene is lost. Luckily, however, the old convention of the Miles Gloriosus is still viable, and in his translation Mr. Douglass Parker makes splendid use of it, intruding an exaggerated stage–direction and then following this up with four lines of fine martial hullabaloo:

[Two long trumpet fanfares. Lamachos strides out, in full armor, a long cloak and a considerable amount of ordnance, including a shield, a sword and two lances, all grossly exaggerated. Most noteworthy is the helmet, capped by three enormous brilliantly–dyed horsehair crests. He is the shortest man on stage.]

LAMACHOS:
Who cried HAVOC? Who waked this ghastly, grim–bevisaged Gorgon from her shield?

–I distinctly heard a clamor
Portending internecine struggle, slaughter and decimation.

36

METON:
No matter. Now then, by training the theodolite here on the vectored zenith at the apex A,
I deftly square the circle whose inward con flux or C, I designate as the center or axial hub
of your Cloudcuckooland.

Questa può essere un’estensione un po’ estrema, ma sono convinto che la strategia su cui si basa sia solida; anche a costo di introdurre una glossa (come ho fatto in questo caso con il “cosmical oven” di Meton), rendendo anacronistico (come per azimuth, teodolite e in extenso) o gergalizzando, perché la traduzione avvenga, deve essere seguito l’impeto del greco piuttosto che le parole.

E questo consiglio è adatto in particolare al teatro. Consideriamo il problema minore dell’entrata marziale dello spaccone Lamaco negli Acarnesi. Per il pubblico di Atene, Lamaco aveva un suo significato, tutti lo conoscevano o sapevano di lui, e quindi quando compare, compare senza presentazione. Ma un pubblico moderno non ha la stessa conoscenza e la comparsa di Lamaco in scena è così breve che, a meno che il traduttore non identifichi rapidamente il tipo, con la giusta convenzione, la scena è persa. Fortunatamente però la vecchia convenzione del Milite Glorioso è ancora viva e nella sua traduzione Douglas Parker ne fa uno splendido uso, imponendo una regia esagerata e rincarandola con quattro versi di splendido fracasso marziale:

[Two long trumpet fanfares. Lamachos strides out, in full armor, a long cloak and a considerable amount of ordnance, including a shield, a sword and two lances, all grossly exaggerated. Most noteworthy is the helmet, capped by three enormous brilliantly–dyed horsehair crests. He is the shortest man on stage.]

LAMACHOS:
Who cried HAVOC Who waked this ghastly, grimbevisaged Gorgon from her shield?

–I distinctly heard a clamor
portending internecine struggle, slaughter and decimation.

37

YOU BLOODY FOOLS,
WHAT HAVE YOU DONE WITH THE WAR?

In this instance, no particular violence has been done to the Greek because the convention has been established in the stage–direction. But other appearances make real trouble which can be coped with only by improvisation or expansion. Intruded glosses can help, of course, but at times translation must take place at the cost of scrupulous accuracy and loyalty to the text. After all, the translator of Aristophanes is translating for actors as well as readers – or he hopes he is – and if he refuses to take loyal liberties with his text, the director is almost certain to, with unpredictable results.

In my opinion dialects in Aristophanes and dialectal humor should always be translated by convention rather than realistically. Across the Aristophanic stage walks an army of Greek dialects: Spartan heralds, Megarian peddlers, Boeotian farmers, a mock– Persian, a Scythian policeman who talks barbaric Greek, and the immortal Triballos who speaks pure Neanderthal. So far as can be gathered – which is not very far – Aristophanes’ Greek dialects are realistic, though I think the base is conventional, a familiar Athenian imitation–language of outlandish Greek. But on the assumption that Aristophanes’ dialects are all directly realistic, translators have commonly attempted a similar realism within the context of their own language. Thus in Starkie we get an almost indecipherable Scots or brogue or Shakespeareanized Somersetshire, each dialect presented with exhaustive – and defeating – accuracy. In Rogers’ Thesmophoriazousae the Scythian policeman talks what I take to be the actual pidgin–English of a Dutchman, and Triballos speaks an exact transliteration of the Greek jabberwocky. All this seems to me completely wrong–headed; at least dialectal realism fails for me to be funny in any way, and I assume that Aristophanes intended these dialects to be comic. But realism fails because it destroys the central illusion. When a putative Spartan walks on the stage talking like a Welsh nationalist or an Outer Hebridean, the incongruity is so glaring and the jar so severe that the crucial convention founders; we withdraw assent.

38

YOU BLOODY FOOLS,
WHAT HAVE YOU DONE WITH THE WAR?

In questo caso, non è stata fatta particolare violenza al greco perché la convenzione è stata definita nella regia. Ma altre comparse creano un vero problema che può essere gestito soltanto con l’improvvisazione o l’estensione. Introdurre glosse può aiutare certamente, ma a volte la traduzione deve essere realizzata al prezzo di una scrupolosa precisione e lealtà al testo. Dopo tutto il traduttore di Aristofane sta traducendo per gli attori ma anche per i lettori – o spera che sia così – e se si rifiuta col suo testo di prendersi delle libertà leali, lo farà sicuramente il regista, con risultati imprevedibili.

Secondo la mia opinione, i dialetti in Aristofane e l’umorismo dialettale devono sempre essere tradotti per convenzione piuttosto che realisticamente. Sul palcoscenico di Aristofane si muove un esercito di dialetti greci : araldi spartani, ambulanti megaresi, contadini beoti, un finto persiano, una guardia della Scintia che parla un greco barbarico, e l’immortale Triballo che parla puro Neanderthal. Per quanto lontano possano essere raccolti, che non è tanto lontano, i dialetti greci di Aristofane sono realistici, anche se credo che la base sia convenzionale, un ateniese familiare a imitazione del greco degli stranieri. Ma supponendo che i dialetti di Aristofane siano tutti direttamente realistici, i traduttori hanno comunemente cercato di ottenere un realismo simile nel contesto della loro lingua. E infatti in Starkie abbiamo uno scozzese per lo più indecifrabile o dialettale, o un dialetto del Somerset shakespearianizzato, ogni dialetto presentato con un’esaustiva – e frustrante – precisione. Nelle Tesmoforiazuse di Rogers la guardia scita parla ciò che prendo per il vero e proprio pidgin English di un olandese, Triballo parla una traslitterazione esatta del jabberwocky greco. Mi sembra che tutto questo vada nella direzione sbagliata; almeno il realismo dialettale non riesce per me ad essere in nessun modo divertente, e presumo che Aristofane volesse che questi dialetti fossero comici. Ma il realismo non funziona perché distrugge l’illusione centrale. Se un apparente spartano cammina sul palcoscenico parlando come un nazionalista gallese o un abitante delle Ebridi Esterne, l’incongruità è così madornale e la discordanza così pesante che la convenzione cruciale crolla; ritiriamo il nostro consenso.

39

Worse yet, the attempt to get scrupulous realism invariably drives out the conventional rhetoric which should support the device; the demands of realistic dialect preclude loyalty to the Greek since the possibilities of most dialects are so severely limited in actual usage. What then should the translator do? Surely his only hope of success lies in adopting a conventional comic dialect – not Southern speech, but minstrel–Southern ; or Minnesota Dane in its stereotyped form, variety–hall Yiddish, broad Brooklynese, etc. But never the real thing; always its conventionally comic appearance. At this point, of course, British and Americans part company; British dialect conventions (comedian cockney, stage– bumpkin Somerset) are not ours, and an American translator of Aristophanes must content himself with American conventions. Thus Dudley Fitts’ solution for the Spartan dialects in Lysistrata seems to me completely sound; because the dialect is conventional minstrel– Southern and not realistic, it can be accepted as convention even despite the anachronism – or perhaps because of it. It is a traditional ‘comic’ convention and we accept it as such. What does one do with the Scythian policeman of Thesmophoriazousae? My own solution was to make him talk Katzenjammer–kids German, trusting to the stolid absurdities of the convention to convey what is required for the Scythian: atrociously comic Greek and a sensibility so dense that all of Euripides’ sophisticated stratagems fail to penetrate it. And so too with Triballos’ jabberwocky. After all, every language has its own good nonsense– sounds, and if you do what most translators do and simply transliterate the Greek into English, the results are not apt to make good English nonsense.

Obscenity also requires translation by convention, not in order to minimize it or bowdlerize it, but to earn it as humor and wit. Obviously the translator of Aristophanes has a license to be obscene; this is what audiences expect of Aristophanes and, in my opinion, they should not be disappointed.

40

Ancor peggio, il tentativo di ottenere un realismo scrupoloso immancabilmente allontana la retorica convenzionale che dovrebbe supportare l’artificio; le richieste di dialetto realistico precludono la lealtà al greco in quanto le possibilità della maggior parte dei dialetti sono così fortemente limitate nell’uso corrente.Che cosa dovrebbe fare allora il traduttore? Sicuramente la sua unica speranza di successo sta nell’adottare una dialetto comico convenzionale – non la lingua del Sud, ma dei menestrelli del Sud; o il dialetto del Minnesota nella sua forma stereotipata, lo Yiddish da varietà, il brooklinese marcato, ect. Ma mai la cosa vera; sempre il suo aspetto convenzionalmente comico. A questo punto, naturalmente i Britannici e gli Americani si dividono; le convenzioni dei dialetti britannici (il cockney da commedia, il dialetto dello zotico da palcoscenico del Somerset) non sono nostre, e un traduttore americano di Aristofane deve accontentarsi delle convenzioni americane. Perciò la soluzione di Dudley Fitts per i dialetti spartani in Lisistrata mi sembra completamente fondata; perché il dialetto è la lingua convenzionale dei menestrelli del Sud e non è realistica, può essere accettata come convenzione anche malgrado l’anacronismo – o forse proprio per questo. È una convenzione “comica” tradizionale e la accettiamo come tale. Che cosa facciamo con la guardia scita delle Tesmoforiazuse? La mia soluzione era di farlo parlare il tedesco dei Katzenjammer–kid, confidando che le imperturbabili assurdità della convenzione riuscissero a trasmettere ciò che è richiesto per lo scita: un greco atrocemente comico e una sensibilità così fitta che tutti i sofisticati stratagemmi di Euripide non riescono a penetrarla. E lo stesso vale anche con i jabberwocky di Triballo. Dopo tutto, ogni lingua ha i propri suoni per i nonsense e se fai ciò che la maggior parte dei traduttori fanno e semplicemente traslitteri il greco in inglese, i risultati non sono adatti a creare un buon nonsense in inglese.

Anche l’oscenità richiede una traduzione per convenzione, non per minimizzarla o espurgarla, ma per farne umorismo e comicità. Ovviamente il traduttore di Aristofane ha una licenza ad essere osceno; questo è ciò che il pubblico si aspetta da Aristofane e a mio avviso, non dovrebbe essere deluso.

41

But Aristophanes’ audience was clearly an earthy one, while ours is sprung from the thin pink earth of suburbia and points west. What will such an audience do with the splendid soliloquy on the agonies of constipation in the Ecclesiazousae? Or the elaborate metaphors Aristophanes uses to describe the amours of the homosexual Kleisthenes? The issue here is delicate and vexing, since as regards obscenity and frankness the comic conventions of our audiences and those of Aristophanes’ audience are to some degree at odds. But I suspect that the disagreement is less sharp than it looks and the translator can, with care and craft, bridge it by working at the best limits of English convention. For instance, if we refuse on principle to bowdlerize – as I think we should – is there any means by which the constipation–soliloquy can be turned to comic advantage but kept in the full force of its obscenity? If baldly or literally translated, it is bound to fail, and the failure will fatally jar our central convention. But what if it were turned with a fine, formal, rhetorical elegance, with such neatness and craft that the audience could recognize the perfect rightness of the incongruity, the fine civilized control of the formal verse and the splendidly natural agony of the constipated man? Isn’t this precisely the pleasure any intelligent man takes in a good limerick exquisitely turned, when he feels unmistakably the neatness and rightness of the limerick’s last line coping, in fine formal incongruity, with the strong obscenity of the matter? I am not, of course, suggesting that the constipation–soliloquy be turned into a limerick, but that rhetoric and elegance conspire to produce that esthetic pleasure we take in a good limerick. Mere literal obscenity is dull and stupid; it is when form and language converge with obscenity that we get comedy and wit. Incongruity and craft make the obscene more obscene, truly obscene. And this is what the translator wants.

42

Ma il pubblico di Aristofane era chiaramente grossolano, mentre il nostro è spuntato dalla terra rosa pallido dei quartieri residenziali e punta a west. Che cosa farà un tale pubblico con lo splendido soliloquio sui dolori della stitichezza nell’Ecclesiazuse? O delle elaborate metafore che Aristofane usa per descrivere gli amours dell’omosessuale Kleistene? Il tema qui è delicato e irritante, perché per quanto riguarda l’oscenità e la franchezza, le convenzioni comiche del nostro pubblico e quelle del pubblico di Aristofane sono a un certo livello agli antipodi. Ma sospetto che il disaccordo sia meno netto di quanto sembri e il traduttore possa superarlo, con cura e mestiere, lavorando al meglio ai limiti della convenzione inglese. Per esempio, se rifiutiamo per principio di espurgare – come credo che dovremmo fare – c’è qualche modo per cui il soliloquio sulla stitichezza possa essere rivolto a vantaggio della comicità ma mantenuto con tutta la forza della sua oscenità? Se tradotto male o alla lettera, sarebbe destinato a fallire, e il fallimento farà inevitabilmente stridere la nostra convenzione centrale. Ma se fosse reso con un’eleganza raffinata, formale e retorica, con tale precisione e mestiere che il pubblico potrebbe riconoscere la perfetta correttezza dell’incongruità, il raffinato e sofisticato controllo del verso formale e la sofferenze splendidamente naturale dello stitico? Non è esattamente questo il piacere

iii
che qualsiasi uomo intelligente prova in un bel limerick squisitamente tradotto, quando

percepisce inequivocabilmente con quale purezza e correttezza l’ultimo verso del limerick affronta, in una raffinata incongruità formale, la forte oscenità del tema? Naturalmente, non sto suggerendo che il soliloquio sulla stitichezza sia reso in un limerick, ma che la retorica e l’eleganza debbano essere rivolte a produrre quel piacere estetico che proviamo in un buon limerick. La mera oscenità letterale è volgare e stupida; è quando forma e lingua convergono con l’oscenità che otteniamo umorismo e comicità. L’incongruità e il mestiere rendono l’osceno più osceno, veramente osceno. E questo è ciò che vuole il traduttore.

43

But the scholar may perhaps object: this is unaristophanic; the translator’s business is to translate his text, not improve upon it. But is it unaristophanic? In technique surely it is completely typical, for although Aristophanes has a reputation – which he deserves – for strong obscenity, he seems to have thought of the slapstick smut and the four–letter words as his concession to the groundlings; his pride was his wit and true obscenity married to the high style. . Think, for instance, of the smutty jokes between Sokrates and Strepsiades which surround on either side the splendid soaring lyrical ode of the approaching chorus of Clouds. Or of the exquisite alternations between smut and lyric in the parabasis of The Birds, dropping from the tio tio tio tinx of lyric into prosy obscenity and then rising again in the antistrophe, tio tio tio tinx. This is the true dialectic of Aristophanes’ comic poetry, the sublime and the formal offsetting the ridiculous and colloquial, the ridiculous mocking the sublime, and all the wit concentrated in the tension and incongruity between the two. Why should this technique not be applied to the constipation–soliloquy to earn both obscenity and comic wit? It seems to me possible and mandatory, but it has yet to be written.

One example, however, may illustrate the technique of translating by apposite rhetorical conventions and the means by which the formal turn of an elegant line resolves, musically and naturally, a gross obscenity, thereby earning it as comic. In The Clouds the old peasant Strepsiades plans to enroll in Sokrates’ Thinkery in order to learn the sophistic techniques which he needs to evade his creditors’ claims. But before he has quite made up his mind, one of Sokrates’ students fires his enthusiasm by describing the achievements of Sokratic science. His example is Sokrates’ ingenious answer to the question: is it the gnat’s mouth or his tail that causes his characteristic buzzing whine? Aristophanes’ interest here is, of course, multiple. He wants not only the fun of some good obscenity and a spoof of the scientific jargon of the sophists, but a device for demonstrating the connection between scientific research and philosophical and legal immorality. Socratic (i.e. sophistic) science is as consequential, he says, as the microscopic analysis of a gnat’s intestines; and applied to the law, it becomes pettifoggery and hair–splitting. And typically he allows the peasant `shrewdness’ of Strepsiades to perceive the relationship and expose it by a burst of obscene rapture:

44

Ma lo studioso potrebbe forse obiettare: questo non è aristofanico; il lavoro del traduttore è tradurre il suo testo, non apportare miglioramenti. Ma non è aristofanico? Tecnicamente è senz’altro assolutamente tipico, in quanto, anche se Aristofane ha una reputazione – che merita – di una forte oscenità, sembra aver considerato le parole sporche come concessione al volgo; il suo orgoglio era l’arguzia e la pura oscenità si sposava allo stile più elevato. Pensiamo per esempio alle sconce battute tra Socrate e Strepsiade che circondano da entrambi i lati la splendida elevata ode lirica del coro che si avvicina nelle Nuvole. O allo squisito alternarsi di volgarità e lirica nella parabasi degli Uccelli, precipitando dal tio tio tio tinx della lirica giù all’oscenità prosaica e poi risalendo ancora al tio tio tio tinx aristofanico. Questa è la vera dialettica della poesia comica di Aristofane, la compensazione tra il sublime e il formale, il ridicolo e il colloquiale, il ridicolo che si prende gioco del sublime, e tutta l’arguzia concentrata nella tensione e incongruità tra i due. Perché questa tecnica non dovrebbe essere applicata al soliloquio sulla stitichezza per trarne sia l’oscenità che lo spirito comico? Mi sembra possibile e obbligatorio, ma va ancora scritto.

Tuttavia un esempio può servire a illustrare la tecnica della traduzione mediante apposite convenzioni retoriche, e i mezzi coi quali risolve il tono formale di un verso elegante, con musicalità e naturalezza, una grossolana oscurità, facendola quindi divenire comica. Nelle Nuvole il vecchio contadino Strepsiade progetta di iscrivere Fidíppide da Socrate per imparare le tecniche sofistiche di cui ha bisogno per evadere le richieste dei creditori. Ma prima che abbia del tutto deciso, uno degli studenti di Socrate accende il suo entusiasmo descrivendo le conclusioni della scienza socratica. Il suo esempio è l’ingegnosa risposta di Socrate alla domanda: è la bocca della zanzara o la coda che causa il suo caratteristico ronzio? L’interesse di Aristofane qui è naturalmente multiplo. Vuole non solo il divertimento di qualche buona battuta oscena e una caricatura del gergo scientifico dei sofisti, ma un mezzo per dimostrare il legame tra la ricerca scientifica e l’immoralità filosofica e legale. La scienza socratica (cioè sofistica) è consequenziale, come l’analisi microscopica dell’intestino della zanzara; e applicata alla legge, diventa cavillosità e pedanteria. E tipicamente permette all’astuzia contadina di Strepsiade di cogliere la relazione ed esporla con un impeto di convulsione oscena:

45

STUDENT: Attend.

According to Sokrates, the intestinal tract of the gnat
is o f puny proportions, and through this diminutive duct the gastric gas o f the gnat is forced under pressure down to the rump. At this point the compressed gases, as through a narrow valve, escape with a whoosh, thereby causing the characteristic tootle or cry
of the flatulent gnat.
STREPSIADES:

So the gnat has a bugle up its ass!
0 happy happy philosphers! What bowel–wisdom! Why, the man who has mastered the ass of the gnat

could win an acquittal in any court.

Obviously the Student’s explanation of Sokrates’ gnat–anatomizing required the same ‘conventionalizing’ treatment as the Meton–episode discussed earlier: touching up, heightening and jargonizing until it became dramatically realizable as plain professional humbug. But my major effort was expended on Strepsiades’ reply, in which I wanted, if possible, to create that crucial tension between slapstick and formal control which I thought the passage required. With the first two lines there was no problem, since Strepsiades’ comments are good fun, at which, I think, almost anyone might laugh. But I wanted those lines resolved with wit and force in such a way that the climax of the passage would become instantly and sharply clear. I wanted, “Why, the man who has mastered the ass of the gnat/ could win an acquittal in any court.” to be a neat and memorable resolution, since it was crucial to Aristophanes’ polemic purpose in the play as Strepsiades’ slapstick enthusiasm was not.

46

STUDENT: Attend.

According to Sokrates, the intestinal tract of the gnat
is o f puny proportions, and through this diminutive duct the gastric gas o f the gnat is forced under pressure down to the rump. At this point the compressed gases, as through a narrow valve, escape with a whoosh, thereby causing the characteristic tootle or cry
of the flatulent gnat.
STREPSIADES:

So the gnat has a bugle up its ass!
0 happy happy philosphers! What bowel–wisdom! Why, the man who has mastered the ass of the gnat

could win an acquittal in any court.

Ovviamente la spiegazione del discepolo dell’analisi anatomica della zanzara di Socrate richiedeva lo stesso trattamento di “convenzionalizzazione” dell’episodio di Meton discusso in precedenza: correggere, elevare e gergalizzare finchè diventa teatralmente realizzabile come una pura falsità professionale. Ma il mio principale sforzo si è espresso soprattutto nella risposta di Strepsiade dove ho voluto, se possibile, creare quella tensione cruciale tra la farsa e il controllo formale che ho pensato che il passo richiedesse. Con le prime due righe non c’era problema, visto che i commenti di Strepsiade sono un vero spasso, di cui, penso, tutti possano ridere. Ma volevo risolvere quei versi con arguzia e forza, in modo che il climax del passo diventasse immediatamente e decisamente chiaro. Volevo che il passo «Why, the man who has mastered the ass of the gnat / could win an acquittal in any court.» fosse una soluzione chiara e memorabile, in quanto era cruciale ai fini polemici di Aristofane nella commedia, così come l’entusiasmo farsesco di Strepsiade non lo era.

47

If obscenity is taxing, the metrical requirements of Greek comedy are even more so. Aristophanes, after all, is a poet who goes through more meters in a single play than most English poets get around to in a lifetime. Moreover, the secrets of Aristophanes’ pace, as well as much of his wit, lie in his mercurial shifts of tempo. Hence the translator must make use of every means at his disposal if he is to cope properly with even half of Aristophanes’ meters. I do not mean that the translator is required to match Aristophanes meter for meter –there are not that many useful metrical possibilities in English, if by useful we mean a meter that any conceivable contemporary audience can appreciate by ear. And some of Aristophanes’ commonest and best meters are beyond any possible ingenuity the translator can muster; I have never seen any translation of Aristophanes which managed with any success whatever to cope dramatically with his long trochaic passages or the splendid anapests of the parabases. And the reason is obvious: English, apart from blank verse or some loose stress–line, has no meter that can tolerate sustained dramatic punishment and formal regularity for upwards of a hundred and fifty lines at a stretch. If you try – like Rogers, Murray and others – to create a formal line, you end up with something that cannot be acted or spoken; and for this reason, most translators – myself included – replace trochees or anapests with a loose six–beat line, totally informal, whose sole virtue is that it can be played dramatically. Nonetheless, no reasonable metrical resource can be neglected, and in my opinion this means the whole repertory of English comic forms, both traditional and free.

But there seems to be a notion abroad – strengthened perhaps by the common practice of translators of Greek choral odes, especially tragic – that the only proper form for a Greek lyric is free movement. In tragedy this prejudice perhaps makes sense, since it accommodates the translator’s necessary discomfort in the choral convention with an appropriate permissiveness.

48

Se l’oscenità è faticosa, le necessità metriche della commedia greca lo sono ancora di più. Aristofane, dopo tutto, è un poeta che passa attraverso più metri nella stessa commedia di quanto un poeta inglese riesca a fare in tutta la vita. Inoltre, il segreto del ritmo di Aristofane, così come la gran parte del suo umorismo, sta nei suoi imprevedibili cambi di tempo. Di conseguenza, il traduttore, se vuole gestire correttamente almeno la metà dei metri utilizzati da Aristofane, deve sfruttare ogni mezzo a sua disposizione. Non intendo dire che il traduttore debba uguagliare Aristofane metro per metro – nella metrica inglese non ci sono così tante possibilità utilizzabili, se per utilizzabili intendiamo un metro che l’orecchio di qualsiasi immaginabile pubblico contemporaneo possa apprezzare. E alcuni dei migliori e più comuni metri utilizzati da Aristofane vanno al di là di ogni possibile ingegnosità cui il traduttore possa fare appello; non ho mai visto una traduzione di Aristofane che abbia saputo gestire con successo qualsiasi resa teatrale, sia dei lunghi passi trocaici che degli splendidi anapesti nelle parabasi. E il motivo è ovvio: l’inglese, a parte il blank verse o alcuni versi con accenti liberi, non ha un metro che possa tollerare una sostenuta pena drammatica e una regolarità formale per oltre centocinquanta versi di seguito. Se si prova – come fecero Rogers, Murray e altri – a creare un verso formale, si arriva a qualcosa che non può essere recitato o parlato; e per questa ragione, la maggior parte dei traduttori – me compreso – sostituisce i trochei o gli anapesti con un verso sciolto a sei piedi, completamente informale, la cui unica virtù è che può essere recitato drammaticamente. Ciononostante, non si può trascurare alcuna risorsa metrica ragionevole e secondo la mia opinione, questo significa l’intero repertorio delle forme comiche inglesi, sia tradizionali che libere.

Ma sembra che esista un’opinione all’estero – rafforzata forse dall’abitudine dei traduttori delle odi corali greche, soprattutto tragiche – secondo cui l’unica forma corretta per una lirica greca è il movimento libero. Nella tragedia questo pregiudizio ha forse senso, in quanto va incontro al necessario disagio del traduttore nella convenzione corale con un’appropriata permissività.

49

When a Greek poet sat down to write his choral lyrics, he clearly envisaged his odes as songs to be sung and danced; but because it has become de rigeur for choral odes to be chanted in modern productions of Greek tragedy, most translators unconsciously allow this fact to influence their choral passages and end up writing that bastard abomination, neither song nor poetry, a hypnotically cadenced chant. In this case, current theatrical practice seems to me a convention born of incompetence and preciosity, and I should like to see translators boldly flout it by writing either poetry or songs. Under poetry and song, needless to say, I include both traditional and free verse, providing always that the ‘free’ and ‘traditional’ verse alike be realized as genuine poetry in their own right. I should also like to see the traditional forms restored to dignity and given a place beside free forms. Both have their function, and tragedy needs both. There is, for instance, a variety of identifiable types among choral lyrics, and some (the ‘escape’ ode, the ‘anxiously expectant’ ode, the ‘hymning’ ode, etc. ) seem to me ideally suited to free treatment, while others (the ‘reflective’ ode, the ‘summation’ ode, etc. ) seem to require that neatness and formal rightness of resolution that traditional forms, properly handled, can provide. I think, for instance, of the stunningly lovely formal periods in Robert Fitzgerald’s Oedipus at Colonus –in my opinion one of the very finest of modern translation of Greek tragedy – and especially the ode beginning, Not to be born beats all philosophy. Ideally, any tragedy requires its plateaus of perfect resolution and apparent peace, and for these the traditional forms are incomparably the appropriate choice.

If traditional periods are recommended now and then in tragedy, they are absolutely essential to comedy. It is, for instance, a fact that formal pattern, regularity and rhyme are, in English verse, almost mandatory for a certain kind of wit. Humorous poems in free forms tend to be drole, ironic, lightly satirical, wry, sardonic, nostalgic or tongue–in cheek; they excite the marginal kind of humor, the chuckle, the amused smile, the understanding of pleased complicity.

50

Quando un poeta greco si sedeva per scrivere le liriche corali, chiaramente immaginava le sue odi come canti che dovevano essere cantati e danzati; ma siccome è diventato de rigueur che le odi corali siano scandite nelle produzioni moderne della tragedia greca, la maggior parte dei traduttori permette inconsciamente che ciò influenzi i loro passi corali e finisce con lo scrivere quell’abominio bastardo, né canto né poesia, che pare una salmodia ipnotica e cadenzata. In questo caso, la pratica teatrale corrente mi sembra una convenzione nata dall’incompetenza e dalla ricercatezza, e vorrei vedere i traduttori farsi sfrontatamente beffa di ciò nello scrivere o poesie o canzoni. Per poesia e canto, inutile dire che intendo anche il verso tradizionale e il verso sciolto, sempre ammesso che sia il verso “libero” che il verso “tradizionale” vengano realizzati di per sé come vera e propria poesia. Vorrei anche vedere che le forme tradizionali vengano restituite alla loro dignità e trovino uno spazio oltre le forme libere. Entrambe hanno una loro funzione, e la tragedia ha bisogno di entrambe. C’è per esempio una varietà di tipi identificabili tra le liriche corali, e alcune (l’ode di “fuga”, l’ode di “ansiosa aspettativa”, l’ode “inno”, ecc.) mi sembrano idealmente armonizzate al trattamento libero, mentre altre (l’ode “riflessiva”, l’ode “riassuntiva”, ecc.) sembrano richiedere quell’abilità e correttezza formale nella risoluzione che possono fornire le forme tradizionali, propriamente trattate. Penso per esempio ai meravigliosi periodi formali in Edipo a Colono di Robert Fitzgerald – secondo la mia opinione una delle più raffinate traduzioni moderne della tragedia greca – e in particolare l’ode iniziale, Not to be born beats all philosophy. Idealmente, qualsiasi tragedia richiede picchi di risoluzione perfetta e pace apparente, e per queste le forme tradizionali sono, senza paragone, la scelta più appropriata.

Se nella tragedia i periodi tradizionali sono da raccomandarsi di tanto in tanto, nella commedia sono assolutamente essenziali. È, per esempio, un dato di fatto che il modello formale, la regolarità e la rima, sono, nel verso inglese, pressoché obbligatori per un certo tipo di humour. I poemi umoristici in versi liberi tendono a essere buffi, ironici, leggermente satirici, farseschi, sardonici, nostalgici o scherzosi; stimolano il tipo marginale di humour, la risatina, il sorriso divertito, la compassione della compiaciuta complicità.

51

In formal comic verse, however, the very neatness of the form with its chances of rhymed emphasis and harsh contrast, the possibilities of flirtation with a familiar pattern and a recurring beat, permit starker surprises and explosive incongruities. And the completeness, the necessity for right resolution, make responses direct and immediate, releasing the outright laugh or open pleasure in formal wit. It is precisely this formal effect at which many Aristophanic choral passages aim. Not all of them by any means; nor was the nineteenth century right to adopt the Gilbert and Sullivan patter–convention at every available opportunity. Aristophanes wrote superlative lyrics, magnificent march–anapests, doggerel, patter–songs, catches and comic arias for virtuoso performance, and the translator’s job is to match as frequently as possible the variety and wit of his original. But where the Greek gives the opportunity, cries out for formal play, the chance should be seized. If our actors and choruses cannot read – or sing – formal comic verse successfully, they will have to learn, for there is no reason why the translator should make concessions to unnecessary incompetence.

My example is taken again from The Birds, and I want, without comment and at the risk of seeming infatuated with my own strategy, to set before you Dudley Fitts’ fine ‘free’ version and my own ‘formal’ version of a lyrical monody. The speaker is Pisthetairos, and he is trying to persuade the reluctant birds to reclaim their great inheritance by contrasting their ancient glory and their present misery.

Fitts :

You understand then, that years and years ago you were great, even holy, in the eyes o f men. But now? Now you are rejects, fools,
worse than slaves, stoned

in the streets by arrogant men, hunted down even in your sanctuaries
by trappers with nets, springes, limed twigs, cages, decoy

52

Nel verso comico formale, comunque l’assoluta purezza della forma con le sue opportunità di enfasi in rima e forte contrasto, le possibilità di flirtare con un modello familiare e un ritmo ricorrente, permettono vere e proprie sorprese e incongruità esplosive. E la completezza, la necessità di una giusta risoluzione, rende le reazioni dirette e immediate, facendo scoppiare la risata, o liberando il piacere per lo spirito formale. È precisamente quest’effetto formale a cui puntano molti passi corali aristofanici. Non tutti, né a tutti i costi; né fu corretto nel diciannovesimo secolo adottare la convenzione-gergo di Gilbert e Sullivan nei confronti di ogni opportunità che si presentasse. Aristofane scrisse liriche superlative, magnifiche marce-anapesti, versi burleschi, parole di commedia, giochi di parole e arie comiche per performance virtuosistiche e il lavoro del traduttore è di unire il più frequentemente possibile la varietà e lo spirito dell’originale. Ma dove il greco dà l’opportunità, chiede a gran voce l’interpretazione formale, bisognerebbe cogliere l’opportunità. Se i nostri attori e cori non possono leggere – o cantare – il verso comico formale con successo, dovranno imparare, perché non c’è ragione per cui il traduttore debba fare concessioni all’inutile incompetenza. Prendo esempio nuovamente dagli Uccelli, e senza commento e a rischio di sembrare infatuato della mia strategia, voglio presentarvi la raffinata versione “libera” di Dudley Fitts e la mia versione “formale” di una monodia lirica. L’oratore Pistetauro sta cercando di persuadere gli uccelli riluttanti a rivendicare la loro grande eredità mettendo in contrasto l’antica gloria e l’attuale miseria.

Fitts :

You understand then, that years and years ago you were great, even holy, in the eyes o f men. But now? Now you are rejects, fools,
worse than slaves, stoned

in the streets by arrogant men, hunted down even in your sanctuaries
by trappers with nets, springes, limed twigs, cages, decoy

53

boxes; caught, sold
wholesale, goosed, prodded by fat fingers, denied

even the grace o f wholesome frying, but served up sleazily, choked with cheese, smeared with oil, sprayed with vinegar, doused

as though you were dead meat, too gamy, in rivers of sweet slab sauce.

My own:

Such were the honors you held in the days o f your soaring greatness.

But now you’ve been downgraded. You’re the slaves, not lords, o f men. They call you brainless or crazy. They kill you whenever they can.

The temples are no protection: The hunters are lying in wait with traps and nooses and nets and little limed twigs and bait.

And when you’re taken, they sell you as tiny hors d’oeuvres for a lunch. And you’re not even sold alone

but lumped and bought by the bunch.

And buyers come crowding around and pinch your breast and your rump, to see if your fleshes are firm and your little bodies are plump.

And as i f that wasn’t enough, they refuse to roast you whole, but dump you down in a dish and call you a casseröle.

They grind up cheese and spices with some oil and other goo, and they take this slimy gravy and they pour it over you!

Yes, they pour it over you!

It’ s like a disinfectant,
and they pour it piping hot
as though your meat were putrid, to sterilize the rot! Yes, to sterilize the rot!

54

boxes; caught, sold
wholesale, goosed, prodded by fat fingers, denied

even the grace o f wholesome frying, but served up sleazily, choked with cheese, smeared with oil, sprayed with vinegar, doused

as though you were dead meat, too gamy, in rivers of sweet slab sauce.

My own:

Such were the honors you held in the days o f your soaring greatness.

But now you’ve been downgraded. You’re the slaves, not lords, o f men. They call you brainless or crazy. They kill you whenever they can.

The temples are no protection: The hunters are lying in wait with traps and nooses and nets and little limed twigs and bait.

And when you’re taken, they sell you as tiny hors d’oeuvres for a lunch. And you’re not even sold alone

but lumped and bought by the bunch.

And buyers come crowding around and pinch your breast and your rump, to see if your fleshes are firm and your little bodies are plump.

And as i f that wasn’t enough, they refuse to roast you whole, but dump you down in a dish and call you a casseröle.

They grind up cheese and spices with some oil and other goo, and they take this slimy gravy and they pour it over you!

Yes, they pour it over you!

It’ s like a disinfectant,
and they pour it piping hot
as though your meat were putrid, to sterilize the rot! Yes, to sterilize the rot!

55

But wherever you look, and the longer and harder you look, the more it seems that our opportunities – at least in translating ancient literature – reside in the simple laborious business of exploiting neglected possibility and lively conventions. This is perhaps no great truth to come bearing home, but it is all I can offer. Like criticisms or poetry, translation is perpetually hindered and sometimes frustrated by its assumption that its limits and necessities are immediately apparent and that its practices can therefore be expressed as self–evident principles. Sometimes, too, even after years of practice, a wayward and arbitrary ‘principle’ will still evade the translator’s attention, remaining uncorrected because it lies too deep to be acknowledged as the prejudice it is. This is natural and expectable, for it takes either genius or long experience to know the boundaries of necessity, and most of us are therefore sentenced to groping, which is not really such a bad life. Alternatively, we can ignore necessity altogether and go a- translating with Robert Graves or Ezra Pound, persuading ourselves that our author is best translated by simply usurping him and setting up shop in the shambles we make.

56

Ma ovunque tu guardi e più a lungo e più profondamente tu guardi, più sembra che le nostre opportunità – almeno nel tradurre la letteratura antica – risiedano nella semplice e laboriosa attività dello sfruttare qualunque possibilità trascurata e qualsiasi convenzione dominante. Questa forse non è una grande verità con cui tornare a casa, ma è tutto ciò che posso offrire. Come la critica o la poesia, la traduzione è perpetuamente ostacolata e a volte frustrata dal suo stesso assioma per cui i suoi limiti e le sue necessità sono immediatamente apparenti e le sue pratiche possono quindi essere espresse come principi evidenti. A volte, anche dopo anni di pratica, un “principio” ostinato e arbitrario riuscirà ancora ad eludere l’attenzione del traduttore che ometterà di correggerlo perché è troppo profondo per essere riconosciuto quale il pregiudizio che è. Questo è naturale e prevedibile, perché è richiesta o la genialità o una lunga esperienza per conoscere i confini della necessità, e la maggior parte di noi è condannata a procedere a tentoni, il che non è davvero una vita così brutta. Oppure possiamo ignorare del tutto la necessità e andare a tradurre con Robert Graves o Ezra Pound, persuadendoci che il nostro autore è tradotto al meglio semplicemente usurpandolo e mettendo su bottega nel caos che facciamo.

i

Sticomitia: nella tragedia greca e latina, dialogo specialmente di tono intensamente drammatico, in cui ogni battuta corrisponde a un verso (una sorta di botta e risposta). NdT.

ii
iii Limerick: stanza di cinque versi di contenuto volutamente assurdo, paradossale o salace. NdT.

Cleònimo: Ateniese accusato di aver gettato lo scudo e abbandonato la battaglia. NdT.

57

ELISA ONGARO Savory: traduzione filologica e traduzione leggibile Savory: philological and readable translation

Savory: traduzione filologica e traduzione

leggibile
Savory: philological and readable translation

ELISA ONGARO

Scuole civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 Milano

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Marzo 2008

© Theodore Horace Savory, London, 1957 © Elisa Ongaro per l’edizione italiana 2008

Savory: traduzione filologica e traduzione leggibile Savory: philological and readable translation

ABSTRACT IN ITALIANO
Il tema della cosiddetta “fedeltà” al testo, o più precisamente la scelta tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile, ha sempre costituito materia di dibattito tra gli studiosi di traduzione. La traduzione filologica risulta dettata da un orientamento di conservazione del prototesto come espressione della cultura emittente, producendo una traduzione «source- oriented». Al contrario, la scelta di avvicinare il testo al lettore, esaltando la leggibilità nella cultura ricevente, porta ad una traduzione «target- oriented». Vengono sintetizzate teorie di alcuni studiosi ed è stata proposta la traduzione di un capitolo del libro The Art of Translation di Savory, seguendo quanto più possibile l’approccio filologico sostenuto dall’autore. L’analisi ha portato alla definizione del testo come principalmente aperto, mentre la dominante risiede nel suo carattere informativo, rivolto a studiosi e studenti della traduzione come lettori modello.

ENGLISH ABSTRACT
The subject of so-called “faithfulness” to a text, or more precisely the choice between a philological translation and a readable one, has always been a topic for discussion among translation experts. A philological translation aims to maintain as much of the prototext as possible as expression of the source culture; the result is a “source-oriented” translation. On the contrary, the decision to bring the text nearer to the reader, favouring readability by readers of the target culture, leads to a “target-oriented” translation. Theories of different experts are summarized. A translation of a chapter of The Art of Translation by Savory is given, and as far as possible the philological approach followed is that suggested by the author. The analysis allows the text to be defined as an open text, whereas the dominant is its informative character and the model readers identified are scholars and students of translation.

DEUTSCHES ABSTRACT
Das Thema der so genannten “Texttreue“ oder genauer die Wahl zwischen philologischer Übersetzung und lesbarer Übersetzung hat unter den Übersetzungswissenschaftlern immer Anlass zur Diskussion gegeben. Die philologische Übersetzung hängt mit der Absicht zusammen, den Prototext als Ausdruck der Ausgangskultur möglichst getreu zu bewahren und führt zur Produktion einer ausgangsorientierten Übersetzung. Die Entscheidung, den Text dem Leser näher zu bringen und die Lesbarkeit in der Zielkultur in den Mittelpunkt zu stellen, führen dagegen zu einer zielorientierten Übersetzung. In dieser Diplomarbeit wurden die Theorien von verschiedenen Experten kurz vorgestellt. Sie enthält auch die Übersetzung eines Kapitels von Savorys Werk The Art of Translation, wobei der vom Autor empfohlene philologische Ansatz bestmöglich befolgt wurde. Die Analyse konnte den Text als hauptsächlich offen definieren. Die Modell- Leser sind Übersetzungswissenschaftler und Studenten und die Dominante des Textes liegt in seinem informativen Charakter.

3

SOMMARIO
I – TRADUZIONE FILOLOGICA E TRADUZIONE LEGGIBILE………………………………………. 5

1.1 INTRODUZIONE………………………………………………………………………………………………………………… 6 1.2 GIDEON TOURY ……………………………………………………………………………………………………………….. 6 1.3 VLADÌMIR NABÓKOV ……………………………………………………………………………………………………….. 9 1.4 UMBERTO ECO ………………………………………………………………………………………………………………. 10 1.5 JACQUES DERRIDA…………………………………………………………………………………………………………. 14 1.6 GEORGE STEINER ………………………………………………………………………………………………………….. 15 1.7 WALTER BENJAMIN ……………………………………………………………………………………………………….. 16 1.8 EUGENE A. NIDA ……………………………………………………………………………………………………………. 17 1.9 THEODORE SAVORY……………………………………………………………………………………………………….. 18

II – THEODORE SAVORY: ANALISI DEL TESTO DA TRADURRE……………………………….. 21

2.1 FATTORI EXTRATESTUALI ………………………………………………………………………………………………. 22 2.1.1. Funzione del testo ………………………………………………………………………………………………………. 22 2.1.2. Autore empirico e autore modello ………………………………………………………………………………… 24 2.1.3. Lettore modello del prototesto ……………………………………………………………………………………… 24 2.1.4. Lettore modello del metatesto ………………………………………………………………………………………. 25 2.1.5. Canale del messaggio …………………………………………………………………………………………………. 26 2.2 ELEMENTI INTERNI AL TESTO………………………………………………………………………………………….. 26 2.2.1. Lessico ………………………………………………………………………………………………………………………. 26 2.2.2 Sintassi ………………………………………………………………………………………………………………………. 27 2.2.3 Registro ……………………………………………………………………………………………………………………… 27 2.2.4 Dominante del prototesto e dominante del metatesto ………………………………………………………. 28 2.3 Strategia traduttiva ………………………………………………………………………………………………………… 28 2.4 Difficoltà e residuo traduttivo………………………………………………………………………………………….. 30

III – TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE ………………………………………………………………….. 33 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI …………………………………………………………………………………….. 54 RINGRAZIAMENTI …………………………………………………………………………………………………………. 56

4

I

TRADUZIONE FILOLOGICA E TRADUZIONE LEGGIBILE

5

1.1 Introduzione
Numerosi autori, allo scopo di sviluppare e proporre teorie della traduzione, hanno analizzato la problematica della cosiddetta “fedeltà” al testo, o più precisamente il dilemma tra la produzione di una traduzione filologica o leggibile. Le diversità di opinioni scaturiscono dal diverso approccio verso la traduzione, ovvero dalla scelta di porre in primo piano la cultura emittente piuttosto che la cultura ricevente. Le diverse teorie riguardo alle strategie e alle scelte traduttive dipendono quindi da questa differenza. Una strategia orientata verso la cultura emittente porterà quindi alla produzione di una traduzione filologica, mentre al contrario un orientamento verso la cultura ricevente favorirà una traduzione leggibile.
L’analisi da me svolta prende in considerazione le teorie esposte da numerosi autori, tra cui teorici della traduzione, traduttori, scrittori e semiotici. Numerosi studiosi e teorici della traduzione si sono poi concentrati in modo particolare sulla traducibilità della poesia, questione strettamente legata alla tematica da me considerata. Tuttavia ho scelto di trattare il problema dell’individuazione di una strategia traduttiva tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile secondo gli aspetti generali e considerando in modo più ampio tutti i generi e i tipi di testo. Numerosi infatti sono gli scrittori e gli studiosi che hanno affrontato il problema della traducibilità della poesia, alcuni dei quali vengono citati anche in questa analisi, come per esempio Umberto Eco. Nonostante ciò questa tematica, per quanto molto interessante, non verrà trattata direttamente nella mia analisi.

1.2 Gideon Toury
Gideon Toury (1942- testologo israeliano) ascrive le traduzioni, considerandole in termini di processi semiotici, all’interno di due sistemi differenti e interrelati: il sistema ricevente e il sistema emittente. Secondo Toury questi sistemi si trovano in una posizione gerarchica l’uno rispetto all’altro in termini di importanza, in quanto la caratteristica di una traduzione di far parte del sistema ricevente prevale rispetto alla funzione di rappresentare il sistema emittente. In altre parole una traduzione viene definita ed inquadrata secondo il sistema ricevente, che contribuisce in

6

misura maggiore alla sua formazione. Si preferisce quindi una traduzione leggibile per la cultura di destinazione, ponendo in secondo piano l’aspetto filologico della traduzione. Vediamo ora come Toury sviluppa le proprie teorie verso questa caratterizzazione. Toury definisce il processo di traduzione come un «trasferimento (transfer)», attraverso il quale una singola entità semiotica appartenente ad un sistema emittente viene trasferito in una nuova entità semiotica all’interno di un sistema differente. Ne consegue che l’entità risultante presenterà un’ambiguità evidente:

a) come qualsiasi altra entità semiotica sarà parte integrante del sistema cui appartiene (vale a dire del sistema di arrivo);
b) a differenza di entità semiotiche ordinarie (cioè primarie e non derivate), sarà anche la rappresentazione (più o meno parziale) di un’altra entità appartenente a un diverso sistema, in funzione di un fattore costante comune a entrambe le entità. (Toury 1979: 106)

La conseguenza logica di questa ambiguità, derivante dal fatto che le due entità semiotiche considerate fanno parte di due sistemi distinti, è la creazione di tre tipi di relazione intercorrenti tra di loro. La prima è la relazione esistente tra le due stesse entità semiotiche, ognuna considerata all’interno del proprio sistema di appartenenza. Da questo scaturisce il concetto di «accettabilità» di ognuna di esse secondo i criteri del proprio sistema. La seconda relazione è quella che intercorre tra le due entità, considerate secondo una costante pertinente al tipo di trasferimento apportato, definita generalmente con «adeguatezza». Il terzo e ultimo tipo di relazione è quella esistente tra i due sistemi ai quali le entità semiotiche appartengono, ovvero i codici soggiacenti. Secondo Toury è proprio quest’ultima relazione a rappresentare il criterio più importante per determinare e descrivere i diversi tipi di trasferimento. La predeterminazione del tipo di relazione esistente tra i codici è fondamentale per l’operazione di traduzione:

Conseguenza della predefinizione del tipo di relazione instaurata tra i codici è la possibilità di gestire i trasferimenti fra le entità codificate in maniera altamente economica, cioè di potere trasferire un predefinito ‘nucleo’ costante in maniera ottimale (quindi con un alto valore di corrispondenza tra le due entità), ottenendo

7

allo stesso tempo il massimo grado di adeguatezza dell’entità risultante al sistema ricevente (varrebbe a dire un alto tasso di accettabilità). (Toury 1979: 106)

Secondo Toury, nell’operazione di trasferimento qui descritta e quindi nella formazione di una traduzione, il fatto di essere ascritta al contesto ricevente, sia in termini linguistici che in termini culturali, è fondamentale. Egli definisce infatti il sistema ricevente come un «sistema di innesco (initiating system)» che porta ad una scomposizione e all’analisi anche del testo di partenza per poi procedere all’operazione di trasferimento da lui descritta. Le teorie di Toury quindi si indirizzano al riconoscimento e all’enfatizzazione della caratteristica della traduzione di essere finalizzata ad uno scopo, ovvero di essere «target-oriented» (o «goal-oriented»). A essere poste in rilievo sono quindi le necessità che devono essere soddisfatte nella cultura e nella lingua ricevente, le quali influenzano poi in modo notevole le scelte e le strategie adottate durante il processo traduttivo. Viene quindi sviluppata una teoria contrastante rispetto alle teorie da lui considerate tradizionali che suggeriscono invece una traduzione «source-oriented», più materiale e maggiormente concentrata sulla produzione. In breve, Toury sostiene che:

Per uno studio della traduzione non risulta essere solo ingenuo, ma anche inutile e fuorviante, muovere dall’assunto che il tradurre consista nel semplice tentativo di ricostruire il testo originale o alcuni suoi aspetti rilevanti, o nel salvare predefinite strutture originarie di un certo sistema di segni incondizionatamente considerate come costanti, dal punto di vista del sistema di partenza. (Toury 1979: 116)

I traduttori devono quindi procedere verso il processo traduttivo tenendo presente che si trovano ad operare per la cultura ricevente, mettendo quindi in secondo piano la cultura del testo originario. Bisogna quindi partire dal presupposto che «le traduzioni siano fatti appartenenti a un solo sistema: il sistema di arrivo (target system)» (Toury: 186). Ne deriva che qualsiasi tentativo di giungere alla formulazione di teorie della traduzione e perciò qualsiasi analisi dei processi coinvolti nella traduzione debba di fatto partire dalle realtà osservabili, ovvero dagli enunciati tradotti, per poi procedere a

8

ritroso verso il testo originale. È necessario pertanto partire esclusivamente dall’analisi dei testi tradotti dal punto di vista della loro accettabilità all’interno del sistema ricevente di appartenenza. Dopodiché si passa a esaminare i loro corrispondenti nel testo di origine, quindi all’interno del sistema emittente, descrivendo poi le relazioni che intercorrono tra i sistemi. Solo allora sarà possibile procedere nell’analisi del processo traduttivo, quindi delle decisioni e delle scelte del traduttore e dei limiti da lui incontrati. Viene quindi ripreso il concetto di accettabilità già menzionato in precedenza, in quanto ogni testo che si presenti come una traduzione, o che si presume lo sia, dovrà essere analizzato esclusivamente secondo i termini dell’accettabilità nel sistema ricevente, cioè «nei termini della sua sottomissione alle norme dominanti in quello specifico sistema» (Toury: 194). Solo in seguito si potrà passare ad un’analisi comparativa dei due testi.

1.3 Vladìmir Nabókov
Vladìmir Nabókov (1899-1977) è stato uno scrittore di romanzi, racconti e poesie in lingua russa e successivamente in inglese e francese. È un artista che si è interessato profondamente alla traduzione, in quanto fu costretto a constatare come le traduzioni delle sue opere sfigurassero totalmente il genio in esse espresso e dovette far fronte ad uno scarso successo di pubblico nel suo paese natio. Si sentì così costretto ad abbandonare la scrittura in russo e a passare alla lingua inglese, occupandosi anche della traduzione di diverse opere del periodo russo. Nabókov patì profondamente di questa scelta e visse questo cambiamento come una costrizione. La sua concezione della letteratura, così come della traduzione, si è sempre basata su un culto quasi ossessivo verso il dettaglio, concezione che lo ha indotto a esprimere forti critiche verso traduttori a lui contemporanei, che hanno portato i poeti russi ad essere «martirizzati a opera di qualcuno dei miei famosi contemporanei» (Nabókov: 81). Basandosi su queste sue visioni piuttosto pessimistiche della traduzione, Nabókov riconosce l’utilità del tradurre solo se ci si basa sulla più precisa traduzione letterale possibile.

L’unico oggetto e l’unica giustificazione della traduzione è veicolare le informazioni più esatte possibili e ciò può essere ottenuto soltanto con una traduzione letterale, con note. (Nabókov: 81)

9

Le sue teorie si basano quindi su una traduzione precisa e filologica, che ponga in secondo piano la leggibilità del testo nella cultura ricevente, in modo da invogliare i lettori a leggere direttamente il testo originale. Ammette quindi l’esistenza esclusivamente della traduzione letterale, in quanto qualsiasi altra forma non sarebbe una traduzione, bensì un’imitazione o una parodia. Per Nabókov la leggibilità del testo non è da considerare, al contrario risulta strettamente necessario abbandonare definitivamente l’idea tradizionale secondo la quale una traduzione debba essere scorrevole e non debba sembrare una traduzione, tentando di farla passare per l’originale. Infatti, una traduzione di questo tipo sarebbe inesatta, in quanto la scorrevolezza della lettura dipende dall’originale non dalla traduzione. Nabókov riconosce che l’unico pregio della traduzione è quello di essere fedele e completa, attenta ai dettagli e precisa. Fa affidamento al lettore e alle sue capacità di discernere un riferimento implicito o esplicito che non faccia parte della sua cultura, bensì della cultura originaria e l’unico modo per poter andare incontro ai lettori è quello di utilizzare l’apparato metatestuale, quali le note a piè di pagina:

Voglio traduzioni con note a piè di pagina copiose, note a piè di pagina che salgano come grattacieli fino in cima a questa o quella pagina in modo da lasciare unicamente il barlume di una sola riga di testo tra commentario ed eternità. (Nabókov 1955: 512)

Viene espressa inoltre una dura critica verso la tendenza di alcuni traduttori a correggere le imprecisioni degli autori del testo originario. Secondo Nabókov di fatti il traduttore deve sacrificare il suo desiderio di correttezza alla necessità di essere quanto più fedele e preciso verso il testo originario. In conclusione, quella sostenuta dal Nabókov è una traduzione totalmente filologica a forte discapito della leggibilità del testo nella cultura ricevente, che non solo è messa in secondo piano, ma anzi viene duramente criticata.

1.4 Umberto Eco
Nettamente differenti risultano essere le teorie di Umberto Eco al riguardo. Nello sviluppo delle sue teorie, Eco parte anche dal punto di vista dello stesso scrittore che si trova a seguire la traduzione del proprio testo, dando

10

consigli e indicazioni ai traduttori e contribuendo in questo modo all’adeguatezza della traduzione. Si parte dal presupposto che qualsiasi autore desidererebbe che fosse rispettata la «fedeltà» al proprio testo. Al contrario di altri teorici, alcuni considerati anche in questa analisi, che si concentrano principalmente sul risultato nella lingua e nel sistema ricevente, Eco sostiene che la fedeltà al testo in questo senso sia da considerare un aspetto importante. La traduzione è descritta come una forma di interpretazione, quale il riassunto o la parafrasi, e di conseguenza dovrebbe sempre cercare di ritrovare se non l’intenzione dell’autore, per lo meno l’intenzione del testo, tenendo sempre presente la cultura ricevente. È fondamentale quindi capire quello che il testo esprime in relazione alla propria lingua e alla cultura dalla quale si sviluppa. Eco quindi considera la traduzione come un fenomeno che va ben oltre al sistema linguistico, tesi ulteriormente supportata dall’ormai dimostrata inesistenza della sinonimia. Secondo Eco, la fedeltà al testo

è sempre fedeltà-a-qualcuno, ovvero fedeltà di qualcuno rispetto a qualcosa d’altro al servizio di qualcun altro ancora. (Eco 1995: 124)

Durante le sue esperienze come traduttore delle sue stesse opere, Eco avvertì il problema di creare una traduzione che fosse fedele a quelle che erano state le sue intenzioni come autore, ma al contempo sentì di apprezzare con entusiasmo le nuove e diverse possibilità interpretative che il testo tradotto poteva scatenare, possibilità interpretative talvolta non previste dall’autore. Secondo Eco, queste nuove potenzialità di interpretazione potevano addirittura portare ad un miglioramento del testo. Da qui la necessità di trovare un equilibrio creativo tra una traduzione che rispetti l’universo semiotico dell’originale, ma che parimenti riesca a trasformare «l’originale adattandolo all’universo semiotico del lettore» (Eco 1995: 125). Le sue esperienze e considerazioni lo portano a sviluppare una teoria che esprime il bisogno di questo equilibrio:

Di fronte alla domanda se una traduzione debba essere source o target oriented, ritengo che non si possa elaborare una regola, ma usare i due criteri

11

alternativamente, in modo molto flessibile, a seconda dei problemi posti dal testo a cui ci si trova di fronte. (Eco 1995: 125)

Eco propone numerosi esempi del tutto efficaci tratti da traduzioni sia dei propri romanzi sia di altri testi letterari. Vorrei riproporne due che ritengo possano essere esemplificativi di questa necessità di utilizzare i due criteri in modo alternato a seconda del testo e del contesto. Come esempio di traduzione «target-oriented» Eco cita la traduzione del suo Pendolo di Foucault. I personaggi di quest’opera pronunciano molto spesso numerose citazioni letterarie, la cui funzione è quella di mostrare al lettore come i personaggi osservino il mondo solo attraverso citazioni e riferimenti ad opere letterarie. Riporto ora una parte del testo in italiano del capitolo 57, nel quale viene descritto un viaggio in macchina sulle colline:

[…] man mano che procedevamo, l’orizzonte si faceva più vasto, benché a ogni curva aumentassero i picchi, su cui si arroccava qualche villaggio. Ma tra picco e picco si aprivano orizzonti interminati – al di là della siepe, come osservava Diotallevi […]

Nel far pronunciare a Diotallevi l’espressione «al di là della siepe» Eco intendeva rinviare all’Infinito di Leopardi. Eco racconta quindi di aver ritenuto utile dare come indicazione ai traduttori del testo che non era importante il riferimento alla siepe in sé, ma piuttosto era necessario mantenere un rimando letterario. Per questo motivo i traduttori hanno inserito un rimando ad un’opera letteraria presente nella propria letteratura, in modo che questa implicazione fosse percepibile chiaramente anche ai lettori delle culture riceventi. Quello appena proposto è un esempio di traduzione «target-oriented», mentre come esempio di traduzione «source- oriented» Eco propone un dilemma traduttivo che ci si potrebbe porre riguardo alla traduzione di Guerra e Pace di Tolstoj, che inizia con un capitolo interamente in francese. Lo scopo di questo capitolo è quello di presentare i costumi della società aristocratica russa del periodo napoleonico, così distanti dalla vita nazionale russa da parlare la lingua francese, considerata al tempo la lingua della letteratura e della raffinatezza. Il dilemma sorge nel caso della traduzione di quest’opera in francese. Ci si potrebbe domandare se sia opportuno tradurre questo capitolo iniziale in

12

un’altra lingua, per esempio l’inglese, allo scopo di rendere evidente anche ai lettori francesi che la lingua utilizzata è diversa rispetto al russo e quindi di adattare il testo alla cultura ricevente. In questo modo però si altererebbe l’intenzione del testo, in quanto gli aristocratici russi parlavano francese, non inglese, particolare non di secondaria importanza se si considera l’opera nel suo insieme, che narra del conflitto tra russi e francesi. Si opta quindi per il mantenimento del primo capitolo in lingua francese, esplicitando questa importante caratteristica con l’apparato metatestuale, per esempio con una nota. In questo caso quindi si preferisce una traduzione filologica rispetto ad una leggibile che porterebbe ad un’alterazione delle intenzioni dell’opera.

Eco prende poi in considerazione una questione spesso controversa tra gli studiosi, ovvero la presunta esistenza di una lingua pura a cui si debba fare riferimento nelle scelte prese durante il processo traduttivo, in modo da riuscire a riprodurre il senso della lingua d’origine in una lingua di destinazione. Si presentano quindi tre possibilità. La prima è che esista una lingua perfetta, intesa come una lingua convergente fra tutte le lingue, un’espressione in linguaggio formalizzato, una sorta di linguaggio neutro rispetto alle lingue naturali a confronto. Questa lingua pura rinvia alle lingue sante, alla lingua di Dio e ha a che fare con il tentativo di recuperare una lingua Adamica originaria, ovvero quella parlata prima della formazione delle diverse lingue, nella situazione pre-babelica. La necessità di attingere da questa lingua perfetta per la traduzione fu ipotizzata da Walter Benjamin (1892-1940, filosofo e scrittore tedesco). La seconda possibilità è che sia possibile individuare e creare una lingua razionale che sia in grado di dare espressione a tutte le idee, i concetti astratti, gli oggetti, le emozioni proprie di una cultura o una lingua del pensiero espressa in un linguaggio formalizzato. L’ultima possibilità riguarda il desiderio, molto ambito dai sostenitori della traduzione automatica, di fare riferimento ad un «tertium comparationis», permettendo di riprodurre la lingua di partenza in una lingua di destinazione passando per una lingua terza, nella quale le due espressioni si trovano ad essere equivalenti in una proposizione di quest’ultimo codice, indipendentemente da come trovavano espressione nelle due diverse lingue. Eco esclude la possibilità che esista una lingua

13

perfetta, o una lingua del pensiero e tanto meno un «tertium comparationis». Tradurre significa infatti riuscire a comprendere il genio espresso dall’autore in una cultura e in una lingua emittente ed essere in grado di riprodurre tale genio, avvalendosi della lingua ricevente e all’interno di una differente cultura. Ricorda che la traduzione è un’interpretazione e in questo senso è necessario “scommettere”, come in una roulette.

Il senso che il traduttore deve trovare, e tradurre, non è depositato in alcuna pura lingua. È soltanto il risultato di una congettura interpretativa. Il senso non si trova in una no language’s land: è il risultato di una scommessa (Eco 1995: 138).

Secondo Eco una traduzione può dirsi soddisfacente se è in grado di rendere «e cioè di conservare abbastanza immutato, ed eventualmente ampliare senza contraddire» (Eco 1995: 138) il senso del testo originario. In conclusione, Eco non ritiene che esista una regola che stabilisca come una traduzione dovrebbe essere fedele e per quale motivo, ma tuttavia sostiene che per valutare una traduzione è necessario basarsi sull’assunto che una traduzione dev’essere fedele.

I criteri di fedeltà possono mutare, ma (i) debbono essere contrattati all’interno di una certa cultura e (ii) debbono mantenersi coerenti nell’ambito del testo tradotto. (Eco 1995: 139)

1.5 Jacques Derrida
Nella sua opera Des Tours de Babel, Jacques Derrida (1930-2004, filosofo francese) esprime le sue teorie riguardo al compito del traduttore. Si chiede se il traduttore debba sentirsi sottomesso alla resa del testo originale e giunge alla conclusione che il suo compito è tutt’altro che questo. Presenta quattro princìpi sui quali fonda la sua teoria della libertà assoluta del traduttore. Il primo principio è quello secondo il quale il «compito del traduttore non si rivela da una ricezione» (Derrida: 386). Benché la teoria della traduzione possa essere supportata dalla ricezione, non è questo lo scopo dell’atto traduttivo. Il secondo principio esposto stabilisce che la traduzione non ha come «fine essenziale» quello di «comunicare» (Derrida: 386). Questa tesi si fonda sulla negazione dell’ipotesi secondo la quale esiste una distinzione tra il contenuto comunicabile e l’atto linguistico della

14

comunicazione. Secondo il terzo principio, la traduzione non è un atto «rappresentativo o riproduttivo. La traduzione non è né un’immagine né una copia» (Derrida: 387). Allo scopo di enunciare il suo quarto e ultimo principio, Derrida descrive l’esistenza di un contratto tra le varie lingue, che renderà poi possibile una traduzione e autorizzerà la libera espressione nell’altra lingua. In sostanza la traduzione non ha come obbiettivo quello di trasporre dei contenuti o dei carichi di senso, ma bensì quello di «far rimarcare l’affinità tra le lingue, di esibire la sua propria possibilità». È in questo senso che Derrida intende liberare la traduzione dal debito all’originale come viene tradizionalmente inteso. La conclusione a cui si arriva è la totale libertà di espressione lasciata al traduttore, allo scopo di esibire le possibilità che la propria lingua offre. Lo scopo della traduzione in questo senso è quello di liberare, trasformare, estendere e far crescere il linguaggio, eventualmente trasgredendo i limiti posti dalla lingua. Esalta quindi una sorta di ignoranza dell’originale, verso un narcisismo egoistico nei confronti della propria lingua. I contenuti e le parole dell’originale non hanno nessuna importanza rispetto al riflesso che producono sul traduttore, liberando la sua espressione, senza fedeltà ai contenuti. È questo per Derrida l’atto traduttivo.

1.6 George Steiner
Steiner (1929- saggista e scrittore) è stato uno dei maggiori studiosi della traduzione. Per esporre la propria teoria riguardo alla fedeltà nella traduzione, Steiner parte dal contesto associativo, ovvero da tutte quelle libere associazioni che scaturiscono nella mente del singolo individuo partendo da una parola, associazioni che non possono che essere soggettive e diverse per ognuno di noi. In questo senso, la fedeltà e la vicinanza al testo, così come i concetti di letteralità e libertà, risultano essenzialmente soggettivi e individuali, concetti intangibili, impossibili da teorizzare e descrivere in modo preciso e perciò del tutto inutili per lo sviluppo di teorie della traduzione. Tuttavia Steiner individua una necessaria fedeltà al testo a livello etico, nello sforzo che il traduttore deve compiere nel tentare di ricostruire il testo che durante il processo individuale di interpretazione era

15

andato scomponendosi, ridonandogli una nuova espressione e una nuova vita:

Il traduttore, l’esegeta, il lettore è fedele al proprio testo, rende responsabile la propria risposta, solo quando si sforza di ripristinare l’equilibrio di forze, di presenza integrale, che la sua comprensione appropriativa ha infranto. (Steiner: 318)

1.7 Walter Benjamin
Benjamin (1892-1940, filosofo e scrittore tedesco) scrisse «Il compito del traduttore», saggio in cui viene trattato il tema della traduzione, che assume un significato e un’importanza quasi mistica e metafisica. La traduzione infatti è considerata un mezzo per elevare l’uomo verso il supremo, verso Dio, così come ogni azione dell’uomo ha la stessa direzione. Facendo riferimento al rapporto tra da un lato il contenuto delle parole e la lingua nella cultura emittente e dall’altro lo stesso rapporto nella cultura ricevente, Benjamin propone una metafora molto espressiva, nella quale se da una parte il rapporto tra il contenuto e la lingua va a formare un frutto e la sua scorza, la traduzione invece ricopre il suo contenuto «come un mantello regale in ampie pieghe» (Benjamin: 46). Alla luce di questa concezione, assumendo che il modo in cui un oggetto viene interpretato dipende dalle differenze tra le varie lingue, Benjamin sostiene che è impossibile riprodurre il pieno senso dell’originale solo attraverso la fedeltà nella traduzione delle singole parole, che non si esauriscono nell’interpretazione data, ma hanno valore in relazione al modo di essere intese nella cultura originaria. Il traduttore deve quindi fare un’opera di ricostruzione, nel tentativo di riformare un vaso andato in frantumi. In questa opera di ricostruzione, il traduttore deve riunire e ricomporre in modo estremamente minuzioso i vari frammenti, in modo da creare anche nella cultura ricevente lo stesso modo di intendere la parola della lingua originaria. Secondo Benjamin però, le fessure che necessariamente si ritrovano tra un pezzo e l’altro non devono essere celate e il vaso non deve più sembrare come era originariamente. Riapplicando la metafora alla traduzione, il testo tradotto non deve sembrare e non deve essere letto come l’originale.

16

La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua. (Benjamin 1962)

Ecco inoltre come ritorna nuovamente ciò a cui abbiamo già accennato, ovvero l’esistenza di una lingua pura, commistione di tutte le lingue, alla quale il traduttore attinge nel suo atto traduttivo.

1.8 Eugene A. Nida
Eugene A. Nida (1914- ) è uno dei maggiori esperti di traduzione dei testi sacri del mondo cristiano. I suoi studi e le sue teorie si concentrano quindi sui problemi e le strategie traduttive nell’ambito dei testi sacri, testi di natura estremamente particolare, diversi sotto numerosi aspetti da tutti gli altri tipi di testo. Nella Bibbia infatti è facilmente individuabile una forte dominante ideologica, dettata dal fatto che lo scopo di questi scritti è la diffusione dell’ideologia cristiana. Non si tratta quindi della diffusione di un testo caratterizzato da diverse interpretazioni, né della produzione di una traduzione strettamente filologica al testo originario. Secondo Nida infatti «uno dei compiti essenziali del traduttore della Bibbia è ricostruire il processo comunicativo come testimoniato nel testo scritto della Bibbia» (Nida: 15). È alla luce di queste considerazioni che Nida si concentra in modo particolare sulle differenze culturali tra le diverse culture, differenze che porterebbero a produrre nelle culture riceventi un’idea deformata dei contenuti espressi dal testo. L’unico modo per mantenere la dominate ideologica dei testi sacri è quindi quello di modificare il contenuto semantico del testo, allo scopo di trasmettere al lettore ignorante della fede cristiana lo stesso significato e gli stessi messaggi.

La traduzione consiste nel produrre nella lingua ricevente il più prossimo equivalente naturale del messaggio della lingua emittente, prima nel significato e secondariamente nello stile. […] Ossia, una buona traduzione non deve rivelare la propria origine non indigena. (Nida: 19)

Ecco quindi espressa la conclusione delle teorie di Nida, ovvero la preferenza verso una traduzione falsificante, una traduzione che abbia lo scopo di passare per un’originale. Viene quindi favorita una cosiddetta

17

«“equivalenza” naturale», intesa come un omologo che culturalmente possa esprimere lo stesso significato, a discapito della traduzione prettamente filologica. Secondo Nida, lo scopo è sempre quello di avvicinare il testo al lettore e mai il contrario.

1.9 Theodore Savory
Theodore Savory, autore del testo da cui ho tratto il brano da me tradotto, presenta alcune teorie riguardo alla scelta tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile. Secondo Savory risulta vano qualsiasi tentativo di sviluppare teorie della traduzione in forma succinta, impossibilità generata anche dall’enorme mole confusa di indicazioni, tesi e princìpi proposti nel tempo dagli stessi traduttori. Queste indicazioni, spesso chiaramente in contraddizione l’una con l’altra, possono essere enunciate come segue:

1. Una traduzione deve rendere le parole dell’originale.
2. Una traduzione deve rendere i concetti dell’originale.
3. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare un testo originale.
4. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare una traduzione.
5. Una traduzione dovrebbe riflettere lo stile dell’originale.
6. Una traduzione dovrebbe possedere lo stile del traduttore.
7. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca dell’originale.
8. Una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca del traduttore.
9. Una traduzione può aggiungere né omettere elementi rispetto all’originale.
10. Una traduzione non deve mai aggiungere o omettere elementi rispetto all’originale.
11. Una traduzione di versi dovrebbe essere in prosa.
12. Una traduzione di versi dovrebbe essere in versi.

Molte di queste indicazioni hanno a che fare con il controverso tema della cosiddetta “fedeltà” al testo. Le tesi presentate da Savory sono a favore di una traduzione “fedele”, in quanto questo risulta il compito principale di un traduttore. Una traduzione “fedele” però

18

non significa una traduzione letterale, parola per parola, in quanto quest’ultima costituisce la forma più primitiva di traduzione, adatta solo alle situazioni più banali e prosaiche.

Questa ipotesi viene scartata anche in nome del fatto che non esistono “equivalenti” a cui attingere tra le lingue. Il traduttore deve riconoscere di non essere l’autore del testo e il suo compito è quello di essere un interprete, di «agire da ponte» e di «permettere che Roma o Berlino parlino direttamente con Londra o Parigi». Viene tuttavia riconosciuta la difficoltà di mettere in pratica questo presupposto, ovvero la difficoltà di aderire con “fedeltà” al testo, difficoltà che induce i traduttori ad optare per la “libertà”. Tuttavia questa scelta viene criticata da Savory, secondo il quale in questo modo il traduttore «ha eluso la fatica di aderire strettamente alle parole e alle frasi originali», nel tentativo di appellarsi a un «principio» per poter giustificare le proprie scelte verso la libertà traduttiva e «tacitando la propria coscienza». Una traduzione di questo tipo, ovvero una traduzione che si “distacchi” dal testo e si avvalga di una maggiore “libertà”, può essere sostenuta da tre considerazioni, che Savory tuttavia smentisce. La prima è che se un’originale alla lettura appare come un originale, anche la sua traduzione dovrebbe sembrarlo. Secondo Savory tuttavia questa constatazione logica è strettamente dipendente dal lettore che fruisce della traduzione, concetto ripreso anche in seguito nell’analisi. In secondo luogo, se il traduttore ha un debito nei confronti dell’autore del testo, si potrebbe considerare altrettanto vero che anche l’autore sia in debito con il traduttore, che si trova ad essere il solo vero autore del testo che sta scrivendo. Questo potrebbe indurre i traduttori a concedersi una maggiore estensione di libertà, che però deve mantenersi entro dei limiti: essa può esprimere con esattezza la correttezza e la bellezza della lingua del traduttore, ma non deve essere più di questo. In terzo luogo, si potrebbe considerare il fatto che un traduttore spesso si trova ed essere l’ultimo di una lunga serie di altri traduttori che lo hanno preceduto, fatto che lo porterebbe a ricercare soluzioni sempre diverse, per non dover cadere nel confronto con altri traduttori. Savory smentisce anche questa ultima considerazione,

19

sottolineando che questa propensione verso un’alternativa sempre diversa è insensata:

Quest’ultima prescrizione, se applicata in modo rigoroso, non ha senso. Virgilio scrisse, all’inizio della seconda parte dell’Eneide, «Conticuere omnes», che qualcuno ha tradotto con «tutti sono stati zittiti» e qualcun altro con «tutti erano in silenzio». Cosa può suggerire un nuovo traduttore? «Tutti tennero la lingua a freno».

È ingiustificabile inoltre sostenere a priori che il principale requisito di una traduzione sia quello di sembrare un’originale, in modo da poter essere letta con piacere. Savory sostiene che la caratteristica di sembrare alla lettura un testo originale dipende dal tipo di lettore e dalle sue ragioni per leggere quel determinato testo. Savory distingue quattro gruppi di ipotetici lettori: il lettore che ignora completamente la lingua d’origine, che legge per curiosità o interesse un testo tradotto; lo studente che sta imparando la lingua, avvalendosi dell’aiuto di una traduzione di un testo; il lettore che in passato conosceva la lingua, ma l’ha dimenticata; il lettore che conosce ancora la lingua. Dato che ognuno di questi lettori ha ragioni differenti per leggere una traduzione, risulta impossibile proporre una versione di traduzione che sia adatta a tutti. È necessario che la proposta di traduzione cambi sulla base del tipo di lettore: il lettore che non conosce la lingua è soddisfatto da una traduzione libera, lo studente è meglio aiutato da una traduzione letterale, il terzo preferisce una traduzione che sembri una traduzione per riportargli alla mente le conoscenze passate e il quarto può meglio divertirsi a valutare una traduzione più libera.

Per concludere, in linea di principio Savory è in favore di una traduzione filologica, che rispetti l’originale e vi aderisca. Sottolinea tuttavia che «una resa troppo letterale è sbagliata» e perfino

la sintassi dell’autore può aver bisogno di essere modificata per trasferire il suo effetto in un’altra lingua […]È un fatto ineluttabile, che i sostenitori di una traduzione precisa, accurata e letterale non possono negare.

20

II

THEODORE SAVORY

ANALISI DEL TESTO DA TRADURRE

21

Nell’analisi del testo da tradurre è importante prendere in considerazione numerosi aspetti che possono contribuire a facilitare il successivo processo traduttivo e soprattutto a rendere la traduzione del testo più adeguata possibile. Una traduzione viene definita adeguata quando conserva il prototesto come espressione di una cultura diversa, aiutando il lettore ad avvicinarsi all’originale e quindi alla cultura emittente.

È necessario quindi ricercare nel prototesto tutte quelle informazioni che ci possano essere d’aiuto. Queste informazioni possono essere suddivise in due categorie. La prima è quella dei fattori extratestuali, ovvero fattori esterni al testo linguistico e inerenti al contesto, quali la funzione del testo; l’autore empirico e l’autore modello; il lettore modello del prototesto e il lettore modello del metatesto; le coordinate spaziotemporali; il canale del messaggio. La seconda categoria è quella degli elementi interni al testo e comprende: il lessico, la sintassi, il registro e le marche per ognuna di queste categorie. Un ultimo ambito importante da prendere in considerazione nell’atto di analisi del testo da tradurre è quello della dominante, sia del prototesto, sia del metatesto.

2.1 Fattori extratestuali

2.1.1. Funzione del testo
La funzione del testo è un elemento fondamentale nell’individuare le strategie traduttive più adeguate. Seppur di regola sia necessario distinguere tra la funzione del prototesto nella sua cultura e la funzione del metatesto nella cultura ricevente, questa distinzione non risulta strettamente necessaria nel caso specifico del testo che ho tradotto, in quanto nell’atto traduttivo la funzione viene mantenuta identica anche per la cultura ricevente. La principale e fondamentale distinzione da fare riguardo alla funzione di un testo consiste nel determinare se si tratti di un testo chiuso o di un testo aperto, o cosa più probabile, se si collochi in una posizione intermedia tra questi due tipi estremi di testi. Un testo chiuso è un testo che si apre ad una sola interpretazione univoca, convogliando informazioni precise ad un genere di lettore altrettanto consapevole e preciso. Il libretto di istruzioni di un elettrodomestico costituisce un evidente esempio di testo chiuso, come

22

anche un orario del treno o un elenco del telefono. Un testo aperto è invece un testo che si presta ad una molteplicità di interpretazioni, portando alla continua formulazione di ipotesi interpretative da parte del lettore, che verranno poi confermate o al contrario smentite andando avanti nella lettura. Questo atto di inferenze da parte del lettore e la loro smentita o conferma viene definito «circolo ermeneutico». L’esempio più evidente, per quanto estremo, di testo aperto è quello di una poesia.

Il prototesto da me preso in considerazione può essere definito come un testo principalmente aperto o espressivo. L’autore presenta la tematica da lui affrontata proponendo le proprie opinioni e i propri giudizi, producendo un testo in alcuni ambiti critico. È caratterizzato da molti degli elementi costitutivi di un testo aperto, come per esempio la presenza di rimandi intertestuali e un particolare stile marcato, con l’utilizzo talvolta di registri leggermente differenti a seconda del messaggio che intende trasmettere. In alcuni casi la decodifica del testo può essere molteplice e le asserzioni presentate dall’autore possono essere condivisibili o non condivisibili. Queste caratteristiche sono mantenute il più possibile anche nella traduzione.

Proviamo ad esemplificare queste caratteristiche prendendo in considerazione un passo del testo di Savory:

If, therefore, the proposition that translation is an art may be assumed in our opening chapters to have been established, translators must expect themselves to be subject to instruction, advice, correction and comment from all the three classes of persons who delight in offering these things – the informed, the uninformed, and the misinformed. Yet none of these three types of persons, not even the last and most dangerous, can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all unless they hold certain illuminating principles, in the light of which they speak. These principles now invite our attention. (Savory: 49)

In questo passo del testo l’autore introduce il tema fondamentale che verrà poi trattato in seguito, ovvero il bisogno di ricercare dei princìpi della traduzione che possano essere una guida sia per il traduttore principiante nell’avvio della sua professione, sia per coloro che svolgono attività di critica delle traduzioni, a partire dai critici professionali fino agli stessi

23

lettori, i quali si trovano ad essere i primi veri fruitori di una traduzione e che sviluppano necessariamente propri giudizi riguardo alla traduzione che hanno davanti. Per quanto la funzione del passo citato sia quella appena esposta, il brano risulta avere diversi significati e implicazioni laterali, non espressamente indicati. Può essere infatti interpretato anche come una sorta di critica nei confronti di coloro che espongono le proprie valutazioni e i propri giudizi senza basarsi però su princìpi illuminanti che possano giustificare le loro esternazioni, critica ancor più evidente nell’uso di espressioni quali «[…] Yet none of these three types of persons […] can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all […]». Siamo quindi di fronte ad un testo principalmente aperto, come viene dimostrato, anche in questo esempio, dall’ambiguità nelle intenzioni dell’autore e quindi dalla decodifica molteplice del testo.

2.1.2. Autore empirico e autore modello
Di norma non è detto che l’autore modello (o autore implicito) coincida necessariamente con l’autore empirico, ovvero lo scrittore materiale del testo. In modo esplicito o implicito, quest’ultimo presenta al lettore modello una descrizione dell’autore, che talvolta può portare alla creazione di un autore implicito che non corrisponde alla persona che materialmente si trova ad essere l’autore del testo. Nel testo da me tradotto invece l’autore si presenta come se stesso, ovvero come Theodore Savory, rivolgendosi al lettore in prima persona. In questo brano quindi autore empirico e autore modello si trovano a coincidere.

2.1.3. Lettore modello del prototesto
Il lettore modello al quale il prototesto si rivolge è individuato nella figura di uno studente di traduzione o uno studioso che si avvicini alla pratica della traduzione. Indipendentemente dall’età, dal sesso o dall’origine geografica, l’autore si rivolge ad un gruppo specifico di studiosi o studenti che desiderano apprendere le nozioni principali della pratica della traduzione, ma anche ad un pubblico più ampio costituito da chiunque si interessi dell’argomento per motivazioni personali. Tuttavia ritengo che l’autore

24

abbia anche avuto l’obbiettivo di rivolgersi a quei traduttori già affermati che si avvalgono di teorie e strategie traduttive differenti da quelle sostenute e praticate dall’autore, con lo scopo di sostenere le proprie tesi anche su una base critica nei confronti dei colleghi. Potremmo considerare l’apprendista traduttore come il lettore modello esplicito scelto dall’autore, mentre il traduttore già affermato a cui l’autore rivolge i propri giudizi come il lettore modello implicito.

2.1.4. Lettore modello del metatesto
Nell’analisi del testo da tradurre è importante considerare che il lettore modello del metatesto potrebbe non coincidere con il lettore modello del prototesto per diverse ragioni. I due testi presi in considerazione infatti nascono e vengono prodotti in due culture differenti e i lettori a cui si riferiscono provengono da due culture diverse. Inoltre bisogna considerare anche un terzo polo costituito dal traduttore e dalla sua cultura. È possibile che un testo sia perfettamente comprensibile dai lettori del prototesto in quanto facente perfettamente parte della loro cultura, ma non lo sia per i lettori del metatesto. Le funzioni dei due testi saranno di conseguenza diverse e così lo saranno anche i lettori modello. È quindi necessario prendere attentamente in considerazione le cosiddette coordinate cronotopiche, attraverso le quali si tiene conto di tutte le differenze tra le diverse culture, sia in termini cronologici che in termini spaziali. Fatta questa premessa, possiamo considerare il testo che ho deciso di tradurre. È stato scritto negli anni ‘50 in Inghilterra, mentre la mia proposta di traduzione è stata prodotta nel 2008 in Italia. C’è quindi una certa distanza cronotopica tra il testo originale e la mia versione e questo si evince particolarmente dallo stile e dal lessico dell’autore, che verrà esaminato in seguito. Tuttavia, la funzione del testo e di conseguenza il lettore modello rimangono invariati nonostante questa distanza, se si considera inoltre la particolare natura dell’argomento trattato, che prende in considerazione la difficoltà di trovare princìpi della traduzione universalmente riconoscibili, tentando però di fornire alcune indicazioni utili a coloro che si propongono di imparare a tradurre in modo adeguato. Allora come oggi il testo si rivolge agli apprendisti traduttori e le teorie presentate sono tuttora valide. Il lettore

25

modello del metatesto quindi coincide con il lettore modello del prototesto e si è tenuto costantemente conto di questo elemento nella traduzione del testo da me proposta.

2.1.5. Canale del messaggio
Il canale del messaggio è un ulteriore elemento fondamentale da considerare nell’analisi traduttologica del testo da tradurre. Per canale si intende il mezzo, il medium attraverso il quale la comunicazione si svolge, fattore molto importante in quanto ci fornisce delle indicazioni indispensabili sulle modalità di trasmissione, la quantità delle informazioni convogliate e le modalità di ricezione del messaggio. Quello che ho tradotto è un testo scritto e il tipo di medium è quello di un libro, o più specificatamente un saggio. È importante inoltre considerare anche le dimensioni del medium, ovvero la quantità di lettori a cui il testo è rivolto. In questo ambito è necessario fare alcune considerazioni. Il testo è rivolto ad una quantità ipoteticamente ampia di lettori, non essendo un testo particolarmente scientifico o settoriale. È però da notare che il numero di lettori è ristretto a coloro che si interessano in maniera specifica della materia della traduzione. È inoltre necessario accennare alla difficile reperibilità del testo originale in Italia, il che costituisce un ulteriore limite al numero di lettori che potrebbero essere a conoscenza di questo testo.

2.2 Elementi interni al testo

2.2.1. Lessico
Benché la funzione del testo sia prettamente informativa, allo scopo di fornire suggerimenti e critiche per quanto riguarda lo sviluppo di teorie della traduzione, il lessico dell’autore, in alcuni casi caratteristico della ricerca traduttologica, non risulta essere particolarmente settoriale. I termini più tipici del settore sono infatti generici, mentre non vengono utilizzati termini settoriali e più scientifici. Alcuni esempi possono essere i termini «faithful» e «faithfulness», già di per sé generici e astratti anche nell’ambito delle teorie della traduzione. Anche le espressioni «literal» o «word-for-word translation» non risultano essere intese come espressioni peculiari nel

26

contesto specifico e settoriale della scienza della traduzione. Il lessico dell’autore quindi è particolarmente semplice e non costituisce una difficoltà o un ostacolo alla lettura e alla comprensione del testo, quanto invece potrebbe costituirne al contrario la sintassi.

2.2.2 Sintassi
Il testo da me preso in considerazione presenta una struttura ben articolata in paratassi e ipotassi. In questo contesto risulta importante notare la presenza di periodi particolarmente lunghi. Questa lunghezza è data anche dalla frequenza di frasi subordinate, benché la caratteristica principale della sintassi del testo sia invece da ricercare nella prevalenza di frasi coordinate, con l’affiancamento di diverse proposizioni semplici, o nei frequenti elenchi. Si considerino i seguenti passi del prototesto:

The answer to this question is that a statement of the principles of translation in succinct form is impossible, and that a statement in any form is more difficult than might be imagined; and further that this difficulty has arisen from the writings of the translators themselves. (Savory: 49)

In consequence we are told, often enough, that it is entirely legitimate to include in a translation any idiomatic expression that the original may seem to suggest, or that first requisite of an English translation is that it shall be English, or that a translation should be able to pass itself off as an original and show all the freshness of original composition. (Savory: 52)

In questi paragrafi si può notare la struttura a elenco della periodo, secondo la costruzione «that…and that…and further that…» per il primo passo e «that…that…or that…or that…and…» per il secondo. Una struttura di questo genere contribuisce anche a rendere il ritmo del testo più rapido.

2.2.3 Registro
Il registro utilizzato dall’autore non risulta essere particolarmente alto. Il testo è infatti caratterizzato da uno stile prettamente discorsivo, in alcuni casi quasi colloquiale, allo scopo di avvicinarsi il più possibile al lettore. Questo obbiettivo è realizzato anche attraverso l’uso di espedienti particolari per coinvolgere il lettore in quello che si trova a leggere. Sono proposti

27

numerosi esempi e alcuni racconti di episodi della vita dell’autore che hanno chiaramente lo scopo di coinvolgere e attrarre il lettore nella lettura. A questo scopo l’autore si rivolge in prima persona ai propri lettori, talvolta comprendendosi nell’esposizione di alcuni concetti, ponendosi allo stesso loro livello:

A reading of this paragraph would leave most of us in no doubt that a literal translation is too difficult a task, and would make us turn at once into the easier paths of freedom. (Savory: 52)

In consequence, we are told, often enough, that […] (Savory: 52)

Si può quindi dire che il registro utilizzato dall’autore è un registro standard, ma molto colto e raffinato, pervaso da una sottile ironia che lo rende molto godibile e lo stile del testo risulta essere discorsivo.

2.2.4 Dominante del prototesto e dominante del metatesto
La dominante del testo considerato viene individuata nello scopo di questa pubblicazione di esporre le teorie dell’autore riguardo al complesso ambito della traduzione, fornendo indicazioni e suggerimenti utili a chiunque si avvicini alla traduzione per interesse, studio o motivazioni personali. La dominante coincide, quindi, con la funzione informativa del testo, attraverso lo sviluppo di tesi e teorie e l’individuazione di limiti e difficoltà.
Oltre alla dominante del testo appena esposta, è possibile rintracciare una sottodominante: il testo esprime, in modo talvolta esplicito, numerose critiche ad altri traduttori e studiosi di traduzione. L’esposizione delle proprie tesi non risulta scevra di valutazioni e giudizi personali, presentati anche a sostegno delle teorie esposte. Per quanto riguarda la cultura ricevente, la dominante e le sottodominanti del prototesto rimangono tali anche nel metatesto, come rimangono tali anche molti altri fattori, quali il lettore modello e la funzione del testo.

2.3 Strategia traduttiva
Come è stato possibile constatare dall’analisi di alcuni autori e traduttori che si sono occupati durante la loro esperienza di teorie della traduzione e in modo più specifico, della contrapposizione tra traduzione filologica e

28

traduzione leggibile, non è possibile arrivare alla creazione di una traduzione corretta in termini assoluti e universalmente riconosciuta. Durante il processo traduttivo, il traduttore si trova a fare una lunga serie di scelte interpretative e di associazioni, che necessariamente non possono che essere intese come personali e soggettive e che lo porteranno poi ad ulteriori e conseguenti scelte nell’atto traduttivo. Inoltre bisogna considerare le analoghe scelte adottate soggettivamente dall’autore del testo, che possono talvolta non essere riconosciute in modo esatto dal traduttore e che possono quindi andare a costituire un residuo. Il traduttore è quindi investito dell’arduo compito di trasferire un testo appartenente ad una cultura emittente, regolato dalle proprie regole, caratterizzato dalla proprie associazioni, interpretazioni e intenzioni, in un diverso testo appartenente ad una cultura ricevente, cultura che sarà dominata necessariamente da diverse regole e da diverse possibilità di interpretazione. Nell’atto di tradurre bisogna quindi assumersi la responsabilità di prendere numerose decisioni riguardo alle strategie traduttive, alcune delle quali possono modificare in modo cospicuo il risultato.

Per quanto concerne la strategia traduttiva da me seguita nella traduzione del testo di Savory, mi sono orientata verso una traduzione adeguata del testo. Alla luce dell’approfondimento teorico da me svolto, ritengo infatti che la scelta più giusta nell’ambito della strategia traduttiva sia quella di mantenere il prototesto come espressione della cultura in cui nasce, invogliando il lettore a coprire la distanza cronotopica tra i due testi e le due culture, piuttosto che avvicinare il prototesto ai lettori, appellandosi quindi al principio dell’accettabilità. Per quanto sia possibile che producendo un testo secondo il criterio dell’adeguatezza si vada ad offrire al lettore un testo probabilmente più difficile da seguire e di non facile comprensione immediata, non ritengo che questo sia il caso della mia proposta di traduzione, date alcune caratteristiche del testo originale, quali il lessico semplice e lo stile discorsivo, che hanno contribuito a produrre anche nella nostra metacultura un testo altrettanto semplice e scorrevole. Durante la traduzione ho sempre tenuto conto inoltre di tutti gli elementi costitutivi del testo, sia extratestuali che interni al testo. Ho quindi mantenuto inalterato il lettore modello e la funzione del testo, tenendo sempre presente la

29

dominante del testo. Infine, ove possibile, la sintassi è stata riprodotta in modo simile anche nel metatesto.

2.4 Difficoltà e residuo traduttivo
Nella comunicazione interlinguistica, così come in ogni altro tipo di comunicazione, viene inevitabilmente a costituirsi un residuo. L’emittente riformula il proprio materiale psichico in un messaggio verbale, compiendo quindi un’operazione di codifica, che però avrà già di per sé un determinato residuo, costituito da tutto ciò che l’emittente si era riproposto di comunicare, ma che non è stato comunicato. Dopodiché avviene l’enunciazione verbale, durante la quale si possono verificare delle interferenze, risultanti in un nuovo residuo. Il traduttore poi dovrà compiere un ulteriore atto di codifica, producendo un nuovo residuo ogniqualvolta non comprendesse interamente il messaggio. Dovrà poi compiere nuovamente tutte le operazioni in precedenza svolte dall’autore del testo, che porteranno al formarsi di ulteriori residui, fino alla ricezione del messaggio da parte del lettore. È quindi fondamentale considerare che dalle intenzioni dell’autore del testo da me tradotto e il lettore della mia proposta di traduzione possono essersi verificati numerosi residui, ragione per la quale risulta necessario adottare tutte le misure possibili atte a limitarli. Nella traduzione del testo di Savory ho incontrato alcune difficoltà traduttive, soprattutto inerenti alla diversa ampiezza dei campi semantici tra le parole inglesi e quelle italiane. Si consideri per esempio la seguente frase:

A translation should read like an original work. (Savory: 50)

La forma verbale «to read like» ricorre in diversi punti del testo e fa sorgere alcune difficoltà traduttive, se si considera che in italiano non esiste un’analoga forma verbale che esprima il senso della frase. In italiano è quindi necessario riformulare il periodo per riuscire a trasmettere lo stesso significato semantico. Nella traduzione del testo, la soluzione da me proposta è stata:

Alla lettura la traduzione dovrebbe sembrare un testo originale.

30

Mi sono perciò avvalsa di una forma verbale più generica, ovvero il verbo «sembrare», integrandola con l’espressione «alla lettura» per poter rendere il significato del verbo inglese «to read like».
Similmente, nel testo originale viene utilizzato il sostantivo «contemporary» nella seguente frase:

A translation should read as a contemporary of the original. (Savory: 50)

Anche in questo caso in italiano risulta necessario riformulare il periodo per riuscire a convogliare lo stesso significato semantico della frase originale. Ho deciso di risolvere questo problema utilizzando la seguente espressione: «la traduzione deve sembrare della stessa epoca dell’originale». Una difficoltà analoga è insorta nella traduzione del termine «“average borrower”», impossibile da esprimere in un’unica parola nella nostra lingua. È stata perciò necessaria una riformulazione della frase come segue: «“utente medio” che prende in prestito un libro».

Nella traduzione del testo ho inoltre incontrato alcune difficoltà derivanti dal frequente utilizzo nella lingua inglese di termini piuttosto generici che in italiano potrebbero essere resi avvalendosi di un ampio spettro di traducenti. Si prenda l’esempio del termine «business», causa di non pochi problemi in qualsiasi ambito lo si incontri. In alcuni casi può essere mantenuta la parola originale inglese anche in italiano, alla luce del sempre più frequente uso di inglesismi e americanismi nella nostra lingua. Tuttavia non è il caso del testo da me tradotto, nel quale questo termine si trova all’interno della seguente frase:

The very fact of their existence is in itself a real phenomenon for which an explanation must be sought; if it can be found it is likely to shed some light on the business of translation in general. (Savory: 50)

Lo spettro semantico di questo termine risulta essere piuttosto ampio e le possibilità di traduzione in italiano sono molteplici. Alcune proposte potrebbero essere: «azienda», «impresa», «affare», «attività», «faccenda», «questione», «compito», «lavoro». In questo caso ho deciso di cercare una soluzione individuando con esattezza quale fosse l’informazione che

31

l’autore intendeva convogliare attraverso l’uso di questa espressione, distaccandomi dal significato del termine considerato al di fuori di un contesto. A questo scopo, ho perciò scelto di tradurre «business» con «processo», intendendo quindi il processo traduttivo, come segue:

Proprio il fatto stesso della loro esistenza costituisce di per sé un vero fenomeno, del quale va ricercata una spiegazione. Questa spiegazione, se trovata, potrebbe fare luce sul processo della traduzione in generale.

Infine, ho incontrato alcune difficoltà nella traduzione della frase: «Many must surely have shared this experience, which I have met in my own Common Room […]». Questo rappresenta un evidente esempio di come le differenze culturali possano portare il traduttore a dover fare delle precise scelte traduttive. In questo caso avrei potuto optare per un avvicinamento del prototesto al lettore, ovvero avrei potuto ricercare un termine nella nostra lingua che potesse riprodurre grosso modo il significato del termine inglese. Tuttavia ho ritenuto ancora una volta che la scelta migliore fosse quella di avvicinare il lettore alla cultura emittente. Il termine «Common Room» indica infatti un concetto ben preciso nella cultura anglosassone. Si tratta di fatti di un salottino presente nei college britannici, che difficilmente potrà essere tradotto in alcun modo nella nostra lingua, non esistendo una struttura analoga nelle nostre università. Mi sono quindi avvalsa dell’apparato metatestuale, spiegando in una nota il significato di questo termine così caratteristico della cultura emittente.

In conclusione, ho tentato di affrontare le diverse difficoltà di traduzione incontrate durante il lavoro, così come i residui traduttivi, mantenendo una strategia basata sul principio dell’adeguatezza, allo scopo di mantenere la massima espressione della cultura emittente nella cultura ricevente italiana.

32

III

TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

33

THE PRINCIPLES OF TRANSLATION

True translation is a metempsychosis. WILAMOWITZ

The artist, practise what he may, is never without his mentors, who are anxious to tell him what he ought to do, or his critics, who are as ready to tell him how he has done it. If, therefore, the proposition that translation is an art may be assumed in our opening chapters to have been established, translators must expect themselves to be subject to instruction, advice, correction and comment from all the three classes of persons who delight in offering these things – the informed, the uninformed, and the misinformed. Yet none of these three types of persons, not even the last and most dangerous, can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all unless they hold certain illuminating principles, in the light of which they speak. These principles now invite our attention. Can they, from the mass of words they have provoked, be disinterred, recognizably enunciated, and justified?

The answer to this question is that a statement of the principles of translation in succinct form is impossible, and that a statement in any form is more difficult than might be imagined; and further that this difficulty has arisen from the writings of the translators themselves. The truth is that there are no universally accepted principles of translation, because the only people who are qualified to formulate them have never agreed among themselves, but have so often and for so long contradicted each other that they have bequeathed to us a volume of confused thought which must be hard to parallel in other fields of literature.

To make plain the nature of the instructions which would-be translators have received, a convenient method is to state them shortly in contrasting pairs, as follows:

  1. A translation must give the words of the original.
  2. A translation must give the ideas of the original.
  3. A translation should read like an original work.
  4. A translation should read like a translation.

34

I PRINCÌPI DELLA TRADUZIONE

La vera traduzione è una metempsicosi, WILAMOWITZ

L’artista, quale che sia la sua attività, non è mai senza i suoi mentori, sempre ansiosi di dirgli quello che deve fare, o i suoi critici, ugualmente pronti a dirgli come l’ha fatto. Pertanto se dai nostri capitoli iniziali possiamo presupporre fondata l’affermazione che la traduzione è un’arte, i traduttori devono aspettarsi di essere soggetti a insegnamenti, consigli, correzioni e commenti da parte di tutte e tre le categorie di persone che più si dilettano a offrirli: gli informati, i non informati e disinformati. Eppure nessuno di questi tre tipi di persone, neppure l’ultimo e il più pericoloso, può continuare ad alzare la voce con quella sostenuta fiducia in sé stesso che li caratterizza tutti, quando non ha alcuni princìpi illuminanti, alla luce dei quali parlare. Sono questi princìpi ad attirare ora la nostra attenzione. Possono essere dissotterrati dalla massa di parole che hanno provocato, enunciati in modo riconoscibile e giustificati?

La risposta a questa domanda è che risulta impossibile affermare i princìpi della traduzione in forma succinta e che affermarli in qualsiasi forma è più difficile di quanto si potrebbe immaginare; e inoltre che questa difficoltà è emersa dagli scritti dei traduttori stessi. La verità è che non esistono princìpi della traduzione universalmente accettati, in quanto le sole persone qualificate per la loro formulazione non sono mai giunte a un accordo, ma si sono così spesso e così a lungo contraddette a vicenda da tramandarci una massa di pensieri confusi che non ha uguali in altri campi del sapere.

Per spiegare la natura delle indicazioni che un aspirante traduttore riceve, un buon metodo è quello di enunciarle sinteticamente in coppie contrapposte come segue:

1. Una traduzione deve rendere le parole dell’originale.
2. Una traduzione deve rendere i concetti dell’originale.
3. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare un testo originale. 4. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare una traduzione.

35

  1. A translation should reflect the style of the original.
  2. A translation should possess the style of the translator.
  3. A translation should read as a contemporary of the original.
  4. A translation should read as a contemporary of the translator.
  5. A translation may add to or omit from the original.
  6. A translation may never add to or omit from the original.
  7. A translation of verse should be in prose.
  8. A translation of verse should be in verse.

While some of these are clearly modifications or subdivisions of others, there is nevertheless a sufficient richness of choice to give the would-be translator a cause for embarrassment and bewilderment. The last two pairs of alternatives will be reserved for consideration in Chapter VI, after some attempt has been made to understand the existence of the rest. The very fact of their existence is in itself a real phenomenon for which an explanation must be sought; if it can be found it is likely to shed some light on the business of translation in general.

The pair of alternatives at the head of the list given above can be easily recognized as giving one form of expression to the distinction between the literal or faithful translation and the idiomatic or free translation. There has always been support for the translation which is as literal as it can well be made, support based on the conception that it is the duty of a translator to be faithful to his original. A translator, no less than any other writer, would not wish to incur the charge of being unfaithful; but before he can be certain of escaping this, he must have clearly in mind what faithfulness implies and in what faithfulness consists. It does not mean a literal, a word-for-word translation, for this is the most primitive type of translating, fit only for the most mundane and prosaic of matters; and even if faithfulness could be taken to mean this, there would remain the unavoidable fact that any one word in any language cannot invariably be translated by the same word in any other language.

36

5. Una traduzione dovrebbe riflettere lo stile dell’originale.
6. Una traduzione dovrebbe possedere lo stile del traduttore.
7. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca dell’originale.
8. Una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca del traduttore.
9. Una traduzione può aggiungere né omettere elementi rispetto all’originale.
10. Una traduzione non deve mai aggiungere o omettere elementi rispetto all’originale.
11. Una traduzione di versi dovrebbe essere in prosa.
12. Una traduzione di versi dovrebbe essere in versi.

Mentre alcuni di questi princìpi sono chiaramente modifiche o suddivisioni di altri, c’è tuttavia una scelta tanto ricca da dare all’aspirante traduttore motivo di confusione e disorientamento. Le ultime due coppie di alternative verranno prese in considerazione nel sesto capitolo, dopo che saranno stati compiuti diversi tentativi per capire l’esistenza delle altre. Proprio il fatto stesso della loro esistenza costituisce di per sé un vero fenomeno, del quale va ricercata una spiegazione. Questa spiegazione, se trovata, potrebbe fare luce sul processo della traduzione in generale.

Si può facilmente riconoscere come le prime due alternative della lista sopra delineata esprimano la distinzione tra la traduzione letterale o fedele e la traduzione idiomatica o libera. Che la traduzione debba essere più letterale possibile ha sempre trovato appoggio, un appoggio basato sulla concezione che sia obbligo del traduttore essere fedele all’originale. Un traduttore, non meno di qualsiasi altro scrittore, non vorrebbe mai incorrere nell’accusa di essere infedele; ma prima di essere certo di sfuggire a questa accusa, deve tenere ben in mente che cosa implichi la fedeltà e in che cosa consista. Non significa una traduzione letterale, parola per parola, in quanto quest’ultima costituisce la forma più primitiva di traduzione, adatta solo alle situazioni più banali e prosaiche; e anche se si intendesse questo per «fedeltà», rimarrebbe il fatto ineluttabile che una parola in una determinata lingua non può essere tradotta invariabilmente con la stessa parola in ogni altra lingua.

37

Most of us have read something of a man who was always described as pius Aeneas, and while we were quite sure that the adjective could not be translated by `pious’, we were equally sure that no one English word could properly be offered as its equivalent in every context.

One reason for the advocacy of faithfulness is that the translator has never allowed himself to forget that he is a translator. He is not, he recognizes, the original author, and the work in hand was never his own; he is an interpreter, one whose duty is to act as a bridge or channel between the mind of the author and the minds of his readers. He must efface himself and allow Rome or Berlin to speak directly to London or Paris. If he feels that he has done this, he may well be proud of his achievement. `My chief boast,’ said William Cowper, in writing of his Homer, `is that I have adhered closely to the original.’

But the translator who attempts to follow this principle soon runs into difficulties, which have never been better described than in the words of Rossetti.

The work of the translator (and with all humility be it spoken) is one of some self-denial. Often he would avail himself of any special grace of his own idiom and epoch, if only his will belonged to him; often would some cadence serve him but for his author’s structure – some structure but for his author’s cadence… Now he would slight the matter for the music, and now the music for the matter, but no, he must deal with each alike. Sometimes too a flaw in the work galls him, and he would fain remove it, doing for the poet that which his age denied him; but no, it is not in the bond.

38

La maggior parte di noi ha letto qualcosa riguardo a un uomo che è stato sempre descritto come «pius Aeneas», e anche se eravamo tutti convinti che l’aggettivo non potesse essere tradotto con l’inglese «pious», eravamo altrettanto certi che nessuna parola inglese potesse essere offerta in modo appropriato come suo equivalente in qualsiasi contesto.

Una ragione per sostenere la fedeltà è che il traduttore non deve mai permettersi di dimenticare di essere un traduttore. Lui non è l’autore originale, lo ammette, e il lavoro che fa non sarà mai il suo; è un interprete, è colui il cui dovere è quello di agire da ponte o canale tra la mente dell’autore e la mente dei suoi lettori. Deve cancellare sé stesso e permettere che Roma o Berlino parlino direttamente con Londra o Parigi. Se riconosce di esserci riuscito, può essere fiero del suo risultato. «Il mio vanto maggiore» disse William Cowper durante la stesura del suo Homer, «è che sono stato molto aderente all’originale».

Ma il traduttore che tenti di seguire questo principio incontra presto delle difficoltà che non sono mai state descritte meglio che dalle parole di Rossetti:

Il lavoro del traduttore (sia detto con tutta l’umiltà possibile) è una sorta di abnegazione. Si avvarrebbe spesso di qualche grazia speciale del suo idioma e della sua epoca, se soltanto il suo arbitrio appartenesse a lui; spesso una certa cadenza farebbe proprio al caso suo, se non fosse per la struttura del suo autore o una certa struttura, se non fosse per la cadenza del suo autore… Ora preferirebbe la musicalità rispetto al contenuto e ora il contenuto rispetto alla musicalità, invece no, deve occuparsi allo stesso modo di entrambi. Qualche volta un’imperfezione nel lavoro lo infastidisce e la rimuoverebbe di buon grado, facendo per il poeta ciò che la sua epoca gli ha negato; e invece no, questo non è negli accordi.

39

A reading of this paragraph would leave most of us in no doubt that a literal translation is too difficult a task, and would make us turn at once into the easier paths of freedom. This is why Postgate was moved to say that the principle of faithfulness was set up as a merit of true translation `by general consent, though not by universal practice’. Much that has been written in support of freedom in translation gives just this impression: the translator has shirked the labour of making a close approach to the original words and phrases, and lacks the discipline of self-denial described by Rossetti; whereupon he seeks to discover or to invent a `principle’ to which he can appeal, justifying his own actions and salving his own conscience.

In consequence we are told, often enough, that it is entirely legitimate to include in a translation any idiomatic expression that the original may seem to suggest, or that the first requisite of an English translation is that it shall be English, or that a translation should be able to pass itself off as an original and show all the freshness of original composition. These instructions all add up to a general implication that a translation must be such as may be read with ease and pleasure, coupled with the suggestion that if it is not easy and pleasant it will never be read and might as well never have been made.

The risks lie in the extent of the latitude which the translator permits himself. The limit is found, perhaps, in the casual words of our linguistic friends when we appeal to one of them for help with an almost illegible postcard just received from a foreign correspondent. Amused, they scan the document with an air of superior wisdom, and say `I can’t make it out, exactly, but roughly speaking what it means is … ‘ Many must surely have shared this experience, which I have met in my own Common Room, and they will agree that the only thing to do is to examine the card with a magnifying glass and decipher it word by word with a dictionary. Our friend’s free translation is too often quite valueless.

A more careful discussion of the characteristics of a translation which is both free and acceptable will bring to light three important points.

40

La lettura di questo paragrafo non farebbe dubitare alla maggior parte di noi che la traduzione letterale sia un compito troppo arduo e ci farebbe prendere subito i sentieri più semplici della libertà. Questa è la ragione per la quale Postgate fu mosso a dire che il principio di fedeltà era riconosciuto come punto di merito della vera traduzione «per consenso generale, ma non pratica universale». Molto di ciò che è stato scritto a sostegno della libertà nella traduzione dà proprio questa impressione: il traduttore ha eluso la fatica di aderire strettamente alle parole e alle frasi originali e difetta di quella disciplina di abnegazione descritta da Rossetti; al che cerca di scoprire o di inventare un «principio» al quale appellarsi, giustificando le proprie azioni e tacitando la propria coscienza.

Di conseguenza ci sentiamo dire, abbastanza spesso, che è completamente legittimo inserire in una traduzione qualsiasi espressione idiomatica che l’originale sembra suggerire o che il primo requisito di una traduzione in inglese è che sia in inglese o che una traduzione riesca a passare per un originale e mostrare tutta la freschezza della composizione originale. Tutte queste istruzioni in genere implicano che una traduzione debba poter essere letta con facilità e piacere, insieme all’idea che se non è facile e piacevole non verrà mai letta e potrebbe anche non essere mai stata fatta.

I rischi stanno nella misura della libertà d’azione che il traduttore si concede. Il limite forse è da ricercare nelle parole un po’ casuali dei nostri amici linguisti quando ci rivolgiamo a uno di loro per farci aiutare con una cartolina quasi indecifrabile che abbiamo appena ricevuto da un corrispondente straniero. Divertiti, scrutano il documento con aria di saggezza superiore, e dicono: «Non riesco a decifrarla con esattezza, ma grosso modo il significato è…». Molti hanno sicuramente fatto questa esperienza che a me è capitata nella Common Room1 e concorderanno che l’unica cosa da fare è esaminare la cartolina con una lente di ingrandimento e decifrarla parola per parola con un dizionario. La traduzione libera del nostro amico è troppe volte quasi priva di valore.

Una discussione più approfondita delle caratteristiche di una traduzione che sia al contempo libera e accettabile porterà alla luce tre importanti punti.

1 Salottino presente nei college britannici.

41

First, the too brief and dogmatic statement that a translation must read like an original may be supported by a show of reason. The original reads like an original: hence a translation of it should do so too. Common sense suggests that this is so; and the logical development of the notion is that from the translation alone the reader should not be able to determine whether it had been translated from French or Greek, from Arabic or Russian. Whether this is important or not seems to depend solely on the reader and on his reasons for using the translation. To this point we shall return.

Secondly, while there is admittedly a distinction between the original author and his translator, who must constantly remember his debt to the former, a translation is equally the result of original thought and considerable work by the translator. The author has an equivalent debt to his translator, who is in an undeniable degree the proprietor of the translation as such. This proprietorship may be assumed to permit, without further questioning, the introduction of departures from the precise phrasing of the original; and the only doubt remaining is the extent of the departure. This doubt is resolved not by the wishes of the translator, but by the nature of his language. The latitude may be sufficient to make of the translation an example of the translator’s language correct in idiom, expression and structure, but it should not be more than this.

Thirdly, there is the fact that, unlike the author, the translator is often one of a number, perhaps a large number, of writers who have preceded him at his task, and a translator of Goethe or Maupassant works with the knowledge that he is the latest of a series of writers who in the past have tried to find the best solutions to the many problems that now face him. This raises a question of some delicacy. If he has conceived a phrase which, he believes, exactly expresses the author’s meaning, and if he then finds that one or more of his predecessors have used it already, what should he do? Authority has spoken, not for the first time, with divided opinions.

42

Innanzitutto, l’affermazione troppo concisa e dogmatica che la traduzione alla lettura debba sembrare un originale potrebbe essere sostenuta da una constatazione logica. Alla lettura l’originale sembra un originale, quindi anche una sua traduzione dovrebbe sembrarlo. Il senso comune suggerisce che sia così e lo sviluppo logico del concetto è che dalla sola traduzione il lettore non dovrebbe essere in grado di stabilire se sia stata tradotta dal francese o dal greco, dall’arabo o dal russo. Se questo sia importante o no sembra dipendere esclusivamente dal lettore e dalle ragioni per cui ricorre a una traduzione. Torneremo su questo punto in séguito.

In secondo luogo, se per ammissione generale esiste una distinzione tra l’autore originale e il suo traduttore, che deve costantemente ricordarsi del suo debito nei confronti del primo, una traduzione è comunque il risultato di riflessioni originali e di un considerevole lavoro da parte del traduttore. L’autore ha un equivalente debito nei confronti del traduttore il quale è innegabilmente il proprietario della traduzione in quanto tale. Si può presumere che questo diritto di proprietà permetta, senza ulteriori interrogativi, di distaccarsi dalla precisa formulazione dell’originale e l’unico dubbio che rimane è la misura di questo distacco. Questo dubbio viene risolto non dalla volontà del traduttore, ma dalla natura della sua lingua. In certi casi la libertà d’azione è sufficiente a fare della traduzione un esempio della lingua del traduttore corretta per idioma, espressione e struttura, ma non dovrebbe essere più di questo.

In terzo luogo, c’è il fatto che, diversamente dall’autore, il traduttore è spesso uno di un certo numero, magari un gran numero, di scrittori che lo hanno preceduto nel suo compito, e il traduttore di Goethe o Maupassant lavora con la consapevolezza di essere l’ultimo di una serie di scrittori che nel passato hanno cercato di trovare le migliori soluzioni ai molti problemi che ora sta affrontando lui. Questa affermazione solleva una questione di una certa delicatezza. Se crede di aver elaborato una frase che esprime esattamente il senso dell’autore e poi scopre che uno o più dei suoi predecessori l’avevano già utilizzata, cosa deve fare? Le autorità si sono espresse, non una sola volta, con opinioni contrastanti.

43

There have been those who have said that a translation, when once made, must not be improved by comparison with its forerunners; and those who have gone further and asserted that such a comparison must be made for the purpose of removing any `fortuitous coincidences’. This, if strictly applied, is nonsense. Virgil wrote, at the beginning of the Second Aeneid, `Conticuere omnes’, which one has translated `All were hushed’ and another as `All were silent’. What can a new translator suggest? `They all held their tongues.’

A more acceptable point of view, put forward by Professor Postgate, gives a diametrically opposite opinion. If a translator who has done his best finds that some of his phrases have been used by others before him, he should in no way feel obliged to alter them. On the contrary, he has `one more reason for their retention’.

A translation may include any of the idiomatic expressions that are peculiar to its language and which the translator sees fit to adopt; but it need not, because of this, possess the style which every reader may expect. Style is the essential characteristic of every piece of writing, the outcome of the writer’s personality and his emotions at the moment, and no single paragraph can be put together without revealing in some degree the nature of its author. What is true of the author is true also of the translator. The author’s style, natural or adopted, determines his choice of a word, and, as has been seen, the translator is often compelled to make a choice between alternatives. The choice he makes cannot but be influenced by his own personality, cannot but reflect, though dimly, his own style. What does the reader expect; what does the critic demand?

One of the reasons for a preference for a literal translation is that it ought to come nearer to the style of the original. It ought to be more accurate; and any copy, whether of a picture or a poem, is likely to be judged by its accuracy.

44

Ci sono stati quelli che hanno detto che una traduzione, una volta fatta, non deve essere migliorata attraverso il confronto con i suoi precursori e altri che sono andati oltre e hanno asserito che un tale confronto va fatto allo scopo di rimuovere qualsiasi “coincidenza fortuita”. Quest’ultima prescrizione, se applicata in modo rigoroso, non ha senso. Virgilio scrisse, all’inizio della seconda parte dell’Eneide, «Conticuere omnes», che qualcuno ha tradotto con «tutti sono stati zittiti» e qualcun altro con «tutti erano in silenzio». Cosa può suggerire un nuovo traduttore? «Tutti tennero la lingua a freno».

Un punto di vista più accettabile, presentato dal professor Postgate, dà un’opinione diametralmente opposta. Se un traduttore che ha fatto del suo meglio scopre che qualcuna delle sue espressioni è stata usata da altri prima di lui, non si deve assolutamente sentire obbligato a modificarla. Al contrario, ha un’ulteriore ragione per mantenerla.

Una traduzione può contenere qualunque di quelle espressioni idiomatiche caratteristiche della sua lingua e che il traduttore ritiene opportuno adottare; ma non deve per questo possedere lo stile che ogni lettore si aspetti. Lo stile è la caratteristica essenziale di ogni scritto, il risultato della personalità dell’autore e delle sue emozioni in quel momento, e nemmeno un paragrafo può essere composto senza rivelare in una certa misura la natura del suo autore. Quello che è vero per l’autore è vero anche per il traduttore. Lo stile dell’autore, naturale o adottato, determina la sua scelta di una parola e, come è stato visto, il traduttore è spesso obbligato a fare una scelta tra diverse alternative. La sua scelta non può che essere influenzata dalla sua personalità e non può che riflettere, anche se vagamente, il suo stile. Cosa si aspetta il lettore? Cosa pretende il critico?

Una delle ragioni per preferire una traduzione letterale è che deve avvicinarsi allo stile dell’originale. Deve essere più accurata e ogni copia, che sia di un dipinto o di una poesia, è probabile che venga giudicata sulla base della sua accuratezza.

45

Yet the fact is that in making an attempt to reproduce the effect of the original, too literal a rendering is a mistake, and even the construction of the author’s sentences may need alteration in order to transfer their effects to another tongue. As Dr E. V. Rieu says, in introducing his translation of the Odyssey, `In Homer, as in all great writers, matter and manner are inseparably blended … and if we put Homer straight into English words neither meaning nor manner survives.’

This is the inescapable fact, which advocates of precise, accurate and literal translation cannot gainsay. The ideal that a translator may set before himself has been so admirably described by Ritchie and Moore1 that their words must be quoted:

Suppose that we have succeeded in writing a faithful translation of a characteristic page of Ruskin, and that we submit it for criticism to two well-educated French friends, one of whom has but little acquaintance with English, while the other has an intimate knowledge of our language. If the first were to say `A fine description! Who is the author?’ and the second ‘Surely that is Ruskin, though I do not remember the passage,’ then we might be confident that in respect of style our translation did not fall too far short of our ideal. We should have written French that was French, while it still kept the flavour of the original.

Here is a striking paragraph. One may feel that the situation envisaged is likely to occur but seldom, and yet as a touchstone of success it is invaluable.
Style is influenced not only by the personality of the writer but also by the period of history in which he lives; and translation includes the bridging of time as well as the bridging of space. Chaucer is usually said to have written English, yet many a reader of The Canterbury Tales finds them to be difficult to understand, and is glad to read them in a `translation’ or a version in contemporary English.

1 R. L. G. Ritchie and J. M. Moore, Translation from French (C.U.P., 1918). 46

Tuttavia il fatto è che nel tentativo di riprodurre l’effetto dell’originale, una resa troppo letterale è sbagliata e persino la sintassi dell’autore può aver bisogno di essere modificata per trasferire il suo effetto in un’altra lingua. Come dice il professor E. V. Rieu nell’introduzione alla sua traduzione dell’Odissea: «In Omero, così come in tutti i grandi scrittori, contenuto e stile sono fusi in modo inseparabile […] e se mettiamo Omero direttamente in parole inglesi, non sopravvive né il contenuto né lo stile».

È un fatto ineluttabile, che i sostenitori di una traduzione precisa, accurata e letterale non possono negare. L’ideale che un traduttore deve porsi è stato descritto in maniera così ammirevole da Ritchie e Moore1 che non si può non citare le loro parole:

Supponiamo di essere riusciti a scrivere una traduzione fedele di una pagina caratteristica di Ruskin e di sottoporla al giudizio di due cólti amici francesi, il primo con solo una limitata conoscenza dell’inglese, mentre il secondo con una conoscenza approfondita della nostra lingua. Se il primo dicesse: «Un’eccellente descrizione! Chi è l’autore?» e il secondo: «È sicuramente Ruskin, anche se non ricordo questo passo», potremmo essere sicuri che riguardo allo stile la nostra traduzione non si è allontanata troppo dal nostro ideale. Avremmo scritto in un francese che era francese, mantenendo l’essenza dell’originale.

Si tratta di un paragrafo sorprendente. Per quanto si possa pensare che la situazione immaginata accada solo raramente, è senza dubbio un’inestimabile pietra di paragone del successo.
Lo stile è influenzato non solo dalla personalità dell’autore, ma anche dal periodo storico nel quale vive, e la traduzione implica un ponte nel tempo così come un ponte nello spazio. Si dice solitamente che Chaucer abbia scritto in inglese, tuttavia molti lettori dei The Canterbury Tales li trovano difficili da comprendere e preferiscono leggerli in “traduzione”, in una versione in inglese contemporaneo.

1 R.L.G. Ritchie e J.M.Moore, Translation from French (Cambridge University Press, 1918). 47

Later than Chaucer, Archbishop Cranmer wrote in the Book of Common Prayer some of the loveliest English in existence, and yet there are clergymen today who think it desirable to change his words, and to read to their congregations such improvements as `truly and impartially administer justice’, lest our magistrates be thought to be administering an `indifferent’ system of law.

With regard to translation in general, the problem may be put thus. Cervantes published Don Quixote in 1605; should that story be translated into contemporary English, such as he would have used at that time had he been an Englishman, or into the English of today? There can be, as a rule, very little doubt as to the answer, for in most cases a reader is justified in expecting to find the kind of English that he is accustomed to use. If a function of translation is to produce in the minds of its readers the same emotions as those produced by the original in the minds of its readers, the answer is clear. Yet there is need to notice in passing the possibility of exceptions whenever the original author is read more for his manner than his matter. We may read the speeches of Cicero, for example, chiefly that we may have an opportunity to appreciate his eloquence. Of recent years the most eloquent speaker of English has been Sir Winston Churchill, and Churchill’s style was not Cicero’s style. Should a speech by Cicero be so translated as to sound as if it had been delivered by Churchill? No.

We return to the statement made above that the existence of so wide a divergence of opinions among the experts is in itself a phenomenon that calls for explanation.
Part of the explanation is no doubt to be found in the normal variability of the human mind, and this alone is enough to account for a preference by some readers for a literal translation and a preference by others for a free one; for a preference by some for continual reminders that they are reading a translation, and a preference by others for no such thing. But this is not enough to account for the whole of the diversity.

48

Successivamente a Chaucer, l’arcivescovo Cranmer scrisse il Book of Common Prayer in un inglese tra i più amabili che esistano, e tuttavia vi sono ancora ecclesiastici che ritengono auspicabile cambiare le sue parole, e leggere alle loro congregazioni varianti come: «truly and impartially administer justice», per paura che si pensi che i nostri magistrati amministrino un sistema di legge “indifferente”.

Per quanto riguarda la traduzione in generale, la questione si può porre come segue. Cervantes pubblicò il suo Don Quijote nel 1605; quell’opera va tradotta in un inglese seicentesco, come quello che avrebbe usato a quel tempo Cervantes se fosse stato inglese, o in inglese odierno? Di regola ci possono essere ben pochi dubbi riguardo alla risposta, in quanto nella maggior parte dei casi è giustificabile che un lettore si aspetti di trovare il tipo di inglese che è abituato a usare. Se una funzione della traduzione è quella di produrre nella mente dei lettori le stesse emozioni prodotte dall’originale nella mente dei lettori, la risposta è chiara. Tuttavia incidentalmente è necessario considerare la possibilità di eccezioni ogni volta che l’autore originale viene letto più per il suo stile che per i contenuti. Potremmo leggere i discorsi di Cicerone, per esempio, principalmente per poter avere la possibilità di apprezzare la sua eloquenza. Negli ultimi anni l’oratore inglese più eloquente è stato Winston Churchill, e lo stile di Churchill non era lo stile di Cicerone. Un discorso di Cicerone va tradotto in modo da sembrare pronunciato da Churchill? No.

Torniamo all’affermazione fatta in precedenza che l’esistenza di una così ampia divergenza di opinioni tra gli esperti è di per sé un fenomeno che richiede una spiegazione.
Parte della spiegazione è indubbiamente da ricercare nella normale variabilità della mente umana e già questo è sufficiente a giustificare la preferenza di alcuni lettori per una traduzione letterale e la preferenza di altri per una libera; che alcuni lettori preferiscano avere sempre presente che stanno leggendo una traduzione e che altri preferiscano ignorarlo. Ma questo non è sufficiente a giustificare tanta diversità di strategie.

49

The most probable reason is neglect by the critic of the reader’s point of view. Readers of translations do not differ only in their personal preferences, they differ also, and most significantly, in the reasons for which they are reading a translation at all. The primitive function of translation, let it be repeated, is the utilitarian one of overcoming ignorance of the language of the original; but many translations are read by those who know the original language quite as well as does the translator, and who, when they see fit to criticize, cannot rid their minds of this fact. They seem to forget that to the reader who is completely ignorant of the original language, and likely to remain so, their criticisms may seem to be quite pointless, and that such a reader may have found the translation to be pleasing and satisfying. He may even be led to study the original language.

For whom, then, are translations intended? At least four groups can be distinguished.
The first is the reader who knows nothing at all of the original language; who reads either from curiosity or from a genuine interest in a literature of which he will never be able to read one sentence in its original form. The second is the student, who is learning the language of the original, and does so in part by reading its literature with the help of a translation. The third is the reader who knew the language in the past, but who, because of other duties and occupations, has now forgotten almost the whole of his early knowledge. The fourth is the scholar who knows it still.

These four types of readers are obviously using translations for recognizably different purposes, and it must follow from this that, since different purposes are usually achieved by different methods and with the help of different tools, the same translation cannot be equally suited to them all. In other words, this concept of reader-analysis will demonstrate that each form of translation has its own function, which it adequately fulfils when used by the type of reader for whom it was intended.

50

La ragione più probabile è il disinteresse della critica per il punto di vista dei lettori. I lettori delle traduzioni non differiscono solo per le preferenze personali, differiscono anche, e in maniera più significativa, proprio per le ragioni per cui leggono una traduzione. La funzione primigenia della traduzione, ripetiamolo, è quella utilitaria di superare l’ignoranza della lingua dell’originale; ma molte traduzioni sono lette da persone che conoscono la lingua d’origine quasi come il traduttore e che, quando pensano che sia il caso di criticare, non riescono a dimenticarsi di questo fatto. Sembrano dimenticare che al lettore completamente ignorante della lingua d’origine, e che probabilmente lo rimarrà, le loro critiche possono sembrare poco pertinenti, e che questo stesso lettore potrebbe aver trovato la traduzione piacevole e soddisfacente. Potrebbe anche essere invogliato a studiare la lingua d’origine.

Per chi, quindi, sono concepite le traduzioni? Si possono distinguere almeno quattro gruppi.
Il primo è il lettore che non sa nulla della lingua d’origine, che legge o per curiosità o per un interesse autentico per una letteratura della quale non sarà mai in grado di leggere nemmeno una frase nella sua forma originale. Il secondo è lo studente che sta imparando la lingua dell’originale, e lo fa in parte leggendo la letteratura con l’aiuto di una traduzione. Il terzo è il lettore che conosceva la lingua in passato, ma che, a causa di altri compiti e occupazioni, ha ora dimenticato quasi tutto ciò che sapeva in precedenza. Il quarto è lo studioso che la conosce ancora.

Questi quattro tipi di lettori ovviamente usano una traduzione per scopi evidentemente differenti, e da questo consegue che, dato che scopi differenti si raggiungono generalmente attraverso metodi differenti e con l’ausilio di strumenti differenti, la stessa traduzione non può essere parimenti adatta a tutti loro. In altre parole, questa concezione di analisi del lettore dimostrerà che ogni forma di traduzione ha la propria funzione che adempie in modo adeguato quando viene utilizzata dal tipo di lettore per il quale era stata concepita.

51

Let this be amplified. One can so easily imagine the words that form themselves on the lips of readers as they pick up a new volume in translation. The first says to himself, `What is this book about? Why do I hear other people mention it so often? What of interest has the writer got to say?’ The second says, `This will help me more quickly to understand what the writer had to say about his subject; by quicker reading I shall get a better grasp of his ideas.’ The third says, ,Only to think that once, and not so long ago, I was able to read this book properly for myself. How the translation brings it all back: those were the days!’ And the fourth says, `Let me see what poor old So-and-so has made of this. I love it myself; I hope he has not ruined its beauty.’

To these four kinds of readers our four alternative kinds of translations fit themselves naturally and completely.
The ignoramus is happy with the free translation; it satisfies his curiosity, and he reads it easily without the pains of thought. The student is best helped by the most literal translation that can be made in readable English: it helps him to grasp the implications of the different constructions of the language he is studying, and points out the correct usage of the more unfamiliar words. The third prefers the translation that sounds like a translation; it brings back more keenly the memories of his early scholarship and gives him a subconscious impression that he is almost reading the original language. And the fourth, who knows both the matter and style of the original, may find pleasure in occasional touches of scholarship or may, perhaps, enjoy making comments that are more caustic and critical.

Readers of all these kinds abound. Anyone who, like the present writer, has served for nearly twenty years on a Public Library Committee, knows that the `average borrower’ is a fictitious personage who is not to be found among the rate-payers of his district; and that of any work of great reputation every translation that is put on the library shelves will have its own share of admirers. Further than this, many a borrower may consult more than one translation. Two translations are four times as good as one, and in the broad span of literary adventure there is a welcome place for them all.

52

Si sviluppi ora questo concetto. Ci si può facilmente immaginare le parole che si delineano sulle labbra dei lettori quando prendono in mano un nuovo volume tradotto. Il primo si chiede: «Di cosa tratta questo libro? Perché ne sento parlare così spesso dalla gente? Cosa ha da dire di interessante l’autore?». Il secondo dice: «Questo mi aiuterà a capire più velocemente quello che l’autore aveva da dire su questo argomento; con una lettura più veloce afferrerò meglio le sue idee». Il terzo dice: «E pensare che una volta, e non molto tempo fa, ero in grado di leggere questo libro correttamente da solo! La traduzione mi fa rivivere tutto quanto: quelli erano giorni!». E il quarto dice: «Vediamo cosa ne ha fatto il povero vecchio Tizio. Io lo trovo molto bello; speriamo che non l’abbia rovinato».

A questi quattro tipi di lettore le nostre quattro traduzioni alternative si addicono in modo naturale e completo.
L’ignorante si trova bene con la traduzione libera; la sua curiosità è soddisfatta, e la legge con facilità senza darsi pena di pensare. Lo studente è aiutato nel migliore dei modi dalla traduzione più letterale che si possa fare in un inglese leggibile: lo aiuta ad afferrare le implicazioni delle diverse costruzioni della lingua che sta studiando e indica l’uso corretto delle parole meno familiari. Il terzo preferisce una traduzione che sembri una traduzione: gli riporta alla mente in modo più vivido i ricordi della conoscenza di un tempo e gli dà l’impressione inconscia di leggere quasi la lingua originale. E il quarto, che conosce sia il contenuto che lo stile dell’originale, può trovare piacevoli gli occasionali tocchi di erudizione o forse può divertirsi a fare commenti più caustici e critici.

Abbondano lettori di tutti questi tipi. Chiunque, come il sottoscritto, sia stato al servizio per quasi vent’anni nella commissione di una biblioteca pubblica, sa che l’“utente medio” che prende in prestito un libro è un personaggio finzionale che non si concretizza in nessuno degli utenti del distretto; e sa che, per ogni opera che gode di una buona reputazione, qualsiasi traduzione posta sugli scaffali della biblioteca avrà la sua porzione di ammiratori. Inoltre, molti utenti della biblioteca potrebbero consultare più di una traduzione. Due traduzioni sono quattro volte meglio di una, e nell’ampio arco dell’avventura letteraria c’è posto per dare il benvenuto a tutte.

53

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • –  BENJAMIN W. 1923, Il compito del traduttore, in Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di Ernato Solmi, Torino, Einaudi, 1962, 39- 52.
  • –  DERRIDA J. 1985, Des Tours de Babel, in Nergaard 1995, traduzione dal francese di Alessandro Zinna, 367-418.
  • –  ECO U. Riflessioni teorico-pratiche sulla traduzione, in Nergaard 1995:121-146.
  • –  ECO U. 2006, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.
  • –  LEVÝ J. 1967 Translation as a decision process, in To honor Roman Jakobson, Essays on the occasion of his seventieth birthday, The Hague, Mouton, 1967 (La traduzione come processo decisionale, in Nergaard 1995, traduzione dall’inglese di Stefano Traini, 63-83).
  • –  NABÓKOV V. Problems of translation: Onegin in English, in Partisan Review, 1955, n. 22, 496-512.
  • –  NABÓKOV V., Strong opinions (1973), New York, Vintage, 1990.
  • –  NERGAARD S. (a c. di) 1995 Teorie contemporanee della traduzione,

    Milano, Bompiani.

  • –  NIDA E. A. Principles of translation as exemplified by Bible

    translating, in On translation, a cura di Rueben A. Brower, Cambridge

    (Massachusetts), Harvard University Press, 1959, 11-31.

  • –  OSIMO B. 2000-2004, Corso di traduzione, Modena, Logos, disponibile

in internet all’indirizzo

http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.traduzione?lang=

it, consultato nel febbraio 2008.

  • –  OSIMO B. 2004, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario.

    Milano, Hoepli.

  • –  OSIMO B. 2005, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con

    tavole sinottiche. Milano, Hoepli.

  • –  OSIMO B. 2006, Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio

    traduttivo dall’antichità ai contemporanei. Milano, Hoepli. 54

  • –  PAZ O. 1970 Traducciòn: liberatura y literalidad, Barcellona, Tusquets, tratto da Sigma, nn. 33-34, 1972, 3-14. In Nergaard 1995, (Traduzione: letteratura e letteralità, traduzione dallo spagnolo di Valeria Scorpioni, 283-297).
  • –  SAVORY T. H. 1896, The Art of Translation, London, Cape, 1957, 49- 59.
  • –  STEINER G., 1992, After Babel. Aspects of language and translation, Oxford, Oxford University Press, 1998.
  • –  TOURY G. 1979 Communication in Translated Texts. A semiotic Approach. Tratto da Gideon Toury, In Search of a Theory of Translation, The Porter Institute of Poetics and Semiotics, Tel Aviv, 1980, 11-18. In Nergaard 1995, (Comunicazione e traduzione. Un approccio semiotico, traduzione dall’inglese di Andrea Bernardelli, 103- 119).
  • –  TOURY G. 1980 A Rationale for Descriptive Translation Studies, tratto da Theo Hermans (a cura di), The Manipulation of Literature: Studies in Translation, London-Sydney, Croom Helm, 1985, 16-41. In Nergaard 1995, (Principi per un’analisi descrittiva della traduzione, traduzione dall’inglese di Andrea Bernardelli, 181-223).

55

RINGRAZIAMENTI

Innanzitutto, un ringraziamento particolare va al mio relatore, il professor Osimo, per aver accettato anche all’ultimo momento e già sovraccarico di impegni di seguirmi in questo lavoro e per avermi pazientemente aiutata con i suoi consigli e le sue indispensabili indicazioni durante tutto il percorso.

Un grazie sentito alla professoressa Colosio per avermi dato un aiuto nell’analisi traduttologica che è andato ben oltre le mie aspettative. I suoi suggerimenti e le sue correzioni sono stati fondamentali.

Vorrei infine ringraziare il professor Ross e la professoressa Aichner per essere stati così gentili da correggere i miei abstract in inglese e in tedesco in così poco tempo.

56

SARA CARLA LAMPERTI Zelig di Woody Allen Analisi comparativa dei sottotitoli

Zelig
Analisi comparativa dei sottotitoli

SARA CARLA LAMPERTI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Aprile 2007

© 1983 Woody Allen, Zelig, Metro-Goldwin-Mayer Pictures Inc. © 2007 Sara Carla Lamperti per la tesi

ABSTRACT IN ITALIANO

In questo elaborato è stata effettuata l’analisi comparativa tra la versione in inglese e la versione in italiano di una parte dei sottotitoli di film del celebre regista americano Woody Allen. Il film in questione è Zelig (1983), un finto documentario di cui è protagonista il curioso Leonard Zelig, che sconvolge l’America degli anni ’20 e ’30 con la sua capacità di trasformarsi in chiunque gli stia accanto. Per eseguire il confronto tra prototesto (in inglese) e metatesto (in italiano) si è fatto ricorso ad un metodo di sintesi tra due differenti approcci: uno è il modello di Leuven-Zwart, che prima analizza i cambiamenti a prescindere dal contesto testuale specifico, per poi trarre conclusioni sul testo nell’insieme; l’altro è il modello cronotopico di Torop, che prima analizza il testo specifico e poi controlla quali sono i cambiamenti effettuati sulla poetica del testo stesso.

ENGLISH ABSTRACT
In this thesis a comparative analysis of a part of the English and the Italian subtitles of a film by the famous American director Woody Allen was carried out. The film is Zelig (1983), a mockumentary whose main character is Leonard Zelig. He is a curious man who has the ability to change his appearance to that of the people he is surrounded by and stirs American people with his story during the ‘20s and ‘30s. In order to make the comparison between the source and the target text (respectively, the English and the Italian version), a method that summarizes two different approaches was employed: one is the Leuven-Zwart model, which firstly analyses the changes leaving aside the specific textual context and then draws conclusions about the text as a whole; the other one is the chronotopic model by Torop, which firstly analyses the specific text and then controls the changes implemented on the text’s poetics.

ABSTRACT EN ESPAÑOL
En esta tesina llevamos a cabo el análisis comparativo entre la versión en inglés y la versión en italiano de una parte de los subtítulos de una película. La película en cuestión es Zelig (1983), del célebre director estadounidense Woody Allen. Se trata de un falso documental, cuyo protagonista es el curioso Leonard Zelig, un hombre que tiene la capacidad de convertirse en quienquiera se encuentre a su lado y que trastorna con su historia la sociedad estadounidense de los años 20 y 30. A fin de comparar el prototexto (en inglés) y el metatexto (en italiano), recurrimos a dos planteamientos distintos: uno es el modelo de Leuven-Zwart, que en primer lugar examina los cambios prescindiendo del contexto textual específico y luego saca conclusiones sobre el texto en su totalidad; el segundo es el modelo cronotópico de Torop, que en primer lugar estudia el texto específico y luego controla los cambios aportados en la poética del texto.

3

Sommario

Abstract…………………………………………………………………………………………………………….. 3

Sommario …………………………………………………………………………………………………………. 4

Primo capitolo – Introduzione ……………………………………………………………………………… 5 1.1 Breve storia della nascita e dell’evoluzione del sottotitolaggio ……………………….. 5 1.1.1 L’avvento del DVD …………………………………………………………………………….. 6 1.2 I sottotitoli e la traduzione audiovisiva…………………………………………………………. 9 1.3 Tipi di sottotitoli ……………………………………………………………………………………….. 9 1.4 Il film …………………………………………………………………………………………………….. 11 1.4.1 Il DVD di Zelig ………………………………………………………………………………… 14 1.5 Il regista …………………………………………………………………………………………………. 15

Capitolo secondo – Metodologia del raffronto tra due testi ……………………………………. 18 2.1 Introduzione all’analisi comparativa ………………………………………………………….. 18 2.2 Il raffronto tra i due testi: un modello di sintesi …………………………………………… 22

Capitolo terzo – Analisi di una parte di Zelig ………………………………………………………. 24 3.1 Presentazione del materiale empirico …………………………………………………………. 24 3.2 Analisi comparativa vera e propria…………………………………………………………….. 24 3.3 Conclusioni…………………………………………………………………………………………….. 40

Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………. 42 Ringraziamenti ………………………………………………………………………………………………… 45

4

Primo capitolo – Introduzione
1.1 Breve storia della nascita e dell’evoluzione del sottotitolaggio

Al momento della sua nascita, nel 1895, il cinema era muto. L’immagine, quindi, fu l’elemento preponderante delle prime produzioni cinematografiche. Alla fine degli anni ’20 però venne inventato il sonoro e la realtà cinematografica si ritrovò immersa nella dicotomia audiovisiva.

Tuttavia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro non avvenne in modo brusco: infatti, tra il 1919 e il 1930, il divenire argomentale dei film smise gradualmente di basarsi solo sull’immagine e iniziò a fare ricorso alla parola scritta per facilitare la comprensione. Tale materiale discorsivo era conosciuto con il nome di «intertitolo» (o «didascalia»), diretto precursore del sottotitolo. Si trattava di brevi sequenze di commenti descrittivo-esplicativi o di brevi dialoghi proiettati tra le scene di un film.

Il passaggio dagli intertitoli ai sottotitoli come li conosciamo oggi fu rapido: già dal 1917 gli intertitoli vennero spesso sovrapposti – e non più interposti – alle immagini, e nel 1927 sparirono definitivamente lasciando spazio al vero e proprio sottotitolo.

Sin dalla nascita, il processo di sottotitolaggio ha subìto molte trasformazioni, si è evoluto, è migliorato e si è affinato grazie all’ammodernamento delle tecniche coinvolte. Sull’evoluzione dei sottotitoli hanno avuto grande influenza anche i media: inizialmente ideati per il cinema, sono poi stati usati anche per la televisione. In breve tempo però ci si è resi conto che, a causa delle notevoli differenze tra i due mezzi, i sottotitoli preparati per il cinema non sono adatti per essere mandati in onda in televisione.

Nemmeno la ricezione del pubblico è la medesima: è stato infatti dimostrato che la velocità di lettura degli spettatori dipende anche dal mezzo che trasmette i sottotitoli (per leggere i sottotitoli al cinema si necessita il 30% di tempo in meno rispetto al tempo necessario per leggere gli stessi sottotitoli sul piccolo schermo).

È quindi chiaro che non esiste un sottotitolo universale, adatto a tutti i contesti: il sottotitolo deve essere costruito diversamente in base al media specifico per cui viene preparato. E infatti il sottotitolaggio di un prodotto audiovisivo per la televisione, quello

5

per il cosiddetto home entertainment – che comprende le ormai obsolete videocassette e gli innovativi DVD – e quello per il cinema si avvalgono di strumenti e processi tecnici differenti.

1.1.1 L’avvento del DVD

Sin dalla nascita del sottotitolaggio, il modo in cui i sottotitoli sono stati creati e presentati sullo schermo ha subito molti cambiamenti, dettati soprattutto dagli sviluppi nella tecnologia. A metà degli anni ’80 l’uso dei computer ha rivoluzionato il processo di sottotitolaggio, ma è stata la comparsa del formato digitale a provocare la vera rivoluzione nella produzione dei sottotitoli – soprattutto per quanto riguarda quelli di tipo interlinguistico – in quanto ha portato con sé la possibilità di realizzare e inserire in un DVD sottotitoli in più lingue.

Un DVD (acronimo di Digital Versatile Disk), infatti, arriva a contenere fino a 17 gigabyte di informazioni e può proporre sottotitoli in un numero notevole di lingue diverse, fino ad un massimo di 32. Proprio la grande possibilità offerta da questa nuova tecnologia ha spinto le più grandi case di produzione hollywoodiane a fare richieste sempre crescenti all’industria del sottotitolaggio, che nello scorso decennio ha finito per rendere la propria produzione – sino ad allora realizzata a livello locale – sempre più centralizzata e globalizzata.

Anche la questione dei costi ha influenzato fortemente il modo in cui il lavoro viene svolto: la produzione centralizzata dei DVD in opposizione a quella realizzata a livello locale (cioè direttamente nei paesi in cui i DVD vengono venduti) è decisamente meno costosa per le case di produzione.

I principali centri di distribuzione per le case di produzione di Hollywood si trovano a Los Angeles e a Londra e proprio dalle maggiori agenzie di sottotitolaggio che sono situate in queste due città è giunta la risposta alle necessità del mercato. Le agenzie hanno tratto vantaggio dalla disponibilità di traduttori professionali che operavano in quelle due città e si sono specializzate nel sottotitolaggio interlinguistico.

Tre sono i problemi principali che queste agenzie hanno dovuto affrontare:

– trovare un modo per produrre i sottotitoli in tutte le lingue richieste, nel minor tempo possibile, con costi ridotti;

6

  • –  trovare un modo per gestire e controllare i sottotitoli in modo centralizzato, senza bisogno di avere all’interno dell’agenzia tutti i traduttori delle lingue in cui i sottotitoli vengono preparati;
  • –  trovare tutti i sottotitolatori necessari per produrre i sottotitoli in tutte le lingue desiderate.La soluzione a tutti questi problemi è arrivata con i template, file di base che

vengono utilizzati come modello per creare altri documenti, ossia una sorta di prodotto preconfezionato pronto per essere personalizzato. Questi template non sono altro che file contenenti i sottotitoli in inglese di un dato prodotto audiovisivo: da tali file si parte per realizzare i sottotitoli in tutte le altre lingue. In questo modo il processo di sottotitolaggio viene suddiviso in due fasi: il timing (tramite il quale si stabiliscono l’inizio, la durata e l’articolazione dei sottotitoli) e la traduzione. Il timing è un aspetto tecnico del processo di sottotitolaggio e viene realizzato da parlanti madrelingua inglese, i quali producono il file di sottotitoli che verrà utilizzato durante la seconda fase, ossia quella della traduzione dei sottotitoli nelle altre lingue.

L’uso dei template file si è diffuso sempre più e ora essi vengono accompagnati anche da altri tipi di file, volti ad aiutare chi esegue la traduzione. Tra questi file, per esempio, vi è quello delle note traduttive, che offre delucidazioni sullo slang, sulle espressioni culturospecifiche o comunque su tutto ciò che un parlante inglese non madrelingua potrebbe ritenere poco chiaro. Lo scopo delle note è quello di aiutare i traduttori a superare qualsiasi problema di comprensione del prototesto e guidarli così alla realizzazione di un metatesto più accurato. Un altro tipo di file che accompagna i template può essere quello in cui il committente dà istruzioni specifiche sullo stile da mantenere, sul trattamento delle canzoni, e/o su elementi prettamente tecnici, come l’allineamento dei sottotitoli, il ricorso a certi caratteri, ecc.

L’uso di questi file base in inglese, che stabiliscono tempi fissi e un numero fisso di sottotitoli, ha dimostrato di essere necessario al fine di rispondere alle richieste sempre più esigenti. Ecco quali sono i vantaggi che comporta il ricorso ai template:

– gli errori dovuti alla mancata comprensione dell’audio originale – generalmente in inglese – si riducono al minimo perché, come già detto, i template file sono prodotti da parlanti madrelingua inglese. In parlanti non madrelingua potrebbero infatti incontrare serie difficoltà, soprattutto nel caso

7

dei materiali cosiddetti “extra”, quali il commento audio, i making of e le scene eliminate. Ciò è dovuto al fatto che quasi sempre tali extra non sono accompagnati da un copione e sono di scarsa qualità dal punto di vista acustico;

  • –  i tempi di produzione si riducono;
  • –  i costi si riducono a loro volta perché i film – o comunque le opere audiovisive– vengono sottoposte al timing una sola volta, nella versione in inglese; anche il costo del lavoro subisce un abbassamento, in quanto i traduttori non devono più compiere mansioni di tipo tecnico, ma devono solo occuparsi della traduzione;
  • –  per le agenzie di sottotitolaggio che si occupano di sottotitoli multilingui si risolvono i problemi di reperimento di professionisti: non è più necessario reclutare sottotitolatori in tutte le lingue coinvolte in un progetto. Infatti, anche traduttori che non hanno alcuna esperienza o preparazione nel campo del sottotitolaggio possono cimentarsi in questo tipo di lavoro, visto che non si devono occupare degli aspetti tecnici ma solo della traduzione.Questo metodo di lavoro ha suscitato molti dubbi riguardo la qualità dei sottotitoli prodotti. Ovviamente nessuno può assicurare che durante tale processo non vengano commessi errori, soprattutto perché molto dipende dalla cura e dall’impegno con cui si creano i template. La qualità del prodotto finito dipende dall’esperienza e dalla professionalità dello staff coinvolto nel processo e questo vale per l’industria del sottotitolaggio per i DVD come per l’industria della traduzione in generale.Tuttavia va sottolineato che con questo metodo vengono tutelati i tre “ritmi” che caratterizzano un buon sottotitolaggio (Mary Carrol, 2004):
  • –  il ritmo visivo del film come definito dai tagli del regista;
  • –  il ritmo del discorso degli attori;
  • –  il ritmo di lettura del pubblico,dato che il materiale di partenza, e quindi i punti in cui gli attori aprono e chiudono la bocca per pronunciare i dialoghi, resta lo stesso.

8

1.2 I sottotitoli e la traduzione audiovisiva

«Traduzione audiovisiva» è l’espressione oggi utilizzata per fare riferimento alla dimensione multisemiotica di tutte le opere cinematografiche e televisive i cui dialoghi subiscono una traduzione. Il testo audiovisivo rappresenta un tipo testuale a sé e nasce dalla combinazione di diverse componenti semiotiche. Nel testo audiovisivo la sfera visiva e quella sonora, che comprende non solo i dialoghi ma anche suoni e rumori (la cosiddetta «colonna sonora»), si combinano e danno vita ad un testo complesso e multicodice, la cui traduzione può essere problematica.

Il sottotitolaggio è uno dei numerosi metodi di trasferimento e adattamento linguistico in cui si esplicita la traduzione audiovisiva. In virtù del fatto che comporta il trasferimento dalla lingua orale a quella scritta, questo metodo si contrappone agli altri – tra cui vi sono anche il famoso doppiaggio e il meno noto voice-over – che sono essenzialmente orali. Per questo motivo, il sottotitolaggio risulta la forma di trasferimento e adattamento più complessa e più interessante.

A livello tecnico, i sottotitoli devono rispettare regole e restrizioni fisiche imprescindibili. Essi, infatti, sottostanno innanzitutto a restrizioni di natura formale o quantitativa che riguardano la loro disposizione sullo schermo, lo spazio e il tempo di esposizione che possono occupare su di esso, la lunghezza delle battute degli attori; tutto questo influenza, e a volte determina, le scelte traduttive.

1.3 Tipi di sottotitoli

Díaz Cintas (2001: 25) ed Elisa Perego (2005: 60), affermano che, in base a criteri di carattere linguistico, si distinguono due tipi di sottotitolaggio: quello intralinguistico e quello interlinguistico.

Il sottotitolaggio intralinguistico consiste nella trascrizione totale o parziale dei dialoghi nella stessa lingua della colonna sonora originale del film ed è rivolto a due tipi di destinatari, con esigenze differenti. Si tratta di soggetti sordi o che hanno problemi di udito a diversi livelli, nonché di coloro che intendono apprendere una lingua straniera. Per i primi, a cui generalmente sono rivolti sottotitoli intralinguistici ridotti, la lettura del sottotitolo è il mezzo principale o ausiliario per accedere alle informazioni veicolate dal prodotto audiovisivo. Per i secondi, invece, a cui di solito sono rivolti sottotitoli

9

intralinguistici integrali, il sottotitolo è un supporto didattico che educa all’ascolto e favorisce al contempo la comprensione e l’apprendimento naturale e involontario della lingua oggetto di studio.

I sottotitoli interlinguistici, invece, sono sottotitoli in una lingua diversa da quella del prodotto originale e per questo coinvolgono e sintetizzano due lingue e due culture. Anche questo tipo di sottotitoli può favorire l’apprendimento della lingua straniera dei dialoghi in originale, in quanto essi contribuiscono alla comprensione del testo in lingua straniera.

Anche secondo Osimo (2000-2004), esistono fondamentalmente due tipi di sottotitolaggio, ma qui si fonda la distinzione su criteri differenti, ossia sull’utilità dei sottotitoli. In base a tali criteri esistono quindi i sottotitoli che fungono da ausilio fisico (per soggetti con deficit dell’udito di diverso grado) e quelli che fungono da ausilio linguistico (per chi non ha molta dimestichezza con la lingua parlata nel testo audiovisivo). Spesso tale distinzione viene assimilata a quella tra sottotitolaggio intralinguistico e interlinguistico, ma in realtà i due fenomeni non sempre coincidono. Questo perché si stanno diffondendo sempre di più i sottotitoli come ausilio nella traduzione intralinguistica: per coloro che conoscono la lingua che viene parlata nel testo audiovisivo, ma non che ancora non sono in grado di decifrare con facilità il medesimo testo nel parlato, il testo scritto aiuta per esempio a collegare la pronuncia alla forma grafica.

Sulle base di quanto appena detto, si possono quindi individuare ben quattro tipi di sottotitolaggio:

  • –  intralinguistico come ausilio fisico,
  • –  intralinguistico come ausilio linguistico,
  • –  interlinguistico come ausilio linguistico,
  • –  interlinguistico come ausilio fisico.Nei tipi di sottotitolaggio come ausilio linguistico, i tratti soprasegmentali – l’intonazione, la pronuncia, l’inflessione, il tono, il timbro e tutte le altre caratteristiche del parlato – del protesto arrivano al fruitore in modo diretto perché la colonna sonora originale resta intatta.

10

Nei tipi di sottotitolaggio come ausilio fisico, invece, si hanno una traduzione verbale (interlinguistica o intralinguistica) e una traduzione intersemiotica in cui si cerca di sintetizzare verbalmente un messaggio che altrimenti andrebbe perso: sono i casi in cui il sottotitolo contiene espressioni come «musica di sottofondo», «rumore di passi», ecc.

1.4 Il film

Zelig è un divertente mockumentary – ossia una finto documentario – il cui protagonista è un personaggio curioso, il camaleontico Leonard Zelig (interpretato dallo stesso Woody Allen). Attraverso il documentario viene raccontata la storia di questo uomo che sorprende la società americana degli anni ’20 e ’30 del 1900 con la sua capacità di trasformarsi in qualunque persona gli stia accanto. Zelig, infatti, è un insicuro cronico che, pur di essere accettato e benvoluto da tutti, si trasforma in un camaleonte umano. A seconda della situazione in cui si trova e delle persone con cui interagisce, Leonard cambia il proprio comportamento, il proprio modo di parlare e persino l’aspetto fisico.

A causa della disfunzione che lo affligge, diventa presto famoso e tutti lo chiamano “l’uomo camaleonte” (the human chameleon). Tutto inizia con brevi trafiletti sui quotidiani, che poi si trasformano in articoli sempre più lunghi, fino a conquistare le prime pagine. Subentrano poi le radio, i cinegiornali, chi scrive canzoni su di lui, chi produce gadget a lui ispirati. Ma anche i medici contribuiscono fortemente alla sua celebrità: nel corso di varie conferenze stampa, in presenza di giornalisti e telecamere, essi formulano ipotesi, del tutto assurde e infondate, sulle cause della sua malattia. E

11

così, di fronte all’opinione pubblica, lo trasformano in un vero e proprio caso clinico. Mentre questi “luminari della medicina” si ostinano ad attribuire il problema di Zelig a cause fisiologiche, la giovane psichiatra Eudora Fletcher – interpretata dall’attrice Mia Farrow – sostiene la natura psicologica della malattia e chiede di potersi occupare personalmente del caso. Tuttavia, la donna non viene ascoltata e i medici continuano a curare Zelig basandosi su teorie totalmente errate.

Quando la sorella alcolista di Leonard, Ruth, si rende conto che sfruttando la notorietà del fratello potrebbe guadagnare ingenti somme di denaro e a sua volta raggiungere la fama, non esita a sottrarlo alle cure – seppur inadeguate – del Manhattan Hospital. Leonard, ormai in balia della sorella e dell’amante di lei, diventa un fenomeno da baraccone: è costretto ad esibirsi in autentici spettacoli, e la gente accorre da ogni parte dell’America per assistere alle sue trasformazioni. Zelig è cercato, è ammirato e ciò può indurre a credere che abbia finalmente ottenuto ciò che voleva, ma in realtà è fondamentalmente solo e senza qualcuno che gli voglia bene.

Quando la storia d’amore tra Ruth e il suo amante si conclude tragicamente (questi, infatti, la uccide dopo averla scoperta con un altro uomo), Zelig rimane solo e a quel punto la dottoressa Fletcher, figura che si rivelerà fondamentale nella guarigione di Leonard, torna nuovamente a chiedere, e finalmente ottiene, di potersi occupare del caso.

La dottoressa Fletcher ritiene che la soluzione migliore per curare il suo paziente sia quella di allontanarlo dal caos della città, nonché dalle assillanti e controproducenti attenzioni di pubblico e media. Decide così di portarlo nella sua casa di campagna, dove potrà occuparsi di lui e curarlo lontano da occhi indiscreti; in una fase iniziale l’impresa di rivela molto complessa, a causa dell’identificazione di Zelig con la figura del medico.

Superate le difficoltà iniziali, la dottoressa Fletcher sottopone Leonard a sedute di ipnosi, grazie alle quali, finalmente, affiorano le reali cause della malattia. Durante le sedute, infatti, Zelig rivela il suo bisogno di essere apprezzato (I want to be liked) e le vessazioni subite sin dall’infanzia sia in ambito familiare sia in quanto appartenente a una minoranza (la famiglia di Leonard è ebrea).

Le cure della dottoressa si articolano in due fasi, quella incosciente – tramite l’ipnosi, appunto – e quella cosciente: al di fuori delle sedute di psichiatria, parla con lui, gli dedica il suo tempo e le sue attenzioni, gli dà l’affetto e la fiducia che lui non ha

12

mai conosciuto. Grazie a tutto questo, poco alla volta Leonard inizia a riacquistare un’identità, non ancora equilibrata, ma almeno abbozzata.

Il tempo passa e le condizioni dell’ormai ex uomo camaleonte migliorano di giorno in giorno, mentre Eudora e Leonard costruiscono qualcosa che va ben oltre il rapporto medico-paziente. Quando i media vengono a conoscenza del sentimento che unisce i due protagonisti, tornano a intromettersi nella loro vita e a parlare di loro, riportandoli al centro di un’ossessiva attenzione. Tutto ciò causa una ricaduta di Zelig, la cui personalità è ancora molto fragile, e lo porta alla fuga.

Nessuno sa dove sia andato, ma Eudora non si dà per vinta e lo ritrova in Germania, nelle file del partito nazista, poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale. Finalmente riuniti, i due fuggono dall’Europa inseguiti dai nazisti e fortunatamente riescono a rientrare sani e salvi negli Stati Uniti. Lì vengono accolti da eroi e coronano il loro amore con il matrimonio; Zelig, ormai guarito, può finalmente cominciare a condurre una vita normale.

La dottoressa Fletcher è un personaggio chiave nella storia: è la persona che, più con il suo amore che con le cure mediche, riesce a salvare Zelig comprendendone il vero bisogno primario e fondamentale: il suo bisogno di conformismo, di mimetizzarsi nel gruppo, di non risaltare nella massa, di passare inosservato, anonimo, addirittura insignificante.

Il film di Allen è una riflessione sull’ipocrisia della società di massa, sulla difficoltà di integrazione del singolo nella società moderna, soprattutto se appartenente a una minoranza; ed è anche una critica all’abitudine di innalzare a “idolo” chiunque riesca a brillare anche solo per un momento, per poi rigettarlo nella polvere.

Dal punto di vista formale, il film alterna scene in bianco e nero e parti a colori: le prime sono quelle che fanno parte del finto documentario e che sono ambientate negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso; le seconde, invece, sono ambientate negli anni ’80 e sono quelle in cui alcuni personaggi (tra cui quello di Eudora Fletcher ormai anziana e alcuni giornalisti e scrittori realmente esistiti che interpretano se stessi) raccontano e commentano la vita di Leonard Zelig. Per creare questo mockumentary, Allen ha utilizzato autentiche sequenze filmate degli anni ’20 e ’30, utilizzate per i cinegiornali del tempo, e ha inserito se stesso e altri attori in tali sequenze tramite la tecnologia

13

bluescreen1. Proprio grazie a questa tecnologia, nel film sono presenti scene in cui Woody Allen/Leonard Zelig interagisce con personaggi come Al Capone, Herbert Hoover e Adolf Hitler.

1.4.1 Il DVD di Zelig

Come anticipato nel paragrafo 1.1.1, l’avvento del DVD ha portato numerosi ed evidenti cambiamenti nel sottotitolaggio dei film destinati alla visione privata, “casalinga”: un DVD, infatti, può proporre sottotitoli in moltissime lingue diverse, fino ad un massimo di 32. Nel caso del DVD del film Zelig in mio possesso, prodotto nel 2002 dalla MGM Home Entertainment Inc., i sottotitoli disponibili sono in inglese, italiano, tedesco, francese, spagnolo e neerlandese. Per quanto riguarda l’inglese e il tedesco, i sottotitoli sono rivolti a coloro che hanno problemi di udito (for the hard of hearing) e sono quindi, rispettivamente, sottotitoli intralinguistici come ausilio fisico e sottotitoli interlinguistici come ausilio fisico. Nel caso delle altre quattro lingue, si tratta invece di sottotitoli interlinguistici come ausilio linguistico.

Nei capitoli a seguire, lo scopo è stato quello di mettere a confronto i sottotitoli in lingua inglese e quelli in italiano per valutare quali siano le differenze tra le due versioni – delle quali quella in inglese è il “modello” da cui si è partiti per realizzare i sottotitoli nelle altre lingue – e capire quali conseguenze abbia sulla qualità dei sottotitoli questo metodo, nato per soddisfare le necessità e le richieste di un mercato sempre più esigente e globalizzato.

La prima evidente differenza da segnalare tra le due versioni, prima di passare all’analisi dei cambiamenti traduttivi, consiste – come già accennato – nel pubblico a cui sono rivolte: infatti, mentre quelli in lingua inglese sono destinati ai sordi, quelli italiani sono indirizzati a un pubblico che non presenta deficit dell’udito. Abbiamo quindi sottotitoli intralinguistici come ausilio fisico versus sottotitoli interlinguistici come ausilio linguistico; ecco come si concretizza la differenza: per esempio, nel trattamento della colonna sonora. In inglese vengono riportati i titoli delle canzoni in

1 Tecnica che permette il montaggio di immagini su sfondi girati separatamente o creati da zero con la computer graphic; il soggetto viene ripreso su di uno sfondo tutto blu o verde; il forte contrasto che si crea permette al computer di scontornare l’immagine per inserirla su di uno sfondo girato separatamente.

14

sottofondo, preceduti dal simbolo della nota musicale (♪); inoltre, viene riprodotto l’intero testo delle canzoni, se queste ne sono dotate. In italiano non avviene né una cosa, né l’altra. Un altro esempio concreto è quello delle scene di dialogo in cui non è possibile vedere chi sta parlando: in quei casi, in inglese viene inserito tra parentesi il nome della persona o delle persone che pronunciano la battuta, mentre in italiano ciò non accade. Dopo queste precisazioni, si può passare all’analisi comparativa vera e propria, quella dal punto di vista traduttivo.

1.5 Il regista

Woody Allen, al secolo Alan Stewart Königsberg, è nato a New York nel 1935. È un artista camaleontico: è regista, sceneggiatore e attore con oltre 40 film all’attivo, nonché comico, autore teatrale e clarinettista jazz.

Inizia a dedicarsi al cinema negli anni ’60 e tutti i suoi primi film sono commedie pure, caratterizzate da una comicità semplice e fisica, da battute fulminee e gag visive. Tra questi, Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run, 1969), Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (Everything You Always Wanted to Know About Sex But Were Afraid to Ask, 1972).

Il periodo di maggiori successi, sia di pubblico sia di critica, inizia nel 1977 con l’uscita nelle sale di Io e Annie (Annie Hall), che gli vale ben 4 Oscar e 1 Golden Globe. Quello è il punto di svolta, il passaggio a una comicità più sofisticata, che combina aspetti comici e drammatici; ma il film diviene anche un nuovo modello per il genere

15

della commedia romantica. Nel 1978 realizza il suo primo film drammatico, Interiors, e nel 1979 Manhattan, il film dedicato alla sua amata New York.

Negli anni ’80 Allen comincia ad inserire nei suoi film riferimenti filosofici; ormai non si tratta più di semplici commedie, ma di pellicole influenzate dalla psicanalisi e con una componente riflessiva più marcata. La trama, prima aspetto non fondamentale, ora assume un ruolo centrale. Nel 1983 Allen scrive e dirige Zelig, una parodia tragicomica di un documentario degli anni ’20-’30. Tra gli altri grandi film di questo decennio vi sono Broadway Danny Rose (1984), La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985) e Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters, 1986)

Verso la metà degli anni ’90 le produzioni tornano ad assumere toni più leggeri, pur mantenendo uno stile ricercato e intelligente. Sono di questi anni pellicole come La dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995) e Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997).

Nel 2000 realizza il suo primo film con lo studio di produzione Dreamworks SKG, Criminali da strapazzo (Small Time Crooks). La pellicola si rivela un discreto successo in patria, ma i quattro film successivi, diretti tra il 2001 e il 2004, sono un flop al botteghino; in Europa, invece, vengono maggiormente apprezzati (è lo stesso Allen a dichiarare di sopravvivere solo grazie al mercato europeo).

Quando ormai in molti lo considerano un regista finito, Allen torna alla ribalta con il film presentato al Festival di Cannes del 2005, Match Point. È punto di svolta rispetto al passato: i toni della commedia vengono accantonati in favore di atmosfere da dramma/thriller; l’amata New York, che fino a quel momento è stata l’ambientazione di tutte le pellicole, viene sostituita dalla capitale britannica; la musica jazz, che da sempre è la colonna sonora prediletta, cede il posto alla musica lirica.

L’ultimo film di Woody Allen è Scoop (2006), una commedia nuovamente ambientata nella capitale britannica.

Sin dai tempi del cabaret, esperienza precedente all’inizio della carriera nell’ambito cinematografico, Woody Allen ha sempre puntato molto sulla propria figura e si è plasmato addosso un personaggio su misura per il suo stile, che con il trascorrere degli anni è divenuto l’immagine classica percepita dal pubblico: un uomo nevrotico, paranoico, impacciato e sfortunato con le donne. Un uomo che per molti aspetti è

16

identico allo stesso Woody Allen, che in più di un’occasione ha dichiarato di essere stato in analisi per oltre 30 anni.

17

Capitolo secondo – Metodologia del raffronto tra due testi 2.1 Introduzione all’analisi comparativa

Per realizzare l’analisi comparativa tra la versione inglese e la versione italiana dei sottotitoli mi baserò su un modello di sintesi – messo a punto da Osimo (2004) – tra i due approcci che si sono diffusi negli ultimi decenni e che sono appunto volti ad analizzare le differenze esistenti tra prototesto e metatesto. Entrambi gli approcci hanno dei vantaggi: ricorrendo al primo si possono prendere in esame anche quelle modifiche del testo che non hanno importanza strategica; facendo ricorso al secondo, invece, si stabilisce immediatamente quali sono gli elementi fondamentali, distinguendoli da quelli secondari.

Il primo dei due approcci è stato approntato dalla studiosa neerlandese Van Leuven-Zwart, la quale si è posta concretamente il problema dell’analisi comparativa degli elementi di due testi in generale, e di prototesto e metatesto in particolare. Il secondo approccio, invece, è quello cronotopico di Peeter Torop, studioso di fama mondiale che si occupa di semiotica applicata alla traduttologia.

Il modello Leuven-Zwart analizza i cambiamenti microstrutturali (quelli che riguardano piccole unità di testo, per esempio parole) a prescindere dal contesto testuale specifico e solo in seguito trae conclusioni sul testo nell’insieme. Scopo di tale approccio è descrivere i cambiamenti apportati a livello semantico, sintattico e pragmatico, che possono derivare da una scelta conscia o inconscia del traduttore. Conclusa l’analisi tramite l’applicazione del modello, entra in gioco un altro tipo di analisi, cioè quella degli effetti dei cambiamenti microstrutturali sulla macrostruttura. In un primo tempo, quindi, vengono prese in esame le caratteristiche dei cambiamenti del testo a priori e, in un secondo tempo, vengono individuate le conseguenze globali. Questo modello è definito top-down, in quanto procede dall’alto verso il basso e non prevede un’analisi preventiva della poetica del testo da cui vengono ricavate le categorie da analizzare.

In base ad esso, si distinguono tre diversi tipi di relazione2:

2 Nella terminologia di Leuven-Zwart, per relazione si intendono i rapporti di somiglianza o dissomiglianza tra due entità e, nel caso specifico, tra i transemi (= unità testuale comprensibile, che può contenere o no un predicato) di un testo e transemi del testo che vi viene raffrontato.

18

relazione di contrasto, nel caso in cui un elemento del testo venga modificato al punto da diventare irriconoscibile. Il contrasto può concretizzarsi come omissione, aggiunta o cambiamento radicale di senso [un esempio: PT → Alice dormiva, MT → Alice leggeva];

relazione di modulazione (l’unica binaria fra le tre), nel caso in cui il cambiamento tra un elemento del prototesto e uno del metatesto segua la logica della dicotomia, lungo il continuum generalizzazione versus specificazione oppure lungo un altro continuum bipolare [un esempio: PT → Andrea guardava, MT → Andrea osservava {= guardare con attenzione} è una specificazione];

relazione di cambiamento non binario, nel caso in cui un elemento del prototesto e uno del metatesto vi sia una differenza non assimilabile ad alcuna dicotomia. In tal caso, quindi, il cambiamento riguarda un elemento di testo al quale non vi è una sola alternativa, bensì svariate. [un esempio: PT → ieri, MT → oggi. Si tratta di un cambiamento non binario perché le alternative possibili a «ieri» sull’asse paradigmatico sono molteplici, per esempio «domani», «un giorno», ecc.]

Questo tipo di cambiamento interessa anche le categorie – morfologia, grammatica e sintassi – che non possono caratterizzare una modulazione binaria: tempo verbale, numero grammaticale, modo verbale, persona grammaticale, forma verbale (attiva/passiva), aspetto verbale (perfettivo/imperfettivo), inversione dell’ordine di elementi dell’enunciato, esplicitazione/implicitazione (numero di elementi informativi), deissi/anafora (rimandi intra ed extratestuali), assonanza-allitterazione-rima.

Il modello cronotopico di Torop, al contrario del modello appena descritto, parte dall’analisi traduttologica del testo specifico per individuarne le caratteristiche salienti e poi passa al controllo delle alterazioni della poetica del testo introdotte dai cambiamenti. Viene definito modello bottom-up perché va dal basso verso l’alto e analizza i dettagli solo dopo averne individuata l’importanza sul sistema nel complesso. In questo secondo modello le categorie di cambiamento non sono assolute come nel caso del primo, ma specifiche, relative al contesto poetologico e culturologico del testo in questione e derivanti direttamente dalla sua analisi traduttologica. Quando si fa ricorso all’analisi

19

cronotopica, una delle principali difficoltà consiste nell’individuare un collegamento preciso tra gli elementi linguistici e le conseguenze strutturali; è perciò necessario che l’analisi traduttologica individui la dominante e le sottodominanti del testo specifico.

Le cinque categorie fondamentali sono:

  •  parole concettuali. Attraverso il loro significato esprimono direttamente dei concetti che sono importanti per il contenuto espressivo del testo. La manipolazione di queste parole si ripercuote sul contenuto del testo [un esempio: in un testo sulla pittura, sono parole concettuali «pennello», «tela», «acquerello», «tempera».].
  •  parole/espressioni funzionali. In sé per sé sono parole secondarie, ma vengono disseminate nel testo in modo strategico per creare ponti tra zone di testo fisicamente distanti e creare tra queste delle affinità che fungono da rimandi intratestuali. La manipolazione di tali espressioni si ripercuote sulla struttura del testo.
  •  campi espressivi. Si tratta della ripetizione di parole, modi di dire, frasi, forme grammaticali o sintattiche che caratterizzano lo stile e l’espressività di un testo. La manipolazione di queste espressioni si ripercuote sulla poetica del testo.
  •  deittici. Sono elementi dell’enunciazione (pronomi personali, aggettivi dimostrativi, avverbi di luogo e di tempo, articoli) che fanno riferimento in modo implicito alle coordinate spazio-temporali della stessa e la cui alterazione ha ripercussioni sulla psicologia individuale del personaggio o dell’autore.
  •  intertestualità e realia: i riferimenti intertestuali e i realia, ossia le parole che denotano cose materiali specifiche di una cultura, sono elementi che caratterizzano le relazioni di un testo e di una cultura con altre culture. Proprio per questo, la manipolazione di tali espressioni si ripercuote sulla relazione tra sistemi culturali, quindi sulla psicologia di gruppo di elementi della cultura del testo.Tutte queste categorie possono essere collocate lungo il continuum proprio versus altrui, dove per «proprio» si intende «proprio del prototesto, della cultura emittente», mentre per «altrui» si intende «proprio del metatesto, della cultura ricevente». Ed è la

20

collocabilità di queste cinque categorie lungo tale asse a dimostrare che esse sono cronotopiche, ossia che fanno parte dell’analisi specifica del testo. Lo stesso non vale invece per le categorie del modello Leuven-Zwart.

La dicotomia generalizzazione/specificazione e quella proprio/altrui, sono complementari l’una all’altra. Mentre la seconda riguarda la relazione tra culture, la prima può riguardare tanto elementi propri quanto altrui. Secondo Osimo, nei casi in cui le modifiche di un testo possano essere collocate lungo un continuum, è utile usare entrambe le categorie sovrapponendole. Nell’opposizione tra proprio e altrui aggiunge anche una terza direzione, che è quella della standardizzazione, la quale consiste nel modificare un elemento nella direzione di una cultura terza – quindi né quella emittente, né quella ricevente – che sia generica, prevalente sulle specifiche culture in questione e che sia da entrambe considerata standard. Anche nella dicotomia generalizzazione versus specificazione Osimo considera una terza possibilità, ossia il trattamento neutro dell’elemento testuale, che quindi non viene reso né in maniera specificante, né generalizzante.

Per riassumere quanto detto finora sui cambiamenti modulativi, una modifica traduttiva può quindi essere considerata:

  • –  appropriante e generalizzante, o
  • –  appropriante e specificante, o
  • –  appropriante e neutra, o
  • –  riconoscente3 e generalizzante, o
  • –  riconoscente e specificante, o
  • –  riconoscente e neutra, o
  • –  standardizzante e generalizzante, o
  • –  standardizzante e specificante, o
  • –  standardizzante e neutra.3 Per «riconoscente» si intende una strategia traduttiva che implichi il riconoscimento dell’elemento altrui.

21

2.2 Il raffronto tra i due testi: un modello di sintesi

Ecco quali sono, in sintesi, gli elementi da considerare per affrontare l’analisi comparativa tra due testi:

  • –  i cambiamenti modulativi elencati nella parte conclusiva del paragrafo precedente,
  • –  le cinque categorie dell’analisi cronotopica e parametrica del modello di Torop.A questi, secondo Osimo (2004: 96) vanno aggiunte altre categorie:
  • –  il lessico generico, la sintassi e la versificazione, che non rientrano nell’analisi cronotopica ma che sono comunque soggette ad appropriazione/riconoscimento/standardizzazione e a specificazione/generalizzazione/resa neutra,
  • –  la categoria degli elementi che si modificano senza seguire né l’uno né l’altro continuum:- le modifiche di contrasto del modello Leuven-Zwart (omissioni, aggiunte e cambiamenti radicali di senso),- tutte le modifiche che non sono né binarie né ternarie, per esempio quelle grammaticali.

    Questo è il modello di sintesi approntato da Osimo, che può essere riassunto nella tabella della pagina seguente.

22

TABELLA RIASSUNTIVA DEI CAMBIAMENTI TRADUTTIVI

N

MODIFICA CULTURA PROPRIA / ALTRUI

MODIFICA NON CULTURO- SPECIFICA

RIGUARDANTE

DOWN TOP /
TOP DOWN

9

APPROPRIAZIONE
/ RICONOSCIMENTO
/ STANDARDIZZAZIONE

SPECIFICAZIONE
/ GENERALIZZAZIONE /
RESA NEUTRA

DEITTICI

ANALISI CRONOTOPICA

8

REALIA, INTERTESTI

7

PAROLE CONCETTUALI

6

CAMPI ESPRESSIVI

5

PAROLE FUNZIONALI

4

LESSICO GENERICO

PARAMETRI GENERICI

3

SINTASSI

2

VERSIFICAZIONE

1

LESSICO GENERICO:
OMISSIONI, AGGIUNTE, CAMBIAMENTI RADICALI DI SENSO, CAMBIAMENTI DI CATEGORIA GRAMMATICALE.

23

Capitolo terzo – Analisi di una parte di Zelig 3.1 Presentazione del materiale empirico

La parte di film i cui sottotitoli sono sottoposti ad analisi appartiene alle scene iniziali. Chi si è occupato dei sottotitoli del film (Yasmeen Khan per la versione in inglese e Adriana Tortoriello per quella italiana), ha scelto di mettere in corsivo quelli che riportano la voce fuori campo che parla mentre sullo schermo si susseguono le scene in bianco e nero, ambientate negli anni ’20 e ’30. Negli altri casi, a parlare sono vari personaggi (Susan Sontag, Irving Howe, Saul Bellow – personaggi reali che interpretano se stessi – e il cameriere Calvin Turner – interpretato dall’attore Marshall Coles, Sr.) tutti chiamati a commentare la bizzarra storia di Leonard Zelig nelle scene a colori, ambientate negli anni ‘80.

3.2 Analisi comparativa vera e propria

SOTTOTITOLI IN INGLESE

SOTTOTITOLI IN ITALIANO

He was the1 phenomenon of the ‘20s.

Era il fenomeno degli anni ’20.

When you think, at the time,2 he was as well-known as Lindbergh, it’s astonishing.

Se si pensa che all’epoca era famoso quanto Lindbergh, è sorprendente.

1 Nella versione inglese l’articolo the viene enfatizzato tramite l’uso del corsivo, mentre in italiano ciò non avviene. Ne consegue un cambiamento di ritmo: in inglese ci si sofferma brevemente sull’articolo, in italiano la lettura risulta più scorrevole e veloce. Si tratta quindi di un cambiamento generalizzante.

2 L’espressione at the time, racchiusa tra virgole, viene resa con l’espressione «all’epoca», la quale non viene accompagnata da segni di punteggiatura. Anche in questo secondo caso ci troviamo di fronte a un cambiamento di ritmo: la lettura della versione inglese prevede un rallentamento, dovuto proprio alla presenza di at the time tra le virgole; in italiano, invece, la lettura risulta nuovamente più fluida e scorrevole, senza pause.

24

His story reflected
the nature of our civilization,

La sua storia rifletteva
la natura della nostra civiltà,

the character of our times,

le caratteristiche3 dei nostri tempi,

yet it was also one man’s story.

eppure era anche la storia di un individuo.

All the themes of our culture were there.

Vi erano racchiusi4
tutti i temi della nostra cultura.

But when you look back on it, it was very strange.

Ma a ripensarci ora, era tutto molto strano.

Well,5 it is ironic to see
how quickly he has faded from memory,

È assurdo6 che sia scomparso dalla memoria tanto rapidamente,

considering7 what
an astounding record he made.

visto l’incredibile impatto che aveva avuto8.

3 La resa di character come caratteristiche è una modifica di lessico generico ed è specificante: character infatti significa «indole, carattere», che è un termine meno specifico rispetto alle caratteristiche.

4 There were viene reso come «vi erano racchiusi»: si tratta di una modifica specificante del lessico generico; ma abbiamo anche una modifica del registro, che in italiano è più formale e più preciso.

5 L’interiezione well, seguita dalla virgola e utilizzata in inglese per iniziare la frase, non è stata riportata in italiano. Ciò rappresenta un’omissione, ma anche un cambiamento di ritmo, il quale rende il sottotitolo italiano privo della pausa, che invece in inglese è determinata proprio da well seguito dalla virgola.

6 It is ironic viene reso come «è assurdo», quindi si ha un cambiamento radicale di senso.

7 Qui il cambiamento interessa la sintassi: in inglese la struttura della subordinata è verbale, in italiano nominale.

8 In italiano è stato cambiato il tempo del verbo rispetto all’inglese: si passa infatti dal simple past al trapassato prossimo.

25

He was, of course,9 very amusing, but at the same time touched a nerve in people,

Era senz’altro molto divertente, ma allo

stesso10 tempo riusciva11 a toccare dei tasti12

perhaps in a way in which13
they would prefer not to be touched.

che la gente preferiva14 non venissero toccati.

It certainly is a very bizarre story.

È decisamente una storia molto strana.

The year is 1928.

Corre l’anno 1928.15

America, enjoying a decade
of unequalled16 prosperity, has gone wild.

L’America, che sta attraversando
un decennio di prosperità, è impazzita.

9 Of course viene reso con la locuzione avverbiale «senz’altro», che ha un significato più attenuato, quindi abbiamo una generalizzazione. Inoltre, mentre of course è racchiuso tra virgole e implica una pausa, nella versione italiana la situazione è differente: «senz’altro» infatti si inserisce in modo fluido nella frase senza rallentarne la lettura. Si tratta di una modifica del ritmo, resa in modo neutro.

10 «Allo stesso tempo» è un calco di at the same time. L’espressione corretta in italiano è nello stesso tempo.

11 «Riusciva» è un’aggiunta, quindi una specificazione.

12 La resa di nerve come «tasti» è un cambiamento lessicale generalizzante poiché attenua il significato del prototesto: nerve, infatti, si riferisce più precisamente alla sensibilità delle persone.

13 In italiano non è stata tradotta una parte del sottotitolo in inglese (perhaps in a way in which, peraltro preceduta dalla virgola): si tratta di una omissione, probabilmente legata alla scelta di tradurre nerve con tasti, fatto che ha portato al cambiamento dell’intero enunciato.

14 In questo caso si ha il cambiamento del tempo verbale: dal condizionale passato in inglese all’indicativo imperfetto in italiano.

15 The year is diventa «corre l’anno»: la versione italiana è di registro più alto; ma ci troviamo anche di fronte a una modifica specificante di lessico.

26

The Jazz Age, it is called. The rhythms are syncopated

La chiamano l’età del jazz.17 Il ritmo è18 sincopato,

the morals19 are looser20, the liquor is cheaper – when you can get it.

la morale è rilassata21,
l’alcol22, quando lo si trova, costa meno.23

16 Unequalled, che significa «senza pari, ineguagliata», scompare nella versione italiana: si tratta di una omissione, quindi di una generalizzazione. Nella versione inglese, infatti, unequalled serve a sottolineare che la prosperità degli anni ’20 non si è più ripetuta, mentre in italiano questa idea scompare.

17 Qui la modifica interessa la sintassi: la versione italiana, in cui non sono presenti virgole, è invertita rispetto a quella in inglese. In italiano, inoltre, è presente una dislocazione a destra.

18 Mentre in inglese il sostantivo è al plurale, in italiano è al singolare; di conseguenza, anche il verbo passa dal plurale al singolare.

19 The morals diventa «la morale», ma in realtà significa «i costumi»: si tratta di una modifica generalizzante del lessico.

20 Looser diventa «rilassata», scelta che attenua decisamente il significato del prototesto (loose, infatti, significa «dissoluto»). Anche in questo caso il cambiamento riguarda il lessico ed è generalizzante.

21 La versione italiana risulta attenuata rispetto al prototesto: una traduzione più adeguata dell’espressione inglese sarebbe «i costumi sono dissoluti».

22 The liquor diventa «l’alcol»: si tratta di un cambiamento lessicale generalizzante perché in realtà liquor si riferisce a superalcolici come gin, vodka e rum.

23 The liquor is cheaper – when you can get it, diventa «l’alcol, quando lo si trova, costa meno»: si ha una modifica sintattica generalizzante. Infatti in italiano l’attenzione viene spostata rispetto alla versione inglese, nella quale si vuole sottolineare la difficoltà nel procurarsi gli alcolici, piuttosto che il fatto che essi costino meno.

27

It is a time of diverse heroes and madcap stunts,

È un periodo di grandi eroismi24 e di folli25 prodezze26

of speakeasies and flamboyant parties.

di nightclub27 e feste sfarzose.

One typical party28 occurs29 at the Long Island estate

Una di queste feste viene data alla villa di Long Island

of Mr and Mrs Henry Porter Sutton,

di Mr Henry Porter Sutton e signora,

socialites, patrons30 of the arts.

persone di mondo, protettori delle arti.

24 Diverse heroes viene reso come «grandi eroismi», invece di «eroi di vario genere»: si tratta di una modifica del lessico e di una resa neutra.

25 Madcap diventa «folli»: si ha un innalzamento del registro, in quanto folli è meno informale rispetto a madcap, che equivale a «scervellato».

26 Stunts viene reso come «prodezze»: stunt viene normalmente utilizzato in ambito colloquiale per fare riferimento a una bravata, a un’azione sconsiderata che può rivelarsi pericolosa; si tratta quindi di un termine diverso da «prodezza», che si riferisce prevalentemente a un atto di grande coraggio e valore (in taluni casi anche per riferirsi in modo antifrastico ad atti vili e prepotenti o in modo ironico a difficoltà solo apparenti). Abbiamo quindi una modifica del lessico e una modifica del registro, che risulta innalzato.

27 Speakeasies – realia che identifica gli spacci di alcolici tipici del proibizionismo statunitense degli anni ’20 – diventa «nightclub»: si tratta di una modifica generalizzante e standardizzante.

28 One typical party diventa «una di queste feste»: si tratta di una modifica del deittico, che determina una generalizzazione.

29 Occurs diventa «viene data»: c’è il passaggio dalla forma attiva dell’inglese a quella passiva dell’italiano.

30 Patrons, in questo contesto utilizzato per riferirsi a patroni/mecenati delle arti, viene reso come «protettori», termine più generico: si tratta di una modifica generalizzante a livello lessicale.

28

Politicians and poets rub elbows with the cream of high society.

Politici e poeti incontrano31 la crema dell’alta società,

Present at the party is Scott Fitzgerald,

Alla festa è presente Scott Fitzgerald,

who32 is the cast perspective on the ‘20s for all future generations.

i cui scritti avrebbero illuminato
le generazioni a venire sugli anni ’20.

He33 writes in his notebook34 about35 a curious36

little man named Leon Selwyn or Zelman,

Fitzgerald lascia un appunto su un omino di nome Leon Selwyn,37 o Zelman,

who seemed clearly to be an aristocrat,

che sembrava
decisamente un aristocratico

and extolled the very rich

e che incensava38 i ricchi

31 La resa di rub elbows with come «incontrare» è una generalizzazione, in quanto l’espressione in lingua inglese contiene non solo l’idea dell’incontro ma anche quella di entrare in confidenza con qualcuno.

32 La differenza fondamentale tra il sottotitolo in inglese e quello in italiano sta nella sintassi, la cui modifica determina anche gli altri cambiamenti presenti nell’enunciato.

33 Il deittico della versione inglese viene sostituito in italiano dal nome proprio (o meglio, il cognome) a cui esso si riferisce.

34 Qui abbiamo una omissione, quella della parola «taccuino» (= notebook).

35 (He) writes in his notebook about diventa «lascia un appunto su»: nella versione italiana si ha una generalizzazione rispetto a quella inglese, nella quale si specifica dove scrive Fitzgerald.

36 Curious, riferito a little man, viene omesso nel sottotitolo italiano.
37 In questo caso abbiamo un cambiamento di ritmo, dovuto all’aggiunta della virgola

nella versione italiana, non presente nel sottotitolo in inglese.

38 Il verbo utilizzato nella versione italiana ha una connotazione più negativa rispetto a quello usato in inglese: mentre extol significa semplicemente «lodare, elogiare», incensare significa «adulare, lodare in modo eccessivo e interessato».

29

as he chatted with socialites.

Mentre conversava con il bel mondo.

He spoke adoringly of Coolidge and the Republican party,

Parlava con adorazione di Coolidge e dei repubblicani,

all in an upper-class Boston accent.

in un raffinato39 accento bostoniano.

“An hour later,” writes Fitzgerald,

“Un’ora dopo”, scrive Fitzgerald,

“I was stunned to see the same man speaking with the kitchen help.”

“notai con sommo stupore40 che
lo stesso uomo parlava con lo sguattero”,

“Now41 he claimed to be a Democrat and his accent seemed to be coarse,

“Sosteneva di essere un democratico e il suo accento sembrava volgare,

as if he were one of the crowd”.

come fosse uno del popolino42.”

It is the first small notice taken of Leonard Zelig.

È la prima breve menzione di Leonard Zelig.

Florida, one year later.

Florida, un anno dopo.

An odd incident occurs

Durante un allenamento43 dei New York

39 Upper-class viene reso come «raffinato»: si tratta di modifica generalizzante di lessico.

40 I was stunned diventa «notai con sommo stupore»: si verifica un evidente innalzamento del registro, in quanto l’espressione in inglese significa «rimanere di stucco/sbalordito».

41 Nella versione italiana scompare il deittico now, presente invece in inglese.

42 The crowd viene reso come «popolino»: la versione italiana è specificante rispetto a quella inglese (the crowd infatti può essere utilizzato in senso spregiativo per riferirsi a persone comuni, non speciali, mentre popolino si riferisce in modo specifico allo strato della popolazione più arretrato culturalmente e socialmente) ed è anche appropriante.

43 Mentre in inglese viene semplicemente detto che accade un fatto strano sul campo dove si allenano gli Yankees, in italiano si spiega più precisamente che il fatto strano accade durante un allenamento della squadra: abbiamo quindi una modifica specificante.

30

at the New York Yankees training camp.

Yankees accade un fatto strano.44

Journalists, anxious to immortalise
the exploits of the great home-run hitters,

I giornalisti, ansiosi di immortalare le gesta45 dei grandi battitori46,

notice a strange new player waiting his turn at bat after Babe Ruth.

Notano uno strano nuovo giocatore,
il cui turno di battuta è dopo Babe Ruth47.

He is listed on the roster as Lou Zelig,

Sulla lista48 dei battitori figura come Lou Zelig,

but no one on the team has heard of him.

ma nessun altro49 giocatore ne ha mai sentito parlare.

44 Qui avviene un cambiamento a livello sintattico che coinvolge tutto il sottotitolo: in italiano, infatti, gli elementi che compongono la frase sono disposti in modo diverso rispetto alla versione in inglese.

45 In italiano si è scelto il termine «gesta», che normalmente non viene utilizzato in ambito sportivo ma per riferirsi a imprese eroiche, gloriose, memorabili (in taluni casi anche ironicamente). Invece non è stato possibile comprendere se in inglese expoits venga utilizzato in ambito sportivo, ma risulta comunque essere un termine meno specifico rispetto a «gesta». Può infatti essere riferito non solo ad azioni eroiche ma anche ad azioni coraggiose, curiose, degne di nota, divertenti. Abbiamo quindi una modifica del lessico, ma anche una modifica che innalza il registro della versione italiana rispetto a quello delle versione in inglese.

46 In italiano abbiamo una generalizzazione del lessico, in quanto gli home-run hitters sono più specificamente quei battitori che mettono a segno colpi che consentono loro di coprire tutte le basi e tornare alla casa base.

47 In questo caso si ha un cambiamento sintattico: mentre in inglese si hanno due frasi coordinate, in italiano sono legate da un vincolo di subordinazione, molto più tipico dello scritto che del parlato.

48 «Sulla lista» è un calco; in italiano l’espressione più corretta è «nell’elenco». 49 «Altro», che non è presente nella versione in inglese, è un’aggiunta.

31

Security guards are called,
and he is escorted50 from the premises51.

Vengono chiamati gli addetti alla sicurezza, che lo accompagnano fuori.52

It appears as a small item
In the next day’s newspaper.

Il giorno dopo la stampa53
pubblica un articoletto sull’accaduto.54

Chicago, Illinois, that55 same year.

Chicago, Illinois, stesso anno.

There is a private party

C’è una festa privata

50 Qui avviene un cambiamento nella forma del verbo: in inglese la forma è passiva, in italiano diventa attiva. È una modifica specificante, perché in inglese si dice genericamente che Zelig viene accompagnato fuori (resta sottinteso che siano gli addetti alla sicurezza ad accompagnarlo), mentre in italiano si specifica che ad accompagnarlo sono gli addetti alla sicurezza.

51 In italiano è stato omessa la traduzione di from the premises (che però è una informazione sottintesa).

52 In questo caso il cambiamento riguarda la sintassi: in inglese vi sono due frasi coordinate, mentre in italiano vi sono una principale e una relativa.

53 In italiano newspaper diventa «stampa» e abbiamo quindi una generalizzazione del lessico, dato che newspaper si riferisce ad un quotidiano in particolare. La scelta di utilizzare il termine stampa, e di utilizzarlo come soggetto, ha evidentemente influenzato altre scelte compiute per questo sottotitolo, per esempio quella di non utilizzare la traduzione del verbo to appear (ossia «apparire, comparire»), ma il verbo pubblicare.

54 Nel passaggio dalla versione inglese a quella italiana, la struttura sintattica è stata profondamente cambiata: per esempio, il soggetto nel sottotitolo in inglese è it (riferito a «l’accaduto», che resta sottinteso), mentre in italiano è la stampa; in inglese next day è riferito a newspaper, mentre in italiano rappresenta il complemento di tempo. Il registro del sottotitolo in generale risulta più alto nella versione italiana.

55 In inglese è presente il deittico, che in italiano viene invece omesso causando un innalzamento del registro («quello stesso anno», sarebbe stata una soluzione più colloquiale).

32

at a speakeasy on the south side.

in un locale56 del south side57.

People from the most respectable

walks of life58 dance and drink bathtub59 gin.

Anche60 i personaggi più rispettabili ballano e bevono gin illegale.

Present that evening
was Calvin Turner, a waiter.

Calvin Turner, un cameriere, era presente quella sera.61

A lotta62 customers,

Arrivarono63 molti clienti,

56 In questo caso il realia speakeasy diventa «locale» e ancora una volta si tratta di una modifica generalizzante e standardizzante.

57 Qui in realtà non è avvenuto alcun cambiamento, in quanto south side viene mantenuto così com’è anche in italiano: bisogna quindi precisare che in questo caso la scelta traduttiva è stata neutra e riconoscente, nel senso che ha inserito l’elemento appartenente alla cultura altrui senza modificarlo.

58 In inglese the most respectable è riferito a walks of life, che in italiano significa «classi sociali»; nella versione italiana, però, tale espressione viene omessa e the most respectable passa a essere riferito direttamente a personaggi.

59 Bathtub gin è un realia, un elemento tipico della cultura statunitense degli anni del proibizionismo: si tratta di gin fatto in casa, spesso preparato proprio nelle vasche da bagno, in cui ad alcol di scarsissima qualità venivano aggiunte bacche di ginepro. Ovviamente, nel periodo in questione, tale prodotto era illegale. Si tratta di una resa generalizzante e standardizzante.

60 Nella versione italiana c’è l’aggiunta di «anche».

61 Nel passaggio dall’inglese all’italiano la struttura sintattica è stata invertita. La struttura del sottotitolo inglese è utile a introdurre il personaggio di Calvin Turner, che nel sottotitolo successivo prende la parola; la scelta compiuta per la versione italiana, invece, è meno funzionale a tale scopo.

62 A lotta diventa «molti»: si tratta di un innalzamento di registro, perché in inglese il registro è decisamente colloquiale; una traduzione più adeguata, infatti, sarebbe stata «un sacco di».

33

a lotta gangsters came in.

molti gangster.

They good tippers
and take good care of us,

Davano grosse mance e ci trattavano bene,

and we tried to64 take care of our customers.

e noi trattavamo bene i nostri clienti.

But on this65 particular66 night, I looked over

and here’s67 a strange guy comin’ in.

Ma quella sera mi accorsi68
che era arrivato69 un tipo strano.70

I’d never seen him before71,

Non l’avevo mai visto,

63 Si ha una generalizzazione: il verbo utilizzato in inglese è «entrare», mentre quello usato in italiano è “arrivare”. Dal punto di vista del tempo verbale, nella versione italiana è stato utilizzato il verbo al passato remoto, ma qui ci troviamo in un dialogo, e nella maggior parte dei casi in italiano si usa il passato prossimo. Il remoto suona come un innalzamento di registro, verso il “letterario”.

64 L’idea del «tentare, provare», espressa nella versione inglese dalla forma verbale (we) tried to, non è stata riportata in italiano.

65 In questa occasione si ha una trasformazione della deissi: this diventa «quella».
66 Nella versione italiana, particular – che attribuisce maggior enfasi al deittico this –

non viene tradotto: si tratta di una omissione.

67 Il deittico here’s scompare nella versione italiana.

68 Il verbo look over, che significa «guardare», viene reso come «accorgersi»: abbiamo quindi una modifica specificante del lessico. Per quanto riguarda il tempo del verbo, vale la stessa considerazione fatta nella nota numero 63.

69 «Era arrivato» rappresenta un cambiamento del tempo verbale, ma anche la scelta di tradurre il verbo in maniera differente rispetto all’inglese, “riassumendo” il concetto espresso da here’s a strange guy comin’ in.

70 La costruzione della frase italiana non corrisponde a quella inglese: tale cambiamento della sintassi innalza il registro.

34

So I asked one of the others,

così chiesi72 a uno degli altri:

“John, you know this73 guy74? Ever seen him?”

“John, lo conosci quello?75 L’hai mai visto?”

So76 he looks.
“No, I ain’t never seen him before.”

Lui guarda.
“No, non l’ho mai visto prima.”

“I don’t know who he is, but I know he is a tough-looking hombre77.”

“Non so chi sia78, ma so
che ha proprio79 l’aria da duro.”

71 In italiano si è scelto di omettere «prima», traducente di before, ma in realtà tale scelta non ha grandi ripercussioni sul sottotitolo.

72 Qui il cambiamento interessa il tempo del verbo. Vale quanto detto nella nota numero 63.

73 In questo caso si ha nuovamente un cambiamento del deittico, che in inglese è this e in italiano «quello».

74 Nella versione italiana si omette la traduzione di guy.

75 Per la frase in italiano si è scelta la dislocazione a destra, probabilmente per mantenere il registro su un livello fortemente colloquiale, come accade anche nel sottotitolo in inglese.

76 So è un elemento molto utilizzato nel parlato e serve a ricollegarsi a quanto detto precedentemente, al fine di mantenere la coesione del testo. La versione italiana viene invece depurata da tale elemento e resa più schematica, quasi a celare il fatto che si tratti di parole pronunciate.

77 In inglese viene utilizzato il termine hombre, che appartiene alla lingua spagnola, mentre in italiano esso scompare.

78 In italiano si è scelto di ricorrere al congiuntivo, che è certamente la soluzione più corretta a livello grammaticale. Tuttavia bisogna considerare che, per mantenere lo stesso registro scelto in inglese – il cameriere è evidentemente poco colto e il suo modo di parlare è estremamente colloquiale – si sarebbe forse dovuta scegliere una soluzione meno corretta dal punto di vista grammaticale, ma più adeguata dal punto di vista traduttivo.

35

So80 I looked over81, and next thing,82 the guy had disappeared.

Lo83 guardo di nuovo84, e il tipo è scomparso85.

I don’t know where he went to, but about86

this87 time, the music usually gets started.88

Non so dove fosse andato89. Era l’ora
in cui di solito cominciava90 la musica.91

79 In italiano c’è l’aggiunta dell’avverbio proprio, che funge da rafforzativo.

80 Per quanto riguarda so, la considerazione è la stessa fatta nella nota numero 76.

81 La forma verbale (I) looked over viene nuovamente resa come «guardo»: abbiamo una modifica specificante del lessico e anche un cambiamento del tempo verbale, che è passato in inglese e presente in italiano.

82 And next thing, seguito dalla virgola, scompare nella versione italiana. Si tratta quindi di un’omissione, ma anche di un cambiamento di ritmo (più veloce e fluido in italiano).

83 Nella versione italiana c’è un’aggiunta, quindi una specificazione, rappresentata dal complemento oggetto lo.

84 In italiano abbiamo un’altra aggiunta, rappresentata da «di nuovo».

85 In questo caso si ha il cambiamento del tempo verbale: nella versione inglese viene usato il passato, in quella italiana il presente.

86 About, che trasmette l’idea di approssimazione, viene omesso nel sottotitolo in italiano.

87 Il deittico this non viene riportato nella versione italiana. This time, infatti, diventa «era l’ora».

88 Si ha un evidente cambiamento a livello sintattico: mentre il sottotitolo inglese è costituito da un unico enunciato, quello italiano è formato da due frasi distinte.

89 In questa occasione vale il discorso fatto nella nota numero 78: la scelta del tempo del verbo nella versione italiana è corretta dal punto di vista grammaticale, ma meno adeguata dal punto di vista traduttivo perché innalza il registro rispetto alla versione in inglese.

36

And92 the band93 started playin’, and I looked,

L’orchestra attacca94, io li95 guardo96,

and here’s97 a coloured guy,
a coloured boy98 playin’ a trumpet.

e vedo un tipo di colore che suona la tromba.

Man, he was playin’ back.

Cavolo99, se suonava100.

90 Gets started diventa «cominciava»: abbiamo una modifica del tempo verbale, che in inglese è presente, mentre in italiano è passato.

91 Una considerazione sul sottotitolo nel complesso: nella versione italiana si ha un evidente innalzamento del registro.

92 And è un elemento che fa parte del parlato e che ha la stessa funzione del già citato so: collega il sottotitolo in questione a quello precedente, rendendo l’idea che si tratti di un discorso e creando coesione. Nella versione italiana and viene soppresso e il sottotitolo assume una struttura più schematica.

93 In questo caso il cambiamento è specificante e interessa il lessico: nella versione italiana viene usato il termine «orchestra», che in genere rimanda principalmente alla musica classica o da camera, mentre il gruppo di musicisti in questione suona musica jazz. Forse in questo contesto si sarebbe potuto mantenere il termine band o ricorrere a «complesso» o «gruppo».

94 Started playin’ viene reso come «attacca»: il tempo viene cambiato, passa infatti dal passato al presente. Dal punto di vista del registro, in italiano si ha un abbassamento.

95 «Li», complemento oggetto presente nella versione italiana, è un’aggiunta (rispetto all’inglese viene specificato cosa sta guardando il cameriere).

96 In questa occasione si verifica un altro cambiamento del tempo verbale: in inglese il verbo è al passato, in italiano al presente.

97 Il deittico here scompare nel passaggio dalla versione in inglese a quella in italiano, dove infatti abbiamo «vedo» a sostituirlo.

98 In italiano non è stata riportata la ripetizione che invece è presente nella versione in inglese (a coloured guy, a coloured boy).

37

I looked at the guy
and said “My goodness.”

Lo101 guardo102 e faccio103: “Accidenti104!”

“He looks just like the gangster, but
the gangster was white and he is black.”

“È identico al gangster di prima105, ma il

gangster era bianco e questo qua106 è nero.”

So107 I don’t know what’s…108

Non capisco cosa sta succedendo.

99 L’interiezione man viene resa con l’interiezione italiana «cavolo»: si tratta di una resa appropriante e neutra (sono entrambe espressioni colloquiali ed esprimono sorpresa).

100 Non è stato riscontrato un uso del verbo play back in inglese come è stato effettivamente tradotto in italiano: lo definirei quindi di un cambiamento radicale di senso.

101 In italiano il complemento oggetto è rappresentato dal pronome personale di terza persona singolare, mentre in inglese da at the guy.

102 Qui si è verificato un cambiamento del tempo verbale, che è al passato nella versione in inglese e al presente in italiano.

103 Innanzitutto anche qui so verifica un cambiamento del tempo verbale, dal passato dell’inglese al presente dell’italiano; in secondo luogo bisogna segnalare che la versione italiana è di registro decisamente colloquiale e che rispecchia il registro mantenuto finora in inglese: di tratta di una resa appropriante («fare» utilizzato per introdurre il discorso diretto è tipico delle regioni settentrionali).

104 «My goodness» diventa «accidenti» – a cui cui peraltro viene aggiunto il punto esclamativo per una maggiore enfasi – che è un’espressione di registro più basso.

105 Il «di prima» della versione italiana è un’aggiunta.

106 In italiano si verifica un abbassamento del registro, che in questo caso risulta più colloquiale rispetto a quello del sottotitolo in inglese. Si tratta inoltre di una modifica appropriante (ancora una volta l’espressione è tipica delle regioni settentrionali) e specificante (identifica in modo più preciso la persona a cui si fa riferimento).

107 Vale anche questa volta – come nel caso della nota numero 80 – la considerazione fatta nella nota numero 76.

38

what’s happening.

108 Nella versione italiana non viene riportata l’indecisione del parlato, ben rappresentata in inglese dal primo what’s seguito dai tre puntini di sospensione.

39

3.3 Conclusioni

I cambiamenti effettuati sulla versione italiana riguardano in particolar modo il registro, il lessico generico, a volte la sintassi e il ritmo e, soprattutto nella parte finale in cui parla il cameriere Calvin Turner, la deissi e i tempi verbali. Ma andiamo con ordine: il registro è tra gli aspetti che ha subito il numero maggiore di modifiche e nella stragrande maggioranza dei casi è stato innalzato.

Per quanto riguarda il lessico generico, anch’esso è stato spesso modicato, in gran parte dei casi in maniera generalizzante, in pochi casi specificante. Spesso sono proprio state le scelte lessicali a determinare l’innalzamento del registro.

Anche la sintassi è stata a volte modificata, soprattutto in modo da contribuire a sua volta all’innalzamento del registro.

Il ritmo è stato a volte cambiato nella versione italiana, soprattutto tramite l’eliminazione di alcune virgole, e in quelle occasioni è divenuto più fluente rispetto a quello della versione inglese. Un cambiamento che spesso ha influenzato non solo il ritmo, ma anche il registro, è stato quello di omettere in italiano tutti gli elementi tipici del parlato: interiezioni, ripetizioni, indecisioni. Ciò ha portato la versione italiana a essere spesso più schematica e poco rispondente alla colloquialità della versione inglese.

Per quanto riguarda la deissi, a volte essa è stata omessa, altre cambiata: per esempio, «questo/a» in inglese diventa «quello/a» in italiano e here’s scompare in favore di altre soluzioni. Tale strategia, spesso adottata in modo inconsapevole, è un fenomeno abbastanza diffuso in traduzione e comporta un lettore modello che non sia in grado di districarsi nelle relazioni implicate dalla presenza dei deittici.

Anche i tempi verbali hanno diffusamente subito cambiamenti nel passaggio all’italiano. In alcuni casi viene usato il presente storico per dare l’idea dell’immediatezza del discorso orale, immediatezza che spesso viene meno a causa dell’innalzamento del registro. In altri casi l’uso del passato al posto del presente serve come un deittico a estraniare il punto di vista del personaggio rispetto all’azione che sta rievocando.

La versione italiana è spesso caratterizzata da omissioni e, in qualche caso, da aggiunte. Questi due tipi di cambiamento mi sembrano interessanti perché, a mio parere, si trovano ai poli del continuum generalizzazione/specificazione: durante l’analisi comparativa ho infatti potuto notare che ogni qualvolta si è verificata una omissione, la

40

versione italiana ha necessariamente subito una generalizzazione e che, al contrario, quando si è optato per un’aggiunta, il sottotitolo in italiano ha subito una specificazione. Una considerazione che riguarda in generale la traduzione in italiano è che le

modifiche hanno interessato un po’ tutti quei parametri che sono considerati generici (ossia quelli presi in esame dal modello Leuven-Zwart), mentre tra gli aspetti cronotopici modificati vi sono i deittici, i campi espressivi (cambiamenti di registro) e, solo in due o tre casi, i realia.

41

Riferimenti bibliografici

Allen, Woody, 1993, Zelig, Feltrinelli, Milano, traduzione di Pier Francesco Paolini. Assis Rosa, Alexandra, 2001, Features of Oral and Written Communication in

Subtitling, in Gambier, Y. & Gottlieb, H. 2001, p. 213-222.
Bogucki, Łukasz, 2004, A Relevance Framework for Constraints on Cinema Subtitling,

Wydawnictwo uniwersytetu Łódzkiego, Łódź.

Brondeel, Herman, 1994, “Teaching Subtitling Routines”, Meta, XXXIX, 1, 1994, p.26- 33. Disponibile in internet all’indirizzo: http://www.erudit.org/revue/meta/1994/v39/n1/002150ar.pdf, consultato nel febbraio 2007.

Carroll, Mary, 2004, “Subtitling: Changing Standards for New Media?” in Globalization Insider, 14 September 2004, Volume XIII, Issue 3.3. Disponibile in internet all’indirizzo: http://translationdirectory.com/article422.htm, consultato nel febbraio 2007.

Cerón, Clara, 2001, Punctuating Subtitles: Typographical Conventions and their Evolution in Gambier, Y. & Gottlieb, H. 2001 p. 173-178.

De Linde, Zoé & Kay Neil, 1999, The Semiotics of Subtitling, St. Jerome Publishing, Manchester.

Díaz Cintas, Jorge, 2001, “Striving for Quality in Subtitling: the Role of a Good Dialogue List”, in Gambier, Y. & Gottlieb, H. 2001 p. 199-212.

Díaz Cintas, Jorge, 2001, La traducción audiovisual: el subtitulado, Ediciones Almar, Salamanca.

Díaz Cintas, Jorge, 2004, “Subtitling: the long journey to academic acknowledgement”, in Journal of Specialised Translation, Issue 01, 2004, p. 50-68. Disponibile in internet all’indirizzo: http://www.jostrans.org/issue01/art_diaz_cintas.php, consultato nel febbraio 2007.

Fiamenghi, Nadia, 2004, “Zelig come parodia dei meccanismi di costruzione di una star” in Film Anthology, Internet Review of Film and Cinema, 2004, disponibile su

42

internet all’indirizzo: http://wwwesterni.unibg.it/fa/fa_zel.html, consultato nel marzo 2007.

Gambier, Yves & Gottlieb, Henrik, 2001, (Multi) Media Translation. Concepts, Practices, and Research, Benjamins, Amsterdam.

Georgakopoulou, Panayota, 2006, “Subtitling and Globalisation”, in Journal of Specialised Translation, Issue 06, 2006, p. 115-120. Disponibile in internet all’indirizzo: http://www.jostrans.org/issue06/art_georgakopoulou.php, consultato nel febbraio 2007.

Hajmohammadi, Ali, 2004, “The Viewer as the Focus of Subtitling. Towards a Viewer- oriented Approach”, in Translation Journal, Volume 8, No. 4, October 2004. Disponibile in internet all’indirizzo: http://accurapid.com/journal/30subtitling.htm, consultato nel febbraio 2007.

Heulwen, James, 2001, Quality Control of Subtitles: Review or Preview? in Gambier, Y. & Gottlieb, H. 2001 p. 151-160.

Ivarsson, Jan & Carroll, Mary, 1998, Subtitling, TransEdit, Simrishamn.
Jäckel, Anne, 2001, The Subtitling of la Haine: A Case Study, in Gambier, Y. &

Gottlieb, H. 2001 p. 223-236.

Marleau, Lucien, 1982, “Les sous-titres… un mal nécessaire”, Meta, XXVII, 3, 1982, p. 271-285. Disponibile in internet all’indirizzo: http://www.erudit.org/revue/meta/1982/v27/n3/003577ar.pdf, consultato nel febbraio 2007.

Osimo, Bruno, 2000-2004, “L’approccio down-top alle relazioni di trasformazione”, in Corso di traduzione, Modena, disponibile in internet all’indirizzo Logos Multilingual Portal, http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_3_30?lang=it, consultato nel marzo 2007.

Osimo, Bruno, 2000-2004, “L’approccio top-down alle relazioni di trasformazione”, in Corso di traduzione, Modena, disponibile in internet all’indirizzo Logos Multilingual Portal,

43

http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_3_31?lang=it, consultato nel marzo 2007.

Osimo, Bruno, 2000-2004, “Sottotitolaggio”, in Corso di traduzione, Modena, disponibile in internet all’indirizzo Logos Multilingual Portal, http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_4_19?lang=it, consultato nel febbraio 2007.

Osimo, Bruno, 2004, Traduzione e qualità, Hoepli, Milano.

Perego, Elisa, 2005, La traduzione audiovisiva, Carocci, Roma.

Tomaszkiewicz, Teresa, 2001, “Transfert des references culturelles dans les sous-titres filmiques”, in Gambier, Y. & Gottlieb, H. 2001 p. 237-248.

“Woody Allen” da Wikipedia, the free encyclopedia, disponibile in internet all’indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/Woody_Allen, consultato nel marzo 2007.

“Zelig” da Wikipedia, the free encyclopedia, disponibile in internet all’indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/Zelig, consultato nel marzo 2007.

44

Ringraziamenti

Sono molte le persone a cui voglio dire grazie.

Innanzitutto ai miei genitori e a mia sorella Floriana che, durante il lungo percorso da studentessa, mi hanno sempre incoraggiata e sostenuta.

Al mio amore, Achille, che ormai mi “sopporta” da 7 anni. Lui in particolare ha saputo capirmi e aiutarmi a superare i momenti difficili in cui sono spesso incorsa durante i tre anni di lezioni e di esami, ma anche durante la preparazione di questa tesi.

Alla mia nonna, Francesca, che con la sua stima mi aiuta ad avere più fiducia in me stessa.

Alla mia stupenda amica Silvia, che gioisce con me nei momenti belli e mi è accanto in quelli brutti, sempre pronta a consolarmi e incoraggiarmi.

Agli altri amici, quelli veri (loro sanno chi sono!), che per me sono fondamentali e che mi hanno capita quando – prima per lo studio, poi per la tesi – li ho dovuti trascurare un po’.

Alle mie compagne di corso, quelle che negli anni sono diventate vere amiche. Con loro ho condiviso gli sforzi, i sacrifici, le delusioni, ma anche i momenti belli, che il nostro percorso di studi ci ha riservato.

Al mio relatore, il professor Osimo, che mi ha aiutata nell’ideazione e nella stesura di questa tesi con tanta pazienza e disponibilità. Le sue idee, le sue correzioni e i suoi consigli sono stati preziosissimi.

L’ultimo ringraziamento va a me stessa, perché con la mia tenacia e il mio impegno sono finalmente riuscita a raggiungere la meta tanto agognata.

GRAZIE!

45