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Shoah non si traduce olocausto

Shoàh non si traduce olocausto

 

Le notizie che circolano sono anche questione di moda. Ora, la moda è parlare della postverità (a proposito, colleghi e amici e compagni: la lingua italiana prescrive che i prefissi – come post- – non siano scritti isolati dalla parola che segue: non sono parole a sé stanti!). Ma alla postverità ci siamo arrivati con passo lento e costante da montanaro, partendo più di settant’anni fa con l’uso improprio, oltraggioso, scandaloso della parola «olocausto».

Una premessa è doverosa. Il senso delle parole si evolve, perché la cultura non è una cosa, ma un organismo vivente. Ricordo che nel 1987, quando entrai per la prima volta negli uffici della Digital Equipment Corporation per ricevere un testo da tradurre, il funzionario mi spiegò che avrei incontrato la parola «rete», ma che non si trattava di quella dei pescatori. Oggi viene da sorridere, ma trent’anni fa era una precisazione necessaria.

Ciò non toglie che le parole, anche nel loro senso attuale, conservino in sé la memoria culturale della propria origine, una sorta di pedigree che attesta attraverso quali metafore sono giunte a significare quello che significano oggi. Le metafore, prima ancora che figure retoriche o tropi, sono il modo in cui si evolve il senso delle parole. La puntura del tafano, con due diverse metafore, ha generato le parole «assillo» (da asilus, tafano in latino) ed «estro» (da oìstros, tafano in greco).

Ci sono però delle derivazioni metaforiche di parole entrate nell’uso che contengono una stortura alla base, ed è questo il caso della parola «olocausto» applicata in modo erroneo alla shoàh.

Olocausto deriva dal greco e significa «1. sacrificio d’espiazione nel quale la vittima viene interamente bruciata. 2. La vittima stessa. 3. Offerta a Dio di tutto sé stesso». L’episodio più celebre di offerta a Dio di un umano è quello di Abramo, a cui Dio ordina di andare a fare sacrificio del figlio (In principio 22:2). La parola ebraica usata è “olah [le virgolette sono una lettera, la ayin, muta che produce un glottal stop], che significa «ascesa» e anche «offerta intera bruciata», perché l’idea era che il fumo, salendo, raggiungesse il Signore facendogli piacere. L’idea sottostante è di verificare se Abramo sia disposto a sacrificare (a Dio) la cosa più cara che ha al mondo (dopo Dio).

La parola ebraica che significa la tentata distruzione nazista del popolo ebraico è invece shoàh, che significa «disastro».

La prima menzione della parola holocaust in riferimento alla shoàh è sul numero del 7 maggio 1945 della rivista Life:

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Mi sembra un esempio perfetto di postverità: Hitler sposa la teoria della distruzione del popolo ebraico e la mette in atto, usando perlopiù camere a gas, e subito dopo un giornalista statunitense di Life per descrivere ciò usa una parola che significa un sacrificio volontario a Dio di corpi umani bruciati, per compiacere Dio!

Il sottotesto di questa operazione è che non c’è stato nessun “cattivo”, ma semplicemente Dio ha ordinato al suo popolo di sacrificargli 6 milioni di ebrei, 2 milioni e mezzo di soldati sovietici, 2 milioni di polacchi non ebrei, mezzo milione di rom, mezzo milione di serbi, duecentomila handicappati, duecentomila massoni, 25000 sloveni, 15000 omosessuali, 7000 repubblicani spagnoli, 5000 testimoni di Geova, per vedere se il suo popolo gli è fedele.

E chi sarebbe, in questa versione postveritaria, l’Abramo che esegue il sacrificio? niente po’ po’ di meno che Adolf Hitler, il nemico numero uno del popolo di Abramo! Solo che a lui Dio la mano non la ferma, se non dopo che ha compiuto questa strage.

Ora, un giornalista è umano, e il giornalista di Life può avere commesso un errore. Ma ora sono passati 72 anni e, se errare humanum est, però perseverare diabolicum. Il perseverare arriva al punto che, su Wikipedia italiana, se si cerca «shoàh» si viene kafkianamente rimandati a «olocausto».

Io provo profonda indignazione al pensiero che questo accada, e spero che la mia indignazione possa essere molto contagiosa. Non può essere solo stupidità, deve esserci anche una certa dose di malafede.

Chi meglio di noi – che nella nostra scuola Altiero Spinelli ci occupiamo professionalmente di comunicazione e di senso delle parole – dovrebbe farsi carico di combattere la battaglia per il ripristino della verità e quindi anche della parola «shoàh» al posto della parola «olocausto»? Non verrebbe da pensare che la conoscenza debba essere più contagiosa e irreversibile dell’ignoranza? Rispondere a questa domanda significa fare una previsione sul nostro immediato futuro postveritario.

 

P.S. Il 23-24 aprile 2017 si celebra in tutto il mondo lo Yom HaShoàh, il giorno della Shoàh.