come e perché mi è piaciuto tradurre i Racconti di Odessa di Babel’

Quando Daniela di Sora mi ha chiesto di tradurre I racconti di Odessa di Babel’, non li avevo mai letti. Avevo letto L’armata a cavallo in una traduzione vecchia e noiosissima e, come spesso succede in questi casi, a torto avevo pensato di non leggere altro Babel’. Pensieri che si fanno così, o almeno nel mio caso che io ho fatto così, senza una pausa di meditazione. Pensieri fugaci, incontrollati, inconsapevoli, impliciti, che poi sono quelli che regolano buona parte della mia vita.
La gentile insistenza di Daniela mi ha fatto bene, e sono stato costretto sia ad avere a che fare con una casa editrice bella – sì lo so, le case editrici non sono belle, brutte, si devono usare altri aggettivi più appropriati – una casa editrice bella, dicevo, che non solo non è poco, ma è proprio tanto.
Isaak Èmmanuìlovič , inoltre, è risultato ebreo proprio come me (cioè poco, o meglio tanto, insomma, un po’, quel tanto che basta per fare un marchio indelebile ma non per andare in sinagoga né per sentirsi appartenente a una religione o tantomeno da farsene tagliare via un tuchèl), insomma di quella subspecie d’ebreo che scrive scrive d’essere ebreo ma poi nella vita vera non lo “fa”.
Come se non bastasse, anche Isaak Èmmanuìlovič faceva il traduttore: ha tradotto la cultura degli ebrei odessiti, gangster di prim’ordine, nella cultura dei non odessiti, così anche noi abbiamo potuto vedere come vivevano. (E vivevano in modo ben strano!) La sua libertà espressiva, la sua capacità traduttiva non sono però piaciute a Iosif Vissariònovič, che l’ha fatto fucilare.
Daniela di Sora invece non solo non mi ha fatto fucilare, ma nemmeno deportare, e ci siamo conosciuti e abbiamo anche presentato la collana insieme a Milano al Castello Sforzesco, e mi ha anche detto che alcune delle idee bislacche che ho scritto nella prefazione quasi quasi le condivide. Ma questo è un segreto, che resti tra noi.

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