«Adeguarsi o adeguare. Un racconto sulla traduzione» Opera recensita: Di seconda mano, di Laura Bocci, Rizzoli, 2004, p. 196, 15 euro. Pubblicato su Diario della settimana del 24 settembre 2004, p. 68.

Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani 2003

 

Questi saggi di traduttologia applicata non sono l’originale di Experiences in Translation, uscito in Canada due anni fa, anche se in parte ne ricalcano il contenuto. I quattordici capitoli, che si basano anche su altre conferenze di Oxford e di Bologna, sono caratterizzati dalla presenza di un grandissimo numero di esempi italiani che nell’edizione canadese, per evidenti motivi di traducibilità, erano perlopiù assenti o comunque diversi. Il volume canadese era perciò una traduzione senza un originale, mentre questo volume italiano è un originale che però con ogni probabilità non avrà una traduzione puntuale. Il che di per sé stesso dà già molto da pensare a cosa si può intendere per «traduzione», concetto che, da Jakobson in poi, diventa vieppiù nodale in semiotica, superando la concezione ristretta al solo passaggio testuale interlinguistico.

Negli anni Sessanta e Settanta, la disciplina si chiamava ancora «teoria della traduzione», e i traduttori non ne volevano sapere perché l’angusta impostazione lessicalistica non permetteva loro di trarne alcuno spunto pratico. Si ragionava, allora, in termini di “equivalenze”, senza tenere conto che le lingue naturali (a differenza di linguaggi artificiali come la matematica) nascono e si evolvono spontaneamente con la gente che parla e scrive, in modo diverso nei diversi contesti culturali. Se a questo si aggiunge che una componente importante del significato è soggettiva (come spiegano Peirce e Freud), andare alla ricerca di parole “equivalenti” diventa proprio impossibile. Era una teoria arida senza applicazioni, gli esempi scarseggiavano e, quando c’erano, erano “finti”, creati dal linguista a tavolino per mostrare qualcosa, non erano problemi reali incontrati da traduttori all’opera. Eco capovolge quella situazione claustrofobica, disponendo di un’enorme mole di esempi, tra i quali qua e là s’intrufola – senza parere – qualche notazione di semiotica della traduzione. Per questo motivo le ristampe già si susseguono e il volume trova moltissimi proseliti, in primo luogo fra i traduttori.

In alcuni casi, le esperienze riferite da Eco sono quelle dell’autore di testi narrativi interpellato dai propri traduttori nelle varie lingue; e, dato che i suoi romanzi sono stati diffusamente tradotti, questa da sola è una fonte pressoché inesauribile di casi concreti di problemi non già meramente lessicali, ma di traducibilità della cultura, delle implicazioni diverse della componente di non detto nella cultura emittente e in quella ricevente. Altri casi riguardano l’esperienza di Eco come traduttore – di Gérard de Nerval e di Queneau, per esempio –, e allora ci viene illustrato in che modo ha affrontato e risolto i problemi che gli si sono posti. In altri casi, infine, Eco è presente nel libro in veste di semiotico (non vedo perché dovremmo continuare a chiamarlo «semiologo», dal momento che si rifà assai più a Peirce che non a Saussure) che parla di traduzione nell’ottica della più generale teoria della significazione.

Ma quasi sempre Eco è tutte e tre le cose insieme. Del resto, fin dai tempi del Nome della rosa siamo abituati a incontrare, elegantemente celate nell’ordito narrativo, annotazioni di semiotica e filosofia del linguaggio, al punto che viene il sospetto che il vero e proprio topos del macrotesto echiano sia il gusto per la ricerca del rimando intertestuale, il piacere della congettura, la libido abduttiva.

Alcuni traduttori saranno forse annoiati dalla presenza di queste sparse annotazioni semiotiche con cui Eco tira le fila dei singoli esempi portati e li inquadra in categorie, indicando quale sarebbe l’approccio scientifico ai vari problemi. E, forse, simmetricamente, i ricercatori più rigidi potranno essere seccati dalla sicurezza con cui scelte traduttive sono indicate come giuste o sbagliate, dimentichi che nessuno meglio dell’autore empirico di un testo conosce l’intentio auctoris e l’intentio operis. È in fondo questa la migliore dimostrazione che si tratta di un libro interessante e ricco di spunti. Dovrebbero leggerlo anche alcuni editor di narrativa tradotta, il cui potere di scelta è inversamente proporzionale alla competenza: ma non sperateci.

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