Agar: narrazione, antropologia linguistica e organizzazione complessa

 

 

Sommario

 

 

 

1.            Prefazione  4

1.1.            Dalla cultura come entità autoreferenziale alla cultura come traduzione  4

1.2.            Rich point e strategia traduttiva  6

1.3.            Traduttore e antropologo: lo stesso mestiere con due applicazioni diverse  7

1.4.            Riferimenti bibliografici 9

1.5.            Alcune note biografiche  10

1.5.1.    Michael Agar 10

1.5.2.    Karl E. Weich  10

1.5.3.    Elinor Ochs 11

1.5.4.    Lisa Capps 11

2.            Traduzione con testo a fronte  12

2.1 Riferimenti bibliografici 61

 


1.  Prefazione

1.1.       Dalla cultura come entità autoreferenziale alla cultura come traduzione

In antropologia, il concetto di «cultura» è onnicomprensivo e per questo viene spesso considerato in modo errato. In passato, gli antropologi usavano la parola cultura per descrivere, spiegare e generalizzare il comportamento altrui. Citando Alfred Kroeber e Clyde Kluckhohn (1966), il vecchio concetto di cultura può essere così sintetizzato: «La cultura è composta da un insieme, esplicito e implicito, di comportamenti acquisiti e trasmessi da simboli che costituiscono le particolari conquiste ottenute da un gruppo di esseri umani e che comprendono anche la loro personificazione sotto forma di artefatti; il nucleo essenziale della cultura è composto da idee tradizionali e in particolare dai valori ad esso collegati. Da un lato i sistemi culturali possono essere considerati come prodotti di azioni, e dall’altro come elementi condizionanti di ulteriori azioni» (Kroeber e Kluckhohn, 1966).

<!--nextpage--> Il concetto di «cultura» aveva così un significato autoreferenziale legato alla spiegazione di un determinato modus operandi. Se una persona si comportava in un certo modo, l’antropologo riteneva che quel particolare atto o atteggiamento derivasse dalla sua cultura e dal fatto di condividere una specifica identità culturale. In passato si è sempre ritenuto che la cultura fosse un sistema chiuso e coerente di azioni e significati che comprendeva solo un gruppo ristretto di individui, appartenenti appunto a quella cultura. Non aveva alcuno sviluppo temporale ed era un valore tradizionale che veniva tramandato da una generazione all’altra. In questo modo, diventava sinonimo di identità autoreferenziale che precludeva qualsiasi possibile deviazione e che inoltre semplificava un concetto che in realtà, come ha sottolineato anche Michael Agar, è molto più complesso e ampio.

Il concetto di «cultura», e la sua comprensione, implicano un legame tra due linguaculture che Agar chiama «linguacultura (languaculture) emittente» e «linguacultura ricevente». Con il termine «linguacultura», Agar intende un linguaggio che comprende non solo elementi quali grammatica e lessico, ma anche conoscenze pregresse e informazioni locali. Il concetto di «cultura» è un concetto relazionale. Non ha alcun senso parlare della cultura di X senza considerare a chi è collegata quella cultura. Il concetto di «cultura» richiede sempre una traduzione che possa renderla chiara e visibile anche a un esterno.

Si tratta di una relazione tra due estremi, nel mezzo dei quali si trova la traduzione. Ed è proprio la quantità di materiale che viene trasmesso da un estremo all’altro, la cultura, a determinare poi la portata della traduzione e stabilire il ruolo maggiore o minore del traduttore che convoglia queste informazioni. Tutto dipende quindi dai confini e dai limiti posti tra la lingua emittente e ricevente.

1.2.        Rich point e strategia traduttiva

Il concetto di «cultura», quindi, assume un valore sistemico. Ci rendiamo conto della presenza di una cultura diversa nel momento in cui ci troviamo di fronte a persone che hanno un comportamento a noi incomprensibile. Agar ha definito questi momenti di incomprensione e di aspettativa mancata rich point.

Di qualsiasi differenza o deviazione si tratti, ci troviamo sempre sul piano culturale. Ed è qui che entra in gioco la traduzione. Solo con la traduzione è possibile dare un senso a queste differenze, ovvero a questi rich point.

Riconoscere una differenza è il primo passo per avviare una traduzione e la conseguente strategia traduttiva. Solitamente i rich point sono strettamente collegati a contesti e significati creati da un determinato popolo e richiedono quindi la conoscenza non solo degli aspetti semantici, grammaticali e prettamente linguistici, ma anche comportamentali. Il problema della traduzione è così legato alla capacità di comprendere, interpretare e spiegare un linguaggio in cui sono condensate la cultura e la storia di un popolo.

Il traduttore deve concentrarsi su queste deviazioni per creare un senso che tutti possano comprendere. Nella sua traduzione dovrà tenere conto di vari aspetti, il cui numero è molto variabile e dipende della natura del confine tra la lingua emittente e ricevente. Più la lingua emittente è “lontana” da quella ricevente, più il compito del traduttore è complesso, poiché deve confrontarsi con un numero maggiore di rich point e dare loro un senso anche nella lingua ricevente.

La traduzione, e di conseguenza la cultura, che altro non è che una costruzione artificiale che permette la traduzione, è qualcosa di intersoggettivo, che va poi rielaborato. Il compito del traduttore è trovare un senso a questi reach point per renderli comprensibili in un’altra lingua, trasmettendo contemporaneamente i rapporti e i modelli comportamentali di un contesto culturale differente.

1.3.       Traduttore e antropologo: lo stesso mestiere con due applicazioni diverse

Il lavoro dell‘antropologo e quello del traduttore sono quindi molto simili, in quanto il fine di entrambi è comprendere il senso di ciò che hanno di fronte, sia lo studio di un popolo o di un linguaggio. Entrambe le discipline si occupano, infatti, di comprendere un linguaggio in cui si sono condensate la cultura e la storia di un popolo. Tuttavia, compito del traduttore è non solo comprendere, ma  interpretare e spiegare tale linguaggio fino a trasporlo e renderlo comprensibile nella lingua ricevente.

La traduzione è centrale per ogni tentativo di comprensione e di comunicazione, tanto più quando la relazione implica orizzonti di significato, lingue, storia e culture diverse, straniere le une per le altre.

Già Goethe si sofferma sull’importanza della traduzione e ribadisce due princìpi che dovrebbero guidare un traduttore: «Uno richiede che l’autore di una nazione straniera venga portato a noi in modo che possiamo considerarlo nostro; l’altro richiede a noi di passare dalla parte dello straniero, e di metterci nella sua condizione, nel suo modo di parlare, nella sua particolarità» (Strazzeri, 2003).

Per Walter Benjamin il compito del traduttore è arduo, perché, se deve essere, nello spirito, fedele all’originale, tuttavia deve intuire l’intima verità di ogni lingua: in questo tutte le lingue sono affini fra di loro, senza per questo essere necessariamente somiglianti. Il compito del traduttore «consiste nel trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce che possa ridestare in essa l’eco dell’originale» (Benjamin, 1962).

Il traduttore, nei fatti, dovrebbe stare in mezzo, nella condizione di inbetweeness, come suggerisce la Scuola Canadese della traduzione, o collocarsi in ciò che Homi Bhabha (1990) ha definito «Third Space», spazio terzo.

Ci sono forme di esperienza particolarmente vicine al nostro modo di sentire, e altre, invece, piuttosto lontane. La traduzione dell’una nel linguaggio dell’altra deve evitare di appiattirle in un’identità ipostatizzata. Una residuale non-identità, un elemento negativo incommensurabile è spesso la chiave di accesso all’altro, inteso come un rapporto di rispetto e di riconoscimento.

Il traduttore deve quindi essere formato a essere una sorta di mediatore culturale. Il termine «mediatore» deriva dal verbo latino medio e ha due significati: da un lato si riferisce all’azione di acquisire (e ottenere) e di trasmettere e prestare (per esempio della conoscenza) e dall’altro riferisce ad un’azione di mediare, di intervenire.

1.4.       Riferimenti bibliografici

 

Agar, M. (1995). Language shock: Understanding the culture of conversation. New York: William Morrow.

 

Agar, M. (1996). The professional stranger: An informal introduction to ethnography (2nd ed.). New York: Academic Press.

 

Agar, M. (2006). Culture: Can you take it anywhere? International Journal of Qualitative Methods, 5(2), Article xx. Disponibile sul sito  http://www.ualberta.ca/~iiqm/backissues/5_2/pdf/agar.pdf

 

Benjamin, W. (1962). Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Torino: Einaudi

 

Bhabha, Homi K. (1990). The Third Space, in J. Rutherford (ed.), Identity: Community, Culture, Difference. London: Lawrence and Wishart.

 

Kroeber, A.L. & Kluckhohn, C. (1966). Culture: A critical review of concepts and definitions. New York: Random House

 

Strazzeri, M. (2003). Il compito del traduttore: Riflessioni su un saggio di Walter Benjamin, in Giovanna Gallo e Paola Scoletta (a cura di), La traduzione. Un panorama interdisciplinare. Nardò: Besa.

1.5.       Alcune note biografiche

1.5.1.               Michael Agar

Michael Agar è laureato in antropologia presso il Language-Behavior Research Lab dell’Università di Berkeley, California. Attualmente svolge attività di ricerca come indipendente presso Ethknoworks a Santa Fè, New Mexico. Agar tiene workshop introduttivi e avanzati sulla ricerca qualitativa e sulla teoria della complessità e offre servizi di consulenza sull’uso di questi metodi in diverse applicazioni progettuali. Da un po’ di tempo si dedica alla ricerca sull’uso della complessità teorica per riformulare organizzazioni di servizio sociale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Language shock: Understanding the culture of conversation (1994) e An inofrmal introduction to ethnography (1996).

1.5.2.               Karl E. Weich

Karl E. Weick è nato nel 1936 a Varsavia, Polonia. Laureatosi nel 1958 alla Wittenberg University di Springfield, nel 1960 ha conseguito il Master of Art in Psychology e nel 1962 il dottorato in psicologia presso la Ohio State University di Columbus. Dal 1988 insegna psicologia e comportamento organizzativo all’Università del Michigan. Tra le sue opere principali: The social psychology of Organizing (1969), Sensemaking in organizations (1995) e Making Sense of the organization (2001).

1.5.3.               Elinor Ochs

 

Elinor Ochs è professore di Antropologia e Linguistica applicata alla UCLA (University of California, Los Angeles). È una dei pionieri nel campo della socializzazione del linguaggio e ha condotto ricerche sulla relazione tra linguaggio e psicopatologia. Ha avuto diversi incarichi: Presidente dell’American Association for Applied Linguistics,  Dottorato Onorario alla Linkoping University e Presidente della Society for Linguistic Antrhopology. Tra I suoi libri ricordiamo: Acquisition of Conversational Competence (con B. Schieffellin, 1985), Culture and Language Development (1988); Constructing Panic (con L. Capps, 1995), Living Narrative (con L. Capps, 2001).

1.5.4.               Lisa Capps

Lisa Capps è morta nel 2000 all’età di 35 anni. Era professore incaricato di psicologia all’Università di Berkeley dal 1996. Si era laureata a Stanford e aveva conseguito un dottorato in psicologia clinica alla UCLA. Nei suoi tre anni alla Facoltà di Psicologia ha svolto un lavoro innovativo abbinando la ricerca clinica tradizionale con approcci linguistici e narrativi.  Ha pubblicato Constructing Panic (con E. Ochs, 1995), Living Narrative (con E. Ochs, 2001).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.  Traduzione con testo a fronte


Agar: narrative, linguistic anthropology, and the complex organization

 

 

Michael Agar

Ethnoworks, US

E:CO Issue Vol. 7 Nos. 3-4 2005 pp. 23-34

 

 

Here is the basic argument. An interest in complex co-evolutionary systems arose and continues to grow in organizations because an increasing frequency of unexpected changes in the worlds they interact with. Traditional models that rely on independent variables and linear cause and equilibrium states cannot handle such problems. Complexity models take the facts of interdependence and nonlinearity and dynamics as foundational. So organizations look to complexity for ideas on how to handle this brave new constantly changing world.

The problem of frequent and surprising change is not new. In 1970 Alvin Toffler, in his boos Future Shock (1970), had already noticed that change was increasing at an increasing rate. For that matter, so did Henry Adams with his ‘Law of Acceleration’ in 1904 (1999). Complexity theory, a later arrival that flourished in the 1980’s, not only notices this but predicts it based on the increased connections, interactions  and  feedback  loops  that our accelerating

Agar: narrazione, antropologia linguistica

 e organizzazione complessa

 

Michael Agar

Ethnoworks, US

E:CO Issue Vol. 7 N. 3-4 2005 pp. 23-34

 

Ecco l’argomento di base. All’interno delle organizzazioni è sorto e continua a crescere un interesse per i complessi sistemi coevoluzionistici, a causa della frequenza sempre maggiore di cambiamenti inaspettati nei mondi con cui interagiscono. I modelli tradizionali che si affidano a variabili indipendenti e condizioni di causa ed equilibrio lineari non possono gestire problemi di questo tipo. Per i modelli della complessità sono fondamentali interdipendenza, non linearità e dinamica. Le organizzazioni si rivolgono quindi alla complessità per avere idee su come affrontare questo mondo nuovo, coraggioso e in continua evoluzione.

Il problema del cambiamento continuo e sorprendente non è nuovo. Nel 1970, Alvin Toffler aveva già osservato nel libro Future Shock (1970) che il cambiamento stava crescendo a un ritmo incessante. E lo stesso ha fatto Henry Adams nel 1904 con la sua Teoria dell’accelerazione (1999). La teoria della complessità, un assunto successivo che si è diffuso negli anni Ottanta, non solo osserva questo fenomeno, ma lo prevede basandosi sulle crescenti connessioni, interazioni e feedback che i nostri sempre più accelerati processi di globalizzazione hanno causato  e  che ancora  continuano

 

processes of globalization have brought, and are still bringing about. Any organization, any node, in the global network can now expect frequent perturbations from God knows where, God knows when.

So, one characteristic of an organization adapting to this complex world lies in the recognition of a simple principle. Stability is no longer the norm, with change as the exceptional event. Now change is the norm, with stability as exceptional. Complex organizations lead, manage and practice based on that fact.

Given this principle, a large number of consequences need to be spelled out and tested in the field of organization life, a process now ongoing. A sampling of the many implications of the principle cann be found in sources such as Olson and Eoyang’s (2001) and Stacy’s (2001) applications of complexity to organizational development.

In this article, I only mean to deal with one of  those consequences. The change principle needs to be linked to the way people in the organization use language to notice unexpected events and make sense out of them. Once again, the basic idea here is an old one that pre-dates complexity theory. People who actually do things in an organization will have good ideas about how to do those things better. The idea has its roots in early ‘human relations’ antidotes to scientific management (Trahair, 2005). It developed with Drucker’s early writings on the ‘knowledge worker’ (Drucker,
a causare. Qualsiasi organizzazione, qualsiasi nodo nella rete globale può ora aspettarsi continui sconvolgimenti, Dio solo sa dove e quando.

Quindi, una delle caratteristiche dell’organizzazione che si adatta a questo mondo complesso è il riconoscimento di un semplice principio. La stabilità non è più la norma, né il cambiamento un evento eccezionale. Ora è il cambiamento ad essere la norma, mentre la stabilità è un’eccezione. Le organizzazioni complesse guidano, controllano e agiscono sulla base di questo dato di fatto.

Accettato questo principio, è necessario chiarire in dettaglio e verificare nell’ambito della vita dell’organizzazione un gran numero di conseguenze, un processo che è ora in corso. È possibile riscontrare un campione delle numerose implicazioni di questo principio in varie fonti quali Olson ed Eoyang (2001) e Stacy (2001) che applicano la complessità allo sviluppo dell’organizzazione.

In questo articolo intendo occuparmi solo di una di quelle conseguenze. Il principio del cambiamento va collegato al modo in cui le persone all’interno dell’organizzazione usano il linguaggio per rilevare eventi inaspettati e per dare loro un senso. Ancora una volta, l’idea di base è una vecchia idea antecedente alla teoria della complessità. Le persone che effettivamente agiscono all’interno di un’organizzazione avranno ottime idee su come fare meglio queste cose. L’idea affonda le sue radici nei primi antidoti delle «relazioni umane» all’ organizzazione scientifica (Trahair, 2005); si è sviluppata

 

 

1998), and it surfaces in most all of the trendy management models of the last few decades.

Let’s call this simple idea the ‘local knowledge’ principle. And once again, notice  that  the principle is rich in consequences for leadership, management and work.

Now combine the principle of local knowledge with  the principle of continual change and look at language. Perturbations, which occur with increasing frequency, are surprises – low probability events – that are first noticed in the organizational sites where  they have an impact. ‘Notice’ means news, hot topics, something that we will discuss under ‘tellability’ later in this article. An organization, then, can use these local noticings to spot perturbations. Local knowledge, or, more precisely, surprises with reference to it, serve as early warning signs of changes that an organization should monitor.

But noticing, useful as it might be, isn’t enough to take advantage of all that local knowledge has to offer. Practitioners are rich resources of experience, evaluation and innovation. Practitioners don’t just notice. They talk about what they notice with each other. The talk sets the new event in context, links it to possible causes, significant actors and related events. The talk speculates on what the change means, uses the talk to imagine a future that includes it.

 

con i primi scritti di Drucker sul «lavoratore intellettuale» (Drucker, 1998) e affiora praticamente in tutti i modelli di management di tendenza degli ultimi decenni.

Chiamiamo questa semplice idea «principio della conoscenza locale». E, ancora una volta, notiamo come questo principio abbia numerose conseguenze per il gruppo dirigente, il management e il lavoro.

Ora uniamo il principio della conoscenza locale con quello del cambiamento continuo e osserviamo la lingua. Le perturbazioni, che si verificano sempre più frequentemente, sono sorprese, ossia eventi a bassa probabilità, che si notano prima nei luoghi organizzativi su cui hanno un impatto. Per «osservare» s’intendono notizie, argomenti caldi, qualcosa di cui ci occuperemo più avanti in questo articolo quando parleremo di «raccontabilità». Un’organizzazione quindi può fare uso di queste osservazioni locali per individuare le perturbazioni. La conoscenza locale, o più precisamente le sorprese che vi si riferiscono, sono i primi segnali di avvertimento di cambiamenti che un’organizzazione dovrebbe monitorare.

Ma per quanto osservare possa essere utile, non è sufficiente per sfruttare al massimo tutto quello che può offrire la conoscenza locale. I professionisti sono fonti ricchissime di esperienza, valutazione e innovazione. Non si limitano a osservare. Parlano tra loro di ciò che osservano. Parlarne pone il nuovo evento all’interno di un contesto, lo collega alle possibili cause, agli attori significativi e agli eventi  connessi.  Parlarne porta  a fare  ipotesi sul significato del

 

 

An organization needs to take such talk seriously, but only as an indication that a potentially important change is underway, but also as a resource to evaluate and act on it.

None of this means that local noticing and talk is the only way to build complexity into an organization that matches the complexity of an interconnected changing world. Nor does it mean that local noticing and talking are necessarily correct and that all other sources are always wrong.

But this article does argue that local noticing, and local talking about what is noticed, should be valued by an organization in a complex world. When change is assumed to be the normal situation, and when those closest to the change are viewed as sensitive reporters and creative problem-solvers, then opening a space for that talking and enabling its wider distribution makes a lot of sense.

I think this is one of the reasons for interest in story and narrative in the organization. Story and narrative point towards  those moments that open with shared noticing of a change among co-workers, moments that continue with subsequent efforts to make sense of that change. If ‘complex’ organization means an organization capable of responding to frequent surprising changes, then local noticings and stories are critical resources to develop that capability.

 

cambiamento, a immaginare un futuro in cui sia presente. Un’organizzazione deve prendere sul serio questo genere di discorso, non solo come indicatore che è in corso un cambiamento potenzialmente importante, ma anche come risorsa per valutarlo e intervenire.

Ciò non significa che l’osservazione locale e il parlarne siano l’unico modo per creare complessità all’interno di un’organizzazione che si adegua alla complessità di un mondo interconnesso e mutevole. Né significa che l’osservazione locale e il parlarne siano necessariamente corretti e che tutte le altre fonti siano sempre sbagliate.

In questo articolo si vuole argomentare che l’osservazione locale, e il discutere localmente su ciò che si è osservato, vanno tenuti in considerazione da un’organizzazione all’interno di un mondo complesso. Quando si ritiene che un cambiamento rappresenti la normalità e quando coloro che sono più vicini a tale cambiamento sono visti come cronisti sensibili e innovativi risolutori di problemi, aprire uno spazio per parlarne e permetterne la più ampia diffusione ha molto senso.

Ritengo che questo sia una delle ragioni dell’interesse per storia e narrazione nell’organizzazione. Storia e narrazione puntano verso quei momenti che, attraverso un’osservazione condivisa, favoriscono la nascita di un cambiamento tra i collaboratori, momenti che con sforzi successivi continuano a dare un senso a quel cambiamento.

Se  per  organizzazione  «complessa»  s’intende  un’organizzazione in

 

 

 

The problem is this: ‘story’ and ‘narrative’ are extremely rich and ambiguous concepts with a long and contentious pedigree in many fields having to do with human expressions – language, literature, film, the plastic arts, music, etc. As I look at the concepts through my background in linguistic anthropology, I find what I read and hear confusing. In the hope that some of my confusion might be helpful to others, I’d like to use this article to clarify if not resolve it.

The first classification: ‘story’ and ‘narrative’ are actually about many different ways that language is used. The variety I will focus on here foregrounds a Lynch-type story, an in media res construction out of lived experience, without a clear sense of a beginning or end, but with a clear interest in guessing why something happened and how what happened might effect the very near future.

This of course isn’t  the only way the concepts might be used, but it is one way. And this way of narrowing the concepts brings us to another well-known concept that links Lynch-stories to organizations. Karl Weick writes about what he calls ‘sensemaking’, a term I will use  for the rest of the article as a label for this Winch-like use of language in organizational contexts. Weick describes it like this:

 

 

grado di rispondere a continui cambiamenti sorprendenti, osservazioni locali e storie sono risorse critiche per sviluppare quella capacità.

Il problema è: «storia» e «narrazione» sono concetti estremamente ricchi e ambigui, con un pedigree lungo e controverso in numerosi campi che hanno a che fare con l’espressione umana: lingua, letteratura, cinema, arti plastiche, musica ecc. Se osservo questi concetti dal mio background in antropologia linguistica, ciò che leggo e ascolto mi confonde. Nella speranza che parte di questa mia confusione possa essere utile agli altri, vorrei utilizzare questo articolo per chiarirla, se non eliminarla.

Ecco il primo chiarimento: «storia» e «narrazione» indicano in realtà i molteplici modi in cui viene usata la lingua. La varietà su cui mi concentrerò ora è una ricostruzione in medias res di un’esperienza vissuta, senza un chiaro senso di inizio o fine, ma con un chiaro interesse nell’indovinare il motivo per cui qualcosa è successo, e come ciò che è successo potrebbe influenzare il futuro più prossimo.

Ovviamente, questo non è l’unico modo in cui sono utilizzabili questi concetti, ma solo uno dei modi possibili. E questo modo di restringere i concetti ci porta a un altro ben noto concetto che collega storia e organizzazione. Karl Weick scrive di quello che lui chiama «sensemaking» [letteralmente «creazione di senso»], termine che uso nel resto dell’articolo per definire questo uso della lingua alla Winch, all’interno dei contesti organizzativi. Weick lo descrive così:

“…sensemaking is about such things as placement of items into frameworks, comprehending, redressing surprise, constructing meaning, interacting in pursuits of mutual understanding, and patterning” (1995: 6).

Not exactly a crisp definition, but clearly related to the earlier discussion of Lynch-stories. Important as  his concept is, it suffers from the same problem as the use of ‘narrative’ and ‘story’ earlier in this article. It rambles all over the discourse territory.

Sensemaking isn’t the only related concept far from it. For now  let’s stick with ‘sensemaking’ as our general cover term. Sensemaking occurs when a group uses language to collectively link something that happened with a guess about why it occurred, and what changes it might bring about in the near future. Sensemaking is a social in media res construction where time and cause come together to explore possible futures.

People who do the frontline work notice a perturbation and make sense out of  it. Usually we associate this sensemaking with the water-cooler, the car pool, or the long lunch. Now we want to take more of it than that. We want it to be incorporated into an organization as a regular process for monitoring and evaluating changes. Sensemaking becomes a cornerstone for the bottom-up innovation advocated by complexity-theory oriented sources cited earlier. Whether the sensemaking is useful or whether changes actually result from it – these are of course other questions that we discuss later.

«…..sensemaking is about such things as placement of items into frameworks, comprehending, redressing surprise, constructing meaning, interacting in pursuits of mutual understanding, and patterning» (1995:6).

Non è esattamente una definizione precisa. Risente dello stesso problema che abbiamo prima citato sull’uso di «narrazione» e «storia». Si limita a girovagare per tutto il territorio del discorso.

La creazione di senso non è l’unico concetto pertinente, anzi, ma per il momento consideriamola come nostro termine generale. La creazione di senso si verifica quando un gruppo utilizza la lingua per collegare collettivamente un evento che è accaduto con un’ipotesi sul perché è accaduto, e quali cambiamenti quest’evento potrebbe causare nel futuro più prossimo. La creazione di senso è una costruzione sociale in medias res dove tempo e causa si uniscono per esplorare futuri possibili.

Le persone che fanno un lavoro in prima linea osservano una perturbazione e ne traggono un senso. Di solito, associamo questa creazione di senso con il refrigeratore ad acqua, il car-sharing o la pausa pranzo lunga. Ora vogliamo fare di più. Vogliamo che questa creazione di senso sia inserita all’interno di un’organizzazione come processo regolare per monitorare e valutare i cambiamenti. La creazione di senso diventa così il fondamento per l’innovazione bottom-up sostenuta dalle fonti orientate verso la teoria della complessità citate in precedenza. Ovviamente, se la creazione di senso sia utile o produca davvero dei cambiamenti è una questione diversa che discuteremo in seguito.

Suppose someone, somewhere, built a dream organization that figured out how to support and use sensemaking among its members. Suppose we lifted the roof off and eavesdropped on the talking that went on inside of it. Suppose we listened for sensemaking, either as researchers from the school of business and management or as organizational consultants looking for some ‘positive deviance’ to amplify. Could we, with all that linguistic anthropological baggage I drag around, know in advance what a sensemaking session should sound like?

Here I can draw on decades of research on how people use language in daily  life, work called discourse analysis, conversational analysis, pragmatics, and other unprintable things. This diffuse field is often anchored in the pioneering fieldwork of Bronislaw Malinowski, who worked on the Trobriand Islands early in the twentieth century. There are many other honored ancestors, such as Bhaktin and Wittgenstein as well. All of them tried to figure out how people use language to make life happen even as they live it. That’s what we want to do for organizations with the concept of sensemaking. Let’s see if we can use the ancestors to bring Weick’s concept to life.

To do so I will draw heavily on the recent work of a descendant of those ancestors, linguistic anthropologist Eleanor Ochs, whose book Living Narrative (Ochs & Capps, 2001) with the late Lisa Capps offers concepts for the grounded analysis of sensemaking as well as for the complications in the narrative concept that we seek.

Supponiamo che qualcuno, da qualche parte, abbia creato un’organizzazione ideale che ha scoperto come sostenere e usare la creazione di senso tra i propri membri. Supponiamo di aver sollevato il tetto e di aver origliato i discorsi fatti all’interno. Supponiamo di andare in cerca della creazione di senso come ricercatori dell’istituto di business and management o come consulenti di un’organizzazione alla ricerca di una «devianza positiva» da amplificare. Con tutto quel bagaglio linguistico antropologico che mi porto appresso, sappiamo in anticipo come dev’essere una sessione di creazione di senso?

Qui posso fare appello a decenni di ricerche su come le persone usano la lingua nella vita di tutti i giorni. Questo lavoro si chiama «analisi del discorso», «analisi conversazionale», pragmatica e altre cose non pubblicabili. Questo campo molto esteso è spesso ancorato alla pionieristica ricerca sul campo di Bronislaw Malinowski, che ha lavorato all’inizio del Novecento alle Isole Trobriand. Ci sono anche molti altri prestigiosi antenati, come ad esempio Bahtin e Wittgenstein. Tutti loro hanno cercato di capire come le persone usino la lingua per far sì che la vita si verifichi così come la vivono. È quello che vogliamo fare per le organizzazioni con il concetto di «creazione di senso». Proviamo a vedere se riusciamo a usare gli antenati per dare vita al concetto di Weick.

Per farlo, attingerò principalmente al recente lavoro di una discendente di questi antenati, l’antropologa linguista Eleanor Ochs, il cui libro Living Narrative (Ochs & Capps, 2001), scritto con la defunta

“Living narratives,” as Ochs and Capps call them, are what happen when people come together to “build accounts of life events.”

“[N]arrators are often bewildered, surprised, or distressed by some unexpected events and begin recounting so that they may draw conversational partners into discerning the significance of their experience. Or, narrators may start out with a seamless rendition of events only to have conversational partners poke holes in their story. In both circumstances, narratives are shaped and re-shaped turn by turn in the course of conversation” (2001: 2).

This is quite different from polished finished stories, coherent examples, or stories with a beginning, a middle and an end built on a narrative spine of chronology and cause. The narratives Ochs and Capps want to deal with, stories that arise spontaneously in ordinary conversation, aren’t so neat: “….conversational narrative will include questions, clarifications, challenges and speculations” (2001:19).

Ochs and Capps don’t want  to ignore smooth traditional narratives or pretend they don’t exist; they want to broaden the framework that includes them so that we don’t forget the messy end of the spectrum, the more frequent one, the end that contains the kind of sensemaking that Weick is after.

How do they create such a framework, one that includes both living narratives and polished performances? They outline five dimensions of narrative that show the  difference between a smooth,

Lisa Capps, offre concetti per un’analisi fondata della creazione di senso e per le complicazioni connesse al concetto di narrazione che stiamo cercando. Le «narrazioni vive», come le chiamano Ochs e Capps, sono ciò che avviene quando le persone si riuniscono per «fare un resoconto di eventi di vita reale».

[N]arrators are often bewildered, surprised, or distressed by some unexpected events and begin recounting so that they may draw conversational partners into discerning the significance of their experience. Or, narrators may start out with a seamless rendition of events only to have conversational partners poke holes in their story. In both circumstances, narratives are shaped and re-shaped turn by turn in the course of conversation (2001:2).

È qualcosa di molto diverso dalle storie lineari e perfette, dagli esempi concreti, o dalle storie con un inizio, una parte centrale e una fine costruite su una spina dorsale narrativa di cronologia e causa. Le narrazioni che Ochs e Capps vogliono trattare, ovvero storie che nascono spontaneamente nelle conversazioni di tutti i giorni, non sono così chiare: «…conversational narrative will include questions, clarifications, challenges and speculations» (2001:19).

Ochs e Capps non intendono ignorare le fluide narrazioni tradizionali, né far finta che non esistano. Vogliono ampliare la struttura che le contiene in modo da non dimenticare l’estremo disordinato dello spettro, quello più frequente, che contiene il tipo di creazione di senso che cerca Weick.

 

polished story and a rough story in media res. The five dimensions are:

1.   tellership;

2.   tellability;

3.   embeddedness:

4.   linearity; and

5.    moral stance.

Polished and smooth narratives cluster on the left hand side of the scales defined by the five dimensions. A life history that I gathered years ago, for example, was on the smooth end. It involved only one active teller and a story with guaranteed tellability – he’d told it many times and knew that audiences liked it. The narrative was not embedded in another event – it didn’t come up while doing something else; rather, the situation was organized around the telling itself. The narrative was linear, a neat sequence of cause and effect in a story that had a clear beginning, middle and end. And it had a constant moral stance – in the case I’m thinking of here, an arc of character development from down-and-out and alone to sophisticated and socially connected.

Narratives relevant to an organization can also be found at the polished and smooth end of the scale as well. For example, in her chapter in a recent overview of discourse analysis, Charlotte Linde writes of the stories organizations tell to teach employees “how Come sono riuscite a creare una simile struttura, una struttura che includa sia le narrazioni vive che le storie lineari? Delineando cinque dimensioni della narrazione che mostrano le differenze tra una storia fluida, lineare e una storia allo stato grezzo, in medias res. Le cinque dimensioni sono:

  1. narratori
  2. raccontabilità
  3. integrazione
  4. linearità e
  1. atteggiamento morale.

Le narrazioni scorrevoli e lineari sono raggruppate al lato sinistro delle scale definite dalle cinque dimensioni. Una storia di vita che ho raccolto anni fa, per esempio, andava collocata tra le narrazioni fluide. Aveva un solo narratore attivo e una storia con una raccontabilità garantita – l’aveva raccontata molte volte e sapeva che al pubblico piaceva. La narrazione non era integrata in un altro evento – non spuntava fuori mentre si stava facendo altro; al contrario, la situazione ruotava attorno al narratore stesso. La narrazione era lineare, una chiara sequenza di causa ed effetto in una storia che aveva un inizio, una parte centrale e una fine ben definiti. E aveva un atteggiamento morale costante – nel caso di cui sto parlando, un arco di sviluppo del carattere da solo e senza una lira a sofisticato e socialmente inserito.

All’estremità scorrevole della scala si possono trovare anche narrazioni relative a un’organizzazione. Per esempio, nel capitolo con una  panoramica  sull’analisi  del  discorso,  Charlotte  Linde  scrive a

 

 

things are done around here” (Linde, 2001). In her work, a polished and frequently told story promotes equilibrium rather than elaborating on change. This, like the life history narrative, is a perfectly reasonable use of the narrative concept, but it is obviously not what I’m after in this article, nor is it the kind of narrative that Ochs and Capps want to describe.

Now consider the other end of the scale, the right-hand side more typical of living narratives. Many tellers rather than just one. Several people try to tell the same story, interrupting and contradicting each other, elaborating on what one another says, etc. The story probably focuses on surprising news – tellable in that sense – but the news isn’t worked out and the conversation skids into known and even boring side-issues. The narrative is embedded in another situation, part and parcel of what’s going on even as it is being told, rather than a special event where an audience sits and listens. It will be nonlinear rather than linear, drifting and wandering around and looping back onto itself. And all those co-tellers may well dispute the moral evaluation of what is said – one thinks it’s funny, another sad, a third evil, and a fourth disgusting beyond belief.

Sensemaking  lies towards this right hand side of  the scale, the ‘living’ side, unplanned and occasioned rather than a bounded practiced performance.

 

proposito delle storie che le organizzazioni raccontano per insegnare ai dipendenti «come si fanno le cose da queste parti» (Linde, 2001). Nel suo lavoro, una storia scorrevole e raccontata spesso promuove l’equilibrio piuttosto che lavorare sul cambiamento. Questo, così come la narrazione di una storia di vita, è un uso perfettamente ragionevole del concetto di «narrazione», ma non è ovviamente quello che voglio trattare in questo articolo, né è il tipo di narrazione che Ochs e Capps vogliono descrivere.

Consideriamo ora l’altra estremità della scala, quella a destra, più tipica delle narrazioni vive. Ci sono più narratori invece di uno solo. Molte persone cercano di raccontare la stessa storia, interrompendosi e contraddicendosi l’un l’altro, approfondendo quello che l’altro dice, ecc. La storia si concentra probabilmente su una notizia sorprendente – raccontabile in quel senso – ma la notizia non viene elaborata e la conversazione scivola verso questioni secondarie, conosciute e addirittura noiose. La narrazione si incastra in un’altra situazione, parte essenziale di quello che sta accadendo proprio mentre viene raccontata, anziché essere un evento speciale in cui c’è un pubblico seduto che ascolta. Sarà non lineare, invece che lineare, sarà trascinata qua e là dalla corrente e si riavvolgerà su se stessa. E tutti quei conarratori possono anche non essere d’accordo sulla valutazione morale di ciò che viene detto – uno lo considera divertente, un altro triste, un terzo malvagio e un quarto disgustoso al di là di ogni immaginazione.

La creazione di senso  si  trova  nella parte destra della scala, la

 

 

 

But that isn’t the only lesson to draw from Ochs and Capps’s work, not to mention from the rest of the tradition of discourse research. I want to shift now  to some consequences of the match. Of what use is it to conclude that sensemaking is living narrative?

Consider  the hierarchical, ‘command and control’ structures where – in the worst parody – one does not speak unless spoken to, and then only to agree with what was just said. Ochs and Capps’s narrative dimensions help see a bit more clearly what has to happen to open up the hierarchical controlled space into something different.

The smooth and polished end of Ochs and Capps’s narrative scale is more like what you’d expect in a command and control organization. One teller runs the show. A narrative is tellable because the teller says so. It  is not embedded in what  the listener is doing – listeners stop what they’re doing and gather around and listen. The story will be nice and linear, the clear and certain causal analysis you’d expect from the top of the hierarchy. The moral tone will be clear; no ambiguity or discussion allowed.

Contrast this with a sensemaking organization. We’d hear many people collectively making the story; we’d hear contradictions and interruptions.

 

 

parte “viva”, non pianificata e causata, piuttosto che una rappresentazione esercitata e limitata. Ma questa non è l’unica lezione che si può ricavare dal lavoro di Ochs e Capps, così come dal resto della tradizione della ricerca sul discorso. Ora voglio passare a trattare alcune conseguenze di questa combinazione. A cosa serve concludere che la creazione di senso è una narrazione viva?

Considerate le strutture gerarchiche di «comando e controllo», dove, nel peggiore dei casi, una persona non parla se non le viene rivolta la parola e, in quel caso, lo fa solo per assentire con quanto è stato appena detto. Le dimensioni narrative di Ochs e Capps aiutano a capire un po’ meglio cosa deve accadere per aprire questo spazio gerarchico controllato e trasformarlo in qualcosa di diverso.

L’estremità lineare e perfetta della scala narrativa di Ochs e Capps assomiglia molto di più alla situazione che ci si aspetta di trovare in un’organizzazione basata sul comando e sul controllo. Un narratore conduce l’incontro. Una narrazione è raccontabile perché lo dice il narratore. Non è integrata in quello che l’ascoltatore sta facendo. Gli ascoltatori interrompono quello che stanno facendo e si raccolgono intorno al narratore per ascoltarlo. La storia è piacevole e scorrevole, l’analisi causale chiara e sicura che ci si aspetterebbe dal vertice della gerarchia. L’atteggiamento morale è chiaro; non sono concesse ambiguità o discussioni.

Ora contrapponetela a un’organizzazione basata sulla creazione di senso. In quel caso, ascolteremmo  molte  persone che danno vita

 

Several people would be tellers. We would hear tellability questioned and justified. Embeddedness would vary. Several people would be tellers. We would hear tellability questioned and justified. Embeddedness would vary. Some tellings might occur in the middle of the situation that was the topic – “See, look at that, what did I tell you?” Others might happen during a break, or even in a meeting where the topic was a featured agenda item, or maybe the agenda item. Linearity – cause and effect and sequence – would be a goal, not a guideline for how to reach it. And sensemaking might end with multiple possibilities or open questions, things to be looked for and thought about between that telling and the next. Same with the moral tone – disagreement and ambiguity would abound in the beginning. In the end, rather than a clear moral tone, it might be a “does the good outweigh the bad” kind of dilemma, maybe a dilemma that would keep a few people awake that night, maybe for the rest of their lives.

We now push down a level and look under the hood. Consider the tellers first. Sensemaking is social discourse, talk with others, a collective enterprise where agreement and disagreement from participants shape the stories that emerge. There are multiple tellers. How do they co-ordinate what they are doing?

If we look closely, we see that some discourse mechanisms are, in fact, about the micro-politics of the group – who gets to tell what when?

 

a una storia in modo collettivo; ascolteremmo contraddizioni e interruzioni. I narratori sarebbero numerosi. La raccontabilità sarebbe messa in discussione e giustificata. L’integrazione varierebbe. Alcuni racconti potrebbero nascere nel mezzo della situazione che era l’argomento centrale. «Hai visto, guarda, che ti avevo detto?». Altri potrebbero prendere avvio durante una pausa o addirittura durante una riunione in cui l’argomento era un punto all’ordine del giorno, o forse proprio l’ordine del giorno. La linearità – causa ed effetto e sequenza – sarebbe l’obiettivo e non una linea guida su come raggiungerlo. E la creazione di senso potrebbe terminare con molteplici possibilità o domande aperte, questioni da ricercare e su cui riflettere tra quella narrazione e la successiva. E lo stesso vale per il tono morale. All’inizio prevarrebbero disaccordo e ambiguità. Alla fine, invece di un tono morale ben chiaro, ci sarebbe un dilemma del tipo «il bene conta più del male?», forse un dilemma che terrebbe sveglio qualcuno quella notte, forse per il resto della sua vita.

Ora scendiamo di un gradino e andiamo più in profondità. Per prima cosa consideriamo i narratori. La creazione di senso è un discorso sociale, una conversazione con altri, un’iniziativa collettiva dove l’accordo e il disaccordo tra i partecipanti danno forma alle storie che emergono. Ci sono diversi narratori. Come coordinano quello che stanno facendo?

Se osserviamo più attentamente, notiamo che alcuni meccanismi  del  discorso  riguardano, di fatto,  le micropolitiche  del

 

For example, one of the foundational concepts of conversational analysis is ‘turn-taking’. In a multi-teller conversation, no formal rules specify who speaks when. Turns have to be negotiated.

Now imagine we look at some transcripts of a sensemaking session. Look at the details. How are the turns worked out? It is normal for there to be overlaps and multiple speakers as people try to get the floor. Overlaps that occur at ‘possible completion points’ are more egalitarian than a heavy-handed takeover when a speaker is in mid-utterance. There may well be a dominant figure or two, but do they moderate or do they control? Who gets the floor when, and once gotten, do they ever give it up?

Smooth turn-taking is diagnostic of good sensemaking, since a characteristic of sensemaking is multiple tellers building a story out of their different points of view. Turn-taking reveals whether the sensemaking is a dictator looking for an audience or a group co-operating to make sense of something.

Turn-taking might show that what is supposed to be going on is in fact the opposite of what is actually going on. Consider the endless stream of articles that describe how a ‘new’ management model has failed. Typically the new model pushes in the direction of opening up space for sensemaking  in a strongly hierarchical system.

 

gruppo: a chi tocca dire cosa e quando? Ad esempio, uno dei concetti fondamentali dell’analisi della conversazione è il «meccanismo dell’alternanza». In una conversazione con diversi narratori, non ci sono regole formali che stabiliscono chi parla e quando. I turni vanno negoziati.

Ora immaginiamo di leggere le trascrizioni di una sessione di creazione di senso. Guardiamo i dettagli. Come funziona l’alternanza? In questa situazione è normale che ci siano sovrapposizioni e più locutori, perché in molti cercano di inserirsi nella conversazione. Sovrapposizioni che si verificano in «possibili fasi conclusive» sono più egualitarie di interventi invasivi nella fase in cui un oratore è nel bel mezzo del discorso. Ci potrebbero essere una o due figure dominanti, ma queste moderano o controllano? Chi prende la parola, quando, e una volta ottenuta, la cede mai?

Una fluida alternanza è sintomo di una buona creazione di senso, poiché una delle caratteristiche della creazione di senso è la presenza di vari narratori che costruiscono una storia sulla base dei loro diversi punti di vista. L’alternanza rivela se la creazione di senso è un dittatore alla ricerca di un pubblico o un gruppo che collabora per dare senso a qualcosa.

L’alternanza potrebbe dimostrare che quello che si suppone stia accadendo è di fatto l’opposto di quello che sta effettivamente accadendo. Considerate l’infinita serie di articoli che descrivono come un “nuovo” modello di gestione sia fallito. Solitamente, il nuovo modello spinge nella direzione di aprire uno spazio alla creazione di senso in un sistema fortemente gerarchico.

 

It advocates a move away from command and control. So, one day the new model is announced to be in place. But a close look shows that, in reality, hierarchy and command and control continue when actual discourse is underway. To use Argyris’s (1993) terms, the ‘espoused theory’ changes on the surface, but the ‘theory-in-use’ stays the same.

Turn-taking, that narrowly defined academic concept, evaluates whether there are really multiple tellers or not. Just listen or, better, comb the details of a transcript or two. The way turns are organized will be a clear diagnostic of whether an organization co-evolving or chain-of-command.

There are other potential diagnostics as well. Consider the adjacency pair, couplets found in every language, like “how you doing?” and “just fine, thanks.” If someone uses the first part of an adjacency pair, then someone else is required to perform the second part. If they don’t, the failure is interpreted as a breach, an expression of bad intentions. Particularly important here is the question/answer adjacency pair. If someone asks a question, it sets up a linguistic  imbalance that demands to be restored with an answer. But who is asking the question? The same person, over and over again? Perhaps many are talking during a sensemaking session, so it sounds like multiple tellers.  But  if  the  same  person  is always asking a question, s/he  is  limiting  and directing  what  it is the next

 

 

Sostiene un allontanamento da comando e controllo. Così, un giorno viene annunciato che il nuovo modello è operativo. Tuttavia, un esame più attento rivela come, in realtà, quando si fanno discorsi veri, la gerarchia, il controllo e il comando continuino. Per usare i termini citati da Argyris (1993), la «teoria sposata» cambia in superficie, ma la «teoria in uso» continua a essere la stessa.

L’alternanza, quel concetto accademico definito in senso stretto, valuta se ci siano davvero vari narratori o no. Ascoltate, o meglio esaminate con attenzione i dettagli di una o due trascrizioni. Il modo in cui si alternano gli interlocutori mostra chiaramente se un’organizzazione si sviluppa in gruppo o subisce il peso del comando.

Ci sono altri potenziali indizi al riguardo. Considerate le coppie adiacenti, quelle sequenze di due enunciati presenti in ogni lingua, tipo «Come va?» e «Bene, grazie». Se qualcuno utilizza il primo enunciato di una coppia adiacente, qualcun altro deve replicare con il secondo. Se ciò non accade, questo viene interpretato come un’infrazione, un’espressione di cattive intenzioni. In questo caso, è particolarmente importante la coppia adiacente domanda/risposta. Se qualcuno pone una domanda, si crea uno squilibrio linguistico che richiede una risposta di riequilibrio. Ma chi pone la domanda? La stessa persona più volte? Forse più persone stanno parlando durante una sessione di creazione di senso, così si potrebbe pensare che si tratta di vari narratori. Ma se a porre la domanda è sempre la stessa persona,  sta  limitando  e  controllando quello che potrà dire l’altra.

 

 

person can say. Q/A adjacency pairs – like turn-taking – control the topic, and control over topic is control over how and in what terms sense will be made.

Now let’s move from tellers to tellability, the second narrative dimension that Ochs and Capps describe. A traditional narrative is made to tell. It is supposed to be tellable by definition. A living narrative,  though, has to earn its tellability.

Tellability links to the question, “is it news?” Tellable means inspired by some event that departs from expectations, ranging from something astonishing and incomprehensible to something that was a mild surprise. More often than not, the news is bad, not good. To paraphrase a line from Tolstoy, happy families are all the same, but each unhappy family is unhappy in its own way.

If I tell a story that begins, “The  funniest thing happened this morning. I woke up, went into the bathroom, and brushed my teeth,” I doubt that any co-tellers within range will be  inspired to join in. The story is much too routine to be tellable. On the other hand, if I open with “I started to brush my theeth and the toothpaste tube was full of fire ants,” co-tellers would jump into the story with their views as to how and why such a thing could happen.

 

 

Le coppie adiacenti domanda/risposta, così come l’alternanza, controllano l’argomento, e avere il controllo sull’argomento significa avere il controllo su come e in quali termini si crea il senso.

Spostiamoci ora dai narratori alla raccontabilità, la seconda dimensione narrativa descritta da Ochs e Capps. Una narrazione tradizionale è fatta per raccontare. Si suppone che sia raccontabile per definizione. Una narrazione viva, invece, deve guadagnarsi la sua raccontabilità.

La raccontabilità si collega alla domanda «È qualcosa di nuovo?» «Raccontabile» significa ispirato da un certo tipo di evento che è lontano dalle aspettative, che spazia da qualcosa di straordinario e incomprensibile a qualcosa che suscita sorpresa. Molto spesso si tratta di una brutta notizia più che di una bella. Per citare una frase di Tolstoj «Tutte le famiglie felici sono felici allo stesso modo, ogni famiglia infelice è infelice a modo proprio».

Se racconto una storia che comincia con «Questa mattina è successa una cosa buffissima. Mi sono svegliato, sono andato in bagno e mi sono lavato i denti», dubito che qualche co-narratore sarà ispirato a partecipare. La storia è troppo «normale» per essere raccontabile. Se invece comincio con «Ho cominciato a lavarmi i denti e il tubetto di dentifricio era pieno di formiche rosse», i conarratori si tufferebbero nella storia con le loro opinioni su come e perché sia potuta accadere una cosa simile.

 

 

The occurrence of a low probability event is high in information – it is ‘news’ – and around this simple fact is built much of literature, the daily paper, ethnographic method, and sensemaking. Sensemaking becomes the way that its members notice and explain those events. This higher frequency of surprises is a major reason why models for organizational complexity have grown in popularity. The models – sensemaking among them – are an organizational survival strategy for an increasingly connected world.

Where do we see tellability in discourse? Tellability’ links to traditional discourse notions of ‘given’ and ‘new’ information. Discourse has to reach the right balance of the two, in sequences of given and new, where the ‘given’ at time 2 might in fact have been the ‘new’ at time 1. Too much ‘new’ and  the discourse is incomprehensible; too much ‘given’ and it’s boring.

In a group who have a history, shared experiences will have produced a local ‘language’ together with  the connected assumptions and shared background required to understand it. I call this mixture ‘languaculture’ (Agar, 1995). Given and new are measured against this shared background.

The proper mix of given and new is a serious issue for organizational sensemaking. ‘Given’ in one corner of the organization

 

Il verificarsi di un evento a bassa probabilità è molto frequente nell’informazione, si tratta di qualcosa di “nuovo”, e intorno a questo semplice fatto si costruisce gran parte della letteratura, dei giornali quotidiani, del metodo etnografico e della creazione di senso. La creazione di senso diventa il modo in cui le persone osservano e spiegano quegli eventi. La maggiore frequenza di sorprese è una delle principali ragioni per cui è cresciuta la popolarità dei modelli per la complessità di un’organizzazione. I modelli, e la creazione di senso è una di questi, rappresentano una strategia di sopravvivenza dell’organizzazione all’interno di un mondo sempre più collegato.

Dove troviamo la raccontabilità all’interno del discorso? La «raccontabilità» si collega ai concetti del discorso tradizionale di informazioni «note» e «nuove». Il discorso deve raggiungere il giusto equilibrio tra le due, in sequenze di noto e nuovo, in cui il «noto» nella fase 2 potrebbe di fatto essere stato il «nuovo» nella fase 1. Troppo «nuovo» e il discorso diventa incomprensibile; troppo «noto» ed è noioso.

In un gruppo con una storia, le esperienze condivise hanno prodotto una «lingua» locale insieme agli assunti a essa collegati e a un background condiviso indispensabile per capirla. Chiamo questo mix «linguacultura» (dal termine «languaculture»; Agar, 1995). Il noto e il nuovo vengono misurati in base a questo background condiviso.

 

 

might well be ‘new’ in another. Tellable in one corner might be boring in another. Sensemaking will vary depending on the languaculture that a group of co-tellers share. The right balance must be truck.

Now let’s look at ‘tellable’ from a different angle. Say that a surprising event has produced a tellable story, where tellable means ‘news’ to all the participants. And say that a group of co-tellers sets out to collectively make sense of it. Is it also a tellable topic? Is it is something one dares say out loud? Will the organization allow sensemaking at all?

It is now a cliché, given what we’ve learned from giants such as Foucault and fields such as critical linguistics(Fairclough, 1989), to say that there are limits on what may be said. Ideological walls around the tellable buttressed by power are as much a part of an organization as they are of a society.

Now let me bring the issue down to a more interpersonal level. Can a teller take the tellable news’ and explore it with co-tellers in any way he or she chooses? If topics s/he wants to add to the sensemaking stew are more personal, more damaging, more harmful, is s/he willing to say them in front of others in the organization?

 

Il giusto mix tra noto e nuovo è una questione seria per la creazione di senso in un’organizzazione. Il «noto» in un angolo dell’organizzazione potrebbe essere benissimo «nuovo» in un altro. Quello che è raccontabile in un angolo potrebbe risultare noioso in un altro. La creazione di senso varia a seconda della linguacultura condivisa da un gruppo di conarratori. Occorre centrare il giusto equilibrio.

Ora consideriamo ciò che è «raccontabile» da un altro punto di vista. Diciamo che un evento sorprendente ha prodotto una storia raccontabile, nella quale per «raccontabile» s’intende «nuova» a tutti i partecipanti. Diciamo anche che un gruppo di conarratori si prepara a trovarvi collettivamente un senso. Si tratta di un argomento raccontabile? È qualcosa di cui si ha il coraggio di parlare ad alta voce? L’organizzazione permetterà la creazione di senso?

Considerato quello che abbiamo imparato da titani come Foucault e da campi quali la linguistica critica (Fairclough, 1989), dire che ci sono limiti al dicibile è un cliché. Le mura ideologiche erette, con il sostegno del potere, intorno a ciò che è raccontabile sono parte di un’organizzazione tanto quanto di una società.

Ora permettetemi di portare la questione a un livello più interpersonale. Un narratore può prendere il «nuovo» raccontabile e analizzarlo insieme ai conarratori in qualsiasi modo scelga di farlo? Se gli argomenti che desidera aggiungere allo stufato della creazione di senso sono più personali, più dannosi, più pericolosi, è pronto a enunciarli di fronte agli altri all’interno dell’organizzazione?

Trust is critical here (Kramer & Cook, 2004). In an organization, trust among a group of potential co-tellers increases what can be told and enriches the space within which sensemaking can emerge.

We know a few things about trust. A scheduled sensemaking session with people who have never dealt with each other before and never will again would guarantee low trust, by this account. A group that has worked together for awhile is more  likely to have established trust than a team of strangers, though they may have established plenty of negative things as well, like a motive for revenge.

There is some evidence that a group bonded under shared circumstances of risk and uncertainty will yield a higher degree of trust as well. We know trust is supported when all parties see some purpose or value in maintaining the relationship. A shared incentive whose attainment benefits all would increase trust. But what kind of incentive?

Tellability  turns out  to be a many-splendored thing. It first of all links to the discourse concern with the proper distribution of given and new information. More than this, it links the ‘new’ with the unexpected, the surprise, the out of the ordinary, as featured in both the organizational development work based on complexity and in the linguistic work of Ochs and Capps. But then once a low probability event opens up a space for multiple tellers to do some creative sensemaking, we need to worry about the boundaries around that space.

Qui la fiducia è cruciale (Kramer & Cook, 2004). In un’organizzazione, la fiducia tra un gruppo di potenziali conarratori aumenta ciò che può essere detto e arricchisce lo spazio entro il quale può emergere la creazione di senso.

Sulla fiducia sappiamo alcune cose. Una sessione programmata di creazione di senso con persone che non hanno mai avuto a che fare le une con le altre prima, e che non lo faranno nemmeno in futuro, garantisce un basso livello di fiducia. È più probabile che si crei fiducia in un gruppo che lavora insieme da un po’ di tempo che non in un team di sconosciuti, anche se possono essere vissute numerose esperienze negative che alimentano un desiderio di vendetta.

Esistono evidenze che mostrano come anche un gruppo che condivide le stesse situazioni di rischio e incertezza può produrre un livello maggiore di fiducia. Sappiamo che la fiducia si rafforza quando tutte le parti perseguono uno scopo o un valore nel mantenere vivo il rapporto. Un incentivo condiviso, il cui conseguimento avvantaggia tutti, aumenta la fiducia. Ma che tipo di incentivo?

La raccontabilità si rivela una cosa meravigliosa. Per prima cosa collega l’interesse del discorso alla giusta distribuzione tra informazioni note e nuove. Soprattutto lega il «nuovo» con l’inaspettato, la sorpresa e ciò che è fuori dal comune, come risulta sia nel lavoro di sviluppo dell’organizzazione basato sulla complessità che nello studio linguistico di Ochs e Capps. Tuttavia, quando un evento a bassa probabilità  lascia spazio a narratori  diversi  per  la How open is it, really? We want new stories to emerge. Can they? Are they allowed to?

Two major constraints here are the ideological limits and the limits set by trust within the group doing the sensemaking. The first constraint is buttressed by power, which boils down to direct control over one’s job. The second is sanctioned by others in the group – are they likely to use what they learn to advance their own interests and/or damage the standing of others? I don’t mean to be negative here, because the notion of innovative stories emerging from collective telling has strong appeal. But experience tells me that the two constraints of organizational ideology and low trust tend to keep things inside traditional topic frameworks, and as a result keep  things pretty dull and uncreative. Careful listening, or reading of a transcript, will reveal whether sensemaking is able to merge with the tellable, or whether the tellable is buried in old information or ruled out of bounds by ideological or interpersonal fears.

Now to embeddedness, the third dimension of narrative. At one end of the scale, a narrative is a special performance. The narrative is the event – people gather around to hear the expert tell the story. But as we move to the other end of  the scale, the ‘living narrative’ end, a story might come up while a group is doing something else. The narrative emerges as part of some other event, plays a role in it, and when it ends the event goes on. Living narrative is part and parel of the flow of life, unscheduled, often about the very thing that people are doing when they tell it.

creazione di senso, dobbiamo preoccuparci dei confini di tale spazio. Quanto è davvero aperto? Vogliamo che emergano nuove storie. Possono farlo? Avranno accesso?

Due dei principali ostacoli sono i limiti ideologici e i limiti fissati dalla fiducia all’interno del gruppo impegnato nella creazione di senso. Il primo ostacolo è rafforzato dal potere, che consiste nel controllare direttamente il proprio lavoro. Il secondo è invece sancito da altri nel gruppo – è probabile che usino ciò che hanno appreso per favorire i propri interessi e/o danneggiare la posizione altrui? Non voglio essere negativo, perché il concetto di storie innovative che emerge dal racconto collettivo ha un enorme fascino. Ma l’esperienza mi insegna che i due limiti dell’ideologia dell’organizzazione e la scarsa fiducia tendono a mantenere le cose entro schemi tradizionali, e, di conseguenza, a mantenerle piuttosto monotone e poco creative. L’ascolto attento o la lettura di una trascrizione rivela se la creazione di senso può fondersi con il raccontabile, se il raccontabile è sepolto sotto vecchie informazioni o se invece paure ideologiche o interpersonali gli vietano l’accesso.

Passiamo all’integrazione, la terza dimensione della narrazione. A un’estremità della scala, la narrazione è un fatto speciale. La narrazione è l’evento – le persone si radunano per ascoltare l’esperto che racconta la storia. Se però ci spostiamo all’altra estremità della scala, l’estremità della «narrazione viva», una storia potrebbe spuntare fuori mentre un gruppo sta facendo altro. La narrazione emerge  nell’àmbito  di qualche  altro evento,  svolge  un ruolo al suo

 

Living narrative is part and parel of the flow of life, unscheduled, often about the very thing that people are doing when they tell it.

For organizational sensemaking, a story is highly embedded by definition. People in organization build stories to make sense of unexpected events that impact on the organization. Sensemaking is part of organizational life, not a separate special event. The most important narratives from an organizational development point of view are embedded narratives.

A concept from the tradition of anthropological  linguistics helps see the embeddedness of a story. That concept is ‘indexicality’ (Duranti, 1997). Indexicality ties the surface of language to context – the people involved, the tasks  they are engaged in, their shared experiences in  the organization, virtually anything available in the moment when discourse is produced.

The most obvious kind of  indexicality occurs with so-called ‘deixis’, the way that pronouns like ‘this’ or ‘that’ point directly to context, or the way that words like ‘bigger’ and ‘smaller’ presuppose an established  frame of reference – “bigger or smaller than what?” – or the way  that phrases like “you know” point to immediately relevant and shared background knowledge. But indexicality can also mean the way that language points into  the realm of any ‘given’ information that a speaker assumes that others have, any background  knowledge  that  results  from  shared experience in the organization, or shared experience outside it.

interno, e una volta terminata, l’evento prosegue. La narrazione viva è parte integrante del flusso della vita, non è programmata, e spesso riguarda proprio quello che le persone stanno facendo mentre la raccontano.

Per la creazione di senso dell’organizzazione, una storia è fortemente integrata per definizione. Le persone all’interno dell’organizzazione costruiscono storie per trovare un senso a eventi inaspettati che hanno impatto sull’organizzazione stessa. La creazione di senso fa parte della vita dell’organizzazione; non è un evento speciale separato. Le narrazioni più importanti dal punto di vista dello sviluppo dell’organizzazione sono narrazioni integrate.

Un concetto preso dalla tradizione della linguistica antropologica aiuta a trovare l’integrazione di una storia. È il concetto di «indicalità» (Duranti, 1997). L’indicalità lega la superficie della lingua al contesto – le persone coinvolte, i compiti in cui sono impegnati, le loro esperienze condivise all’interno dell’organizzazione, quasi ogni cosa disponibile nel momento in cui viene prodotto il discorso.

Il tipo più ovvio di indicalità avviene con la cosiddetta «deissi», ovvero il modo in cui pronomi come «questo» o «quello» indicano direttamente il contesto, o il modo in cui parole quali «più grande» o «più piccolo» presuppongono una struttura di riferimento prestabilita – «più grande o più piccolo di cosa?» – o ancora il modo in cui frasi quali «vero?» indicano immediatamente conoscenze pregresse rilevanti e condivise. Ma l’indicalità può anche significare come la lingua fa riferimento al contesto di qualsiasi informazione “nota” che un parlante presume gli altri conoscano, ovvero qualsiasi conoscenza

 

 

Here we link back to the discussion of ‘given’ and ‘new’ in the previous section.

Embeddedness describes a number of different connections between an organization and sensemaking. At the narrow end, it means the way specific discourse particles point directly to the setting where the speaking is underway. At the broad end, it means the way the discourse indexes a shared background for its understanding. But in all its uses, embeddedness asks, did  the sensemaking arise as part of the flow of an event? Once again, an outsider can  tell  from  the details of the language through which sense was made.

The fourth dimension of narrative is linearity, a concept that emphasizes the causal links that glue traditional narratives together. There is a famous line from Chekhov – if a shotgun is hanging over the fireplace in Act I, it had better go off by Act III. Chekhov’s message is, everything that goes into a story must play some role, from complication through development to resolution. Point to a scene in a story and ask, “What is this doing here?” and there must be an answer in terms of the story as a whole. A narrative, the traditional kind, is a finely crafted thing.

 

pregressa che risulta dall’esperienza condivisa all’interno dell’organizzazione oppure al di fuori. E qui ci colleghiamo nuovamente alla discussione sul «noto» e «nuovo» della sezione precedente.

L’integrazione descrive una serie di collegamenti diversi tra un’organizzazione e la creazione di senso. All’estremità stretta, indica il modo in cui specifiche parti del discorso puntino direttamente allo scenario in cui si sta svolgendo il discorso. All’estremità più ampia significa il modo in cui il discorso indica un background condiviso, necessario per la sua comprensione. Qualunque sia il suo uso, l’integrazione domanda: la creazione di senso nasce nell’àmbito del flusso di un evento? Ancora una volta, un esterno può rispondere osservando i dettagli della lingua attraverso i quali si è creato il senso.

La quarta dimensione della narrazione è la linearità, concetto che enfatizza i collegamenti causali che tengono insieme le narrazioni tradizionali. Come sostiene Čehov in una sua famosa frase: se all’inizio dello spettacolo vedi un fucile sopra il camino, stai sicuro che sparerà prima della fine del terzo atto. Il messaggio di Čehov è: tutto ciò che entra a far parte di una storia deve avere un ruolo, dalla complicazione alla soluzione, passando attraverso lo sviluppo. Indica una scena in una storia e chiedi: «Cosa succede lì?» e ci dev’essere una risposta legata alla storia nella sua interezza. Una narrazione, di tipo tradizionale, è qualcosa di finemente lavorato.

 

 

Ochs and Capps compare the smooth linear flow of traditional narrative with how living narrative slips and slides all over the place. The conflict, they write, is between ideal narrative – fixed and polished – and the open-ended and contingent narrative of everyday life. They introduce the concept of ‘sideshadowing’, something typical of living narratives. Sideshadowing occurs because the tellers want to pack in all of  the experience from  the situation that is the source of the story rather than to edit and re-shape experience into a polished narrative. Sideshadowing involves going ‘off on a tangent’, from a traditional narrative point of view, but of ‘covering everything that happened’, from the point of view of those who were there.

What does this mean for sensemaking? As Ochs and Capps suggest, we certainly don’t expect sensemaking to be linear. Yet, as it turns out, there are other kinds of logical links besides time and use.

Sensemaking will lie towards the nonlinear end of Ochs and Capps’s scale. But  to achieve its goals, sensemaking will unfold with competing locally coherent sequences, a mix of linear and non-linear,and it will offer a sequence by one teller that will receive critical and complicating responses from the others. Sensemaking isn’t just brainstorming, though at times it will resemble it. It is brainstorming constrained by and evaluated against an unexpected event that a group is trying to understand, explain, and act on the basis of.

Ochs e Capps paragonano il flusso lineare e scorrevole della narrazione tradizionale al modo in cui la narrazione viva scivola e scorre ovunque. Il conflitto, scrivono, è tra la narrazione ideale – ben definita e pulita – e quella aperta e contingente della vita quotidiana. Introducono poi il concetto di «sideshadowing», qualcosa di tipico delle narrazioni vive. Il sideshadowing si verifica quando i narratori vogliono far entrare tutte le esperienze derivanti dalla situazione che è la fonte della storia, piuttosto che modificare e riformulare le stesse esperienze all’interno di una narrazione lineare. Sideshadowing significa «saltare di palo in frasca», dal punto di vista della narrazione tradizionale, ma anche «descrivere tutto quello che è successo» dal punto di vista di quelli che c’erano.

Cosa c’entra questo con la creazione di senso? Come suggeriscono Ochs e Capps, naturalmente non ci aspettiamo che la creazione di senso sia lineare. Però, come sappiamo, ci sono altri collegamenti logici oltre a tempo e causa.

La creazione di senso si trova, infatti, all’estremità non lineare della loro scala. Tuttavia, per raggiungere il suo scopo, la creazione di senso si sviluppa parallelamente a sequenze opposte, localmente coerenti, un insieme di eventi lineari e non lineari, e offre una sequenza di un solo narratore che riceve reazioni critiche e complesse dagli altri. La creazione di senso non è solo brainstorming, anche se a volte gli assomiglia. È un brainstorming limitato e valutato rispetto a un evento inaspettato che un gruppo sta cercando di capire, spiegare e in base al quale poi agisce.

 

 

The final dimension of the Ochs and Capps narrative model is moral stance. In the traditional narrative, there is usually a “moral o the story,” though that phrase has come to mean most any lesson one takes away, be it moral, practical or anything else. What Ochs and Capps mean is more the traditional idea of morality, the nature of the good – the just society, right action, the values one lives by, the ‘ought’ rather than the ‘is’.

Still,  there is no question that sensemaking will reveal moral stance and disputes over which moral stance is correct.

Adjectives carry a major moral load, as in the old jokes of the form “I am dedicated, you are stubborn, he is pig-headed.” But many other ways to express moral stance are available as well. Actual cases of sensemaking can be analyzed to show their moral stance(s), and we expect sensemaking to show a variety of them. As a group of tellers work to build a sensemaking  fragment  that explains a surprise, different moral  stances come under discussion as to what the surprise meant, why it happened, what it means for the organization, and what to do about it.

It seems immoral to allow a section on moral stance to be so brief compared to earlier discussions of  the other dimensions of a living narrative, especially given recent spectacular cases of  immoral organizations, both private and public.

 

L’ultima dimensione del modello di narrazione di Ochs e Capps è l’atteggiamento morale. Nella narrazione tradizionale c’è di solito una «morale della storia», anche se con questa frase ora si tende a definire qualsiasi lezione si possa ricavare: morale, pratica o di qualsiasi altro genere. Quello che intendono Ochs e Capps è più l’idea tradizionale di moralità, la natura del bene – la società giusta, l’azione corretta, i valori per cui vivere, il «dovrebbe» al posto dell’ «è».

Senza dubbio la creazione di senso svela l’atteggiamento morale e le controversie su qual è l’atteggiamento morale corretto.

Gli aggettivi hanno un peso morale importante, come nelle vecchie barzellette: «Io sono concentrato, tu sei testardo e lui è cocciuto come un mulo». Ma abbiamo a disposizione molti altri modi per esprimere un tono morale. Si possono analizzare casi di creazione di senso per dimostrare il loro atteggiamento morale, e ci aspettiamo che la creazione di senso ne mostri una grande varietà. Quando un gruppo di narratori lavora per creare un frammento di creazione di senso che spieghi una sorpresa, entrano in discussione diversi atteggiamenti morali sul significato della sorpresa, sul perché si è verificata, su cosa significa per l’organizzazione e su cosa fare al riguardo.

Dare così poco spazio alla sezione sull’atteggiamento morale rispetto alle precedenti discussioni sulle altre dimensioni di una narrazione viva sembra immorale, soprattutto considerati i recenti casi spettacolari di organizzazioni immorali, sia private che pubbliche.

 

But the first four dimensions of narrative link to specific aspects of discourse. Moral tone, on the other hand, pervades those aspects and most all of the others.

Should this approach to narrative and story be useful, a next major step will involve linguistic variations among the specific discourse devices described here. Turn-taking – the first example used under ‘tellers’ – always appear, wherever you go, since turns have to be negotiated in living narrative construction. But the way that turn-taking works varies from group to group. Turn-taking in Washington DC, where I lived for many years, is a different breed of cat from turn-taking in New Mexico, where I live now. And shifting from American English to Mexican Spanish involves changes in turn-taking as well. And these examples are just the start of a very long list.

Discourse analysis, of the sort introduced in this article, lays out many of the devices by which sensemaking  is constructed. But work remains to show the different shapes those devices take in the context of different languages and different histories. Sensemaking now needs to be considered in light of other fields, such as second language learning and intercultural communication. But that is a job for another day.

 

Le prime quattro dimensioni della narrazione si legano però a specifici aspetti del discorso. Invece, il tono morale pervade quegli aspetti e la maggior parte degli altri.

Se questo approccio alla narrazione e alla storia si è rivelato utile, un prossimo passo importante riguarda le variazioni linguistiche tra gli specifici meccanismi del discorso descritti qui. L’alternanza – il primo esempio utilizzato nella sezione «narratori» – si riscontra sempre, ovunque, perché nella costruzione di una narrazione viva i turni vanno negoziati. Tuttavia, il modo in cui questa alternanza funziona varia da gruppo a gruppo. L’alternanza a Washington, dove ho vissuto per molti anni, è tutta un’altra storia rispetto all’alternanza nel New Mexico, dove vivo ora. E passare dall’inglese americano allo spagnolo messicano comporta cambiamenti anche nell’alternanza. E questi sono solo alcuni esempi di una lista lunghissima.

L’analisi del discorso, del tipo descritto in questo articolo, spiega molti dei meccanismi su cui si basa la creazione di senso. Restano ancora da illustrare le diverse forme che questi meccanismi assumono nel contesto di lingue diverse e storie diverse. Ora la creazione di senso va considerata alla luce di altri campi, come lo studio di una seconda lingua e la comunicazione interculturale. Ma di questo mi occuperò un altro giorno.

 

 

 

 

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