Aspetti psicologici del processo traduttivo

Aspetti psicologici del

processo traduttivo

CHIARA ZAPPA

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Ottobre 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Chiara Zappa per l’edizione italiana 2012

 

ABSTRACT IN ITALIANO

Il processo traduttivo si svolge per una parte molto consistente  nella mente del traduttore. Si esaminano gli aspetti psicologici del processo traduttivo per indagare le dinamiche mentali del discorso interno coinvolto nella percezione, elaborazione e produzione del testo.

 

ABSTRACT IN ENGLISH

A considerably consistent part of the translating process  occurs in the translator’s head. An analysis of the psychological aspects of this translating process and of the mental dynamics of the inner speech involved in the perception, the elaboration and the production of the text is investigated here.

 

RÉSUMÉ EN FRANÇAIS

Le processus de la traduction se développe surtout dans la tête du traducteur. On examinera l’aspect psychologique du processus de la traduction pour explorer  les dynamiques mentales du discours intérieur intéressé par la perception, l’élaboration et la production du texte.

 

Sommario:

Introduzione

Capitolo 1: La percezione

1.1 – Lev Semënovič Vygotskij

1.2 Bertrand Russell e Roman Jakobson

1.3 George Berkeley

1.4 Sigmund Freud

1.5 Conclusioni

 

Capitolo 2: La rielaborazione

2.1 – Peirce

2.2 – Saussure

2.3 – Lotman

2.4 – Agar

2.5 – Conclusioni

 

Capitolo 3: La resa

3.1 – Pópovič

3.2 – Shannon e Weaver

3.3 – Whorf

3.4 – Eco

3.5 – Conclusioni

 

 

 

Introduzione:

Spesso capita, specialmente ai lettori più accaniti e più aperti ad ogni genere, di recarsi in libreria ad acquistare un libro. Nonostante questo, quasi a nessuno capita di soffermarsi sulle prime pagine stampate di un libro, quelle con le note della casa editrice e, ovviamente nel caso si trattasse di un autore straniero, quella con il nome del traduttore. Io stessa prima di studiare mediazione saltavo a piè pari quelle pagine “inutili”. Questo avviene perché ad ognuno di noi viene naturale trattare ogni tipo di opera che ci è concesso leggere nella nostra lingua madre, come se fosse stata scritta nella stessa. È raro che i profani del campo si soffermino a pensare, leggendo, a quale potrebbe essere la versione originale del testo. Pensando al ruolo del traduttore in questo senso, mi è venuto da domandarmi cosa esattamente conferisca al lettore la sicurezza che si tratti di un testo filologico, oppure, come sia possibile distinguere lo stile dell’autore dall’influenza del traduttore. La mia tesi si focalizzerà proprio sui meccanismi per i quali avvengono queste modifiche del prototesto. Più in particolare sul ruolo che alcuni fattori psicologici, come lo stato d’animo del momento, possono giocare sulla resa finale di un testo. Per poter fare questo, occorre analizzare passo per passo le tre fasi principali del processo traduttivo.

 

Capitolo 1

 

LA PERCEZIONE

1.1 Il primo passo in assoluto che compie un traduttore è leggere il testo originale. Quindi partendo da questo possiamo definire quasi con certezza la lettura come primo processo traduttivo: quando un testo viene letto e assimilato nella mente, avviene un processo di traduzione da un codice di tipo verbale (testo scritto) al codice mentale che Vygotskij chiama linguaggio interno (nel quale viene scritto il testo mentale) (Osimo 2001:9).

« […] il discorso interno deve essere considerato non come un linguaggio meno il suono, ma come una funzione verbale del tutto particolare e originale per la sua struttura e le sue modalità di funzionamento, che proprio perché organizzata in modo del tutto diverso da quello del discorso esterno si trova con quest’ultimo in un’unità dinamica indissolubile nei passaggi da un piano all’altro» (Vygotskij 1990: 363).

Quindi la lettura viene vista come una “deverbalizzazione del testo scritto”. La lettura è già una prima interpretazione involontaria, poiché ciò che viene letto non cade su una tabula rasa, ma su un terreno in fermento, ricco di esperienze e di idee e di provvisori tentativi di capire. Un terreno molto individuale, che dà luogo a interpretazioni soggettive e solo parzialmente condivisibili.

Già questo comporta alcuni problemi per il lettore-traduttore. Per quanto un traduttore possa sforzarsi di leggere un testo con il desiderio di incarnare lo spirito del lettore più generico possibile, essendo un essere umano ha enormi limiti e resta, pur tuttavia, un individuo, dotato di gusti, idiosincrasie, preferenze, antipatie. Il traduttore non può pretendere di negare la propria personalità solo perché poi dovrà tradurre per altri lettori, anche perché questa negazione potrebbe rivelarsi pericolosa (Osimo 2000-2004).

È quindi inevitabile che il lettore, ma in questo caso, il traduttore interiorizzi il concetti e le parole secondo la propria cultura e il proprio bagaglio di conoscenze, oltre ovviamente ad altri fattori quali possono essere lo stato emotivo e l’esperienza. In questo caso, oltre ad una traduzione di tipo interlinguistico, ovvero il cambiamento del codice da una lingua all’altra, avviene una traduzione di tipo “intersemiotico”.

Perciò possiamo riassumere il tutto dicendo che un fattore molto importante nel processo traduttivo, è quello culturale. Lo scopo della traduzione è portare il prototesto che esiste in un cultura da trasformare nel metatesto di un’altra. Il problema è che a prescindere dalla differenza di lingua d’origine, ogni testo diventa un metatesto diverso per ognuno sulla base di gusti, preferenze, esperienze e molto altro.

 

1.2 Sulla percezione delle parole, sono state molte le teorie e le contestazioni, come ad esempio quella di Bertrand Russell, citato da Jakobson, secondo il quale «No one  can understand the word cheese unless he has a nonlinguistic acquaintance with cheese». Russell presuppone che nessuno possa riconoscere la parola se non è parte della propria cultura o della propria esperienza personale diretta. Jakobson contesta questa idea, secondo la teoria che un individuo che non conosca il formaggio, possa comunque comprendere di cosa si tratti semplicemente attraverso una conoscenza in un certo senso “grammaticale” della parola (in questo caso l’esempio è stato quello del latte cagliato). In questo contesto, non ha senso attribuire un significato (signatum) alla cosa in sé e non al segno: nessuno ha mai sentito l’odore né il sapore del significato di «cheese» o di «apple». Il signatum può esistere solo se esiste anche un signum.

« Noi distinguiamo tre modi di interpretazione di un segno linguistico, secondo che lo si traduca in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua, o in un sistema di simboli non linguistici. Queste tre forme di traduzione debbono essere designate in maniera diversa: 1) la traduzione endolinguistica o riformulazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua; 2) la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di un’altra lingua; 3) la traduzione intersemiotica o trasmutazione consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici» (Jakobson, 1966).

Tornando quindi a parlare di lettura, questa può essere scomposta in varie sottofasi: il segno viene percepito dal soggetto; viene riconosciuto come tale e successivamente viene compreso ed entra a fare parte della cultura del soggetto sotto forma di testo mentale. Utilizzando il concetto lotmaniano di semiosfera (che vedremo in seguito), per cui le singole culture interagiscono l’una coll’altra arricchendosi attraverso lo scambio tra la propria cultura e quella altrui, si può considerare la lettura, al termine del processo, un arricchimento della cultura del soggetto leggente (Osimo 2001:13). La fase di comprensione del segno letto, la semiosi, riguarda quindi l’interazione con la cultura del soggetto, e quindi un aspetto soggettivo e personale. Non si può pensare che esso sia un processo meramente automatico e non interpretativo, conseguentemente identico per qualsiasi sia il soggetto.

 

1.3 George Berkeley è stato un vescovo della chiesa anglicana del 700. Anch’egli ha analizzato il contenuto della nostra “coscienza” ovvero di ciò che fino ad ora, abbiamo chiamato fattori personali e esperienze, e che influiscono sulla nostra percezione del prototesto che dobbiamo tradurre.

La filosofia di Berkeley assume, come punto di partenza, l’empirismo lockiano, nei suoi due elementi fondamentali: il problema critico e la necessità di partire da ciò che immediatamente sperimentiamo. Nonostante Berkeley nutra profonda stima nei confronti di Locke, si distacca dalla suo approccio secondo lui, troppo attaccato alle idee materiali.

Berkeley distingue il percepito e il percipiente, dove il primo è un’idea come oggetto presente nella coscienza e il secondo la mente. Infatti secondo la sua teoria, le idee non hanno niente da aggiungere alla coscienza già esistente, quindi esiste una sola esperienza, quella interiore: sperimentare vuol dire percepire le idee che sono nella nostra mente. L’idea non è che la cosa stessa presente nella mente, con gli stessi caratteri di singolarità e di determinatezza (Lamendola 2007).

Quindi anche secondo Berkeley è da definirsi impossibile avere un’idea che potrebbe considerarsi oggettiva, poiché qualunque carattere diamo all’oggetto del nostro pensiero, proviene forzatamente dalla nostra coscienza interna.

Proprio perché non esiste niente che non sia coscienza interna, Berkeley sostiene che non è possibile comprendere per intero, neanche un discorso che ci viene fatto nella nostra madrelingua. Spesso, per utilizzare una metafora matematica, vi sono delle incognite, ovvero il “residuo” di ciò che si sta dicendo, inserite dal parlante che il ricevente trascina fino alla fine del discorso, nella speranza di riuscire a risolverle una volta giunti al termine.  Molto spesso capita di riuscire a “tappare i buchi” tramite varie congetture o conoscenze proprie, mentre altre volte magari anche per incapacità di esprimersi del parlante stesso, capita di ritrovarsi con delle lacune che rendono il messaggio pressoché incomprensibile.

 

1.4 A livello psicologico è possibile apportare come esempio l’analisi psicoanalitica di Freud. Egli paragona la psiche ad un territorio diviso in regioni, vi sono cioè certe “parti” della mente che si trovano in relazione tra di loro e sono l’inconscio, il preconscio e il conscio (Bernardi, Condolf 2006:81).

La metafora più efficace è quella dall’iceberg in cui l’inconscio sarebbe la parte sotto il libello del mare, il preconscio la zona di galleggiamento e il conscio, la parte in superficie. Essendo l’inconscio la parte nascosta e quindi, non visibile, è possibile che si vengano a creare degli “incidenti”. La psiche dei bambini è composta interamente da inconscio, poiché le altre due zone aumentano e prendono forma crescendo.

  • L’inconscio è il bagaglio di pulsioni di cui dispone ogni individuo e di pensieri e sentimenti inconsci e come tali sconosciuti e non immediatamente raggiungibili dalla coscienza.
  • Il preconscio è la linea di demarcazione che divide conscio da inconscio
  • Il conscio è sinonimo di quanto una persona è consapevole in un determinato momento. Coincide con pensieri, sentimenti, emozioni che sono presenti nell’individuo e sui quali egli può agire con volontà.

Freud ha puntualizzato costantemente che non esistono linee di confine nette tra queste aree, che sono tre aspetti del funzionamento mentale che interagiscono continuamente (Bernardi, Condolf 2006:82).

 

1.5 Conclusioni: Quindi grazie alle teorie finora analizzate possiamo affermare con cognizione di causa, che è impossibile leggere un testo scritto o attivare una qualsiasi percezione senza che già questo primo procedimento venga influenzato da ciò che siamo, che siamo stati o che speriamo di poter diventare. Due persone di due culture diverse, guardando una stessa cosa, vedranno cose diverse.

 

Capitolo 2

 

LA RIELABORAZIONE

Ci troviamo ora ad analizzare la seconda parte del processo traduttivo, che seppure risulti essere la parte più immediata nella mente di un traduttore, nel senso che la rielaborazione mentale di un testo avviene in pochissimi secondi, è comunque la più complessa.

Il traduttore è un lettore anomalo, poiché non è capace di leggere un potenziale prototesto senza pensare – in modo più o meno volontario – a come potrà proiettare questo testo sulla cultura e sulla lingua riceventi, quindi senza pensare ai metatesti possibili. Questo modo di leggere deforma l’atto interpretativo della lettura poiché, oltre a non essere una lettura ingenua, non è nemmeno una lettura critica “normale”. È una lettura in cui si presta molta attenzione alla dominante del prototesto, ci si interroga se possa coincidere o no con la dominante dell’eventuale metatesto, ci si interroga sul potenziale impatto del testo sulla cultura ricevente e si comincia a svolgere l’analisi traduttologica, un’analisi critica molto particolare. Una volta recepito il messaggio scritto, e fatto diventare messaggio non verbale, si arriva alla vera e propria interpretazione (Osimo 2000-2004).

 

2.1 «il solo pensiero che è possibile conoscere è, senza eccezione, il pensiero in segni. Perciò ogni pensiero deve necessariamente essere pensiero di segni» (Peirce. 5.260).

«qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità»  (Peirce. 2.228).

Da queste due citazioni di Pierce si comprende quanto alla fine, tutti i teorici della semiotica concordino sul fatto che una volta estratto dalla carta, il significato di una parola diventi irrimediabilmente soggettivo. A sostegno di ciò, Peirce porta avanti la tesi della «semiosi illimitata» ovvero: qualsiasi segno è passibile di dare il via a una catena teoricamente infinita di interpretazioni e di traduzioni. Tale fuga degli interpretanti teoricamente infinita trova però il suo compimento (almeno transitorio) in un interpretante logico finale. Il processo di significazione di Peirce è un processo di tipo abduttivo, per cui si evince una regola dal risultato che si ottiene. Questo procedimento è analogo a quello che viene effettuato all’interno della mente del soggetto. Dal segno che viene percepito la mente forma un interpretante che cerca di individuare le regole che definiscono il segno e i sistemi di segni che vengono percepiti. Dato che all’interno di un testo vi sarà sempre una parte che rimarrà implicita e che non viene rivelata apertamente dall’autore, si innesca un meccanismo di abduzione (Osimo 2001: 34-37-39).

Questo significa che una volta trasformato il linguaggio scritto in linguaggio interno, il traduttore deve necessariamente reinterpretare tramite abduzione ciò che ha letto per trovare il primo residuo traduttivo di un prototesto, ovvero ciò che è andato perso quando l’autore stesso è passato da linguaggio interno a linguaggio verbale scritto.

Il linguaggio interno è caratterizzato da una sintassi non lineare (linguaggio frammentato) quindi diversa da quella verbale e più simile a quella di un ipertesto con collegamenti multidirezionali e velocissimi (Osimo 2011: 142).

Triade di Peirce:

Nella triade di Peirce:

A

segno

Qualsiasi cosa
percettibile: parola,
sintomo, segnale,
sogno, lettera, frase.
Il segno sta per
l’oggetto, rimanda
all’oggetto. Senza, è
impossibile
conoscere l’oggetto

B

oggetto

Ciò a cui rimanda il
segno. Può essere
percepibile o
immaginabile.
Determina il segno.
Esiste a prescindere
dal segno.

C

interpretante

Segno, pensiero che
interpreta un segno
precedente. Ogni
nuovo interpretante
getta nuova luce
sull’oggetto.

 

Peirce sosteneva che il segno, che noi possiamo identificare come il prototesto, passi per l’interpretante si trova nella mente del traduttore, per poi diventare oggetto. L’interpretante si forma nella mente della persona, in questo caso del traduttore e può essere paragonato ad una palla stroboscopica. Il soggetto, percepisce gli innumerevoli riflessi luminosi e colorati, esattamente come in discoteca, che lo investono, lo sfiorano e perché no, lo abbagliano e corrispondono ai diversi punti di vista dai quali si osserva e alle molte sfumature che una parola può avere. Lo schema successivo evidenzia come una parola possa avere molteplici sensi.

 

Oggetto

O

 

 

Un’interpretazione simile è stata elaborata da Ogden e Richards (1949), ma nella loro versione un simbolo (le parole sono segni sibolici) non rimanda direttamente al referente (l’oggetto extralinguistico che si desidera significare): tale riferimento è mediato da un pensiero di chi codifica (o decodifica). Questo pensiero interpretante non è uguale per tutti, poiché è dettato dall’esperienza soggettive fatte dall’individuo con quel segno, con quell’oggetto e con i segni e gli oggetti a loro mentalmente assimilabili (Osimo 2011:27).

 

2.2 Ci sono molteplici teorie sull’interpretazione delle parole, Ferdinand De Saussure aveva teorizzato un rapporto esclusivamente biunivoco tra la parola e il suo significato.

In antitesi con la teoria “realistica” della lingua, Saussure spiega che il segno linguistico, unisce un “concetto” a una “immagine linguistica”. Su questo presupposto, Saussure distingue tra signifiant (significante) e signifié (significato): il significato è ciò che il segno esprime; il significante è il mezzo utilizzato per esprimere il significato, ovvero l’immagine. Ma il significato e il significante non sono separabili: secondo Saussure, sono come le due facce dello stesso foglio. Ma pur essendo inseparabili, il rapporto tra i due è arbitrario: ciò è dimostrato dal fatto che, per esprimere uno stesso significato (ad esempio, sorella), le diverse lingue usano significanti diversi (sorella in italiano, soeur in francese, e così via). Ma per Saussure “arbitrario” non vuol dire soggettivo e libero: ma piuttosto “immotivato”, cioè non necessario in rapporto al significato che viene espresso.

Si parla di arbitrarietà in quanto gli elementi del segno linguistico non sono naturalmente “motivati” ma dipendono da una tacita convenzione tra i parlanti di una lingua.

L’arbitrarietà si ha tanto sul piano dell’espressione (il significante) quanto su quello del contenuto (il significato), che peraltro sono indistinguibili all’atto pratico.

«Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario […] La parola arbitrarietà richiede anche un’osservazione … non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante … vogliamo dire che è immotivato, cioè arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha alcun aggancio naturale nella realtà» (De Saussure 1978: 85.87).

 

2.3 Un contributo prezioso alla traduttologia e alla delineazione del concetto di traducibilità da un punto di vista semiotico ci viene da Jurij Lotman, fondatore della scuola semiotica di Tartu. Per capire ciò che dice Lotman a proposito della traducibilità, è opportuno risalire alla più generale visione lotmaniana di cultura:

«[…] se per la sopravvivenza biologica di un singolo individuo è sufficiente che vengano soddisfatti determinati bisogni naturali, la vita di una collettività, quale che sia, non è possibile senza una cultura […] Tutti i bisogni dell’uomo si possono ripartire in due gruppi. Gli uni richiedono una soddisfazione immediata e non possono (o quasi) venire accumulati. […] I bisogni che possono essere soddisfatti mediante l’accumulazione di riserve formano un gruppo distinto. Essi sono la base oggettiva per l’acquisizione, da parte dell’organismo, di informazione extragenetica» (Lotman 1987: 26-27).

Nella dialettica natura/cultura, Lotman si inserisce attribuendo all’uomo, tra tutti gli esseri viventi, la possibilità di far parte di entrambi i sistemi:

«Così l’uomo nella lotta per la vita è inserito in due processi: nell’uno interviene come consumatore di valori materiali, di cose, nell’altro invece come accumulatore d’informazione. Ambedue sono necessari all’esistenza. Se all’uomo come creatura biologica è sufficiente il primo, la vita sociale presuppone ambedue» (Lotman 1987: 28).

Però secondo Lotman nel mondo semiotico non esistono soltanto lo spazio della cultura e della natura, ma anche lo spazio della non cultura, «quella sfera che funzionalmente appartiene alla Cultura, ma non ne adempie le regole». Quando Lotman parla di «Cultura», si riferisce all’insieme delle culture che costituiscono il mondo umano, e all’interno di ciascuna cultura ravvisa «un insieme di lingue», perciò ogni esponente di una data cultura è «una sorta di “poliglotta”» (Osimo 2000-2004).

La concezione lotmaniana di cultura riguarda da vicino gli studi sulla traduzione e sulla traducibilità.

«[…] la cultura è un fascio di sistemi semiotici (lingue) formatisi storicamente […] La traduzione dei medesimi testi in altri sistemi semiotici, l’assimilazione di testi diversi, lo spostamento dei confini fra i testi che appartengono alla cultura e quelli che si trovano oltre i suoi limiti costituiscono il meccanismo d’appropriazione culturale della realtà. Tradurre un certo settore della realtà in una delle lingue della cultura, trasformarlo in un testo, cioè in un’informazione codificata in un certo modo, introdurre questa informazione nella memoria collettiva: ecco la sfera dell’attività culturale quotidiana. Solo ciò che è stato tradotto in un sistema di segni può diventare patrimonio della memoria. La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi» (Lotman 1987: 31).

In scritti successivi, e in particolare nel saggio intitolato Della semiosfera, la concezione semiotica è sempre più basata sul concetto di traduzione.

«[..] tutto lo spazio semiotico può essere considerato un unico meccanismo (se non organismo). Allora fondamentale risulterà non quello o quell’altro mattoncino, ma il “sistema grande” denominato «semiosfera». La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza stessa della semiosi» (Lotman 1992: 13).

La semiosfera confina con lo spazio circostante, che può essere extrasemiotico (uno spazio in cui non si verificano processi di significazione, come uno spazio naturale) oppure eterosemiotico (ossia appartenere a un altro sistema semiotico, come per esempio un testo musicale nei confronti di un testo pittorico). In particolare, tutti i meccanismi di traduzione rientrano nel concetto di semiosfera perché sta alla base della generazione del senso. Ciò che all’interno di un sistema è (un fatto, un fenomeno, un evento), finché resta ciò che è senza venire descritto è al di fuori della semiosfera, resta nel mondo extrasemiotico (Osimo 2000:2004).

«L’eterogeneità strutturale dello spazio semiotico forma riserve di processi dinamici ed è uno dei meccanismi di elaborazione di nuova informazione all’interno della sfera» (Lotman 1992:16).

Quindi secondo Lotman la differenza tra sistemi non è più il problema per eccellenza del traduttore. Il residuo traduttivo non è più un ingombrante fardello la cui gestione crea problemi al traduttore. Il fatto che non sia possibile mai tradurre tutto è una garanzia per la conservazione delle differenze, così come è una garanzia per la conservazione della vita culturale (Osimo 2000:2004).

 

2.4 Si analizza che una proporzione molto cospicua di un messaggio completo, è costituita da ciò che viene dato per scontato, da ciò che è considerato implicito. Ma ciò che è implicito in un contesto culturale non coincide mai con ciò che è considerato implicito in un altro contesto culturale. Il traduttore ha sempre bisogno di tenere conto di questo aspetto. Il suo compito consiste nella mediazione culturale (di cui quella linguistica è uno dei tanti aspetti) tra la cultura dell’emittente e quella del ricevente (Osimo 2011:36).

Lotman non è stato il solo ad analizzare la cultura come elemento di cruciale importanza durante il processo traduttivo. Infatti anche Michael Agar, un famoso antropologo americano, ha utilizzato il concetto di traduzione per spiegare agli antropologi cos’è la cultura. La sua conclusione è stata mettere in evidenza un nuovo concetto, la Languaculture (linguacultura), per sottolineare che non ha senso che la lingua e la cultura vengano trattate separatamente. La descrizione di una cultura diversa dalla propria è complessa e labile poiché dipende dai punti di vista. Con queste basi, la cultura non è altro che una traduzione di “cos’è la cultura x da un punto di vista y”.

«Using a language involves all manners of background knowledge and local information on addition to grammar and vocabulary» (Agar 2006:2).

Agar nota anche che nella descrizione di una cultura diversa dalla nostra, fatta a persone della nostra stessa cultura, quando si trova qualcosa che non si può descrivere nella propria lingua, si è costretti ad usare il “nome”, quindi un termine utilizzato nella lingua d’origine e per riuscire a spiegare al meglio l’”oggetto” in questione, si è costretti ad utilizzare molte più parole. Questi fenomeni sono chiamati rich point e corrispondono a quei momenti di vero e proprio arricchimento della lingua poiché la comunicazione va in crisi (quindi anche la traduzione) e occorre forzatamente una perifrasi.

 

2.5 Conclusioni: Per quanto detto, anche la semiofera entra a far parte di tutto ciò che il traduttore “si porta dietro”, o in questo caso sarebbe meglio dire “nel quale si trova immerso”, durante il processo traduttivo. Come in precedenza, anche in questo capitolo, abbiamo evidenziato l’importanza del background personale e la sua imprescindibile influenza anche sulla seconda parte del processo traduttivo, senza contare che si è forse rafforzata la convinzione che non  sia assolutamente possibile creare un metatesto uguale al prototesto ma in una lingua differente.

 

Capitolo 3

LA RESA

Finora abbiamo analizzato le prime due fasi del processo traduttivo, ovvero tutti i vari processi mentali che hanno pertinenza con la lettura, la comprensione, l’interpretazione e la rielaborazione di un testo, o per la precisione di un prototesto. Tutte queste sfaccettature del processo traduttivo rimangono comunque qualcosa di intangibile, che nessuno a parte il traduttore stesso può conoscere. Il passo successivo è riuscire a far diventare il discorso interno, creato dal testo letto e “assorbito”, un metatesto che comprenda dentro si sé una parte del suo senso originale, trasposto in un’altra lingua e soprattutto cultura.

Anche il processo di scrittura è uno di quei procedimenti traduttivi quotidiani di cui molto spesso non ci rendiamo conto. Quando ci si accinge a produrre un testo, raramente si è consapevoli del fatto che in realtà quello che stiamo compiendo è un processo di traduzione, e nella fattispecie una traduzione intersemiotica. Durante la scrittura si verifica un cambiamento di codice: si passa da un testo mentale a un testo verbale scritto. La scrittura è inoltre una traduzione verbalizzante in quanto traduce un testo non verbale in un testo verbale (Osimo 2001:11).

 

3.1 Secondo il famoso semiotico cecoslovacco Anton Pópovič, padre dei termini prototesto e metatesto che abbiamo utilizzato fin’ora, il processo traduttivo è qualunque cosa contenga per l’appunto, un prototesto e un metatesto ove una parte del prototesto non viene resa e prende il nome di residuo traduttivo, una parte rimane invariata (nei limiti del possibile, in base a quanto detto prima) e viene chiamata invariante ed esiste una parte aggiunta.

 

Il problema che si pone effettivamente quando ci si dedica alla decodifica di un messaggio è proprio la presenza dei due altri elementi oltre all’invariante. Come abbiamo visto non è possibile tranne in casi di testi chiusi, quindi tecnici trovare il traducente perfetto per una parola, tantomeno per un concetto. Quindi si viene a creare un residuo traduttivo che per quanto ci si sforzi non si riesce proprio a fare rientrare nel corpo principale del metatesto. Quindi accorrono in nostro aiuto le aggiunte, ovvero è possibile completare l’informazione lasciata incompleta dalla parola, o insieme di parole, scelte per tradurre, per l’appunto aggiungendo qualcosa. Questo qualcosa può essere una spiegazione di servizio sapientemente amalgamata nel metatesto principale che prende il nome di circonlocuzione, oppure può essere inserita sottoforma di metatesto secondario, quindi un apparato di spiegazione, come ad esempio le note del traduttore a piè di pagina.

Anche la scelta di come integrare queste aggiunte fa parte di un’influenza del traduttore che deve scegliere se interrompere la linearità della lettura con una nota, facendo quindi notare la sua presenza e distaccandosi dal testo, oppure cercare di rendersi invisibile e scrivere in maniera più naturale possibile, seppure all’inseguimento dell’espressione perfetta per un concetto non suo. Questo rappresenta la prima prova conscia, oltre al contorno psicologico e quindi semi-inconscio, dell’influenza del traduttore sul metatesto.

 

3.2 Claude Shannon e Warren Weaver, due ingegneri americani, si sono a loro volta occupati del problema della trasmissione del messaggio, cercando di dare all’argomento, un’impronta matematica. Secondo la loro analisi, il processo comunicativo è rappresentato come il passaggio di un segnale (il messaggio) da una fonte (il soggetto emittente) attraverso un trasmettitore (il mezzo concretamente utilizzato) lungo un canale ad un ricevente (il soggetto destinatario) grazie ad un recettore. Il trasmettitore e il recettore sono indispensabili per realizzare due passaggi cruciali: la codifica e la decodifica.

In questo schema è rappresentato il processo di ricezione del messaggio e il traduttore è qui rappresentato come canale attraverso il quale deve passare un prototesto per diventare metatesto in un’altra cultura. Come abbiamo visto il traduttore è allo stesso tempo vittima e fautore involontario delle interferenze nella comunicazione del messaggio.

La teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver nasce dalla ricerca di una risoluzione per un preciso problema tecnico: studiare le condizioni per migliorare l’efficienza della trasmissione di segnali attraverso apparati tecnici di trasmissione. In realtà, l’influenza delle loro ricerche è andata oltre il problema specifico per cui era nata. Il loro schema ha l’obiettivo di individuare quegli elementi che devono essere presenti ogni qual volta si verifichi un trasferimento di informazione. Lo schema di Shannon e Weaver, è quindi stato applicato alla comunicazione linguistica. Come lo stesso Weaver ha specificato, quando si parla con un’altra persona il cervello è la codificazione dell’informazione, l’apparato vocale il trasmettitore, le vibrazioni sonore il canale della comunicazione, l’orecchio dell’interlocutore il ricettore ed il suo cervello il decodificatore del messaggio (Guidotti 2011).

Anche con questo tipo di approccio per lo più orale, si va ad affrontare il problema delle interferenze che fanno del messaggio decodificato dal ricevente un metatesto più o meno, ma in ogni caso, differente rispetto al prototesto. È stato Jakobson a inserire il modello di Shannon e Weaver in un contesto più linguistico.

 

3.3 Benjamin Lee Whorf ha studiato varie lingue che non fanno parte del gruppo indoeuropeo, e che non rientrano nemmeno tra le poche lingue non indoeuropee con cui la civiltà occidentale entra a contatto relativamente spesso, come il turco o il finlandese o l’estone o l’ungherese. Questi studi gli hanno dato modo di capire che l’espressione linguistica, ma anche il contenuto stesso, dei pensieri sono fortemente influenzati dalla lingua in cui vengono espressi, che non esiste un pensiero psichico a priori, unico e universale, che può trovare espressioni diverse nelle varie lingue e nei diversi individui. Una delle lingue studiate da Whorf è il hopi, lingua amerindia del territorio attualmente occupato dall’Arizona. A noi sembra che la suddivisione del mondo in concetti e l’attribuzione di parole ai concetti sia “naturale”, anzi spesso non ci poniamo il problema se lo sia (Osimo 2000 2004).

«Noi spezzettiamo la natura, la organizziamo in concetti e attribuiamo significati nel modo in cui lo facciamo perlopiù perché abbiamo sottoscritto un contratto in cui c’impegniamo a organizzarla in questo modo, contratto che vale in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato negli schemi della nostra lingua. Il contratto, naturalmente, è implicito e non è dichiarato, ma le sue condizioni sono assolutamente obbligatorie.» (Whorf 1967:213-214.)

Whorf sosteneva che ognuno di noi nel momento della propria nascita, abbia firmato senza saperlo un contratto. Si tratterebbe dell’influenza non solo del luogo dove si nasce: continente, Stato, regione, città e via via andando a scalare, ma anche della famiglia nella quale si nasce. Tutto ciò che ci circonda, ci insegna a classificare la realtà in categorie secondo i suoi canoni “tipici”. È come se ognuno di noi fosse “portatore sano” della propria cultura pur non rendendosene conto. Proprio questa incoscienza, nel momento della traduzione, può comportare il rischio di infettare il messaggio a causa di elementi culturali altrui che ci sembrano sbagliati.

Oltre a quello evidenziato da Pópovič, c’è anche un altro elemento di difficoltà più “pratico”, se così vogliamo chiamarlo, per un traduttore, ovvero il passaggio da una cultura con una diversa struttura grammaticale, sintattica e/o lessicale rispetto a quella ricevente. Anche stavolta l’influenza del traduttore sul metatesto diventa conscia seppure non evitabile, poiché dover conformare il “modo di esprimersi” in una lingua, in un’altra comporta necessariamente una modifica del prototesto tramite aggiunte o residui.

Facendo una riflessione un po’ più pratica si evidenzia che: nella lingua di tutti i giorni sopravviviamo con circa 2000 parole, viviamo con circa 5000 parole, ne usiamo raramente altre 2000 circa, mentre il totale di quello che chiamiamo il lessico comune, cioè tutte le parole usate, anche solo sporadicamente, nella comunicazione quotidiana ammonta a qualche decina di migliaia di unità (De Mauro 1999-2000,1:VII-XLII, VI: 1163-83).

Un normale dizionario di lingua di circa 100.000 – 140.000 lemmi contiene quindi in larga parte parole non conosciute o non usate dalla maggioranza dei parlanti. Tra queste ci sono parole di basso uso, parole di livello colto, parole obsolete, parole letterarie e poetiche, rare, varianti, e poi un’infinità di parole riconducibili a un qualche lessico specialistico. Tuttavia anche questa non è che la punta di un iceberg. Infatti, l’insieme delle parole e locuzioni possibili, utilizzate da qualche parlante o qualche comunità di parlanti è di molte volte superiore, nell’ordine dei milioni di unità. Il totale dei termini utilizzati nei diversi linguaggi speciali assomma quindi a decine di milioni, senza contare i nomi dei prodotti: altri milioni e milioni (Riediger 2010).

 

La struttura del lessico secondo Tullio De Mauro

 

Vocabolario di base (VDB) = 6522

o Lessico fondamentale (F)= 2.049

o Lessico di alto uso (AU)= 2.576

o Lessico di alta disponibilità (AD)= 1897

o Lessico comune (CO) = 47.060

VDB + CO = 45-50.000 unità lessicali come per i dizionari delle altre lingue

 

 

Lessico tecnico-scientifico (TS) = 107.194

Lessico solo letterario (LE) = 5.208

Lessico regionale (RE) = 5.407

Lessico dialettale (DI) = 338

Esotismi (ES) = 6.938

Basso uso (BU) = 22.550

Obsoleti (OB) = 13.554

 

Una lingua possiede, come abbiamo visto, moltissime parole che in ogni cultura possono venire usate per rappresentare “concetti” diversi.

Quindi potremmo supporre che bastasse rendere il senso di un testo, anche se con parole diverse da quelle scelte dell’autore, per riuscire a essere dei buoni traduttori. Perché il senso è identificabile come contesto, ovvero conseguenza dell’atto locutorio, invece il significato è semplicemente la definizione del vocabolario. In una lingua una certa combinazione di parole può fornire un senso, ma può anche essere la manifestazione dello stile dell’autore. Lo stile può essere lo scostamento dall’uso dei vocaboli rispetto al dizionario, quindi inevitabilmente s’intreccia con quello del traduttore.

 

3.4 Un altro elemento importante per un traduttore è la differenza tra un testo aperto e un testo chiuso. Il testo aperto è quello che abbiamo preso in esame fino a ora. Interessante è il testo chiuso, qualcosa con una struttura rigida che se vogliamo potrebbe essere idealizzato come più facile da trattare e quindi tradurre. Il testo chiuso può essere per esempio un elenco del telefono oppure una tabella degli orari dell’autobus, che sono composti per lo più da termini specifici e numeri. Ricordiamo che il bello del termine, per quanto il contesto in cui si trova possa essere complesso, è che possiede una traduzione tecnica “universale” ed è libero da fraintendimenti o altre interpretazioni.

Proprio su questo ultimo punto si è focalizzato il semiotico e scrittore Umberto Eco. In contrasto con la disputa della scuola lacaniana degli anni Settanta, dove si cominciava a pensare di poter interpretare liberamente ogni genere di testo, Eco bolla tutte le interpretazioni differenti dallo scopo per cui il testo chiuso era stato creato come decodifiche aberranti. L’autore di un testo chiuso non prevede interpretazioni diverse da quella canonica, perciò anche e soprattutto la libertà d’azione del traduttore è limitata, ad esempio dall’ISO (Organizzazione Internazionale per la Normazione), un organo che si occupa di standardizzare un termine e i suoi significati in tutte le lingue.

Ma se il traduttore è vincolato e indirizzato verso una certa interpretazione, il lettore può facilmente sfuggire a quest’obbligo.

«Possiamo usare una carte geografica per imaginare viaggi e avventure straordinarie, ma in tal caso, la carta è diventato puro stimolo e il lettore si è trasformato in narratore. Quando mi chiedono quale libro porterei con e su un’isola deserta rispondo “L’elenco telefonico; con tutti quei personaggi, potrei inventare storie infinite”» (Eco 1994:75).

 

3.5 Conclusioni: Specialmente in questo capitolo, è chiaro come vi siano alcune scelte che il traduttore compie consciamente. Per quanto queste non rientrino nella psicologia che sta dietro ad un’interpretazione del testo piuttosto che a un’altra, sono scelte che vengono fatte anche stavolta, in base alle proprie preferenze personali. Scegliere un sinonimo, a seconda della sfumatura che si coglie, un tempo verbale anziché un altro o un certo tipo di sintassi in base anche alla cultura del lettore a cui ci si indirizza, sono problemi esistenziali noti a qualunque traduttore che cerchi effettivamente di trasportare un messaggio da una lingua all’altra. Perciò la traduzione si situa in un limbo tra la filologia rispetto al prototesto e la pertinenza con il metatesto, e di conseguenza con la cultura ricevente.

 

Conclusione

In conclusione, per quanto detto finora, possiamo considerare ognuno di noi un traduttore “inconscio” perché seppure non a livello intralinguistico, capita a tutti nel proprio quotidiano di attivare un qualche processo traduttivo.

Con questa tesi volevo sottolineare quanto due persone della stessa nazionalità, cultura, città e addirittura famiglia, con le medesime conoscenze linguistiche, la medesima età e sesso e se vogliamo estremizzare, persino con lo stesso DNA, trovandosi davanti a uno stesso prototesto producono due metatesti differenti. Questo non significa che uno sia necessariamente più corretto dell’altro.

 

Riferimenti bibliografici:

Bernardi M., Condolf A. (2006), Psicologia per il tecnico dei servizi sociali, Roma, Clitt.

De Mauro T. (a cura di), Grande dizionario italiano dell’uso, GRADIT, UTET, 1999-2000.

Guidotti M (2011), I modelli della comunicazione sociale, consultabile al sito: http://www.galenotech.org/comunicazione.htm

Jakobson R. (1959), On linguistic aspects of translation, consultabile al sito: http://www.stanford.edu/~eckert/PDF/jakobson.pdf.

Lamendola F. (2007), Introduzione alla filosofia di George Berkeley, ariannaeditrice, consultabile al sito: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=10965

Osimo B. (2000-2004), Corso di traduzione Logos, Modena: consultabile al sito: http://courses.logos.it/IT/index.html.

Osimo B. (2001), Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano: Hoepli.

Osimo B. (2002), On psychological aspects of translation, Tartu.

Osimo B. (2011), Manuale del traduttore: guida pratica con glossario terza edizione, Milano: Hoepli.

Ratiu Kloss K. (2012), Freud: Zur Psychopathologie des Alltagslebens: atti mancati verbali e loro conseguenze in traduzione, Milano.

Riediger H (2010), Cos’è la terminologia e come si fa un glossario, 2012.

Saussure F. (1916), Corso di linguistica generale, Bari: Laterza, 1978.

Vygotskij L (1982), Myšlеniе i rеč´, in Sоbraniе sоčinеnij v šеsti tоmah, 2. Traduzione italiana Pensiero e linguaggio, di L. Mecacci, Bari, Laterza, 1990.

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