Boris Pasternak Il dottor Živago Primo libro Prima parte Il rapido delle cinque

1

Andavano e andavano e cantavano Eterna memoria, e quando si fermavano pareva che, come per inerzia, il canto lo continuassero i piedi, i cavalli, i soffi di vento.

I passanti facevano spazio al corteo, contavano le corone, si facevano il segno della croce. I curiosi si inserivano nella processione, domandavano: «Chi è morto?» E la risposta era: «Živago». «Ah, ecco. Allora si capisce.» «Sì, ma non lui: lei». «È lo stesso. Che possa salire in cielo. Funerale ricco, eh.»

Cominciarono a balenare gli ultimi minuti, contati, ineluttabili. «All’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa, il mondo e i suoi abitanti»[1]. Il sacerdote, facendo il segno della croce, gettò un pugno di terra su Mar’â Nikolaevna. Intonarono Dallo spirito dei giusti. Da quel momento in poi il ritmo si fece precipitoso. Chiusero la bara, la inchiodarono, incominciarono a calarla giù. Smise di tamburellare la pioggia di zolle gettate da quattro pale, con le quali riempirono di fretta la fossa. Sopra crebbe un monticello. Sopra ci salì un bambino di dieci anni.

Solo l’ottundimento e l’insensibilità che di solito prendono verso la fine dei grandi funerali potevano far sembrare che il bambino volesse dire qualcosa sulla tomba della madre.

Alzò la testa e dalla collinetta gettò uno sguardo vuoto alla landa autunnale e alle cupole del monastero. Il suo viso dal naso camuso si deformò. Il collo gli si protese. Se ad alzare la testa in quel modo fosse stato un lupacchiotto, ci si sarebbe aspettati che stava per ululare. Coprendosi il viso con le mani, il bambino scoppiò in singhiozzi. La nuvola che gli veniva incontro si mise a sferzargli le mani e il viso con le fruste umide di un gelido scroscio. Venne verso la tomba un uomo in nero, con maniche pieghettate strette e aderenti. Era il fratello della defunta e zio del bambino in lacrime, il sacerdote Nikolaj Nikolaevič Vedenâpin, spretato di propria iniziativa. Si avvicinò al bambino e lo portò via dal cimitero.

2

Passarono la notte in una stanza del monastero, assegnata allo zio tramite conoscenti. Era la vigilia dell’Intercessione. Il giorno dopo nipote e zio dovevano fare un lungo viaggio verso sud, diretti in un capoluogo di governatorato della Volga, dove padre Nikolaj lavorava nella casa editrice che pubblicava il quotidiano progressista locale. I biglietti del treno erano stati comprati, le cose, impacchettate, stavano nella cella. Dalla stazione il vento portava nei dintorni i fischi lamentosi delle locomotive che manovravano in lontananza.

Verso sera si fece molto freddo. Due finestre al livello del terreno davano sul cantuccio di un orto misero circondato di arbusti di acacia gialla, sulle pozzanghere gelate della strada e sull’angolo del cimitero dove di giorno avevano sepolto Mar’â Nikolaevna. L’orto era incolto, a parte alcune file cangianti di cavolo illividito dal freddo. Quando si alzava il vento, gli arbusti spogli di acacia si agitavano come ossessi e si adagiavano sulla strada.

Di notte Ûra fu svegliato da un colpetto alla finestra. La cella buia era rischiarata in modo sovrannaturale da una luce bianca svolazzante. Vestito della sola camicia, Ûra corse alla finestra e premette il viso contro il vetro freddo.

Al di là della finestra non c’era né strada, né cimitero, né orto. Fuori si scatenava la bufera, l’aria fumava di neve. Era come se la tempesta si fosse accorta di Ûra e, rendendosi conto di essere spaventosa, godesse dell’impressione che produceva su di lui. Fischiava e ululava e cercava di attirare l’attenzione di Ûra in tutti i modi. Dal cielo, un giro dopo l’altro, con infiniti srotolamenti, cadeva sul terreno una stoffa bianca, avvolgendolo con i suoi veli funebri. La bufera era unica al mondo, nulla rivaleggiava con lei.

Il primo impulso di Ûra, quando scese dal davanzale, fu di vestirsi e correre fuori per mettersi a fare qualcosa. Magari aveva paura che il cavolo del monastero finisse ingombro di neve e non lo dissotterrassero più, o che nel campo venisse ricoperta la mamma, che non aveva più forza di opporsi a sprofondare nella terra ancora più lontano da lui.

Andò a finire di nuovo in lacrime. Si svegliò lo zio, gli parlò di Cristo e provò a consolarlo, ma poi sbadigliò, andò alla finestra e si mise a pensare. Cominciarono a vestirsi. Faceva giorno.

3

Quando la madre era viva, Ûra non sapeva che il padre li aveva abbandonati da tempo e girava per varie città siberiane e straniere, gozzovigliando e dandosi al libertinaggio, e che da tempo aveva sperperato e gettato al vento la loro fortuna milionaria. A Ûra dicevano sempre che lui era o a San Pietroburgo, o a una fiera, il più delle volte a quella di Irbit.

Ma poi scoprirono che la madre, sempre malata, aveva la tisi. Aveva cominciato ad andarsi a curare nel sud della Francia e nell’Italia settentrionale, dove Ûra l’aveva accompagnata due volte. Così, nella confusione e tra enigmi costanti, era trascorsa l’infanzia di Ûra, spesso nelle mani di estranei, ogni volta diversi. Si era abituato a questi cambiamenti, e in quelle condizioni sempre assurde l’assenza del padre non lo meravigliava.

Quand’era piccolo durava ancora l’epoca in cui con il nome che portava veniva indicata un’infinità di cose diversissime tra loro. C’era la manifattura Živago, la banca Živago, le case Živago, il metodo Živago di annodare e appuntare la cravatta, perfino un certo dolce di forma rotonda, una specie di babà al rum, che si chiamava Živago, e un tempo a Mosca si poteva gridare al cocchiere «da Živago!», proprio come se fosse «a casa del diavolo!», ed egli vi avrebbe portato in slitta al trevoltedecimo reame, nel trevoltenono paese. Vi circondava un parco silenzioso. Sui rami pendenti degli abeti si posavano i corvi, facendone cadere la brina. Il loro gracchiare si diffondeva echeggiante come il crepitio di un ramo che si spezza. Dalle case nuove oltre la radura dall’altra parte della strada correvano cani di razza. Cominciavano ad accendersi le luci. Scendeva la sera.

All’improvviso tutto questo era svanito. Erano diventati poveri.

4

Nell’estate del millenovecentotré Ûra e lo zio, su un tarantas a due cavalli, viaggiavano per i campi verso Duplânka, possedimento del fabbricante di seta Kologrivov, grande patrono delle arti, per incontrare Ivan Ivanovič Voskobojnikov, insegnante e divulgatore di conoscenze utili.

 



[1] Versione Nuova Diodati, Salmo 24: 1.

Leave a Reply