Category Archives: Civica Scuola per Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli

Federica Bartesaghi Traduzione dal marketese all’italiano Amplifon

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione Linguistica

Ottobre 2010

 

 

© GfK Eurisko, Post Test sulla comunicazione stampa Amplifon, 2009

© Federica Bartesaghi per l’edizione italiana 2010

 

Amplifon: un esperimento di traduzione dal marketese all’italiano

(Amplifon: a translation experiment from marketese

to italian)

 

Abstract in italiano

La traduzione è quel processo di mediazione che permette a persone provenienti da paesi diversi di comunicare tra loro, ma non solo, la traduzione è anche e soprattutto una costante nella vita di ogni uomo: è ciò che rende possibile stabilire un nesso fra sé stessi e il resto del mondo, o senza spingersi troppo lontano, tra sé stessi e chi ci circonda. Quotidianamente ci si imbatte in centinaia di diverse culture e altrettante convivono dentro a ogni singolo individuo. «Traduzione» significa incontro tra lingueculture e quindi «tradurre» significa rendere possibile l’interazione tra due, venti o duecento mondi diversi. Questo è quanto si è voluto mostrare attraverso la traduzione linguoculturale di una ricerca di mercato commissionata da Amplifon al centro di ricerca GfK Eurisko.

 

English abstract

Translation is the mediation process that enables comprehension between people coming from different countries; most importantly, translation is a constant in every person’s life. It makes it possible to establish a connection between ourselves and the rest of the world, or without going too far, between ourselves and the people around us. Every day, we run across hundreds of different cultures and just as many live together inside a single person. “Translation” means an encounter among languacultures, and therefore, “to translate” means to enable the interaction among two, twenty or two hundred different worlds. That is what we have tried to show through the languacultural translation of a market survey commissioned by Amplifon to the research centre GfK Eurisko.

 

Resumen en español

La traducción es el proceso de mediación que permite la comunicación entre personas originarias de diferentes países, pero no solo, la traducción es también y sobretodo una constante en la vida de todas las personas. Nos hace posible establecer una conexión con el resto del mundo, o sin ir más lejos, entre nosotros y quien nos rodea. Todos los días, nos topamos con centenares de diferentes culturas y otras tantas coexisten dentro de cada persona. «Traducción» significa encuentro entre lenguaculturas y por lo tanto «traducir» significa hacer posible la interacción entre dos, veinte o docientos mundos diferentes. Esto es lo que hemos querido mostrar a través de la traducción de la lengua-cultura de una investigación de mercado que Amplifon le comisionó al centro de investigación de mercados GfK Eurisko.

 

Sommario

 

1. Prefazione  3

1.1 I rich point  4

1.2 La traduzione della cultura  6

1.3 La ricerca di mercato come sottocultura  10

2. Analisi traduttiva  13

2.2 Analisi linguistico-culturale  14

2.3 Dominante e sottodominanti 16

2.4 Lettore modello   17

3. Traduzione  19

3.1 Residuo traduttivo   28

 

 

 

1. Prefazione

 

1.1 I rich point

Il punto di partenza della mia tesi può essere facilmente riassunto dalle parole di un illustre etnologo e studioso della lingua che ha affermato quanto segue: «Using a language involves all manner of background knowledge and local information in addition to grammar and vocabulary» (Agar 2006:2). Ciò mi aiuta a introdurre il concetto di «linguacultura», concetto che nei prossimi capitoli starà alla base di ogni mia considerazione.

In materia di traduzione, infatti, parlare di lingua non è sufficiente. Grammatica, lessico, punteggiatura, sono solo alcuni degli ostacoli che un traduttore si trova a dover affrontare al momento di tradurre da una lingua verso un’altra lingua. Consapevolmente o meno, migliaia di altri fattori interferiscono e creano ostacoli che possono forse essere catalogati come culturali. Dico «forse» perché, come spiegherò più avanti, il concetto di «cultura» è tutt’altro che semplice da definirsi. Per ora, utilizzerò il termine «cultura» con la sua accezione più comune, ossia ciò che definisce quell’insieme di abitudini, atteggiamenti, convenzioni che fanno sì che un gruppo di persone più o meno ristretto si identifichi come “diverso” dagli altri. Questa differenza tra culture è la distanza che si interpone fra le stesse ed è esattamente il vuoto che un traduttore si propone di colmare al fine ultimo di rendere ogni cultura più accessibile all’altra. Si tratta di quel genere di fraintendimenti che si possono presentare se un inglese e un giapponese cercano di comunicare tra loro, ognuno parlando la propria lingua; ma paradossalmente lo stesso genere di equivoci può facilmente riscontrarsi all’interno della stessa lingua, o meglio, è un fenomeno che si verifica in continuazione e che non è meno complicato da analizzare rispetto al primo.

Lo stesso Agar identifica questi momenti di incomprensione e di aspettative disattese con il termine di «rich point», in quanto è proprio grazie alla loro esistenza che avvertiamo una distanza, un punto di mancato incontro. Differenze che talvolta fanno sorgere un problema: cos’è meglio, una traduzione accettabile, in cui il vuoto è colmato senza che il traduttore lasci alcuna traccia di sé nel testo finito o una traduzione adeguata, dove si ritiene giusto conservare le peculiarità dell’originale, in quanto impossibile da tradurre in modo completo? Nel primo caso il rischio sarebbe quello di cancellare l’identità del testo originale, eliminando o modificando ogni sua caratteristica e privando quindi i riceventi del testo tradotto di nuovi elementi che potrebbero in qualche modo arricchirli a livello personale. Nel secondo caso il rischio è ben diverso, sarebbe infatti quello di fornire al lettore ultimo un testo eccessivamente complicato da capire, anche se indubbiamente più apprezzabile.

È una domanda e un problema al quale non è possibile fornire una risposta univoca, in quanto è plausibile che una risposta giusta ed universalmente valida nemmeno esista, ma solleverò invece una seconda questione, che è poi il fulcro della tesi stessa: come comportarsi quando non si tratta di tradurre interlinguisticamente da una linguacultura verso un’altra linguacultura, ma piuttosto all’interno della stessa lingua? Prendiamo di nuovo in considerazione quel gruppo di persone che si identificano in una stessa cultura e che di conseguenza avvertono una distanza nei confronti di altre culture; facciamo ora una seconda divisione, in quanto questo gruppo, questa cultura, altro non è in realtà se non la sottocultura (che nel nostro specifico caso si chiamerà «ricerca di mercato») di una maxicultura, (che si chiamerà «marketing»).

Siamo dunque giunti all’introduzione del mio esempio, reale e pratico, di come una sottocultura pur utilizzando (anche se così non sembra) una stessa lingua e pur essendo profondamente radicata all’interno di una società, possa risultare incomprensibile e distante anni luce a un gran numero di persone facenti parte della medesima società. Queste sono le premesse del mio elaborato, ma non posso passare alla dimostrazione pratica di quanto introdotto fin qui prima di aver chiarito il concetto, ormai rivelatosi fondamentale, di «linguacultura» e della più generale traduzione culturale.

1.2 La traduzione della cultura

La lingua è così profondamente radicata nella cultura e viceversa, che esse possono fondersi in un’unica parola: «linguacultura». Inizierò prendendo nuovamente spunto da una citazione: «Culture is construction, a translation between source and target […] the translation we build is the culture we describe» (Agar 2006:6). È necessario quindi capire perché le parole cultura e traduzione vengono associate quasi fossero sinonimi. La cultura, proprio come abbiamo detto per la traduzione, è relativa. Relativa a moltissimi fattori, ma individuabile in un solo modo: quando si incontra una differenza, ossia quel rich point di cui ho parlato in precedenza.

La linguacultura risulta pertanto visibile solo quando entra in contrasto con una seconda linguacultura, quando si produce ciò che è giustamente definito un «Culture shock». Quest’ultimo altro non è se non un letterale shock culturale, l’evento che ci fa rendere conto di non essere in grado di comprendere qualcosa perché a noi sconosciuto, insolito, estraneo (successivamente spiegherò quanto questo concetto calzi alla perfezione al mio caso specifico). Siamo giunti al punto in cui il gruppo, la nostra particolare cultura, incontra una cultura differente con la quale deve entrare in contatto ed è costretta a stabilire una comunicazione facendo uno sforzo traduttivo. In questo caso la traduzione è una costruzione artificiale ideata al fine di rendere possibile la comunicazione tra “loro” e “gli altri”. Riecco quindi la questione che avevo sollevato e alla quale non si era potuto dare una risposta, ossia fino a che punto sia giusto interferire nel testo originale per semplificare la comprensione di chi utilizzerà il testo finito. Approfitterò di una nuova citazione, che a parer mio è chiarissima ed esaustiva a riguardo: «[…] it needs to be elaborate enough to get the job done and no more than that» (Agar 2006:6).

Prima ho affermato che la cultura è relativa e questo è vero per il semplice motivo che non può esistere nessuna cultura in sé, può esistere solo una particolare percezione di codesta cultura per un’altra cultura. Lo stesso principio vale per la lingua: quando si parla una lingua la maggior parte dei problemi non riguardano la grammatica delle frasi, ma piuttosto il significato che queste frasi hanno per ogni individuo. Detto in parole semplici, la cultura è una presa di coscienza che inizia proprio lì dove avvertiamo un problema. Nulla può definirsi cultura prima di entrare in contrasto con qualcos’altro che metta in evidenza le incongruenze e di conseguenza non ha senso parlare di una cultura X senza definire cosa questa cultura X rappresenta per una cultura Y. È quindi logico supporre che sia riduttivo parlare di una cultura; bisognerebbe parlare sempre di più culture. Ne consegue che esistono altri due tratti distintivi del termine «cultura», ossia che oltre ad essere relativa essa è anche parziale e plurale.

Oggi ogni individuo è un po’ di tutto, un po’ di questa e un po’ di quella cultura, nessuno può essere più identificato con una cultura soltanto, come invece era più probabile anni fa, quando i nuclei cittadini erano chiusi e isolati ed entravano poco in contatto con il resto del mondo, quando le tradizioni, le usanze, le lingue erano tramandate di generazione in generazione quasi imperturbate. Basti immaginare la vita che potevano condurre un contadino, piuttosto che un fabbro: certamente il numero di culture con le quali queste persone venivano a contatto era molto limitato. Allora forse sì era possibile parlare di un numero ristretto di culture, ma oggi non più.

La facilità con la quale è possibile viaggiare fino all’altro capo del mondo o con la quale ci si mette in comunicazione con chiunque ovunque si trovi, creano i presupposti per un fruttuoso interscambio culturale tra i popoli. Una «contaminazione positiva» (Osimo 2002:7) tra le culture favorisce la crescita intellettuale degli individui ed arricchisce coloro che si pongono nei confronti del resto del mondo con una atteggiamento umile e curioso, mentre al contrario non è di alcuna utilità per coloro che si pongono nei confronti degli altri con un atteggiamento caratterizzato dal pregiudizio e dall’indifferenza. Ci si chiede se sia giusto continuare ad utilizzare indistintamente la parola «cultura» se il suo significato originale è venuto a mancare; e ci si chiede anche dove stia la linea di demarcazione tra ciò che è identificabile come culturale e ciò che non lo è. È infatti difficile, se non improbabile, tracciare questa immaginaria linea, relativa anch’essa a molti fattori.

Un terzo concetto attribuibile alla cultura è «densità». Con questo si intende il grado di rilevanza di una cultura, quanto essa è pervasiva nei confronti delle altre. Un altro ancora l’«atteggiamento», ossia come ci si comporta nel confronti di una data cultura, come ci si relaziona ad essa e quanta importanza le si attribuisce. Una quinta questione è il «livello di integrazione» e con questo si intende quanto i singoli individui siano riusciti a far confluire verso un traguardo comune le mille sfaccettature delle loro culture. Un’ultima caratteristica della cultura è la «volatilità», che equivale ai mutamenti più o meno importanti a cui la cultura viene sottoposta nel corso del tempo. Come abbiamo visto, tutti questi concetti aiutano a inquadrare le mille qualità che una cultura può presentare, ma a questo punto sorge spontaneo chiedersi che senso ha delineare così precisamente un termine il cui significato e la cui attualità vengono messi in seria discussione.

Ciononostante, è giusto dire che un buon uso che può essere fatto di questo termine è, come abbiamo già detto, usarlo per individuare una differenza, un rich point. Al contrario, un uso sbagliato del termine sarebbe utilizzarlo per indicare una mancanza, etichettare una differenza che percepiamo come una deficienza da parte degli altri. Come ho affermato all’inizio del paragrafo, dire «cultura» è un altro modo per dire «traduzione». Ma attenzione ancora una volta, quando diciamo «cultura» possiamo far riferimento a due cose ben distinte: una prima accezione della parola è quella già ampiamente analizzata e discussa; una seconda accezione, invece, è quella che sta a indicare tutto ciò che è “squisitamente umano”, ciò che da migliaia di anni rende gli uomini diversi dagli altri primati e dai suoi antenati preistorici.

In quest’ottica si può dire che le differenze tra gli uomini rappresentino anche le similitudini tra gli stessi e cioè quello che rende possibile la traduzione. Questa universale connessione tra gli individui è esattamente il secondo significato del termine «cultura». Le condizioni storiche che hanno portato a coniare questa parola e le condizioni storiche che, al contrario, hanno portato al suo declino sono molto diverse, c’è da chiedersi se il suo destino è l’estinzione o se sarà in grado di trovare un nuovo posto nel mondo.

1.3 La ricerca di mercato come sottocultura

Nel paragrafo precedente ho parlato di una maxicultura e di una sottocultura, è venuto ora il momento di spiegare meglio come queste due entità hanno a che fare con quanto appena detto. Voglio occuparmi di una particolare cultura che è ormai entrata a far parte integrante della nostra società e non solo, parlo di quel vastissimo settore che prende il nome di «marketing», ossia di tutto ciò che ha a che fare con il commercio, la consulenza, la compravendita, la finanza, ossia con la maggior parte degli ambiti lavorativi e, in maniera indiretta, anche con i rimanenti.

Nel nostro caso il «marketing» rappresenta la maxicultura, una vera e propria linguacultura sotto ogni aspetto. Restringerò ora il campo alla «ricerca di mercato», che costituisce una delle molte sottoculture o culture satellite rispetto alla maxicultura appena citata e che a essa ha guardato nel momento di organizzare il proprio “repertorio culturale”, ossia «l’aggregato di alternative utilizzate da un gruppo di persone e dai suoi singoli membri per l’organizzazione della vita» (Itamar Even-Zohar 2000:201).

In quanto totalmente estranea a questo settore e ignara delle sue dinamiche, ho avuto l’opportunità di “sbirciare” al suo interno grazie all’aiuto di persone che, per necessità professionale, hanno dovuto relazionarsi con questo sistema e hanno imparato a farlo proprio. In riferimento a quanto già spiegato, il modo in cui queste persone sono venute a contatto con questo nuovo mondo è stato passando attraverso un vero e  proprio Cultural shock. Come mi è stato raccontato, dopo un iniziale sconcerto, costoro hanno cominciato a familiarizzare con questa nuova dimensione e hanno iniziato ad esprimersi usando la lingua della cultura dominante (il marketese) e giorno dopo giorno ciò che inizialmente suonava bizzarro, quasi senza senso, ha acquisito nuova forma ed è diventato uno strumento fondamentale, se non indispensabile, per la vita lavorativa.

Metabolizzando lo shock iniziale hanno preso confidenza con la situazione, trasformandola in qualcosa di quotidiano, di naturale. Esattamente come avviene per una persona che si trasferisce in un nuovo Paese e che deve abituarsi a uno stile di vita completamente diverso. In seguito a un iniziale smarrimento, la routine e l’abitudine faranno sì che questa persona si ritrovi a pensare, parlare e vivere in quello stesso modo che prima gli era avulso quasi senza rendersene conto. A qualcuno forse un simile paragone potrà sembrare bizzarro, ma la dimostrazione pratica di queste mie considerazioni ne comproverà la veridicità. A volte infatti (e questo avviene anche con la traduzione), la vera difficoltà sta in ciò che appare scontato, ciò che a primo acchito non avremmo messo neanche in discussione.

 

 

 

2. Analisi traduttiva

 

2.1 Presentazione del materiale

Nel terzo capitolo, ossia nella parte pratica, mi occuperò della traduzione di una ricerca di mercato commissionata da Amplifon all’ente di ricerca GfK Eurisko, con sede a Milano. Si tratta della presentazione in Powerpoint dei risultati delle rilevazioni effettuate da un gruppo di ricercatori nel periodo tra l’ottobre e il novembre del 2009, il cui scopo finale era quello di testare la comunicazione stampa dell’azienda che commissionava il lavoro. Tale documento mi è stato gentilmente messo a disposizione dagli stessi addetti ai lavori, i quali mi hanno altresì fornito le informazioni necessarie per una più esaustiva interpretazione del gergo marketese all’interno della traduzione.

2.2 Analisi linguistico-culturale

Per svolgere un’analisi linguistico-culturale del testo che tradurrò è necessario fare una premessa, ossia che ogni mediazione linguistica ruota intorno a tre poli: la cultura emittente (dell’autore), la cultura mediante (del traduttore) e la cultura ricevente (del lettore). Nel mio caso specifico, che differisce dall’immaginario classico che si ha di una traduzione e cioè che essa sia interlinguistica, quindi tra due sistemi linguistici differenti, questa mediazione è effettuata all’interno della stessa area linguistica e alla presenza di due soli poli: la cultura emittente, che come ho già affermato è una sottocultura del più amplio settore del marketing e cioè la ricerca di mercato; e di una cultura comune per il traduttore e i riceventi del testo finito. Difatti, ho già anticipato che la mia preparazione linguistico-culturale antecedente alla traduzione del testo è quella di una persona in gran parte estranea a questa cultura, come lo sono anche i miei prototipi di lettori.

Partendo da questo presupposto, risulta logico e ragionevole che la problematica fondamentale che si riscontra durante una prima lettura del testo siano gli elementi culturospecifici, ovvero una terminologia estremamente settoriale che rende la comprensione ostica per chiunque non sia dotato di una minimo bagaglio di conoscenze specifiche.

Allo stesso modo, la comprensione è resa ulteriormente ardua da tutto ciò che è omesso dal testo stesso, vale a dire dall’implicito culturale. Perché se già risulta complicato capire ciò che il testo vuole comunicare al lettore a causa del gergo utilizzato, ciò che di alcuni argomenti viene dato per scontato perché ritenuto conoscenza già acquisita, risulta ancor più duro da comprendere. Ma se questi ostacoli che il testo presenta sono complessi da affrontare, esso presenta anche degli innegabili punti di forza per il traduttore: il testo originale ha come obiettivo principale quello di riportare i risultati della ricerca nel modo più oggettivo possibile; non vi è alcuna personalizzazione, non vi è ironia, non vi sono metafore, in pratica non vi si trova nessuno di quegli elementi che solitamente caratterizzano testi come articoli di giornale, piuttosto che saggi o testi letterari e che il più delle volte sono fonte di complicazioni e fraintendimenti per il traduttore. Questi elementi non sono presenti nel nostro testo proprio perché l’autore non ha alcun interesse a rendere la sua ricerca più intrigante facendo ricorso a simili tattiche comunicative che andrebbero a discapito di una comprensione immediata.

La strategia comunicativa del traduttore deve quindi mirare a riportare tale oggettività anche nel testo tradotto. Sarà quindi fondamentale ricordarsi di comunicare nel modo più chiaro e semplice possibile, spiegando bene non solo ogni singolo concetto, ma anche ciò che nel testo non è esplicitato. Come spiegherò più attentamente nei prossimi paragrafi, nulla deve essere dato per scontato per il nostro lettore modello.

2.3 Dominante e sottodominanti

Mi ricollego al paragrafo precedente per chiarire un altro aspetto fondamentale dell’analisi traduttiva, ovvero l’individuazione della dominante del testo e delle eventuali sottodominanti in esso presenti. La dominante di un testo è il senso primario che esso vuole trasmettere, il primo concetto che si desidera far giungere al ricevente quando quest’ultimo affronta la lettura di un testo e che, nel caso di una traduzione, deve rispecchiare esattamente ciò che l’autore voleva comunicare originariamente. In cima alla classifica degli aspetti più importanti che lo scrittore di questo testo voleva comunicare al lettore quando ha messo nero su bianco ciò che aveva scoperto, vi è indubbiamente l’intenzione di divulgare informazioni. D’altronde, scopo primario di questa e di tutte le ricerche di mercato è effettuare un’indagine al fine di dare una risposta alle richieste del committente. Questo è affermato in maniera chiarissima nelle prime pagine del documento:

«GfK Eurisko ha condotto una ricerca multi-disciplinare che si è posta i seguenti obiettivi: verificare l’impatto e il gradimento della pagina di stampa […] individuare le aree ad alto impatto visivo immediato […] evidenziare le aree in cui si concentra l’attenzione, verificare le parti di testo che vengono lette, comprendere quale sia la decodifica del messaggio proposto, valutare la capacità di call to action, valutare il riflesso della comunicazione sull’immagine del brand di Amplifon».

La sola sottodominante di rilievo che emerge dal testo è l’aspirazione a dare una forte impressione di professionalità e di internazionalizzazione al committente; ed è anche l’aspetto più complicato da riportare in una traduzione visto che è stato ottenuto principalmente facendo ricorso a termini in lingua straniera. Questo carattere secondario del testo talvolta risulta fin troppo marcato: il ricorrente impiego di termini importati o adattati dall’inglese mi induce a credere che la smania dell’autore di fare colpo sul suo cliente attraverso frasi eloquenti e una complessa terminologia offuschi quell’obiettivo finale che, come abbiamo detto, è comunicare informazioni nel modo più chiaro possibile.

2.4 Lettore modello

In questo caso specifico lettore modello dell’autore e lettore modello del traduttore sono molto diversi; ma generalmente queste due persone coincidono. Individuare questa figura prima di accingersi a tradurre è fondamentale quanto individuare la dominante del testo. Il lettore modello è quella persona che prima l’autore e poi il traduttore hanno in mente come plausibile ricevente del testo, tanto originale quanto tradotto. È il prototipo di persona per la quale si scrive, una persona immaginaria che forse nella realtà non sarà mai l’effettiva ricevente del testo, ma che in ogni caso è estremamente necessario avere ben chiara in mente.

Per ogni testo scritto esiste un lettore modello, per un libro di fiabe il lettore modello sarà un bambino che forse ha appena iniziato a leggere, per un film splatter il lettore modello sarà probabilmente un giovane ragazzo o un appassionato del genere, mentre per una ricerca di mercato il lettore modello sono il committente e il suo staff. Bisogna sempre sapere per che genere di persona si sta scrivendo: di dov’è originaria, qual è la sua età, che tipo di istruzione ha ricevuto, di che sesso è e in alcuni casi è utile persino possedere informazioni secondarie come qual è il suo stato civile, se ha dei figli e via dicendo. Sono tutte informazioni che permettono di elaborare una strategia traduttiva sensata e completa.

Nel caso specifico dell’autore di questa ricerca di mercato, sarebbe improbabile prefigurarsi un prototipo di lettore che non avesse nulla a che fare con il campo delle comunicazioni, della pubblicità o dell’impresa. Il prototipo di lettore dell’autore era indubbiamente una persona competente in questo campo, che avrebbe ricavato informazioni utili per la sua vita professionale leggendo questa ricerca (informazioni che oltretutto aveva pagato). Il lettore modello che mi prefiguro io al momento di tradurre questo testo per la mia tesi è invece molto distante: benché molto istruito, possiede poche e generiche informazioni riguardo al funzionamento di questo particolare settore e ha bisogno di essere agevolato nella comprensione da ampie spiegazioni che permettano di colmare il vuoto lasciato dall’implicito culturale che caratterizzava invece il primo lettore modello, il quale troverebbe tali agevolazioni alla lettura indubbiamente ridondanti.

 

3. Traduzione

 

 

 

 

 

 

Figura 1


La semiotica[1] è una metodologia di analisi desk[2] che può intervenire su[3] qualsiasi supporto[4] di comunicazione e marketing / brand communication mix[5] (concept; nome; logo; packaging; advertising; below-the-line[6]; retailing; web site; etc.)
L’analisi semiotica è un metodo[7] di ricerca di mercato preliminare che può essere applicato a qualsiasi strumento di comunicazione usato per lanciare un prodotto[8] (idea; nome; logo; confezione; pubblicità; pubblicità con media alternativi; distribuzione commerciale al dettaglio; sito internet; etc.)

 

Individua i codici e le modalità/proprietà comunicazionali pertinenti e distintive che definiscono l’identità (brand, product[9]) espressa/il concetto comunicato, il posizionamento[10] veicolato e i valori trasmessi dal supporto in test[11], identificandone il target profile[12] prefigurato. Individua le modalità per comunicare[13] nella maniera più pertinente e distintiva, che siano  in grado di esprimere l’identità scelta (marchio, prodotto), il concetto comunicato e i risultati ottenuti dalla pubblicità testata, identificando il profilo degli acquirenti potenziali.

 

Il Media Mix[14] di Amplifon tende a costruire un profilo comunicazionale[15] coerente e trasversale[16] di “testimonianza[17]”, concentrato sulla “performance risolutiva[18]” (e non sugli end benefit[19]) e sulla “call to action[20]” (alla prova[21]) per esemplificazione[22].Costruisce una determinazione dimostrativa assertiva[23] e storicizzante[24] (“prima”) del “problema” (psico-sociale primariamente) dell’ipoacusia[25]; nella stampa, in particolare, definisce un’idea di ‘comunicazione da leggere’ a carattere informativo (prevalente), “corporate[26]” e promozionale (in coda) mentre marginalizza l’impatto visivo. La strategia pubblicitaria di Amplifon mira a stabilire un piano comunicativo che sia coerente con se stesso e che si rivolga a tutti i potenziali clienti avvalendosi della testimonianza di chi ha fatto uso del prodotto (e non sui benefici che apporta) e vuole stimolare i possibili acquirenti a recarsi nei punti vendita per provare il prodotto.Descrive il problema della riduzione dell’udito (il disagio personale e le difficoltà a relazionarsi con gli altri) in maniera decisa e contestuale[27]; nel volantino la comunicazione può essere letta a più livelli: informativa sul prodotto, informativa sull’azienda e promozionale[28], mentre riduce l’impatto visivo.

 

Trasversalmente, il Media Mix di Amplifon sfrutta un insieme omogeneo di figure referenziali della “vita sociale” (gruppo di amici/famiglia, il setting d’arredo[29], il momento della cena, la living room[30]/sala da pranzo) per: caratterizzare i needs[31] (contemporanei) e le attese del target[32] (senior[33], 65-75 anni) in senso di piena/effettiva e appagante compartecipazione conviviale – socialità, comunitarietà, amicalità/familiarità, giovialità[34].Nella comunicazione stampa, tuttavia, il visual[35] risulta tendenzialmente incoerente e scarsamente performante[36]: qualifica l’ipoacusia attraverso la figura della bolla ma ne dona una determinazione solo debolmente invalidante ; il visual tende a ridurre gli aspetti “privativi” e a connotare un’idea di partecipazione (contenuta, ma reale) incoerente con le valenze espresse dall’ “intrappolamento” nella bolla. Complessivamente, la strategia pubblicitaria di Amplifon mette in scena un modello di vita sociale armoniosa (gli amici/la famiglia, l’ambientazione, il momento della cena, il soggiorno/la sala da pranzo) per rappresentare i bisogni contemporanei e le aspettative del “cliente modello[37]” (anziano, 65/75 anni) vale a dire un vero e appagante coinvolgimento nella vita sociale[38]

Tuttavia, l’immagine usata nel volantino funziona poco: la bolla fa capire che l’uomo non è in grado di sentire bene, ma non in maniera del tutto convincente; l’immagine, infatti, dà comunque un’idea di partecipazione, per quanto limitata, che è incoerente con l’impressione di intrappolamento che bolla vuole suggerire.

 

La caratterizzazione risulta molto più coerente e chiara nel commercial televisivo[39] (erigendo tale comunicazione a “primario riferimento[40]”) in quanto: la mimesi facciale del “protagonista” (opposta a quella degli “astanti”) esprime “straniamento” (vs. “condivisione), “apatia” (vs. enfasi), “contenutezza” (vs. divertimento); la disposizione della simulazione finzionale[41] alla partecipazione enfatizza la sensazione di disagio e il sentimento di repressione: “voler partecipare / vivere appieno la socialità” , “non poter seguire” (per non audizione) “dover far sembrare” di partecipare per evitare la stigmatizzazione sociale. La rappresentazione risulta molto più coerente e chiara nella pubblicità televisiva (il che la rende fondamentale), in quanto la mimesi facciale del protagonista esprime spaesamento, indifferenza e noia contrapponendosi a quella degli altri, i cui volti esprimono partecipazione, passione e divertimento. Il fatto che il protagonista finga di essere coinvolto evidenzia il suo disagio e la sua inibizione: vuole partecipare alla vita sociale, ma è incapace di farlo perché non riesce a sentire, e simula la comprensione per evitare l’esclusione sociale.

 

Nel complesso, il media Mix risulta piuttosto coerente in termini di identità espressiva, scelte figurative e tematiche, tono di voce e dinamica narrativa proposta, sebbene siano relativamente diverse le qualificazioni dell’ipoacusia: Più “severe” le condizioni ‘costrittive’ sul piano relazionale nell’adv televisivo[42].Molto meno invalidante l’ipoacusia proposta nella press adv[43](tendendo a marginalizzare l’ “utilità” di un intervento risolutore).Il media mix risulta tendenzialmente pertinente alla ‘call to action’ promozionale, valorizzando specificatamente la gratuità della prova e l’assistenzialità dei “protesisti[44]”: in modo più coerente l’adv televisivo che esprime con maggiore chiarezza e attinenza l’esemplificazione esortativa, valorizza compiutamente il Centro Amplifon e focalizza chiaramente sulla ‘temporalità[45]’ della “portabilità” dell’offerta; in modo meno appealing[46] e diretto (anche se più “istituzionalizzante[47]” e rassicurante) nell’adv stampa che investe più propriamente in una “attestazione” risolutiva (più che esortativa)[48], non avvalora la “temporalità” della portabilità e rende meno evidente il discorso “testimoniale”. Nel complesso, la strategia pubblicitaria è coerente con l’identità del prodotto, con le scelte figurative e tematiche, con il tono di voce e con la narrazione proposta, sebbene il disturbo all’udito acquisisca sfumature differenti: più “gravi” nello spot televisivo e più “lievi” nel volantino, dove la necessità di un intervento risolutore sembra minore.La strategia pubblicitaria risulta quindi atta a invogliare le persone a partecipare al mese della prevenzione, puntando sulla prova gratuita dell’udito e sull’assistenza ai clienti da parte dei protesisti: lo spot televisivo è più coerente, dato che sottolinea l’importanza di una prova pratica del prodotto, valorizza il Centro Amplifon e richiama l’attenzione sulla temporaneità[49] dell’offerta. Nel volantino ciò avviene in modo meno invitante e diretto (ma più serio[50] e rassicurante): valorizza maggiormente la risoluzione del problema, ma incentiva meno il cliente a recarsi nel Centro Amplifon e, al contempo, indebolisce sia l’aspetto temporale dell’offerta che l’importanza della testimonianza diretta.

 

 

3.1 Residuo traduttivo

Il residuo traduttivo di un testo è ciò che il traduttore si trova costretto a omettere o decide deliberatamente di escludere dal testo finale. Quando si affronta la traduzione di un testo è impossibile pensare di poter riprodurre tutto, bisogna effettuare scelte traduttive ricordando di tenere sempre in mente qual è la dominante del testo e per chi stiamo traducendo. Può trattarsi di qualsiasi aspetto del testo che risulterebbe incomprensibile al lettore modello e che nelle traduzioni interlinguistiche, il più delle volte, è rappresentato da elementi culturospecifici che per natura non possono avere la stessa valenza per il lettore modello dell’autore e per quello del traduttore. Naturalmente, vi si sommano elementi linguistici e sintattici propri di ogni sistema linguistico. Nel mio caso, ossia in una traduzione culturale, il mio ostacolo sono stati prevalentemente gli elementi culturospecifici di coloro che ormai conosciamo come «marketesi» e siccome il mio lettore modello è una persona totalmente estranea alla loro cultura, nella maggior parte dei casi non è stato possibile trovare dei corrispondenti nella cultura ricevente. Ho dovuto fare ricorso a un gran numero di note e di agevolazioni alla lettura per compensare la mancanza di traducenti. L’unico residuo che ho scelto di eliminare è stata la forte aggettivazione presente nel prototesto; questo perché benché fosse perfettamente possibile riportare questo aspetto nel metatesto, non sarebbe stato coerente con la decisione di eliminare tutte le parti del testo non indispensabili per la comprensione e quindi anche tutti quegli “orpelli lessicali” (lunghe serie di aggettivi e un uso esagerato di parentesi e virgolette) che avrebbero creato confusione nella mente del mio lettore modello.

Riferimenti bibliografici

Anderson, Myrdene (2000). «Ethnography as translation». In La traduzione. A cura di Susan Petrilli, Roma: Meltemi (181-187).

Agar, Michael (1994). Language shock, New York: William Morrow & company, Inc.

Agar, Michael (2006). «Culture: can you take it anywhere?» International Journal of Qualitative Methods (1-12).

Dictionary.com. Random House Inc. (2010). Disponibile in internet all’indirizzo www.dictionary.reference.com consultato nel mese di settembre 2010.

Dizi.it (2008). Disponibile in internet all’indirizzo www.dizi.it consultato nel mese di settembre 2010.

Dizionario di italiano Il Sabatini Coletti (2010). Disponibile in internet all’indirizzo www.dizionari.corriere.it consultato nel mese di settembre 2010.

Even-Zohar, Itamar (2000). «La formazione del repertorio cultural e il ruolo del trasferimento». In La traduzione. A cura di Susan Petrilli, Roma: Meltemi (200-206).

Glossario Marketing. Disponibile in internet all’indirizzo www.marketing informatico.it consultato nel mese di settembre 2010.

Lotman, Jurij. (1990). «Three functions of the text». Universe of Mind: a Semiotic Theory of Culture (1:11-19), Bloomington: Indiana University Press.

Nida, Eugene (2000). «Language and culture: two similar simbolic system». In Tra segni. A cura di Susan Petrilli, Roma: Meltemi (119-128).

Osimo, Bruno. (2001). Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano: Hoepli.

Osimo, Bruno (2002). In «Traduzione della cultura» Parole, immagini, suoni di Russia. A cura di G. P. Piretto, Milano: Unicopli.

Osimo, Bruno. (2004). Manuale del traduttore: guida pratica con glossario, Milano: Hoepli.

Osimo, Bruno (2008). «Cultural basis of translation (1.4: 24-31)». Jakobson: translation as imputed similatity. Sign System Studies, 36.2, 315 – 332

Osimo, Bruno (2009). «Jakobson and the mental phases of translation». Mutatis Mutandis, 2, 73-82

Osimo, Bruno. «Jakobson and Cinderella’s parable of translation». In corso di pubblicazione.

Petrilli, Susan. A cura di (2001). Lo stesso altro, Roma: Meltemi.

Torop Peeter (2010). La traduzione totale: tipi di processo traduttivo nella cultura. A cura di B. Osimo, Milano: Hoepli.

Toury, Gideon (2000). «Progettazione culturale e traduzione». In La traduzione. A cura di Susan Petrilli, Roma: Meltemi (188-199).



[1] La semiotica all’interno delle ricerche di mercato è utile ad analizzare la comprensione e l’efficacia di una comunicazione pubblicitaria. Per cui un messaggio pubblicitario, un prototipo, una confezione (pack), uno slogan, un simbolo, un’immagine, un logo, ecc. vengono presentati e discussi con i partecipanti dei focus group (forma di ricerca qualitativa, in cui un gruppo di persone è interrogato riguardo all’atteggiamento personale nei confronti di un tema specifico. Le domande sono fatte all’interno di un gruppo interattivo, in cui i partecipanti sono liberi di comunicare con altri membri del gruppo. Il focus group è una tecnica particolarmente usata nella ricerca di mercato e nel marketing, come strumento utile per lo sviluppo di nuove idee e per l’acquisizione di feedback riguardo ai nuovi prodotti. In particolare, permette alle imprese e alle agenzie di discutere, osservare o esaminare il nuovo prodotto prima che esso sia messo a disposizione del pubblico al fine di cogliere i loro processi di significazione).

[2] L’analisi desk viene realizzata per circoscrivere un quadro di riferimento, vale a dire il contesto della ricerca. La sua utilità è duplice: da un lato rappresenta il background teorico e razionale del piano progettuale, dall’altro costituisce la base dei contenuti su cui elaborare gli strumenti di rilevazione per la fase di ricerca sul campo. Tale metodologia consiste nello studiare uno o più oggetti scomponendoli in elementi e attribuendogli dei significati. Scomporre l’oggetto della ricerca significa dotarsi di strumenti per un’analisi più precisa e puntuale, che agevoli l’individuazione degli aspetti maggiormente ricchi di significato i quali dovranno essere approfonditi in successive fasi di ricerca quantitativa e/o sul campo. Si noti che analisi desk è la versione italiana della locuzione inglese desk analysis e si tratta di una traduzione in cui i due termini sono stati invertiti, ma dove non è stata introdotta la preposizione e tradotta la seconda parola.

[3] La preposizione «su» viene usata in modo molto esteso in tutti i campi in cui è forte l’influenza della lingua inglese, probabilmente come traducente della preposizione «on» (reale o immaginaria che sia). Un esempio lampante di tale fenomeno sono le locuzioni «su internet»/«sul sito», che stanno prendendo piede in alternativa alle più italiane «in internet»/«nel sito». Pertanto, nella traduzione ho ritenuto opportuno sostituire il «su» con una preposizione italiana più grammaticalmente fondata.

[4] Calco sull’inglese support. Dato il contesto mi è sembrato più chiaro usare la parola «strumento», in alternativa avrei anche potuto usare la parola «mezzo».

[5] La Communication mix è un insieme di elementi che compongono il piano di comunicazione di un’idea di marketing e si raggruppano in 4 categorie: pubbliche relazioni, pubblicità, promozione delle vendite, attività persuasiva dei venditori.

[6] Below the line è una locuzione tecnica che si usa in pubblicità e indica tutte le attività di comunicazione che non sfruttano i media tradizionali. Tra queste troviamo le sponsorizzazioni, le relazioni pubbliche, le promozioni e il direct marketing (tecnica di marketing attraverso la quale aziende e enti comunicano direttamente con clienti e utenti finali). La locuzione ha origini giornalistiche e indica il complesso delle notizie nella metà inferiore, cioè sotto (below) la piega (line) della prima pagina di un quotidiano esposto assieme agli altri in edicola. L’espressione contraria è Above the line, che indica invece le attività veicolate attraverso i media classici, come televisione, radio, editoria, affissioni.

[7] In questo caso non si tratta di metodologia in senso stretto, ma di un metodo. C’è la tendenza  a usare la parola più astratta per quella più concreta o quella collettiva al posto di quella che denota un solo elemento, come nei casi di tipo/tipologia, problema/problematica ecc. A volte la stessa tendenza si riscontra anche nei verbi, nei quali di solito si preferisce la variante più lunga: usare/utilizzare/usufruire.

[8] Nella versione originale c’era una certa ridondanza prodotta dalla locuzione communication mix, che sostanzialmente significa ciò che già viene detto in altre parti della frase. Ho preferito semplificare la comprensione per il mio lettore modello.

[9] Non c’è un reale motivo terminologico per dire brand e non dire marchio. L’uso di termini inglesi conferisce alla ricerca una certa pomposità e un aspetto più cosmopolita.

[10] Il posizionamento di un prodotto è la decisione aziendale circa il target e il tipo di prodotto (con relative caratteristiche) in relazione al mercato e al suo collocamento. Ad esempio: se si tratta di un prodotto pensato per ragazze, molto probabilmente si sceglierà di farlo rosa, colorato, profumato o in versione da borsetta. Sono decisioni che vengono prese a tavolino prima di cominciare la produzione.

[11] In test significa testato, già provato.

[12] Il target profile è il modello di cliente a cui è rivolta una determinata campagna, pubblicità o prodotto; si tratta quindi di un prototipo di cliente. È la “versione marketing” del lettore modello di un autore.

[13] L’ostacolo alla comprensione è dovuto a un uso sbagliato della lingua. «Comunicazionale» è un aggettivo di seconda formazione rispetto a «comunicazione». La scelta di usare un aggettivo di seconda formazione richiama il discorso fatto in precedenza per usare/utilizzare: sono parole più pesanti e difficili da capire per una persona normale e vengono usate con lo scopo di “abbindolare” il lettore usando un lessico altisonante (ma inesatto).

[14] Il Media Mix è una strategia di marketing che decide quali strumenti o mezzi utilizzare per una campagna di pubblicizzazione. Il media mix (o media planning), serve a capire dove e come distribuire il budget tra vari mezzi e pianificare l’azione di comunicazione.

[15] Il profilo comunicazionale è l’identità della comunicazione stessa: giovane, vecchia, classica, moderna, diretta, indiretta ecc. Sono i tratti principali della comunicazione e vengono prestabiliti ad hoc per il prodotto che si vuole pubblicizzare.

[16] «Trasversale al target» significa per tutti, cioè che sia adatto per tutta la fascia di persone che rappresentano i potenziali clienti.

[17] Per «comunicazione di testimonianza» si intende la testimonianza fisica di una persona che realmente soffre di quel disturbo, una persona che sia vicina ai clienti e che gli assomigli: per testimoniare sull’utilità e sui benefici che l’utilizzo di un apparecchio acustico apporta allo stile di vita quotidiano di una persona comune, non ci sarà un giovane attore o modello a fare da testimonial, ma piuttosto un signore di mezz’età che come migliaia di altre persone deve convivere con un problema all’udito.

[18] «Performance risolutiva» significa letteralmente «risoluzione del problema». Non si tratta di un palliativo o di un aiuto, ma di qualcosa che è in grado di eliminare il problema completamente. La pubblicità deve mostrare ai possibili compratori la performance del prodotto, quindi come funziona e i vantaggi che apporta.

[19] L’end benefit è il risultato finale: il beneficio ottenuto in seguito all’uso del prodotto.

[20] Call to action è la locuzione inglese usata per indicare la «chiamata all’azione». Si riferisce allo stimolo che la pubblicità deve dare al cliente: deve far in modo che chi è interessato al prodotto non si limiti a pensare che sarebbe utile comprarlo, ma esca realmente di casa e si rechi nel negozio per provarlo.

[21] È importante, se non fondamentale, che la gente lo vada a provare. Tutti infatti già sanno a cosa serve il prodotto, già lo conoscono in linea teorica. Il punto cruciale è che quando poi lo provano non vogliano più farne a meno ed è esattamente questo lo spirito della pubblicità: fare in modo che alle persone venga voglia di provarlo.

[22] «Esemplificare» significa spiegare o dimostrare qualcosa attraverso degli esempi. In questo caso si intende mostrare le qualità del prodotto e il suo funzionamento tramite la prova pratica dello stesso.

[23] Letteralmente, l’assertività è una caratteristica del comportamento umano che consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e opinioni.

[24] «Storicizzare» significa concepire o interpretare qualcosa come un processo storico in divenire (per esempio storicizzare la realtà). In questo caso intende dire che la pubblicità racconta una storia: un uomo ha un problema all’udito, è insieme alla sua famiglia, gli altri si divertono, ma lui non è in riesce a partecipare. Poi si reca in un Centro Amplifon, prova l’apparecchio acustico ed è felice, perché finalmente la sua percezione della realtà cambia (esce dalla bolla).

[25] Per ipoacusia si intende una riduzione, più o meno grave, dell’udito.

[26]Nell’ambito della comunicazione, il termine inglese corporate indica tutto ciò che è relativo all’azienda. La comunicazione corporate ha come scopo quello di pubblicizzare l’immagine e la conoscenza dell’azienda stessa: è Amplifon che dice qualcosa di sé.

[27] Ho scelto di capovolgere la frase e di mettere il soggetto all’inizio e gli aggettivi ad esso riferiti in seguito, dato che la costruzione originaria era più inglese che italiana. In questo modo la lettura risulta meno faticosa e più normale.

[28] In questo caso per «promozionale»si intende dire che la pubblicità è informativa rispetto al mese della prevenzione: offre ai clienti la possibilità di recarsi nei punti vendita ed effettuare gratuitamente la prova dell’udito. In definitiva nella pubblicità si promuovono l’apparecchio, il marchio e il servizio di controllo dell’udito gratuito.

[29] Hanno scelto di usare la locuzione inglese piuttosto che quella italiana perché l’espressione è omnicomprensiva: non si riferisce unicamente all’arredamento, ma anche a tutto ciò che abbellisce e adorna lo spazio abitato. Usare la parola «arredamento» al posto di setting d’arredo sarebbe limitante, ma la parola «ambientazione» è in grado di riprodurre la stessa idea.

[30] Anche in questo caso scelgono di usare l’inglese piuttosto che l’italiano, quando invece esiste un traducente esatto per living room, ovvero «salotto» o «soggiorno».

[31] Parola chiave in questa e in tutte le ricerche di mercato. L’obiettivo principale delle aziende è infatti quello di soddisfare le esigenze dei clienti e per fare ciò è fondamentale essere capaci di individuarne i bisogni (i needs).

[32]Il target rappresenta i soggetti che, sulla base delle caratteristiche delle loro richieste, vengono individuati come ideali destinatari di una specifica azione di marketing o di una particolare comunicazione pubblicitaria. Questo termine inglese che letteralmente significa «bersaglio» viene usato in molti settori oltre che nel marketing pubblicitario: in gergo economico, ad esempio, indica il risultato di una precisa strategia; mentre all’interno di un’azienda è il risultato pratico posto come obiettivo per un progetto.

[33] In questo caso definisce un’età precisa ma non sempre è così. Solitamente, indica una fascia di età che a seconda dei casi noi definiremmo in molti modi diversi: adulta, mezz’età,anziana.. e che nel gergo del marketing è spesso contrapposta a un’altra fascia, quella dei  junior.

[34] La grande ripetizione che viene fatta in tutto il testo di parole che terminano in –ità (come ad esempio socialità, comunitarietà e successivamente temporalità, gratuità e assistenzialità) è un’altra prova dello stile raffinato che l’autore cerca di conferire al testo usando la forma più astratta di una parola, ma lo fa maldestramente e a discapito del senso della frase.

[35] Il visual corrisponde all’immagine principale sia di una confezione che di una campagna pubblicitaria. In questo caso si riferisce all’immagine dell’uomo intrappolato nella bolla visibile nella figura 1, che è seduto a tavola con la sua famiglia e con gli amici, ma che fatica a sentire ciò di cui stanno parlando.

[36] La figura 1 mostra l’immagine della bolla, la quale da una parte dà l’idea di un totale straniamento rispetto al mondo esterno, ma dall’altra non esclude del tutto l’ipoacustico dalla vita sociale: lui ne fa ancora parzialmente parte. Per «scarsamente performante» si intende che l’immagine non funziona bene perché non trasmette esattamente il significato che si desiderava comunicare.

[37] Per «cliente modello» non intendo dire «cliente perfetto»; mi rifaccio alla definizione di target profile data in precedenza, ovvero un prototipo di acquirente ideale.

[38] Mettono in campo una vasta gamma di emozioni e situazioni per rendere meglio l’idea, ma non aggiungono significato alla frase e non sono necessarie per capirne il senso, quindi ho preferito riassumere l’idea generale e parlare di «vita sociale».

[39] Il commercial televisivo è la pubblicità che viene mandata in onda in televisione(on air).

[40] Il commercial televisivo è diventato il mezzo di comunicazione primario per questo prodotto (ovvero il «primario riferimento») perché è quello che funziona di più: rispetto agli altri riesce a comunicare al meglio l’identità del prodotto. La mimesi facciale del protagonista nel video rivela appieno il suo senso di disagio e di smarrimento mentre gli altri si stanno divertendo, impressione che è meno immediata nella pubblicità stampata, cioè nel volantino (figura 1).

[41] Nella figura 1 è evidente che il protagonista finge di essere in grado di seguire la conversazione e sorride a chi siede al tavolo con lui. Simula per non dare a vedere che in realtà non riesce a sentire bene perché vuole evitare il disagio che tale situazione crea e per la paura di essere trattato diversamente dagli altri.

[42] AdvAdvertising e Adware sono tre termini con cui si indica la pubblicità. L’adv televisivo indica gli annunci pubblicitari mandati in onda in televisione.

[43] È l’abbreviazione della locuzione inglese Newspaper advertising e si riferisce alla pubblicità che viene stampata sui giornali o sul volantini, quindi una forma scritta di pubblicità.

[44] I protesisti di Amplifon sono coloro che si occupano della creazione e dell’adattamento delle protesi acustiche.

[45] L’uso della parola «temporalità» è scorretto perché fuori contesto. Infatti sotto questa voce nel dizionario si legge: «natura di ciò che è temporale, effimero; proprio del tempo, della storia (si contrappone a spiritualità)condannare la t. della Chiesa».

[46] Appeal è un termine inglese che può avere molti significati e per questo viene usato in svariati modi; ma i più ricorrenti sono: «attrazione, richiamo, interesse, fascino».

[47] Come ho già accennato, l’uso dell’aggettivo «istituzionalizzante» sembra fuori luogo. Ciò che è «istituzionalizzante» è ciò che «istituzionalizza» e sotto questa voce nel dizionario si legge:  «Acquisizione, all’interno della società, di una forma stabile, pienamente accettata e perlopiù oggetto di ordinamento giuridico (sancire qualcosa dandogli carattere giuridico)».

[48] «Investire di più in un’attestazione risolutiva invece che esortativa» significa dare maggiormente rilievo e importanza alla dimostrazione di come si può risolvere il problema (quindi mostrare il disagio che si prova prima di usare Amplifon e il benessere che si può ritrovare dopo averlo provato) piuttosto che esortare le persone a recarsi nel punto vendita.

[49] Forse ciò che in gergo marketese si intende dire con «temporalità» corrisponde all’italiano «temporaneità», che indica ciò che e temporaneo, quindi che ha durata breve e limitata.

[50] Con l’uso dell’aggettivo «istituzionalizzante», che non pare pertinente all’interno della frase, si cerca di dare lustro e serietà all’azienda. È come se Amplifon volesse dire ai suoi clienti che lo scopo dell’azienda non è solo quello di ricavare dei guadagni, ma anche quello di assistere al meglio i suoi clienti, in modo sicuro e professionale. Per questo motivo ho scelto di usare la parola «serietà».

GAIA COZZI Dinda L. Gorlée Equivalence, translation, and the role of the translator (Equivalenza, traduzione e il ruolo del traduttore)

GAIA COZZI

Dinda L. Gorlée

Equivalence, translation, and the role of the translator

(Equivalenza, traduzione e il ruolo del traduttore)

Mémoire de traduction littéraire

inglese/italiano

Relatore Prof. Bruno Osimo Correlatrice Prof.ssa Cynthia Bull

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione

Dipartimento di lingue
Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori

Université March Bloch – Strasbourg Insitut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

a.a. 2003-2004 (sessione di settembre)

          ______________________________________________________

© 1994 Dinda L. Gorlée
© 2004 Gaia Cozzi (traduzione parziale)

Indice

Abstract……………………………………………………………………………………………………………p. 5 Prefazione………………………………………………………………………………………………………..p. 6

1. 2.

Fonte e autrice del testo……………………………………………………………………………p. 6 Analisi traduttologica………………………………………………………………………………..p. 7

  1. 2.1  Tipologia testuale e contenuto……………………………………………………………….p. 7
  2. 2.2  Struttura, stile e destinatario…………………………………………………………………..p. 9
  3. 2.3  Documentazione e ricerca……………………………………………………………………….p. 10
  4. 2.4  Problemi e scelte specifiche di traduzione…………………………………………..p. 10
  5. 2.5  Residuo traduttivo e note…………………………………………………………………………p. 11

Ringraziamenti……………………………………………………………………………………………p. 12

3.

Traduzione con testo a fronte……………………………………………………………………p. 13 Bibliografia……………………………………………………………………………………………….p. 90 Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………..p. 93

3

Abstract

Equivalence, translation, and the role of the translator is an article from the volume Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Amsterdam/Atlanta, 1994). Its author, Dinda L. Gorlée, is multilingual and translator English, Spanish and Norwegian; she is also visiting Professor of Semiotics and Translation Studies at the Department of Translation Studies of the University of Helsinki and researcher in the field of Semiotics and Translation Studies. In her text, largely argumentative, Gorlée aims to show the relevance of Peirce’s philosophy of signs by taking up, as illustrative examples, the following issues: (1) equivalence between source text and target text, (2) the translation process and its phases and (3) the role of the translator in the translation process. The text presents the typical structure of essays, that is, introduction, argument, conclusion, and a considerable metatext: notes and references are to be found in every page. The style is coherent; as for syntax, Gorlée generally uses short sentences and simple constructions, with few coordinate sentences; as for lexicon, she uses a jargon and a number of Latinisms. The model reader of the original text is in all likelihood a Semiotics and/or Translation Studies scholar or lover: the issue itself is rather specific and the approach is very professional. The texts consulted for my work were, apart from monolingual and bilingual dictionaries, mainly old translations (mine) of Gorlée’s essays, where I was able to find a good number of terms. This strategy was successful as it allowed me to work quickly and easily, as did the use of searching engines, thanks to which I was able to find the information I needed and to check the use of words in real time. However, in my work some translation loss remained: an untranslatable pun based on the ambiguity of the word “mind” and a play on words based on the change of consonants. In the first case I made a note explaining that it was not possible to render the pun, assuming that the model reader should know English; in the second case I translated the sentence plainly, proven that the play on words was not indispensable to the understanding of the sentence. To avoid further translation loss I decided to add some notes, i.e. to specify that a sentence was written in Italian also in the original text. Other notes were added to translate quotations that Gorlée had left in German, giving for granted that the reader knew it.

4

5

Prefazione 1. Fonte e autrice del testo

Equivalence, translation, and the role of the translator è un articolo tratto dal volume Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Amsterdam/Atlanta, 1994).
L’autrice è Dinda L. Gorlée, Professore Ospite di Semiotica e Scienza della

Traduzione al dipartimento di Scienze della Traduzione dell’Università di Helsinki e ricercatrice tra l’altro nel campo della semiotica in relazione alla teoria della traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica. Gorlée ha fondato la Norwegian Association for Semiotic Studies ed è stata il primo presidente della Nordic Association for Semiotic Studies. È inoltre membro del comitato esecutivo all’interno della IASS (International Association for Semiotic Studies) in rappresentanza dei Paesi Bassi. Ha collaborato in qualità di ricercatrice con numerose università tra cui l’Indiana University, l’università di Amsterdam, di Vienna e di Ouagadougou (Burkina Faso) e ha pubblicato un consistente numero di saggi di semiotica e teoria della traduzione. Si interessa inoltre di traduzione biblica, di traduzione legale (di cui dirige un’agenzia a L’Aia) e in modo particolare dell’intersemiosi lingua- musica.

Le sue pubblicazioni più recenti sono Grieg’s Swan Songs (in Semiotica 142- 1/4:153-210), 2002) e On Translating Signs: Exploring Text and Semio-

6

Translation (Rodopi, Amsterdam/New York, 2004); è in preparazione il volume Song and Significance: Interlingual and Intersemiotic Vocal Translation.
Semiotics and the Problem of Translation costituisce probabilmente la sua opera più importante.

2. Analisi traduttologica

2.1 Tipologia testuale e contenuto

L’articolo che ho tradotto è un testo prevalentemente argomentativo, in cui l’autrice si ripropone di dimostrare l’attinenza della filosofia dei segni di Peirce all’interno della teoria della traduzione, tesi che Dinda Gorlée dimostra sviluppando tre argomenti principali: l’equivalenza tra prototesto e metatesto, il processo traduttivo e le sue fasi e il ruolo del traduttore all’interno del processo traduttivo.

Nel primo punto viene innanzitutto chiarito il significato del termine «equivalenza», in quanto diversi studiosi lo usano in sensi diversi. La critica della traduzione tende poi a proporre una varietà incredibile di equivalenze e a fare ampio uso di termini correlati (uguaglianza, analogia, isomorfismo…), creando una certa confusione terminologica e concettuale. Gorlée fa inoltre notare che, se in genere prototesto e metatesto vengono idealmente messi in una corrispondenza di uno-a-uno, dal punto di vista semiotico il concetto di

intercambiabilità di prototesto e metatesto risulta paradossale: poiché il 7

processo traduttivo è un atto irreversibile, non potrà mai verificarsi una ri- traduzione. Come ha dimostrato Peirce, equivalenza non è sinonimo di corrispondenza “uno-a-uno” bensì “uno-a-molti”. Il suo concetto di equivalenza è dunque governato dalla Terzità e non dalla Primità (iconicità). La studiosa illustra quindi i concetti di «equivalenza qualitativa» tra un segno e il suo interpretante (equivalenza riferita ai segni in sé) e di «equivalenza referenziale» (equivalenza dei segni prodotti dalla Secondità) e introduce le dimensioni logiche di «ampiezza, profondità e informazione», a cui Peirce si è dedicato quand’era lettore all’università, per spiegare da un altro punto di vista la connessione tra rappresentazione dei segni e interpretazione dei segni. Riprende poi con il concetto di «equivalenza significazionale» (equivalenza dei segni prodotti dalla Terzità).

Nel secondo punto Dinda Gorlée prende in esame il processo traduttivo, un altro argomento problematico della teoria della traduzione sul quale, secondo lei, è possibile far chiarezza inserendolo nella cornice della teoria peirciana dei segni. A questo scopo introduce alcune delle teorie di diversi studiosi in merito alle fasi della traduzione per esaminarle alla luce del processo interpretativo di Peirce, da lui sistematicamente descritto come un processo di ragionamento triplice consistente nella produzione di tre successivi interpretanti. Le teorie esaminate sono: le Arbeitsstufen di Koller (Rohübersetzung, Arbeitsübersetzung, druckreife Übersetzung), interessanti ma definibili solo in relazione l’una con l’altra, le quattro fasi di Toury

8

(scomposizione, selezione, trasferimento, ricomposizione), non sempre applicabili e il «quadruplice movimento ermeneutico» proposto da Steiner in After Babel, che assomiglia molto alla semiosi: tre fasi più una “illusoria”: fiducia iniziale, confronto, incorporazione, (compensazione), reminescenti della successione peirciana di tre momenti interpretativi (interpretanti immediati/emozionali, interpretanti dinamici/energetici, interpretanti filiali/logici, questi ultimi suddivisi a sua volta in un interpretante logico “non definitivo” e in uno definitivo. Nel paragrafo successivo vengono spiegati i tre interpretanti di Peirce. Il primo è emergente nel momento in cui ci si trova di fronte a «situazioni problematiche di natura intellettuale» e per risolverle viene formulata una congettura o ipotesi. È la fase più istintiva e produce un flusso di idee. Il secondo, in cui le ipotesi di lavoro vengono testate e verificate mediante un giudizio fondato, e produce “una” traduzione che fornisce “una” soluzione al problema. Con il tempo e il duro lavoro, una mente allenata produrrà un terzo interpretante come soluzione quasi perfetta mediante la quale la semiosi potrebbe giungere a un punto morto. Essendo comunque un pensiero-segno, il terzo interpretante dovrà mantenere la propria efficacia comunicativa nel tempo, per cui bisognerebbe far compiere al processo semiosico un ulteriore passo, in cui il segno verrrebbe chiamato ad «adempiere all’esplosivo compito di generare la sola, infallibile abitudine con cui la semiosi giungerebbe definitivamente a termine».

L’ultimo punto discusso è quello del ruolo del traduttore nel processo 9

traduttivo, figura attorno alla quale sono sempre stati creati falsi miti, in positivo e in negativo. Il traduttore è per Peirce un medium passivo nell’attività traduttiva, poiché è il pensiero che pensa nell’uomo e non viceversa, ed egli è portato “suo malgrado” da un pensiero all’altro. Un traduttore nello spirito intellettuale di Peirce non è tanto un individuo esperto che conosce ogni risposta, quanto «uno studente dedito a ciò che si manifesta nella semiosi a cui partecipa»: è intrigato o disorientato dal segno che ha di fronte, o ne è persino innamorato… Ecco, il traduttore peirciano può essere definito come una persona che compie disinteressatamente un lavoro d’amore. Infine, nella conclusione, l’autrice propone come nuovo adagio «traduttore- abduttore» al posto del «traduttore-traditore» citato nell’introduzione: secondo lei rifletterebbe meglio ciò che in una filosofia peirciana dei segni dovrebbe essere la principale preoccupazione del traduttore, che dovrebbe staccarsi dal proprio ruolo “tradizionale” e impegnarsi nel «paradosso creativo del tradimento per aumento, […] riduzione o distorsione», altrimenti produrrebbe solo repliche morte dell’originale, e soffocherebbe la semiosi. Deve partire dai fatti ma senza, all’inizio, seguire una teoria, bensì lasciandosi guidare da una “ragione” istintiva.

2.2 Struttura, stile e destinatario

Il testo che ho tradotto è un saggio ospitato in un volume che raccoglie articoli di semiotica e teoria della traduzione. Presenta quindi la struttura tipica dei 10

saggi: introduzione, argomentazione e conclusione. L’argomentazione si articola a sua volta in dieci paragrafi: Introductory remarks, Equivalence, Qualitative equivalence, Referential equivalence, Breadth, depth, information, Significational equivalence, Translation process, First, second, and third logical interpretants, The role of the translator, Concluding remarks. Presenta inoltre un corposo apparato paratestuale: note e rimandi sono presenti praticamente in ogni pagina.

Lo stile è lineare. Per quanto riguarda la sintassi, Gorlée usa periodi generalmente brevi, poiché spezzati mediante la punteggiatura, e di costruzione semplice, con poche coordinate. Ciò rende il testo abbastanza scorrevole, un pregio per un testo di tipo argomentativo. A livello lessicale, il testo presenta una certa terminologia settoriale e un buon numero di latinismi. Il lettore modello del testo originale è con tutta probabilità un appassionato o uno studioso di semiotica e/o scienza della traduzione. Quest’ipotesi ci è confermata prima di tutto dall’argomento, non certo da manuale di divulgazione, e poi dal taglio piuttosto professionale: il testo, oltre a usare come già detto una terminologia settoriale, offre numerosi rimandi a testi e saggi della stessa disciplina. Ciò dimostra che l’autrice aveva in mente destinatari con una discreta se non buona conoscenza della materia.

2.3 Documentazione e ricerca

Per far fronte a dubbi e difficoltà sono ricorsa essenzialmente a dizionari 11

(monolingui e bilingui), a testi paralleli e a internet. Come testi paralleli ho consultato per lo più mie traduzioni precedenti di testi della stessa autrice, in cui ho potuto ritrovare buona parte della terminologia. Tale strategia si è rivelata particolarmente utile e rapida, così come la consultazione di motori di ricerca, che mi ha permesso di trovare in tempo reale informazioni riguardo agli studiosi citati e alle loro teorie, di consultare un buon numero di dizionari on line e di verificare l’uso di alcuni termini; attraverso il Servizio Bibliotecario Internazionale ho potuto poi controllare quali testi erano stati tradotti in italiano. Preziosi sono stati inoltre i chiarimenti del mio relatore e della mia correlatrice.

2.4 Problemi e scelte specifiche di traduzione

Ho avuto qualche difficoltà nella traduzione della frase «To ignore its need to grow would be an antiquarianism» (pag. 60), termine quest’ultimo che i dizionari consultati (Merriam-Webster, Oxford Dictionary and Thesaurus, Enciclopaedia Britannica, Picchi) non riportavano. Inizialmente avevo pensato come possibile traduzione «[…] equivarrebbe a fare dell’antiquariato», ma mi sono poi resa conto che «antiquariato» avrebbe fatto pensare più che altro al commercio di oggetti antichi, insomma era troppo connotato. Dovevo trovare una parola più generica, più astratta, che si avvicinasse di più al concetto che voleva esprimere l’autrice, ossia la mania di conservare cose (in questo caso segni-parole) antiche, antiquate. La mia correlatrice mi aveva proposto 12

«arcaismo», ma poi abbiamo convenuto che allora anche l’autrice avrebbe potuto benissimo servirsi del termine «archaism»: evidentemente voleva un termine più particolare, più “a effetto”. Anche «arcaismo», inoltre, mi sembrava troppo connotato. Forse per assonanza, mi è venuto in un secondo tempo in mente il termine «antichismo», anch’esso usato molto raramente nella lingua italiana e quindi rispecchiante la scelta di Gorlée e soluzione migliore della precedente anche perché manteneva il suffisso «-ismo», a marcarne l’accezione ideologico-astratta. Ho provato a inserirlo in Google, trovando, tra l’altro, una pagina che lo usava nel seguente modo: «Questo richiamo ai costumi degli antichi non è dettato da alcuna forma di “antichismo”». Mi è sembrato che usato così si avvicinasse molto alla connotazione data a «an antiquarianism» da Gorlée, per cui l’ho ripreso nella mia traduzione: «Ignorare il suo bisogno di crescita sarebbe una forma di antichismo».

Per il resto non ho avuto particolari problemi, avendo già tradotto testi di questa teorica.

2.4 Residuo traduttivo e note

Nel testo tradotto sono rimasti due residui traduttivi. Uno è a pag. 63, nella traduzione della frase «[the translator] has been invested, and indeed infested, with such images as the copyist, the acolyte […]». Qui l’autrice attua infatti un 13

gioco di parole basato sul cambio di consonante (inVested – inFested) che in italiano non è stato possibile rendere. Mi sono limitata pertanto a tradurre la frase così com’era, dato che, per quanto simpatico, il gioco di parole non era indispensabile per la comprensione del testo, a differenza di quanto accadeva a pag. 47 nella citazione di Peirce: «[…] and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind […]». Anche qui troviamo un gioco di parole, questa volta però intraducibile in quanto in italiano non esiste un termine che abbia contemporaneamente tutti i significati che ha il termine inglese «mind». Alla luce di ciò, l’unica “soluzione” è stata quella di lasciare la citazione originale e aggiungere una nota spiegando questa scelta. Altre note che ho ritenuto necessario aggiungere: a pag. 17, la traduzione dei termini in tedesco, lingua che magari non tutti i lettori potrebbero conoscere e che invece Gorlée dà più volte per scontata (forse in quanto plurilingue?), si vedano anche pag. 49 e 51; a pag. 79 ho specificato che l’adagio «traduttore traditore» e la nuova versione di Gorlée «traduttore abduttore» erano in italiano anche nel testo originale. Ho reso inoltre esplicita l’etimologia del termine «traditore» (trado=consegnare, affidare, tramandare), menzionato dall’autrice nella frase: «Forse traditore può essere qui preso positivamente, nel suo senso etimologico – che renderebbe il traduttore un trasmettitore neutrale del messaggio». Non è infatti detto, a mio avviso, che tutti i lettori la ricordino o la intuiscano immediatamente.

14

3. Ringraziamenti

Vorrei ringraziare in particolare il professor Bruno Osimo e la professoressa Cynthia Bull per la gentile collaborazione e la disponibilità. Un grazie sentito anche a tutti coloro che mi hanno incoraggiata durante la stesura della Tesi.

Dinda L. Gorlée

EQUIVALENCE, TRANSLATION, AND THE ROLE OF THE TRANSLATOR

“If we were to translate into English the traditional formula Traduttore traditore as ‘the translator is a betrayer’, we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? Betrayer of what values?”

Introductory remarks

15

(Jakobson 1959:238)

Certain translation-theoretical key issues have loomed large in the preceding chapters, and deserve to be addressed at this point. Despite the longstanding discussions among translation theoreticians about precisely these issues, no agreement seems to be in view at this time. Yet it may be said without undue drama that proper and continued discussion of these controversial topics, from a variety of methodological angles, is critical to the harmonious evolution of the interdisciplinary (or better transdisciptinary) field of translation theory. If it can be shown – as I propose to do in these pages – that Peirce’s philosophy of signs throws new light upon these problems, my contribution here will be instrumental, albeit in a modest way, in bringing the discussion closer to a consensus, a “settlement of opinion” in Peirce’s spirit.

Let me therefore next take up, as illustrative examples of the relevance of a Peircean semiotics to translation theory, the following issues: (1) equivalence between source text and target text, (2) the translation process and its phases and (3) the role of the translator in the translation process.

Equivalence

By equivalence will be meant here the stipulation, recurrent in any text in the theory of translation, that there be between source text and target text identity1 across codes. Firstly, different translation scholars use the notion of equivalence in different senses, Koller (1992:214-215) mentions, among others, Nida’s “closest natural equivalent”, Wilss’s “möglichst äquivalenter zielsprachlicher text” and Jäger’s term, “kommunikativ äquivalent”. The picture is further blurred by the manifold qualifications given the term, which is often used not in a merely descriptive (that is, value neutral) sense, but as an a priori requirement with which a text should comply in order to qualify as an adequate translation. The varieties of equivalence which have been put forth in translation criticism is indeed truly astonishing: besides “translation equivalence”, the seemingly most general term2, one finds “functional 16

equivalence”, “stylistic equivalence”, “formal equivalence”, “textual equivalence”, “communicative equivalence”, “linguistic equivalence”, “pragmatic equivalence”, “semantic equivalence”, “dynamic equivalence”, “ontological equivalence”, and so forth; to say nothing of the ostensibly free use of related terms such as sameness, invariance, congruence, similarity, isomorphism, and analogy.

In this landscape of, it would seem, utter terminological and conceptual confusion,

17

it is nevertheless clear that it is generally claimed that original text and translated text are ideally placed in a one-to-one correspondence, meaning by this that they are to be considered as codifications of one piece of information, as logically and/or situationally interchangeable, – the “invariant core” being, of course, “a hypothetical construct only” (Toury 1978:93)3. However, semiotic viewpoint this would seem to be a misconception, or at least a gross simplification of the facts. One case in point is Jakobson’s statement (1959:233): “Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics”, and hence of translation. In general-semiotic parlance, one would say that both original and translation are signs forming part of a semiosic chain – a sequence of interpretive signs. Yet in contradistinction to the interchangeability claim, the translation follows from and is caused by (Peirce would obviously say “is determined by”) the original; it is its interpretant-sign. If both signs are lifted out of the infinite semiosic sequence and studied in isolation, the original is of the two the primary sign, both temporally and logically. The interpretant is not an imitation of an immanent structure of the sign or the object, nor is it an arbitrary structure imposed on the object from the outside. It is the law or habit (weak or strong), through which sign and object become related so that an effect of the semiosis can occur. The mediating sign-action, once set into motion, is a recursive but irreversible process of sign translation. This implies that there is in the sense intended here no back-translation possible: the pre-semiosic situation cannot be restored. This turns the very idea of interchangeability between original and translation into a paradox. Indeed, the semiosis has not only dramatically changed the original sign; it also offers, perhaps, new knowledge of the dynamical object (in Peirce’s sense) to which both signs, if still indirectly and incompletely, refer.

To reduce sign translation, linguistic or otherwise, to mimicry or to a mirroring procedure is to respond to nothing but the sign’s Firstness, and thus to atrophy its full signifying potential. A translation is obviously more than a “hypoicon” – an iconic in

18

otherwise degenerate Third (Gorlée 1990). From a semiosic standpoint, the zealously pursued preservation of any semiotic substance – be it meaning, information, ideas, or content (just to mention some of the commonly used terms) – is more than irrelevant, counterproductive to what translation should be concerned with, namely the sign-and-code- enriching confrontation between sameness and otherness: “du Même et de l’Autre” (Ladmiral 1979:209)4. Genuine semiosis is non-mechanical engenderment and re- engenderment, and is for this reason the very opposite of mimesis: “Nay, exact conformity would be in downright conflict with the taw [of habit]; since it would instantly crystallize thought and prevent all further formation of habit” (CP:6.23,1901).

Mention of one tradition within linguistics – Humboldt’s (1767-1835) linguistic relativism – is in order here, because it opposed at an early date what may he called the received view (according to which fixed world-word connections are established), thereby foreshadowing Peirce’s dynamic version of the indeterminacy of meaning, the Sapir-Whorf hypothesis, as well as some of Chomsky’s concepts. I refer here to the

adage of Wilhelm von Humboldt’s, one that was later embraced (although never explained) by Chomsky – who called it in his early writings “creativity”, or sometimes “open- endedness” – about the capability of languages to “make infinite use of finite means”. (Sebeok 1991:29)

Humboldt’s “alternative” view is of particular interest in a discussion of translation, because it would later inspire, explicitly and/or implicitly, the “holistic” view on literary translation which was initiated by Holmes and further developed by Toury and others5. This approach would, despite its concentration upon one particular kind of translation – the translation of verbal art –, or perhaps because of it, breathe new life into what had become a rather unfruitful approach to it from traditional linguistics. According to the relativistic concept of

verbal language, different languages correspond to different world-visions. From the 19

viewpoint of the different languages, reality is not experienced as it “really” is, but as it is molded, reflected – subjectively, homogeneously, but variously – in and by the different languages.

Although Humboldt is frequently recognized as the founder of general linguistics, his pioneering role in linguistic semiotics has received scant recognition (Schmitter et alii 1986:317). This is perhaps due (as indicated by Trabant 1986) to Humboldt’s language- orientedness which has turned problematic at a time when sign-theoretical discussions, following Peirce, are moving away from “linguistic imperialism” and towards a semiotic perspective which places the verbal and the non-verbal on a continuum, the former being superior to the latter, but nevertheless building upon it. Not coincidentally, Humboldt considered language to be not only a system of social invented and intrinsically arbitrary signs, but also to have an iconic aspect to it6.

Prefiguring, it would seem, Saussure’s langue-parole dichotomy, Humboldt distinguished between language as ergon (theory, a written or orally transmitted verbal corpus) and energeia (praxis, a verbal activity). While the latter builds and feeds the former, it – energeia – is for Humboldt the essence of language itself. Language consists not only of a systematic, rule-bound whole, but of energies, and this dynamic interactive principle elevates language to the semiotic (or rather, semiosic) status of expression of thought. Humboldt’s so-called “anti-semiotics” of language (Trabant 1986:69-90) was only opposed to a linguistic semiotics to the extent that the latter limits its considerations to the arbitrary and conventional nature of the signs of language, thereby “killing all its spirit and sending all its life into exile” (Humboldt in Trabant 1986:72; my trans.). In fact, language is, for Humboldt (as it would later be, if in a more radically evolutionary paradigm, for Peirce) a living “organism” (Nöth 1990:201), an essentially semiotic sign-system, an irreversible processuality, in which man establishes shifting connections between language and the phenomena of the world surrounding him.

20

The relevance of this to translation/interpretation in Peirce’s sense should be clear. Peirce himself used the term “equivalence” with special reference to the interpretant. This shows that for him equivalence was synonymous not with one-to-one correspondence, as in Firstness (iconicity) and, in a different modality, in Secondness, but with the kind of one-to- many correspondence that obtains whenever a sign “gives birth” to an interpretant (or rather a series of interpretants). Two signs which are thus dynamically equivalent7 can be logically derived from one another. Peirce typically struggled with language trying to express exactly what he meant by his dynamic equivalence which takes place in the semiosis:

A sign . . . is an object which is in relation to its object on the one hand and to an interpretant on the other in such a way as to bring the interpretant into a relation to the object corresponding to its own relation to the object, I might say “similar to its own”[,] for a correspondence consists in a similarity; but perhaps correspondence is narrower. (PW:32,1904)

In his much-quoted definition of a sign, Peirce said that the sign creates in the mind of the person it addresses an “equivalent sign, or perhaps a more developed sign” (CP:2.228,1897). Elsewhere he noted: “An equivalent of a proposition is the same proposition differently materialized. For the proposition consists in its meaning” (MS599:62,c.1902), which implies that it is not what language or code a text-sign is in, but what signification it has, which is to the interpretational (that is, the translational) point. That Peirce’s concept of equivalence is teleological (that is, is governed by Thirdness) is further put into evidence by his statement that “two signs whose meanings are for all possible purposes equivalent are absolutely equivalent” (CP:5.448,n.1,1906; emphasis added).

21

Qualitative equivalence
Let us next take a closer look at Peirce’s views on equivalence by approaching somewhat

differently. It should by now be clear that translational equivalence cannot be identified, at least not wholly, with an algebraic equation or other sign of Firstness. Discussing different sets of diagrams, Peirce ascertained that it every algebraic equation is an icon, insofar as it exhibits by means of the algebraic signs (which are not themselves icons) the relations of the quantities concerned” (CP:2.282,c.1893). After giving this quote from Peirce, Jakobson added the following:

Any algebraic formula appears to be an icon, “rendered such by the rules of communication, association, and distribution of the symbols”. Thus “algebra is but a sort of diagram”, and “language is but a kind of algebra”. Peirce vividly conceived that “the arrangement of words in the sentence, for instance, must serve as icons, in order that the sentence may be understood”. (Jakobson 1971b:350)

Now this is no doubt true for the physical construction of whole sentences and sets of sentences. And in this sense two linguistic signs, each one couched in a different code, can share the same overall external structure of their parts, and thus be derived from the same model, the common source which itself remains tacit. In this sense, too, a text and its translation (both composite linguistic signs), taken together, may be viewed as a self- reflexive dual construct; they do not need anything beyond themselves in order to be recognized and understood as signs sharing a number of significant qualities – sensory and/or material properties. It is easy to imagine that texts such as a sonnet, a marriage contract, and a court reporter’s transcript share some significant physical features with their respective translated versions – sign-internal features which may even be appreciated

22

without knowledge of the languages8 involved. Such common features are abstracted from sign-external reality, and may occur, in some form or other, in all codes, linguistic and non- linguistic alike. For example, in the case of verbal text-signs, the primary text and its translation may show an equivalent length, distribution of paragraphs, rhyme structure, and/or use of punctuation9. Such features make them immediately recognizable as similar signs – similar, that is, in “feel”, “tone”, or other “quality of feeling” (as Peirce would say).

If both signs (the translated and the translating sign) are taken as being morphologically, syntactically, etc. symmetrical (in other words, as mutually convertible across code barriers) this is done without taking into due consideration that one is the antecedent and the other the consequent. Yet the essential hierarchical relation which determines the one to be the interpretant of the other, and not vice versa, cannot be denied. Translational equivalence must always be a diachronic affair (to use a term from Saussure). Moreover, various quasi-synonymous equivalents (with mutually inconsistent terms) may be obtained from one sign. This means that the sign and its equivalent interpretant-sign may only be considered as one another’s counterparts to the extent that their signhood in its aspect of Firstness is under inquiry. I propose to call this equivalence referred to the signs-in-themselves “qualitative equivalence”.

Referential equivalence

Having traced qualitative equivalence between a sign and its interpretant-sign, we may next consider equivalence originating from Peirce’s other categories: Secondness, the category of the object, and Thirdness, the category of the interpretant. The aspects of sign equivalence yielded by Secondness and Thirdness will be called respectively “referential equivalence” and “significational equivalence”. The three aspects of equivalence together may then be named semiotic (or more accurately, semiosic) equivalence. This will be explained in adjacent paragraphs.

23

Concerning referential equivalence between sign and interpretant-sign, a distinction must be made between the standing-for relation on the level of the immediate object and on the level of the dynamical object10. The immediate object being the idea called up directly by a particular sign-use, is only knowable through the sign. As opposed to qualitative aspects of the sign (Firstness sensu stricto) the sign-immediate object relation represents the Firstness of Secondness; it concentrates on the sign’s referent on referents on the code level. Of course, the sign may be placed in any code or sign-system, verbal or nonverbal; and its immediate object is given in the exhibitive, ostensive, or verbal (depending on the code) manifestation of the sign. The interpreter sees the object only insofar as the sign reflects it. Without previous acquaintance with the code the sign is in, it is not possible to gain knowledge of its immediate object, let alone to penetrate into the inner sanctum of its “deeper” signification.

Translation involves at least two codes: a source code and a target code. For a sign in one code to be a translation of a sign in a different code, the respective immediate objects need not be the same. Since the immediate object is “the idea which the sign is built upon” (MS318:70,1907), it is differently represented in each code. The immediate object will be subject to change in and through the intercede semiosis of translation. In tandem with equivalence on the level of the sign, here too sameness is no requirement, neither on the micro-level (such as, in language, word-to-word or sentence-to-sentence correspondence) nor on the macro-(i.e., textual) level; and here too equivalence must be understood in a broad sense, as the kind of “loose” sameness created through any kind of semiosic interpretation, This does not imply that it is not crucial for both signs (the primary sign and the translated sign) to give, through their immediate objects, “hints” (as Peirce called them), careful examination of which in their contexts must lead to the same underlying idea, – the common real” or “dynamical” object, which stays itself outside the sign relation and is therefore not translated,

24

Let me give one example of this, To translate the Spanish expression, cortar el bacalao, by an expression which is identical on the immediate-objectual level creates equivalence if the expression occurs, for instance, in a fish recipe. But if the expression refers, in a figurative sense, to power structures, identity on the level of the immediate object would be a misinterpretation and distortion of the real facts pointed at by and in the code. The immediate object is therefore one referential meaning criterion, but one which needs to be supplemented by contextual information. A sign normally does not function in a vacuum, but is embedded in a communicational environment which supplies linguistic, referential, ideological, etc. indications to its right understanding. It is only within such a context that the interpreter can be led by the immediate object towards the dynamical object – the real feeling, thing, event, phenomenon, thought, or concept which causes the sign relation but remains itself independent from it.

The dynamical object is itself absent and remains outside the semiosic event. It is the Second under the aspect of Secondness; and as a “double Second” it is only knowable through the immediate object, which, as indicated, is the outward perceptible form in which the object manifests itself in the sign. In order to get to know the dynamical object of a sign one can only perceive, study, and try to understand what is implied by the immediate object. This requires, according to Peirce, “experience”, “collateral observation” (real or imagined), and skills such as “imagination and thought” (MS318:77,1907). The dynamical object corresponds to the hypothetical sum total of all instances of the sign-bound immediate object, of which the primary sign and the translated sign are two instances couched in different (sub)codes and more often than not with different immediate object. “No man can communicate any information to another without referring to some experiences to be shared by him and the person whom he addresses” (NEM3,2:770,1900). Like all other forms of communication, translation is sign-action within a physical universe of social interaction. The existence of a common experiential ground is a

25

crucial element of communication: without it, access to knowledge of what the message really means (its dynamical object) is blocked. The more freely and directly collateral experience is shared with a partner in a communication situation, the more efficient the communication. Peirce wrote:

I go into a furniture shop and say I want a “table”. I rely upon my presumption that the shop-keeper and I have undergone reactional experiences which though different have been so connected by reactional experiences as to make them virtually the same, in consequence of which “table” suggests to him, as it does to me, a movable piece of furniture with a flat top of about such a height that one might conveniently sit down to work at it. (NEM4:259,c.1904)

In other words, “when there are both an utterer and an interpreter, the [dynamical object of the sign] is that which the former has in mind, but which it does not occur to him to express, because he well knows that the interpreter will understand that he refers to that, without his saying so” (MS318:69,1907). By this token, it is essential for intercode communication to successfully take place, that the communicational partners, though belonging to different codes, have acquired and possess, albeit implicitly, a shared knowledge of the phenomena of the world in their different semiotic expressions.

Obviously, it is easier to get to know a dynamical object which has an indexical relation to the sign than one which is an icon or a symbol.11 What the latter have in common, and what distinguishes them from Seconds, is their generality. Iconic signs show possible attributes, yet unattached to any existent; symbolic signs give general rules, applicable but not yet applied to a particular case; while indexical signs are concrete sign- instances embodying icons and governed by symbols.

Now even if the primary sign and the translated interpretant-sign have different immediate objects, their dynamical objects will always need to be identically the same, at least ideally. Even their sameness is, however, relative, since it is to some degree always the result of an interpretation, of an inferential procedure. In other words, the relation

26

between the two must be mediated by a semiosis which makes it possible for one to be a logical consequence of the other. Before embarking upon further analysis of this, I will try to explain form a slightly different angle how sign-representation is connected with sign- interpretation.

Breadth, depth, information

The sign’s standing-for and standing-to relations must be taken together for a specific purpose: to introduce a group of concepts which, though still connected with the sign and the code it is in, pertain specifically to its external relations. These concepts were addressed by Peirce as a young lecturer, most prominently in his paper “Upon logical comprehension and extension” (W1:454-471,186612). I shall not attempt to give an exhaustive account of Peirce’s thought here, but will limit myself to the ideas having a direct connection with my main theme.

Following a long-recognized tradition, Peirce argued in the above-mentioned Lowell Institute Lecture VII that a word (or any other symbol13) has two different logical dimensions which, as stated by Peirce in a later manuscript, “are equally applicable . . . to . . . all kinds of signs” (MS200:49,1907). One of these logical dimensions is “extension”, “denotation”, or “breadth”; the other is “comprehension”, “connotation”, or “depth”. Despite the fact that these concepts have been standard expressions in logic since the Port Royalists, they have been lacking in precise designation. Peirce proposed to adopt as the most serviceable designations, logical breadth and depth.

The logical breadth, or denotation, of a term relates the term to the world. It indicates the (real) individuals or objects to which the term applies and which occasion its use. Logical depth, or connotation, refers to a term’s meaning-content, the attributes or qualities that can be predicated to it, “the possibilities which are imagined or judged to be realized” in those individuals (MS200:49,1907). Not only does the word force an

27

interpreting mind to recognize the thing, phenomenon, event, or relation which is indicated or designated by it; the word is also informed and influenced by its designatum, or object; and finally, “Everything must be comprehended or more strictly translated by something” (W1:333,1865). Note, however, that both aspects are not equally important: “Every symbol denotes by connoting” (W1:272,1865). Peirce wrote, and “Denotation is created by connotation” (W1:287,1865). Whereas both aspects of the word are essential, depth, as referring to sign-enriching action, thus has priority over breadth, the indicative aspect of the sign. As Peirce put it later (in an unpublished letter to his former student, Christine Ladd- Franklin), “the depth of the sign seems to be nothing but its better self. The sign is related to its depth . . . as an idea to an ideal, as memory to vivid hallucination . . . (MSL237:187,1902).

Logical breadth refers backward to the object, and logical depth forward to the interpretant. The dual elements in the sign produce what Peirce called “information”14. Whenever a sign is interpreted, it “always results in an increase either of extension [denotation, breadth] or comprehension [connotation, depth] without a corresponding decrease in the other quantity” (W1:464,1866). By information Peirce meant the “amount of com-

prehension [connotation, breadth] a symbol has over and above what limits its extension [denotation, breadth]” (W1:287,1865). And increase of information of a sign means “an addition to the number of terms equivalent is produced; in other words, in each act of sign interpretation/translation new knowledge (that is, Thirdness) is generated15.

The following passage from Peirce, taken from a later work, may help to clarify the foregoing analysis:

A symbol, once in being, spreads among the peoples. In use and in 28

experiences, its meaning grows. Such words as force, law, wealth, marriage, bear for us very different meanings from those they bore to our barbarous ancestors. (CP:2.302,c.1895)

Take, for instance, the occasion when, in common law, a judge makes a court decision which establishes a new precedent for a certain type of case; or when, in Roman law, a new law is added to the body of law. What transpires then is an increase of information. The term “law” can be applied to a new object, but its basic characters remains unchanged. Consequently, it has increased in breadth, but with no increase in depth. Or imagine a newly-married convert to Islam, locked up in a harem. Her concept of “marriage” has probably undergone a dramatic change. Though the marital institution itself is the same as she knew it previously, a series of new characters were added to it. The term “marriage” remained constant in breadth, but has increased in depth. In this case, too, information has increased. By “spreading among the peoples” (CP:2.302,c.1895) (that is, by being interpreted, translated), the semiotic features of symbols (words, concepts, etc.) are developed and enhanced.

29

Significational equivalence

Inspired by these and similar thoughts, Peirce “invented” the concept of the interpretant as he saw it, thus:

Indeed, the process of getting an equivalent for a term, is an identification of two terms previously diverse. It is, in fact, the process of nutrition of terms by which they get all their life and vigor and by which they put forth an energy almost creative – since it has the effect of reducing the chaos of ignorance to the cosmos of science. Each of these equivalents is the explication of what there is wrapt up in the primary – they are the surrogates, the interpreters of the original term. They are new bodies, animated by that same soul. I call them the interpretants of the term. And the quantity of these interpretants of the term. And the quantity of these interpretants, I term the information or implication of the term. (W1:464- 465,1866)16.

From the perspective of Peirce’s evolutionary logic, each translation makes the implicit more explicit, thereby involving increased information. This is clearly expressed by Peirce’s “a sign is something by knowing which we know something more” (PW:31- 32,1904). The growth of knowledge is accompanied by an increase in either breadth or depth. It has no influence upon the signified facts themselves, nor the characters attributed to them, which may be either true or false (NEM4:24,c.1904). But when two signs are equivalent, they denote the same things and have the same logical breadth. They may depend, for their truth-value, upon a particular connotative depth (as obtained in interpretation) or they may depend only upon this denotative breadth.

The interpretant is supposed to indicate the same things or facts as the primary sign,

and to signify these things, and assert these facts, in like manner. But both relations are 30

unlikely to remain constant and unchanged in the course of time – in other words, in the course of a series of semiosic events of an inferential nature. Equivalence, in the strictest sense, between sign and interpretant is therefore logically impossible: it would stifle the growth of knowledge, which growth is exactly the point of sign production and sign use. Ours whole human universe being, in Peirce’s words, “perfused with signs, if it is not composed exclusively of signs” (CP:5.448,n.1,1905), we communicate by signs, of which we produce a constant stream of new interpretants, which we interpret again, and so on. During this never-ending inferential process, new significations (and thereby new truth- values) are constantly put forth, probed, weighed, accepted, negotiated, defended, ignored, held in reserve, rejected, etc.17 New knowledge is thereby accrued of the object. In accordance with Peirce’s pragmatic maxim, the ultimate goal of this exercise remains, nonetheless, to achieve total knowledge of the meaning of a sign. To achieve this, one needs to persevere in making ever-new interpretations/translations of the sign, in order to gain access, via the sign and its immediate object, to the sign’s prima causa, the dynamical object. In the final analysis, translation, linguistic and otherwise, is about our own life- world, real and imagined, and the myriad ways in which we make sense of it by creating significational equivalents of it and its parts18.

Translation process

Let us next take another example of an issue in translation theory for which a solution can be found by placing it into the framework of a Peircian theory of signs. The translation procedure itself has been commonly but arguably hypothesized as a chronological scenario involving variously three or four stages. It is tempting to view the nature and role of these stages in the light of Peirce’s process of interpretation, which is systematically described by him as a threefold reasoning-process consisting in the production of three successive interpretants.

31

In reference to the study of the translation process in itself, Toury advances the following cautionary remarks:

Since we know very little of the inner, psychological mechanisms involved in translating, any single act of this kind of activity is in the position of a “black box”, that is, an open system whose internal structure can be guessed at, or tentatively reconstructed, only on the basis of the relationships between the entities established as its input and output. (Toury 1986:1114)

Now, rather than a sign of intellectual humility, the foregoing remarks appear to me to call for a Peircean approach to the phenomenon of translation. It is a well-known fact that Peirce, the logician, was radically opposed to psychologism – meaning by this the dependence of semiotics upon psychology. For him, the study of sign action does not require knowledge of the exact workings of the human mind. This is not to say that Peirce considered that the mind as a thinking (i.e., sign-processing) agency was irrelevant to his logic; rather, the reverse is actually true. “I am using mind”, Peirce wrote half in jest,

. . . as synonym of Representation; and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind. I think they mainly talk about consciousness, in the sense of the first category, and hypothetical arrangements in the brain. (MS478:157,1903)

Instead of Firstness, Peirce, the logician, studied Thirdness; “not the psychological process, but the logical function” (MSL237:126,c.1900); not the contents of the “black box” itself, but the inferential processes leading from premisses to conclusions. These processes he called the “modes of action of the human soul” (CP:6.144,1892). All thought is, for Peirce, about showing how one sign leads rationally to another, thereby signifying growth and

32

development. This being Peirce’s main subject of inquiry, he would hardly have been inclined to embark upon a serious investigation of how mental processes may fail, derail, or get paralyzed, as would be the concern of the psychologist19.

For the purpose of the argument here, it is critical to bear in mind that semiotics as Peirce conceived it is a query about the logical relationship between a particular sign on the on hand, and its interpretant or translated sign on the other; and also that this relationship can be defined as either abductive, inductive, or deductive. The translation process being a mental process not open to direct scrutiny, Toury seems to contend (at least in the above quotation) that it can only be explained by abduction, while this makes a perfectly valid statement, it would for Peirce probably have been a somewhat “pessimistic ” way of dealing with the facts of the matter. Despite their reliance on guessing instinct, abductive hypotheses are often remarkably right in their explanations of the facts, so their truth-value should not be considered too lightly. Moreover, abductive leaps call for inductive testing, the search for facts by “experiments which bring to light the very facts to which they hypothesis had pointed” (CP:7.218,1901). Finally, induction again prepares the ground for deduction, the development of laws ruling the facts and giving them a “purpose or end” (MS292:13,c.1906). For the argument here, the questions raised by Toury are timely, because the three kinds of reasoning are directly dependent on the categories and must be considered as the equivalents, in the logical sign relation, of the three kinds of logical interpretants which correspond to the three stages in the translation process. This shall be argued in subsequent paragraphs.

Let us first introduce, seriatim, some of the ideas as to the stages in translation, as proffered by different scholars. In a highly praxis-oriented spirit, Koller (1992:203-204) distinguishes between three “Arbeitsstufen”: the “Rohübersetzung” or shortlived transla-

33

tion, the “Arbeitsübersetzung” or middlelived translation, and the “druckreife Übersetzung” or longlived translation, Koller’s criteria are qualitative and correspond to a mounting scale of grammatical, lexical, stylistic, etc. “Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit”, “accuracy, correctness, and adequacy” (Koller 1992:20-4). As explained by Koller, the first phase produces a draft translation of limited scope and usage. Its focus on “Genauigkeit”, or accuracy, means that there must be “Identität des Inhaltes”, but violations against morphological, syntactic, phraseological, lexical, stylistic, etc. rules are in this stage still accepted. In a second-phase translation, “Genauigkeit und Richtigkeit”, accuracy and correctness, are required; it may contain no grammatical, lexical or stylistic errors. Finally, Koller’s “print-ready” translation is characterized by the triad, “Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit” – accuracy, correctness, and adequacy. A product of solid research and serious reflection, it is intent on satisfying the highest norms and expectations. It must be noted, however, that the progression from, roughly, fidelity to source-fact, to agreement with target-code, and finally accordance with text-type between source-text and target-text, sets singularly relative priorities. The three steps advanced by Koller to describe the quality of the translator’s performance can only be defined in relation to one another. External criteria of assessment are absent here. This greatly reduces the usefulness of Koller’s three- step process outside pure translation practice and pedagogy.

With some necessary “theoretical speculation”, Toury himself proposes a four-stage schematic representation of translation:

(1) an indispensable decomposition of the initial entity up to a certain,

varying

level,

34

and assigning its constituents at this level the status of “features”;
(2) a selection of features to be retained, that is, the assignment of relevance to some part of the initial entity’s features, from one point of view or another;
(3) the transfer of the selected, relevant features over (one or more than one) more or less defined semiotic border;
(4) the (re)composition of a resultant entity around the transferred features, while assigning to them the same or another extent of relevancy. (Toury 1986:1114)

In contradistinction to Koller’s practical proposal describing the quality of the end-product, ‘I’oury’s program is highly theoretical and process-oriented. A prerequisite for it is that the text ab quo can be divided into discrete units, some of which may then be considered as relevant “from one point of view or another” (as signifying, in semiotic parlance) and others as irrelevant (as non-signifying). Only the former are then transcoded, while the fate of the latter, evidently disposable, units remains rather unclear in Toury’s proposal.

It would seem to me that no parts of a text-sign may be concealed by camouflage without practicing some form of erosion, whereby the semiotic substance is thinned in the successive semioses it undergoes, instead of becoming progressively richer in content, as Peirce would have it. The notion of relevancy brandished by Toury is really a dangerous and indiscriminate weapon. Due to the fact that it may have either an ideological or an intuitive bias, or both, Toury’s scenario here seems more tailored to suit rhetorical needs than to lead to the summum bonum, the truth in the way Peirce saw it20.

In After Babel, Steiner proposes a fourfold “hermeneutic motion, the act of elicitation and appropriative transfer of meaning” (Steiner 1975:296), which in his description really consists of three stages and an illusory fourth. In the first stage there is,

35

according to Steiner, “initiative trust” in the meaningfulness of the “‘other’ as yet untried, unmapped alterity of statement” (Steiner 1975:296) in the text-to-be-translated. This trust “will ordinarily be instantaneous and unexamined, but it has a complex base” (Steiner 1975:296). After what looks like a description of Peirce’s Firstness, Steiner proceeds to the second stage of translation, where the initial trust is put to the test of confrontation, and the “manoeuvre of comprehension [becomes] explicitly invasive and exhaustive” (Steiner 1975:298). The text is now attacked, as it were, in its “otherness”, in an act of aggression in which we “‘break’ [its] code . . . leaving the shell smashed and the vital layers stripped” (Steiner 1975:298). Now, this is remarkably similar to Peirce’s Secondness. “The third movement”, Steiner continues, “is incorporative, in the strong sense of the word . . . embodiment . . . [W]e come to incarnate alternative energies and resources of feeling” (Steiner 1975:298-299). This last process, of “comprehensive appropriation”, may result in a “complete domestication, an at-homeness” of the translation in its new situation; or the translation may have acquired a “permanent strangeness and marginality” in it (Steiner 1975:298). The fact that a translation may work either like “sacramental intake” or like its opposite, an “infection” (Steiner 1975:299), means, for this critic, that it still lacks

. . . its fourth stage, the piston-stroke, as it were, which completes the cycle. The aprioristic movement of trust puts us off balance. We “lean towards” the confronting text . . . We encircle and invade cognitively. We come home laden, thus again off-balance, having caused disequilibrium throughout the system by taking away from “the other” and by adding, though possibly with ambiguous consequence, to our system is now off-tilt. The hermeneutic act must compensate. If it is to be authentic, it must mediate into exchange and restored parity. (Steiner 1975:300)

36

By reaching this new state of synthesis, Steiner’s model has come full circle. Though Steiner would surely never place himself under the banner of semiotics – any semiotic banner –, yet his “hermeneutic motion” closely resembles semiosis, and his stepwise scenario described above is interestingly reminiscent, conceptually and otherwise, of Peirce’s succession of three interpretive moments as manifested in the first (immediate/emotional), second (dynamical/energetic), and third (final/logical interpretants) – the latter again subdivided, according to Short (1986a:115), in a “non-ultimate” and an ultimate logical interpretant21.

Translation, at least in its lingual varieties, deals with signs interpretable by logical interpretants; it is a “pragmatic” process of making sense of intellectual concepts, or signs of Thirdness. The solution of mental problems, of which translation would be one exemplary instance, occurs for Peirce in three, perhaps partly overlapping, inferentially- reached developmental stages showing an increasing degree of “hardness” or solidity of belief22. When embodied in an actual (and thus observable) tangible (and thus testable) translation, this concept may serve as a quality norm roughly similar to Koller’s above- mentioned three grades of “accuracy, correctness, and adequacy” (Koller 1979:94). This is hardly coincidental, because Peirce’s logic is a normative science (Ransdell 1981:201- 202n;Fisch 1996:269ff.) – albeit in a more “technical” sense than meant by Koller – and translation taken in its non-descriptive performance-directed aspects is equally processual and, at the same time, norm-governed.

First, second, and third logical interpretants
The first in the series of logical interpretants emerges when we are faced with problematic

situations of an intellectual nature, as a fleeting belief, a mere set of feelings arising

. . . when upon a strong, but more or less vague, sense of need is 37

superinduced some involuntary experience of a suggestive nature; that being suggestive which has a certain occult relation to the build of the mind. We may assume that it is the same with the instinctive ideas of animals; and man’s ideas are quite as miraculous as those of the bird, the beaver, and the ant. For a not insignificant percentage of them have turned out to be the keys of great secrets. (CP:5.480,c.1905).

To solve or explain the problem a conjecture, or hypothesis, is formulated. Peirce drew a felicitous parallel between this initial, heuristic stage of scientific inquiry and the “Pure Play of Musement”, or intellectual reverie (CP:6.452ff.,1908). In the translation process this would correspond to the more instinctive than rational phase when the text-sign first enters a receptive mind. A trained translator’s mind will then, spontaneously and with practiced ease, start generating a flow of ideas. This impromptu translation may be a fragmentary and tentative draft, perhaps; it is nevertheless a new sign susceptible of serving as a point of departure in the next semiosis.

Whereas with animals “conditions are comparatively unchanging, and there is no further progress” (CP:5.480, c.1905), with humans the first conjectural interpretants can be further developed, introducing a process of growth of ideas. The next logical interpretant is a product of what Peirce called “the dash of cold doubt that awakens the sane judgment of the muser” (CP:5.480,c.1905), and expresses itself in experimentation, in weighing pros and cons. The working hypotheses are at this stage put to the test and verified by solid judgment. In the translation situation the more or less lucky guesses are now out on the dissecting table and analyzed with a clear hand. The result is “a” translation which provides “a” solution to the problem. It offers at best a successful solution, one which works in the intended communicational situation and one which makes sense (that is, significant) in the target culture. But it may at worst be received in it

38

with mixed feelings, shock, or even rejection.
Given time and hard work, a practiced mind is bound to produce a third logical

interpretant as the near-perfect solution with which semiosis to all intents and purposes may come to a (possibly temporary) logical standstill. Such an ideal translation will have found its natural habitat in the recipient situation, thereby losing its acute “percussivity” (NEM4:318,c.106). The new configuration having thus become unproblematic and more or less harmonious, the mind ceases to be in the “state [of] activity . . . mingled with curiosity” (NEM4:318,c.1906) by which it is stimulated to put out further interpretant- signs.

This ideal status quo should, nevertheless, never become a taking refuge in some artificial fixity. The third logical interpretant does express a firm belief, but it is still a thought-sign; and its primary goal is therefore to remain alive and communicative throughout time. To ignore its need to grow would be an antiquarianism. The judge of any interpretant’s finality must always be the social community, or communis opinio, the norms of which are naturally changeable. Although the semiosis at this point may have lost its edge, yet the translation process has reached a still non-ultimate moment. Its apparent finality is no more than a resting-point.

For this reason it is possible, and even essential, to take the semiosic process one crucial step further, and to consider that the semiosic fire is susceptible of rekindling at any future moment, however distant or utopian. The sign would then be called upon to fulfill the explosive task of generating the one single unfailing habit with which the semiosis would definitely come to its end. This ultimate logical interpretant would embody the final truth-norm and would therefore no longer be placed in the triadic relation which characterizes the Peircian sign. A translation which would pretend to give final answers is, however, an alarming oxymoron, a sure sign that culture itself has, for instance by some irreversible catastrophic final event, come to an end23. This would make

39

the actual production of a truly final ultimate translation a terminal matter, or sign of the death of the sign (CP:5.284=W2:224,1868).

The role of the translator

The next and last point that will be raised here is the role of the translator in the translation process. Alternatively criticized and ridiculed, enhanced and romanticized, the translator has frequently been taken out of proportion to the job he or she really does. The technical translator has essentially been seen as a craftsman (or craftswoman), and his or her work as a form of expertise – difficult, perhaps, but not an impossible skill to master. At the other end of the scale, the literary translator, and in particular the poetic translator, has been elevated (or has elevated him- or herself) to the interesting status of creative artist in his or her own right. This dichotomy has created a potent mythology around the figure of the translator, who has been invested, and indeed infested, with such images as the copyist, the acolyte, the slave, the amanuensis, the bricoleur, the re-creator, the mediator, or other metaphors serving to either efface or aggrandize the translator’s personal performance.

In the face of such ambiguous assessment of the professional persona and talents of the translator, and of his or her role in the translation process, I would like to construe the translator in terms of Peirce’s semiotics, in order to argue that on the whole, the personal impact of the translator on the translating procedure seems perhaps to have been subject to indue inflation – both “upward” and “downward” inflation. This is at least the (hopefully more realistic) direction in which Peirce’s doctrine of signs would point us.

The translator as communicator has a dual role. He or she embodies both the addressee (or one of the addressees) of the original message, and the addresser of the translated message; both interpreter and utterer; both the patient interpreting the primary sign, and the agent uttering the translated meta-sign. In semiotic terms, the translator is

40

charged with both the standing-for and the standing-to relation, and thus he or she monopolizes the whole sign-manipulative process in which translation consists. The following statements, from Peirce, seem to point by implication to the translator’s situation: ” . . . two separate minds are not requisite for the operation of a sign . . . [T]wo minds in communication are, insofar, ‘at one’, that is, are properly one mind in that part of them” (MS283:107,1905-1906); “In the Sign they are, so to say, welded” (CP:4.551,1906).

Now it is a notorious fact that Peirce considered that “neither an utterer, nor even, perhaps, an interpreter, is essential to a sign, characteristic of signs as they both are” (MS319:58,1907). Although semiosis is for Peirce triadic action and he did not explicitly include any such fourth or fifth component, in addition to the sign, its object, and the interpretant24, this is not to say that Peirce did not recognize the existence of either. In fact, he did so repeatedly, for instance, when he stated that when a (verbal) sign is made, “there really is some speaker, writer, or other sign-maker who delivers it-, and he supposes there is, or will be, some hearer, reader, or other interpreter who will receive it” (CP:3.433,1896); or in his often-cited definition of the sign as “something which stands to somebody for something . . . It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign . . . ” (CP:2.228,1897); or when Peirce referred to “the Utterer’s (i.e. the speaker’s, writer’s, thinker’s or other symbolizer’s) total knowledge” (CP:5.455,1905).

Some caveats are in order. Firstly, Peirce did not have in mind, it would seem, that the utterer and the interpreter were human individuals or even specific minds25. “A sign is whatever there may be whose intent is to mediate between an utterer of it and an interpreter of it, both being repositories of thought” Peirce wrote (MS318:206,1907;Peirce’s emphasis). He was rather thinking, in an abstract way, of what he called “theatres of consciousness” (MS318:55,1907) or “quasi minds”: “Signs require at least two Quasi-minds; a Quasi-utterer and a Quasi-interpreter” (CP:4.551,1906). Peirce

41

argued as a central piece

42

of his theory of signs that semiosis “not only happens in the cortex of the human brain, but must plainly happen in every Quasi-mind in which Signs of all kinds have a vitality of their own” (NEM4:318,c.1906). Secondly, the interpreter seems to be more essential for sign-action than the utterer. Many signs have no utterer, or at least they do not emanate from any personalized and conscious sign-maker. To illustrate this, Peirce mentioned “such signs as symptoms of disease, signs of the weather, groups of experiences serving as premisses, etc.” (MS318:56-57,1907). But a sign is no sign unless there is some interpreter interpreting it as such – “capable of somehow ‘catching on’” (MS318:205,1907) – if not really then at least potentially. A sign which for whatever reason is unable ever to be interpreted can not really be considered a sign in the semiotic sense. Thirdly, the utterer and the interpreter inside the translator’s mind are engaged in a dialectic relation evolving over time, a dialogue, half internal and half external, in which the translator/utterer is subordinate to the translator/interpreter; yet the performance of both “roles” by the one translator is clearly dominated by that of the interpretant-sign – that is, the interpretant turning again the sign, or the sign as it is being transformed into an interpretant.

As opposed to Saussurean-based linguistics semiotics, with its emphasis on sign production, pragmatic semiotics (that is, semiotics in the Peircian tradition) proceeds to the contrary and manifests itself first and foremost as a theory of sign interpretation. The sign as Peirce conceived it is, in contradistinction to its Saussurean counterpart, not defined in terms of an utterer and/or interpreter, but in terms of its relations – with itself, with its object, with its interpretant. Through semiosis, the sign deploys its meaning; its full meaning is thus knowable, “although it may lie only at the ideal and infinitely distant terminus of inquiry” (Savan 1983:6). Sign action and sign interpretation are not necessar-

43

ily determined by a human utterer or interpreter: Peirce’s semiosis is self-generating triadic action. As all semiotic signs, the text-sign interpretation are not necessarily determined by a human utterer or interpreter: Peirce’s semiosis is self-generating triadic action. As all semiotic signs, the text-sign is a living agency actively seeking to realize itself through some interpreting mind rather than passively waiting to be realized by it, as is the case in linguistic semiotics. One reason why the Peircean concept of text-sign may at first seem fanciful is that it diminishes the significance of the reader/interpreter/translator. In a Saussurean-inspired text-semiotics, the latter is customarily looked upon as the sole discourse-producing subject, as the one agency giving the text-sign its pragmatic, Peircian paradigm, the presence of an interpreter is somehow subsumed but at the same time de-emphasized.

This means that the active mediating role in the kind of semiosic action ordinarily called translation is played not by the translator, as is commonly thought, but by the autonomous action itself through which the sign gets to realize its meaning. Peirce wrote about thought and the thinking person that thought thinks in man rather than man in it (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), and

[T]he idea does not belong to the soul; it is the soul that belongs to the idea. The soul does for the idea just what cellulose does for the beauty of the rose; that is to say, it [the cellulose] affords it [beauty] opportunity. (CP:1.216,1902)26

Applied to the translation situation this means that the translator is merely instrumental in making sign-action possible; he or she is used (that is, acted upon, influenced) by the sign. Therefore it would be a misconstrual of the facts to hold, as is generally done, that the sign is translated by the translator, because it really translates itself27. The translator does not

44

address the text-sign; the text-sign addresses the translator. And the translator is not addressed as a flesh-and-blood person but as a mind (that is, as a sign). The sign addresses, in the interpreter’s memory, “a particular remembrance or image” which is “the mental equivalent” of that sign – in short, its interpretant (W1:466,1866). “The whole function of the mind is to make a sign interpret itself in another sign” (MS1334:44,1905). Of course, the translator may be a Marxist, a woman, an Italian; but at the moment of translating one is, if not simply the “site being traversed by words” which Barthes postulated, certainly not a calculus of ideological or sexual or national sentiments. The text-sign must be seen as a living organism requiring translation for its survival and actively seeking a receptive mind capable of generating interpretants; without interpretive response the text-sign would die and disappear.

The relevance of this semiotic transaction to machine translation is obvious. To be sure, Peirce envisioned, in 1905, the possibility of translation by a mechanical device – non-human but programmed by a human mind. He wrote:

. . . if we had the necessary machinery to do it [translation], which we perhaps never shall have, but which is quite conceivable, an English book might be translated into French or German without the intervention of translation into the imaginary signs of human thought . . . Supposing there were a machine or even a growing tree which. without the interpolation of any imagination were to go on translating and translating from one possible language to a new one, . . . (MS283:97-98,1905)

The translator is thus for Peirce essentially a passive medium in the translational business, which he or she (like Peirce’s “growing tree”) can

45

influence only peripherally.
Embodying the (above-mentioned) idea that thought thinks in man rather than man in

it (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), the translator is “carried in spite of [him- or herself] from one thought to another” (CP:1.384,1890-1891). Peirce’s deemphasis of the personal interpreter bears on his (still somewhat mysterious) “man is a sign equation (CP:5.314=W2:241,1868). In Peirce’s semiotic aphorism, man is considered as much as a symbol, a process of communicating, knowing, and learning, as is the sign itself; consequently, all terms involved in the semiosic process are signs. Neither the utterer nor the interpreter can function as autonomous agencies under the umbrella of semiosis. They are as much signs convertible into one another within this communicative relationship, as the sign uttered and/or interpreted somehow needs them for its existence. By this token, signs of all kinds interpret themselves by themselves, man interprets man, man interprets signs, and signs man, all in an irreversible self-organizing generative system which constantly renews itself28. This makes the pragmatic process of carrying ideas (that is, thought-signs), as opposed to being carried by them, into a sort of contractual relationship29 in which

. . . men and words reciprocally educate each other; each increase of a man’s information involves and is involved by, a corresponding increase of a word’s information. (CP:5.313=W2:241,1868)30

While “[e]very utterance naturally leaves the right of further exposition in the utterer” (CP:5.447,1905), at the same time the interpreter enjoys what Peirce significatively called the “privilege of carrying its [the sign’s] determination further” (CP:5.447,1905). Being a term subsumed by the triadic sign-process, the translator-sign is only given a limited freedom of interpretive action. As Peirce stated, “a sign which should make its interpreter

46

its deputy to determine its signification at his pleasure should not signify anything, unless nothing be its significate” (CP:5.448,n.1,1906). By this shrewd but slightly malicious observation, Peirce obviously meant more than that interpreters/translators, when left to their

own resources, are capable of, and indeed prone to, producing non-sense. Peirce’s remark that “the barbaric conception of personal identity must be broadened drives home the fact that

All communication from mind to mind is through continuity of being. A man is capable of having assigned to him a rôle – no matter how humble it may be, – so far he identifies himself with its Author. (CP:7.572,c.1892)

A translator in Peirce’s intellectual spirit leads therefore a “problematic existence” (CP:2.334,c.1895): he or she is not so much an individual expert who may pretend to know all the answers, as he or she needs to be a dedicated student of what transpires in the semiosis in which he or she participates. The truly Peircian translator is intrigued, fascinated, or puzzled by the sign in front of him or her, even in love with it. By the same token, the translator’s mind needs to be open and subject to semiosis – that is, committed to growth and engaged in an ongoing learning-process. it must submit itself unreservedly to the sign’s attractive force, inspired by what can rightly be called “creative Love”, as opposed to self-love (Henry James, William James’s father, quoted in Murphey 1961:351;see also CP:6.287,1893).

The erotic overtones of this imaginery are hardly coincidental. They serve to highlight the fact that the translator is to some degree a devotee of the sign, one whose desire consists in unconditional surrender to its needs and desires, rather than looking in the text-sign for opportunities to show off his or

47

her own skills and talents. Whereas love of self is, for Peirce, a mere euphemism for greed (CP:6.291,1893), creative love is, in accordance with Peirce’s agapastic theory of evolution with its roots in the gospel of St. John, the same as his “evolutionary love”,

. . . which teaches that growth comes only from love, from I will not say self-sacrifice, but from the ardent impulse to fulfill another’s highest impulse. Suppose, for example, that I have an idea that interests me. It is my creation. It is my creature; . . . it is a little person. I love it; and I will sink myself in perfecting it. It is not by dealing out cold justice to the circle of my ideas that I can make them grow, but by cherishing and tending them as I would the flowers in my garden. The philosophy we draw from John’s gospel is that this is the way mind develops . . . (CP:6.289,1893)31

This, too, is synechism, the evolutionary principle of inquiry, which, applied to the translator’s (or any other investigator’s) mental attitude, concentrates upon facts not as isolated phenomena, but as embodying “a true continuum . . . whose possibilities of determination no multitude of individuals can exhaust” (CP:6.170,1902). In this fashion, then, the translator partakes of a metaphysical cosmology in which meaning-potentialities, relationships, and generalities informing the sign are established which would escape the anatomically-oriented mind.

I hope to have made clear that in tandem with this conception of the role of the translator as disinterestedly performing a labor of love, translation as semiosis finds a whole new and exciting expression32.

Concluding remarks

A turn away from the linguistic approach to translation, and a return (following Peirce and in the company of Jakobson, Steiner, and others) to a philosophical perspective on the phenomenon of translation, makes the whole perennial discussion regarding the “fidelity” or “infidelity” of a translation (as it is often called with a moralizing flavor) redundant, and sheds a wholly new

48

light upon the epistemology of its “truth”. These ideas are no longer in order in a theory of translation which aims not at the reproduction of meaning (without, however, losing its normative and purposive character) but at the embodiment and deployment of a sign’s meaning-potential.

Translators shall accept the compliant role and be considered as bare and anonymous minds. In the epigraph of this chapter I mentioned the old cliché, traduttore traditore, and Jakobson’s timely remarks upon it. Perhaps traditore may be taken here positively, in its etymological sense – which would make the translator a neutral transmitter of the message. Perhaps also, translators should be able and willing to sabotage their “traditional” duties, to display deviant behavior, and to engage in the creative, or simply deceptive, “paradox of betrayal by augment” (Steier 1975:298), and also betrayal by reduction or distortion. Otherwise what they may produce are transliterations, dead replicas of the original. To the degree that a translation is a mere simulacrum it only serves to stifle semiosis, because it weaves patterns in which likeness, or even sameness, is a recurrent motif. Modelling in translation needs to be speculative, by suggesting a hypothesis. It makes its start from facts, but without, at the outset, having any particular theory in view. It aims to propose the construction of a prognostic model, but it must do so guided by instinctive “reason”. This is not the oxymoron it looks like at first blush. Let me therefore propose traduttore abduttore as a new adage suited to reflect what should, in a Peircian philosophy of signs, be the primary concerns of the translator. This makes semiosis, translational or otherwise, perhaps a risky game, but never a trivial pursuit. For the translation of texts, it is the breath of life.

49

Notes

Dinda L. Gorlée

EQUIVALENZA, TRADUZIONE E IL RUOLO DEL TRADUTTORE

«If we were to translate into English the traditional formula Traduttore traditore as ‘the translator is a betrayer’, we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? Betrayer of what values?»

(Jakobson 1959:238)

Introduzione

Nei capitoli precedenti ci siamo imbattuti in alcuni temi chiave della teoria della traduzione che meritano a questo punto di essere esaminati. Nonostante le discussioni di lunga data tra teorici della traduzione proprio riguardo a questi temi, sembra che al momento non si riesca a trovare un accordo. Tuttavia si potrebbe affermare senza farne un dramma che l’accurata e

50

continua discussione di questi argomenti controversi da varie angolature metodologiche è decisiva per l’evoluzione armoniosa del campo interdisciplinare (o meglio, transdisciplinare) della teoria della traduzione. Se si può mostrare – come mi propongo di fare io in queste pagine – che la filosofia dei segni di Peirce getta nuova luce su questi problemi, il mio contributo qui sarà determinante, per lo meno in modo modesto, per portare la discussione verso un consenso, un accordo di opinioni in spirito peirciano.

Permettetemi allora di prendere come esempi illustrativi dell’attinenza della semiotica peirciana con la traduzione i seguenti argomenti: (1) l’equivalenza tra prototesto e metatesto, (2) il processo traduttivo e le sue fasi e (3) il ruolo del traduttore all’interno del processo traduttivo.

L’equivalenza

Per equivalenza si intenderà qui la stipulazione, ricorrente in qualsiasi testo nella teoria della traduzione, tra l’identità del prototesto e quella del metatesto tra codicii. Innanzitutto, diversi studiosi di traduzione usano il concetto di equivalenza in vari sensi. Koller (1992:214-215) cita, tra gli altri, il «closest natural equivalent» di Nida, il «möglichst äquivalenter zielsprachlicher Text1» di Wilss e il termine di Jäger «kommunikativ äquivalent2». Il quadro è ulteriormente offuscato dalle varie qualifiche date al termine, che spesso viene usato non in senso meramente descrittivo (ossia, oggettivamente), bensì come un requisito a priori che un testo dovrebbe soddisfare per qualificarsi come traduzione adeguata. Le varietà di equivalenze proposte dalla critica della traduzione sono davvero

1 Letteralmente, testo in lingua d’arrivo il più equivalente possibile [NdT]. 2 Equivalente comunicativo [NdT].

51

sorprendenti: oltre a «equivalenza traduttiva», il termine apparentemente più generaleii, è possibile trovare «equivalenza funzionale», «equivalenza stilistica», «equivalenza formale», «equivalenza testuale», «equivalenza comunicativa», «equivalenza linguistica», «equivalenza pragmatica», «equivalenza semantica», «equivalenza dinamica», «equivalenza ontologica» e così via; per non parlare dell’uso ostentatamente libero di termini correlati quali uguaglianza, invarianza, congruenza, somiglianza, isomorfismo e analogia.

In questo panorama di, sembrerebbe, totale confusione terminologica e concettuale, è tuttavia chiaro che in genere prototesto e metatesto vengono idealmente messi in una corrispondenza di uno-a-uno, intendendo con ciò che devono essere considerati codificazione di un’informazione, logicamente e/o situazionalmente intercambiabili – essendo ovviamente il «nucleo invariante» «solo un costrutto ipotetico» (Toury 1978:93)iii. Tuttavia, da un punto di vista semiotico ciò sembrerebbe un errore o per lo meno una grossolana semplificazione dei fatti. In proposito Jakobson ha affermato (1959:233): «L’equivalenza nella differenza è il problema cardine della lingua e la preoccupazione principale della linguistica», e quindi della traduzione. Nel lessico semiotico generale si direbbe che sia il prototesto, sia il metatesto sono segni che formano parte di una catena semiosica – una sequenza di segni interpretativi. Tuttavia, diversamente dalla pretesa di intercambiabilità, la traduzione deriva ed è causata (Peirce ovviamente direbbe «è determinata») dall’originale; è il suo segno-interpretante. Se entrambi i segni vengono separati dalla sequenza semiosica infinita e studiati singolarmente, l’originale dei due è il segno primario, sia temporalmente, sia logicamente. L’interpretante non è l’imitazione di una struttura immanente del segno o dell’oggetto, e nemmeno una struttura arbitraria imposta all’oggetto dall’esterno. È la legge o l’abitudine (debole o forte) attraverso cui segno e oggetto diventano correlati affinché possa verificarsi un effetto semiosico. Il segno- azione che funge da mediatore, una volta messo in moto, è un processo di traduzione del

52

segno ricorsivo ma irreversibile. Ciò implica che, nel senso inteso qui, non sarà possibile una ri-traduzione: la situazione pre-semiosica non può essere ripristinata. Ciò rende paradossale l’idea di intercambiabilità tra metatesto e prototesto. In realtà la semiosi non ha cambiato considerevolmente solo il segno originale; offre anche, forse, una nuova conoscenza dell’oggetto dinamico (in senso peirciano) a cui entrambi i segni si riferiscono – anche se indirettamente e in modo incompleto.

Ridurre la traduzione di segni, linguistica o non, a imitazione o a un processo di rispecchiamento [«mirroring»] è rispondere a nient’altro che alla Primità del segno, ossia atrofizzare tutto il suo potenziale significante. Ovviamente una traduzione è più di un’ipoicona – un sinsegno iconico o un altrimenti degenerato Terzo (Gorlée 1990). Da un punto di vista semiosico, la conservazione solertemente perseguita di ogni sostanza semiotica – intendendo con ciò informazioni, idee o contenuti (solo per citare alcuni dei termini usati comunemente) – è oltremodo irrilevante e controproducente per ciò che dovrebbe interessare la traduzione, cioè il confronto arricchente tra uguaglianza e alterità: «du Même et de l’Autre» (Ladmiral 1979:209)iv. La vera semiosi è una generazione e ri- generazione non meccanica, e per questa ragione è il contrario della mimesi: «Anzi, l’esatta conformità starebbe nel conflitto totale con la legge [dell’abitudine]; poiché cristallizzerebbe all’istante il pensiero e impedirebbe la formazione ulteriore dell’abitudine» (CP:6.23,1901).

Qui è giusto citare una tradizione all’interno della linguistica, il relativismo linguistico di Humboldt (1767-1835), che si opponeva precedentemente a ciò che si può chiamare la concezione invalsa (secondo la quale vengono stabiliti rapporti fissi tra parola e mondo), preannunciando così la versione dinamica di Peirce dell’indeterminatezza del significato, le ipotesi di Sapir-Whorf e anche alcuni dei concetti di Chomsky. Mi riferisco qui all’

53

adagio di Wilhelm von Humboldt, che fu successivamente abbracciato (seppur mai spiegato) da Chomsky – il quale, nei suoi primi scritti lo chiamò «creatività», o a volte «open-endedness» – per quanto riguarda la capacità dei linguaggi di «fare un uso infinito di mezzi finiti». (Sebeok 1991:29)

Questa visione “alternativa” di Humboldt si rivela particolarmente interessante nelle discussioni sulla traduzione perché avrebbe poi ispirato, esplicitamente e/o implicitamente, la visione “olistica” sulla traduzione letteraria iniziata da Holmes e successivamente sviluppata da Toury e altriv. Quest’approccio avrebbe portato, nonostante la sua focalizzazione su un tipo particolare di traduzione – la traduzione dell’arte verbale – , o forse proprio grazie a essa, una ventata di vitalità in quello che era diventato un approccio piuttosto sterile da parte della linguistica tradizionale. Secondo la concezione relativistica del linguaggio verbale, linguaggi differenti corrispondono a visioni del mondo differenti. Dal punto di vista dei diversi linguaggi, la realtà non è sentita com’è “realmente”, ma com’è plasmata, riflessa – soggettivamente, omogeneamente, ma in modo vario – ne, e da, i diversi linguaggi.

Sebbene Humboldt venga spesso considerato il fondatore della linguistica generale, il suo ruolo da pioniere nella semiotica linguistica ha ricevuto uno scarso riconoscimento (Schmitter et alii 1986:317). Ciò è probabilmente dovuto (come indicato da Trabant 1986) alla focalizzazione sulla lingua di Humboldt, diventato problematico in un momento in cui le discussioni segno-teoriche, seguendo Peirce, si stanno allontanando dall’“imperialismo linguistico” e stanno andando verso una prospettiva semiotica che pone il verbale e il non verbale in un continuum, essendo il primo superiore al secondo senza però basarsi su di esso. Non a caso, Humboldt riteneva non solo che il linguaggio fosse un sistema di segni

54

inventati dalla società e intrinsecamente arbitrari, ma anche che avesse un aspetto iconicovi. Anticipando, a quanto pare, la dicotomia di Saussure langue-parole, Humboldt fece una distinzione tra lingua come ergon (teoria, un corpus trasmesso per iscritto o oralmente) ed energeia (pratica, un’attività verbale). Mentre quest’ultima costituisce e alimenta la prima, essa – l’energeia – è per Humboldt l’essenza della lingua stessa. La lingua non consiste solo in un’interezza sistematica e legata alle regole, ma anche in energie, e questo principio interattivo dinamico eleva la lingua allo status semiotico (o meglio, semiosico) di espressione del pensiero. La cosiddetta «antisemiosi» della lingua di Humboldt (Trabant 1986:69-90) si opponeva a una semiotica linguistica solo in quanto quest’ultima limita le sue considerazioni alla natura arbitraria e convenzionale dei segni della lingua, in questo modo «uccidendo . . . tutto il suo spirito e mandando in esilio tutta la sua vitalità» (Humboldt in Trabant 1986:72; trad. mia). Infatti, per Humboldt (come successivamente sarebbe stato, anche se in un paradigma più radicalmente evoluzionista, per Peirce), un «organismo» vivente (Nöth 1990:201), un sistema di segni essenzialmente semiotico, una processualità irreversibile, in cui l’uomo stabilisce legami variabili tra la lingua e i

fenomeni del mondo che lo circonda.
La connessione di ciò con la traduzione/interpretazione nel senso di Peirce dovrebbe

essere chiara. Peirce stesso usava il termine «equivalenza» riferendosi in particolare all’interpretante. Questo mostra che per lui equivalenza non era sinonimo di corrispondenza uno-a-uno, come nella Primità (iconicità) e, in modo diverso, nella Secondità, ma del tipo di corrispondenza uno-a-molti che si ottiene ogni qualvolta un segno «dà vita» a un interpretante (o meglio a una serie di interpretanti). Due segni che sono infatti dinamicamente equivalentivii possono essere logicamente derivati uno dall’altro. Peirce si sforzava sempre di riuscire a esprimere esattamente ciò che intendeva con la sua equivalenza dinamica che si verifica nella semiosi:

55

Un segno . . . è un oggetto che è in relazione al suo oggetto da un lato e a un interpretante dall’altro, in modo da portare l’interpretante in relazione all’oggetto corrispondente alla sua stessa relazione con l’oggetto. Potrei dire «simile alla sua stessa»[,] in quanto una corrispondenza consiste nella somiglianza; ma forse la corrispondenza è più ristretta. (PW:32,1904).

Nella sua famosa definizione del segno, Peirce ha affermato che il segno crea nella mente della persona a cui è indirizzato un «segno equivalente, o forse un segno più sviluppato» (CP:2.228,1897). Altrove ha notato: «Un equivalente di una proposizione è la stessa proposizione materializzata in modo differente. Perché la proposizione consiste nel suo significato» (MS599:62,c.1902); ciò implica che non è in che lingua o codice un testo-segno è, ma quale significazione ha, a essere il punto interpretativo (ossia traduttivo). Che il concetto d’equivalenza di Peirce sia teleologico (ossia governato dalla Terzità) è ulteriormente messo in evidenza dalla sua affermazione che «due segni i cui significati siano equivalenti

in tutti i casi possibili sono assolutamente equivalenti» (CP:5.448,n.1,106; enfasi aggiunta).

L’equivalenza qualitativa

Osserviamo più da vicino le idee di Peirce sull’equivalenza usando un altro approccio. Dovrebbe essere ormai chiaro che l’equivalenza traduttiva non può essere identificata, o per lo meno, non totalmente, con un’equazione algebrica o un altro segno di Primità. Discutendo diverse serie di diagrammi, Peirce ha appurato che «ogni equazione algebrica è un’icona nella misura in cui mostra mediante i segni algebrici (che non sono loro stessi icone) le relazioni delle quantità esaminate» (CP:2.282,c.1893). Dopo aver fornito questa citazione da Peirce, Jakobson ha aggiunto quanto segue:

Ogni formula algebrica pare un’icona, «resa tale dalle regole della 56

comunicazione, dell’associazione e della distribuzione dei simboli. Pertanto, l’«algebra non è che una sorta di diagramma», e la lingua non è che un tipo di algebra». Peirce ha immaginato in modo vivido che «la disposizione delle parole nella frase, ad esempio, deve servire come icone, in modo che la frase possa essere compresa». (Jakobson 1971b:350)

Ora, ciò vale senza dubbio per la costruzione fisica di intere frasi e serie di frasi. E in questo senso due segni linguistici, ognuno espresso in un codice differente, possono condividere la stessa struttura globale esterna delle loro parti, e quindi derivare dallo stesso modello, la fonte comune stessa che rimane tacita. Anche in questo senso, un testo e la sua traduzione (entrambi segni linguistici compositi), presi assieme, potrebbero essere considerati come un costrutto duale auto-riflessivo; non hanno bisogno d’altro oltre a sé stessi per essere riconosciuti e compresi come segni che hanno in comune una serie di importanti qualità – proprietà sensoriali e/o materiali. È facile immaginare che testi quali un sonetto, un contratto di matrimonio o la relazione di un messaggero di corte abbiano alcune importanti caratteristiche fisiche in comune con le loro rispettive versioni tradotte – caratteristiche interne ai segni che potrebbero anche essere apprezzate senza conoscere le lingue coinvolteviii. Tali caratteristiche comuni sono estratte dalla realtà esterna ai segni e possono verificarsi, in una forma o in un’altra, in tutti i codici, linguistici o non linguistici. Ad esempio, nel caso dei testi-segni, il testo primario e la sua traduzione possono rivelare una pari lunghezza, distribuzione di paragrafi, struttura della rima e/o uso della punteggiaturaix. Tali caratteristiche li rendono immediatamente riconoscibili come segni simili – simili, cioè, nella “sensazione”, il “tono” o in altre «qualità del sentire» (come direbbe Peirce).

Se entrambi i segni (quello tradotto e quello che traduce) sono considerati morfologicamente, sintatticamente ecc. simmetrici (in altre parole, reciprocamente

57

convertibili oltre le barriere dei codici), ciò è fatto senza considerare come si dovrebbe che uno è l’antecedente e l’altro il conseguente. Tuttavia il rapporto gerarchico essenziale che determina che l’uno sia l’interpretante dell’altro e non viceversa non può essere negato. L’equivalenza traduttiva deve sempre essere una faccenda diacronica (per usare un termine di Saussure). Inoltre, da un segno è possibile ottenere vari equivalenti quasi sinonimi (con termini reciprocamente non coerenti). Ciò significa che il segno e il suo equivalente segno interpretante possono essere considerati solamente un’altra controparte nella misura in cui la loro segnità nel suo aspetto di Primità sia oggetto di studio. Io propongo di chiamare quest’equivalenza riferita ai segni in sé «equivalenza qualitativa».

L’equivalenza referenziale

Avendo delineato l’equivalenza qualitativa tra un segno e il suo segno interpretante potremo ora considerare l’equivalenza derivante dalle altre categorie di Peirce: la Secondità, la categoria dell’oggetto, e la Terzità, quella dell’interpretante. Gli aspetti dell’equivalenza dei segni prodotti dalla Secondità e la Terzità saranno chiamati rispettivamente «equivalenza referenziale» ed «equivalenza significazionale». I tre aspetti dell’equivalenza assieme potrebbero quindi esser chiamati equivalenza semiotica (o, per essere più precisi, semiosica). Questo verrà spiegato nei paragrafi successivi.

Per quanto riguarda l’equivalenza referenziale tra segno e segno interpretante, è necessario operare una distinzione tra la relazione “di stare per” sul piano dell’oggetto immediato e su quello dell’oggetto dinamicox. Essendo l’oggetto immediato l’idea richiamata direttamente da un particolare uso dei segni, è conoscibile solamente mediante il segno. In contrapposizione agli aspetti qualitativi del segno (Primità in senso stretto), la relazione dell’oggetto di segno immediato rappresenta la Primità della Secondità; si concentra sul referente o i referenti del segno a livello di codice. Ovviamente il segno può essere inserito in qualsiasi codice o sistema di segni, verbale o non verbale; e il suo oggetto

58

immediato è dato dalla manifestazione esibitiva, ostensiva o verbale (a seconda del codice) del segno. L’interprete vede l’oggetto solamente fintanto che il segno lo riflette. Senza una precedente conoscenza del codice in cui si trova il segno non è possibile conoscere il suo oggetto immediato, tanto meno valicare il santuario interiore della sua significazione più “profonda”.

La traduzione implica almeno due codici: un codice emittente e uno ricevente. Affinché un segno in un codice sia una traduzione di un segno in un altro codice, i rispettivi oggetti immediati non devono essere gli stessi. Poiché l’oggetto immediato è «l’idea su cui è costruito il segno» (MS318:70,1907), in ogni codice viene rappresentato diversamente. L’oggetto immediato sarà soggetto a cambiamenti nella e attraverso la semiosi intercodice della traduzione. In tandem con l’equivalenza sul piano del segno, anche qui la «sameness» non è un requisito necessario, né a microlivello (come, nella lingua, la corrispondenza parola per parola o frase per frase), né a macrolivello (ossia, quello testuale); e anche qui l’equivalenza deve essere intesa in senso lato, come il tipo di «sameness» “ampia” creata attraverso qualsiasi tipo di interpretazione semiosica. Ciò non implica che non sia cruciale per entrambi i segni (quello primario e quello tradotto) dare, mediante i loro oggetti immediati, degli «indizi» [«hints»] (come li chiamava Peirce), il cui studio accurato nei loro contesti deve portare alla stessa idea di base – l’oggetto comune “reale” o “dinamico”, che sta esso stesso all’infuori della relazione segnica e pertanto non è tradotto.

Farò ora un esempio a riguardo. Tradurre l’espressione spagnola cortar el bacalao con un’espressione identica a livello dell’oggetto immediato crea un’equivalenza se l’espressione ricorre, ad esempio, in una ricetta di pesce. Ma se l’espressione si riferisce, in senso figurato, alle strutture di potere, l’identità a livello dell’oggetto immediato sarebbe un’interpretazione errata e una distorsione della realtà dei fatti indicati dal e nel codice. L’oggetto immediato è perciò un criterio di significato referenziale, ma che necessita di essere integrato da informazioni contestuali. Normalmente un segno non funziona nel

59

vuoto, ma è inserito in un ambiente comunicativo che fornisce indicazioni linguistiche, referenziali, ideologiche ecc. per una corretta interpretazione. È solo all’interno di un contesto del genere che l’interprete può essere portato dall’oggetto immediato verso l’oggetto dinamico – il sentimento, la cosa, l’evento, il fenomeno, il pensiero o il concetto reale che crea la relazione segnica ma ne rimane indipendente.

L’oggetto dinamico stesso è assente e rimane all’infuori dell’evento semiosico. È il Secondo sotto l’aspetto della Secondità; e, in quanto “doppio Secondo”, è conoscibile solamente attraverso l’oggetto immediato, che, come accennato, è la forma percepibile esteriore in cui l’oggetto si manifesta nel segno. Per riuscire a capire l’oggetto dinamico di un segno si può solo provare a intuire, studiare e cercare di capire cos’è implicato dall’oggetto immediato. Ciò richiede, secondo Peirce, «esperienza», «osservazione collaterale» (reale o immaginaria) e doti come «fantasia e pensiero» (MS318:77,1907). L’oggetto dinamico corrisponde al totale ipotetico della somma di tutte le circostanze dell’oggetto immediato legato ai segni, il cui segno primario e segno tradotto sono due circostanze espresse in (sotto)codici diversi più che con oggetti immediati diversi.

60

«Nessuno può comunicare un’informazione a un’altra persona senza riferimenti a esperienze comuni con la persona a cui ci si rivolge» (NEM3,2:770,1900). Come ogni altra forma di comunicazione, la traduzione è un’azione di segni all’interno di un universo fisico di interazione sociale. L’esistenza di un terreno d’esperienza comune è un elemento cruciale per la comunicazione: senza di questa l’accesso alla conoscenza di ciò che il messaggio davvero significa (il suo oggetto dinamico) è bloccato. Più l’esperienza collaterale è condivisa liberamente e direttamente con l’interlocutore in una situazione comunicativa, tanto più efficiente è la comunicazione. Peirce ha scritto:

Entro in un negozio di mobili e dico che voglio un «tavolo». Mi baso sul presupposto che io e il negoziante abbiamo vissuto esperienze reattive che, per quanto diverse, sono state talmente collegate da esperienze reattive da renderle quasi le stesse, cosicché «tavolo» gli suggerisce, così come a me, un mobile con una superficie piana di un’altezza a cui una persona ci si possa comodamente sedere a lavorare. (NEM4:259,c.1904)

In altre parole, «quando ci sono sia un parlante, sia un’interprete, [l’oggetto dinamico del segno] è quello che il parlante ha in mente, ma che non gli occorre esprimere perché sa bene che l’interprete capirà che si sta riferendo a quello senza che lo dica» (MS318:69,1907).

Per lo stesso motivo, affinché la comunicazione intercodice sia efficace, è essenziale che coloro che stanno comunicando, sebbene appartenenti a codici diversi, abbiano acquisito e posseggano, anche implicitamente, una conoscenza comune dei fenomeni del mondo nelle loro differenti espressioni semiotiche.

Ovviamente, è più semplice arrivare a conoscere un oggetto dinamico che abbia una relazione indicale con il segno che non uno che sia un’icona o un simboloxi. Ciò che questi

61

ultimi hanno in comune e che li distingue dai Secondi è la loro generalità. I segni i-

conici mostrano possibili attributi, non collegati tuttavia ad alcunché di esistente; i segni simbolici danno regole generali, applicabili ma non ancora applicate a un caso particolare; mentre i segni indessicali sono istanze di segno che rappresentano icone e sono governati da simboli.

Ora, sebbene il segno primario e il segno interpretante tradotto abbiano oggetti immediati differenti, i loro oggetti dinamici dovranno sempre essere esattamente gli stessi, per lo meno idealmente. Tuttavia, anche la loro identità è relativa, essendo comunque in parte il risultato di un’interpretazione, di una procedura inferenziale. In altre parole, la relazione tra i due deve essere mediata da una semiosi che renda possibile per l’uno essere una conseguenza logica dell’altro. Prima di imbarcarci in un’ulteriore analisi dell’argomento cercherò di spiegare da un punto di vista leggermente diverso la connessione tra rappresentazione dei segni e interpretazione dei segni.

Ampiezza, profondità, informazione

Le relazioni di “stare per” e “stare a” del segno devono essere considerate assieme a uno scopo preciso: introdurre una serie di concetti che, sebbene siano ancora connessi al segno e al codice in cui è inserito, sono specificamente attinenti alle sue relazioni esterne. A questi concetti si è dedicato Peirce quando era un giovane lettore all’università, in modo particolare nel suo saggio Upon logical comprehension and extension (W1:454-471, 1886xii). Non provo nemmeno a dare un resoconto esaustivo del pensiero di Peirce qui, ma mi limito alle idee direttamente legate al tema principale.

Seguendo una tradizione che si perpetua da lungo tempo, Peirce ha affermato nella Lowell Institute Lecture VII sopraccitata che una parola (o qualsiasi altro simboloxiii) ha due

62

diverse dimensioni logiche che, come da lui dichiarato in un manoscritto successivo, «sono ugualmente applicabili . . . a . . . tutti i tipi di segno» (MS200:49,1907). Una di queste dimensioni logiche è l’«estensione», «denotazione» o «ampiezza»; l’altra è la «comprensione», «connotazione» o «profondità». Nonostante questi concetti siano espressioni standard della logica sin dai linguisti di Port Royal, è sempre mancata loro una designazione precisa. Peirce ha proposto di adottare, come definizioni più funzionali, ampiezza e profondità logica.

L’ampiezza logica, o denotazione, di un termine mette il termine in relazione al mondo. Indica gli individui o oggetti (reali) a cui il termine si riferisce e che causano il suo uso. La profondità logica, o connotazione, si riferisce al contenuto di significato di un termine, gli attributi o le qualità che gli possono essere attribuiti, alle «possibilità che si immaginino o si giudichino essere realizzate» in quegli individui (MS200:49,1907). La parola non solo costringe una mente interpretante a riconoscere la cosa, il fenomeno, l’evento o la relazione da essa indicata o designata, ma viene anche formata e influenzata dal suo designatum, o oggetto; e, infine, «Tutto deve essere compreso o più rigorosamente tradotto con qualcosa (W1:333,1865). Si noti, tuttavia, che i due aspetti non sono ugualmente importanti: «Ogni simbolo denota connotando» (W1:272,1865), ha scritto Peirce, e «La denotazione è creata dalla connotazione» (W1:287,1865). Mentre entrambi gli aspetti della parola sono essenziali, la profondità, in quanto si riferisce all’azione che arricchisce il segno, ha priorità rispetto all’ampiezza, l’aspetto indicativo del segno. Come Peirce ha affermato successivamente (in una lettera non pubblicata alla sua ex allieva Christine Ladd-Franklin), «La profondità del segno non sembra essere altro che il suo sé migliore. Il segno è legato alla sua profondità . . . come un’idea a un ideale, come la memoria all’allucinazione vivida. . .» (MSL237:187,1902).

L’ampiezza logica fa a sua volta riferimento all’oggetto e la profondità logica nell’altro senso all’interpretante. Questi elementi duali nel segno producono quella che

63

Peirce ha chiamato «informazione»xiv. Ogni qual volta un segno viene interpretato, «produce sempre un aumento dell’estensione [denotazione, ampiezza] o della comprensione [connotazione, profondità] senza una corrispondente diminuzione dell’altra quantità» (W1:464, 1866). Per informazione Peirce intendeva la«quantità della comprensione [connotazione, profondità] che un simbolo ha e i limiti della sua estensione [denotazione, ampiezza]» (W1:287,1865). E aumento dell’informazione di un segno si risolve in «un incremento del numero di termini equivalenti a quel termine» (W1:287,1866). Ciò accade ogni volta che viene prodotto un nuovo equivalente; in altre parole, in ogni atto di traduzione/interpretazione del segno è generata nuova conoscenza (ossia, Terzità)xv.

Il seguente passo da Peirce, preso da un’opera successiva, può servire a chiarire quanto appena analizzato:

Un simbolo, una volta in essere, si diffonde tra i popoli. Nell’uso e nell’esperienza, il suo significato cresce. Parole quali forza, diritto, ricchezza, matrimonio hanno per noi significati molto diversi da quelli che avevano per i nostri antenati barbari. (CP:2.302,c.1895)

Prendiamo, ad esempio, l’occasione in cui, nella giurisprudenza, un giudice prende una decisione che crea un nuovo precedente in un certo tipo di caso; oppure, quando, nel diritto romano, si aggiunge una nuova legge al corpus delle leggi. Ciò che si verifica allora è un aumento delle informazioni. Il termine «diritto» può essere applicato a un nuovo oggetto, ma le sue caratteristiche di base rimangono le stesse. Di conseguenza, è aumentato in ampiezza, senza però aumentare in profondità. O immaginiamo una sposa novella convertita all’Islam rinchiusa in un harem. Il suo concetto di «matrimonio» ha probabilmente subito un cambiamento notevole. Sebbene l’istituzione matrimoniale sia la

64

stessa che conosceva prima, ad essa è stata aggiunta una serie di nuove caratteristiche. Il termine «matrimonio» è rimasto costante nell’ampiezza, ma la sua profondità è aumentata. Anche in questo caso, le informazioni sono aumentate. «Diffondendosi tra i popoli» (CP:2.302,c.1895) (ossia, venendo interpretate, tradotte), le caratteristiche semiotiche dei simboli (parole, concetti ecc.) si sono sviluppate e ampliate.

L’equivalenza significazionale

Ispirato da questi pensieri e da altri simili, Peirce ha “inventato” il concetto di interpretante come lo vedeva lui:

Il processo di ottenere un equivalente da un termine è proprio un’identificazione di due termini precedentemente diversi. È, di fatto, il processo di nutrizione di termini mediante il quale questi ottengono tutta la loro vitalità e il loro vigore e producono un’energia quasi creativa – poiché essa ha l’effetto di ridurre il caos dell’ignoranza al cosmo della scienza. Ciascuno di questi equivalenti è la spiegazione di ciò che è avvolto in quello primario – sono i surrogati, gli interpreti del termine originario. Sono nuovi corpi, animati da quella stessa anima. Io li chiamo gli interpretanti del termine. E definisco la quantità di questi interpretanti informazione o implicazione del termine. (W1:464-465,1866)xvi

Dal punto di vista della logica evolutiva di Peirce, ogni traduzione rende l’implicito più esplicito, implicando così maggiori informazioni. Ciò è espresso chiaramente dalla sua affermazione «un segno è qualcosa conoscendo il quale si conosce qualcosa in più» (PW:31-32,1904). La crescita della conoscenza è accompagnata dall’aumento dell’ampiezza o della profondità. Non influisce sui fatti significati, né sui caratteri a essi attribuiti, che potrebbero essere veri o falsi (NEM:241,c.1904). Ma quando due segni sono equivalenti, denotano le stesse cose e hanno la stessa ampiezza logica. Possono dipendere, per il loro valore di verità, da una particolare profondità connotativa (come accadeva con l’interpretazione) oppure solo da quest’ampiezza denotativa.

65

L’interpretante dovrebbe indicare le stesse cose o gli stessi fatti del segno primario e significare quelle cose e asserire quei fatti in modo simile. Ma è poco probabile che entrambe le relazioni rimangano costanti e invariate nel corso del tempo – in altre parole, nel corso di una serie di eventi semiosici di natura inferenziale. L’equivalenza, nel senso più

stretto, tra segno e interpretante è quindi logicamente impossibile: soffocherebbe la crescita della conoscenza, e questa crescita è esattamente il succo della produzione e dell’uso dei segni. Essendo per Peirce il nostro intero universo umano «perfuso, se non composto esclusivamente, di segni» (CP:5.448,n.1,1905), comunichiamo mediante segni, di cui produciamo un flusso costante di nuovi interpretanti, che interpretiamo ancora, e così via. Durante quest’infinito processo inferenziale vengono costantemente proposte, provate, soppesate, accettate, negoziate, difese, ignorate, tenute di riserva, rifiutate, ecc. nuove significazioni (e quindi nuovi valori di verità)xvii. Perciò all’oggetto è aggiunta nuova conoscenza. Conformemente alla massima pragmatica di Peirce, lo scopo ultimo di quest’esercizio rimane tuttavia ottenere una conoscenza totale del significato di un segno. Per riuscirci bisogna perseverare nel creare sempre nuove interpretazioni/traduzioni del segno, in modo da accedere, mediante il segno e il suo oggetto immediato, alla prima causa del segno, l’oggetto dinamico. Nell’ultima analisi, la traduzione, linguistica o di altro tipo, riguarda il mondo in cui viviamo, reale o immaginario, e le miriadi di modi in cui ne ricaviamo un senso creando equivalenti significazionali suoi e delle sue partixviii.

Il processo traduttivo

Vediamo un altro esempio di un problema della teoria della traduzione per cui è possibile trovare una soluzione inserendolo nella cornice della teoria

66

peirciana dei segni. Il processo traduttivo stesso è stato spesso ma discutibilmente ipotizzato come uno scenario cronologico che comprende tre dei quattro stadi. Sarebbe interessante esaminare la natura e il ruolo di questi stadi alla luce del processo interpretativo di Peirce, da lui sistematicamente descritto come un processo di ragionamento triplice consistente nella produzione di tre successivi interpretanti.

In riferimento agli studi del processo traduttivo in sé, Toury avanza le seguenti con-

siderazioni che invitano alla cautela:

Poiché sappiamo molto poco dei meccanismi psicologici interni implicati nella traduzione, ogni singolo atto di questo tipo di attività assume la posizione di “scatola nera”, ossia un sistema aperto la cui struttura interna può essere indovinata o ricostruita per tentativi solo sulla base delle relazioni tra le entità stabilite come suoi input e output. (Toury 1986:1114)

Ora, più che un segno di umiltà intellettuale, le precedenti considerazioni mi sembrano richiedere un approccio peirciano verso il fenomeno della traduzione. È risaputo che Peirce, il logico, si opponeva radicalmente allo psicologismo – intendendo con ciò la dipendenza della semiotica dalla psicologia. Secondo lui, lo studio dell’azione dei segni non richiede una conoscenza dell’esatto meccanismo della mente umana. Questo non significa che Peirce ritenesse che la mente in quanto agente pensante (cioè, processore del segno) fosse irrilevante per la sua logica; piuttosto, è vero il contrario. «I am using mind», ha scritto Peirce tra il serio e il faceto,

67

. . . as synonym of Representation; and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind. I think they mainly talk about consciousness, in the sense of the first category, and hypothetical arrangements in the brain3. (MS478:157,1903)

Invece della Primità, Peirce, il logico, ha studiato la Terzità; «Non il processo psicologico, ma la funzione logica» (MSL237:126,c.1900); non i contenuti della ‘scatola nera’, ma i processi inferenziali che portano dalle premesse alle conclusioni. Questi processi sono stati da lui chiamati i «modi di azione dell’anima umana» (CP:6.144,1892). Per Peirce, ogni pensiero intende mostrare come un segno porti razionalmente a un altro, significando così crescita e sviluppo. Essendo questo il principale oggetto di studio di Peirce, difficilmente egli avrebbe teso a imbarcarsi in seri studi sul fallimento, il deragliamento o la paralisi dei processi mentali, come sarebbe stato d’interesse per uno psicologoxix.

Ai fini della presente argomentazione è fondamentale ricordare che la semiotica così come la concepiva Peirce concerne la relazione logica tra un particolare segno da un lato, e il suo interpretante o segno tradotto dall’altro; e anche che questa relazione si può definire abduttiva, induttiva o deduttiva. Poiché il processo traduttivo è un processo mentale non aperto allo scrutinio diretto, Toury sembra sostenere (almeno nella suddetta citazione) che possa essere spiegato con l’abduzione. Mentre questa costituisce un’affermazione assolutamente valida, per Peirce sarebbe probabilmente stato un modo “pessimistico” di trattare i fatti della materia. Nonostante si basino sulle congetture istintive, le ipotesi abduttive sono spesso giustissime nelle loro spiegazioni dei fatti, pertanto il loro valore di verità non dovrebbe essere considerato troppo alla leggera. Inoltre, sbalzi abduttivi richiedono la verifica induttiva, la ricerca dei fatti mediante «esperimenti che portano alla luce i fatti stessi cui l’ipotesi alludeva» (CP:7.218,1901). Infine, l’induzione prepara il terreno per la deduzione, dato che lo sviluppo delle leggi regola i fatti e dà loro uno «scopo

3 Questo passo è stato lasciato in inglese affinché non venisse meno il gioco di parole con «mind» [NdT]. 68

o una fine» (MS292:13,c.1906). Per l’argomento in questione, le questioni sollevate da Toury sono tempestive, perché i tre tipi di ragionamento dipendono direttamente dalle categorie e devono essere considerati gli equivalenti, nella relazione logica dei segni, dei tre tipi di interpretanti logici che corrispondono alle tre fasi del processo traduttivo. Questo argomento sarà discusso nei paragrafi successivi.

Introduciamo prima, punto per punto, alcune delle idee riguardo alle fasi della traduzione, come profferite da diversi studiosi. In uno spirito molto orientato verso la prassi, Koller (1992:203-204) distingue tra tre «Arbeitsstufen4»: la «Rohübersetzung5» o traduzione a vita breve, l’«Arbeitsübersetzung6» o traduzione a vita media e la «druckreife Übersetzung7» o traduzione a vita lunga. I criteri di Koller sono qualitativi e corrispondono a una scala crescente di «Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit», accuratezza, correttezza e adeguatezza (Koller 1992:204). Come spiegato da Koller, la prima fase produce una prima stesura della traduzione a scopo e uso limitato. Il suo focalizzarsi sulla «Genauigkeit» o accuratezza significa che ci deve essere «Identität des Inhaltes8», ma in questa fase vengono ancora accettate violazioni delle regole morfologiche, sintattiche, fraseologiche, lessicali, stilistiche ecc. In una seconda fase della traduzione, vengono richieste «Genauigkeit und Richtigkeit», accuratezza e correttezza; può non contenere errori grammaticali, lessicali o stilistici. Infine, la traduzione «pronta per la stampa» di Koller è caratterizzata dalla triade «Genauigkeit, Richtigkeit und Ädequatheit» – accuratezza, correttezza e adeguatezza. Prodotto di solida ricerca e seria riflessione, è tesa a soddisfare le più alte norme e aspettative. Bisogna notare, tuttavia, che la progressione da, per così dire,

4 «Livelli di lavoro» [NdT]
5 «Traduzione appena abbozzata» [NdT]
6 «Traduzione di servizio» [NdT]
7 «Traduzione pronta per la stampa» [NdT] 8 «Identità del contenuto» [NdT]

69

fedeltà all’originale ad accordo con il codice ricevente e infine accordo del tipo di testo tra prototesto e metatesto, imposta priorità singolarmente relative. Le tre fasi proposte da Koller per descrivere la qualità del lavoro del traduttore possono essere definite solo in relazione l’una con l’altra. Qui mancano criteri esterni di valutazione. Ciò riduce sensibilmente l’utilità del processo trifasico di Koller all’infuori della pura pratica della traduzione e della pedagogia.

Con alcune “speculazioni teoriche” necessarie, Toury propone una rappresentazione schematica della traduzione composta da quattro fasi:

(1) un’indispensabile scomposizione dell’entità iniziale fino a un certo livello variabile e l’assegnazione dei suoi costituenti a questo livello dello stato di “caratteristiche”;
(2) una selezione delle caratteristiche da mantenere, ossia l’assegnazione di rilevanza ad alcune parti delle caratteristiche dell’entità iniziale, da un punto di vista o un altro;

(3) il trasferimento delle caratteristiche rilevanti selezionate verso (un o più di un) confine semiotico più o meno definito.
(4) la (ri)composizione di un’entità risultante attorno alle caratteristiche trasferite, assegnando loro allo stesso tempo lo stesso o un altro livello di rilevanza. (Toury 1986:1114)

A differenza della proposta pratica di Koller che descrive la qualità del prodotto finito, il programma di Toury è altamente teorico e orientato verso un processo. Prerequisito di ciò è che il testo ab quo possa essere diviso in unità discrete, alcune delle quali possono quindi essere considerate pertinenti «da un punto di vista o un altro» (significative, in gergo semiotico) mentre altre non pertinenti (in quanto non significative). Solo le prime vengono quindi transcodificate, mentre il destino delle altre unità, evidentemente eliminabili, nella proposta di Toury rimane piuttosto oscuro.

Mi sembra quasi che nessuna parte del segno di un testo possa essere camuffato 70

senza praticare alcuna forma di erosione, mediante la quale la sostanza semiotica, nelle successive semiosi a cui è sottoposta, viene assottigliata anziché diventare sempre più ricca di contenuto, come vorrebbe Peirce. La nozione di pertinenza brandita da Toury è davvero un’arma pericolosa e indiscriminata. Potendo avere sia una deformazione ideologica, sia una intuitiva, o anche entrambe, lo scenario di Toury sembra più adatto a rispondere ai bisogni retorici che a portare al summum bonum, la verità così come la vedeva Peircexx.

In After Babel, Steiner propone un quadruplice «movimento ermeneutico, l’atto di elicitazione e di trasferimento appropriativo del significato» (Steiner 1975:296), che nella sua descrizione consiste in realtà in tre fasi e in una quarta fase illusoria. Nella prima fase c’è, secondo Steiner, «fiducia iniziale» nella significatività dell’«‘altro’ come alterità di affermazione non ancora sperimentata e mappata» (Steiner 1975:296) nel testo da tradursi. Tale «fiducia» «sarà normalmente istantanea e non controllata, ma ha una base complessa» (Steiner 1975:296). Dopo quella che assomiglia alla descrizione della Primità di Peirce, Steiner procede alla seconda fase della traduzione, in cui la fiducia iniziale è messa alla prova con il confronto, e la «manovra della comprensione [diventa] esplicitamente invasiva ed esaustiva» (Steiner 1975:298). Il testo è ora attaccato, per così dire, nella sua “alterità”, in un atto di aggressione in cui «‘rompiamo’ il [suo] codice . . . lasciando il guscio in frantumi e gli strati vitali spogliati» (Steiner 1975:298). Ora, ciò assomiglia notevolmente alla Secondità di Peirce. «La terza mossa» continua Steiner «è incorporante, nel senso forte della parola . . . incorporazione . . . [A]rriviamo a incarnare energie e risorse del sentire alternative» (Steiner 1975:298-299). Quest’ultimo processo di «appropriazione globale» può determinare un «addomesticamento completo, un sentirsi a casa» della traduzione nella sua nuova situazione; oppure la traduzione potrebbe avere acquisito in tale situazione una «stranezza e [una] marginalità permanente» (Steiner 1975:298). Il fatto che una traduzione possa funzionare sia come «assunzione sacramentale», sia come il suo contrario – un’«infezione» (Steiner 1975:299) – significa,

71

per il critico, che manca ancora della

. . . sua quarta fase, il colpo del pistone, per così dire, che completa il ciclo. Il movimento a priori della fiducia ci fa sbilanciare. Ci “sporgiamo” verso il testo che ci viene incontro . . . Accerchiamo e invadiamo cognitivamente. Torniamo a casa carichi, ossia di nuovo sbilanciati, avendo causato squilibrio in tutto il sistema portando via dall’“altro” e aggiungendo, anche se forse con conseguenze ambigue, al nostro. Il sistema è ora squilibrato. L’atto ermeneutico deve compensare. Se è autentico, deve mediare nello scambio e restaurare la parità. (Steiner 1975:300)

Avendo raggiunto questo nuovo stato di sintesi, il modello di Steiner è di nuovo al punto di partenza. Sebbene Steiner non si porrebbe sicuramente sotto l’insegna dei semiotici – nessuna –, il suo «movimento ermeneutico» assomiglia molto alla semiosi, e il suo

72

scenario a fasi descritto sopra è curiosamente reminescente, concettualmente e sotto altri aspetti, della successione peirciana di tre momenti interpretativi che si manifestano nel primo (interpretanti immediati/emozionali), nel secondo (interpretanti dinamici/energetici) e nel terzo (interpretanti finali/logici) – quest’ultimo a sua volta suddiviso, secondo Short (1986a:115), in un interpretante logico «non definitivo» e in uno definitivoxxi.

La traduzione, almeno nelle sue varietà linguistiche, tratta di segni interpretabili con interpretanti logici; è un processo “pragmatico” per dare un senso a concetti intellettuali, o segni di Terzità. La soluzione di problemi mentali, della quale la traduzione sarebbe un caso esemplare, avviene secondo Peirce in tre fasi , forse parzialmente sovrapposte, a cui si è giunti deduttivamente, che mostrano un crescente grado di «hardness» o solidità di convinzionexxii. Quando incarnato in una traduzione vera (e quindi osservabile), tangibile (e quindi controllabile), questo concetto può fungere da norma di qualità vagamente simile ai sopraccitati tre gradi di «accuratezza, correttezza e adeguatezza» (Koller 1979:94) di Koller. Questa difficilmente è una coincidenza, poiché la logica di Peirce è una scienza normativa (Ransdell 1981:201-202n;Fisch 1986:269ff.) – benché in un senso più “tecnico” rispetto a quello inteso da Koller – e la traduzione considerata nei suoi aspetti non descrittivi diretti alle prestazioni è ugualmente processuale e, allo stesso tempo, governata da norme.

Primo, secondo e terzo interpretante logico

Il primo della serie degli interpretanti logici emerge nel momento in cui ci troviamo di fronte a situazioni problematiche di natura intellettuale, come una convinzione fugace, una mera serie di sensazioni che nascono

. . . quando a un forte ma più o meno vago senso di bisogno si 73

sovrainduce una qualche esperienza involontaria di natura suggestiva; quell’essere suggestiva che ha una certa relazione occulta con la struttura della mente. Possiamo ipotizzare che sia lo stesso delle idee istintive degli animali; e le idee dell’uomo sono tanto miracolose quanto quelle dell’uccello, del castoro e della formica. Poiché una percentuale non indifferente di essi si sono rivelati le chiavi dei grandi segreti. (CP:5.480,c.1905).

Per risolvere o spiegare il problema viene formulata una congettura o ipotesi. Peirce ha fatto un felice parallelo tra questa prima fase euristica di indagine scientifica e il «Pure Play of Musement», o fantasticheria intellettuale (CP:6.452ff.,1908). Nel processo traduttivo ciò corrisponderebbe alla fase più istintiva che razionale quando il segno del testo penetra per la prima volta in una mente recettiva. La mente di un traduttore allenato inizierà allora, spontaneamente e con facilità, a generare un flusso di idee. Questa traduzione improvvisata potrà essere una bozza frammentaria e incerta, forse; eppure è un nuovo segno suscettibile di fungere da punto di partenza della semiosi successiva.

Mentre negli animali «le condizioni sono relativamente costanti e non c’è un ulteriore progresso» (CP:5.480,c.1905), negli umani i primi interpretanti ipotetici possono essere ulteriormente sviluppati, avviando un processo di crescita delle idee. L’interpretante logico successivo è un prodotto di ciò che Peirce chiamava «il pizzico di freddo dubbio che risveglia il sano giudizio del meditatore» (CP:5.480,c.1905), e si esprime nella sperimentazione, nel soppesare i pro e i contro. In questa fase le ipotesi di lavoro vengono testate e verificate mediante un giudizio fondato. Nella situazione traduttiva, le ipotesi più o meno felici vengono ora messe sul tavolo operatorio e analizzate a mente fresca. Il risultato è “una” traduzione che fornisce “una” soluzione al problema. Al meglio offre una buona soluzione, che è efficace nella situazione comunicativa intesa e ha un senso (ossia, è

74

significante) nella cultura ricevente. Ma al peggio può essere presa con sentimenti contrastanti, shock o persino un rifiuto.

Con il tempo e il duro lavoro, una mente allenata produrrà un terzo interpretante logico come soluzione quasi perfetta mediante la quale la semiosi potrebbe giungere a tutti gli effetti a un punto morto (magari temporaneo). Tale traduzione ideale avrà trovato il proprio habitat naturale nella situazione ricettiva, perdendo così la sua «percussivity» acuta (NEM4:318,c.1906). Poiché la nuova configurazione non presenta più problemi ed è diventata più o meno armoniosa, la mente cessa di essere nello «stato [di] attività . . . mescolato alla curiosità» (NEM4:318,c.1906) dal quale è stimolata a trovare ulteriori segni- interpretanti.

Questo status quo ideale, tuttavia, non dovrebbe mai diventare un attraente rifugio in una qualche fissità artificiale. Il terzo interpretante logico esprime sì una solida convinzione, ma è comunque un pensiero-segno, e il suo scopo principale è quindi rimanere vivo e mantenere la propria efficacia comunicativa nel tempo. Ignorare il suo bisogno di crescita sarebbe una forma di “antichismo”. Il giudice della finalità di ogni interpretante deve sempre essere la comunità sociale, o communis opinio, le cui norme sono naturalmente modificabili. Sebbene a questo punto la semiosi possa aver perso la propria incisività, il processo traduttivo ha raggiunto un momento non ancora definitivo. La sua finalità apparente non è altro che una tappa intermedia.

Per questa ragione è possibile, anzi fondamentale, far compiere al processo semiosico un ulteriore passo cruciale e considerare che il fuoco semiosico è suscettibile di ravvivarsi in ogni momento, per quanto distante o utopico. Il segno verrebbe quindi chiamato ad adempiere all’esplosivo compito di generare la sola, infallibile abitudine con cui la semiosi giungerebbe definitivamente a termine. Quest’interpretante logico definitivo incarnerebbe la norma-verità finale e non verrebbe quindi più inserita nella relazione triadica che caratterizza il segno di Peirce. Una traduzione che pretendesse di dare risposte

75

definitive, è, tuttavia, un allarmante ossimoro, un segno sicuro che la cultura stessa, ad esempio per un qualche evento catastrofico, è giunta alla finexxiii. Ciò renderebbe la vera produzione di una traduzione davvero definitiva una questione terminale, o un segno della morte del segno (CP:5.824=W2:224,1868).

Il ruolo del traduttore

Il prossimo e ultimo punto che verrà discusso è il ruolo del traduttore nel processo traduttivo. Spesso non si è dato il giusto peso al reale lavoro del traduttore, figura talvolta criticata e ridicolizzata, talaltra valorizzata e idealizzata. Il traduttore tecnico è stato essenzialmente visto come un artigiano, e il suo lavoro come una forma di abilità – difficile, forse, ma non una specializzazione impossibile da padroneggiare. Sull’altro piatto della bilancia, il traduttore letterario, e in particolare quello poetico, è stato elevato (o si è elevato) all’interessante status di artista creativo di diritto. Questa dicotomia ha creato un potente mito attorno alla figura del traduttore, che è stato investito, anzi infestato, con immagini quali il copista, l’accolito, lo schiavo, l’amanuense, l’appassionato di bricolage, il ricreatore, il mediatore o altre metafore atte a sminuire o a ingrandire la performance personale del traduttore.

Alla luce di questi ambigui giudizi sulla persona professionale e i talenti del traduttore e sul suo ruolo nel processo traduttivo, vorrei esaminare il traduttore in termini della semiotica di Peirce, per affermare che, nel complesso, l’impatto personale del traduttore sul processo traduttivo sembra forse essere stato soggetto a un’inflazione esagerata– sia “ascendente”, sia “discendente”. Questa è almeno la direzione (si spera più

realistica) in cui ci indirizza la dottrina dei segni di Peirce. 76

Il traduttore in quanto comunicatore ha un duplice ruolo. Incarna sia il destinatario (o uno dei destinatari) del messaggio originale, sia il destinatario del messaggio tradotto; sia l’interprete, sia l’enunciatore; sia il paziente che interpreta il segno primario, sia l’agente che enuncia il metasegno tradotto. In termini semiotici, al traduttore è assegnata sia la relazione “di stare per”, sia quella di “stare a”, e così monopolizza l’intero processo di manipolazione dei segni in cui la traduzione consiste. Le seguenti affermazioni di Peirce

77

sembrano indicare implicitamente la situazione del traduttore: «. . . non sono necessarie due menti separate per il funzionamento di un segno . . . [D]ue menti in comunicazione sono, fino a una certa misura, ‘d’accordo’, cioè sono propriamente una sola mente in quella parte di esse» (MS283:107,1905-1906); «Nel Segno sono, per così dire, saldati» (CP:4.551,1906).

Ora è noto che Peirce considerasse che «né un enunciatore, né, forse, nemmeno un interprete sono essenziali per un segno, essendo entrambi caratteristiche del segno» (MS318:58,1907). Sebbene la semiosi sia per Peirce un’azione triadica ed egli non avesse esplicitamente incluso una quarta o quinta componente del genere oltre al segno, il suo oggetto e l’interpretantexxiv, ciò non significa che Peirce non abbia riconosciuto l’esistenza dell’uno o dell’altro. In realtà lo ha fatto ripetutamente, ad esempio quando ha affermato che nel momento in cui un segno (verbale) viene prodotto, «c’è davvero un parlante, uno scrivente o un altro produttore di segni che lo enuncia, e suppone che ci sia, o che ci sarà, un ascoltatore, un lettore o un altro interprete che lo riceverà» (CP:3.433,1896); o nella sua citatissima definizione del segno come «qualcosa che per qualcuno sta per qualcosa . . . Si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente . . .» (CP:2.228,1897); o quando Peirce si riferiva alla «conoscenza totale dell’enunciatore (ossia del parlante, dello scrivente, del pensante o di altri agenti simbolizzatori» (CP:5.455,1905).

Si rendono qui necessari degli avvertimenti. In primo luogo, Peirce non aveva in mente, pare, che l’enunciatore e l’interprete fossero esseri umani e nemmeno menti specifichexxv. Ha scritto: «Un segno è qualsiasi cosa possa esistere il cui intento è mediare tra un suo enunciatore e un suo interprete, essendo entrambi depositari di pensiero» (MS318:206,1907; enfasi di Peirce). Stava piuttosto pensando, in modo astratto, a ciò che chiamava «teatri della coscienza» (MS318:55,1907) o «quasi menti»: «i segni necessitano di almeno due Quasi menti; un Quasi parlante e un Quasi interprete» (CP:4.551,1906).

78

Peirce affermava come parte centrale della sua teoria dei segni che la semiosi «non solo si verifica nella corteccia del cervello umano, ma deve verificarsi chiaramente in ogni Quasi mente in cui Segni di ogni tipo hanno una propria vitalità» (NEM4:318,c.1906). In secondo luogo, l’interprete pare essere più essenziale all’azione del segno rispetto all’enunciatore. Molti segni non hanno un enunciatore, o per lo meno non emanano da alcun produttore di segni personalizzato e conscio. Per illustrare ciò, Peirce ha citato «segni come sintomi di una malattia, segni del tempo atmosferico, gruppi d’esperienza che fungono da premesse ecc.» (MS318:56-57,1907). Ma un segno non è un segno a meno che non ci sia un interprete che lo interpreti come tale – «capace in qualche modo di ‘coglierlo’» (MS318:205,1907) – per lo meno potenzialmente. Un segno che per qualsiasi ragione non sia mai in grado di essere interpretato non potrà mai essere considerato un segno nel senso semiotico. Terzo, l’enunciatore e l’interprete all’interno della mente del traduttore sono impegnati in una relazione dialettica che si evolve nel tempo, un dialogo, metà interno e metà esterno, in cui il traduttore/enunciatore è subordinato al traduttore/interprete; tuttavia la performance di entrambi i “ruoli” da parte del singolo traduttore è chiaramente dominata da quella del segno-interpretante – cioè l’interpretante che si trasforma di nuovo in segno, o il segno che si trasforma in interpretante.

Al contrario della semiotica linguistica basata sulle teorie di Saussure, con enfasi sulla produzione del segno, la semiotica pragmatica (vale a dire la semiotica nella tradizione peirciana) procede al contrario e si manifesta prima di tutto ed essenzialmente come una teoria dell’interpretazione dei segni. Il segno così come Peirce lo concepisce, a differenza della sua controparte saussuriana, non definita in termini di un enunciatore e/o interprete bensì in termini delle sue relazioni – con sé stesso, con il suo oggetto, con il suo interpretante. Mediante la semiosi, il segno dispiega il suo significato; il suo significato pieno è così conoscibile, «sebbene possa trovarsi solo al termine ideale e infinitamente distante dell’indagine» (Savan 1983:6). L’azione e l’interpretazione dei segni non sono

79

necessariamente determinate da un enunciatore o interprete umano: la semiosi di Peirce è un’azione triadica autogenerante. Come tutti i segni semiotici, il testo-segno è una forza vivente alla ricerca attiva della propria realizzazione attraverso una qualche mente interpretante piuttosto che in attesa passiva di essere da essa realizzato, come nel caso della semiotica linguistica. Una ragione per cui il concetto peirciano di testo-segno potrebbe a prima vista sembrare bizzarro è che riduce l’importanza del lettore/interprete/traduttore. In una semiotica del testo di ispirazione saussuriana, quest’ultimo è normalmente visto come il solo soggetto che produce un discorso, l’unica forza che fornisce al testo-segno il suo significato accoppiando signifiant e signifié. Passando invece a un paradigma pragmatico peirciano, la presenza di un interprete è in qualche modo inclusa ma allo stesso tempo privata della sua enfasi.

Ciò significa che il ruolo attivo di mediazione in quel tipo di azione semiosica solitamente chiamata traduzione è svolto non dal traduttore, come si crede comunemente, ma dall’azione autonoma stessa mediante la quale il segno giunge a comprendere il proprio significato. Riguardo al pensiero e alla persona pensante, Peirce ha scritto che è il pensiero che pensa nell’uomo piuttosto che l’uomo nel pensiero (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), e

[L’]idea non appartiene all’anima; è l’anima che appartiene all’idea. L’anima fa per l’idea solo ciò che la cellulosa fa per la bellezza della rosa; vale a dire, [la cellulosa] dà la possibilità a essa [la bellezza]. (CP:1.216,1902)xxvi

Applicato alla teoria della traduzione, questo significa che il traduttore è solo strumentale nel rendere possibile l’azione del segno; è usato (ossia impiegato, influenzato) dal segno. Perciò sarebbe un’interpretazione erronea dei fatti sostenere, come accade generalmente, che il segno è tradotto dal traduttore, perché in realtà si traduce da séxxvii. Il traduttore non si rivolge al testo-segno; è il testo-segno che si rivolge al traduttore. E non gli si rivolge come

80

a una persona in carne e ossa ma come a una mente (cioè un segno). Il segno si rivolge, nella memoria dell’interprete, a «un particolare ricordo o immagine» che è «l’equivalente mentale» di quel segno – in breve, al suo interpretante (W1:466,1866). «L’intera funzione della mente è di fare interpretare a un segno sé stesso in un altro segno» (MS1334:44,1905). Naturalmente il traduttore può essere un marxista, una donna, un italiano; ma al momento della traduzione è, se non semplicemente il «sito attraversato dalle parole» postulato da Barthes, sicuramente non un calcolo di sentimenti legati a un’ideologia, al sesso o alla nazionalità. Il testo-segno deve essere visto come un organismo vivente che per sopravvivere richiede una traduzione e che è alla ricerca attiva di una mente recettiva in grado di generare interpretanti; senza reazioni interpretative il testo-segno morirebbe e scomparirebbe.

La rilevanza di questa transazione semiotica per la traduzione automatica è ovvia. Anzi, nel 1905 Peirce ha immaginato la possibilità di una traduzione compiuta da una macchina – non umana ma programmata dalla mente umana. Ha scritto:

. . . se avessimo i macchinari necessari per farla [la traduzione], cosa che forse non avremo mai, ma che è assai concepibile, un libro in inglese potrebbe essere tradotto verso il francese o il tedesco senza l’intervento della traduzione nei segni immaginari del pensiero umano . . . Supponendo che ci fosse una macchina o anche un albero in crescita che, senza l’interpolazione di alcuna immaginazione continuerebbe a tradurre da una possibile lingua all’altra, . . . (MS283:97-98,1905)

Il traduttore è quindi per Peirce essenzialmente un medium passivo nell’attività traduttiva, che egli può influenzare (come «l’albero in crescita» di

81

Peirce) solo marginalmente.
Poiché incarna l’idea (sopraccitata) che sia il pensiero a pensare nell’uomo piuttosto

che viceversa (CP:5.289,n.1=227,n.4,1868), il traduttore è «portato, suo malgrado, da

82

un pensiero all’altro» (CP:1.384,1890-1891). La mancata enfasi di Peirce sull’interprete personale influisce sulla sua (ancora in parte misteriosa) equazione «l’uomo è un segno» (CP:5.314=W2:241,1868). Nell’aforisma semiotico di Peirce, l’uomo è considerato alla stregua di un simbolo, un processo di comunicazione, conoscenza e apprendimento, proprio come lo è il segno; di conseguenza, tutti i termini coinvolti nel processo semiosico sono segni. Né l’enunciatore, né l’interprete possono fungere da forze autonome sotto l’egida della semiosi. Sono segni convertibili l’uno nell’altro all’interno di questa relazione comunicativa tanto quanto il segno proferito e/o interpretato ha bisogno, in qualche modo, di loro per la sua esistenza. Per lo stesso motivo, segni di tutti i tipi si autointerpretano da soli, l’uomo interpreta l’uomo, l’uomo interpreta i segni e i segni l’uomo, il tutto in un sistema generativo auto-organizzante irreversibile che si rinnova costantementexxviii. Questo rende il processo pragmatico del portare idee (ossia segni-pensieri) in opposizione all’essere portato da esse, in una sorta di relazione contrattualexxix in cui

. . . uomini e parole si istruiscono reciprocamente; ogni aumento delle informazioni di un uomo implica un aumento corrispondente delle informazioni di una parola ed è da esso implicato. (CP:5.313=W2:241,1868)xxx

Mentre «[o]gni enunciato lascia naturalmente il diritto di un’ulteriore esposizione da parte dell’enunciatore» (CP:5.447,1905), allo stesso tempo l’interprete gode di ciò che Peirce ha significativamente chiamato il «privilegio di portare la sua [del segno] determinazione oltre» (CP:5.447,1905). Poiché un termine è incluso in un processo di segni triadico, al traduttore-segno è data solo una libertà limitata di azione interpretativa. Come ha affermato Peirce, «un segno che lascia che il suo interprete lo interpreti a suo piacimento non significherebbe nulla, a meno che il nulla sia il suo significato» (CP:5.448,n.1,1906). Con quest’osservazione sagace ma un po’ maliziosa Peirce non intendeva ovviamente solo dire

83

che spesso e volentieri gli interpreti/traduttori, quando lasciati alle proprie risorse, producono assurdità. L’osservazione di Peirce che «la concezione barbara dell’identità personale deve essere ampliata» sottolinea il fatto che

Ogni comunicazione da mente a mente è attraverso la continuità dell’essere. Un uomo è capace di avergli assegnato un rôle – per quanto umile – a patto che si identifichi con il suo Autore. (CP:7.572,c.1892)

Un traduttore nello spirito intellettuale di Peirce conduce quindi un’«esistenza problematica» (CP:2.334,c.1895): non è tanto un individuo esperto che può pretendere di conoscere ogni risposta, quanto uno studente dedito a ciò che si manifesta nella semiosi a cui partecipa. Il vero traduttore peirciano è intrigato, affascinato o disorientato dal segno che ha di fronte, o ne è persino innamorato. Per questo motivo, la mente del traduttore deve essere aperta e incline alla semiosi – vale a dire, impegnata a crescere e coinvolta in un continuo processo di studio. Deve piegarsi incondizionatamente alla forza attrattiva del segno, ispirato da ciò che può essere giustamente chiamato «Amore creativo», in opposizione all’auto-amore (Henry James, padre di William James, citato in Murphey 1961:351;vedi anche CP:6.287,1893).

Le connotazioni erotiche di questo immaginario non sono certo una coincidenza. Servono a evidenziare il fatto che il traduttore sia, in parte, un patito del segno, uno il cui desiderio consiste nella resa incondizionata ai suoi [del segno, NdT] bisogni e desideri, piuttosto che nel cercare all’interno del testo-segno occasioni per dimostrare la propria abilità e il proprio talento. Secondo Peirce, mentre l’amore di sé è un semplice eufemismo dell’ingordigia (CP:6.291,1893), l’amore creativo corrisponde, conformemente all’agapastica teoria peirciana dell’evoluzione che ha le sue radici nel vangelo di Giovanni, al suo «amore evolutivo»,

84

. . . che insegna che la crescita arriva solo dall’amore; non direi dall’autosacrificio, ma dall’impulso ardente di soddisfare il più alto impulso di un altro. Supponiamo, ad esempio, che io abbia un’idea che mi interessa. È la mia creazione. La mia creatura; . . . è una personcina. La amo, e mi butterò a capofitto nel suo perfezionamento. Non è infliggendo una fredda punizione al circolo della mie idee che posso farle crescere, ma nutrendole e occupandomi di loro come farei con i fiori che ho in giardino. La filosofia che traiamo dal vangelo di Giovanni è che è così che la mente si sviluppa . . . (CP:6.289,1893)xxxi

Anche questo è sinecismo, il principio evolutivo dell’indagine, che, applicato all’attitudine mentale del traduttore (o di qualsiasi altro studioso), si concentra suoi fatti non come fenomeni isolati, ma come un qualcosa che incarna «un vero continuum . . . le cui possibilità di determinazione non possono essere esaurite da nessuna moltitudine di individui» (CP:6.170,1902). In questo modo, allora, il traduttore prende parte a una cosmologia metafisica nella quale vengono stabilite le potenzialità di significato, le relazioni e le generalità del segno che rifuggirebbero una mente orientata atomicamente.

Spero di aver chiarito che in tandem con questa concezione del ruolo del traduttore come persona che compie disinteressatamente un lavoro d’amore, la traduzione come semiosi trova un’espressione completamente nuova ed emozionante.xxxii

Conclusioni

Un allontanamento dall’approccio linguistico alla traduzione e un ritorno (seguendo Peirce e in compagnia di Jakobson, Steiner e altri) a una prospettiva filosofica sul fenomeno della traduzione rendono la perenne discussione riguardante la «fedeltà» o l’«infedeltà» di una traduzione (come si dice spesso con un tono moralistico) ridondante, e getta una luce

85

completamente nuova sull’epistemologia della sua “verità”. Queste idee non sono più valide in una teoria della traduzione che non punta alla riproduzione del significato (senza, tuttavia,

perdere il suo carattere normativo e finalizzato) ma all’incarnazione e allo spiegamento del potenziale di significato di un segno.

I traduttori accetteranno questo ruolo remissivo e di essere considerati menti vuote ed anonime. Nell’epigrafe di questo capitolo ho citato il vecchio cliché, traduttore traditore9, e i tempestivi commenti di Jakobson in proposito. Forse traditore può essere qui preso positivamente, nel suo senso etimologico10 – che renderebbe il traduttore un trasmettitore neutrale del messaggio. E forse, i traduttori dovrebbero anche sapere e volere sabotare i loro ruoli “tradizionali”, mostrare un comportamento deviante e impegnarsi nel «paradosso» creativo o semplicemente ingannevole «del tradimento per aumento» (Steiner 1975:298), e anche nel tradimento per riduzione o distorsione. Altrimenti ciò che potrebbero produrre sarebbero traslitterazioni, repliche morte dell’originale. Nella misura in cui una traduzione è un mero simulacro serve solo a soffocare la semiosi, poiché tesse trame in cui la somiglianza, o persino la coincidenza, è un motivo ricorrente. La modellazione nella traduzione deve essere speculativa, suggerendo un’ipotesi. Parte dai fatti, ma senza, all’inizio, seguire una particolare teoria. Si prefigge di proporre la costruzione di un modello prognostico, ma deve farlo guidata da una “ragione” istintiva. Questo non è l’ossimoro che a prima vista sembrerebbe. Lasciatemi quindi proporre traduttore abduttore11 come nuovo adagio adatto a riflettere ciò che, in una filosofia

9 In italiano nell’originale [NdT]
10 Il latino «trado» (-is, -dĭdi, -dĭtum, -ĕre) significa «consegnare, affidare, tramandare» [NdT] 11 In italiano nell’originale [NdT]

86

peirciana dei segni, dovrebbe essere la preoccupazione principale del traduttore. Ciò rende forse la semiosi, traduttiva o di altro tipo, un gioco rischioso, ma mai una ricerca banale. Per la traduzione di testi è l’alito della vita.

87

Note

Bibliografia

BELLETT, Ben Adam’s Dream: A Preface to Translation. New York, Grove Press, 1978. COLAPIETRO, Vincent Peirce’s Approach to the Self: A Semiotic Perspective on Human

Subjectivity, Albany, NY, State University of New York Press, 1989.
ECO, Umberto A Theory of Semiotics (=Advances in Semiotics 1), Bloomington, IN,

Indiana University Press, 1979.
ECO, Umberto I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990.

FISCH, Max H. Peirce, Semeiotic, and Pragmatism, Kenneth Laine Ketner e Christian J.W. Kloesel, Bloomington, IN, Indiana University Press, 1986.

FRAWLEY, William Prolegomenon to a theory of translation, Frawley, 1984a.

FRAWLEY, William Translation: Literary, Linguistic, and Philosophical Perspectives, Newark, University of Delaware Press e London and Toronto, Associate University Presses, 1984b.

GORLÉE, Dinda L. Firstness, Secondness, Thirdness, and Cha(u)nciness, Semiotica 65- 1/2:45-55, 1987.

GORLÉE, Dinda L. Degeneracy: A reading of Peirce’s Writing, Semiotica 81-1/2:71-92, 1990.

HOLMES, James S[tratton] Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies (=Approaches to Translation Studies 7), Raymond van den Broeck (introd.), Amsterdam, Rodopi, 1988.

JAKOBSON, Roman On linguistic aspects of translation, Brower, 1959:232-239, 1959. Traduzione italiana: Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, trad. di L. Heilmann e L. Grassi, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 56-64.

JAKOBSON, R Selected Writings I, The Hague and Paris, Mouton, 1971a. JAKOBSON, R Selected Writings II, The Hague and Paris, Mouton, 1971b.

JOHANSEN, Jørgen Dines What is a text? Semiosis and textuality, a Peircian perspective, Livstegn 5:7-32, 1988.

JOHANSEN, Jørgen Dines Dialogic Semiosis: An Essay on Signs and Meaning (=Advances in Semiotics), Bloomington, Indiana University Press (manoscritto fornito dall’autore), 1993.

88

[KOLLER, Werner Einführung in die Übersetzungswissenschaft (Uni-Taschenbücher 819), Heidelberg, Quelle & Meyer, 1979].

89

KOLLER, Werner Einführung in die Übersetzungswissenschaft (Uni-Taschenbücher 819), IV ed. completamente riveduta, Heidelberg/Wiesbaden, Quelle & Meyer, 1992.

LADMIRAL, Jean René Traduire: théorèmes sur la traduction (=Petite Bibliothèque Payot 366), Paris, Payot, 1979.

LISZKA, James Jakob Peirce and Jakobson: Towards a structuralist reconstruction of Peirce, Transactions of the Charles S. Peirce Society, 17:41-61, 1981.

MERRELL, Floyd Signs Becoming Signs: Our Perfusive, Pervasive Universe (=Advances in Semiotics), Bloomington and Indianapolis, IN, Indiana University Press, 1991.

MORRIS, Charles W. Foundations of the theory of signs, Foundation of the Unity of Science, vol.1.nr.2:1-14, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1938.

MURPHEY, Murray G. The Development of Peirce’s Philosophy, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1961.

NIDA, Eugene A. Toward a Science of Translating: With Special Reference to Principles and Procedures Involved in Bible Translating, Leiden, Brill, 1964.

NÖTH, Winfried Handobook of Semiotics (=Advances in Semiotics), Bloomington and Indianapolis, IN, Indiana University Press, 1990.

PEIRCE, Charles Sanders Collected Papers of Charles Sanders Peirce, Charles Hartshorne, Paul Weiss e Arthur W. Burks, 8 vol., Cambridge, MA, Belknap Press, Harvard University Press, 1931-66 (indicato nel testo con «CP», seguito da numero di volume e di paragrafo).

PEIRCE, Charles Sanders Charles S. Peirce: Selected Writings, Philip P. Wiener, New York Dover (Ripubblicazione dell’edizione originale del 1958, Values in a Universe of Chance), [1958] 1966 (indicatonel testo con «SW», seguito dal numero di pagina).

PEIRCE, Charles Sanders Semiotic and Significs: The Correspondence between Charles S. Peirce and Victoria Lady Welby, Charles S. Hardwick, Bloomington and London, Indiana University Press, 1977 (indicato nel testo con «PW», seguito dal numero di pagina).

PEIRCE, Charles Sanders The New Elements of Mathematics by Charles S. Peirce, Carolyn Eisele, 4 vol., The Hague and Paris, Mouton/Atlantic Highlands, NJ, Humanities Press, 1979 (indicato nel testo con «NEM», seguito dal numero di volume e di pagina).

PEIRCE, Charles Sanders Writings of Charles S. Peirce: A Chronological Edition, Max Fisch, Edward C. Moore, Christian J. W. Kloesel, et alii, 4 vol., Bloomington, IN, Indiana University Press, 1982-89 (indicato nel testo con «W», seguito dal numero di volume e di pagina).

PEIRCE, Charles Sanders Unpublished Manuscripts, Peirce Edition Project, Indiana University-Purdue University at Indianapolis (indicati nel testo con «MS» seguito dal numero di manoscritto e di pagina).

90

91

RANSDELL, Joseph Semiotic causation: A partial explication, Ketner, Ransdell, Eisele, Fisch e Hardwick, 1981:201-206, 1981.

ROBINSON, Douglas The Translator’s Turn (=Parallax: Re-visions of Culture and Society), Baltimore and London, Johns Hopskins University Press, 1991

SAVAN, David Toward a refutation of semiotic idealism, Recherches Sémiotiques/Semiotic Inquiry 3(1):1-8, 1983.

SCHMITTER, Peter, et alii, Humboldt, Wilhelm von, Sebeok (ed. gen), 1986:317-323, 1986.

SEBEOK, Thomas A. Encyclopedic Dictionary of Semiotics (=Approaches to Semiotics 73), 3 vol., Berlin, Mouton de Gruyter, 1991.

SHORT, Thomas L. What they say in Amsterdam: Peirce’s semiotics today. Semiotica 60- 1/2:103-128, 1986a.

SHORT, Thomas L. Life among the legisigns, Deely, Williams e Kruse 1986:105-109, 1986b.

STEINER, George After Babel: Aspects of Language and Translation, Oxford and London, Oxford University Press, 1975. Traduzione italiana: Dopo Babele: aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano, 1994, trad. di R. Bianchi e C. Beguin.

TOURY, Gideon The nature and role of norms in literary translation, Holmes, Lambert e van den Broeck, 1978:83-99, 1978.

TOURY, Gideon Translation: A cultural-semiotic perspective, Sebeok (ed. gen), 1986:2:1111-1124, 1986.

TRABANT, Jürgen Apeliotes oder Der Sinn der Sprache. Wilhelms von Humboldts Sprach-Bild (=Supplemente 8), Munich, Wilhelm Fink, 1986.

WILLS, Wolfram Kognition und Übersetzen. Zu Theorie und Praxis der menschlichen und der maschinellen Übersetzung (=Konzepte der Sprach- und Literaturwissenschaft 41), Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1988.

92

Riferimenti bibliografici

DE MAURO, Tullio De Mauro Paravia [online], [Torino], Paravia, 2004 [citato giugno 2004]. Disponibile in internet: http://www.demauroparavia.it/

DEVOTO, Giacomo, OLI, Gian Carlo Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1990.

Encyclopædia Britannica [online], [Chicago, IL, USA], Enciclopædia Britannica Inc., 2004 [citato giugno 2004]. Disponibilie in internet: http://www.britannica.com

LANZA, Giovanni Appunti su pura iconicità e apertura del segno [online], [Wuppertal, Germania], 2003 [citato giugno 2004]. Disponibile in internet: http://www.giovanni- lanza.de/Appunti%20su%20pura.htm

OSIMO, Bruno Corso di traduzione, volume 1, Modena, Guaraldi Logos, 2000. OSIMO, Bruno Traduzione e nuove tecnologie, Milano, Hoepli 1998.

OSIMO, Bruno Propedeutica della traduzione, Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli 2001.

Merriam-Webster [online], [Springfield, MA, USA], Merriam-Webster Inc., 2004 [citato giugno 2004]. Disponibile in internet: http://www.m-w.com/

Oxford Dictionary & Thesaurus, Oxford, Oxford University Press, 1995.
PICCHI, Fernando Grande dizionario Italiano-Inglese Inglese-Italiano con CD-ROM,

Milano, Hoepli, 1999.
PRONI, Giampaolo Introduzione a Peirce, Milano, Bompiani, 1990
QUARTU, Bruna Monica Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari, Milano, BUR, 1990

University of Helsinki, Department of Translation Studies, Dinda L. Gorlée – Curriculum Vitae [online], Helsinki, 2003 [citato settembre 2004]. Disponibile in internet: http://rosetta.helsinki.fi/tutkimus/gorleecv.htm

1
for instance, van den Broeck 1978 and Wills 1977:156-191.

On identity vs. difference, see also Chapter 7. On the problem of translational equivalence, see also,

2
emphasized in 1965 by Catford, thus: “The central problem of translation-practice is that of finding TL [target

The need to define, and thereby delimit, translation equivalence (both in theory and in practice) was

93

language] translation equivalents. A central task of translation-theory is that of defining the nature of conditions of translation equivalence” (Catford 1965:21).

3

Toury also speaks of “some informational core [which] is retained invariant under transformation”

(Toury 1986:1112-1113) and, more specifically, of an invariant core which “may be functional (ad hoc,

textual, or habitual, linguistic and/or text-typological)” or “formal, when . . . the invariant is the linguistic

substance itself” (Toury 1986:1117).

4

In the translational-theoretical context, this is a conclusion also arrived at by Frawley (from a

semiotic but non-Peircian point of view): “Thus, in an interlingual translation, for example, the matrix code

provides the phonological information, the morphological information, the syntactic information, and so on,

to be bound to different semiotic constraints. Hence the notion of identity is actually antithetical to the notion

of translation. There is no meaningful (meaningful ≠ semantic) information except that it is coded, and the

very fact of differential coding militates against ‘exact translation’ . . . [T]here is information only in

difference, and the differential coding, the recoding, is what allows the interlingual translation to produce any

information at all” (Frawley 1984a:168).

5 6

See Chapter 2, especially the section on “Semiotics and translation studies: generalities”.

Even Saussure, the champion of the arbitrary, conventional sign, recognized the existenc of

motivated (or, in his terminology, natural) signs. To address the form of language as having adopted, to some

degree, the form of external reality, is particularly momentous for the study of literature, where a completely

unmotivated sign concept would forbid all reference of the sign to its object. Interestingly, in this context,

Humboldt also composed an art theory, which must fall outside the scope of the present discussion.

7

This idea overlaps, at least to a certain point, with Nida’s principle of “equivalent effect”, which is “not so concerned with matching the receptor-language with the source-language message, but with the dynamic relationship between receptor and message [which] should be substantially the same as that which

existed between the original receptors and the message” (Nida 1964:159). Upon this principle Nida based his well-known dynamic-equivalence (as opposed to formal-equivalence) model.

8
translation; therefore it would be more adequate to use “codes” than “languages” here.

These remarks apply to the products of intralingual and interlingual, as well as intersemiotic

94

9

Jakobson argued that sequential use is made of equivalent units in two cases: “In poetry one syllable

is equalized with any other syllable of the same sequence; word stress is assumed to equal word stress, as

unstress equals unstress; prosodic long is matched with long, and short with short; word boundary equals

word boundary, no boundary equals no boundary; syntactic pause equals syntactic pause, no pause equals no

pause” (Jakobson 1971b:71). A translation of a poem must reproduce such equivalences across the language

barrier. Yet Jakobson continued: “It may be objected that metalanguage also makes a sequential use of

equivalent units when combining synonymic expressions into an equational sentence: A = A (“Mare is the

female of the horse”). Poetry and metalanguage, however, are in diametrical opposition to each other: in

metalanguage the sequence is used to build an equation, whereas in poetry the equation is used to build a

sequence” (Jakobson 1971b:71). Translation is, of course, a typical metalinguistic operation.

10 11

For details concerning Peirce’s concepts, see Chapter 3.

Since language is primarily a symbolic sign-system, this means that experiential knowledge is not

only linguistic but may also be non-linguistic. For Jakobson, however, “The meaning of the word ‘cheese’

cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance

of the verbal code. An array of linguistic signs needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not

teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in

general, or of any cheese, any milk product, any foodm any refreshment, or perhaps any box irrespective of

contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering,

slae, prohibition, or malediction?” (Jakobson 1971b:260-261). Jakobson’s contention here would gain in

clarity and scope by being placed in a broader framework – such as Peirce’s philosophy of signs – which does

not separate linguistic sign from non-linguistic signs, but places the different kinds of mental processes in a

continuum. This point is convincingly argued in Johansen (1993:235-244).

12

13

An expanded version of this lecture has been published in CP:2.391-2.430,1866.

In his earlier period Peirce, the logician, identified “sign” with thought-sign, his “symbol. Following

Peirce, I shall also use “term” in the general sense of “concept”, unrelated to Peirce’s specific understanding

of it, as an alternative to “rheme”.

14

Peirce used the term “information” as a measure of entropy – that is, similar to its modern use. He did 95

this long before the recent development of information theory, of which he must be considered a pioneer.

15
to the “essential”, “informed”, and “substantial” breadth and depth. See also Johansen 1993:147ff.

16 17 18

For a discussion of this crucial passage from a different perspective, see Chapter 5.
More on this in Chapter 10.
Having discussed, in the foregoing, semiotic equivalence in terms of the three elements of the

In reference to this, Peirce proposed three graded states of information, or knowledge, corresponding

semiosic sign-relation – sign-related, or qualitative equivalence; object-related, or referential equivalence; interpretant-related, or significational equivalence –, I need to respond briefly to Johansen’s view on this matter, since it differs somewhat from mine. Johansen (1988:26) includes in his list of partial equivalences, “extensional equivalence” and “significational (or intensional) equivalence”, in addition to what he calls “intentional equivalence” and “rhetorical equivalence”. That Johansen makes no explicit mention here of my qualitative equivalence, but includes instead the perspectives of respectively the utterer and the interpreter, is perhaps a reflection on the fact that he discusses one specific type of signs, namely literary signs. My own view on Johansen’s extension of Peirce’s triadic sign-relation, will become clear later in this Chapter. I may add here that, if I interpret Johansen’s list of four equivalences rightly, his extensional equivalence and my referential equivalence overlap, his intensional (or significational) equivalence corresponds to my own significational equivalence, while my qualitative equivalence seems included in his rhetorical equivalence (but without being identical to it).

19
For a detailed discussion of the relevance of Peirce’s semiotics to psychology, see Colapietro 1989:49ff. and

passim. 20

See also Chapter 10, particularly the section on “Utterer and interpreter in translational semiosis”.

See also Holmes 1988:89. Given the general and rather indeterminate character of Toury’s representation of the translation process here, I may perhaps venture an alternative interpretive suggestion. If by

relevancy is (implicitly) meant the opposite of redundancy in the information-theoretical sense, this makes the “irrelevant” units the non-informative relative waste of the message qua content. Seen from the point of typology, this would then refer to the invariants in the semiotic process – repeatable and thus superfluous.

96

This reductionist approach creates more problems than it solves, because in a semiotic context, invariance is not identical with insignificance, nor is variance the same as significance.

21

For Peirce’s different interpretants see also Chapter 3. Robinson’s (1991:294-296,n.24) criticism of

Steiner contains an interesting point: Steiner is accused of “unwillingness to take a stand on the theoretical

status of his movements”, of not stating clearly “whether they are psychohistorical phases in every translator’s

approach to a text, sociohistorical phases in a culture’s approach to foreign texts . . . or static logical

categories into which specific translations can be classified” (Robinson 1991:295,n.24).

22

clarity are interpreted as connected with the categories.

Peirce himself related to “three grades of clearness” in CP:3.456ff., 1897. See also his essay on “How to make your ideas clear” (W3:257-276,1878). Following Fisch (1986:290,327-329), the three grades of

23

Eco’s semiosic concept of culture as translation or an ongoing process of generating new

interpretants by a society of interpreters (Eco 1979:71) is incompatible with the idea of an ultimate logical

interpretant. I am indebted to Professor Eco for some of the stimulating ideas he put forward during his

lecture on “Drift and unlimited semiosis” at the Institute for Advanced Studies of Indiana University at

Bloomington on July 19,1989. A version of his lecture has been published in The limits of interpretation (Eco

1990:23-43).

24
element of semiosis (which for Morris was a relation between “sign”, “signification”, and “interpretant”).

26

It was not Peirce but Charles W. Morris who first spoke (1938:3) of the interpreter as a fourth

25
PW:81,1908). This issue is also discussed in Chapter 10.

This is also demonstrated by Peirce’s repeated remarks on the “sop to Cerberus” (see, for example,

Liszka (1981:47) affirms that “for Peirce, unlike Kant, the mind is not primarily synthetic, but analytic (1.384), i.e., mind does not constitute experience, but merely analyzes it. The mind gets synthesized rather than serving as the synthesizing agent: ‘Real synthesis occurs when we are carried in spite of ourselves from one thought to another’ (1.384)”.

27
upon similar ideas. The art of archery, for instance, is wholly an affair of “finding one’s cosmic center”.

Eastern martial arts, in which Zen-Buddhist and other meditation systems are an integral part, build

97

Paradoxically to the Western mind, it is not the archer who shoots the arrow: once the “tao”, or moment of inner balance, has been found, the arrow is simply shot from the bow. As the metaphor goes, it leaves the bow as the ripe fruit falls from the tree. Coincidentally or not, Peirce used the same image when he described “that ultimate . . . , definitive, and final interpretant” as “the ripe fruit of the thought”, “attaining the purpose” (MS298:24,1906). And he added: “But this perfect fruit of thought can hardly itself be called thought, since it has no signification and does not belong to the faculty of cognition at all; but rather to the character” (MS298:24,1906). Transposed to a different artistic key, the music is in the instrument, and the player needs only to make him- or herself available to it, for the music to come out.

28 29 30

For a particularly lucid, learned, and provocative study of this, see Merrell 1991.
See Chapter 10.
The same idea, viewed from the side of man as interpreter, is implied in the following quotation: “In

any case, such a Sign [Pheme] is intended to have some sort of compulsive effect on the Interpreter of it . . . It [The Delome] is a Sign which has the Form of tending to act upon the Interpreter through his own self- control, representing a process of change in thoughts or signs, as if to include this change in the Interpreter” (CP:4.538,1906). Note, however, Peirce’s “as if” in the last sentence, which, again, seems to limit the active role of the interpreter in semiosis.

31
horticultural metaphors.

32

In a previous article (Gorlée 1987) I addressed more specifically the meaning of Peirce’s

This concept of the translator displays a striking similarity to the purport of Walter Benjamin’s essay on “The task of the translator”: see Chapter 7. For a full, if more “conservative” discussion of the role of the translator in the translation process, see Wills 1988:41-59. Finally, Bellett (1978) places “translation as personal mode” vis-à-vis” the translator as nobody in particular”: “Both are ploys, impersonations, heuristic deceptions”, this writer argues (Bellett 1978:30), and “The operative word is faith and not fidelity” (Bellett 1978:39). Although these statements sound remarkably Peircian, Bellett refers here to the (un)faithfulness of the translator to the author of the original, not to the translator’s relation to the original
text, nor to the translation process – as Peirce would have it.

i
van den Broeck 1978 e Wilss 1977:156-191.

Su identità/differenza vedi anche cap. 7. Sul problema dell’equivalenza traduttiva vedi anche, p.e.,

ii
pratica) è stato enfatizzato nel 1965 da Catford: «Il problema centrale della pratica della traduzione è trovare

Il bisogno di definire, e quindi di delimitare, l’equivalenza traduttiva (sia nella teoria, sia nella

98

gli equivalenti traduttivi della lingua ricevente. Uno dei compiti fondamentali della teoria della traduzione è definire la natura delle condizioni dell’equivalenza traduttiva» (Catford 1965:21).

iii

Toury parla anche di «un nucleo informativo [che] è mantenuto invariato nella trasformazione»

(Toury 1986:1112-1113) e, più specificatamente, di un nucleo invariante che «potrebbe essere funzionale (ad

hoc, testuale o abituale, linguistico e/o della tipologia testuale)» o «formale quando . . . a essere invariata è la

sostanza linguistica stessa» (Toury 1986:1117).

iv

All’interno della teoria della traduzione, questa è una conclusione a cui è arrivato anche Frawley (da

un punto di vista semiotico ma non peirciano): «Così, in una traduzione interlinguistica, ad esempio, il codice

matrice fornisce le informazioni fonologiche, quelle morfologiche, quelle sintattiche e così via, da legare a

diversi vincoli semiotici. Pertanto il concetto di identità è in realtà antitetica a quella di traduzione. Non ci

sono informazioni significative (significative ≠ semantiche) eccetto che è codificata, e che proprio il fatto del

codificare differenziale è in contraddizione con l’‘esatta traduzione’ . . . [C]i sono informazioni solo nella

differenza, e il codificare differenziale, il ricodificare, è proprio ciò che permette alla traduzione

interlinguistica di produrre informazioni» (Frawley 1984a:168).

v vi

Vedi cap. 2, in particolare la sezione Semiotica e studi sulla traduzione: generalità.

Persino Saussure, il campione del segno arbitrario e convenzionale, ha riconosciuto l’esistenza dei

segni motivati (o, usando il suo termine, naturali). Dedicarsi alla forma di linguaggio come qualcosa che ha

adottato, fino a un certo punto, la forma della realtà esterna, è particolarmente importante per lo studio della

letteratura, in cui un concetto di segno completamente immotivato vieterebbe ogni riferimento del segno al

suo oggetto. In questo contesto, Humboldt ha anche formulato una teoria artistica che prescinde dall’intento

della presente discussione.

vii

tori originali e il messaggio» (Nida 1964:159). Su questo principio Nida ha basato il suo celebre modello di equivalenza dinamica (in opposizione a ll’equivalenza formale).

Quest’idea coincide, almeno fino a un certo punto, con il principio di Nida dell’«effetto equivalente», che non si occupa tanto dell’abbinamento della lingua-ricevente con quello originale quanto della relazione dinamica tra recettore e messaggio [che] dovrebbe essere sostanzialmente la stessa esistente tra i recet-

viii

Queste osservazioni valgono per i prodotti di una traduzione intralinguistica, interlinguistica e

intersemiotica; pertanto qui sarebbe più adeguato usare «codici» al posto di «lingue».

ix

Jakobson ha affermato che l’uso sequenziale consiste in unità equivalenti in due casi: «In poesia una 99

sillaba è equiparata a un’altra sillaba della stessa sequenza; ad accento tonico corrisponde accento tonico e ad atonia atonia; in prosodia, a una lunga corrisponde una lunga, a una corta una corta; ai limiti di una parola corrispondono i limiti di una parola, nessun limite a nessun limite; a pausa sintattica è fatta corrispondere pausa sintattica, a nessuna pausa nessuna pausa» (Jakobson 1971b:71). La traduzione poetica deve riprodurre tali equivalenze attraverso la barriera della lingua. Jakobson ha continuato: «Si potrebbe obiettare che anche il metalinguaggio fa un uso sequenziale di unità equivalenti combinando espressioni sinonimiche in una frase equazionale: A = A («la cavalla è la femmina del cavallo»). La poesia e il metalinguaggio, però, sono diametricalmente opposti l’uno all’altra: nel metalinguaggio la sequenza viene usata per costruire un’equazione, mentre nella poesia viene usata per costruire una sequenza» (Jakobson 1971b:71). La traduzione è, naturalmente, una tipica operazione metalinguistica.

x xi

Per dettagli sui concetti di Peirce vedi cap. 3.

Poiché la lingua è primariamente un sistema di segni simbolici, ciò significa che la conoscenza data

dall’esperienza non è solo linguistica ma può anche essere non linguistica. Per Jakobson, tuttavia, «il

significato della parola ‘formaggio’ non può essere inferito da una conoscenza non linguistica di cheddar o

camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola non familiare è necessaria una serie di

segni linguistici. Il semplice indicare col dito non ci dirà se «formaggio» è il nome specifico di quel

formaggio, della confezione di camembert, del camembert in generale o di tutti i formaggi, di tutti i latticini,

di tutti i cibi, di ogni ristoro o forse di tutte le confezioni indipendentemente dal loro contenuto. Infine, una

parola nomina semplicemente la cosa in questione o implica un significato quale un’offerta, una vendita, un

divieto o una maledizione?» (Jakobson 1971b:260-261). Il pensiero di Jakobson guadagnerebbe qui in

chiarezza e portata se fosse messo in una cornice più ampia – come la filosofia peirciana dei segni – che non

separa il segno linguistico dai segni non linguistici, ma pone i diversi tipi di processo mentale in un

continuum. Questo punto è argomentato in modo convincente in Johansen (1993:235-244).

xii

xiii

Una versione ampliata di questa lezione è stata pubblicata in CP:2.391-1.430,1866.

Quand’era ancora agli inizi, Peirce, il logico, identificava «segno» con pensiero-segno, il suo

«simbolo». Seguendo Peirce, dovrei usare anch’io «termine» nel senso generale di «concetto», non legato alla

comprensione specifica di Peirce riguardo a esso, come un’alternativa a «rema».

xiv
quello odierno. Questo molto prima del recente sviluppo della teoria dell’informazione, di cui deve essere

Peirce usava il termine «informazione» come misura dell’ entropia – ossia, ne faceva un uso simile a

100

considerato un pioniere.

xv
all’ampiezza e alla profondità «essenziale», «informata» e «sostanziale». Vedi anche Johansen 1993:147ff.

xvi xvii xviii

Per una discussione di questo importantissimo passaggio da una prospettiva diversa vedi cap. 5. Ulteriori informazioni nel cap. 10
Avendo discusso, precedentemente, l’equivalenza semiotica in termini dei tre elementi della

Riguardo a ciò Peirce ha proposto tre gradi di informazione, o conoscenza, corrispondenti

relazione semiosica tra segni – relativa al segno, o qualitativa; relativa all’oggetto, o referenziale; relativa all’interpretante, o significazionale – , è necessario che risponda brevemente alla visione di Johansen in materia, poiché è in qualche modo diversa dalla mia. Johansen (1988:26) include nella sua lista di equivalenze parziali l’«equivalenza estensionale» e quella «significazionale» (o intensionale), oltre a quelle da lui chiamate «equivalenza intenzionale» ed «equivalenza retorica». Che Johansen non citi esplicitamente la mia equivalenza qualitativa ma includa invece la prospettiva di, rispettivamente, parlante e interprete, è forse indice del fatto che egli considera un tipo specifico di segni, e cioè i segni letterari. La mia posizione sull’estensione di Johansen della relazione segnica triadica di Peirce verrà chiarita più avanti in questo capitolo. Potrei aggiungere che, se interpreto correttamente la lista di Johansen di quattro equivalenze, la sua equivalenza estensionale e la mia equivalenza referenziale coincidono, la sua equivalenza intensionale (o significazionale) corrisponde alla mia equivalenza significazionale, mentre la mia equivalenza qualitativa sembra inclusa nella sua equivalenza retorica (senza tuttavia esserne identica).

xix
discussione dettagliata dell’importanza della semiotica di Peirce per la psicologia vedi Colapietro 1989:49ff. e

Vedi anche cap. 10, in particolare la sezione «Parlante e interprete nella semiosi traduttiva». Per una

passim. xx

intende (implicitamente) il contrario di ridondanza in senso informativo-teorico, ciò rende le unità “irrilevan- ti” lo scarto relativo non-informativo del messaggio in quanto contenuto. Dal punto di vista della tipologia, questo si riferirebbe quindi agli invarianti nel processo semiotico – ripetibili e perciò superflui. Questo approccio riduzionista crea più problemi di quanti ne risolva, poiché in un contesto semiotico l’invarianza non

Vedi anche Holmes 1988:89. Dato il carattere generale e piuttosto indeterminato della rappresentazione di Toury del processo traduttivo, potrei azzardare un’interpretazione alternativa. Se con «rilevanza» si

101

è identica all’insignificanza, così come la varianza non equivale alla significatività.

xxi

Per i diversi interpretanti di Peirce vedi anche cap. 3. La critica di Robinson (1991:294-296,n.24) a

Steiner contiene un punto interessante: Steiner è accusato di «riluttanza a prendere una posizione riguardo allo

status teorico delle sue mosse», di non dichiarare apertamente «se sono monofasi psico-storiche presenti in

ogni approccio del traduttore verso il testo, fasi socio-storiche nell’approccio di una cultura verso testi

stranieri . . . o categorie statiche logiche in cui traduzioni specifiche possono essere classificate» (Robinson

1991:295,n.24).

xxii

chiarezza sono interpretati come connessi con le categorie.

Peirce stesso si è riferito ai «tre gradi di chiarezza» in CP:3.456ff., 1897. Si veda anche il suo saggio «How to make your ideas clear» (W3:257-276,1878). Secondo Fisch (1986:290,327-329), i tre gradi di

xxiii

Il concetto semiosico di Eco della cultura come traduzione o un processo continuo di generazione di

nuovi interpretanti da parte di una società di interpreti (Eco 1979:71) è incompatibile con l’idea di un

interpretante logico definitivo. Sono in debito con il Professor Eco di alcune delle idee stimolanti che ha

proposto durante la conferenza «Drift and unlimited semiosis» tenuta a Bloomington all’Institute for

Advanced Studies dell’Indiana University il 19 luglio 1989, una versione della quale è stata pubblicata in The

Limits of Interpretation (Eco 1990:23-43).

xxiv

Non è stato Peirce ma Charles W. Morris il primo a parlare (1989:3) dell’interprete come del quarto

elemento della semiosi (che secondo Morris era una relazione tra «segno», «significazione» e

«interpretante»).

xxv
(vedi p.e. PW:81,1908). Questo tema è discusso anche nel cap. 10.

xxvi

xxvii

Questo è dimostrato anche dalle ripetute osservazioni di Peirce riguardo al «dolcetto per Cerbero»

Liszka (1981:47) afferma che «per Peirce, a differenza di Kant, la mente non è soprattutto sintetica, ma analitica (1.384), vale a dire la mente non costituisce l’esperienza, ma si limita ad analizzarla. La mente viene sintetizzata piuttosto che fungere da agente sintetizzante: ‘La sintesi reale avviene quando siamo portati, nostro malgrado, da un pensiero a un altro’ (1.384)».

Le arti marziali orientali, di cui il Buddismo-Zen e altri sistemi di meditazione sono parte integrante, si basano su idee simili. L’arte del tiro con l’arco, ad esempio, è tutta questione di «trovare il proprio centro cosmico». Cosa paradossale per la mentalità occidentale, non è l’arciere che tira la freccia: una volta che il «tao», o il momento di equilibrio interiore, è stato trovato, la freccia viene semplicemente tirata dall’arco.

102

Metaforicamente, lascia l’arco così come il frutto maturo cade dall’albero. Per coincidenza o no, Peirce ha usato la stessa immagine descrivendo «quell’interpretante ultimo . . . , definitivo e finale» come «il frutto maturo del pensiero», «che raggiunge lo scopo» (MS298:24,1906). E ha aggiunto: «Ma questo frutto perfetto del pensiero non può essere definito pensiero, poiché non ha significato e non appartiene affatto alla facoltà della cognizione; ma piuttosto al carattere» (MS298:24,1906). Detto in un’altra chiave artistica, la musica è nello strumento, e il musicista deve solo rendersi disponibile affinché venga fuori.

xxviii xxix xxx

Per uno studio particolarmente lucido, istruttivo e provocatorio in proposito, vedi Merrel 1991.
Vedi cap. 10.
La stessa idea, vista dal lato dell’uomo come interprete, è implicita nella citazione seguente: «In ogni

caso, un Segno [Pheme] tale dovrebbe avere una sorta di effetto compulsivo sul suo Interprete . . . [The Delome] è un Segno avente la forma che tende a fare uso dell’Interprete mediante il proprio autocontrollo, rappresentando un processo di cambiamento nei pensieri o nei segni, come per includere questo cambiamento nell’Interprete» (CP:4.538,1906). Si noti, tuttavia, il «come per» di Peirce nell’ultima frase, che, di nuovo, sembra limitare il ruolo attivo dell’interprete nella semiosi.

xxxi
metafore orticolturali di Peirce.

xxxii

In un articolo precedente (Gorlée 1987) mi sono occupata più specificamente del significato delle

Questa concezione del traduttore mostra un’incredibile somiglianza con le idee espresse da Walter Benjamin nel saggio su «Il compito del traduttore»: vedi cap. 7. Per una discussione completa e, se vogliamo, più “conservatrice” del ruolo del traduttore nel processo traduttivo vedi Wills 1988:41-59. Infine, Bellett (1978) pone la «traduzione come un modo personale» vis-à-vis con «il traduttore come nessuno in particolare»: «Entrambi sono espedienti, impersonificazioni, inganni euristici», sostiene lo scrittore (Bellett 1978:30), e «Il termine effettivo è fiducia e non fedeltà». Sebbene queste affermazioni sembrino molto peirciane, Bellett si riferisce qui alla (in)fedeltà del traduttore verso l’autore dell’originale, non alla relazione del traduttore
con il testo originale o al processo traduttivo – come avrebbe fatto Peirce.

103

Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments By Dinda L. Gorlée Emilia de candia

Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments

By Dinda L. Gorlée

 

Emilia de candia

 

 

Université Marc Bloch

Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

Dipartimento di Lingue – SCM

Istituto Superiore Interpreti Traduttori

Corso di Specializzazione in Traduzione

 

Primo supervisore: professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: professor Ludwig CONISTABILE

 

Master: Langages, Cultures et Sociétés

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence

Parcours: Traduction littéraire

estate 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Dinda L. Gorlée, 2007

 

© Emilia de Candia per l’edizione italiana, 2008

 

 

Abstract

 

This thesis consists of the partial translation into Italian of the essay Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments by Dinda L. Gorlée. This essay analyzes the fragments of Peirce’s papers that have been collected in the Collected Papers by some editors after the death of the American philosopher. A commentary on the translation and its contents is also included.

 

 

 

 Sommario

Abstract 3

1. Traduzione con testo a fronte. 6

Riferimenti bibliografici 107

2. Analisi traduttologica. 120

2.1 Dinda Gorlée studiosa di Peirce. 121

2.2 Broken Signs 121

2.3 Charles Sanders Peirce. 123

2.4 La traduzione saggistica. 124

2.5 Tradurre Peirce in italiano. 126

2.6 Musement e amusement 129

2.7 Le citazioni 131

2.8 Conclusione. 135

Riferimenti bibliografici 136

 


 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments

 

Dinda L. Gorlée

Mazes intricate. Eccentric, interwov’d, yet regular.

The most, when most irregular they seem.

(John Milton’s Description of the Mystical Angelic

Dance, see epigraph Peirce, CP: 4.585, 1908)

 

Pragmatism is the principle that every theoretical judgment

is a confused form of thought … (Peirce, CP: 5.18, 1903)

 

 

 

 

 

Segni incompiuti: la traduzione architettonica dei frammenti di Peirce

 

Dinda L. Gorlée

Labirinti intricati. Eccentrici, intrecciati, eppure regolari.

Di più, quanto più irregolari sembrano.

(John Milton, Description of the Mystical Angelic

Dance, si veda l’epigrafe in Peirce, CP: 4.585, 1908)

 

Il pragmatismo è il principio per cui ogni giudizio teorico è una forma confusa di pensiero… (Peirce, CP: 5.18, 1903)

 

 

 

 

Tricks and truth in Peirce’s labyrinths

The eight-volume volumes edition of Charles S. Peirce’s collage-like Collected Papers, other collections of Peirce’s works, and his unpublished entire manuscripts, are preserved for scholarship only in their radical fragmentariness. The broken fragments are conveyed in their collective gathering of all kinds of terms, phrases, statements, paragraphs, drafts, maxims, verses, letters and papers, all of them written in different places and at different times, and here interweaved and assembled under the ‘architectural’ roof of the publicized and editorial volumes (following Peirce’s building instructions are written in his first article in The Monist, called ‘The Architecture of Theories,’ CP: 6.7-6.34, 1891). Architectonics means ‘the process of ordering the elements of a work of art as to give them meaning only through the organism, in the companionship of the whole’ (Shipley 1972: 29). Is philosophical discourse a good design, but also an artistic genre?

According to Charles Hartshorne and Paul Weiss, the first editors of Peirce’s works, the original fragments tend to ‘represent all stages of incompleteness’ (1931: iv). Hartshorne and Weiss describe their theorical intent and practical purposes as follows:

 


Inganni e verità nei labirinti di Peirce

 

L’edizione in otto volumi dei Collected Papers di Charles S. Peirce, sotto forma di collage, le altre raccolte delle opere di Peirce e tutti i suoi manoscritti inediti sono disponibili al mondo accademico solo nella loro frammentazione estrema. La discontinuità dei frammenti è data dal fatto che si tratta di una raccolta realizzata a più mani di termini, frasi, asserzioni, paragrafi, bozze, massime, versi, lettere e studi, tutti scritti in posti diversi e in tempi diversi, e qui assemblati e riuniti sotto l’etichetta “architettonica” dei volumi editoriali (seguendo le istruzioni di Peirce riportate nel suo primo articolo in The Monist, intitolato The Architecture of Theories, CP: 6.7-6.34, 1891). «Architectonics» significa: «ordinare gli elementi di un opera d’arte per conferire loro un significato solo attraverso l’organismo, in sintonia con l’intero» (Shipley 1972: 29). Il discorso filosofico è un buon modello? Ma è anche un genere artistico? Secondo Charles Harsthorne e Paul Weiss, i primi curatori delle opere di Peirce, i frammenti originali tendono a «rappresentare tutti gli stadi di incompletezza» (1931: iv). Hartshorne e Weiss descrivono il loro intento teorico e i risultati pratici come segue:


Frequently there is no date or title, and many leaves are out of place or altogether missing. Some of them were written as many as a dozen times: it is often evident that Peirce himself was not able to select the final form. Some are clearly identifiable as earlier drafts of his published papers; others one may assume to have been such drafts, although they differ from the published papers so much as to make this a matter of doubt. Often these unpublished studies contain passages or longer portions, which impress those who have examined them as being of greater worth or clarity than those of the published articles. There are, likewise, a number of studies, often incomplete and of considerable length, and yet plainly unrelated to any which were printed. Sometimes they can be identified, through contemporary correspondance, as definite projects for publication which for one or another reason, never came into fruition. Often, however, there is no indication of such definite intent; he seems to have written merely from the impulse to formulate what was on his mind. (Hartshorne and Weiss 1931: iv)


Molto spesso non c’è né la data, né il titolo, e molti fogli sono fuori posto o del tutto mancanti: spesso è evidente che lo stesso Peirce non fu capace di scegliere la forma finale. Alcuni sono chiaramente identificabili come prime stesure dei suoi studi pubblicati; altri si può pensare fossero prime stesure, sebbene siano così diverse dagli studi pubblicati da far venire un dubbio. Spesso questi studi non pubblicati contengono passi o parti più lunghe, che impressionano coloro che li hanno esaminati perché di maggior valore o chiarezza rispetto a quelli presenti negli articoli pubblicati. Ci sono, inoltre, alcuni studi spesso incompleti e di considerevole lunghezza, e tuttavia chiaramente senza alcun rapporto con quelli stampati. A volte possono essere identificati, attraverso la corrispondenza contemporanea, come progetti definiti per la pubblicazione che per un motivo o per l’altro, non si sono realizzati. Spesso non c’è nessuna indicazione di tale intento definito; sembra che [Peirce] abbia scritto in preda unicamente all’impulso di formulare quello che aveva in testa. (Hartshorne and Weiss 1931: iv)


There seems to remain a hard core of history in Peirce’s edited work, both fragments and whole. Despite the ‘great variety of forms’ (CP: 1.iv, 1931), they refer back to a variety of his writings published in the Collected Papers (CP) (and other collections of the immense volume of Peirce’s writings) where, ‘[l]ecture series were broken apart and published in separate volumes, single papers were cut in two, and under a single title might appear excerpts from writings composed more than thirty years apart’ (Houser 1992: 1262). The fragmentary collection has virtues and vices, particularly since the jigsaw fragments falsely create ‘an impression of Peirce as a philosopher of threads and patches — and one who needs to be threaded and patched by outside hands’ (Gallie 1952: 43). The academic ‘tinkering’ of later generations of editors and translators of the collection, in the original English and transposed to many guises and languages, generates the desire and will to compose a genuine wholeness out of the fragments by publishing the materials, including footnotes with glossary references by the editors.

The raw material of Peirce’s writings has become a startling collection of separate documents, one that confounds through its size and magnitude all preconceived notions about the nature of scholarly inquiry. This ‘piecemeal pluralism’ (Rosenthal 1994: ix) has turned the whole of Peircean scholarship into a quixotic exploration with a heterogeneous and fragmentary nature. The ‘definitive critical edition, in chronological arrrangement, of a wide selection of Peirce’s writings’ (Houser 1992:1264) Nell’opera curata di Peirce, sia nei frammenti sia nel tutto, sembra rimanere il nocciolo duro della storia. Nonostante la «grande varietà di forme» (CP: 1.iv, 1931), questi rimandano a una varietà di suoi scritti pubblicati nei Collected Papers (CP) (e ad altre raccolte dell’immensa mole degli scritti di Peirce) in cui, «le serie di conferenze sono a parte e pubblicate in volumi separati, i singoli fogli sono tagliati in due parti, e sotto un unico titolo compaiono citazioni prese da scritti composti a più di trent’anni di distanza l’uno dall’altro» (Houser 1992: 1262). La raccolta frammentaria ha pregi e difetti, in particolare poiché i frammenti creano «la falsa immagine di Peirce filosofo “taglia e cuci” – che ha bisogno di essere tagliato e cucito da mani esterne» (Gallie 1952: 43). L’“armeggiare” accademico delle ultime generazioni di curatori e traduttori della raccolta, nella lingua originaria inglese e trasposta sotto molte sembianze e in varie lingue, ha fatto nascere il desiderio e la volontà di comporre un’integrità vera e propria usando i frammenti, pubblicando i materiali, comprese le note a piè pagina con riferimenti dei curatori al glossario. Il materiale non elaborato degli scritti di Peirce è diventato una raccolta sorprendente di documenti diversi che, per ampiezza e importanza, mette in crisi tutte le opinioni preconcette sulla natura della ricerca accademica. Questo «pluralismo frammentario» (Rosenthal 1994: ix) ha trasformato tutti gli studi accademici su Peirce in un’impresa titanica di natura frammentaria ed eterogenea. L’«edizione critica definitiva, disposta cronologicamente, di un’ampia selezione di scritti di

has now provided six volumes of the Writings (1982-2000, further volumes forthcoming). The volumes embrace Peirce’s juvenalia (1857-1890) and convey, in their fragments, the time-bound wholeness of his early vision. Peirce’s whole philosophy consists of a number of related theories, discussed in the publications of Peircean scholarship. The theories or pseudo-theories are intellectual or physical efforts, interrelated so as to generate a unity out of the assembled fragments. The mazes of Peirce’s web of methodologies are these: Among the most characteristic of Peirce’s theories are his pragmaticism (or ‘pragmaticism,’ as he later called it), a method of sorting out conceptual confusions by relating meaning to consequences; semiotics, his theory of information, representation, communication, and the growth of knowledge; objective idealism, his monistic thesis that matter is effete mind (with the corollary that mind is inexplicable in terms of mechanics); fallibilism, the thesis that no inquirer can ever claim with full assurance to have reached the truth, for new evidence or information may arise that will reverberate throughout one’s system of beliefs affecting even those most entrenched; tychism, the thesis that chance is really operative in the universe; synechism, the theory that continuity prevails and that the presumption of continuity is of enormous methodological importance for philosophy; and, finally, agapism, the thesis that love, or sympathy, has real influence in the world and, in fact, is ‘the great evolutionary agency of the universe.’ The last three doctrines are part of Peirce’s comprehensive evolutionary

Peirce» (Houser 1992: 1264) ha prodotto ora sei volumi dei Writings (1982-2000, altri volumi sono imminenti). I volumi comprendono gli scritti giovanili di Peirce e trasmettono, nella loro frammentarietà, la provvisoria integrità delle sue prime idee. L’intera filosofia di Peirce consta di varie teorie collegate, discusse nelle pubblicazioni dei ricercatori. Le teorie o pseudoteorie sono tentativi fisici o intellettuali interrelati così da creare un’unità attraverso i frammenti assemblati. I labirinti della rete di metodologie di Peirce sono i seguenti:

Tra le più importanti caratteristiche delle Teorie di Peirce ci sono il pragmatismo (o “pragmaticismo” come l’ha poi chiamato), un metodo per uscire dalla confusione mentale collegando il significato alle conseguenze; la semiotica, la sua teoria dell’informazione, rappresentazione, comunicazione, e aumento della conoscenza; l’idealismo oggettivo, la tesi monadica il cui argomento è la mente indebolita (con il corollario per cui la mente è inspiegabile in termini di meccanica); il fallibilismo, la tesi per cui nessun investigatore possa mai dichiarare con piena sicurezza di aver scoperto la verità, poiché possono presentarsi nuove evidenze o informazioni che risuoneranno attraverso il proprio sistema di credenze andando a intaccare anche le più arroccate; il tychism, la tesi secondo cui il caso è davvero operativo nell’universo; il sinecismo, la teoria per cui la continuità prevale e la presunzione di continuità è di un’importanza metodologica enorme per la filosofia; e infine, l’agapismo, la tesi secondo cui l’amore, o la simpatia, ha una reale influenza nel mondo e, infatti, è «la maggior causa evolutiva dell’universo». Le ultime tre dottrine fanno parte dell’esauriente cosmologia evoluzionaria di Peirce (Houser e Kloesel 1992: xxii, corsivo di Peirce).


cosmology. (Houser and Kloesel 1992: xxii, Peirce’s emphasis)

The inquiry into Peirce’s ‘great works, or individual mental products’ (MS 1135: 25, [1895]1896) must, technically, still be considered a structure of spatiotemporal wholism united in fragments, provided with all systems of clues, interpretations and meanings, including those linked to the fragmentary translations. The Peircean study is the use (and abuse) of bricolages and paraphrases, splitting apart the fragments and whole existing in the common experiment of reading and interpreting, in order to reveal to the readers (including the translators) how interconnected everything in so-called unity is. Peirce’s adage was that, ‘All that you can find in print of my work on logic are simply scattered outcroppings here and there of a rich vein which remains unpublished. Most of it I suppose has been written down; but no human being could ever put together the fragments. I could not myself do so’ (epigram CP: 2.xii, 1903). The lost and preserved fragments seem to stand well on their own and appear to provide a reliable, but still provisional, guide to Peirce’s thought and knowledge, which sporadically and episodically reflect the pragmatic effects of ‘some amazing mazes’ (title of CP: 4.585 and note, 1908) in the labyrinth of whole-part relations in his works (Gorlée 2004: 18f.).


L’indagine delle «grandi opere, o dei singoli prodotti mentali!» (MS 1135: 25, [1895]1896) di Peirce tecnicamente va ancora considerata una struttura di olismo spaziotemporale unita in frammenti, provvista di tutti i sistemi di indizi, interpretazioni e significati, compresi quelli legati alla frammentarietà dei testi tradotti. Lo studio peirciano è l’uso (e abuso) di bricolage e parafrasi che separano i frammenti e il tutto, nella pratica comune di leggere e interpretare, così da rivelare ai lettori (compresi i traduttori) come ogni cosa sia interconnessa nella cosiddetta unità. La massima di Peirce era:

Tutto ciò che si può trovare stampato del mio lavoro sulla logica sono semplicemente affioramenti sparsi qua e là di una vena ricca che resta inedita. Penso che perlopiù sia stata scritta; ma nessun essere umano potrebbe mai mettere insieme i frammenti. Non ci sono riuscito nemmeno io (epigramma CP: 2.xii, 1903 [mia traduzione]).

I frammenti persi e quelli preservati sembrano avere senso anche da soli e costituiscono un’affidabile, ma ancora provvisoria, guida al pensiero e alla conoscenza di Peirce, che sporadicamente ed episodicamente riflette gli effetti pragmatici di «alcuni labirinti sorprendenti» (titolo di CP: 4.585 e nota, 1908) nel labirinto delle relazioni tra il tutto e le parti presenti nelle sue opere (Gorlée 2004: 18f.).


By engaging readers in the hermeneutic activity of interpreting these hidden connections in Peirce’s World Wide Web, one finds that the ‘providence, foreknowledge, will, and fate’ of the discussions are characterized by ‘fixed date, free will, foreknowledge absolute … [which] found no end in wandering mazes lost’ (Milton’s Paradise Lost, Book 2, lines 558-561, quoted from Milton 1972: 103). Peirce wrote that by following ‘this labyrinthine path it is possible to attain evidence’ and such ‘evidence belongs to every necessary conclusion’ (quoted in Eysele 1979: 241). As Peirce’s first editors have showed, the original fragmentariness was a ‘tragedy which cannot be set right’ (CP: 1.v, 1931) by the hazarded guesses and choices made in the edited versions, where ‘[i]lluminating passages of great interest must be passed by because [they are] inextricably connected with other material the inclusion of which is not justified’ (CP: 1.v, 1931). The publishers clearly have perceived that ‘[o]n the other hand, because the doctrines they present are too important to be omitted, papers and fragments must often be included although one is sure that the author would not have printed them in their present condition,’ while ‘[o]ften there are alternative drafts of the same study, one distinctly superior in some portion or respect; the other, in some other portion or respect’ (CP: 1.v, 1931). In such editorial cases ‘a choice is necessary, although any choice is a matter of regret’ (CP: 1.v, 1931).


Coinvolgendo i lettori nell’attività ermeneutica di interpretare queste connessioni nascoste nel world wide web di Peirce, si può scoprire che «la provvidenza, la prescienza, la volontà e il fato» delle discussioni sono caratterizzate da «date fisse, libero arbitrio, prescienza assoluta [la quale] non ha fine interrogandosi sulla perdita dei labirinti» (Milton, Paradise Lost, Libro 2, versi 558-561, citazione da Milton 1972: 103). Peirce scrisse che seguendo «questo sentiero labirintico è possibile conseguire l’evidenza» e tale «evidenza fa parte di ogni conclusione necessaria» (citato in Eysele 1979: 241). Come hanno mostrato i primi curatori di Peirce, la frammentazione originaria era una «tragedia a cui non si può porre rimedio» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]) con le congetture azzardate e le scelte fatte nelle versioni curate, in cui «i passi illuminanti di grande interesse vanno ignorati perché [sono] inestricabilmente connessi con altri materiali la cui inclusione non è giustificata» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]). Gli editori si sono chiaramente resi conto che: «d’altro canto, poiché le dottrine che presentano sono troppo importanti per essere omesse, gli scritti e i frammenti spesso vanno inclusi sebbene si sia certi che l’autore nella loro presente condizione non li avrebbe dati alle stampe», «[s]pesso ci sono bozze alternative dello stesso studio, una distintamente superiore in alcuni parti o per alcuni aspetti» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]). In casi editoriali simili «è necessaria una scelta, sebbene ogni scelta sia un rimpianto» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]).


Perceiving Peirce’s published works as things fully grown is a misunderstanding or misconstruction. Peirce’s oeuvre is a construct of thought and writing that has changed, irretrievably over time and space. In my view, all of its processes were embraced in established alternatives which the editors have fallen back on, or denied or rejected, as the case may be. The intercourse with Peirce’s whole thinking is realized by the interconnectedness of the variety of fragments to fully interpret the soul and essence of Peirce’s framework during his active working life in Victorian times. The contents of the broken fragments can perhaps be unbroken in order to construct the whole text (or textuality) and provide, through its interconnectedness, source material for modern scholars, despite the isolationist trends in linguistics (Gorlée 2004: 17-98). Experimentation with new modes of interdisciplinary expression offers multiple paths in linking broken and unbroken segments into new varieties. The quantum physicist David Bohm stated that ‘[o]ne is led to a new notion of unbroken wholeness which denies the classical idea of analyzability of the world into separately and independent existing parts,’ adding that: We have reversed the usual classical notion that the independent ‘elementary parts’ of the world are the fundamental reality, and that the various systems are merely particular contingent forms and arrangements of these parts. Rather, we say that inseparable quantum interconnectedness of the whole universe is the fundamental reality, and that relatively independently behaving parts are merely particular and
Considerare le opere pubblicate di Peirce come qualcosa di compiuto è un fraintendimento o un equivoco. L’opera di Peirce è un costrutto di pensieri e scritti irrimediabilmente cambiato nel tempo e nello spazio. Dal mio punto di vista, tutti i processi insiti nell’opera contemplavano determinate alternative che i curatori a seconda dei casi hanno scartato, negato o rifiutato. La relazione con tutto il pensiero di Peirce è realizzata dall’interconnessione della varietà dei frammenti per interpretare pienamente l’anima e l’essenza della struttura di Peirce durante la sua vita lavorativa in epoca vittoriana. I contenuti dei frammenti discontinui forse possono essere resi più continui così da costruire il testo intero (o una testualità) e offrire, attraverso l’interconnessione, materiale originale per gli studiosi contemporanei, nonostante la tendenza all’isolamento che c’è nella linguistica (Gorlée 2004: 17-98).

La sperimentazione con nuove modalità di espressione interdisciplinare offre varie possibilità di correlare segmenti discontinui e continui in nuove varietà. Il fisico quantistico David Bohm affermò:

Si è condotti a una nuova concezione di totalità ininterrotta che nega l’idea classica della possibilità di analizzare il mondo in parti esistenti in maniera separate e indipendente […] Abbiamo rovesciato la consueta concezione classica secondo la quale le “parti elementari” indipendenti del mondo sono la realtà fondamentale e i vari sistemi sono solo forme e disposizioni particolari e contingenti di tali parti. Anzi, diciamo che la realtà fondamentale è l’inseparabile interconnessione quantistica di tutto l’universo e che le parti che hanno un comportamento relativamente indipendente sono solo forme particolari e contingenti dentro a questo tutto (Bohm 1975, citato in Capra 1989: 157).


contingent forms within this whole. (Bohm 1975 quoted in Capra 1976: 141-142). Peirce was aware of this interconnectedness. Following him, Robert Cummings Neville’s book The Truth of Broken Symbols stated, for example, that all religious symbols which convey to mankind ‘something’ about the elusive God should be recognized as broken symbols (2000: passim). Bread, wine, cross, fire, heaven, desert, storm, and other images are finite and flexible fragments referring to the boundaries of the infinite, and understood by humans if we combine faith and intellect (see Gorlée 2005a). Their reference and meaning are both practical (i.e., integrity of the religious community) and representational (i.e., praise to the divine) forms of religious interpreting, but the real limitations of the larger story — focused on Peirce’s general truth — remain for the moment unknown and untrue. The semio-logical, or better semiosis-directed, remedy which is suggested to evidence the web of interrelations is the use of Peirce’s elementary building blocks of the categories First, Second, and Third, embodied in varying forms, shapes, and effects. The linguistic and metalinguistic unities and arrangements based on the patterns of the categories are projected in the fragments with a view to constructing the whole verbal meaning. Peirce wrote that as ‘a bird trusts to its wings without understanding the principle of aerodynamics according to which it flies, and which show why its wings may be trusted, we might venture to say that there must be an intelligence behind that chance’ (MS 318: 25, 1907).
Peirce era consapevole di questa interconnessione. Il libro di Robert Cummings Neville, The Truth of Broken Symbols, si rifà a Peirce e afferma, per esempio, che tutti i simboli religiosi che comunicano al genere umano “qualcosa” riguardo a un Dio elusivo dovrebbero essere considerati simboli discontinui (2000: passim). Il pane, il vino, la croce, il fuoco, il paradiso, il deserto, la tempesta e altre immagini sono frammenti finiti e flessibili che si riferiscono ai limiti dell’infinito e sono compresi dall’uomo combinando la fede con l’intelletto (si veda Gorlée 2005a). Il loro riferimento e il loro significato sono pratici (ossia, integrità della comunità religiosa) e rappresentano la realtà (ossia, preghiera alla divinità), forme di interpretazione religiosa, ma le vere limitazioni della storia a livello più ampio – concentrate sulla verità generale di Peirce – per il momento rimangono sconosciute e false.

Il rimedio semio-logico, o meglio ancora semiosi-diretto che viene suggerito per dimostrare la rete di interrelazioni è l’applicazione dei componenti elementari delle categorie First, Second, Third, realizzate in varie forme, strutture e effetti. Le unità linguistiche e metalinguistiche e le disposizioni basate sui modelli delle categorie sono proiettate in frammenti allo scopo di costruire l’intero significato verbale. Peirce scrisse che come:

un uccello si affida alle sue ali senza capire il principio di aerodinamica secondo il quale può volare, e che illustra perché ci si possa affidare alle ali, possiamo azzardarci a dire che ci deve essere dell’intelligenza dietro a quel caso (MS 318: 25, 1907 [mia traduzione]).

In scientific study, without the function of Peirce’s categories, the elementariness of individual fragments would remain a suggestion and thereby converted in some unscientific and unsound items. Translation, the multilingual subject of this essay, remains a paradox of bizarre duality, since it is considered a ‘process of passage — the transferring of textual matter between different locations, different peoples, and therefore different languages’ (Montgomery 2000: 10). Translation, considered now as a triadic discipline, tends to give to Peirce’s speaking and reading community of interpreters in all countries numerous copies and variants in translated and retranslated forms, but the translational phenomenon still affords, at its basis, chances without pure security (defined in Gorlée 1994: 40ff. and discussed further in Gorlée 2004).

The contents of all fragments and the whole interconnected text adapt the mixture of all three categories in order to form an intimate as well as public meaning of the proposed whole. In a Peircean key, translation must include Firstness, Secondness and Thirdness, representing reference, meaning, and interpretation, and variants of Peirce’s icons, indices, and symbols. The connected consciousness of fragmentariness — with reference to Michail M. Baxtin’s ‘elementariness’ (under his ideological nom de guerre, Vološinov 1973: 110) — operates on all those tracks at the same time, first privately and subsequently with public extensions.


Nello studio scientifico, senza la funzione delle categorie di Peirce, l’elementarità dei singoli frammenti rimarrebbe un suggerimento e verrebbe perciò trasformata in dati non scientifici e poco attendibili. La traduzione, il soggetto multilingue di questo saggio, rimane un paradosso di dualità bizzarra, poiché è considerata un «processo di passaggio – il trasferimento di materiale testuale tra diversi luoghi, diverse persone, e quindi diverse lingue» (Montgomery 2000: 10). La traduzione, considerata ora una disciplina triadica, tende a dare alla comunità degli interpreti di Peirce di tutti i paesi in forma orale o scritta numerose copie e varianti in forme tradotte e ritradotte, ma il fenomeno traduttivo offre ancora, di fatto, possibilità senza una reale sicurezza (definito in Gorlée 1994: 40 e seguenti  e successivamente discusso in Gorlée 2004). I contenuti di tutti i frammenti e l’intero testo interconnesso adattano il miscuglio di tutte e tre le categorie così da formare un significato intimo e allo stesso tempo pubblico del tutto che viene proposto. In chiave peirciana, la traduzione deve comprendere Firstness, Secondness, Thirdness corrispondenti a riferimento, significato e interpretazione, e varianti delle icone, degli indici e dei simboli di Peirce. La consapevolezza della frammentarietà collegata a ciò – facendo riferimento all’«elementarità» di Mihail Bahtin (con il suo ideologico nom de guerre, Vološinov 1973: 110) – opera allo stesso tempo su tutte queste tracce, prima in privato e di conseguenza anche in pubblico.


The constant transitions are not exhausted in a single fragment but appear in consistency with distinctive features. As we shall see in this article, this process of multitracking focuses on details, on surfaces, on parts, and afterwards on discontinuous experiences and fleeting reactions.

In Peirce’s terminology, fragments-in-print are quasi-propositions, meaning that they are quasi-improvisatory Firsts or Seconds, arriving as a mediating set of rules (Third) in the unfragmented whole. The referential signs of vocabulary, phraseology, and textology (Scheffler 1967: 37f. and Gorlée 2004: 197f., discussed further in this article) are interpreted and translated into relevant and pertinent whole units as existing as entities in different languages (see Lohmann 1988 for extensive bibliography). In the inquiry we shall discover that mere vocabulary encompasses the image of words alone and gives no real communication. Real meaning would reach from groups-of-words building on sentences to construct an actual and meaningful message. Textology produces statements about (pseudo)standardized meaning, and no more. This (sub)division is crucial for the translation of verbal messages of all kinds and exists in various kinds in all languages. Semio-translation (announced in Gorlée 1994: 226-232, further developed in Gorlée 2003, 2004a) is a Peirce-oriented use of the interpretation applied particularly to translation. In his last book, Surrogates (2002), Paul Weiss stated that his general term — ‘surrogates’ — could stand for the interpreted and translated fragments:


Le transizioni costanti non si esauriscono in un singolo frammento ma appaiono in armonia con i tratti distintivi. Come possiamo vedere in questo articolo, il processo di multitracking si focalizza su dettagli, superfici, parti e successivamente su esperienze discontinue e reazioni momentanee. Secondo la terminologia di Peirce, i frammenti in-stampa sono quasi-proposizioni, ossia sono First o Second quasi-improvvisati, che arrivano come serie di norme di mediazione (Third) nel tutto non frammentato. I segni referenziali del vocabolario, la fraseologia e la testologia (Scheffler 1967: 37 e seguenti, e Gorlée 2004: 197 e seguenti, successivamente discussi in questo articolo) sono interpretati e tradotti in unità rilevanti e pertinenti in quanto esistenti in qualità di entità in diverse lingue (per una bibliografia più ampia vedi Lohmann 1988 ). Nella ricerca scopriremo che il mero vocabolario racchiude l’immagine delle sole parole e non produce un’effettiva comunicazione. Il significato effettivo si ottiene creando frasi con gruppi di parole per attualizzare un messaggio significativo. La testologia produce affermazioni riguardo al significato (pseudo)standardizzato, e nient’altro. Questa (sub)divisione è cruciale per la traduzione di messaggi verbali di ogni genere ed esiste sotto varie forme in tutte le lingue. La semio-traduzione (definita in Gorlée 1994: 226-232, successivamente sviluppata in Gorlée 2003, 2004a) è un uso basato sul pensiero di Peirce dell’interpretazione applicata in particolare alla traduzione. Nel suo ultimo libro, Surrogates (2002), Paul Weiss afferma che il suo termine generale – «surrogati» – potrebbe valere per i
Readers of difficult texts try to find surrogates in other expressions that preserve the meaning of the original. Translators go further, trying to retain all the virtues of the original in the languages they know so well, but which have nuances that the original does not have’ (Weiss 2002: 32).

 

The logical implications of semiosis are a confrontational paradigm for sign translation from one language to another, and sign translation exemplifies in its turn the dynamic activity of semiosis, or sign action. The sign includes the object (its idea potentiality) and must be interpretable or translatable to be intelligible or meaningful: it is represented by a developed sign, its growing interpretant. The original and translated semiotic sign itself is ‘something which stands for something in some respect or capacity’ (CP: 2.228, c.1897). Peirce added that it ‘addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign’ (CP: 2.228, c.1897), thereby providing a ‘mechanical’ activity to the ‘reasoning machines’ of translation and interpreting as qualities of semiosis. In the three-fold interpretive relation to its object (which is ficticious or real), translational semiosis would include signifying, dynamic and identifying the fragmentary signs, integrating all characters, media, and codes as available, including linguistic and extralinguistic ones.


frammenti interpretati e tradotti:

I lettori di testi difficili cercano di trovare surrogati in altre espressioni che preservino il significato dell’originale. I traduttori vanno più lontano, cercando di mantenere tutte le virtù dell’originale nelle lingue che conoscono bene, ma che hanno sfumature che l’originale non ha (Weiss 2002: 32).

Le implicazioni logiche della semiosi sono un paradigma di confronto per la traduzione segnica da una lingua a un’altra, e la traduzione segnica esemplifica, a sua volta, l’attività dinamica di semiosi, o azione segnica. Il segno comprende l’oggetto (la sua potenzialità ideale) e per essere intelligibile o significativo deve essere interpretabile o traducibile: è rappresentato da un segno sviluppato, il suo interpretante sviluppato. Il segno semiotico originale e tradotto è «qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità» (CP: 2.228, circa 1897 [mia traduzione]). Peirce aggiunse che «si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato» (CP: 2.228, circa 1897 [mia traduzione]), procurando quindi un’attività “meccanica” alle “macchine che ragionano” della traduzione e dell’interpretazione in quanto qualità della semiosi. Nella relazione interpretativa triadica con l’oggetto (che è fittizio o reale), la semiosi traduttiva implica significare, dinamizzare e identificare i segni frammentari, integrare tutti i caratteri, i media e i codici disponibili,

The three translational dimensions are based on the categories and generate a complex terminology. Its categorial branches (qualisign-sinsign-legisign, immediate-dynamical-general object, immediate-dynamical-final interpretants) and its logical dimensions (abduction-induction-deduction, icon-index-symbol, rheme-proposition-argument, instinct-experience-form and many other terms) yield an evolutionary triadic model, giving in the process of semiosis an endless and infinite series of interpretants – that is, a potential succession of interactive signs produced by signs and translating signs that ‘gives rise to more bewilderment and misunderstanding’ (Gallie 1952: 126). In practical (and translational) life, the infinite growth of interpretants is inevitably cut short, as ‘unecomic’ waste, and reduced to one final statement according to a single ‘direction, point, and purpose’ (Gallie 1952: 126-127). This single focus seems puzzled with worries and uncertainties.

Using in the available semio-translations the isolated and collective meaning(s) of isolated fragments, groups of words, and entire documents, now replaced into the specific sense(s) of new target languages, the translations create a variety of suggestive or interrogative, indicative and imperative modalities of pragmatic mediation. Translational mediation is, in principle, a regulative principle, but the final truth remains a questionable affair for the translators, the original authors, and the whole future readership.


compresi quelli linguistici e quelli extralinguistici.

Le tre dimensioni traduttive si basano sulle categorie e generano una terminologia complessa. Le sue diramazioni categoriali (qualisegno-sinsegno-legisegno, oggetto immediato-dinamico-generale, interpretanti immediato-dinamico-finale) e le sue dimensioni logiche (abduzione-induzione-deduzione, icona-indice-simbolo, rema-asserzione-argomento, istinto-esperienza-forma e molti altri termini) producono un modello triadico evolutivo, producendo serie infinite di interpretanti nel processo di semiosi: ossia una successione potenziale di segni interattivi prodotti da segni e da segni traducenti che «dà adito a ulteriore confusione e fraintendimento» (Gallie 1952: 126). Nella vita pratica (e traduttiva), lo sviluppo infinito degli interpretanti è inevitabilmente troncato in quanto spreco “antieconomico”, e ridotto a una dichiarazione finale in armonia con “direzione, punto e scopo” singoli (Gallie 1952: 126-127). Sembra che questa singolarità sia accompagnata da preoccupazioni e incertezze.

Usando nelle semio-traduzioni disponibili i significati collettivi e isolati dei frammenti isolati, di gruppi di parole, e di documenti interi, ora sostituiti dal senso specifico attualizzato nelle nuove lingue, le traduzioni creano una varietà di modalità di mediazione pragmatica suggestive o interrogative, indicative o imperative. La mediazione traduttiva è, in teoria, un principio regolativo, ma la verità finale rimane una questione discutibile per i traduttori, gli autori dell’originale, e tutti i futuri lettori.
The personalized, doubting and questioning acts of mediation to translation mean that the translators use the three-fold ways of the private translational processuality to achieve their public translational event. The translators interlingually and intersemiotically exchange source words, paraphrases, and definitions, and (re)question their status in terms of truth, consistency, or evidential warrant against the target language and culture. Peirce stated that the act of translation would be:

… a method for ascertaining the real meaning of any concept, doctrine, proposition, word or other sign. The object of a sign is one thing; its meaning is another. Its object is the thing or occasion, however indefinite, to which it is to be applied. Its meaning is the idea which it attaches to that object, whether by way of mere supposition, or as a commend, or as an assertion. (CP: 5.6, c.1905). This semiotic method is the object of this article. The method is applied in the practical examples, where various translations of (ir)regular fragments written in Peirce’s later years, around the year 1900, are discussed to construct the pragmatically and metaphorically expressed wholeness of Peirce’s work on the categories. Isolated fragments such as the ones about ‘lithium’ and (to a certain degree) Peirce’s term ‘musement,’ replicated fragments such as the ‘decapitated frog’ paragraphs, and the versions of the ‘pragmatic maxims,’ all of them remain fallibly and fallaciously translated into fields of scripture composed in various languages.

Gli atti di mediazione alla traduzione, che possono essere personalizzati, porre dubbi o domande, significano che i traduttori usano la triadicità della processualità traduttiva privata per ottenere il loro risultato traduttivo pubblico. I traduttori a livello interlinguistico e intersemiotico scambiano parole, parafrasi, e definizioni, e (ri)mettono in discussione il loro status in termini di verità, coerenza, o evidenza confrontandosi con la lingua e la cultura ricevente. Peirce affermò che l’atto traduttivo sarebbe:

[…] un metodo per accertare il vero significato di qualsiasi concetto, dottrina, proposizione, parola o altro segno. L’oggetto di un segno è una cosa; il suo significato è un’altra. L’oggetto è la cosa o occasione, per quanto indefinita, alla quale esso viene applicato. Il significato è l’idea che attribuisce a quell’oggetto, o per mera supposizione, o come commento o come affermazione (CP: 5.6, circa 1905 [mia traduzione]).

L’oggetto del presente articolo è questo metodo semiotico. Il metodo semiotico viene applicato in esempi pratici, in cui vengono discusse svariate traduzioni di frammenti (ir)regolari scritti da Peirce negli ultimi anni, intorno al 1900, per costruire l’interezza pragmatica e metaforica dell’opera di Peirce sulle categorie. I singoli frammenti quali «lithium» e (in una certa misura) il termine di Peirce «musement», frammenti ripetuti come i paragrafi sulla «decapitated frog», e le versioni delle «massime pragmatiche», tutti questi rimangono tradotti fallibilmente e fallacemente in campi di scrittura composti in diverse lingue.


Fragments and whole

In verbal messages, the whole is fragmentized, but without the possibility of some fragments there is no whole (Koch 1989). As Roman Jakobson argued, a whole conveys a ‘multistory hierarchy of wholes and parts’ without an ‘autonomous differential tool’ (1963: 158). In his article ‘Parts and Wholes in Language,’ Jakobson confronted the vague status of frontiers somewhere between unity and disunity, adding that: ‘From a realistic viewpoint, language cannot be interpreted as a whole, isolated and hermetically sealed, but it must be simultaneously viewed both as a whole and as a part’ (Jakobson 1963: 159). According to him, the ‘artificial separation’ between the structure of a fragment and its whole is a misconstruction, since both parties have the same ‘morphological constituents’ as well as ‘informationally pointless fragments’ (Jakobson: 1963: 160). Both do basically the same things, but they do not cohere and no semiosis takes place. The level of the whole varies greatly, yet the verbalized events possess the same positive and negative particularities: unity and disunity, closure and disclosure, and finite and infinite contrasts possess a factual similarity. Signum and signans are crystallized together in the original text-sign. A fragment is a brief reaction, which can be prolonged in reference to a change in context and code (or subcode) (Jakobson 1963: 161). In Jakobson’s view, design and token, larger and smaller, and invariant and variant are overlapping multiplications written in verbal code.

I frammenti e il tutto

Nei messaggi verbali, il tutto viene frammentato, ma senza la possibilità di certi frammenti non c’è il tutto (Koch 1989). Come dimostrato da Roman Jakobson, un’unità veicola una «gerarchia a vari livelli di unità e parti» senza uno «strumento differenziale autonomo» (1963: 158). Nell’articolo «Parts and Wholes in Language», Jakobson ha confrontato lo status vago dei confini a mezza strada tra unità e disunità, aggiungendo che: «Da un punto di vista realistico, il linguaggio non può essere interpretato come un tutto, isolato ed ermeticamente sigillato, ma vanno visti allo stesso tempo tutto e parte» (Jakobson 1963: 159). Secondo Jakobson, la «separazione artificiale» tra la struttura di un frammento e il tutto è un equivoco, poiché le due parti hanno gli stessi «costituenti morfologici» così come «frammenti inutili a livello informativo» (Jakobson: 1963: 160). Fondamentalmente fanno le stesse cose, ma non sono coerenti e non ha luogo nessuna semiosi. Il livello del tutto varia molto, tuttavia gli eventi verbalizzati hanno le stesse particolarità negative e positive: unità e disunità, chiusura e apertura, e contrasti finiti e infiniti hanno una somiglianza fattuale. Signum e signans sono cristallizzati insieme nel testo-segno originale. Un frammento è una breve reazione, che può essere prolungata con riferimento a un cambiamento nel contesto e nel codice (o sottocodice) (Jakobson 1963: 161). Secondo il punto di vista di Jakobson, progetto e occorrenza, grande e piccolo, e invariante e variante sono moltiplicazioni sovrapposte scritte in codice verbale.

Jakobson stated that a ‘rich scale of tensions between wholes and parts is involved in the constitution of language, where pars pro toto and, on the other hand, totum pro parte, genus pro specie, and species pro individuo are the fundamental devices’ (Jakobson 1963: 162, his emphasis). These meaningful figures take place in the acquisition of language: Jakobson’s knowledge of the laws of phonology, grammar, child language, and aphasic disorder (Jakobson 1971, 1980 and other publications), where ‘structuration, restructuration, and destructuration of language’ (Jakobson and Waugh 1979: 237) are the key points (see Pharies 1985: 77-81). Yet the figure-ground distinctions of encoding and decoding seem to transpire in different ways in the ‘recoding, code switching, briefly the various faces of translation’ (Jakobson 1961: 250), happening from one verbal code into the next one. The process of translation has thereby moved away from a single-language learning process to become a code-switching meta-activity with a special (and specialized) developing strategy of general and specific mindsets. This fallible (and never infallible) being-and-becoming process adheres to rules as well as creations of translators (Gorlée 2004: 198 ff.). A verbal sign written in any language, an original and translated general sign, ‘denotes any form of expression assigned to translate an ‘idea’ or a ‘thing’ … as a stock of ‘labels’ to be attached to preexisting objects, as a pure and simple nomenclature’ (Greimas and Courtès 1982: 297).


Jakobson affermò che una «ricca scala di tensioni tra tutto e parti è insita nella costituzione della lingua, i meccanismi fondamentali sono pars pro toto e, dall’altro lato, totum pro parte, genus pro specie, e species pro individuo » (Jakobson 1963: 162, suo corsivo). Tali figure significative si verificano durante l’acquisizione della lingua: la conoscenza da parte di Jakobson delle leggi di fonologia, grammatica, linguaggio infantile, e disturbo afasico (Jakobson 1971, 1980 e altre pubblicazioni), in cui i punti chiave sono «strutturazione, ristrutturazione, e destrutturazione della lingua» (Jakobson e Waugh 1979: 237) (si veda Pharies 1985: 77-81). Tuttavia le distinzioni figura-sfondo tra codifica e decodifica sembrano trasparire in modo diverso nella «ricodifica, nel code switching, insomma nei vari aspetti della traduzione» (Jakobson 1961: 250), che avvengono da un codice verbale all’altro. Il processo traduttivo è perciò passato dal processo di apprendimento di una sola lingua a una meta-attività di code switching con una strategia speciale (e specializzata) che sviluppa le attitudini mentali generali e specifiche. Tale processo in essere e in divenire è fallibile (e mai infallibile), e aderisce alle regole così come le creazioni dei traduttori (Gorlée 2004: 198 e seguenti).

Un segno verbale scritto in qualsiasi lingua, un segno generale originale e tradotto, «denota qualsiasi forma di espressione destinata a tradurre un’“idea” o una “cosa” […] come uno stock di “etichette” da assegnare a oggetti preesistenti, in qualità di nomenclatura pura e semplice» (Greimas e Courtès 1982: 297).

Saussure’s dyadic rules, with their opposition between perfect vs. imperfect signs, was basically followed by Jakobson (Jakobson and Waugh 1979: 233-237) and further developed by Henri Quéré’s (1988) discussion of the inside and outside of the fragment. Quéré points, by metaphors, to patterns of categorical meaning of fragmentariness in the ‘puzzle,’ the ‘iceberg,’ and the ‘syncope’ (1988: 54). The oppositional duality, the emblem of semiology (also called: structuralism) has moved away to enter the different, triadic realm of Peirce’s semiosis, where the semiotic sign, its object and the interpretant are dynamically interfaced and resurfaced in the tripartite concept of fragmentariness with its variety of reference(s), meaning(s), and interpretation(s). Jakobson’s dual oppositions of signum and signans are united with perfect and imperfect signs in the company of intermediate values between perfection and imperfection. Peirce’s semiosis adds to the structuralist double values of signum and signans in the company of Jakobson’s ‘signatum, that is, with the intelligible, translatable, semantic part of the total signum’ (1963: 157, Jakobson’s emphasis). In the triadic process of semiosis, we deal with fragmentary and whole ‘signs produced by signs and producing signs, with no absolute starting point and no absolute stopping point’ (Ransdell 1980: 165). Semiosis seems to start from a ‘stopping-place [which] is also a new starting-place for thought’ (CP: 5.397 = W: 3: 263, 1878).


Le regole diadiche di Saussure, con l’opposizione segno perfetto versus segno imperfetto, erano fondamentalmente state seguite dalla discussione di Jakobson (Jakobson e Waugh 1979: 233-237), e ulteriormente sviluppate dal discorso di Henri Quéré sull’interno e sull’esterno del frammento. Quéré si riferisce metaforicamente a modelli del significato categoriale della frammentarietà in «puzzle», «iceberg», e «syncope» (1988: 54). La dualità in opposizione, emblema della semiologia (anche chiamato: strutturalismo) si è spostata per entrare nel regno triadico della semiosi di Peirce, in cui il segno semiotico, il suo oggetto e l’interpretante sono interfacciati dinamicamente nel concetto tripartito di frammentarietà con le sue varietà di riferimento(i), significato(i), e interpretazione(i). Le opposizioni diadiche di Jakobson tra signum e signans sono unite da segni perfetti e imperfetti insieme a significati intermedi tra perfezione e imperfezione. La semiosi di Peirce aggiunge ai valori doppi signum e signans dello strutturalismo il signatum di Jakobson, “che è la parte semantica intelligibile e traducibile del signum nella sua interezza” (1963: 157, corsivo di Jakobson). Nel processo triadico della semiosi, trattiamo la frammentarietà e il tutto, «segni prodotti da segni e che producono segni, con nessun punto di partenza in assoluto e nessun punto di arrivo» (Ransdell 1980: 165). Sembra che la semiosi inizi da un «punto di arrivo, [che] è anche un nuovo punto di partenza per il pensiero» (CP: 5.397 = W: 3: 263, 1878).


Peirce denoted the translational processuality, steadily generating new thought, in the figurative phrases of a proverb: ‘The life we lead is a life of signs. Sign under Sign endlessly’ (MS 1334: 46, 1905).

This Heraclitean rapprochement broadens the ‘ordinary’ concept of translation, in order to encompass Jakobson’s intralingual, interlingual and intersemiotic types of translation (1959). Intralingual translation or ‘rewording is an interpretation of verbal signs by means of signs of the same language,’ and interlingual translation or ‘translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language,’ whereas intersemiotic translation or ‘transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal systems’ (Jakobson 1959: 233, his emphasis). Intralingual translation is monadic because of its single-language equivalence; interlingual translation is dyadic, since it involves two-language-orientation. Interlingual translation is some kind of warfare, struggle or at least a rivalry between Saussurean language and parole, signifying a (re)encounter between textual and verbal reality. Intersemiotic translation is sequentially triadic (or more complex systems), since it involves the union (or unification) of intermedial translations into an embedded translation. The three kinds of translation were still rather narrowly defined by Jakobson, who appears unconcerned with the reverse operation, the translation of nonlinguistic into linguistic signs (Gorlée 1994: 147-168, see Gorlée 2005a: 33ff.).

Peirce descrisse la processualità traduttiva, che genera costantemente un nuovo pensiero, con la figuratività di un proverbio: «La vita che conduciamo è una vita fatta di segni. Segno sotto Segno all’infinito» (MS 1334: 46, 1905 [mia traduzione]). Questo rapprochement eracliteo amplia il concetto “ordinario” di traduzione, così da racchiudere i tipi di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica di Jakobson (1959). La traduzione intralinguistica o «riformulazione è un’interpretazione di segni verbali attraverso i segni di una stessa lingua», e la traduzione interlinguistica o «traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali attraverso qualche altra lingua», mentre la traduzione intersemiotica o «trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali attraverso segni di sistemi non verbali» (Jakobson 1959: 233 corsivo suo). La traduzione intralinguistica è monadica per l’equivalenza con la sua stessa lingua; la traduzione interlinguistica è diadica dal momento che riguarda l’orientamento tra due lingue. La traduzione interlinguistica è una sorta di guerra, lotta o almeno una sorta di rivalità tra langue e parole di Saussure, vale a dire un (re)incontro tra realtà testuale e verbale. La traduzione intersemiotica è sequenzialmente triadica, dal momento che implica l’unione (o unificazione) di traduzioni intermedie in una traduzione subordinata. I tre tipi di traduzione sono ancora definiti da Jakobson in modo limitato, poiché sembra indifferente all’operazione inversa, la traduzione del nonverbale in segni verbali (Gorlée 1994: 147-168, si veda Gorlée 2005a: 33 e seguenti).

Translators busy themselves with essential Thirdness, in the company of factual Secondness and fictive Firstness. These categories are enshrined in terms suitable for use by interlingual and intercultural translators and interpreters according to their knowledge expertise, skill, and know-how – being equivalent terms for Thirdness, Secondness, and Firstness. Jakobson’s types of translation can be focused pairwise to the triad of Peirce’s categoriology (Gorlée [forthcoming]), though they are not identical with the categories and may vary with the communicational instantiations and the varieties of textual network.

Jakobson treated poetic devices like metaphor, alliteration, and archaism, associated with literary language (Werlich 1976). At the same time, he referred to Saussurian and at times Peircean terms and terminology (Liszka 1981 and Short 1998). Together, these different ways clear the path from the collection of fragments to the genuine whole. Jakobson pointed to the imaginative images involved in both divisions: ‘It is necessary to see the forest and not just the trees, and in the given case to see the whole network of distinctive features and their simultaneous and sequential interconnections and not just an apparent mosaic of unrelated acquisitions’ (Jakobson and Waugh 1979: 166).


I traduttori hanno a che fare con l’essenziale Thirdness, insieme alla fattuale Secondness e alla fittizia Firstness. Queste categorie sono conservate in termini idonei all’uso di traduttori e interpreti interlinguistici e interculturali in base alle loro conoscenze, competenze e al loro knowhow, equivalenti a Thirdness, Secondness, e Firstness. I tipi di traduzione di Jakobson possono essere associati alla triade di Peirce (Gorlée [in corso di pubblicazione]), sebbene non siano identici alle categorie e possano variare con le varietà della rete testuale e le specificità comunicative.

Jakobson trattò gli artifici poetici, quali metafore, allitterazioni e arcaismi, associati con il linguaggio letterario (Werlich 1976). Allo stesso tempo, fece ricorso ai termini e alla terminologia saussuriani e a volte peirciani (Liszka 1981 e Short 1998). Insieme, questi approcci diversi spianano la strada dalla raccolta dei frammenti al tutto vero e proprio. Jakobson parlò delle immagini fantasiose implicite in entrambi gli approcci: «è necessario vedere la foresta e non solo gli alberi, e nel caso specifico vedere l’intera rete di tratti distintivi e le loro interconnessioni simultanee e sequenziali e non solo un apparente mosaico di acquisizioni non collegate» (Jakobson e Waugh 1979: 166).


Abstracted from Jakobson’s metaphorical application of linguistics to literary discourse, Peirce stated in his general and philosophical essay ‘Some Amazing Mazes, Fourth Category’ (MS 200, publicized in fragments CP: 6.318-6.348, c.1909, CP: 4.647-4.681, c.1909) that, from a logical point of view, both forest and trees seem to belong to

 

… one universe … as for example between the cells of a living body and the whole body, and often times between the different singulars of a plural and the plural itself. … Speaking collectively, the one logical universe, to which all the correlates of an existential relationship belong, is ultimately composed of units, or subjects, none of which is in any sense separable into parts that are members of the same in the universe’ (CP: 6.318, c.1909, with Peirce’s emphasis).

Therefore, the fragments and the whole seem to build together the metaphorical and literal ecosystem of the labyrinthine universe with its factual similarity of and difference between the three interactive poles sign, object, and interpretant. These energies are destined to lead through a mazed path along multiform tracks to clear the way for future study (or just lecture) of signs and their multiple functions (see CP: 7.189ff., 1901, where Peirce avoids using semiotic terminology, so as not to be misunderstood by his audience).

Peirce, lungi dall’applicazione metaforica jakobsoniana della linguistica al discorso letterario, enunciò nel suo saggio filosofico e generale «Some Amazing Mazes, Fourth Category» (MS 200, pubblicato in frammenti CP: 6.318-6.348, circa 1909, CP: 4.647-4.681, circa 1909) che, da un punto di vista logico, sia la foresta, sia gli alberi sembrano appartenere a:

[…] un universo […] come per esempio tra le cellule di un corpo vivente e tutto il corpo, e spesso tra i diversi singolari di un plurale e il plurale stesso […] parlando a livello collettivo, l’unico universo logico, a cui appartengono tutti i termini di correlazione di una relazione esistenziale, è alla fine composta da unità, o soggetti, nessuno dei quali è in alcun senso separabile in parti che sono membri dello stesso universo (CP: 6.318, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]).

 

Dunque, sembra che i frammenti e il tutto formino l’ecosistema metaforico e letterale dell’universo labirintico con la sua somiglianza fattuale tra i i tre poli interattivi: segno, oggetto e interpretante, e la loro differenza. Queste energie sono destinate a condurre attraverso un percorso labirintico lungo sentieri multiformi per spianare la strada a futuri studi (o solo lezioni) dei segni e delle loro funzioni multiple (si veda CP: 7.189 e seguenti, 1901, in cui Peirce evita di usare la terminologia semiotica, in modo da non essere frainteso dal pubblico).

The intertwined triangles along the course figuratively (re)present together the enterprises of fragments and the larger whole through the relational conjunction of the distinctive values (or features) of the sign(s), its object(s) and its interpretant(s). The triangular dynamic organisation, integrating Jakobson’s dyadism, enters into the recursive processes of Peirce’s infinite semiosis. Semiosis (both ordinary semiosis and translational semiosis) is repeated at more or less regular intervals and in the process growing stronger in sign interpretation and sign translation. The fragments of Peirce’s writings are no random bits of symbol-fragments, since all words are symbolically related to their objects, but are retraceable signs taken from Peirce’s manuscripts in continuous time and space, rooted in the turning points of his scientific topology. The history of Peirce’s manuscripts characterize fragments as ‘imparting form to the welded whole’ (CP: 6.330 = MS 200: 36, c.1909). Fragments are ‘instantaneous impulses’ (CP: 6.330 = MS 200: 36, c.1909) and form integrated elements of the still unfirm yet unbreakable connection with the supposed whole. The fragments ‘balance the probabilities’ defined as providing access to ‘plausibility and verisimilitude’ (CP: 8.224-225, c.1910), whereas the aggregate of all fragments would tend to reach the ultimate object, the truth. Fragments in themselves would ‘in philosophy and practical wisdom’ invite within their fuzzy outlines a degree of ‘vagueness and confusion’ (CTN: 2: 161, 1898; see 1: 168-169, 1892),


I triangoli intrecciati lungo il percorso a livello figurativo rap(presentano) insieme lo spirito dei frammenti e il tutto attraverso la congiunzione relazionale dei valori (o tratti) distintivi del segno(i), del suo oggetto(i) e del suo interpretante(i). L’organizzazione dinamica triangolare, che integra il diadismo di Jakobson, entra nei processi ricorsivi dell’infinita semiosi peirciana. La semiosi (sia quella ordinaria sia quella traduttiva) viene ripetuta a intervalli più o meno regolari e così facendo si rafforza nell’interpretazione e nella traduzione del segno.

I frammenti degli scritti di Peirce non sono parti casuali di frammenti-simbolo, poiché tutte le parole sono simbolicamente correlate ai loro oggetti, ma sono segni riconducibili ai manoscritti di Peirce, in un tempo e in uno spazio continui, radicati nei punti focali della sua topologia scientifica. La storia dei manoscritti di Peirce descrive i frammenti come «conferenti forma al tutto saldato» (CP: 6.330 = MS 200: 36, circa 1909 ). I frammenti sono «impulsi istantanei» (CP: 6.330 = MS 200: 36, circa 1909 ) e costituiscono elementi integrati della connessione ancora instabile e tuttavia indistruttibile con il presunto tutto. I frammenti «bilanciano le probabilità» che sono definite come ciò che dà accesso a «plausibilità e verosimiglianza» (CP: 8.224-225, circa 1910), laddove l’insieme di tutti i frammenti tenderebbe a raggiungere l’oggetto ultimo: la verità. I frammenti in sé indurrebbero nei loro profili indefiniti, «nella filosofia e nella saggezza pratica» un grado di «vaghezza e confusione» (CTN: 2: 161, 1898; si veda 1: 168-169, 1892),

yet their transformation to fragmentary continuity grows into the continuous wholeness. Peirce’s manuscripts and other miscellaneous documents are still emerging from known and unknown sources; fragments and the whole are broken and unbroken at the same time. Significant portions of the whole have now been edited for publication, since the editors and scholars tend to struggle with ambiguous fragments in order to compose the full writings. The whole of Peirce’s writings is today a true but still vague repository of ideas. Both fragment and whole opened up the possibility of (im)perfectibility, the ability to innovate and react to them in novel ways in new situations, Peirce’s habituality, as we clearly see in the old and new translations of Peirce’s writings.

Fragments and wholeness are broken signs; they are distinguished but not divided (CNT: 1: 168, 1892). If we retrace the archeology of the sign, we discover the original sense of the vocable. As can be ascertained from the Oxford English Dictionary (OED), ‘fragment’ was adopted from the Latin fragmentum by way of the sixteenth Century French fragment, meaning ‘a part broken off or otherwise detached from a whole,’ figuratively used to refer to a ‘detached, isolated, or incomplete part’ as an ‘extant portion of a writing or composition which as a whole is lost’ (OED 1989: 6: 137).


tuttavia la loro trasformazione in una continuità frammentaria cresce fino a diventare un tutto continuo. I manoscritti di Peirce e altri documenti miscellanei stanno ancora emergendo da fonti conosciute e sconosciute; i frammenti e il tutto sono continui e discontinui allo stesso tempo. Per pubblicare alcune parti significative del tutto, sono state prima modificate, poiché per comporre gli scritti completi i curatori e gli studiosi hanno la tendenza a eliminare le ambiguità dei frammenti. L’insieme degli scritti di Peirce è una vera e propria miniera di idee, tuttavia ancora vaghe. Sia i frammenti, sia il tutto aprono un varco alla possibilità della (im)perfettibilità, alla capacità di innovarli e reagirvi in nuovi modi e in nuove situazioni come possiamo vedere chiaramente nelle nuove e vecchie traduzioni delle opere di Peirce.

I frammenti e il tutto sono segni discontinui; sono distinti ma non divisi (CNT: 1: 168, 1892). Se ripercorressimo la storia del segno, scopriremmo il senso originario del vocabolo. Come si può constatare dall’Oxford English Dictionary (OED), «fragment» deriva dal latino fragmentum; nel Cinquecento fragment, significava «una parte staccata dal tutto»; a livello figurativo la si usava per riferirsi a «una parte distaccata, isolata, o incompleta» come una «porzione ancora esistente di un testo o di una composizione il cui tutto è andato perso» (OED 1989: 6: 137).


A whole is ‘free from damage or defect’ and ‘unbroken, untainted, intact’ (OED 1989: 20: 291). A fragment refers to a disconnected and negligible fraction, especially as something broken off the wholeness. The broken off fragment belongs to an equally incomplete or destroyed whole. There is no real perfection and imperfection, nor unity and disunity, since both fragments and wholeness are pregnant with absurdity and (self)contradiction: which is what? Peirce wrote to a friend, the psychologist William James, about the emergence of his work in pragmatics: ‘… I seem to myself to be the sole depository at present of the completely developed system, which all hangs together and cannot receive any proper presentation in fragments’ (CP: 8.255, 1902). The virtual study of fragments (and no more than that) is perfected in Peircean scholarship by the application of readily intelligible and controllable mechanisms of (re)versing the steps of their semiosic process, through the process of Peirce’s three-dimensional categories. By this token of the complex fabric woven of ‘Feeling, Reaction, Thought’ (CP: 8.256, 1902), Peirce ‘secretly’ continued the categorical inquiry of the archeological fragments in order to achieve his own architectual wholeness.


Il tutto è «privo di danni o difetti» e «intero, puro e intatto» (OED 1989: 20: 291). Un frammento si riferisce a una frazione staccata e irrilevante, in particolare a qualcosa di distaccato dal tutto. Il frammento appartiene a un tutto altrettanto incompleto o distrutto. Non c’è una vera perfezione o imperfezione, o un’unità o disunità, poiché sia i frammenti, sia il tutto sono pieni di assurdità e si contraddicono da soli: chi è cosa? Peirce scrisse a un amico, lo psicologo William James, a proposito dell’emergere della pragmatica nella sua opera: «Al momento mi sembra di essere l’unico depositario del sistema completamente sviluppato, che sta tutto insieme e non può avere alcuna presentazione propria nei frammenti» (CP: 8.255, 1902). Lo studio virtuale dei frammenti (e non più di questo) viene perfezionato dagli studiosi di Peirce con l’applicazione di meccanismi prontamente intelligibili e controllabili per rovesciare i passaggi del loro processo semiotico, attraverso il processo delle categorie tridimensionali di Peirce. Attraverso questo segno con una struttura complicata intessuta di «Impressione, Reazione, Pensiero» (CP: 8.256, 1902), Peirce “segretamente” continuò l’indagine categorica dei frammenti archeologici così da ottenere il proprio tutto architettonico.


The concept of the fluid ‘fragments,’ demonstrated by Peirce’s writings, himself the interdisciplinary laboratory scholar avant la lettre, lie in his endeavour to reach the widest pragmaticism within various branches. He focuses on them according to his categorial scheme: firstly, mathematics; secondly, philosophy, with the three branches of categories, normative science (aesthetics, ethics) and metaphysics; and thirdly, special sciences (fields of inquiry such as linguistics, history, archeology, optics, crystallography, chemistry, biology, botany, and astronomy) as well as other, non-scientific pursuits or folk wisdom, in which we possess maxims such as: the whole is greater that the parts and the whole is simpler than its parts. The study of the fragment follows Peirce’s order: originally it is a mathematical concept, where ‘the contemplation of a fragment of a system to the envisagement of the complete system’ (CP: 4.5, 1898) and ‘one of the number of fragmentary manuscripts [is] designed to follow the present articles’ (CP: 4.553, n.2, c.1906) belonging to the whole. As opposed to Peirce’s frequent use of ‘part’ in the literal and non-technical sense (see list in CTN: 4: 129), fragment is a mathematical ‘remaining’ fraction (CP: 8.86, c.1891) of an unknown whole. It is used literally and figuratively in Peirce’s theory of pragmaticism, and applied to ‘all areas of man’s thought except in the formulation of conjecture and in the processes of logical analysis’ (Eisele 1979: 237ff.).


Il concetto di «frammenti» fluidi, dimostrato dagli scritti di Peirce – essendo Peirce stesso uno studioso da laboratorio interdisciplinare ante litteram, sta nel suo sforzo di conseguire il pragmatismo più ampio possibile nelle varie branche del sapere. Si focalizza su queste secondo il suo schema categoriale: primo, matematica; secondo, filosofia, con le tre branche di categorie, scienze normative (estetica, etica) e metafisica; e terzo, le scienze speciali (settori di ricerca come la linguistica, la storia, l’archeologia, l’ottica, la cristallografia, la chimica, la biologia, la botanica e l’astronomia) così come altre suddivisioni ascentifiche e di saggezza popolare in cui abbiamo massime quali: il tutto è più grande delle parti e il tutto è più semplice delle parti. Lo studio del frammento segue l’ordine di Peirce: originariamente è un concetto matematico, in cui «la contemplazione del frammento di un sistema fino alla previsione del sistema completo» (CP: 4.5, 1898) e «uno dei manoscritti frammentari [è] pensato per seguire i presenti articoli» (CP: 4.553, n.2, c.1906) che appartengono al tutto. Diversamente dall’uso frequente di Peirce di «parte» in senso letterale e non tecnico (si veda l’elenco in CTN: 4: 129), il frammento è un frazione matematica «rimanente» di un tutto sconosciuto. Viene usato letteralmente e figurativamente nella teoria del pragmatismo di Peirce, e applicato a «tutte le aree del pensiero umano, tranne che alla formulazione di congetture e nei processi di analisi logica» (Eisele 1979: 237 e seguenti).


Fragmentariness is applied by Peirce, a mathematician turned generalized research scientist, in order to face the hidden and invented analogue of God’s mind: ‘a fragment of His Thought, as it were the arbitrary figment’ (CP: 6.502-6.503, c.1906). Abstracted from fragments within theology, we found fragments in science, biology, psychology, logic, and cosmology (CP: 8.86, c.1891; CP: 6.283, c.1893; CP: 3.527, 1897; CP: 7.503, c.1898; CP: 8.117, n.12, 1902). Fragments are characterized as mere ‘sundries, as a forgotten trifle’ (CP: 6.6, 1892). Peirce refers to the fluid intuition of fragments, their general but vague quality of Firstness, and their ‘superficial and fragmentary’ sign (CP: 1.119, c.1896), which tends to give ‘possible information, that might take away the astonishing and fragmentary character of the experience by rounding it out’ (CP: 8.270, 1902). Peirce, the logician, thought it necessary to add that ‘we want later to get a real explanation’ (CP: 8.270). Firstness has a weak sign-quality of a ‘rudimentary fragment of experience as a simple feeling’ (CP: 1.322, c.1903), definitely away from the struggle of real life governed by logical rules. An example is given by the attempt

.. to give an account of a dream, [where] every accurate person must have felt that it was a hopeless undertaking to attempt to disentangle waking interpretations and fillings out from the fragmentary images of the dream itself … Besides, even when we wake up, we do not find that the dream differed from reality, except by certain marks, darkness and fragmentariness’ (CP: 5.216-5.217, 1868, Peirce’s emphasis).

La frammentarietà viene applicata da Peirce, matematico diventato scienziato ricercatore su scala generale, così da far fronte all’analogo inventato e nascosto della mente di Dio: «un frammento del Suo Pensiero, come se fosse finzione arbitraria» (CP: 6.502-6.503, c.1906). Senza considerare i frammenti presenti in teologia, ne troviamo in scienza, biologia, psicologia, logica e cosmologia (CP: 8.86, circa 1891; CP: 6.283, circa 1893; CP: 3.527, 1897; CP: 7.503, circa 1898; CP: 8.117, nota 12, 1902). I frammenti sono definiti come semplici «generi diversi, come un’inezia dimenticata» (CP: 6.6, 1892). Peirce si riferisce alla fluida intuizione dei frammenti, alla loro qualità generale ma vaga di Firstness, e al loro segno «superficiale e frammentario» (CP: 1.119, circa 1896), che è diretto a dare un’«informazione possibile, che può togliere il carattere frammentario e sorprendente dell’esperienza arricchendola» (CP: 8.270, 1902). Peirce, il logico, ritenne necessario aggiungere che «vogliamo dare più tardi una vera spiegazione» (CP: 8.270). La Firstness ha un inconsistente segno-qualità di un «rudimentale frammento dell’esperienza come semplice impressione» (CP: 1.322, c.1903), staccata in maniera definitiva dalla lotta per la vita vera retta da regole logiche. Un esempio è dato dal tentativo:

[…] cercando di raccontare un sogno, ogni persona attenta deve avere spesso avvertito il tentativo di districare le interpretazioni e le integrazioni fatte da svegli dalle immagini frammentarie del sogno stesso. […] D’altronde anche quando ci svegliamo, troviamo che il sogno differiva dalla realtà solo per certe marche: oscurità e frammentarietà (CP: 5.216-5.217, 1868, corsivo di Peirce).

Fragmentariness, expressive and meaningful iconicity, is the first sign of Peirce’s ‘musement.’ ‘Musement’ requires ‘an ungrudging study of the conditions of a healthy exploration’ (PW: 65, 1908) to gain access to sign-directed inquiry through its beginning Firstness. Unbroken Firstness is strengthened by broken Secondness; from single and undivided feeling the sign takes on ‘Reaction as the be-all’ (CP: 8.256, 1902). The textual sign in our daily reality triggers the balance between action and reaction, and its meaning becomes rooted in our time and space fragments ‘composed of units, or subjects, none of which is in any sense separable into parts’ (CP: 6.318, c.1909), although ‘this continuous Time and Space merely serve to weld together while imparting form to the welded whole’ (MS 200: 36, c.1909). Secondness is the temporal-spatial topology of indexicality, stated by Peirce in fragments: ‘If the sign be an Index, we may think of it as a fragment torn away from the Object, the two in their Existence being one whole or a part of that whole’ (CP: 2.230, 1910). In the index, fragments and whole are separate but still integrated together. The whole is ‘broken up and thrown away’ (CP: 6.325, c.1909) in indexical fragments, but ‘it is an easy art to learn to break up such problems up into manageable fragments’ (CP: 4.369, 1911). Indexical fragments are a ‘serviceable’ (CP: 6.325, c.1909) and ‘manageable’ (CP: 4.369, 1911) strategy to build up a categorical theory (or pseudo-theory) in order to describe different versions of the indexicality (see CP: 2.358, 1901). This echoes the opportunity to reach logical Thirdness.

La frammentarietà – l’iconicità espressiva e significativa – è il primo segno del musement di Peirce. Il musement richiede «un generoso studio delle condizioni di una sana esplorazione» (PW: 65, 1908) per ottenere l’accesso all’indagine imperniata sul segno attraverso la Firstness iniziale. La Firstness continua è rafforzata dalla Secondness discontinua; da feeling singolo e non diviso il segno assume la «reazione da tutto» (CP: 8.256, 1902). Il segno testuale nella realtà quotidiana provoca l’equilibrio tra azione e reazione, e il suo significato si radica nei nostri frammenti spaziotemporali «composti di unità, o soggetti, nessuno dei quali è in nessun senso divisibile in parti» (CP: 6.318, circa 1909), sebbene «questo Tempo e Spazio continuo serva meramente a unire insieme e non a dare una forma al tutto unito» (MS 200: 36, circa 1909). La Secondness è la topologia dell’indicalità spazio-temporale, enunciata da Peirce nei frammenti: «Se il segno è un indice, possiamo pensarlo come un frammento staccato dall’Oggetto, Oggetto e Indice essendo rispettivamente un intero o una parte di tale intero» (CP: 2.230, 1910). Nell’indice, i frammenti e il tutto sono separati ma tuttavia integrati tra loro. Il tutto è «spezzettato e buttato via» (CP: 6.325, circa 1909) nei frammenti indicali, ma «è un’arte facile imparare a spezzare tali problemi in frammenti gestibili» (CP: 4.369, 1911). I frammenti indicali sono una strategia «utile» e «gestibile» per costruire una teoria (o pseudoteoria) categoriale così da descrivere versioni differenti dell’indicalità (si veda CP: 2.358, 1901). Questo fa da eco alla possibilità di arrivare alla Thirdness logica. Semiotically, this virtual division can be illustrated by the indexical example of the single footprint in the sand that was to the Romantic fictional hero Robinson Crusoe a strange intermingling of signs from all three categories. In Peirce’s words, in his The Monist article (1906), the impression of the foot was ‘an Index to him that some creature was on his island, and at the same time, as a Symbol, called up the idea of a man. Each Icon partakes of some more or less overt character of its Object’ (CP: 4.531, 1906). The shocking discovery of the ‘print of a man’s naked foot on the shore’ was for Robinson Crusoe, marooned on the desert island, a ‘thunderous’ sign (Defoe [1719]1995: 117-118). It clearly (and unclearly) represented for the shipwrecked sailor, his own human fragmentariness and its referral to the whole of mankind. Crusoe, Daniel Delfoe’s adventurer, described his circumstances thus:

… I fancied it must be the devil, and reason joined in with me upon this suppositions; for how should any other thing in human shape come into the place? Where was the vessel that brought them? What marks was there of any other footsteps? And how was it possible a man should come there? But then to think of Satan should take human shape upon him in such a place, where there could me no manner of occasion for it, but to leave the print of his foot behind him, and that even for no purpose too, for he could not be sure I could see it; this was an amusement the other way. (Defoe [1719]1995: 118)

A livello semiotico, questa divisione virtuale può essere illustrata dall’esempio indicale di un’unica impronta sulla sabbia che, per Robinson Crusoe immaginario personaggio romantico, era uno strano miscuglio di segni di tutte e tre le categorie. Secondo le parole di Peirce, nell’articolo del The Monist (1906), l’impronta del piede era «per lui un Indice che c’era una creatura sull’isola, e nello stesso tempo, in quanto Simbolo, richiamava l’idea di un uomo. Ogni Icona partecipa di un qualche carattere più o meno manifesto del suo Oggetto» (CP: 4.531, 1906). La scoperta scioccante dell’«impronta di un piede umano nudo sulla battigia» fu per Robinson Crusoe, abbandonato sull’ isola deserta, un segno «minaccioso» (Defoe [1719]1995: 117-118). Questo segno rappresenta chiaramente (e non chiaramente) per il marinaio naufragato, la sua frammentarietà umana e il suo riferimento all’umanità tutta. Crusoe, l’avventuriero di Daniel Defoe, descrive così le sue condizioni:

[…] A volte ero indotto a pensare che quella fosse l’orma del demonio, e la ragione sembrava confortare una siffatta ipotesi: com’era possibile, infatti, che un essere umano fosse giunto in un luogo simile? Dov’era la nave che lo aveva portato sin lì? E come mai c’era quell’unica impronta? D’altra parte l’eventualità che Satana assumesse forma umana in un luogo simile, dove non aveva altra possibilità se non quella, appunto, di lasciare la propria orma impressa sulla sabbia (e anche questa senza uno scopo apprezzabile, perché non poteva essere certo ch’io la vedessi) appariva per un altro verso incongrua e ridicola (Defoe [1719]1976: 165) .


The contents of both the fragments ‘torn away from’ (CP: 2.230, 1910) the whole text (referring to the outside pictorial and linguistic world) includes the meaning of all categories. Shapewise, the sign was an iconic impression of some isolated human foot, symbolizing in its nature the hidden feelings of the voyageur sur la terre about the possible and real opportunity to attain human friendship through divine intervention. The fictional protagonist of the first-person novel, Robinson Crusoe, sees the isolated sign in its stream-of-consciousness structure of time and place, bringing his present being into the future. This strange Robinsonade, ‘borrowed’ from the preserved and revered marks left by feet of saints and holy men (see Psalms 89: 50-51 and Ezek. 43: 7) was, in the vision of Defoe’s Crusoe, an existential trace suggesting, embodying and interpreting the sign with oppressive, even devious, significations to trick his readers into believing his fictions as truth.

Peirce wrote that the shape of Firsts were just iconic ‘pictures or diagrams or other images … used to explain the signification of words’ while their aspect of symptoms (Second) will signify ‘the denotations of subject-thought’ (CP: 6.338 = MS 200: 43, c. 1909), here personified in the feelings and attitudes of the novel’s protagonist.the denotations of subject-thought’ (CP: 6.338, c.1909), here personified in the feelings and attitudes of the novel’s protagonist.


 

I contenuti di entrambi i frammenti «staccati da» (CP: 2.230, 1910) il testo intero (che si riferiscono al mondo linguistico e pittorico esterno) comprendono il significato di tutte le categorie. Dal punto di vista della forma, il segno era un’impressione iconica di un piede umano isolato, che nella sua natura simboleggiava i sentimenti nascosti del voyageur sur la terre riguardo alla reale possibilità di ottenere l’amicizia umana attraverso l’intervento divino. Il protagonista immaginario del romanzo in prima persona, Robinson Crusoe, vede il segno isolato nel suo flusso di coscienza spazio-temporale, proiettando il suo essere presente nel futuro. Questa strana Robinsonade, “presa in prestito” dalle impronte conservate e venerate lasciate dai piedi dei santi (si veda Psalms 89: 50-51 e Ezek. 43: 7) era, nella visione del Crusoe di Defoe, una traccia esistenziale che suggeriva, incarnava e interpretava il segno con significati oppressivi e persino devianti, per ingannare i lettori facendo passare la finzione per realtà.

Peirce scrisse che la forma dei Firsts era solo iconici «dipinti o diagrammi o altre immagini […] usate per spiegare il significato delle parole» mentre il loro aspetto di sintomi (Seconds) significherà «le denotazioni del soggetto-pensiero» (CP: 6.338 = MS 200: 43, c. 1909), qui personificate nelle sensazioni e negli atteggiamenti del protagonista del romanzo.


The first-person narrative of The Life and Adventures of Robinson Defoe; Written By Himself is composed into forms and shapes of dialogic interaction, channeling together the inner and outer speech in the mixture of the major indices of the sign, coming from the voices of the real author, Defoe, and his alter ego, the fictional Robinson Crusoe. The footprint was possibly (First) and actually (Second) left by some other, a supposedly ‘savage’ man later baptized with the day of the human encounter, Friday (Third). The other, unknown sign is to be perceived and interpreted by the voice of the known, ‘intellectual’ Robinson Crusoe. In the picaresque art of applied semiotics, the Firstness of Peirce’s musement has thereby overflowed into a narrative form of amusement of otherness, as we read Robinson Crusoe’s eye-witness account. To show the dynamic interaction of Peirce’s triadic truism, namely amusement (which is not the opposite of musement), as mentioned in his miscellaneous manuscripts (MS 1521-1539, n.d., Robin 1967: 161-162) and illustrated in Robinson Crusoe’s ‘autobiography,’ would be the effect of a semiotic art, game, or science, both private and public, and include the intermingling intermediate diversions. In Peirce’s view, amusement is an ‘occupation calling the mind into activity for the sake of excitement,’ adding that ‘[i]t is not necessarily light or hilarious; and though it is pleasurable, that is not the essence of it. Its true motive is the impulse to live actively’ (MS 1135: 118, [1895]1896).


Il narratore in prima persona di The Life and Adventures of Robinson Crusoe; Written By Himself è composto in forme e strutture di interazione dialogica, canalizzando insieme il discorso interiore ed esteriore nella mescolanza dei maggiori indici del segno, risultanti dalle voci dell’autore reale, Defoe, e dal suo alter ego, l’immaginario Robinson Crusoe. L’impronta probabilmente (First) e realmente (Second) è stata lasciata da qualcun altro, un presunto uomo “selvaggio” in seguito battezzato con il nome del giorno in cui ha incontrato Robinson, Venerdì (Third). L’altro segno sconosciuto viene percepito e interpretato dalla voce del conosciuto, “intellettuale” Robinson Crusoe. Nell’arte picaresca della semiotica applicata, la Firstness del musement di Peirce è perciò sfociata in una forma narrativa di amusement della altruità, mentre leggiamo di ciò che vedono gli occhi testimoni di Robinson Crusoe. Mostrare l’interazione dinamica del truismo triadico di Peirce, vale a dire l’amusement (che non è l’opposto del musement), come menzionato nei suoi manoscritti miscellanei (MS 1521-1539, non datati, Robin 1967: 161-162) e illustrato nell’“autobiografia” di Robinson Crusoe sarebbe l’effetto di un’arte, un gioco, o una scienza semiotica, allo stesso tempo privata e pubblica, e comprende le diversioni intermedie che si intrecciano tra loro. Nella visione di Peirce, l’amusement è «un’occupazione che attiva la mente per raggiungere l’eccitazione» aggiungendo che «non è necessariamente divertente e ilare; e nonostante sia piacevole, non è l’essenza del piacere. La sua vera ragione è l’impulso a vivere attivamente» (MS 1135: 118, [1895]1896).

Further, social amusement is a pastime or hobby ‘to which the stimulus is the desire to accomplish for the execution of ‘these amusements of other people, but merely as playthings’ (MS 1135: 103, [1895]1896). In Peirce’s lists of amusement (MS 1135: 99-121 [1895]1896), amusement is basically a Second — card games, picnics, coin-collecting, catching butterflies, letter writing — flowing back into First — amateur cookery, horticulture, embroidery, swimming — and overflowing into Third — diplomacy, chess as well as other games of calculations, mathematical problems, and logical games such as word scrambles, crosswords, puzzles and existential graphics (Peirce’s examples). Robinson Crusoe’s bizarre amusements on his desert island illustrated the ‘Adventures With Personal Danger,’ ‘Contests Between a Man and a Brute’ approximating the ‘Pursuit of Strange Experiences’ (MS 1135: 102, 104, [1895]1896). The central tension which the story of Crusoe clarifies is that between ‘intellectual’ and ‘savage’ ways of thought, wherein lies a secret code fashionable in Defoe’s (and Peirce’s) days, with a hidden message. Defoe tries to square the circle by both recording events in both ways of thinking and shaping them to intellectually determine the readership’s responses then and today. The novelistic struggle between different pictures is ultimately inconclusive, as of course semiosis has to be.


Inoltre, l’amusement sociale è un passatempo o hobby «il cui stimolo è il desiderio portare a compimento» questi amusement di altra gente, ma come meri giocattoli» (MS 1135: 103, [1895] 1896). Nella lista di amusement di Peirce (MS 1135: 99-121 [1895]1896), l’amusement fondamentalmente è un Second – giochi di carte, picnic, collezione di monete, caccia alle farfalle, stesura di lettere – che rifluisce nel First – cucina amatoriale, orticultura, ricamo, nuoto – che straripa nel Third – diplomazia, scacchi così come altri giochi di calcolo, problemi matematici, e giochi di logica come anagrammi, parole crociate, puzzle e grafici esistenziali (esempi di Peirce). Gli strani amusement di Robinson Crusoe sull’isola deserta illustravano le «Avventure Con Pericolo Personale», «Contenuto tra un Uomo e un Bruto» che si accosta alla «Ricerca di Strane Esperienze» (MS 1135: 102, 104, [1895] 1896). La tensione centrale che la storia di Crusoe chiarifica è che tra i modi di pensare «intellettuale» e «selvaggio» si trova un elegante codice segreto ai giorni di Defoe (e Peirce), con un messaggio nascosto. Defoe cerca di far quadrare il cerchio sia registrando secondo entrambe le modalità di pensiero, sia dando loro forma per determinare intellettualmente le risposte dei lettori di allora e di oggi. Lo scontro romanzesco tra immagini diverse in definitiva non si conclude mai, come certo deve succedere anche alla semiosi.


 Bricolage, paraphrase, manuscript

 

The contents of both fragments and the whole include the dynamic dialectic of the interactive categories. The ‘wild romance’ (Chesterton 1985: 79) of First, Seconds, and Thirds transforms the textual units of sentence, paragraph, and section (Werlich 1976: 192ff.) into Peirce’s intertextual categories (Almeida 1979), utilizing the fragmentary and fluid tools of bricolage, paraphrase, and manuscript. The few luxurious comforts of Robinson Crusoe enable him to survive by transformation on his island, accomodating seen for unseen and old for new:

Every kitchen tool becomes ideal because Crusoe might have dropped it in the sea. It is a good exercise, in empty or ugly hours of the day, to look at anything. The coal-scuttle or the book-case, and think how happy one could have brought it out of the sinking ship on to the solitary island. But it is as better exercise still to remember how all things have had this hair-breath escape: everything has been saved from a wreck. … Men spoke in my boyhood of restricted or ruined men of genius: and it was common to say that many a man was a Great Might-Have-Been. To me it is a more solid and startling fact that any man in the street is a Great Might-Not-Have-Been. (Chesterton 1985: 79)


Bricolage, parafrasi, manoscritto

I contenuti sia dei frammenti sia del tutto comprendono la dialettica dinamica delle categorie interrative. Il «wild romance» (Chesterton 1985: 79) di First, Second, e Third trasforma le unità testuali di frase, paragrafo e sezione (Werlich 1976: 192 e seguenti) nelle categorie intertestuali di Peirce (Almeida 1979), usando gli strumenti frammentari e incompleti del bricolage, della parafrasi, e del manoscritto. I pochi comfort di lusso di Robinson Crusoe gli permettono di sopravvivere sulla sua isola mediante trasformazione, adattandosi tra visto e non visto, tra vecchio e nuovo:

Ogni utensile da cucina diviene ideale perché Crusoe avrebbe potuto lasciarlo cadere nel mare. È un buon esercizio nelle ore vuote o cattive del giorno stare a guardare qualche cosa, il secchio del carbone o la cassetta dei libri, e pensare quante sarebbe stata la felicità di averli salvati e portati fuori dal vascello sommerso sull’isolotto solitario. Ma un miglior esercizio ancora è quello di rammentare come tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio. […] Sentivo parlare, quand’ero ragazzo, di uomini di genio rientrati o mancati sentivo spesso ripetere che più d’uno era un grande «Avrebbe-potuto-essere». Per me, un fatto più solido e sensazionale è che il primo che passa è un grande «Non-avrebbe-potuto-essere» (Chesterton 1955: 89).


The model of Peirce’s laboratory experiment and the tools and materials utilized in the survival-machine of the progressive technique of the words, sentences, and text (Gorlée 2000) are in accord with the lesson on the cumulative and complex acts of translation, which ‘may be broken down into a doing interpretive of the ab quo text and a doing of the ad quem text’ (Greimas and Courtès 1982: 352, their emphasis). This two-way interfacing of adaption and adjustment of verbal units leads from perception of the three-way known item to possible knowledge of the unknown item. Translated into Peirce’s three-way continuity cum discontinuity, translation is basically a creative manipulation of different levels of language: Secondness and Firstnesss in dynamic accord with its essential Thirdness. These stages of concern are also implicit in the virtual ‘laboratory’of the translator who is provided with a suitably qualified, workmanlike (or workwomanlike) mind, one who can be no idealistic know-it-all of the fragments, but whose duties is to create from the known textual units a unknown but knowable ones ‘living’ in a different verbal code.

Fragmentariness, Peirce’s quality of Firstness, is what Claude Lévi-Strauss famously called bricolage in French. In La pensée sauvage (1966: 16-36, trans. from 1962), Lévi-Strauss indicated a first fragment belonging to a whole, crystallized in a situation of bricolage, the material sign derived from the Old French bricole, meaning ‘trifle.’

Il modello dell’esperimento da laboratorio di Peirce e gli strumenti e i materiali usati nella macchina della sopravvivenza della tecnica progressiva di parole, frasi, e testo (Gorlée 2000) sono in accordo con la lezione sugli atti di traduzione cumulativi e complessi, che «possono essere frammentati in un fare interpretativo del testo ab quo e un fare del testo ad quem» (Greimas e Courtès 1982: 352, corsivo degli autori). Questo interfacciarsi biunivoco di adattamento e aggiustamento delle unità verbali porta dalla percezione dell’oggetto triadico noto alla conoscenza possibile dell’oggetto sconosciuto. Tradotta nel triadico continuità cum discontinuità di Peirce, la traduzione è fondamentalmente una manipolazione creativa di livelli diversi del linguaggio: Secondness e Firstness in accordo dinamico con l’essenziale Thirdness. Questi gradi di interesse sono anche impliciti nel “laboratorio” virtuale del traduttore che è fornito di una mente artigianale adeguatamente qualificata, che può non essere la conoscenza idealistica di tutti i frammenti, ma il cui compito è creare dalle unità testuali conosciute altre unità sconosciute ma conoscibili “viventi” in un codice verbale diverso.

La frammentarietà, la qualità di Firstness di Peirce, è ciò che Claude Lévi-Strauss chiamava in francese, come è noto, bricolage. Nel Pensiero selvaggio (1968: 16-36), Lévi-Strauss indicava un primo frammento che apparteneva al tutto, cristallizzato in una situazione di bricolage, il segno materiale derivato dal francese antico bricole, che significava «inezia».

A bricolage gives a false assumption without real seriousness, trivial guesswork hazarded in some haste to construct with the combination of the old word-signs something new and exciting for the new receivers. Lévi-Strauss changed the quality of the original signs and their function to accommodate it to the function of the new word-sign. Peirce had anticipated the bricolage situation in his ‘forgotten trifle’ (CP: 6.6, 1892) where he took up a ‘rudimentary fragment of experience as a simple feeling’ (CP: 1.322, c.1903). Thereby he illustrated an First example of ‘weak’ type of logic. The handyman or makeshift tinkerer (Fr. bricoleur) makes use of his (her) ‘savage thought’ – also called by Lévi-Strauss the product of ‘“prior” rather than “primitive” … speculation’ (1966: 16). The new and changed construction is made or put together with whatever happens to be at hand, available and/or left over. Bricolage shows the free activities of the amateur and professional artisan, both engaged in a manual craft, a technical trade, or a cultural handicraft, and maybe integrating some imaginative aspects of engineers and artists. Jean-Paul Dumont revealed that

 

Anyone who has ever turned an empty Chianti bottle into a lamp, ‘liberated’ milk-crates to transform them into book-shelf supports, or ruined a table knife in trying to loosen the screws of a door-knob can appreciate the quintessence of ‘bricolage.’ …

Un bricolage dà una presupposizione falsa senza una reale serietà, una congettura banale azzardata in fretta per costruire grazie alla combinazione di vecchie parole-segno qualcosa di nuovo ed eccitante per i nuovi destinatari. Lévi-Strauss cambiò la qualità dei segni originali e la loro funzione per adattarla alla funzione del nuova parola-segno. Peirce aveva anticipato la situazione bricolage nella sua «inezia dimenticata» (CP: 6.6, 1892) in cui prese in considerazione un «frammento rudimentale dell’esperienza come semplice percezione» (CP: 1.322, c.1903). Perciò illustrò un primo esempio di tipo di logica “debole”. Il tuttofare o l’improvvisato aggiustatutto (francese bricoleur) fa uso del suo «pensiero selvaggio» detto anche da Lévi-Strauss prodotto della «speculazione» a priori più che «primitiva» (1968: 16). La costruzione modificata e nuova è fatta o messa insieme con qualsiasi cosa sia a portata di mano, disponibile e/o rimasta. Il bricolage mostra le attività libere dell’artigiano amatore o professionale, entrambi impegnati in un lavoro manuale, un mestiere tecnico, o un artigianato culturale, e che forse integrano alcuni aspetti immaginativi degli ingegneri e degli artisti. Jean-Paul Dumont rivelava che:

Nessuno che non abbia mai fatto diventare un bottiglia vuota di Chianti una lampada, una cesta del latte “liberata” una libreria, o rovinato un coltello da tavolo cercando di allentare le viti del pomo di una porta, può apprezzare la quintessenza del bricolage […].


No need of fancy projects: jotting, at lunch, a phone number on a paper napkin or using, on one’s desk, a yogurt pot as a pencil holder are already akin to bricolage. In fact, knowingly or not, by taste or perforce, with more or less success, willy-nilly, we are all ‘bricoleurs’ and thus all of us participate in savage thought … (Dumont 1985: 29-30)

 

The domesticated ‘science of the concrete’ (Lévi-Strauss 1966: 16) can grow into a complex mechanism in its scope responding to the tasks of a gardener, an interior decorator, a storyteller, a sculptor, or chef, disengaging from their actual function to fabricate something new and unexpected cultural sign, creative and new but still ‘pregnant with historical contingencies’ (Dumont 1985: 31) (see Peirce’s incomplete sketch in MS 1135: 144, [1895]1896, itself a bricolage). Some intellectual or scientific examples are also possible (a trained engineer and a judge), in order to interface Peirce’s provisional, strictly ad hoc feelings with logical and rational responses (Colapietro 1993: 56, Gorlée 2005b).

Lévi-Strauss characterized the arrangement of mending and making bricolages as ‘in French “des bribes et des morceaux,” or odds and ends in English,’ in order to describe the broken word-signs as ‘fossilized evidence of the history of an individual or a society’ (1966: 22).


Nessun bisogno di progetti elaborati: annotando, a pranzo, un numero di telefono su un tovagliolo di carta o usando, sulla propria scrivania, un vasetto di yogurt come portapenne si è già vicini al bricolage. In realtà, consapevoli o no, per gusto o per forza, con più o meno successo, volenti o nolenti siamo tutti bricoleur e quindi partecipiamo tutti al pensiero selvaggio […] (Dumont 1985: 29-30).

La «scienza del concreto» addomesticata (Lévi-Strauss 1968: 16) può diventare un meccanismo complesso che nel suo campo d’azione risponde ai compiti di un giardiniere, di un decoratore d’interni, di un cantastorie, di uno scultore, o di un cuoco, liberandoli dalla loro funzione attuale di fabbricare segni culturali nuovi e un inaspettati, creativi e nuovi ma sempre «ricchi di contingenze storiche» (Dumont 1985: 31) (si veda l’abbozzo incompleto di Peirce in MS 1135: 144, [1895]1896, esso stesso un bricolage). È possibile fare anche qualche esempio intellettuale o scientifico (un ingegnere o un giudice), così da interfacciare le percezioni provvisorie e strettamente ad hoc di Peirce con risposte logiche e razionali (Colapietro 1993: 56, Gorlée 2005b).

Lévi-Strauss ha definito la pratica del rammendare e fare bricolage come «in francese “des bribes et des morceaux”, o “odds and ends” in inglese, così da descrivere le parole-segno frammentate come evidenza fossilizzata della storia di un individuo o di una società» (1968: 22).


A bricolage is a mix of bits and pieces, yet inspired by the desire to compose an ideological bric-à-brac impression of the whole, where ‘the signified changes into the signifying and vice versa’ (Lévi-Strauss 1966: 21). This creative event is, in Peirce’s terminology, a discovery (research) of the first element in search of the discovery of the categorical ‘ideas, lying upon the beach of the mysterious ocean’ (MS 439: 9, 1898). Bricolages are compared to a few shells on the beach; in the discoverer’s view they are simple building bricks (Peirce’s sign-ideas) in order to mend or arrange for a new sign construction. The discovery ‘between design and anecdote’ (Lévi-Strauss 1966: 25) includes transmogrifying the keys, flexibility and function, see Peirce’s observation and performance of the original sign. Both ‘being’ and ‘becoming’ (Lévi-Strauss 1966: 25) are conjoined by trained skill. The surprise is ruled by the spontaneity of chance and probability, treating imaginary and correct quantities in utter random order. No definite conclusion can exist in the improvised fabric of bricolages.

Translation is, equally, a creative ‘construction [which] begins with a destruction’ (Dumont 1985: 41). The fabric woven of translation is also an indirect transformation of previous signs to create something new. The ‘black box’ transforming the translator’s mind seems to work on a text-sign in a system of ideas ‘on the lookout for that other message’ (Lévi-Strauss 1966: 20, his emphasis).

Un bricolage è un mix di pezzi e bocconi, tuttavia ispirati dal desiderio di comporre un’impressione ideologica bric-à-brac del tutto, in cui «il signifié cambia nel signifiant e viceversa» (Lévi-Strauss 1968: 21). Questo evento creativo nella terminologia di Peirce è una scoperta (ricerca) del primo elemento in cerca della scoperta delle categoriche «idee, che giacciono sulla spiaggia dell’oceano misterioso» (MS 439: 9, 1898). I bricolage sono paragonati a qualche conchiglia sulla spiaggia; dal punto di vista dello scopritore sono semplici mattoni da costruzione (i segni-idea di Peirce) così da aggiustare e sistemare una nuova costruzione segnica. La scoperta «tra progetto e aneddoto» (Lévi-Strauss 1968: 25) comprende il convertire le chiavi, flessibilità e funzione; si veda l’osservazione e la performance sul segno originale di Peirce. Sia «essere» che «divenire» (Lévi-Strauss 1968: 25) hanno in comune abilità esercitate. La sorpresa sta nella spontaneità della fortuna e della probabilità, trattando le quantità immaginarie e corrette in ordine completamente casuale. Non esiste una conclusione definita nella struttura improvvisata dei bricolage. La traduzione è, allo stesso tempo, una creativa «costruzione [che] comincia con una distruzione» (Dumont 1985: 41). Il tessuto di una traduzione è anche una trasformazione indiretta di segni preliminari per creare qualcosa di nuovo. La “scatola nera” che trasforma la mente del traduttore sembra lavorare a un testo-segno in un sistema di idee «pronte a captare that other message» (Lévi-Strauss 1966: 20, corsivo suo).

The code is a ready-made linguistic code, which is in itself a rule but still creative cryptotext. The bricoleur is the intuitive, technical and cultural text-operator who interprets and translates, guided by his or her own flexibility and function. The bricolages are the new life as effects of the bold experiments in the composition of reconverted signs. The translational strategy generates new but equivalent signs in the new cryptotext. The interpretable and translatable signs are analyzed by the translator as integrating Peirce’s triadic categories:

… be it of the nature of a significant quality, or something that once uttered is gone forever, or an enduring pattern, like our sole definite article; whether it professes to stand for a possibility, for a single thing or [happening] event, or for a type of things or of truths; whether it is connected with the thing, be it truth or fiction, that it represents, by imitating it, or by living an effect of its object, or by a convention or habit; whether it appeals merely to feeling, like a tone of voice, or to action, or to thought; whether it makes it appeal by sympathy, by emphasis, or by familiarity; whether it is a single word, or a sentence, or is Gibbon’s Decline and Fall; whether it is of the nature of a jest [scrawled on an old enveloppe], or is sealed and attested, or relies upon artistic force; and I do not stop here because the varieties of signs are by any means exhausted. Such is the definition which I seek to fit with a rational, comprehensive, scientific, structural definition, – such as one might give of ‘loom,’ ‘marriage,’ ‘musical cadence;’ aiming, however, let me repeat, less

Il codice è un codice linguistico bell’e pronto, che è in sé stesso una regola ma anche un criptotesto creativo. Il bricoleur è l’operatore testuale intuitivo, tecnico e culturale che interpreta e traduce, guidato dalla sua propria flessibilità e funzione. I bricolage sono la nuova vita in qualità di effetti degli esperimenti audaci nella composizione dei segni riconvertiti. La strategia traduttiva genera segni nuovi ma equivalenti nel nuovo criptotesto. I segni interpretabili e traducibili sono analizzati dal traduttore come integranti le categorie triadiche di Peirce:

[…] che sia della natura di una qualità significativa, o qualcosa che una volta pronunciato e andato per sempre, o uno schema ricorrente, come il nostro articolo determinativo; che professi di stare per una possibilità, per una cosa singola o per un evento [che succede], o per un tipo di cosa o di verità; che sia connesso con la cosa, che sia verità o funzione, che rapapresenti, per imitazione, o vivendo un effetto del suo oggetto, o per convenzione o abitudine; che faccia appello solo alla percezione, come un tono di voce, o all’azione, o al pensiero; che vi faccia appello per simpatia, per enfasi o per familiarità; che sia una singola parola, o una frase, o Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon; che sia della natura dell’annotazione scherzosa [scarabocchiata su una vecchia busta], o che sia sigillata e attestata, o si basi sulla forza artistica; e non mi fermo qui perché le varietà dei segni siano esaurite, affatto. Tale è la definizione che io cerco di adattare a una definizione razionale, comprensiva, scientifica, strutturale, come la si potrebbe dare di «loom», «marriage», «musical cadence»; avendo tuttavia come scopo, lasciatemelo ripetere, meno di quanto convenzionalmente significhi un definitum, che quanto nell’ipotesi ottimale ragionevolmente deve significare (MS 318: 52-54, 1907, le prime versioni e quelle cancellate di Peirce del manoscritto tra parentesi [mia traduzione]).

at what the definitum conventionally does mean, than at what it were best, in reason, that it should mean. (MS 318: 52-54, 1907, Peirce’s earlier and deleted versions of this manuscript placed in brackets)

The new meanings in the translatable fragment-signs and text-signs exist really and pragmatically in the translator’s mind, a mysterious way to explain a polyphonic structure of iconic-indexical forms of language which is produced and then interpreted, concentrating on the material for the next discovery of ‘symbols, like words’ (CP: 6.340, c.1909), the habitat or home of translatable and translated text-signs or thought-signs: Consequently, all thinking is conducted in signs that are mainly of the same structure as words; those which are not so, being of the nature of those signs of which we have need now and in our converse with one another to eke out the defects of words, or symbols. These non-symbolic thought-signs are of two classes. …The Icons chiefly illustrate the significations of predicate-thoughts, the Indices the denotations of subject-thoughts. (CP: 6.338 = MS 200: 43-44, c.1909, Peirce’s emphasis) The vocabulary, that is only the fragment of irreducible words by themselves, sticks to the bricolage-like images and meaning-pictures of loose words, unrestrained at first by concerns for logic and accuracy. The simple feeling of the function of word-signs, such as the possible functions imposed on the words such as ‘seeing,’ ‘simple,’ ‘with,’ ‘bank,’ ‘hi,’ ‘last,’ ‘heaven’ are a false guess, relatively easy to interpret and translate. The guesses spring from the human awareness of the existence of the terms, but their meaning is only a simple speculation ‘unattached to any subject, which is merely an atmospheric possibility, a possibility floating in vacuo, not rational yet capable of rationalization’ (CP: 6.342, c.1909. Peirce’s emphasis).

I nuovi significati nei frammenti-segni traducibili e nei testi-segni esistono realmente e pragmaticamente nella mente del traduttore, un modo misterioso per spiegare una struttura polifonica di forme iconiche-indicali di linguaggio che viene prodotto e poi interpretato, concentrandosi sul materiale per la successiva scoperta di «simboli, come parole» (CP: 6.340, c.1909), l’habitat o la casa dei testi-segni o dei pensieri-segni traducibili e tradotti: Di conseguenza, tutto il pensiero è condotto in segni che perlopiù sono della stessa struttura delle parole; quelli che non lo sono, essendo della natura di quei segni di cui abbiamo bisogno ora e nella nostra relazione reciproca per superare i difetti delle parole, o simboli. Questi pensieri-segni non simbolici sono di due classi […]. Le icone perlopù illustrano i significati dei pensieri-predicati, gli indici le denotazioni del pensieri-soggetti. (CP: 6.338 = MS 200: 43-44, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]). Il vocabolario, che è solo il frammento di parole in sé irriducibili, aderisce alle immagini-bricolage e ai significati-immagine delle parole staccate, libere al principio da preoccupazioni per la logica e per l’esattezza. La semplice percezione della funzione delle parole-segno, così come le funzioni possibili imposte a parole come «vedendo», «semplice», «con», «banca», «ciao», «ultimo», «paradiso» sono false

Good examples of such ‘diagrams or other fabricated instances’ (MS 200: 43, 1907) are given in Peirce’s own titles – ‘The Third Curiosity” (MS 199, 1907), “The Fourth Curiosity” (MS 200, 1907), “Some Amazements of Mathematics’ (MS 202: c.1908) (see Robin 1967: 21-22). The titles include separate and unrestrained words, such as ‘some,’ ‘amazements,’ ‘mazes,’ ‘fourth,’ and ‘curiosity.’ Peirce argues that the words

 

… involve the calling up of an image … as ordinary common nouns and verbs do; or it may require its interpretation to refer to the actual surrounding circumstances of the occasion of its embodiment, like such words as that, this, I, you, which, here, now, yonder, etc.’ (CP: 4.447, c.1903, Peirce’s emphasis).

 

Peirce clearly states that ‘verbs or portions of verbs, such as adjectives, common nouns, etc.’ (CP: 4.157, 1897), including the use of quotation marks, are the (ab)use of separate interjections and exclamations provided with unclear meanings. Meaningfully, all words remain as loose ‘phrase[s] like most of the terminology of grammar’ (CP: 3.458, 1897).


supposizioni, relativamente facili da interpretare e tradurre. Le supposizioni nascono dalla consapevolezza umana dell’esistenza dei termini, ma il loro significato è solo una semplice speculazione «non collegata ad alcun soggetto, che è mera possibilità atmosferica, possibilità fluttuante in vacuo, non razionale né capace di razionalizzazione» (CP: 6.342, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]).

Buoni esempi di tali «diagrammi o altri esempi inventati» (MS 200: 43, 1907) sono presenti nei titoli stessi di Peirce «The Third Curiosity» (MS 199, 1907), «The Fourth Curiosity» (MS 200, 1907), «Some Amazements of Mathematics» (MS 202: circa 1908) (si veda Robin 1967: 21-22). I titoli comprendono parole separate e libere, come «some», «amazements», «mazes», «fourth», e «curiosity». Peirce argomenta che le parole

[…] comprendono il richiamo di un’immagine […] come fanno i nomi comuni ordinari e i verbi; o può richiedere che la sua interpretazione si riferisca alle effettive circostanze dell’occasione della sua incorporazione, come in parole quali quello, questo, io, tu, quale, qui, ora, là, eccetera (CP: 4.447, c.1903, corsivo di Peirce).

Peirce afferma chiaramente che «verbi o parti dei verbi, come aggettivi, nomi comuni, eccetera» (CP: 4.157, 1897), compreso l’uso di virgolette, sono l’(ab)uso di interiezioni ed esclamazioni distinte dotate di significati poco chiari. Significativamente, tutte le parole restano come
Characterized as soft, bricolage-like instances with no perfect equivalence of meaning, the translation of words deals with ‘the problem (at times a pseudo-problem) of how certain frequently twinned parts of speech – noun and verbs – ‘ (Sebeok 1986: 7, see also ff.) as well as the syllables used, negative pronouns, personal pronouns, conjunctions, and category terms for past and present participles, indefinite articles, attributive pronouns, genitive cases, adverbial adjuncts, and punctuation symbols seem to function in isolation as ‘indecomposable’ signs (CP: 1.562, c.1905) emphasized in linguistic form, structure, and matter (see CP: 1.288f., c.1908).

In a text-sign, a bricolage-like sign is a zero element, a ‘negative of quantity … and in a sense as itself a special grade of quantity’ although ‘[t]his is no violation of the principle of contradiction: it is merely regarding the negative from another point of view’ (MS 283: 109, 1905-1906) (developed by Jakobson 1971a and 1971b; see Lange-Seidl 1986, Kevelson 1998, Kurzon 1997 and others, generally Rotman 1987, part. 97 ff.). The zero sign is a sign of emptiness, but it points in some discontinuous direction. Bricolage is both unrestrained and restrained. Nothingness will stay muted in reasoning until ‘existing.’ Secondness will be added to the ‘imagined’ Firstness (CP: 8.357, 1908; see Peirce’s ‘imaginable or imageable’ relation [PW: 70, 1908], Peirce’s emphasis).


sciolte «frasi come la maggior parte della terminologia della grammatica» (CP: 3.458, 1897). Definita come casi precari di bricolage senza nessuna equivalenza perfetta di significato, la traduzione di parole ha a che fare con «il problema (a volte uno pseudoproblema) di come alcune parti del discorso frequentemente abbinate – nomi e verbi –» (Sebeok 1986: 7, si vedano anche le pagine seguenti) così come le sillabe usate, i pronomi negativi, i pronomi personali, le congiunzioni, e i termini di categoria per i participi passati e presenti, articoli indefiniti, pronomi attributivi, casi genitivi, attributi, e la punteggiatura sembrano funzionare isolati come segni «indecomponibili» (CP: 1.562, c.1905) enfatizzati nella forma linguistica, nella struttura e nel contenuto (si veda CP: 1.288 e seguenti, circa 1908).

In un testo-segno, un segno bricolage è un elemento zero, un «negativo di quantità […] e in un certo senso in quanto esso stesso un grado speciale di quantità» sebbene «non si tratti di violazione del principio di contraddizione: riguarda solo del negativo da un altro punto di vista» (MS 283: 109, 1905-1906 [mia traduzione]) (approfondito da Jakobson 1971a e 1971b; si veda Lange-Seidl 1986, Kevelson 1998, Kurzon 1997 e altri, generally Rotman 1987, in particolare 97 e seguenti). Il segno «zero» è un segno di vuoto, ma punta in direzioni discontinue. Il bricolage è sia limitato che illimitato. Il nulla resterà muto nel ragionamento finché «esistente». La Secondness verrà aggiunta alla «imagined» Firstness (CP: 8.357, 1908; si veda la relazione «imaginable o imageable» di Peirce [PW: 70, 1908], corsivo di Peirce).

Pure Firstness ‘signifies a mere dream, an imagination unattached to any particular occasion’ (CP: 3.459, 1897), whereas practical Secondness serves to ‘denominate things, which things he identifies by the clustering of reactions, and such words are proper names, and words which signify, or mean, qualities’ (CP: 4.157, 1897, Peirce’s emphasis). The repeated meaning of the simple lexical form, Peirce’s iconic replica, tends to harden the soft and controversial separation and connection, difference and sameness, while accomodating to the jointure of one category to another (see the items mentioned for vocabulary in OED as well as their common and technical uses, their Firstness and Secondness decided to join brick and mortar). With Peirce’s architectural framework, the logical meaning of vocabulary depends on its practical use to enlighten the specific pragmatic contextualization. Then, within the real context, the simple unit would become an actual ‘building’ message.

The upgrading ‘grounding’ sign-shades of qualisign, sinsign, or legisign (CP: 2.243f., also called tone, token, or type) includes ‘a mere idea or quality of feeling,’ an ‘individual existent’ until a ‘general type … to which existents may conform’ (MS 914: 3, c.1904) in accordance with the order of the three categories. Tone (qualisign) is the mere sign itself, token (sinsign) is the object-oriented sign, and type (legisign) is the law-like sign (see Savan 1987-1988: 19-24, Gorlée 1994: 51-53).
La Firstness pura «significa una mera fantasticheria, una rappresentazione non collegata ad alcuna particolare circostanza» (CP: 3.459, 1897), mentre la Secondness pratica serve a «denominare le cose, cose che identifica attraverso il raggruppamento di reazioni, e tali parole sono nomi propri, e parole che vogliono dire, o significare, qualità» (CP: 4.157, 1897, corsivo di Peirce). Il significato ripetuto della semplice forma lessicale, riproduzione iconica di Peirce, tende a indurire la separazione e la connessione, la differenza e la somiglianza controverse e labili, mentre si adatta alla giuntura di una categoria con un’altra (si vedano gli esempi citati come vocabolario nell’OED e i loro usi comuni e tecnici, la loro Firstness e Secondness, «to join brick and mortar»[1]). Con la struttura architettonica di Peirce, il significato logico del vocabolario dipende dal suo uso pratico per chiarire la contestualizzazione specifica, pragmatica. Poi, all’interno del contesto reale, l’unità semplice diventerebbe un messaggio «costruttivo» vero e proprio. I segni-ombra «grounding» che aggiornano, del qualisegno, sinsegno o legisegno (CP: 2.243 e seguenti, anche chiamati tone, token, o type) comprendono «una mera idea o qualità di percezione», un «singolo esistente» fino ad arrivare a un «modello generale […] a cui gli esistenti si possono conformare» (MS 914: 3, circa 1904) in armonia con l’ordine delle tre categorie. Il tone (qualisegno) è il
Scattered throughout Peirce’s works are numerous references to and discussions of discourse in the form of written ‘simple’ signs of all kinds, from isolated word-signs to complex verbal structures. For instance, the words ‘witch’ (MS 634: 7, 1909), ‘Hi!’ (MS 1135: 10, [1895]1896), ‘runs’ (MS 318: 72, 1907) and ‘whatever’ (CP: 8.350, 1908) are for Peirce bricolage-like signs. Peirce considered as a semiotic sign ‘[a]ny ordinary word, as “give,” “bird,” “marriage”‘ (CP: 2.298, 1893) and combinations of words, such as the upgraded forms ‘all but one, one or two, a few, nearly all, every other one, etc.’ (CP: 2.289-2.290, c.1893); so is the tone-token ‘the word “man” [which] as printed, has three letters; these letters have certain shapes, and are black’ (W: 3: 62, 1873; cf. MS 9: 2, 1904). Thereby we leave the ‘clusters of acts’ (CP: 4.159, 1897) immediately experienced by reading individual fragments, with the specific wish to achieve the more sophisticated ‘cluster or habit of reactions’ or an expressive ‘centre of forces’ (CP: 4.157, 1897).

This paraphrastic experiment brings together a group of words, connecting the two categories that were originally separated and brought together in the first bricolages. A paraphrase is still a fragmentary unit, but is like a bounded line of bricolages, and represents a meaningful phraseological unit meant ‘to stimulate the person addressed to perform an act of observation’ (CP: 4.158, 1897).


mero segno stesso, il token (simsegno) è il segno orientato all’oggetto, e il type (legisegno) è il segno regolativo (si veda Savan 1987-1988: 19-24, Gorlée 1994: 51-53).

Sparsi in tutte le opere di Peirce sono vari riferimenti a, e discussioni di, discorso sotto forma di segni scritti «semplici» di tutti i tipi, dalle parole-segno isolate a strutture verbali complesse. Per esempio le parole: «strega» (MS 634: 7, 1909), «Ciao» (MS 1135: 10, [1895]1896), «corse» (MS 318: 72, 1907) e «qualunque» (CP: 8.350, 1908) sono per Peirce segni-bricolage. Peirce considerava un segno semiotico bricolage– «Ogni parola ordinaria, come «dare», «uccello», «matrimonio» (CP: 2.298, 1893) e le combinazioni di parole come le forme aggiornate «tutti tranne uno, uno o due, pochi, quasi tutti, ogni altro, eccetera» (CP: 2.289-2.290, c.1893); così è la tono-token «la parola “man” [che] stampata, ha tre lettere; queste lettere hanno certe forme, e sono nere» (W: 3: 62, 1873; cf. MS 9: 2, 1904). Quindi lasciamo i «clusters of acts» (CP: 4.159, 1897) esperiti immediatamente, leggendo frammenti singoli, con il desiderio preciso di conseguire i più sofisticati «cluster or habit of reactions» oppure un «centro di forze» espressivo (CP: 4.157, 1897).

Questo esperimento parafrastico mette insieme un gruppo di parole, connettendo le due categorie che originariamente erano separate e messe insieme nei primi bricolage. Una parafrasi è ancora un’unità frammentaria, ma è come una linea connessa di bricolage, e rappresenta
A bricolage would mediate between images and concepts and would, as Milton wrote, become a ‘sad task and hard, for how shall I relate to human sense the invisible exploits of warring spirits’ (Paradise Lost, Book 5, lines 563-565, quoted from Milton 1975: 82). Milton continued: ‘I shall delineate so, by likening spiritual to human forms, as may express them best’ (Paradise Lost, Book 5, lines 572-574, quoted from Milton 1975: 83). The primary images, ‘which is sometimes in my thought, sometimes in yours, and which has no identity than the agreement between its several manifestations’ (CP: 3.460, 1897) belong to the individual idea of isolated Firstness. The specific concepts refer to the common ground in Secondness to empower a sign, simple and complex, so that it ‘can be a sign in representing its object in its intellectual character as informing the sign’ (MS 1334: 60, 1905). The outward index, Peirce held, ‘may require its interpretation to refer to the actual circumstances of the occasion of its embodiment’ (CP: 4.447, c.1903). The universe of indexical discourse is the center of the internal world of icons, and there seems to be no sharp line between outward cause and immediate image. They hold together in the semiotic sign, as occurred in Robinson Crusoe’s strange footprint in the sand. See Peirce’s common word ‘love’ which is gradually transmogrified through the connectives ‘self-love,’ ‘no love,’ ‘love of mankind,’ and ‘creative love’ into Peirce’s own kind, ‘evolutionary love’ (CP: 6.287, 1893 and following paragraphs) with its specific meaning.


un’unità fraseologica significativa che intende «stimolare la persona a cui ci si rivolge a compiere un atto di osservazione» (CP: 4.158, 1897).

Un bricolage medierebbe tra immagini e concetti e diventerebbe, come scriveva Milton «ardua, trista è l’impresa; or come io posso raccontar degli eserciti celesti le invisibile prove al vostro senso» (Paradiso Perduto, Libro 5, versi 563-565, citato da Milton 1863: 172). Milton continuava: «e misurando le corporee forme colle spirtale, a quanto i sensi eccede» (Paradiso Perduto, Libro 5, versi 572-574, citato da Milton 1863: 172-173). Le immagini primarie «che è talora nella mia mente talora nella vostra, e che non ha altra identità che l’accordo fra le sue differenti manifestazioni» (CP: 3.460, 1897) appartengono all’idea individuale di Firstness isolata. I concetti specifici si riferiscono al terreno comune nella Secondness per rafforzare il segno, semplice e complesso, così che «possa essere un segno perché rappresenta il suo oggetto nel suo carattere intellettuale perché informa il segno» (MS 1334: 60, 1905 [mia traduzione]). L’indice esterno, Peirce pensava, «può richiedere che la sua interpretazione si riferisca alle effettive circostanze dell’occasione della sua incorporazione» (CP: 4.447, circa 1903). L’universo del discorso indicale è il centro del mondo interno delle icone, e sembra non esserci nessun confine netto tra causa esterna e immagine immediata. Queste rimangono insieme nel segno semiotico, come succede con la strana impronta nella sabbia di Robinson Crusoe. Si veda la parola comune di Peirce «amore» che magicamente viene trasformata per gradi attraverso i connettivi «amor proprio», «non amore», «amore
The OED teaches that ‘paraphrase’ tends to ‘express the meaning of a word, phrase, passage, or work in other words, usually with the object of fuller and clearer exposition’ (OED 1989: 11: 204). Paraphrase was a term for the socalled free translation (Gorlée 2005a: 31ff, 90f). Historically (for a survey of historical interpretation, see Robinson 1998a), this term was originally a linguistic term arising from classical rhetorical style and borrowed in modern semiolinguistics. The information given by paraphrase became popular in the tradition of Chomsky’s generative grammar as the transformation of syntactic rules from surface sentence as extended paraphrase of the deep sentence with the basic meaning (Harris), as well as in the formalizations of text linguistics and pragmalinguistics (Petöfi, van Dijk, and others) (criticized in Gorlée 2001). Beyond grammar in applied translation studies, the semantics of paragraphs includes the information conveyed by the sentence as a communicative combination of words (Nolan 1970, Fuchs 1982, and others). The meaning relations, conveyed by structuralist semioticians, possess individual meanings involving problems concerning sameness of shapes and forms (synonymy, contradictoriness, anomaly, tautology) to give meaning to the ambiguous combination of their semantic features in sentence meaning outside the original remnants of fossilized vocabulary (Hendricks 1973: 11-47).


dell’umanità», e «amore creativo» nella categoria personale di Peirce, «amore evolutivo» (CP: 6.287, 1893 e i paragrafi successivi) con il suo significato specifico.

L’OED insegna che la «parafrasi» tende a «esprimere il significato di una parola, frase, passo, o opera in altre parole, di solito allo scopo della più completa e più chiara esposizione» (OED 1989: 11: 204). «Parafrasi» era un termine per la cosiddetta traduzione libera (Gorlée 2005a: 31 e seguenti, 90 e seguenti). Storicamente (per una ricerca di interpretazione storica si veda Robinson 1998a), questo termine originariamente era un termine linguistico che deriva dallo stile retorico classico ed è stato preso in prestito dalla semiolinguistica moderna. L’informazione data dalla parafrasi divenne popolare nella tradizione della grammatica generativa di Chomsky come trasformazione di regole sintattiche dalla frase superficiale come parafrasi estese della frase profonda con il significato di base (Harris) così come nella formalizzazione della linguistica e della pragmalinguistica del testo (Petöfi, van Dijk, e altri) (presi in esame in Gorlée 2001). Oltre alla grammatica negli studi traduttivi applicati, la semantica dei paragrafi comprende l’informazione trasmessa dalla frase come combinazione comunicativa di parole (Nolan 1970, Fuchs 1982, e altri). Le relazioni di significato, trasmesse dai semiotici strutturalisti, possiedono significati individuali che implicano problemi che riguardano la somiglianza di forme e strutture (sinonimo, contraddittorietà, anomalia, tautologia) per dare significato alla combinazione ambigua delle loro
In general translation studies and particularly its source, Biblical translation studies, linguistic terms discussed the keyword of sameness of equivalence, in Umkodierung and Neukodierung, to refer to the replacement of the paraphrases and their diagnostic components from the canonical notations (Nida 1975: 65. n. 17) in sacred writings transposed to other genres.

These bridges tend to overcome the linear order of grammar of words and parts of words, which were discussed as linguistic twists or cultural turns (Robinson 1991) and transferred into semiotic (that is, a Peircean) terminology:

 

The sign-interpretant series is not a simple linear chain. It is rather to be thought of as a complex of initially independent sequences which join with one another, branch, join with still others, branch, and so on, such that by the end of the process all have ultimately contributed (like contributing rivers) to a final resultant interpretant. (Ransdell 1980: 175)

The semiosis of interpreting and translating signs generates a flow which goes back to the changing river statements by Heraclitus and used in semiotic theory as well as translation theory (see Sebeok’s discussion of semiosis as the ‘serendipitous yet comfortable confluence of sundry rivulets’ [1986: xii]).

caratteristiche semantiche nel significato della frase al di fuori dei residui originari del vocabolario fossilizzato (Hendricks 1973: 11-47).

Negli studi traduttologici generali e particolarmente nella loro fonte, gli studi traduttologici della Bibbia, i termini linguistici trattavano la parola chiave di «sameness of equivalence», in Umkodierung e Neukodierung, per riferirsi alla sostituzione delle parafrasi e dei loro componenti diagnostici dalle notazioni canoniche (Nida 1975: 65, nota 17) negli scritti sacri trasposti in altri generi.

Questi ponti tendono a superare l’ordine lineare della grammatica delle parole e delle parti delle parole, che sono state trattate come variazioni linguistiche o cambiamenti culturali (Robinson 1991) e trasferite nella terminologia semiotica (ossia peirciana):

La serie segno-interpretante non è una semplice catena lineare. Va semmai pensata come complesso di sequenze inizialmente indipendenti che si uniscono, si ramificano, si uniscono con altre ancora, si ramificano e così via, di modo che alla fine del processo tutte hanno dato un contributo definitivo (come i fiumi immissari) all’interpretante finale che ne risulta (Ransdell 1980: 175).

 

La semiotica dei segni interpretanti e traducenti genera un flusso che risale alle affermazioni di Eraclito sul fiume che cambia e usate nella teoria The semiotic sign is recodified as having an object which can be commented on, reworked or enlarged into a different-but-equivalent language. This translational use (abuse, disuse, reuse) of the linguistic, paralinguistic and non-linguistic functions of signs connects the paraphrase to Peirce’s use of interpretants as ‘the capacity of the system to specify any part of the system in a more analytic fashion’ (Nida 1975: 65), that is the temporary varieties at sentence level, beyond the limits of paraphrastic translation. Ransdell stated that in the three-way ‘branching and joining aspects’ of verbal elements, ‘Signs are not “logical atoms,” that is, ultimate units of analysis, and there are no absolutely “simple” signs; hence, what counts as a constituent sign is a matter of what it is profitable to regard as such, given one’s particular analytic aims (e.g., a word, a phrase, a sentence, a paragraph, or whatever)’ (1980: 176).

Pieces of discursive writing — that is, sentences — are complex signs. They may be exemplified by the syllogism, a constantly used example in Peirce’s writings. A syllogism is a compound sign that is built up, logically as well as linguistically, of three subsigns, which are in turn divisible, and which lead to a conclusion: ‘All conquerors are But­chers / Napoleon is a conqueror / Napoleon is a butcher’ (W: 1: 164, 1865), ‘It neither rains or it doesn’t rain / Now it rains/ It doesn’t rain’ (PW: 82, 1908) and many other syllogisms.


semiotica così come nella teoria traduttologica (si veda la discussione di Sebeok sulla semiotica come la «fortuita eppure comoda confluenza di diversi fiumicelli» [1986: xii]).

Il segno semiotico viene ricodificato come avente un oggetto che può essere commentato, rilavorato o esteso in un linguaggio diverso-ma-equivalente. Questo uso (abuso, disuso, riuso) traduttivo delle funzioni linguistiche, paralinguistiche e non linguistiche dei segni connette la parafrasi all’uso peirciano degli interpretanti come «la capacità del sistema di specificare ogni parte del sistema in modo più analitico» (Nida 1975: 65), ossia le varietà provvisorie a livello della frase, oltre i limiti della traduzione parafrastica. Ransdell ha affermato che negli «aspetti che diramano e riuniscono» triadici degli elementi verbali, «i Segni non sono “atomi logici”, ossia, unità sostanziale di analisi, e non c’è assolutamente nessun segno “semplice”; perciò quello che conta come segno costituente è un problema di cosa sia utile considerare tale, dati gli obiettivi analitici di ciascuno (per esempio, una parola, una locuzione, una frase, un paragrafo, o altro)» (1980: 176).

Le parti di scritti discorsivi – vale a dire, le frasi – sono segni complessi. Possono essere esemplificati dal sillogismo, un esempio costantemente usato negli scritti di Peirce. Un sillogismo è un segno composto che è formato, logicamente e linguisticamente, da tre sottosegni, che sono a loro volta divisibili, e che portano a una

The theater directory and the weather forecast published in the newspaper are, to Peirce, predictive signs (MS 634: 23, 1909); so are ‘the books of a bank’ (MS 318: 58, 1907) and ‘an old MS. letter … which gives some details about … the great fire of London’ (MS 318: 65, 1907). As a further verbal text-sign, Peirce even mentions ‘Goethe’s book on the Theory of Colors … made up of letters, words, sentences, paragraphs, etc.’ (MS 7: 18, 1904). In his writings, Peirce moreover presented and analyzed many sentence-signs, both grammatically complete or elliptic, such as Peirce’s favorite fragment about the pragmatic effects of the ‘blocking the road of inquiry’ (CP: 6.273, c.1893, CP: 6.64, 1892, CP: 1.153, 1.156, 1.170, 1.175, 1893). Other examples mentioned: ‘Napoleon was a liar’ (MS 229C: 505, 1905), ‘King Edward is ill’ (MS 800: 5, [1903?]), ‘Fine day!’ (MS 318: 69, 1907) (including the bricolage-like meaning of the exclamation point), ‘Let Kax denote a gas furnace’ (CP: 7.590 = W: 1: 497, 1866, with Peirce’s emphasis), ‘Any man will die’ (MS 318: 74, 1907), and ‘Burnt child shuns fire’ (CP: 5.473 = MS 318: 154-155, 1907). By the same token, Peirce wrote that ‘among linguistic signs, as ‘“If — then — ,” “— is — ,” “— causes —,” “— would be —,”— is relative to — for —,” “Whatever” etc.’” (CP: 8.350, 1908, see PW: 71, 1908) they contain a few blanks (bricolages) to be filled. Blanks are ‘among linguistic signs’ (CP: 8.350, 1908, see PW: 71, 1908) but are also silent messages without reference (Jakobson 1963: 159).

 

conclusione: «Tutti i conquistatori sono Macellai / Napoleone è un conquistatore / Napoleone è un macellaio» (W: 1: 164, 1865), «Né piove, né non piove, Ora piove, Non piove» (PW: 82, 1908) e molti altri sillogismi.

L’elenco dei cinema e le previsioni meteo pubblicate sul giornale sono, secondo Peirce, segni predittivi (MS 634: 23, 1909); così sono «i registri di una banca» (MS 318: 58, 1907) e «una vecchia lettera manoscritta […] che dà alcuni dettagli riguardo […] al grande incendio di Londra» (MS 318: 65, 1907). Peirce cita come ulteriore testo-segno verbale: «il libro di Goethe sulla Teoria dei Colori […] fatta di lettere, parole, frasi, paragrafi, eccetera» (MS 7: 18, 1904). Nei suoi scritti, Peirce inoltre presentava e analizzava molte frasi-segno, sia complete grammaticalmente sia ellittiche, quali il frammento preferito di Peirce riguardo agli effetti pragmatici dell’«ostacolare la strada della ricerca» (CP: 6.273, circa 1893, CP: 6.64, 1892, CP: 1.153, 1.156, 1.170, 1.175, 1893). Altri esempi: «Napoleone era un bugiardo» (MS 229C: 505, 1905), «Re Edoardo è malato» (MS 800: 5, [1903?]), «Bella giornata!» (MS 318: 69, 1907) (compreso il significato bricolage del punto esclamativo ), «Poniamo che Kax sia una fornace a gas» (CP: 7.590 = W: 1: 497, 1866, con corsivo di Peirce), «Qualsiasi uomo morirà» (MS 318: 74, 1907), e «Il bambino scottato evita il fuoco» (CP: 5.473 = MS 318: 154-155, 1907). Dallo stesso simbolo, Peirce scrisse che «tra i segni linguistici, quali: ”Se — allora — ,” “— è — ,” “— causa —,” “— sarebbe —,”— è relativo a — per —,”

Peirce’s favorite examples of sentence-signs were perhaps, chronologi­cally, ‘This stove is black’ (CP: 1.548, 1,551, 1867), ‘There is a [great] fire’ (CP: 8.112, c.1900, 2.305, 1901, 2.357, 1902), the mili­tary command ‘Ground arms!’ (e.g., CP: 5.473, 5.475, 1907, MS 318: 37, 175, 214, 244, 1907, CP: 8.176, 8.315, 1909) (with exclamation mark, terminating the emphasis) and ‘Cain killed Abel’ (CP: 1.365 = W: 6: 177, 1887-1888, CP: 2.230, c.1897, CP: 2.316, c.1902, PW: 70f., 1908, NEM: 3: 839, 1909, CP: 2.230, 1910). All of these sentences — Seconds including their First punctuation — were repeatedly used over the years to serve as illustrative examples in Peirce’s scholarly writings and their replications as practical examples in his correspondence. Their meaningful aspect of such replicas is particularly highlighted in Peirce’s figurative language and, paradoxically, the replicas integrated within his semio-logical writings. See the fragmentary but meaningful replicas concerning ‘Truth, crushed to earth, shall rise again’ (CP: 5.408 = W: 3: 274, 1878, CP: 1.217, 1902, MS: L75D: 234, 1902), Ralph Waldo Emerson’s verse ‘Of thine eyes I am eyebeam’ taken from his poem ‘The Sphinx’ (CP: 7.591 = W: 1: 498, 1866, CP: 7.425, c.1893, CP: 2.302, c.1895, CP: 1.310, 1907). The quoted effusions are poeticisms mentioned by Peirce, in fictional quoting: namely, without naming Shakespeare as their actual source, and at times without placing quotation marks to enclose the direct words or phrases ‘secretly’ borrowed.


“Qualsiasi cosa” eccetera» (CP: 8.350, 1908, si veda PW: 71, 1908) contengono alcuni spazi vuoti (bricolage) che devono essere riempiti. Gli spazi vuoti sono «tra i segni linguistici» (CP: 8.350, 1908, si veda PW: 71, 1908) ma sono anche messaggi silenziosi senza relazione (Jakobson 1963: 159).

Gli esempi preferiti di Peirce di frasi-segno forse erano, cronologicamente, «Questa stufa è nera» (CP: 1.548, 1,551, 1867), «è un [grande] fuoco» (CP: 8.112, circa 1900, 2.305, 1901, 2.357, 1902), il comando militare «Armi a terra!» (e.g., CP: 5.473, 5.475, 1907, MS 318: 37, 175, 214, 244, 1907, CP: 8.176, 8.315, 1909) (con tanto di punto esclamativo) e «Caino uccise Abele» (CP: 1.365 = W: 6: 177, 1887-1888, CP: 2.230, circa 1897, CP: 2.316, circa 1902, PW: 70 e seguenti , 1908, NEM: 3: 839, 1909, CP: 2.230, 1910). Tutte queste frasi — i Second che comprendono la punteggiatura dei First — venivano usate ripetutamente nel corso degli anni e servivano da esempi illustrativi negli scritti accademici di Peirce e le loro repliche come esempi pratici nella sua corrispondenza. L’aspetto significativo di tali repliche è particolarmente evidenziato nel linguaggio figurativo di Peirce e, paradossalmente, le repliche erano incorporate nei suoi scritti semio-logici. Si vedano le repliche frammentarie ma significative che riguardano «La verità, prostrata a terra, risorgerà ancora» (CP: 5.408 = W: 3: 274, 1878, CP: 1.217, 1902, MS: L75D: 234, 1902), il verso di Ralph Waldo Emerson «Dell’occhio tuo io sono il raggio» tratto dalla sua poesia «The Sphinx» (CP: 7.591 = W: 1: 498, 1866, CP: 7.425,

The paraphrase provides ‘a local habitation and a name’ (CP: 3.459, 1897, CP: 6.455, 1908) and is an indirect quotation from a passage in The Midsummer Night’s Dream; see the ubiquitous phrase in Peirce’s discourse about man’s ‘glassy essence’ (CP: 7.580 = W: 1: 491, CP: 7.585 = W: 1: 495, 1866, CP: 5.317 = W: 1: 242, 1868, CP: 6.238-6.271 title, 1892, CP: 6.301, 1893, CP: 8.311, 1897, CP: 5.519, c.1905) taken from Measure for Measure (Gorlée 2004a: 231f., 2005b: 266). All of these poetical lines, fictive and real, are meant as monitory illustrations, meant to enlighten the readers to the puzzlements in Peirce’s logico-semiotic terminology. These ‘grammatical emphatics’ (Weiss 2000: 3-5) add different ‘translatants’ to Peirce’s philosophical speech (Savan 1987-1988: 41, Gorlée 1994: 120) and provide the readers/interpreters with a balanced whole consisting of dramatic — lyric, factual, and logical — interpretants.The interpreted-translated meaning of groups of words is meaningful in the context of human reality, even taking into account the external and internals worlds in all of the proverbially thousand tongues.


circa 1893, CP: 2.302, circa 1895, CP: 1.310, 1907). Questi passi ripetuti sono poeticismi menzionati da Peirce nelle citazioni finzionali, vale a dire, senza nominare Shakespeare come la loro vera fonte, e a volte senza mettere le virgolette per racchiudere le parole o le frasi testuali «segretamente» prese in prestito.

La parafrasi fornisce «un’abitazione locale e un nome» (CP: 3.459, 1897, CP: 6.455, 1908) ed è una citazione indiretta da un passo in The Midsummer Night’s Dream; si veda la frase onnipresente nel discorso di Peirce sulla «vitrea essenza» dell’uomo (CP: 7.580 = W: 1: 491, CP: 7.585 = W: 1: 495, 1866, CP: 5.317 = W: 1: 242, 1868, CP: 6.238-6.271 titolo, 1892, CP: 6.301, 1893, CP: 8.311, 1897, CP: 5.519, circa 1905) presa da Measure for Measure (Gorlée 2004a: 231 e seguenti, 2005b: 266). Tutte queste linee poetiche, fittizie o reali, sono intese come illustrazioni ammonitrici, che vogliono illuminare i lettori sulle perplessità della terminologia logico-semiotica di Peirce. Queste «grammatical emphatics» (Weiss 2000: 3-5) aggiungono diversi «translatant» al discorso filosofico di Peirce (Savan 1987-1988: 41, Gorlée 1994: 120) e offrono ai lettori/interpreti un tutto bilanciato e formato da interpretanti drammatici, lirici, fattuali e logici. Il significato interpretato-tradotto dei gruppi di parole è significativo nel contesto della realtà umana, anche prendendo in esame i mondi interni ed esterni in tutte le proverbiali mille lingue[2].


Riferimenti bibliografici

Almeida Ivan (1979). Trois cas de rapports intra-textuals : la citation, la parabolisation, le commentaire. In Semiotique et Bible : Bulletin d’études et d’échanges 15 : 23-42.

Baxtin Michail M. (1990). Das Problem des Textes in der Linguistik, Philologie und anderen Humanwissenschaften. Versuch einer philosophischen Analyse, Johana-Renate Döring-Smitnov, Aage A. Hansen-Löve, Walter Koschmal and Herta Schmid (German trans. and comm.). In Poetica 22-3/4: 436-487.

Bonfantini Massimo A., Opere, Bompiani, Milano 2003.

Brent, Joseph (1993). Charles Sanders Peirce: A Life. Bloomington,

Capra Fritjof, Il tao della fisica, Adelphi, Milano 1982.

Chesterton Gilbert Keith, Ortodossia, Morcelliana, Brescia 1960.

Colapietro Vincent M. (1993). Glossary of Semiotics. New York: Paragon House.

Defoe Daniel, La vita e le straordinarie, sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, Garzanti Editore, 1976.

Dumont Jean-Paul (1985). Who are the bricoleurs? In American Journal of Semiotics 3-3: 29-48

Eisele Carolyn (1979). Studies in the Scientific and Mathematical Philosophy of Charles S. Peirce, R.M. Martin (ed.) (=Studies in Philosophy, 29). The Hague, Paris and New York: Mouton

 

Gallie W.B. (1952), Introduzione a Peirce e il Pragmatismo, Universitaria G. Barbera, Firenze 1965.

Gorlée Dinda L. (1990). Degeneracy: A reading of Peirce’s writing. In Semiotica 81-1/2: 71-92.

— (1993). Evolving through time: Peirce’s pragmatic maxims. In Semiosis: Internationale Zeitschrift für Semiotik und Ästhetik 3/4: 3-13.

— (1994). Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (=Approaches to Translation Studies, 21). Amsterdam and Atlanta, GA: Rodopi.

— (1997). Bridging the gap: A semiotician’s view on translating the Greek classics. Perspectives: Studies in Translatology 5 (2): 153-169.

— (2000). Text semiotics: Textology as survival-machine. In Sign System Studies 28: 134-157.

— (2001). Imagery of text semiotics. In Mission, Vision, Strategies, and Values: A Celebration of Translator Training and Translation Studies in Kouvola, Pirjo Kukkonen and Ritva Hartama-Heinonen (eds.), 59-68. Helsinki: Helsinki University Press.

— (2003). Meaningful mouthfuls in semiotranslation. In Translation Translation, Susan Petrilli (ed.) (=Approaches to Translation Studies, 21), 235-252. Amsterdam and New York, NY: Rodopi.

— (2004). On Translating Signs: Exploring Text and Semio-Translation (=Approaches to Translation Studies, 24). Amsterdam and New York, NY: Rodopi.

— (2004a).  Horticultural roots of translational semiosis. In Macht der Zeichen: Zeichen der Macht, Festschrift für Jeff Bernard / Signs of Power: Power of Signs, Essays in Honor of Jeff Bernard, Gloria Withalm and Josef Wallmannsberger (eds.) (=TRANS-Studien zur Veränderung der Welt, 3): 164-187. Vienna: INST

— (2005a). Singing on the breath of God: Preface to life and growth of translated hymnody. In Song and Significence: Virtues and Vices of Vocal Translation, Dinda L. Gorlée (ed.) (=Approaches to Translation Studies, 25), 17-101. Amsterdam and New York, NY: Rodopi.

— (2005). Hints and guesses: Legal modes of  semio-logical reasoning. In Sign Systems Studies 33 (2): 239-272.

— (forthcoming ). Jakobson and Peirce: Translational intersemiosis and the symbiosis of opera. In Sign Systems Systems (2007).

Greimas, A. J. and Courtès, J. (1982). Semiotics and Language: An Analytical Dictionary (=Advances in Semiotics), Larry Christ, Daniel Patte, James Lee, Edward McMahon II, Gary Phillips and Michael Rengstorf (English trans.). Bloomington, IN: Indiana University Press [French original: Sémiotique: Dictionnaire raisonné de la théorie du language. Paris: Hachette, 1979].

Hartshorne, Charles and Weiss, Paul (1931). Introduction. In: Peirce, Charles S. (1931-1966). Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1, Charles Hartshorne and Paul Weiss (eds.), iii-vi. Cambridge, MA: Belknap Press of Harvard University Press

 

Hendricks, William O. (1973). Essays on Semiolinguistic and Verbal Art  (=Approaches to Semiotics, 37). The Hague and Paris: Mouton

 

Houser, Nathan (1992). The fortunes and misfortunes of the Peirce papers. In Signs of Humanity / L’homme et ses signes, Gerard Deledalle (gen. ed.), Michel Balat and Janice Deledalle-Rhodes (eds.) (=Approaches to Semiotics, 107), 3 vols., vol. 3: 1259-1268. Berlin etc.: Mouton de Gruyter

 

Houser, Nathan and Kloesel, Christian (1992). Foreword. In: Essential Peirce: Selected Philosophical Writings, vol. 1 (1867, Nathan Houser and Christian Kloesel (eds.), xi-xvii. Bloomington and Indianapolis, IN: Indiana University

 

Jakobson, Roman (1959). On linguistic aspects of translation. In On Translation, Reuben A. Brower (ed.), 232-239. Cambridge, MA: Harvard University Press.

— (1961). Linguistics and communication theory. In Structure of Language and Its Mathematical Aspects, Roman Jakobson (ed.) (=Proceedings of Symposia in Applied Mathematics, 12), 245-252. Providence, Rhode Island: American Mathematical Society.

— (1963). Parts and wholes in language. In Parts and Wholes, Daniel Lerner (ed.), 157-162. New York, NY: The Free Press of Glencoe and London: Macmillan Company.

— (1971). Studies on Child Language and Aphasia (=Janua Linguarum, Series Minor, 114). The Hague and Paris: Mouton.

— (1971a). Signe zéro. In his Selected Writings II: Word and Language, 211-219. The Hague and Paris: Mouton..

— (1971b). Das Nullzeichen. In his Selected Writings II: Word and Language, 220-222. The Hague and Paris: Mouton.

— (1980). The Framework of Language (=Michigan Studies in the Humanities, 1). Ann Arbor, MI: University of Michigan.

— and Waugh, Linda R. (1979). The Sound Shape of Language. Brighton: Harvester Press.

Kevelson, Roberta (1998). On Sign Zero. In her Peirce’s Pragmatism: The Medium as Method (=Critic of Institutions, 15), 124-135. New York etc.: Peter Lang.

Koch, Walter A. (ed.) (1989). Das Ganze und seine Teile / The Whole and Its Parts (=Proceedings of Symposium in Ruhr University in Bochum 1987). Bochum: Studienverlag Dr. Norbert Brockmeyer

 

Kurzon, Dennis (1997). Discourse of Silence (=Pragmatics & Beyond, New Series, 49). Amsterdam and Philadelphia: John Benjamins Publishing Company.

Lange-Seidl, Erika (1986). Zero-Sign. In Encyclopedic Dictionary of Semiotics, Thomas A. Sebeok (gen. ed.) (=Approaches to Semiotics, 73). 3 vols., vol. 2: 1177-1178. Berlin etc.: Mouton de Gruyter.

Lévi-Strauss, Claude (1966). Il pensiero selvaggio, EST, Milano 1996, [French original : La pensée sauvage. Paris: Plon, 1962

 

 

Liszka, Jakób (1981). Peirce and Jakobson: Towards a structuralist reconstruction of Peirce. In: Transactions of the Charles S. Peirce Society 17: 41-61.

Lohmann, Patricia (1988). Connectedness of texts: A bibliographical survey. In Text and Discourse Constitution: Empirical Aspects, Theoretical Approaches, János S. Petöfi (ed.) (=Research in Text Theory / Untersuchungen zur Texttheorie), 478-501. Berlin and New York: Walter de Gruyter.

Milton, John (1972). Paradise Lost: Books I-II, John Broadbent (ed.). Cambridge: Cambridge University Press [First edition Paradise Lost published in 1667 and 1674].

(1975). Paradise Lost: Books V-VI, Robert Hidge and Isabel G. Maccaffrey (eds.). Cambridge: Cambridge University Press [First edition Paradise Lost published in 1667 and 1674].

(1863). Paradiso Perduto: Libro 5, traduzione italiana di Andrea Maffei, Felice Le Monnier, Firenze.

Montgomery, Scott L. (2000). Science in Translation: Movements of Knowledge Through Cultures and Time. Chicago, IL: The University of Chicago Press.

Neville, Robert Cummings (2000). The Truth of Broken Symbols (=SUNY Series in Religious Studies). Albany, N.Y.: State University of New York Press.

Nida, Eugene A. (1964). Towards a Science of Translating: With Special Reference to Principles and Procedures Involved in Bible Translating. Leiden: Brill.

— (1975). Componential Analysis of Meaning: An Introduction to Semantic Structures. The Hague and Paris: Mouton.

Nolan, Rita (1970). Foundations for an Adequate Criterion of Paraphrase (= Janua Linguarum, Series Minor, 84). The Hague and Paris: Mouton.

Oxford English Dictionary, The (1989), J.A. Simpson and E.S.C. Weiner (eds.). 20 vols. Oxford: Clarendon Press [In-text references OED 1989: vol#: page#].

Peirce, Charles S. (1931-1966). Collected Papers of Charles Sanders Peirce, Charles Hartshorne, Paul Weiss and Arthur W. Burks (eds.) 8 vols. Cambridge, MA: Belknap Press of Harvard University Press [In-text references CP: vol# paragraph#].

— ([1958]1966). Charles Sanders Peirce: Selected Writings, Values in a Universe of Chance, Philip P. Wiener (ed.). New York: Dover [In-text references SW: page].

—  (1968). Über die Klarheit unserer Gedanken / How to Make Our Ideas Clear, Klaus Oehler (ed., trans.). Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann [In-text references Peirce, German trans. Oehler 1968: page#].

— (1974). Escritos coligidos. In Charles Sanders Peirce: Escritos coligidos; Gottlob Frege Sobre a justificacão científica de uma conceitografia & Os fundamentos da aritmética, Armando Mora D’Oliveira & Sergio Pomarangblum (Portuguese trans.): 7-192. São Paulo: Victor Civita. [In-text references Peirce, Portuguese trans. Mora D’Oliveira and Pomarangblum 1974: page#].

— (1975-1987). Contributions to The Nation, Kenneth Laine Ketner & James Edward Cook (eds.). 4 vols. Lubbock, TX: Texas Tech Press [In-text references CTN: vol#: page#].

— (1976). Schriften zum Pragmatismus und Pragmatizismus, Karl-Otto Apel (ed.), Gert Wartenberg (German trans.). Frankfurt am Main: Suhrkamp. [In-text references from 1st ed. Peirce, German trans. Wartenberg 1967: page#].

— (1977). Semiotics and Significs: The Correspondence Between Charles S. Peirce and Victoria Lady Welby, Charles S. Hardwick (ed.). Bloomington, IN and London: Indiana University Press [In-text references PW: page#].

— (1979).  The New Elements of Mathematics by Charles Sanders Peirce, Carolyn Eisele (ed.). 4 vols. The Hague and Paris: Mouton/Atlantic Highlands, NJ: Humanities Press [In-text references NEM: vol#: page#].

— (1982-2000). Writings of Charles S. Peirce: A Chronological Edition, Peirce Edition Project (ed.). 6 vols. Bloomington and Indianapolis, IN: Indiana University Press. [In-text references W: vol#: paragraph#].

— (1986-1993). Charles S. Peirce — Semiotische Schriften, Christian Kloesel and Helmut Pape (ed. & trans.). 3 vols. Frankfurt am Main: Suhrkamp. [In-text references Peirce, German trans. Kloesel & Pape 1986-1993: page#].

— (1987). Obra lógico-semiótica, Armando Sercovich (ed.) (=Collección Noesis de Comunicación), Ramón Alcalde & Mauricio Prelooker (Spanish trans.). Madrid: Taurus [In-text references Peirce, Spanish trans. Alcalde & Prelooker 1987: page#].

— (1992). The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings, vol. 1 (1867-1893), Nathan Houser & Christian Kloesel (eds.). Bloomington and Indianapolis, IN: Indiana University Press [In-text references ES: 1: page#].

— (1995). Semiótica, José Texeira Coulho Neto (Portuguese trans.). 2a ed. São Paulo: Editora Perspectiva. [In-text references Peirce, Portuguese trans. Texeira Coelho Netto 1995: page#].

—  (1996). Un argumento olvidado en favor de la realidad de Dios (=Serie Universitaria, 34), Sara F. Barrena (Spanish trans., intro.). Pamplona: Cuadernos de Anuario Filosófico. [In-text references Peirce, Spanish trans. Barrena 1996: page#].

— (1998). The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings, vol. 2 (1893-1913), Peirce Edition Project (eds.). Bloomington and Indianapolis, IN: Indiana University Press. [In-text references ES: 2: page#].

— (2001). Johdatus tieteen logiikkaan — Ja muita kirjoituksia, Markus Lång (trans.). [In-text references Peirce, Finnish transl. Peirce, Lång 2001: page#)

— (Unpublished manuscripts). Peirce Edition Project. Indianapolis, IN: Indiana University-Purdue University. [In-text references MS# : page#].

Pharies, David A. (1985). Charles S. Peirce and the Linguistic Sign (=Foundations of Semiotics, 9). Amsterdam and Philadelphia: John Benjamins

 

Quéré, Henry (1988). Sur le fragment. In Semiotica del frammento, Remo Cesarani, Donatella Ferrari Bravo, Paolo Pugliatti and Henry Quéré (eds.) (=Documenti di Lavoro e Pre-publicazioni, Serie B, 170-171-172), 44-56. University of Urbino: Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica

 

Ransdell, Joseph (1980). Semiotic and linguistics. In The Signifying Animal: The Grammar of Language and Experience, Irmengard Rauch and Gerald F. Carr (eds.) (=Advances in Semiotics), 135-185. Bloomington, IN: Indiana University Press

 

Robin, Richard S. (1967). Annotated Catalogue of the Papers of Charles S. Peirce. Amherst, MA: University of Massachusetts Press.

(1971).  The Peirce Papers: A supplementary catalogue. In Transactions of the Charles S. Peirce Society 7/1: 37-

 

Rosenthal, Sandra B. (1994). Charles Peirce’s Pragmatic Pluralism (=SUNY Series in Philosophy). Albany, NY: State University of New York Press.

Rotman, Brian (1987). Semiotica dello zero, Spirali, Milano 1988.

 

Savan, David (1987-1988). An Introduction to C.D. Peirce’s Full System of Semiotic (=Monograph Series, 1). Toronto: Toronto Semiotic Circle

 

Sebeok, Thomas A. (1971). On chemical signs. In Essays in Semiotics / Essais de sémiotique, Julia Kristeva, Josette Rey-Debove and Donna Jean Umiker (eds.) (=Approaches to Semiotics, 4), 549-559. The Hague & Paris : Mouton.

— (1986). I Think I Am a Verb: More Contributions to the Doctrine of Signs (=Topics in Contemporary Semiotics). New York and London: Plenum Press. Biblioteca nazionale Braidense – Milano – MI

Shipley, Joseph T. (ed.) (1972). Dictionary of World Literature,.  Revised and reprinted ed. Totowa, NJ: Littlefields, Adams and Co.

Short, T.L. (1998). Jakobson’s problematic appropriation of Peirce. In The Peirce Seminar Papers (Vol. 3: Essays in Semiotic Analysis), Michael Shapiro (ed.), 89-123. New York etc.: Peter Lang.

Toury, Gideon (1986). Translation: A Cultural-Semiotic Perspective. In  Encyclopedic Dictionary of Semiotics, Thomas A. Sebeok (gen. ed.) (=Approaches to Semiotics, 73). 3 vols., vol. 2: 1111-1124. 3 vols. Berlin etc.: Mouton de Gruyter.

Waugh, Linda R. (1986). Idiolect. In  Encyclopedic Dictionary of Semiotics, Thomas A. Sebeok (gen. ed.) (=Approaches to Semiotics, 73). 3 vols., vol. 1: 337. Berlin etc.: Mouton de Gruyter.

Weiss, Paul (2000). Emphatics. Nashville, TN: Vanderbilt University Press.

— (2002). Surrogates. Foreword Robert Cummings Neville. Bloomington and Indianapolis, IN: Indiana University Press.

Werlich, Egon (1976). A Text Grammar of English. Heidelberg: Quelle & Meyer.

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

2. Analisi traduttologica


2.1 Dinda Gorlée studiosa di Peirce

L’autrice di questo saggio, Dinda L. Gorlée, è una studiosa olandese di linguistica e semiotica. Tra le sue numerose pubblicazioni figurano: Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Rodopi, 1994), Grieg’s Swan Songs (in Semiotica 142 1/4:153-210, 2002), On Translating signs: Exploring text and Semio-Translation (Rodopi, Amsterdam-New York 2004).

La Gorlée ha fondato la Norwegian Association for Semiotic Studies; è inoltre membro del comitato esecutivo all’interno della IASS (International Associaton for Semiotic Studies) in rappresentanza dei Paesi Bassi.

Ha collaborato come ricercatrice presso numerose università, tra cui l’Indiana University, le università di Amsterdam, Vienna e Ouagadougou (Burkina Faso). Si interessa di traduzione biblica e legale (la sua agenzia a L’Aia si occupa proprio di traduzione giuridica).

2.2 Broken Signs

Questo testo in particolare è dedicato ai frammenti di Peirce, il frammento è una «porzione ancora esistente di un testo o di una composizione il cui tutto è andato perso» (OED 1989: 6: 137), vale a dire alle parti dei suoi scritti che non sono state pubblicate nelle raccolte delle sue opere, e anche quelle che vi figurano, in quanto la loro compilazione è necessariamente arbitraria.

Esiste in particolare una raccolta “ufficiale” dei suoi scritti, ma questa è frammentata e risulta molto complicato consultarla. Il saggio è suddiviso in capitoli, la mia traduzione ha riguardato i primi tre capitoli: Inganni e verità nei labirinti di Peirce, I frammenti e il tutto e Bricolage, parafrasi e manoscritto.

L’intento dell’autrice è quello di dimostrare che la raccolta degli scritti di Peirce è frammentata a causa della realizzazione a più mani dell’edizione di tutto ciò che il semiotico ha scritto nell’arco della sua vita. Come ci dice la Gorlée, non si possono considerare le opere pubblicate di Peirce come qualcosa di finito. L’autrice sostiene che i curatori e traduttori della raccolta abbiano ignorato determinate alternative che gli scritti di Peirce contemplavano. Gli stessi primi curatori dei Collected Papers, Charles Harsthorne e Paul Weiss, affermano che sembra quasi che lo stesso Peirce fosse incapace di scegliere una forma finale per i suoi scritti i quali, molto spesso, erano senza data e titolo. La massima del filosofo a proposito dei suoi scritti era proprio questa:

Tutto ciò che si può trovare stampato del mio lavoro sulla logica sono semplicemente affioramenti sparsi qua e là di una vena ricca che resta inedita. Penso che perlopiù sia stata scritta; ma nessun essere umano potrebbe mai mettere insieme i frammenti. Non ci sono riuscito nemmeno io (epigramma CP: 2.xii, 1903 [mia traduzione]).

Si ha dunque la riprova di quanto complesso sia stato e sia ancora il lavoro per i curatori: «poiché le dottrine che presentano sono troppo importanti per essere omesse, gli scritti e i frammenti spesso vanno inclusi sebbene si sia certi che l’autore nella loro presente condizione non li avrebbe dati alle stampe».

 

2.3 Charles Sanders Peirce

Peirce, nonostante sia uno dei più grandi filosofi americani, in vita non pubblicò neanche un libro, tutti i suoi scritti sono apparsi su giornali e riviste; moltissimi sono rimasti inediti. Proprio per questo motivo la diffusione del suo pensiero ne viene ostacolata. I Collected Papers sono la prima raccolta dei suoi scritti e vennero pubblicati dalla Harvard University tra il 1931 e il 1958. Charles Sanders Peirce (1839-1914) è stato un importante studioso e padre della moderna semiotica (o teoria del segno, inteso come atto che consenta la possibilità di una comunicazione). Negli ultimi decenni il suo pensiero è stato fortemente rivalutato fino a porlo tra i principali innovatori in molti campi, specialmente nella metodologia della ricerca e nella filosofia della scienza.

Ma Peirce è anche il fondatore del «pragmatismo», a cui cambierà poi il nome in «pragmaticismo» per differenziarsi dall’amico William James, importante psicologo. Infatti Peirce rimproverava a James di aver impoverito il pragmatismo attraverso l’esclusione del suo fondamento logico-semiotico, che per Peirce è parte integrante di una teoria della conoscenza. Secondo Peirce, nella concezione semiotica, i segni sono le parole ma sono anche tutti gli oggetti che vengano percepiti come segni. Da qui, ogni processo semiotico ha tre punti focali: un oggetto (segno), un pensiero o idea che fa da tramite (interpretante) e il significato del primo segno (oggetto) a cui si arriva tramite il processo sopraccitato. (Osimo, 2002: 65-66)

 

2.4 La traduzione saggistica

La traduzione di questo saggio ha presentato alcune criticità a causa della lingua, l’autrice è infatti di madrelingua olandese ma il testo è stato redatto in inglese.

Tuttavia, questo aspetto è uno tra i più marginali; le difficoltà vere e proprie sono sorte a causa della terminologia specifica a cui è stato necessario fare riferimento. Trattandosi di un saggio scientifico non divulgativo ma destinato a un pubblico specializzato, è stato necessario usare termini tipici delle semiotica. All’interno di questa disciplina – come peraltro accade in pressoché tutte le discipline – esistono poi sottocodici che rappresentano la visione concettuale condivisa soltanto da alcuni ricercatori. In questo caso, si notano come minimo due sottocodici: quello della semiotica peirciana e quello tipico proprio dell’autrice del saggio stesso.

Riuscire, però, a stabilire una giusta definizione di «testo tecnico» e «testo narrativo» è un compito decisamente arduo, soprattutto perché il testo saggistico condivide alcune caratteristiche sia con l’una, sia con l’altra categoria. Per spiegare questa suddivisione riporto la tabella di Osimo (2006: 26), precisando che con «scientifico» si indicano anche i testi “tecnici”.

 

poetico narrativo teatrale filmico saggistico scientifico
finzionalità non fiction
eleganza formale non eleganza formale
assenza di tecnicismi tecnicismi
uso libero della parola uso non libero della parola
non terminologia terminologia
tono non necessariamente serio (es. ironia) serietà del tono
obiettivo non necessariamente serio serietà dell’obiettivo

 

Dalla tabella si evince che il testo saggistico rappresenta un vero territorio di frontiera: il testo saggistico divulgativo ha uno stile diretto di modo che possa essere accessibile a un pubblico vasto, il testo saggistico scientifico si rivolge a un pubblico più specializzato e, per farlo, usa molti termini tecnici, tipici di un certo settore. Per «termine» intendiamo:

[…] una parola utilizzata in un contesto tecnico-settoriale con un significato preciso. Esistono contesti simili in tutti gli àmbiti specifici, specialistici. La straordinaria libertà di linguaggio che caratterizza l’espressione normale qui è assente. Nel contesto specialistico, la dominante del discorso è sempre la precisione di riferimento. Dato che il linguaggio naturale è per sua natura impreciso e polisemico e connotativo, e si presta a molteplici interpretazioni, negli àmbiti settoriali quest’ampiezza espressiva viene fortemente limitata in modo artificiale. Si stabilisce – spesso in contesti tecnici, con incontri internazionali tra tecnici di un determinato settore – la terminologia settoriale, dalla quale chiunque voglia farsi intendere con precisione non deve mai discostarsi (Osimo 2004: 83).

2.5 Tradurre Peirce in italiano

Nel testo ricorrono molto spesso i termini «Firstness», «Secondness» e «Thirdness» e derivati. Questi tre lemmi sono stati coniati da Peirce che li definisce così:

Firstness is the mode of being of that which is such as it is, positively and without reference to anything else. Secondness is the mode of being of that which is such as it is, with respect to a second but regardless of any third. Thirdness is the mode of being of that which is such as it is, in bringing a second and third into relation to each other (A Letter to Lady Welby, CP 8.328, 1904).

 

La ricerca di traducenti in italiano non sarebbe complessa, ma si è scelto di lasciare il termine in inglese, scelta peraltro condivisa anche da alcune pubblicazioni e tesi dottorali:

 

Il segno peirciano riceve una tale importanza da determinare sia lo statuto delle nostre idee («anche le idee sono segni») che il valore conoscitivo degli oggetti. Con la sua divisione basale (firstness, secondness e thirdness) riesce a gerarchizzare i segni, per esempio, a seconda delle loro determinazioni oggettive (il «simbolo» è un segno della thirdness, in cui sono inscatolate la firstness e la secondness). Dopo Peirce, nessuno può ancora negare la pertinenza filosofica del segno (Verdru 1987).

 

Massimo Bonfantini nelle Opere ha deciso di proporre una traduzione: «Primità», «Secondità», «Terzità», ho scelto però di mantenere i termini in inglese perché questi termini sono usati esclusivamente nell’ambito della semiotica peirciana, i cui specialisti sono necessariamente in grado di capire i tre termini tanto in inglese quanto in italiano. Ho inoltre preferito creare un metatesto che fosse adeguato e non accettabile.

Lo scienziato della traduzione Toury ha ben distinto questi due aspetti della traduzione. Una traduzione adeguata è una traduzione che mantiene le caratteristiche culturali del prototesto, il traduttore è un mediatore che aiuta il lettore ad avvicinarsi al prototesto, senza però modificarlo cercando di far passare il metatesto per un originale. Per illustrare meglio la differenza riporto le tabelle di Osimo (2001: 80):

 

Prototesto Cultura altrui  
Distanza cronotopica <—————– <—Senso della mediazione
Metatesto Cultura altrui nella propria

 

Una traduzione accettabile è una traduzione che adatta il prototesto alla cultura ricevente, “normalizzando” gli aspetti culturali estranei, i realia vengono o sostituiti con realia della cultura ricevente, oppure standardizzati (Osimo 2001:82).

 

Prototesto (autore) Cultura altrui  
Distanza cronotopica —————–> <—–Senso della mediazione
Metatesto (lettore) Appropriazione della cultura altrui

 

 

 2.6 Musement e amusement

L’autrice, nel testo, “gioca” con la definizione di musements di Peirce, accostandola all’idea di amusements sebbene specifichi che:

 

Mostrare l’interazione dinamica del truismo triadico di Peirce, vale a dire l’amusement (che non è l’opposto del musement)…

 

Peirce chiama il gioco delle libere associazioni mentali play of musement e lo considera un’attività disinteressata che «non richiede alcuno scopo eccetto quello di mettere da parte ogni scopo serio». Il pensiero, liberatosi da ogni compito specifico, può vagare indisturbato da interpretante a interpretante. Il musement non ha un vero e proprio scopo, però può rivelarsi molto utile ai fini della riflessione scientifica. L’interprete può quindi sentirsi libero di abbandonare i sentieri interpretativi, relativamente più sicuri, per percorrere e scoprire piste più insolite, per formulare concetti inconsueti, ipotesi improbabili, supposizioni azzardate. Solitamente, quando si mettono a confronto con l’evidenza empirica tutte queste meditazioni incontrollate, esse vengono falsificate. «Ma può anche capitare che, a forza di intrecciare segni senza un ordine preciso, ci si imbatta in un’abduzione creativa la quale, successivamente, rivelerà tutto il proprio valore euristico».

«La funzione del musement è di porre l’interprete in stato di massima apertura nella fase di ideazione delle ipotesi». Ma, come osserva Bonfantini:

 

questa procedura per l’ideazione poteva essere raccomandata, anziché giudicata eccessivamente rischiosa e dispendiosa, solo sulla base dell’assunto che fra tutte le ipotesi così liberamente prospettate se ne offrissero un buon numero di approssimativamente vere. Ora a Peirce sembrava che in questo inventivo “tirare a indovinare” spesso fosse effettivamente capitato all’uomo di indovinare giusto (Bonfantini, 1987: 72).

 

L’amusement è:

amusement

noun

1 [U] the feeling of being entertained or made to laugh:

She looked at him with amusement.

I looked on in amusement as they started to argue.

Carl came last in the race, (much) to my amusement.

I play the piano just for my own amusement (= to entertain myself not other people).

 

2 [C] an activity that you can take part in for entertainment:

There was a range of fairground amusements, including rides, stalls and competitions.

 

Per Peirce, come dice la Gorlée, l’amusement è «un’occupazione che attiva la mente per raggiungere l’eccitamento» e «non è necessariamente divertente e ilare; e nonostante sia piacevole, non è l’essenza del piacere. La sua vera ragione è l’impulso a vivere attivamente» (MS 1135: 118, [1895]1896).

 

Nella traduzione ho, quindi, scelto di mantenere il gioco di parole, tradurre amusement con: «divertimento», «passatempo», non avrebbe permesso al lettore italiano di percepire l’intento dell’autrice nel prototesto.

 

2.7 Le citazioni

L’autrice nel suo saggio fa ricorso a numerose citazioni sia da Peirce, sia da altri autori. La maggior parte dei libri da cui sono tratte non sono stati tradotti in italiano; ho quindi deciso di proporre una mia traduzione. Per quanto riguarda le citazioni da Peirce, il discorso si fa leggermente più complesso, l’unica opera in italiano sul semiotico statunitense è: Opere, a cura di M. A. Bonfantini, che raccoglie parte degli scritti di Peirce usciti come Collected Papers; poiché si tratta di una raccolta “frammentata” – nella scelta di questo aggettivo mi ispiro all’autrice del saggio che ho tradotto – non è possibile riuscire a trovare tutte le citazioni e anche in questo caso ho proposto una mia traduzione, segnalandolo, però, all’interno del testo.

Nel caso specifico della traduzione della citazione dal Paradise Lost di John Milton, a pagina 20, ho deciso di proporre una mia traduzione sebbene esista una traduzione italiana “ufficiale”.

 

‘providence, foreknowledge, will, and fate’ of the discussions are characterized by ‘fixed date, free will, foreknowledge absolute … [which] found no end in wandering mazes lost’ (Milton’s Paradise Lost, Book 2, lines 558-561, quoted from Milton 1972: 103).

“la provvidenza, la prescienza, la volontà e il fato” delle discussioni sono caratterizzate da “date fissi, libero arbitrio, prescienza assoluta … [la quale] non ha fine interrogandosi sulla perdita dei labirinti’ (Paradise Lost, di Milton, Libro 2, versi 558-561, citazione da Milton 1972: 103).

 

La parola chiave in questo testo è appunto «mazes», che è presente anche in Peirce: «Some amazing mazes» (title of CP: 4.585 and note, 1908) che si è scelto di tradurre:  «alcuni labirinti sorprendenti» (titolo di CP: 4.585 e nota, 1908); il concetto espresso dalla Gorlée è proprio quello della difficoltà di relazione tra il tutto e le parti, presenti nelle opere di Peirce. Nella traduzione italiana esistente in commercio non compare la traduzione di «mazes» come «labirinti», quindi, per non creare un residuo, la scelta è stata di privilegiare il messaggio veicolato dal prototesto.

Per quanto riguarda le citazioni di Milton presenti a pagina 92, si è scelto di mantenere la traduzione italiana esistente, in quanto non c’era nessuna “parola chiave” che fosse necessario preservare per salvaguardare il rimando intratestuale.

 

Nell’ultima frase del testo l’autrice parla di «proverbially thousand tongues»; a un primo approccio alla traduzione non mi era molto chiaro cosa intendesse nello specifico, e darne una semplice traduzione letterale non avrebbe reso comprensibile il testo. Dopo una ricerca su internet, ho scoperto che è una citazione tratta da un inno sacro scritto da Charles Wesley, un pastore metodista vissuto nel Settecento in Inghilterra, il quale durante la sua vita ha scritto più di seimila inni sacri. Con il fratello John fondarono il movimento dei Metodisti. I suoi inni sono stati spesso utilizzati negli incontri di dialogo tra chiesa romana e chiese metodiste, soprattutto per quel che riguarda i concetti teologici dell’universalità della chiesa, della vita sacramentale e della santificazione. Il verso è tratto da un suo inno apparso in Hymns and Sac­red Po­ems, raccolta di inni sacri pubblicata nel 1740:

 

O for a thousand tongues to sing My great Redeemer’s praise, The glories of my God and King, The triumphs of His grace!

 

Per il lettore italiano la citazione non è per nulla ovvia, quindi senza questa mia spiegazione metatestuale si creerebbe un residuo comunicativo, in particolare una certa perplessità davanti all’aggettivo «proverbiale». Al contrario, per il lettore anglosassone c’è meno difficoltà a capire il riferimento poiché Charles Wesley è molto noto, e da qui il significato dell’aggettivo.

 

A pagina 90 della traduzione è stato necessario aggiungere una nota che spiegasse al lettore italiano l’espressione «to join brick and mortar», quest’espressione è stata coniata dall’autrice del saggio ed è ispirata al filosofo viennese Wittgenstein, letteralmente significa: «unire mattoni e cemento». La Gorlée ne fa un uso metaforico, per brick intende il segno in quanto tale, invece il mortar è l’oggetto a esso unito.

 

 

2.8 Conclusione

Questo lavoro, per la sua complessità, ha costituito per me una vera e propria sfida. Sono state messe alla prova non solo le mie abilità traduttive in senso strettamente interlinguistico, ma anche quelle di trasposizione interculturale (tipiche soprattutto delle versioni narrative) e quelle terminologiche (tipiche soprattutto delle versioni settoriali). L’aspetto più gratificante e emozionante è stato, però, tradurre le parole di Peirce, le citazioni per cui ho proposto una mia traduzione poiché in Opere non comparivano.


Riferimenti bibliografici

 

Osimo B. La traduzione saggistica dall’inglese. Guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3741-X.

Osimo B. Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Seconda edizione, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203-3269-8.

Osimo B. Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.

Osimo B. Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002, ISBN 88-203-3073-3.

Osimo B. Traduzione e qualità. La valutazione in ambito accademico e professionale, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203-3386-4.

Peirce C. S. Charles Sanders Peirce, Opere, a c. di Massimo A. Bonfantini con la collaborazione di Giampaolo Proni, Milano, Bompiani il pensiero occidentale, 2003, ISBN 88-452-9216-9.

Peirce C. S. 1866-1913 The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1-6 a c. di Paul Weiss, vol. 7-8 a c. di Arthur W. Burks, Cambridge (Massachusets), Harvard University Press 1931-1935, 1958.

Popovič A. La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3511-5. (Teória umeléckeho prekladu, Bratislava, Tatran 1975.)

Verdru H. Il rasoio di Eco, tesi di dottorato discussa presso l’Università di Leuven sotto la supervisione di Franco Musarra, 1987. Disponibile in internet all’indirizzo http://users.pandora.be/henk.verdru/il_rasoio_di_Eco/, consultata nell’aprile 2008.

Pisanty  V., Conoscenza e interpretazione, 2000. Disponibile in internet all’indirizzo: http://www.sssub.unibo.it/master/programmi/peirce.htm, consultato nel maggio 2008.



[1] Rimando a un’espressione del filosofo austriaco Wittgenstein (1889-1951), rielaborata da Dinda Gorlée, per la quale «brick»: (mattone) è il segno in quanto tale, e «mortar» (cemento) è l’oggetto, in quanto miscuglio di cemento per unire i mattoni [NdT].

[2] Citazione di un inno sacro di Charles Wesley, pastore metodista vissuto in Inghilterra, nel Settecento. [NdT]

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess Ksenia Elisseeva

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots

Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess

Ksenia Elisseeva

Université Marc Bloch
Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales Scuole Civiche di Milano
Corso di Specializzazione in Traduzione

primo supervisore: professor Bruno OSIMO
secondo supervisore: professoressa Antonella RICCIARDI

Master: Langages, Cultures et Sociétés
Mention: Langues et Interculturalité
Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence Parcours: Traduction littéraire
estate 2008

© The Johns Hopkins University Press 1977
© Ksenia Elisseeva per l’edizione italiana 2008

2

Abstract

This thesis proposes a translation of two articles by two famous Soviet semioticians, Boris Egorov and Isaak Revzin. The scientific article by Egorov regards the cartomantic reading of a person’s life as the creation of a plot in literature. Egorov’s goal is to use the cartomantic system as a rudimentary model for the analysis of literary plots. The article by Revzin pursues Saussure’s analogy between language and chess. By comparing language and chess, he seeks to show that the human intellect uses similar constructions, elements, relations of elements and rules to solve the various tasks of processing information. The second part of this thesis provides a commentary on the translation, the strategy used and the main translational problems.

3

Sommario

Abstract………………………………………………………………………………………. 3 Sommario …………………………………………………………………………………… 4 Traduzione con testo a fronte ………………………………………………………… 5

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots……………… 6 Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci……………………… 7 Language as a Sign System and the Game of Chess…………………… 34 La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi……………….. 35

References ……………………………………………………………………………….. 50 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 51 Analisi traduttologica…………………………………………………………………… 54

Fonte, autori, argomento. …………………………………………………………. 55 Egorov Boris Fedorovič ………………………………………………………… 56 Revzin Isaak Iosifovič …………………………………………………………… 57

Analisi traduttologica ……………………………………………………………….. 58 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 62

4

Traduzione con testo a fronte

5

Chapter 6

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots1.

B. F. Egorov

The exceptionally stormy development of semiotics has naturally brought with it study of the most diverse sign systems, and even cartomancy, fortune- telling with playing cards, has proven to be an object of research. M. L Lekomceva and B. A. Uspenskij’s innovative and intelligent essay has provided us with many valuable and interesting formulations (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). However, the present study does not in fact accept one of their essay’s main theses, that the system of fortune-telling «contains the potential for several interpretations» and the fortune-teller «always possesses several degrees of freedom».

In the essay mentioned, emphasis is put on studying the pragmatics of the “game” for the fortune-teller and for the person having his fortune told. “Professional” fortune-telling is definitely presupposed, in which a fortune-teller conducts a game of divining past and present with his naive victim. But in such a “game”, particularly when the victim does not look at the cards or understands nothing about them, one can speak not of several but of infinite degrees of freedom. For the “professional” fortune-teller, the cards are a pure fiction, and information is received not from the cards but from the external and internal appearance of the person having his fortune told and from his reaction to the fortune-teller’s words. Even the prediction of the future is usually not obtained from the cards: a future is constructed for the victim that is capable of achieving the most “mercenary” effect, and it is based on a study of his character.

1 This article appeared also in Russian as «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

6

Capitolo 6

Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci1.

B. F. Egorov

Lo sviluppo eccezionalmente rapido della semiotica ha naturalmente favorito lo studio dei diversi sistemi segnici, e anche la cartomanzia, divinazione mediante le carte da gioco, è diventata oggetto di studio. L’articolo innovativo e brillante di M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij ci ha fornito una serie di formulazioni valide e interessanti (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). Tuttavia nel presente saggio una delle più importanti tesi espresse dagli studiosi, secondo i quali il sistema della cartomanzia «è un terreno soggetto a varie interpretazioni» e il cartomante «ha sempre parecchi gradi di libertà», viene respinta.

Gli autori dell’articolo pongono l’accento sullo studio della pragmatica del “gioco” della cartomante e di chi vi si rivolge. Viene utilizzato il metodo “professionale” di divinazione, in cui la cartomante conduce con la sua ingenua vittima il gioco volto a indovinare il passato e il futuro. Trattandosi di un “gioco”, soprattutto quando la vittima non guarda le carte o non ne capisce molto, si può dire che i gradi di libertà sono, più che parecchi, infiniti. Per la cartomante “professionale”, le carte sono oggetto di pura finzione, e le informazioni non vengono apprese dalle carte stesse ma dall’apparenza esterna e interna del cliente e dalla sua reazione alle parole della cartomante. Nemmeno la predizione del futuro avviene tramite la lettura delle carte: il futuro della vittima viene rappresentato in modo tale da poter ottenere il massimo effetto “mercenario” ed è basato sullo studio del carattere della persona interessata.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

7

Such a method of fortune-telling does not belong in general to scientific study as a sign system because it is susceptible to an infinite number of degrees of freedom and accordingly to infinite probable outcomes. However, it can be of great interest for game theory and for psychologists.

On the contrary, “honest” fortune-telling, which is most prevalent inside a circle of acquaintances and in telling one’s own fortune, is as a rule a rigid system almost devoid of freedom of choice. In this system, each card has one unique meaning that can vary only in strictly stipulated, isolated instances; various nuances of meaning are created only in the context of the entire distribution of cards, as is discussed below. Obviously such a system is elaborated during a centuries-long developmental process in which the most significant and diverse actions and consequences are selected, and in this form it attracts our attention as a system of plots.

I shall take as my example one of the systems of fortune-telling which is widespread in Petersburg-Leningrad1. This system is only one variant of Russian methods of fortune-telling; of course fortune-telling as a “serious” attribute of everyday Iife is now almost extinct in our country, and has been preserved mainly as an amusement.

Depending on the person whose fortune is being told, an appropriate face card is chosen from among the cards; in this system, kings and queens are the only face cards used. In personal, direct fortune-telling, the queen of spades naturally loses validity for ethical reasons, but in indirect, impersonal fortune- telling, it is theoretically possible to utilize the queen of spades, especially if the fortune-teller has grounds for thinking that a woman is a “villainess”.

1 There are a great many systems of cartomancy, and the literature describing the various methods is extremely extensive. We shall mention only a few books in the Russian language: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Moscow, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Moscow, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

8

Tale metodo di divinazione non può essere considerato un sistema segnico e di conseguenza un oggetto di studio scientifico poiché suscettibile a un numero infinito di gradi di libertà e quindi di esiti possibili, ma può essere interessante per la teoria del gioco e la psicologia.

Al contrario, la cartomanzia “onesta”, quella praticata tra persone che si conoscono, e l’auto-cartomanzia, di norma costituiscono un sistema rigido, quasi privo di ogni libertà di scelta. In questo sistema, ogni carta ha un unico significato che può variare solo in casi isolati, rigorosamente specificati; le varie sfumature di significato sono create nel contesto della completa distribuzione delle carte. Questo caso verrà esaminato successivamente. Questo sistema ha evidentemente subìto nei secoli un lungo processo evolutivo nel quale sono state selezionate diverse azioni e conseguenze significative. Concentreremo la nostra attenzione su questa forma del sistema in quanto sistema di intrecci.

In qualità di esempio analizzerò uno dei sistemi di divinazione diffuso a Pietroburgo-Leningrado1, uno dei tanti metodi di cartomanzia usati in Russia. La cartomanzia, intesa come attributo “serio” della vita di ogni giorno, nel nostro paese si è quasi estinta; è sopravvissuta intesa meramente come gioco.

A seconda dell’oggetto di divinazione [di cui viene predetto il futuro; N.d.T.] dalle carte figure ne viene scelta una appropriata; nel sistema in questione vengono usate solo le figure del re [K] e della donna [Q]. Nella divinazione personale, diretta, la donna di picche [Q♠] viene esclusa per motivi etici; mentre nella divinazione indiretta, impersonale, soprattutto se il soggetto di divinazione [la persona che interessa all’oggetto o, nel caso dell’autocartomanzia, la persona che la cartomante ha in mente; N.d.T.] è una donna considerata “malvagia”, può essere scelta la donna di picche.

1 Vi sono svariati sistemi cartomantici e la letteratura che descrive i vari metodi è estremamente vasta. Accenniamo solo ad alcuni dei libri in lingua russa sull’argomento: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Mosca, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Mosca, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

9

The following table lists the meanings of the face cards and of the predicate cards that denote a state or action. A deck of thirty-six cards is used in the fortune-telling.

10

Nella tabella riportata di séguito vengono elencati i significati delle carte figure e delle carte predicato, cioè quelle di stato e di azione. [Nella tabella e in tutto il saggio i nomi delle carte verranno abbreviati secondo il sistema usuale: A♣ – asso di fiori, K♠ – re di picche, Q♥ – donna di cuori, J♦ – fante di quadri, 10♣ – 10 di fiori e così via; N.d.T.]. In questo sistema di divinazione si usa il mazzo contenente trentasei carte.

11

Suit Denomination

Clubs ♣

Spades ♠

Hearts ♥

Diamonds ♦

Ace (A)

bank (+ K♣ + Q♣ – their house)

blow (+ K♠ + Q♠ – their house)

family house (+ K♥ + Q♥ – their house)

receipt of a letter

King (K)

“financial” (employee, elderly man or widower)

soldier

married man, not old

unmarried person

Queen (Q)

elderly lady or widow (+ K♣ – his lady)

villainess (+ K♠ – his lady)

married woman, not old (+ K♥ – his lady)

girl

Jack (J)

troubles in connection with the bank (+ K♣ + Q♣ – their troubles)

unpleasant, unjust troubles (+ K♠ – his troubles)

domestic troubles (+ K♥ + Q♥ – their troubles)

pleasant, amusing troubles

10

great change

unpleasantness, illness (+ K♠ – interest toward the person)

domestic card

large amount of money

9

change (+ 10♣ – very great change; + K♣ + Q♣ – affectionate attitude toward the person)

unpleasantness, illness (+ 10♠ – very bad; + K♠ + Q♠ – affectionate attitude towards the person; + Q♠ – villainous intent)

domestic love (+ K♥ + Q♥ – their love for someone)

small amount of money (+ 10♦ – very large amount of money)

8

financial conversation

unpleasant conversation (+ K♠ – conversation with him)

domestic conversation

cheerful conversation

7

financial meeting

late meeting (+ K♠ – meeting with him)

quick meeting

cheerful meeting

6

financial journey

long journey

short journey

early, pleasant journey

12

Seme Valore

Fiori ♣

Picche ♠

Cuori ♥

Quadri ♦

Asso (A)

edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro casa)

colpo (+ K♠ e Q♠ – loro casa)

casa (+ K♥ e Q♥ – loro casa)

recapito di una lettera

Re (K)

uomo (impiegato) “pubblico”, anziano o vedovo

soldato

uomo sposato, non anziano

uomo celibe

Donna (Q)

donna anziana o vedova (+ K♣ – sua donna)

donna malvagia (+ K♠ – sua donna)

donna sposata, non anziana (+ K♥ – sua donna)

donna nubile

Fante (J)

faccende legate a un edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro faccende private)

faccende inutili (spiacevoli) (+ K♠ – sue faccende private)

faccende famigliari (+ K♥ e Q♥ – loro faccende private)

faccende divertenti

10

grande cambiamento

dispiacere, malattia (+ K♠ – interesse per il soggetto)

carta di famiglia

molto denaro

9

cambiamento (+ 10♣ – grande cambiamento; + K♣ e Q♣ – relazione sentimentale con il soggetto)

dispiacere, malattia (+ 10♠ – molto grave; + K♠ e Q♠ – relazione sentimentale con il soggetto; + Q♠ – cattive intenzioni)

affetto tra membri della famiglia (+ K♥ e Q♥ – loro amore per qualcuno)

poco denaro (+ 10♦ – moltissimo denaro)

8

conversazione formale

conversazione spiacevole (+ K♠ – conversazione con lui)

conversazione in famiglia

conversazione divertente

7

incontro formale

incontro successivo (+ K♠ – appuntamento con lui)

incontro imminente

incontro divertente

6

viaggio per scopi non personali

viaggio lontano

viaggio non lontano

viaggio di piacere a breve

13

It is evident that as a rule the majority of cards have a single meaning. Only in particular cases do some cards acquire special meanings or nuances, and here context begins to play an essential role.

Cartomancy proceeds in the following manner. Pairs of cards are drawn consecutively from the deck until the card appears that is the basis for the fortune-telling and constitutes the person’s card. The card paired to it is “next to” and “close to” the person. The person’s card (1) is placed in the center, the rest of the cards are gathered into the deck again and reshuffled, and then the cards are laid down. We shall omit the details of laying out the cards as essentially unimportant and shall describe only the result of the distribution. Two cards (2, 3), and then four more (4-7), are placed on the person’s card; they are what the person has “on his heart”. The other cards are arranged in eight groups around the center in the following way:

16, 17 1 18, 19

Nine cards obviously remain outside the distribution; they are discarded and do not take part in the fortune-telling. Cards 8-15 describe the person’s past (“what was”), cards 16-19 describe the present (“what is”), and cards 20-27 describe the future (“what will be”).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

14

13, 14 15

È evidente che di norma la maggioranza delle carte ha un solo significato. Solo in casi particolari alcune carte acquisiscono un significato o una sfumatura speciale e il contesto comincia a esercitare un ruolo fondamentale.

La cartomanzia avviene nel modo seguente. Coppie di carte vengono consecutivamente estratte dal mazzo fino quando esce la carta che rappresenta l’oggetto di divinazione. La carta-compagna indica quello che è «accanto» o «vicino» alla persona. La carta dell’oggetto (1) vene collocata al centro, le carte rimanenti vengono di nuovo raccolte nel mazzo, mescolate e distribuite. Ometteremo i dettagli della distribuzione in quanto privi d’importanza essenziale e descriveremo solo i risultati. Due carte (2, 3) e dopo altre quattro (4-7) vengono collocate sopra la carta dell’oggetto e rappresentano quello che l’oggetto «ha nel cuore». Le altre carte vengono collocate in otto gruppi attorno alla carta centrale come segue:

16, 17 1 18, 19

È evidente che nove carte restano escluse dalla distribuzione; queste carte vengono scartate e non partecipano alla divinazione. Le carte 8-15 caratterizzano il passato dell’oggetto («quel che c’era»), le carte 16-19 – il presente («quel che c’è»), le 20-27 – il futuro («quel che ci sarà»).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

15

13, 14 15

“Reading” the cards takes place in this sequence: initially the cards that the person has “on his heart” are read (at first 2-3, then 4-7), then come “what was”, “what is”, and “what will be”. The order of the cards within a group can be significant for all groups except the center. The positions of the cards in relation to the center, the person, are important because reading takes place from the center to the periphery in a sequence such as 1-17-16 or 1-(13, 14)-15. The person “acquires” the last card by and through the intermediate card or cards. For example, if card 16 stands for the journey and card 17 is an individual, then the person whose fortune is being told turns out to be on a journey because of this individual; if, on the contrary, 16 is an individual and 17 is the journey, then this individual will come on a journey to the person whose fortune is being told. Clearly the sentences, “a meeting due to money” and “money due to a meeting”, have different meanings. In short, the syntax in reading all eight peripheral groups requires a “direct” order of words from the center to the last card and does not permit inversion. The order of the cards is neutral only in isolated cases; for example, 9♣ + K♣ + Q♣ signify an affectionate attitude toward the person whether they are in extreme or middle position. As a result, a structure is created in which the sum, so to speak, of simple elements generates a complex whole whose overall meaning is changed substantially by varying correlations of elements.

After the reading of the entire distribution of cards comes the divination of “what remains to the person”, what the final result of this or another period of the person’s life will be. It is also possible to make subsequent distributions of the cards on themes such as “what will soothe”, “for you”, “for the home”, and “for the heart”. Only very primitive sentences are created by these divinations, which are limited in number to between three and nine cards, together with the predivination that determines the person’s card by the paired card “next to” it. Therefore we can omit them from consideration without detriment, and henceforth shall only consider the basic distribution of cards.

Reading this distribution generates an entire “history” of the person’s life and thus creates a plot. There are an extraordinarily great, though finite, number of plots.

16

La “lettura” delle carte avviene come segue: prima di tutto si leggono le carte «nel cuore» dell’oggetto (prima le 2-3, dopo le 4-7), poi «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà». L’ordine delle carte all’interno di ogni raggruppamento può essere significativo per tutti i gruppi a accezione di quello centrale. È fondamentale il posizionamento delle carte rispetto al centro, l’oggetto; la lettura avviene partendo dal centro verso la periferia, cioè in questo ordine: 1→17→16 oppure 1→(13, 14)→15. L’oggetto “acquisisce” la carta esterna tramite la/e carta/e intermedia/e e grazie a esse. Se, per esempio, la carta 16 significa «viaggio» mentre la 17 è una figura, l’oggetto farà a breve un viaggio grazie all’individuo rappresentato dalla figura 17; se invece 16 sta per un individuo e 17 è un viaggio, l’individuo 16 sta per arrivare da lontano verso l’oggetto. È chiara la differenza tra le affermazioni «incontro a causa di denaro» e «denaro a causa di incontro». In breve, la sintassi nella lettura di tutti gli otto gruppi periferici richiede l’ordine “diretto” delle parole, dal centro alla carta esterna, e non ammette inversioni. L’ordine delle carte è neutro solo in casi isolati; per esempio, 9♣ accanto a K♣ e Q♣ sia nella posizione laterale che in quella centrale significa «relazione sentimentale con il soggetto». In séguito si crea una struttura nella quale la somma degli elementi, supponiamo, semplici genera un insieme complesso il cui senso generale cambia notevolmente variando le correlazioni tra gli elementi.

Alla lettura dell’intera distribuzione delle carte segue la divinazione di «quel che resta» all’oggetto, di quale risultato finale del periodo di vita attuale o immaginato lo attende. Sono inoltre possibili le successive distribuzioni delle carte sul tema «quel che conforterà», «per te» [per l’oggetto], «per la casa» [per la famiglia], «per il cuore». Siccome in questi tipi di divinazione, e anche nella fase iniziale in cui dalla carta-compagna della carta dell’oggetto si predice «quel che è accanto», si usa un numero limitato di carte (da 3 a 9) e vengono generate delle frasi primitive, le si può considerare meno rilevanti per la nostra ricerca, quindi ci occuperemo prevalentemente della distribuzione principale.

La lettura di questa distribuzione ci porta a conoscere l’intera “storia” dell’oggetto creando un intreccio. Il numero degli intrecci è estremamente alto, ma finito.

17

Even if we disregard the variants generated by the order of the cards within the group and consider only the possibility that cards in the deck have of being the person’s card, or of being in groups like “on the heart”, “what was”, “what is”, or “what will be”, then according to the formula of combinations the number of plots will be equal to 12•1022. Taking into account all the variants arising from diverse arrangements or permutations of cards within each of the peripheral groups, this number must be multiplied yet another one hundred times and becomes twelve septillions or 12•1024. If the three billion inhabitants of the terrestrial globe were each to make a new distribution of cards every minute, they would exhaust all the variants after ten billion years of uninterrupted labor; but it is calculated that the solar system will only last approximately another eight billion years, and certainly people will find themselves more interesting and important pursuits during this period.

Moreover, the enormous number of plots are created by thirty-six cards, a very limited set of signs. Hence arises one of the cardinal questions of the theory of plots, that of the “primary element”. On the basis of the material of folklore and of ancient and medieval literature, the academician A. N. Veselovskij suggested that the primary plot element is the motif, «the simplest narrative unit which responds figuratively to the diverse inquiries of the primitive mind or of everyday observation» (Veselovskij 1940: 500). An eclipse of the sun and abduction of a girl are typical motifs. V. Â. Propp later set himself the goal of creating a complete list of motifs of fairy tales by analyzing one hundred plots from Afanas’ev’s collection of tales. He defined his primary elements more exactly as functions and obtained thirty-one such functions, including “a member of the family leaves home”, “a ban is imposed on the hero”, “a ban is broken”, and so on (Propp, 1968: 25-65). It seems that functions can be divided into even smaller units such as “hero”, “departure”, “ban”, “antagonist”, “deception”, and “struggle”, which would turn out to be at least half as few functions as thirty-one. But the fact remains that such units do not aid us at all in understanding the essence of the fairy tale, for they cannot be freely correlated with each other: to wit,

18

Anche se ignoriamo le varianti originate dall’ordine delle carte all’interno del gruppo e consideriamo solo la possibilità che ogni carta del mazzo ha di diventare la carta dell’oggetto, la carta del gruppo «nel cuore», «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà», secondo il calcolo combinatorio il numero degli intrecci è approssimativamente pari a 12•1022. Calcolando tutte le varianti derivanti dalla diversa disposizione o permutazione degli elementi all’interno di ogni gruppo periferico, questo numero va ulteriormente moltiplicato per 100 e diventa dodici settime potenze di un milione, cioè 12•1024. Se ognuno dei tre miliardi di abitanti del globo terrestre facesse una nuova distribuzione ogni minuto, si esaurirebbero tutte le varianti in dieci miliardi di anni di lavoro ininterrotto; è stato calcolato però che il sistema solare durerà solo altri otto miliardi di anni e le persone, sicuramente, nel frattempo troveranno di meglio da fare.

Inoltre, questo grande numero di intrecci è creato da sole trentasei carte, un numero molto limitato di segni. Da qui deriva una delle questioni cardinali dell’intrecciologia, quella dell’“elemento primario”. Sulla base del materiale folcloristico e della letteratura antica e medievale, l’accademico A. N. Veselovskij ha supposto che l’elemento primario dell’intreccio sia il motivo, «la più elementare unità narrativa che risponde figurativamente a diverse indagini della mente primitiva o delle osservazioni quotidiane» (Veselovskij 1940: 500). Alcuni dei motivi tipici sono l’eclissi solare e il rapimento della fanciulla. Successivamente V. Â. Propp si era posto l’obiettivo di completare un elenco dei motivi della fiaba attraverso l’analisi di cento intrecci dalla raccolta di fiabe di Afanas’ev. Per essere precisi, ha definito i suoi elementi primari come «funzioni» e ne ha individuate trentuno tra cui: «un membro della famiglia va via di casa», «all’eroe viene posto un divieto», «un divieto viene violato» e così via (Propp, 1968: 25-65). Le funzioni potrebbero essere suddivise ulteriormente in unità ancora più piccole, come «eroe», «partenza», «divieto», «antagonista», «inganno», «lotta» e diventare perciò la metà del numero proposto da Afanas’ev, ma queste unità non facilitano affatto la comprensione dell’essenza della fiaba poiché non possono essere liberamente correlate tra loro, vale a dire:

19

the ban is imposed on the hero, and not on the antagonist or donor; the antagonist is precisely the one who is properly punished (the thirtieth function) and not the hero or his helper. Syncretic thought operated by using integral segments that themselves represented short plots and that passed undivided from tale to tale, and therefore further differentiation of Propp’s functions would be senseless.

The increasing complication of life and the emergence of an elemental dialectics in thought led to a more flexible and free correlation in the artist’s consciousness between the separate elements of a function, as well as to the appearance of many completely new elements and functions. It would be very valuable to analyze the process of disassociation of motif-functions into more minute units and the emergence of new motif-functions as it takes place over the course of many centuries; for instance, the plot of Puškin’s Ruslan i Lûdmila could be compared, by using Propp’s method, with traditional fairy tale plots. A characteristic feature of modern literature is the disassociation of motifs into their component parts or submotifs, which enter into free interactions with each other as subjects and predicates. Growth in the number of elements increases proportionally to the number of ties between them, which in turn complicates the structure as a whole. Therefore, attempts to reduce all the diversity of world dramaturgy to three dozen or so plots are naïve (see Polty 1895).

Although the origin of cartomancy dates from extreme antiquity, contemporary cartomantic systems are the fruit of a new era. In them, each card is not a motif or “little plot”, but an element that only generates a plot in conjunction with other elements. In turn, each element or card cannot be divided further, and all thirty-six cards are indivisible elements. It is very difficult to classify these elements without taking into consideration the common division into subjects (face cards) and predicates (actions or states). No hierarchy based on suit or denomination, aesthetic or ethical categories, can be observed in our system. The feebly outlined opposition in face cards between the sexes, and the contrast in suits between old and young, married and unmarried, is entirely absent in predicates. Predicates can be conventionally grouped in twelve categories,

20

il divieto è posto all’eroe e non all’antagonista o al donatore; è l’antagonista che viene punito a dovere (la trentesima funzione), non l’eroe o il suo aiutante. Il pensiero sincretico ha agito attraverso segmenti interi che di per sé rappresentavano intrecci brevi che passavano intatti di fiaba in fiaba; di conseguenza un’ulteriore suddivisione delle funzioni di Propp non avrebbe senso.

Le condizioni di vita in peggioramento e la nascita della dialettica spontanea nel pensiero hanno portato a una correlazione più flessibile e libera nella coscienza dell’artista tra i vari elementi di una funzione e inoltre hanno portato alla comparsa di molti elementi e funzioni completamente nuovi. Sarebbe molto utile analizzare il processo di disintegrazione di motivi-funzioni in unità più piccole e la comparsa di elementi nuovi che avviene nel corso di molti secoli; per esempio l’intreccio di Ruslan i Lûdmila di Puškin può essere paragonato, secondo il metodo di Propp, agli intrecci tradizionali della fiaba. Un aspetto caratteristico della letteratura moderna è la disintegrazione dei motivi nelle parti integranti, sottomotivi o soggetti e predicati che entrano in relazioni libere tra loro. La crescita del numero degli elementi aumenta proporzionalmente al numero dei legami tra loro, e questo a sua volta complica la struttura in generale. Sono perciò ingenui i tentativi di limitare tutta la diversità della drammaturgia mondiale a una trentina di intrecci (si veda Polty 1895).

Nonostante le origini della cartomanzia risalgano alla più remota antichità, i sistemi cartomantici contemporanei sono frutto di una nuova epoca. Ogni carta qui non è un motivo o un “piccolo intreccio”, ma un elemento che genera un intreccio se collegato ad altri elementi. Ogni elemento o carta a sua volta non può essere divisa ulteriormente; tutte le trentasei carte sono perciò elementi indivisibili. È molto difficile classificare questi elementi senza prendere in considerazione la suddivisione comune in soggetti (carte figure) e predicati (azioni o stati). Nel nostro sistema è assente ogni suddivisione in base a semi e valori, categorie etiche ed estetiche. La contraddizione poco evidente, nelle carte figure, tra sessi, e il contrasto nei semi tra anziano e giovane, sposato e non sposato è del tutto assente nei predicati. I predicati possono essere formalmente raggruppati in dodici categorie

21

and many denominations have a common type of meaning for all or some suits:

1. change;
2. troubles;
3. illness;
4. receiptofmoney; 5. love;

6. family;
7. conversation;
8. meeting;
9. journey;
10. blow;
11.receipt of a letter; 12.sojourn in some house.

These twelve groups of predicates acquire a more specific meaning in context; some groups, at least two, seven, eight, and nine, are four variants of the same meaning. Almost all meanings in group classification are ethically and aesthetically neutral. Figure cards remain neutral as a rule even in the substitution of suits; Q♠ is an exception, but only in the absence of her cavalier, since the auxiliary status of K♠ frees Q♠ from any condemnation or even ethical suspicion. The groups of predicates one, two, six, seven, eight, nine, eleven, and twelve are neutral in themselves. Only four and five convey a clearly positive meaning, while three and ten are negative; due to their uniqueness, as a rule these groups include only one card, or more rarely two cards. Predicates of the majority of groups are evaluated only when their suit and value are specified, as in unpleasant troubles (J♠), amusing troubles (J♦), unpleasant conversation (8♠), cheerful conversation (8♦). It turns out that the second part of a card’s conventional meaning, its value or denomination, designates, as it were, the state or action itself, while the first part, its suit, introduces something qualitative, evaluative, or attributive.

22

e molti valori hanno lo stesso significato per tutti i semi o per alcuni:

1. cambiamento,
2. faccende,
3. malattia,
4. riscossionedidenaro, 5. amore,

6. famiglia,
7. conversazione,
8. incontro,
9. viaggio,
10. colpo,
11.recapito di una lettera, 12.permanenza in un edificio.

Questi dodici gruppi di predicati acquisiscono un significato più specifico nel contesto; alcuni gruppi – il secondo, il settimo, l’ottavo e il nono – sono le quattro varianti dello stesso significato. Quasi tutti i significati nella classificazione di gruppo sono eticamente ed esteticamente neutrali. Normalmente le carte figure restano neutrali nonostante il significato generale del seme: la donna di picche ne è l’eccezione solo quando il suo “cavaliere” è assente dato che la posizione “ufficiale” di K♠ libera Q♠ da qualsiasi condanna o sospetto di carattere etico. I gruppi dei predicati uno, due, sei, sette, otto, nove, undici e dodici sono neutri. Soltanto il quattro e il cinque esprimono un significato chiaramente positivo, mentre il tre e il dieci sono negativi; e proprio grazie alla loro unicità questi gruppi comprendono di solito solo una o al massimo due carte. I predicati della maggioranza dei gruppi diventano positivi o negativi a seconda del seme e del valore: faccende spiacevoli (J♠), faccende divertenti (J♦), conversazione spiacevole (8♠), conversazione divertente (8♦). Risulta che la prima parte della denominazione convenzionale della carta – il suo valore – significa lo stato, l’azione, invece la seconda parte – il seme – introduce una caratteristica qualitativa, valutativa o attributiva.

23

However, it is significant that a number of predicates do not specify a precise meaning even with substitution of suit and value; a long journey or financial meeting tell us nothing or almost nothing by themselves. This pertains particularly to 10♣ and 9♣, which constitute group one of predicates. “Change” is such a broad term that in fact it embraces all the other groups of predicates, any of which introduces change into the person’s life. It would surely be tempting to adopt an order of reading that passes from the less informative to the more informative cards, for instance from 10♣ to A♠ or 9♦1, but in our system the amount of information conveyed by a card does not influence the order of reading. Possibly, therefore, “change” should not be considered as including all the other signs of the system, but rather all the rest of the possible predicates not contained in the table of meanings. Strictly speaking, it is impossible to measure abstractly a relative amount of information or even to establish a hierarchical scale, since the informational meaning of a card can increase considerably in any specific context; and moreover, the person whose fortune is being told, whether a listener or viewer of the process of distribution and reading, could experience various subjective reactions to any card. For a certain person, a card that in context is more informative may prove to be far less quantitatively and qualitatively informative than a supposedly rather uninformative card, and vice versa. As in perceiving a work of art, subjective associations cannot be avoided, and therefore several, if not an infinitely great number, of referential variants can correspond to the sign’s meaning. But also as in art, there exists none the less an objective system of rudimentary symbols that can be transcribed by “formulae” (the cards’ conventional signs), by distribution in a quadrant, or more conveniently,

1 For example, this is how M. I. Lekomceva and B. A. Uspenskij describe the system known to them, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

24

Tuttavia è significativo che alcuni predicati non specifichino né generalizzino il significato neanche nel caso della sostituzione del seme o del valore; un viaggio lontano o un incontro formale di per sé non ci dicono niente o quasi niente. Questo riguarda in particolar modo 10♣ e 9♣, facenti parte del primo gruppo di predicati. «Cambiamento» è un termine talmente vasto che in effetti comprende tutti gli altri gruppi di predicati, ognuno dei quali introduce un cambiamento nella vita dell’oggetto. Sarebbe sicuramente stato allettante adottare un ordine di lettura tale da analizzare le carte meno informative prima di quelle più informative, partendo per esempio da 10♣ per arrivare a A♠ o 9♦1, ma nel nostro sistema di divinazione la quantità d’informazioni contenute in una carta non influisce sull’ordine di lettura. È probabilmente per questo motivo che la categoria «cambiamento» non va considerata un contenitore di tutti gli altri segni del sistema, ma piuttosto tutti gli altri possibili predicati vanno esclusi dalla tabella dei significati. A rigor di termini, è impossibile misurare in modo astratto una quantità relativa di informazioni o anche stabilire una scala gerarchica, poiché il significato informativo di una carta può diventare considerevolmente più intenso in un contesto specifico; e inoltre l’oggetto di divinazione, essendo un ascoltatore o uno spettatore del processo di distribuzione e di lettura, può sperimentare diverse reazioni soggettive a qualunque carta. Una carta più informativa nel contesto può risultare per una persona quantitativamente e qualitativamente molto meno informativa di quanto non lo sia una carta presumibilmente poco informativa e viceversa. Così come nella percezione di un’opera d’arte una persona non può evitare associazioni soggettive, così al significato di un segno possono corrispondere diversi, se non innumerevoli, varianti referenziali. Tuttavia, esattamente come nell’arte, esiste un sistema oggettivo di simboli univoci che può essere trascritto da “formule” (denominazioni convenzionali delle carte) o attraverso la distribuzione in un quadrante o, più comodamente,

1 Per esempio, è così che M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij descrivono un sistema che gli è noto, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

25

by an “unraveled” line that retains the order of reading cards by groups and arranges the cards within each group in the order in which they should be read. Here, for example, is the transcription of a distribution, showing the card of the person whose fortune is being told (Q♥) and separating the groups within each temporal stratum with semicolons: Q♥, on her heart 7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦, what was K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣, what is A♣, K♦; 9♥, K♥, what will be 7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠.

Thus we can describe the plot of cartomancy conventionally and unambiguously, as with a game of chess, so that any reader can interpret its factual and emotional details. It is far more difficult to analyze the plots of works of art. A writer writes down a complete text by drawing upon the enormous reservoir of poetic vocabulary and saturates it with his ideas, emotions, and associations. The subsequent inclusion of the reader’s subjectivity is wholly natural and analogous, though also more complex, to reading the distribution of the cards. Here “formulization” does not entail a simple ruling of a table into four suits by nine denominations, with inscription of the corresponding meanings of the cards, but rather an extremely difficult examination of how to elaborate the very principles of classification. Some principles will be needed by the researcher interested in plot syntax, plot grammar, and the dialectics of correlating plot elements; other principles will be needed by the historian of plots. Special scales must be created in each instance, and we literary scholars unfortunately do not yet possess a “Mendeleev’s table” of plots. The necessity of creating such tables during the next few years hardly needs to be demonstrated1.

1 True, there are still opponents of typology in literary scholarship in general who say that it destroys the specificity and unique individuality of artwork and writer. For some reason they do not protest against the classification, let us say, of characters in psychology or of types in anthropology. In those cases, systematics obviously does not suppress the distinctiveness of individuals. But why then is it contraindicated in literary scholarship?

26

in forma “dettagliata”, in una linea che mantiene l’ordine di lettura delle carte per gruppi e dispone le carte all’interno di ogni gruppo secondo l’ordine in cui vanno lette. Qui di seguito, per esempio, è riportata la trascrizione di una distribuzione in cui gli strati temporali vengono contrassegnati e divisi da parentesi di diversa forma: «nel cuore» – {}, «quel che c’era» – <>, «quel che c’è» – [], «quel che ci sarà» – (). I gruppi all’interno di ogni stato possono essere separati da punto e virgola. La carta dell’oggetto verrà contrassegnata dal corsivo. La trascrizione risulta quindi: Q♥ {7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦}, <K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣>, [A♣, K♦; 9♥, K♥], (7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠).

È quindi possibile descrivere l’intreccio della cartomanzia in modo convenzionale e univoco, come nel gioco degli scacchi, in modo che ogni lettore possa interpretare i suoi dettagli fattuali ed emotivi. È molto più difficile invece analizzare gli intrecci di un’opera letteraria. Il processo di stesura dell’opera richiede l’uso del vasto vocabolario poetico e contiene idee, emozioni e associazioni dell’autore. Vi si aggiunge naturalmente l’interpretazione soggettiva del lettore, in un modo analogo alla lettura delle carte, ma assai più complesso. Qui la “formulizzazione” non si limita a tracciare una tabella con quattro colonne per i semi e nove per i valori e a compilarla con i corrispettivi significati delle carte, ma consiste piuttosto in uno studio estremamente difficile per elaborare i princìpi stessi di classificazione. Un ricercatore interessato alla sintassi, alla grammatica dell’intreccio, alla dialettica delle relazioni tra gli elementi dell’intreccio, usa princìpi diversi da quelli applicati da, supponiamo, uno storico dell’intrecciologia. In ogni caso sarà necessario creare una tabella diversa. Noi studiosi di narratologia purtroppo non disponiamo ancora di una “tavola periodica di Mendeleev” degli intrecci. Il fatto che simili tabelle dovranno essere create nei prossimi anni è indubbio1.

1 È vero che esistono ancora critici di tipologia generale nella narratologia secondo i quali la tipologia distrugge la specificità e l’individualità irripetibile di un’opera d’arte o di uno scrittore. Per una strana ragione non protestano contro la classificazione, diciamo, di caratteri in psicologia o di tipi in antropologia. In quei casi la sistematica, evidentemente, non reprime la particolarità degli individui. Ma per quale ragione allora è controindicata per la narratologia?

27

Comparative study of literatures, epochs, writers, and schools is greatly impeded by the lag in plot analysis, and plot theory remains in a petrified state although there is more than sufficient preliminary material. Researchers of literary plots could already be profiting from the services of contemporary computers1, but they cannot do so until a rigorous and exact system of classification is elaborated.

Plot analysts can be aided by plot systems already in existence, such as the cartomantic system that we have examined. Except for simple systems like the detective story (see Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), the literary scholar does not treat two or three dimensions like the fortune-teller’s suit, denomination, and time group, and thus we must create multidimensional tables. But the main dimensions of the cartomantic system enter into literary scholarship as a particular case. Denomination, conventionally speaking, remains a principal dimension for the literary scholar and fabulist, and includes persons, actions, and states as well as the grouping of topics and concepts. Suit is analogous to a plot-table of distinctive traits and evaluations that are ethical-aesthetic and qualitative. This series is particularly important so that we can transmit in our formulae evaluations by the author of the events and characters he has depicted. Scales of time and space are also possible. In the cartomantic system, the majority of “circumstantial” categories of place, cause, and effect, are expressed by the predicates themselves; in literary scholarship, they can be included in the scales of actions and states, or of topics and concepts, by adding categories such as time and purpose.

To be sure, a limited set of signs threatens to impoverish the diversity of plot connections and meanings, and hence our task is to discover units that would reflect in totality all the essential features necessary for this research. Even the most detailed plot formula

1 The broad dissemination of teaching and examining machines during the next few years will render the problem of the “formulization” of plots even more acutely urgent.

28

Lo studio comparato di letterature, epoche, scrittori e correnti è fortemente ostacolato dall’arretratezza dell’intrecciologia; la teoria dell’intreccio si trova in uno stato pietrificato nonostante il materiale preliminare sia più che sufficiente. Gli studiosi degli intrecci narrativi avrebbero già potuto servirsi dei computer contemporanei1, ma questo non sarà possibile finché non sarà elaborato un sistema rigido ed esatto di classificazione.

D’aiuto agli intrecciologi può essere il sistema degli intrecci esistente, in particolar modo il sistema di cartomanzia che abbiamo analizzato nel presente saggio. A eccezione dei sistemi semplici, come quello di un giallo (si veda Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), il narratologo non si accontenta di due o tre dimensioni come il seme, il valore, e il gruppo temporale nel presente sistema di divinazione, ma necessita di una tabella pluridimensionale. Ma le principali dimensioni del sistema cartomantico fanno parte di questa tabella come caso particolare. Il valore resta la dimensione principale per il narratologo-fiabista e comprende oltre alle figure e alle azioni-stati la categoria di cose e concetti-idee. Nella tabella degli intrecci, al posto della categoria dei semi, compare la categoria del tratto distintivo e della valutazione, ossia la categoria etico-estetica e qualitativa. Questi criteri sono fondamentali soprattutto per trasmettere con le nostre formule la valutazione che l’autore dell’opera attribuisce agli eventi e ai personaggi. Sono possibili anche i criteri del tempo e dello spazio. Nel sistema della cartomanzia la maggior parte delle categorie “circostanziali” di luogo, causa ed effetto sono espresse dai predicati stessi; e possono far parte delle categorie di stati-azioni o cose-concetti insieme alle categorie di tempo e scopo.

È chiaro che una sequenza limitata di segni rischia di impoverire la diversità dei legami e dei significati dell’intreccio, ed è proprio questa la difficoltà: trovare unità capaci di riflettere nella sua totalità tutti gli aspetti essenziali per questo studio. Persino la formula dell’intreccio più dettagliata non

1 La grande diffusione di macchine-insegnanti e macchine-esaminatori dei prossimi anni renderà ancora più attuale il problema della “formulizzazione” degli intrecci.

29

can certainly never take the place of the text itself in its entirety as a work of art, just as no opus of literary scholarship can become a substitute for the object being examined. When the necessary methods of “segmentation” have been elaborated, a reliable system of classification will be created rapidly by means of dichotomies and antinomies.

Twentieth-century literature, which is exceptionally allusive, associative, and often both metaphorical and metonymical, makes ciphering very complex. Metaphors and metonyms do not in themselves create insuperable difficulties, for what is implied can be given in brackets or as a denominator or denominators. It is immeasurably more difficult to show with formulae the meaning of an entire, complex system in which the terms receive a somewhat or totally new meaning not according to the ordinary rules known to the reader (as when Q♠ acquires various meanings in different contexts) but according to some utterly peculiar movements of authorial thought. The new meaning in such a system does not arise automatically from the context, but requires special designation and can consist either of an addition to the sum of existing terms or of a partial or total replacement of existing terms by something new. The problem of how complex structures arise from simple elements is of special interest to the analyst of plot grammar, who must create special signs to describe the different modes of interrelation between the elements, by using L. Hjelmslev’s linguistic “algebra”, for instance (Hjelmslev 1960: 264-389).

Many questions remain to be resolved. The researcher encounters extraordinary difficulty in attempting to reflect extratextual connections with the text in formulization of poetic plots. The problem of the detail and criteria of proportion for ciphering the plot in each specific research method must be considered attentively, along with a dozen great and small problems that are the urgent tasks of the immediate future. In conclusion, we must point out to those who would discredit our approach that formalization in general, the mathematization of literary processes for the purpose of more exact, conclusive analysis, has nothing in common with

30

potrà mai sostituire il testo nel complesso in quanto opera d’arte, così come nessuna opera letteraria potrà sostituire l’oggetto dello studio. Nel momento in cui verranno elaborati i necessari metodi di “segmentazione”, verrà creato rapidamente un sistema compatto di classificazione tramite dicotomia e antinomia.

La letteratura del Novecento, straordinariamente allusiva, associativa e spesso sia metaforica che metonimica, rende la cifratura molto complessa. Metafore e metonimie di per sé non creano difficoltà irrisolvibili poiché le informazioni sottointese possono essere rese tra parentesi o sotto forma di denominatore/i. Il compito di gran lunga più difficile è esprimere il senso di un sistema intero, complesso, nel quale i componenti acquisiscono qualcosa di nuovo, un significato completamente diverso e non secondo le regole usuali che il lettore conosce (ne è un esempio Q♠, che acquisisce significati diversi nei contesti diversi), ma secondo un ordine particolare del pensiero dell’autore. Il significato nuovo in tale sistema non deriva automaticamente dal contesto, ma richiede una designazione speciale e può consistere sia nell’aggiunta alla somma dei termini esistenti sia nella sostituzione totale o parziale di termini esistenti con qualcosa di nuovo. Il problema dell’origine di strutture complesse da elementi semplici interessa in modo particolare lo studioso nel campo della grammatica dell’intreccio il quale deve creare segni speciali per descrivere diversi metodi di interrelazione tra gli elementi, con l’aiuto, per esempio, dell’“algebra” linguistica di L. Hjelmslev (1960: 264-389).

Vi sono ancora tanti problemi da risolvere. Lo studioso il cui cómpito sarà quello di raffigurare i legami extratestuali con il testo e di “formulizzare” gli intrecci poetici, si troverà di fronte a un’enorme difficoltà. Sarà necessario valutare attentamente il problema del dettaglio e dei criteri di proporzione per cifrare l’intreccio per ogni metodo di ricerca. Nel prossimo futuro dovranno essere risolte questa e altre decine di difficoltà maggiori o minori. Per concludere, facciamo notare ai possibili critici del nostro approccio che la formalizzazione in generale e la matematizzazione di processi letterari allo scopo di un’analisi più esatta, conclusiva, non ha niente in comune con il

31

formalism. The scholar will not operate according to our method by using “naked form”, but by employing the elements that are most rich in content, whether it is a matter of analyzing plot, style, or any other category or aspect. This mathematization should aid literary scholarship by opposing scientific analysis to the unsubstantiated talk of subjectivists of all kinds. «Thought, in rising from the concrete to the abstract, does not deviate from the truth if it is correct … but approaches it. … all scientific (correct, serious, nonabsurd) abstractions reflect nature more profoundly, truthfully, completely» (Lenin 1936: 166).

32

formalismo. Lo studioso non dovrà applicare il nostro metodo usando la “nuda forma”, ma gli elementi ricchi di contenuto, che si tratti di analisi dell’intreccio, dello stile o di qualunque altra categoria o aspetto. Questa matematizzazione deve contrapporre l’analisi scientifica precisa alle chiacchiere non comprovate dei soggettivisti. «Il pensiero che parte dal concreto per arrivare all’astratto non si discosta, se è corretto […], dalla verità, ma ci si avvicina […]. Tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) riflettono la natura in modo più profondo, realistico e completo» (Lenin 1936: 166).

33

Chapter 7

Language as a Sign System and the Game of Chess1.

I. I. Revzin

Language is a system that has its own arrangement. Comparison with chess will bring out the point. In chess, what is external can be separated relatively easily from what is internal. The fact that the game passed from Persia to Europe is external; against that, everything having to do with its system and rules is internal. If I use ivory chessmen instead of wooden ones, the change has no effect on the system; but if I decrease or increase the number of chessmen, this change has a profound effect on the “grammar” of the game.

F. de Saussure 1.1 It will be beneficial for the development of semiotic theory to pursue Saussure’s analogy (Saussure 1933: 45). This is all the more timely because cybernetic model-building has encountered fundamental difficulties in relation not only to the game of chess but to linguistic tasks such as machine translation, apparently for similar reasons: in both cases man essentially uses his intuition, while model-building in terms of complete mastery has been

unsuited to solving such problems.

1.2. We have proposed the following comparisons on the basis of structural, not external, traits. It would have been possible in particular to regard the chess match as a dialogue or even an argument, in which each pair of sentences is linked by an adversary relationship, but we do not do this.

1 This article also appeared in Russian as «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

34

Capitolo 7

La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi1.

I. I. Revzin

La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio. Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tale caso è relativamente facile distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno, ed è interno, al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se sostituisco dei pezzi in legno con dei pezzi in avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se diminuisce o aumenta il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la “grammatica” del gioco.

F. de Saussure 1.1 Per lo sviluppo della teoria semiotica sarebbe utile continuare l’analogia di Saussure. È attuale tanto più che la modellizzazione computerizzata non solo del gioco degli scacchi ma anche di processi linguistici, la traduzione automatica per esempio, ha riscontrato alcune fondamentali difficoltà per ragioni evidentemente simili: in entrambi i casi l’uomo usa molto la propria intuizione, mentre la modellizzazione con il calcolo

completo delle mosse possibili è inadatta per risolvere queste difficoltà.

1.2 I raffronti riportati in seguito sono basati su fattori strutturali, non esterni. In particolare si sarebbe potuto considerare la partita a scacchi un dialogo o una discussione in cui in ogni coppia di proposizioni c’è un nesso di carattere avversativo, ma non lo facciamo.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

35

If the 2.12. move in the chess match is compared below with the lexical morpheme, the smallest significant unit in the sentence, this is not done in order for a sentence to be considered as a gradual, “move by move”, accumulation of morphemes either clarifying or negating the meaning of the preceding sentence (Hockett 1961: 220-236) – this is a very common notion – but in order for these elements to occupy a similar position in the structure of the whole.

1.3. Comparing a chess match with dialogue is only useful when we are involved in both cases with two participants who are alternately active and passive and who pursue a definite goal: winning at chess or achieving understanding in the act of communication. Achieving understanding is considered somehow self-evident, but in fact the participants have to overcome a substantial amount of “noise” having to do with nonconvergence of their semantics and nonconvergence of their grammar and phonology, which is also theoretically possible1. Moreover, situations are possible in which the speaker deliberately tries to conceal his meaning. This stance brings him closer to the position of the chess player, who as a rule tries to hide the meaning of a move, although in chess as well there are quite a few moves whose meaning is obvious to the other participant. Thus we are concerned with goal-directed activity in both objects of study; let us now examine the means of achieving the goal.

2.0. We shall consider both objects of study as structures, collections of elements with fixed relations between them.

1 See following pages.

36

Se la mossa 2.12. nella partita a scacchi è paragonata a un morfema lessicale, unità minima della proposizione significativa, lo si fa non perché una proposizione sia considerata un accumulo graduale, “mossa per mossa”, di morfemi che chiarificano o cancellano il senso della proposizione precedente (Hockett 1961: 220-236) – un’opinione molto diffusa – ma perché questi elementi occupano posizioni vicine nella struttura dell’insieme.

1.3. Il confronto di una partita di scacchi con il dialogo è utile solo se disponiamo in entrambi i casi di due partecipanti passivi e attivi a rotazione e che perseguono uno scopo preciso: vincere nel gioco e farsi comprendere nell’atto di comunicazione. Farsi comprendere è considerato un fattore evidente; in realtà i partecipanti devono superare una considerevole quantità di “rumore” causato dalla divergenza tra le loro abitudini semantiche e, teoricamente è possibile, grammaticali e fonologiche1. Inoltre, possono esservi casi in cui un parlante nasconda di proposito le proprie intenzioni. Tale atteggiamento si avvicina a quello dello scacchista che cerca di solito di mascherare il senso di una mossa, nonostante negli scacchi vi siano molte mosse il cui significato è ovvio all’altro giocatore. In entrambi gli oggetti di studio dunque siamo di fronte a un’attività finalizzata; cerchiamo ora di esaminarne gli strumenti per raggiungere lo scopo.

2.0. Prenderemo in considerazione entrambi gli oggetti di studio come strutture, insiemi di elementi con interrelazioni fisse.

1 Si veda le pagine successive.

37

2.1 Elements.

Chess

Language

2.1. The square.

2.1. Some nonsign background.

2.1.1. A very small set of pieces, sixteen in all, of which six are different. The first significant elements are

2.1.1. A very small set of auxiliary morphemes: affixes, inflections, grammatical prepositions, and in generaI “empty words”.

2.1.2. a finite number, however large, of moves, i.e., of three elements: initial position, new position, chess piece. The move has a very broad meaning which is realized differently each time in

2.1.2. The first significant element is the lexical morpheme; there is a finite number, however large, of morphemes. It is still a potential meaning which is realized in the elements of

2.1.3. a finite number of configurations of pieces, each of which is characterized by its own traits: pawn chain, center, copula, weak point, squares of a given color, opposition, check, zugzwang, etc. The number of such traits is finite; from these configurations is formed

2.1.3. a finite set of words, each of which is characterized by a finite set of traits (Revzin 1969: 63-74): the word’s differential traits, semes, and semantic valences. From these words is formed

2.1.4. an infinite set of positions: the arrangement of all the pieces on the chessboard at a given moment of time t. The positions can be divided into correct and incorrect positions; it is impossible to arrive at an incorrect position by a correct play from initial position. There is an intermediate class of positions that can only be arrived at by completely ignoring the game’s principles and that are meaningless from the standpoint of the player’s practice but not from that of the theoretician.

2.1.4. an infinite set of sentences, which can be subdivided into sentences that are correct, incorrect, and an intermediate class.

2.1.5. Match

2.1.5. Text

2.1.6. Outcome: winning, draw, losing

2.1.6. Understanding, incomplete understanding, lack of understanding

38

2.1. Elementi.

Scacchi

Lingua

2.1.0. Scacchiera

2.1.0. Un contesto non semiotizzato

2.1.1. Un numero molto piccolo di pezzi, sedici in tutto, ma solo sei tipi diversi. I primi elementi significativi sono:

2.1.1. Un numero molto piccolo di morfemi ausiliari: affissi, flessioni, preposizioni grammaticali e “parole vuote” in generale.

2.1.2. un numero finito, ma grande, di mosse, cioè di tre elementi: posizione iniziale, nuova posizione, pezzo. La mossa ha un significato molto generale che si attualizza ogni volta in modo diverso con

2.1.2. La prima unità significativa è il morfema lessicale; vi è un numero finito, ma grande, di morfemi. È anche il significato potenziale attualizzato negli elementi

2.1.3. un numero finito di configurazioni di pezzi, ognuna di quali è caratterizzata dai tratti particolari: catena di pedoni, centro, copula, punto debole, case di un certo colore, opposizione, scacco, zugzwang ecc. Il numero di questi tratti è finito: da queste configurazioni si formano

2.1.3. della quantità finita di parole, ognuna caratterizzata da una quantità finita di tratti (Revzin 1969: 63-74): tratti differenziali di parole, semi e valenze semantiche. Da queste parole si forma

2.1.4. innumerevoli posizioni (la disposizione di tutti i pezzi sulla scacchiera in un tempo t). Le posizioni possono essere suddivise in posizioni corrette e scorrette; è impossibile giungere a una posizione scorretta con un gioco corretto dalla posizione iniziale. Esiste una classe intermedia di posizioni alle quali si può arrivare ignorando completamente i princìpi di gioco, ma le quali sono prive di significato, secondo il punto di vista dello scacchista ma non del ricercatore.

2.1.4. un’infinita quantità di proposizioni, che possono essere suddivise in corrette, scorrette e di una classe intermedia.

2.1.5. Partita

2.1.5 Testo

2.1.6. Risultato: vincita, patta, perdita

2.1.6. Comprensione, comprensione incompleta, incomprensione

39

2.2. Relations.

Chess

Language

2.2.1. The interaction between the pieces: the correlation between the strength and number of attacking and defending pieces, “the coefficient of tension” in the main zones of play, the saturation of valence1

2.2.1. Syntagmatics: valent connections between words

2.2.2. Recollection of previous moves, for instance in connection with the rule about threefold repetition of a position, and especially of possible future positions. The question is not so much that of the positions themselves as of their configurational traits. (See 2.1.3.)

2.2.2. Paradigmatics: recollection of connections between words and sentences not present in the text

2.2.3. A specific instance of the preceding is the relation between abridging the position and isolating support configurations: the pawn backbone, open lines, pawn superiority on the flank, bishops of opposite colors, etc. Ability to abridge the position makes it possible to foresee the situation for many moves in advance, which is not possible with a full set of pieces.

2.2.3. Abridging sentences to initial words, usually to the predicate, is a special type of relation in a sentence, as is abridging each dependent cluster to a single word, usually a pronoun. This abridgment makes it possible to reduce all the diverse formations of the sentence to a finite number of equivalent classes, and thus, according to Donald Michael’s theorem, to conceive of language as the product of a finite automaton.

2.3. Operations.

Applying the relations mentioned in 2.2. and other possible relations in order to achieve an objective makes it possible to speak of combinations of relations.

1 The valence of a chess piece means the number of squares that it can attack; the valence is saturated if sufficiently valuable pieces of the opponent stand on these squares. From our viewpoint, it was precisely valences that were formalized in previously proposed models of the game of chess.

40

2.2. Relazioni.

Scacchi

Lingua

2.2.1. Interazione tra pezzi: correlazione tra potenza e numero di pezzi che attaccano e/o si difendono, “coefficiente di tensione” nelle principali aree di gioco, saturazione della valenza1.

2.2.1. Sintagmatica, ossia legami valenti tra le parole

2.2.2. Memoria delle mosse precedenti, in relazione alla regola della triplice ricorrenza della posizione, e soprattutto delle possibili posizioni future. Non si tratta tanto delle posizioni stesse quanto delle loro caratteristiche configurazionali (si veda 2.1.2.).

2.2.2. Paradigmatica, ossia la memoria dei legami assenti nel testo tra parole e proposizioni.

2.2.3. Il caso specifico dell’affermazione precedente è la relazione tra la circoscrizione della posizione e l’individuazione delle configurazioni d’appoggio: catene di pedoni, posizioni aperte, superiorità dei pedoni sul fianco, alfieri di colore contrario, ecc. La capacità di circoscrivere la posizione permette di prevedere la situazione per molte mosse future, ciò che è impossibile fare attraverso il calcolo completo delle mosse possibili.

2.2.3. Un tipo specifico delle relazioni nella proposizione è la relazione tra la circoscrizione della proposizione alle parole iniziali, solitamente in funzione di predicato, e nel contempo la circoscrizione di ogni gruppo dipendente a una singola parola, solitamente al pronome. Questo permette di limitare la moltitudine di componenti di una proposizione a un numero finito di classi equivalenti e di conseguenza, in base al teorema di Colin Mayhill, di concepire il linguaggio come generato da un meccanismo finito.

2.3. Operazioni.

L’applicazione delle relazioni menzionate nel 2.2 (e non solo) per raggiungere l’obiettivo permette di parlare dell’insieme di operazioni.

1 Per «valenza» di un pezzo si intende il numero delle case che essa può attaccare; la valenza è saturata se su quelle case sono esposti pezzi importanti dell’avversario. Dal nostro punto di vista sono proprio le valenze a essere state formalizzate nei modelli precedenti del gioco degli scacchi.

41

Chess

Language

2.3.1. “Tactics”: making a decision on the basis of logical reasoning, (“calculation”, as chess players say) or on the basis of traits of type 2.1.3.

2.3.1. Ascertaining meaning by means of transformational analysis = logical deduction, or with the support of the differential traits of words.

2.3.2. “Strategy”: ascertaining a position’s strong elements by means of mental abridgment (See 2.2.3).

2.3.2. Ascertaining the phrase’s structural skeleton by means of abridgment (See 2.2.3).

Note. At this point it can be shown that the comparison works precisely the other way around, for while in chess “strategy” is most important, in linguistic analysis preference is given to the equivalent of “tactics”, as in the characteristic distinction between “deep” and “surface” structure. However, it appears that both types of operations are equally important in their respective instances.

3. Let us now analyze the types of rules applied to our objects of comparison.

3.1. First and foremost, there are rules that constitute the system itself; it is precisely these that Saussure had in mind, at least as applied to chess.

Chess

Language

Rules determining the possible moves for each piece in certain configurations

Rules determining the use of auxiliary morphemes given the sentence’s structural meaning

Forbidden

Permitted

Forbidden

Permitted

It is prohibited, for example, to pIace the king on a threatened square.

All the remaining rules

Violation of certain types of grammatical agreement

Usually a rule has this form: to express such – and- such a meaning it is permitted to use one or another format.

42

Scacchi

Lingua

2.3.1 “Tattica”: arrivare a una decisione basandosi sul ragionamento logico (o «calcolo» come dicono gli scacchisti) oppure sui tratti del tipo 2.13.

2.3.1. Accertamento del senso attraverso l’analisi trasformazionale (inferenza logica) o l’appoggio sui tratti distintivi di parole.

2.3.2. “Strategia”: accertamento degli elementi fondamentali della posizione attraverso la circoscrizione dei pensieri (si veda 2.2.3).

2.3.2. Accertamento della struttura della frase attraverso la circoscrizione (si veda 2.2.3).

Nota. A questo punto è possibile dimostrare che il raffronto si verifica esattamente “al contrario” dato che nel gioco degli scacchi la “strategia” è più importante, mentre nell’analisi linguistica la preferenza viene attribuita alla “tattica” (per esempio nella distinzione tipica tra struttura “profonda” e “superficiale”). Nonostante ciò entrambi i tipi di operazioni sono importanti per entrambi gli oggetti in questione.

3. Passiamo all’analisi dei tipi di regole applicabili agli oggetti confrontati.

3.1. Innanzitutto, esistono regole che costituiscono il sistema stesso; è proprio queste regole che intendeva Saussure, se dovessimo applicarle al gioco degli scacchi.

Scacchi

Lingua

regole che determinano le possibili mosse per ogni pezzo in date configurazioni

regole che determinano l’utilizzo dei morfemi ausiliari avvalendosi del significato strutturale prestabilito della proposizione.

Proibito

Permesso

Proibito

Permesso

è proibito per esempio posizionare il re sulla casa a rischio

tutte le altre regole

violare certi tipi di concordanze

solitamente la regola ha la seguente forma: per esprimere un certo significato è permesso usare un certo formante

43

Note. “Agreement” means a rule for connecting auxiliary morphemes. The regimen governing the connection between the auxiliary morphemes of one word and the lexical morphemes of another generally does not possess a very high degree of interdiction.

3.2. Another type of rule is aimed at achieving the maximum effect within a given system. These rules can be divided into two groups.

3.2.1. Rules of a general nature, i.e., general organizational principles for the text or match.

Chess

Language

Principles for the development of pieces, i.e., “one piece is not moved twice in the opening”; for capturing the center in the opening; or for the movement of pawns opposite which there are no hostile pieces in the endgame.

Ivanov’s postuIate (Ivanov 1963: 156-178) about the inadmissibility of different objects’ having an identical meaning within a single situation; the principle of the availability of common semes, “supplementary valence”; in words which are directly linked syntactically or in a more general form, the principle of redundant encoding.

3.2.2. Rules based on knowledge of a specific precedent.

Chess

Language

Recommendations for openings; for example, “how Botvinnik pIayed against …“; reference to basic endgame schemes, and in the middle game even to individual matches, i.e., “a construction similar in many ways to the well-known match between Braunschweig, Duke of Morfì, and Count Isoire”1.

Orientation on the basis of a set of model sentences (Revzin 1966: 3- 15).

1 This report was written under the strong influence of D. Bronstejn’s commentaries on the matches at the Zurich tournament of aspirants, from which this phrase is taken.

44

Nota. Per «concordanza» s’intende una regola di accordo morfologico tra i morfemi ausiliari. Le reggenze, che determinano l’accordo tra i morfemi ausiliari di una parola e i morfemi lessicali dell’altra, normalmente non possiedono un alto grado di proibizione.

3.2. Un altro genere di regole riguarda il raggiungimento del massimo effetto all’interno di un certo sistema. Queste regole possono essere suddivise in due gruppi.

3.2.1. Regole di carattere generale (princìpi generali di organizzazione del testo e, di conseguenza, della partita).

Scacchi

Lingua

Princìpi di sviluppo dei pezzi («un pezzo non viene mai mosso due volte nella fase d’apertura del gioco»), occupare il centro nella fase d’apertura oppure promuovere il pedone che non ha un pedone avversario nella fase finale.

Il postulato del linguista russo Ivanov (Ivanov 1963: 156-178) secondo il quale è inammissibile che gli oggetti differenti vengano denotati in modo identico in una stessa situazione; il principio di esistenza dei semi generali o “valenza supplementare” nelle parole collegate tra loro sintatticamente o più generalmente il principio di codificazione ridondante.

3.2.2. Regole basate sul rimando a un precedente specifico.

Scacchi

Lingua

Consigli per la fase d’apertura, (per esempio: «in questo modo Botvinnik ha sfidato …»), rimandi agli schemi usuali di fase finale, mentre nel mediogioco si può ricorrere ai rimandi alle partite famose («situazione, molto simile alla nota sfida Paul Morphy vs Duca Von Braunschweig e Conte Isouard»)1.

Orientamento su proposizioni-modello (Revzin 1966: 3-15).

1 Questo articolo è stato fortemente influenzato dai commenti di D. Bronštejn sulle partite al torneo degli aspiranti giocatori di Zurigo. Questa frase è presa da quel contesto.

45

3.3. Finally, there are rules that pertain to the system’s external use.

4. There are completely different violations for each of the types of rules cited, which witnesses indirectly to the differences between them.

4.1. Rules of the 3.1. kind generally cannot be violated, for their violation results in violation of the system. It is true, as pointed out in the note to 3.1., that there are intermediate cases in language, such as grammatical government, whose violation brings us to 3.2.

4.2.1. Rules of the 3.2.1. kind can of course be violated, most of all because, generally speaking, it is possible for the different participants to make use of them to a different extent. However, violation of these rules does not necessarily lead to reduced effectiveness. On the contrary, in chess, as in language, the creative but by no means unpremeditated violation of the 3.2.1. rules can exert a very powerful effect, as happened with hypermodernism in chess of the 1920s.

4.2.2. Violation of the 3.2.2. rules is involved where orientation on the basis of mode1s plays a different role according to various inclinations2.

4.3. Violation of the 3.3. rules can go unpunished if it is not noticed by the other participant and does not affect achievement of the goal set by the speaker or player; let us note that in the case of language the goal here is precisely to deceive the hearer; see 1.3.

1 From our viewpoint, such rules do not pertain to the postulates of language but rather to the postulates of good sense; see Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. For another viewpoint, see Wheatley 1970: 34, according to which language contains a semantic rule of the type, “A says: I promise X, entails: A intends X”.

2 The author has devoted a special study to this question.

Chess

Language

The rule “remove a piece after capturing it”; the time-limit, etc.

The requirement that the speaker really believe what he says1.

46

3.3. Infine, esistono regole riguardanti l’aspetto puramente esterno del gioco.

4. Per ognuno di questi tipi di regole ci sono diversi tipi di violazioni, una testimonianza indiretta della loro differenza.

4.1. Le regole del tipo 3.1. non possono essere violate poiché la loro violazione comporta la violazione dell’intero sistema. Anche se nella lingua, come precisato nella nota in 3.1., vi sono regole intermedie (è il caso delle reggenze) la violazione delle quali ci porta a 3.2.

4.2.1. Le regole del tipo 3.2.1., s’intende, possono essere violate soprattutto perché i giocatori possono applicarle in misura diversa. Tuttavia la loro violazione non necessariamente porta all’abbassamento dell’efficacia che si può ottenere. Al contrario, sia negli scacchi sia nella lingua la violazione artistica (non quella calcolata) delle regole 3.2.1. può avere una forte influenza sull’esito (si veda l’ipermodernismo negli scacchi negli anni Venti).

4.2.2. Lo stesso avviene per le regole del tipo 3.2.2., dove l’orientamento verso i modelli nelle correnti diverse svolge un ruolo differente2.

4.3. La violazione delle regole 3.3. può rimanere impunita nel caso il giocatore avversario non dovesse notarlo e non incidere sul raggiungimento dello scopo posto dal parlante (o giocatore). Bisogna precisare che nel caso della lingua lo scopo è proprio quello di ingannare l’ascoltatore (si veda 1.3.).

1 Dal nostro punto di vista, tali regole non riguardano i postulati della lingua, ma i postulati del buon senso; si veda Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. Per un altro punto di vista, si veda Wheatley 1970: 34, secondo cui nella lingua opera la regola semantica del tipo: “A dice: prometto X, comporta: A intende X”.

2 L’autore ha dedicato un studio speciale a questo argomento.

Scacchi

Lingua

la regola «se tocchi un pezzo con la mano devi eseguire la mossa con quel pezzo», i limiti temporali e così via.

il parlante deve intendere quello che dice1

47

If the violation is noticed, this disclosure obviously leads to punishment in the case of chess; punishment is not always obvious in the case of language, although the violation affects the hearer’s notion of the speaker’s morals.

5.1. The goal of this report has been to show that the human intellect seems to make use of similar constructions to solve different tasks pertaining to the processing of information, and therefore it is advisable to describe them in a single system.

5.2. Also, examining possible systems and types of rules is useful in considering any modeling systems having to do with rules and norms.

48

Se, invece, la violazione viene rilevata, si ricorre alla punizione – ovvia nel caso degli scacchi e non altrettanto ovvia nella lingua (la violazione incide sull’opinione che l’ascoltatore ha della morale del parlante).

5.1. Lo scopo di questa comunicazione è dimostrare che l’intelletto umano, evidentemente, usa costrutti simili per la soluzione di problemi diversi che riguardano l’elaborazione delle informazioni e che è quindi opportuno descriverli in un unico sistema.

5.2. D’altra parte lo studio dei sistemi e dei tipi di regole possibili è utile per lo studio di qualsiasi sistema modellizzante che abbia a che fare con regole e norme.

49

References
Hjelmslev, L., «Prolegomeny k teorii âzyka» in: Novoe v lingvistike, Moskva,

1960, 264-389
Hockett, C., «Grammar for the Hearer», in Proceedings of Symposia in Applied

Mathematics, 1961, 220-236.
Ivanov, I. I., «Nekotorye problemy sovremennoj lingvistiki», in Narody Azii i

Afriki, 1963, Moskva, N 4, 156-78.

Karpinskaâ, O. G., Revzin, I. I., «Semiotičeskij analiz rannih p”es Ionesko» in Tezisy dokladov vo vtoroj letnej škole po vtoričnym medeliruûŝim sistemam: 16-26 avgusta 1966, 1966, Tartu, 34-36

Lekomceva, M. I., Usplenskij, B. A., «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», in: Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov, Moskva, 1962, 84-86.

Lenin, L. I., Filosofskie tetradi, Moskva, Partijnoe izd., 1936.
Polti, G., Les 36 situations dramatiques, Paris, Mercuri de France, 1895 Propp, V., Morfologiâ skazki, Leningrad, Accademia, 1928.

Revzin, I. I., «K semiotičeskomu analizu detektivov (na primere romanov Agaty Kristi)», in: Programma i tezisy dokladov v letnej škole po vtoričnym modeliruûŝim sistemam, Tartu, 1964, 38-40.

Revzin, I. I., «Otmečennye frazy, algebra fragmentov, stilistika», in Lingvističeskie issledovaniâ po obŝej i slavânskoj tipologii, 1966, Moskva, 3-15.

Revzin, I. I., «Razvitie ponâtiâ struktury âzyka», in Voprosy filosofii, 1969, Moskva, N 8, 63-74

Saussure, F. de, Kurs obŝej lingvistiki, Moskva, 1933
Ŝeglov, Û. K., «K postroeniû strukturnoj modeli o Šerloke Holmse», in:

Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem, 153-155.

50

Riferimenti bibliografici
Hjelmslev, L., «Prolegomeny k teorii âzyka» in: Novoe v lingvistike, Moskva,

1960, 264-389
Hockett, C., «Grammar for the Hearer», in Proceedings of Symposia in Applied

Mathematics, 1961, 220-236.
Ivanov, I. I., «Nekotorye problemy sovremennoj lingvistiki», in Narody Azii i

Afriki, 1963, Moskva, N 4, 156-78.

Karpinskaâ, O. G., Revzin, I. I., «Semiotičeskij analiz rannih p”es Ionesko» in Tezisy dokladov vo vtoroj letnej škole po vtoričnym medeliruûŝim sistemam: 16-26 avgusta 1966, 1966, Tartu, 34-36

Lekomceva, M. I., Usplenskij, B. A., «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», in: Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov, Moskva, 1962, 84-86.

Lenin, L. I., Filosofskie tetradi, Moskva, Partijnoe izd., 1936.
Polti, G., Les 36 situations dramatiques, Paris, Mercuri de France, 1895 Propp, V., Morfologiâ skazki, Leningrad, Accademia, 1928.

Revzin, I. I., «K semiotičeskomu analizu detektivov (na primere romanov Agaty Kristi)», in: Programma i tezisy dokladov v letnej škole po vtoričnym modeliruûŝim sistemam, Tartu, 1964, 38-40.

Revzin, I. I., «Otmečennye frazy, algebra fragmentov, stilistika», in Lingvističeskie issledovaniâ po obŝej i slavânskoj tipologii, 1966, Moskva, 3-15.

Revzin, I. I., «Razvitie ponâtiâ struktury âzyka», in Voprosy filosofii, 1969, Moskva, N 8, 63-74

Saussure, F. de, Kurs obŝej lingvistiki, Moskva, 1933
Ŝeglov, Û. K., «K postroeniû strukturnoj modeli o Šerloke Holmse», in:

Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem, 153-155.

51

Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

52

Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

53

Analisi traduttologica

54

Dedicherò questa parte della mia tesi all’analisi degli articoli la cui traduzione è riportata sopra. L’argomentazione si strutturerà secondo lo schema classico dell’analisi traduttologica con l’individuazione del lettore modello e delle dominanti. Inoltre, illustrerò brevemente in un capitolo a parte la strategia traduttiva e i problemi di traduzione.

Ma prima di cominciare l’analisi vorrei concentrare la mia attenzione sugli autori degli articoli in questione e sugli articoli stessi.

Fonte, autori, argomento.

«The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» e «Language as a Sign System and the Game of Chess» sono due articoli tratti dal volume Soviet Semiotics a cura di Daniel Peri Lucid (The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1977). Nel libro sono raccolti numerosi saggi scientifici di autori appartenenti alla scuola sovietica di semiotica, come Boris Uspenskij e Ûrij Lotman.

La semiotica è la scienza dei segni linguistici e non linguistici, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto simbolico. Una semiotica moderna si profila già con Peirce, che pone le basi di una teoria filosofica in cui hanno forte rilievo, tra l’altro, la nozione di «semiosi illimitata» e la suddivisione di tre tipi diversi di segni, ossia icone, indici e simboli, a seconda che il rapporto con il referente sia di similarità, come nelle icone, di contiguità o convenzionale. Ma è soprattutto con Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev che si afferma la teoria semiotica moderna. È chiarito lo statuto formativo del significante e del significato; è proposta la nozione di «funzione segnica» e altre nozioni ancora hanno validità generale e appaiono di straordinaria importanza per lo sviluppo della semiotica, come quelle di codice e di commutazione, di rapporti sintagmatici e di rapporti associativi, di sincronia e di diacronia, di sistema come meccanismo produttivo di segni, di unità minime differenziali dal significante, di senso e di atto semico. Su queste basi la semiotica, insieme con la linguistica e

55

l’estetica, ha conosciuto un vasto sviluppo al quale hanno contribuito a vario titolo e con diverse prospettive teoriche – non sempre coincidenti con quelle di Saussure e Hjelmslev – Tynânov, Âkobson, Lotman e Uspenskij. Lotman e Uspenskij appartengono alla scuola sovietica di semiotica e sono stati i primi a teorizzare l’analisi dei «sistemi modellizzanti secondari», cioè di tutti quei sistemi semiotici, diversi dalle lingue, in cui si esprimono specifici modelli di concezione del mondo e di elaborazione umana della realtà (dai miti al folclore, dalle religioni all’arte).

Egorov Boris Fedorovič (nato nel 1926), narratologo russo, ricercatore in scienze filologiche (1967), docente universitario (dal 1978 presso l’Università della storia russa; RAN). Argomenti di cui Egorov si occupa sono: tratti peculiari della critica russa dell’Ottocento e il posto che occupano nella letteratura e nella cultura nazionali, slavofilismo, social-utopisti, critica estetica. Ha pubblicato: O masterstve literaturnoj kritiki (1980), Bor’ba èstetičeskih idej v Rossii serediny XIX veka (1982, 1991), Očerki po istorii russkoj kul’tury XIX veka (1996). Dal 1978 al 1991 – vicepresidente e dal 1991 presidente del comitato di redazione dell’accademia russa delle scienze «Literaturnye pamâtniki».

Nel suo articolo «The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» Egorov argomenta contro Lekomceva e Uspenskij per aver dato troppa importanza alla pragmatica del gioco nel quale una cartomante professionale dispone di una libertà illimitata nella lettura delle carte. Egorov insiste sull’oggettività della descrizione semiotica e paragona la lettura da parte della cartomante della vita di una persona alla creazione di un intreccio, in una maniera prestabilita, variando solo la posizione del segno all’interno di un gruppo limitato di segni, le carte nel mazzo. Lo scopo dello studioso è usare il sistema di divinazione mediante le carte da gioco come modello primitivo per l’analisi dell’intreccio letterario (oggetto della narratologia). Sia il sistema cartomantico che quello degli intrecci è basato su una serie di elementi primari e su dati metodi di distribuzione. Egorov mette in evidenza il fatto che il sistema semiotico della letteratura abbia una sintassi che potrebbe essere classificata in

56

un’eventuale «tavola periodica di Mendeleev» degl’intrecci. Dall’interrelazione di elementi semplici nascono strutture testuali complesse.

Revzin Isaak Iosifovič (1923—1974), linguista, ricercatore in scienze filologiche (1964), membro dell’Istituto di lingue straniere. Pubblicazioni nel campo di linguistica strutturale (teoria generale della modellizzazione, fonologia, grammatica), di semiotica e di poetica. Revzin ha creato, con Rozencvejg, un modello dei tipi di traduzione in Linguistica strutturale contemporanea. Problemi e metodi, del 1977. Ha definito cinque tipi di traduzione: interlineare o parola per parola, letterale, semplificante, precisa e adeguata.

L’articolo «Language as a Sign System and the Game of Chess» di Revzin approfondisce l’analogia di Saussure tra la lingua e il gioco degli scacchi. Mettendo a confronto il sistema linguistico e il sistema di gioco il linguista russo cerca di dimostrare che l’intelletto umano usa nel processo di elaborazione delle informazioni costruzioni simili a quelle di un programma computerizzato che fa la previsione delle mosse possibili nel gioco. In entrambi i sistemi Revzin segnala un numero limitato di elementi – pezzi negli scacchi e morfemi nella lingua – che generano numerose posizioni nel primo caso e vocaboli e proposizioni nel secondo. A livello di relazioni tra componenti, le connessioni tra parole assomigliano alle relazioni tra pezzi sulla scacchiera. Tattica e strategia del gioco vengono paragonate alla struttura superficiale e profonda della lingua. Inoltre, entrambi i sistemi sono costruiti con quelle regole che costituiscono il sistema stesso e altre che mirano a un effetto massimo all’interno del sistema. Il gioco degli scacchi sembra un sistema molto meno complesso di quello della lingua, ma l’approccio di Revzin consistente nel trovare similitudini tra questi sistemi completamente diversi permette il tentativo di creare un unico modello generale.

57

Analisi traduttologica

Entrambi gli articoli di cui ho proposto una traduzione sono testi prevalentemente argomentativi, destinati non solo a un pubblico colto e già esperto in materia, ma anche a un appassionato di semiotica e di linguistica (lettore modello). Sono due testi dal taglio piuttosto professionale, ma non eccessivamente accademico, e neanche di saggistica divulgativa, con l’utilizzo di una terminologia settoriale (a volte spiegata nelle note e nel corpo del testo) e numerosi rimandi a testi e saggi delle varie discipline. Lo stile degli autori è abbastanza lineare, piano, sobrio, spesso difficile non perché la sintassi sia contorta, ma per la complessità dei concetti espressi. Inoltre, sono presenti alcune caratteristiche proprie dei testi scientifici, quali l’uso del passivo e dello universal we.

Dal punto di vista traduttologico la dominante di entrambi i testi è quella informativa per cui ho prestato molta attenzione al lessico adeguato e pregnante, all’esattezza terminologica che mi ha portato a un lavoro preliminare di ricerca, sicuramente più tramite il web che su testi cartacei, per familiarizzarmi con concetti e termini chiave. Oltre che dei concetti semiotici e linguistici gli articoli si avvalgono di una terminologia specifica del gioco degli scacchi in Revzin e della cartomanzia in Egorov. Ho consultato, come accennato prima, dizionari, testi paralleli di riferimento, internet affinché la traduzione fosse il più aderente possibile al testo. Ho ritenuto corretto verificare su fonti elencate nei riferimenti bibliografici informazioni, date, nomi contenuti nei testi. Questa è stata la mia strategia traduttiva.

Per la traslitterazione dei nomi scritti in cirillico mi sono servita delle norme ISO 9 del 1995 in cui ad ogni simbolo cirillico corrisponde un solo simbolo latino. La tabella riportata in seguito rappresenta il metodo di traslitterazione attualmente in uso e uno di quelli precedenti in cui a un carattere cirillico possono corrispondere più caratteri latini, come nel caso delle lettere Ч, Ш, Ц ecc.

58

Russo

GOST 7

ISO 9

А, а

A, a

A, a

Б, б

B, b

B, b

В, в

V, v

V, v

Г, г

G, g

G, g

Д, д

D, d

D, d

Е, е

JE, je

E, e

Ё, ё

JO, jo

Ë, ë

Ж, ж

ZH, zh

Ž, ž

З, з

Z, z

Z, z

И, и

I, i

I, i

Й, й

J, j

J, j

К, к

K, k

K, k

Л, л

L, l

L, l

М, м

M, m

M, m

Н, н

N, n

N, n

О, о

O, o

O, o

П, п

P, p

P, p

Р, р

R, r

R, r

С, с

S, s

S, s

Т, т

T, t

T, t

У, у

U, u

U, u

Ф, ф

F, f

F, f

Х, х

KH, kh

H, h

Ц, ц

CZ, cz

C, c

59

Ч, ч

CH, ch

Č, č

Ш, ш

SH, sh

Š, š

Щ, щ

SHH, shh

Ŝ, ŝ

Ъ, ъ

Ы, ы

Y’, y’

Y, y

Ь, ь

Э, э

È, è

È, è

Ю, ю

JU, ju

Û, û

Я, я

JA, ja

Â, â

La maggiore difficoltà traduttiva dei due saggi è stata quella terminologica: trovare il corrispondente giusto, verificare che il contesto in cui lo trovavo fosse affidabile. Analizzerò ora con un esempio la strategia traduttiva che ho usato per risolvere questa difficoltà:

− traduzione di «language» nell’articolo di Revzin: lingua versus linguaggio.

Il vocabolario Traccani definisce in questo modo la parola «lingua» (ometto significati impertinenti):

lingua s. f. [lat. lĭngua (con i sign. 1 e 2), lat. Ant. dingua]. […]. 4 a Sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfeme), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione o lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche […]. b. Usato assol., con riferimento generico: la grammatica, la sintassi, il lessico o vocabolario d’una l.; il carattere (e ormai ant. l’indole, il genio) d’una l.; la storia, l’evoluzione della l. […].

Ecco invece come viene definita la parola «linguaggio» nello stesso vocabolario:

60

linguaggio s. m. [der. di lingua]. – 1. Nell’uso ant. o letter., e talora anche nell’uso com. odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità […]. 2. a In senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli essere umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di inforrmare altri essere sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di una sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingua storicamente determinate). […]. b. estens. Facoltà di esprimeresi attraverso altri segni, sia gesti, sia simboli. In partic., l’insieme dei mezzi espressivi e stilistici, diversi dalla parola, che sono peculiare della varie arti. […]

Analizzando bene le definizioni mi sono resa conto che il loro campo semantico è molto simile, ma che la parola «lingua» è più adatta per il saggio in questione perché è quella usata da Saussure (l’argomento del saggio di Revzin approfondisce l’analogia tra la lingua e gli scacchi tracciata da Saussure) e dai linguisti in generale. Per verificare quest’ultima affermazione ho inserito nel motore di ricerca il nome del linguista svizzero accanto alla parola «lingua» e successivamente accanto a «linguaggio» e ho notato che nel caso della prima combinazione di parole vi sono molte più occorrenze nei siti affidabili di linguistica e scienza della traduzione.

61

Riferimenti bibliografici
Egorov, B. F., «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy

po znakovym sistemam, II, 1965, Tartu, Tartu University Press, 106-115. Karpov, A. E., Il manuale degli scacchi di Karpov Anatolij, Milano, Walt Disney

Company Italia, 1997.

Lucid, D. P., Soviet Semiotics, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1977.

Osimo, B., La traduzione saggistica dall’inglese: guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2007

Osimo, B., Manuale del traduttore: Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2004

Osimo, B., Propredeutica della traduzione: Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001

Osimo, B., Storia della traduzione: riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002

Revzin, I. I., «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970, 1970, Tartu, Tartu University Press, 177- 185.

Saussure, F. de, Corso di linguistica generale, Bari, Editori Laterza, 1972 Torop, P., Total’nyj perevod, Tartu, Tartu Ülikooli Kirjastus, 1995. Traduzione

italiana La traduzione totale, a cura di B. Osimo, Modena, Logos 2000.

62

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick NADIA QUARTINI

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

NADIA QUARTINI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 3 novembre 2005

ABSTRACT IN ITALIANO

Il presente lavoro intende mostrare ed approfondire alcuni problemi e riflessioni di carattere traduttologico inerenti all’analisi del processo della trasposizione cinematografica, divenuto da tempo nuovo oggetto di studio.

Poiché il processo della trasposizione cinematografica, in quanto esempio di traduzione intersemiotica, avviene coinvolgendo un altro sistema di segni, nel quale il prototesto è costituito da segni verbali laddove il metatesto è composto da segni non soltanto verbali – come immagini e suoni –, la strategia traduttiva dovrà partire dalla scomposizione ed analisi degli elementi del prototesto per approdare in seguito alla ricerca di elementi di nuova sintesi e di mezzi espressivi attraverso i quali tali elementi possono essere raffigurati all’interno del metatesto.

Sulla base di tali osservazioni e prendendo spunto dalle valutazioni fino ad ora condotte da alcuni studiosi appartenenti a differenti scuole di pensiero, si è cercato di ricavare un metodo generalmente valido che possa essere applicato nel modo più ampio possibile.

A tal scopo, è stato preso ad esempio, scomposto ed esaminato un caso concreto di trasposizione cinematografica – ovvero la trasposizione cinematografica di Doppio Sogno di Arthur Schnitzler in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick – con particolare attenzione all’analisi del tema dominante della vicenda narrata: il ruolo delle dinamiche di coppia e la loro rappresentazione all’interno di entrambe le opere.

Il primo capitolo si propone di analizzare il prototesto nei suoi tratti caratteristici e distintivi, ovvero fabula e intreccio, personaggi, temi principali, tempo e spazio; vengono inoltre delineate le dominanti che costituiranno l’asse portante del metatesto.

Il secondo capitolo affronta la vera e propria analisi traduttologica della

2

trasposizione cinematografica dal romanzo al film e presenta un esame dettagliato sia della riproduzione e rappresentazione dei temi del prototesto all’interno del metatesto sia dei fondamentali tagli e cambi operati alla vicenda stessa.

Il terzo capitolo, infine, si propone di approfondire l’analisi di una sola sequenza, rappresentativa del tema dominante di entrambe le opere, attraverso un accurato raffronto fra le pagine contenute all’interno del racconto e la loro rappresentazione nel film: il confronto iniziale fra i due protagonisti, grazie al quale si apre la vicenda stessa, nel quale al meglio vengono delineate le contraddittorietà che caratterizzano il rapporto di coppia.

3

ABSTRACT IN ENGLISH

The aim and purpose of this thesis is to discuss a special type of translation: the intersemiotic, extratextual translation.

When we think about translation we generally think about the translation of a verbal text into another language. But the phenomenon of verbal textual translation is more complex because translation covers a much wider and more varied range of texts.

Semiology has made the concept of text wider and more comprehensive. In fact, the notion of language has been extended to non-verbal languages as well. As a result the notion of text implies a coherent system of utterances in every language. In light of this new, expanded definition, films and advertisments can also be considered texts and the transferring of literature into film or theatre can be treated as an act of translation. In translating text into visual performance, the prototext – source text – is a verbal text and the metatext – target text – is a non-verbal text, made up of visual images. Conversion from the prototext into the metatext involves two different sign systems. This type of translation is called intersemiotic extratextual translation.

When a translator works on the dramatization of a novel, he first tries to take the prototext apart in its elements and then chooses an appropriate translation strategy, based on the search for charcateristics existing in common between the two texts. He keeps these aspects and develops a technique aimed at transferring the other aspects.

The analysis of Arthur Schnitzler’s novel and Stanley Kubrick’s masterpiece leads to the conclusion that novel and film are not two completely different, parallel texts. Although there are some essential differences between the two works – such as in time and space –, the dominant messages and themes of the novel have been maintained and very well represented in the film.

4

The paper is divided into three main chapters.

The first chapter deals with the analysis of Schnitzler’s novel. Particular attention is given to the main components of the plot, including the novel’s themes and characters as well as its particular use of space and time.

The second chapter focuses on the comparison between the text of the novel and the filmic text. Particular attention is given to the dominant messages and themes of the two texts, as well as to cuts and changes to Schnitzler’s novel.

The third and last chapter concentrates on a special aspect of the filmic text: the representation of the relationship between the two main characters. Attention is focused on an important scene that is compared with the corresponding pages of the book.

5

ABSTRACT AUF DEUTSCH

Ziel dieser Diplomarbeit ist es, die intersemiotische extratextuelle Übertragung von einem Buch in einen Film zu zeigen.

Wir unterscheiden drei Arten der Wiedergabe eines sprachlichen Zeichens: die innensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen mittels anderer Zeichen derselben Sprache, die zwischensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch eine andere Sprache, während die intersemiotsche Übersetzung eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch Zeichen nicht-sprachlicher Zeichensysteme ist.

Die extratextuelle Übersetzung fällt in die Sphäre der intersemiotischen Übersetzung und die Verfilmung eines Buches ist ein Beispiel von der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung. In diesem Fall bestehen der Prototext – d.h. der Ausgangtext – aus verbalen Zeichen und der Metatext – d.h. der Zieltext – aus nicht-verbalen Zeichen.

Der Übersetzungsprozess betrifft zwei verschiedene Zeichensysteme. Der Übersetzer führt eine Textanalyse durch und untersucht den Prototext in bezug auf die darin enthaltenen dominierenden Merkmale; er muss demnach die richtige Strategie anwenden, um die dominierenden Elemente und die Ausdrucksmittel des Prototextes in einem anderen Zeichensystem wiederzugeben und miteinander zu kombinieren. Im Film liegt es auch sehr an der Kreativität des Filmmachers, aus den unterschiedlichen, ihm zur Verfügung stehenden Ausdrucksformen jene auszuwählen, die sich mit dem nicht- sprachlichen Zeichensystem am besten kombinieren.

In dieser Diplomarbeit geht es um die Analyse der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung von dem Buch Traumnovelle von Arthur Schnitzler in dem Film Eyes Wide Shut von Stanley Kubrick. Obwohl beide Werke wichtige Unterschiede zeigen – z.B. im raumzeitlichen Chronotops –, werden

6

die dominierenden Elemente und Themen der Novelle im Film bewahrt und sehr gut ausgedrückt.

Die Diplomarbeit ist in drei Kapitel unterteilt.

Das erste Kapitel handelt von der Analyse der Traumnovelle. Eine wichtige Rolle spielt die Analyse der bedeutsamsten Elemente der Geschichte, bzw. Zeit, Raum, Gestalten und Themen.

Im zweiten Kapitel geht es um die intersemiotische extratextuelle Übersetzung und den Vergleich zwischen dem Text des Buches und dem Text des Filmes. Eine wichtige Rolle spielen dabei sowohl die dominierenden Motive beider Texte als auch die im Film, im Vergleich zum Buch, enthaltenen Streichungen und Veränderungen.

Im dritten Kapitel wird eine einzige Szene analysiert, die eine entscheidende Rolle sowohl im Buch als auch im Film spielt, welche ein sehr wichtiges Thema in beiden Werken darstellt, bzw. die Dualität und die Widersprüche in der Partnerbeziehung.

7

SOMMARIO

1.

1.1.

Abstract in Italiano 2 Abstract in English 4 Abstract auf Deutsch 6

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA 10

DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE 17

Doppio Sogno di Arthur Schnitzler 17

  1. 1.1.1.  Breve sintesi 18
  2. 1.1.2.  Analisi dell’opera 20

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick 26

  1. 1.2.1.  Temi del cinema di Kubrick 27
  2. 1.2.2.  Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick 28

2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA 30

  1. 2.1.  Due trame a confronto 30
  2. 2.2.  Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca 37

8

  1. 2.3.  Temi a confronto 40
  2. 2.4.  Strutture a confronto 48
    1. 2.4.1.  Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina 48
    2. 2.4.2.  Figura della geminazione simmetrica 55
    3. 2.4.3.  Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del

3. 3.1.

personaggio 62

ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT 68 Analisi della traduzione intersemiotica 70

CONCLUSIONI

Riferimenti Bibliografici Bibliografia

84

91 93

9

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA

Quando si riflette sul significato di «traduzione», normalmente si pensa ad un processo di ricodifica e riespressione di un testo scritto in una lingua, ovvero un codice naturale, differente da quella del testo originario: questo tipo di traduzione viene denominata «traduzione interlinguistica»1; il testo d’origine viene chiamato «prototesto» e il testo d’arrivo viene chiamato «metatesto». Per «testo» si intende comunemente un insieme di parole con una forma grafica, dotato di una struttura interna che lo rende coerente e coeso2.

Tuttavia, se scindiamo il concetto di «testo» dalla sua accezione più comune ed intendiamo con esso semplicemente un sistema di segni qualsiasi, dotato di una struttura interna coerente e coesa, e diamo credito all’estensione del concetto di «lingua» in semiotica a tutti i tipi di linguaggio extraverbale – come la musica, le arti figurative, il cinema o la pubblicità –, se ne evince che il concetto di «traduzione» può essere esteso ad un campo decisamente più ampio rispetto a quello della sola traduzione interlinguistica ed assume il significato di un processo che implica la presenza di un testo inteso come insieme coerente degli enunciati di qualsiasi linguaggio.

Così, il racconto di un sogno, la trasposizione cinematografica di un romanzo, la lettura di un testo o anche la scrittura sono esempi di traduzione, nei quali il processo di trasferimento dal prototesto al metatesto avviene coinvolgendo un sistema di segni diversi, di linguaggi diversi: essi sono tutti esempi di «traduzione intersemiotica»3. In particolare, la traduzione extratestuale riguarda i casi di traduzione intersemiotica nei quali il prototesto è generalmente un

1 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000 2 B. Osimo, 2001
3 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000

10

testo scritto e quindi verbale, mentre il metatesto appartiene ad un codice non verbale, ad esempio un’immagine. Dunque, la trasposizione cinematografica di un romanzo costituisce un caso di traduzione intersemiotica extratestuale.

Per quanto la letteratura venga tradotta in film da moltissimo tempo, il processo della trasposizione cinematografica è stato paragonato al processo della traduzione interlinguistica relativamente da poco tempo, ed in questo senso è divenuto nuovo oggetto di studio. Di conseguenza, mentre nel campo della traduzione interlinguistica molti studiosi si sono espressi nel tentativo più o meno riuscito di apportare il loro contributo allo sviluppo di un metodo scientifico dei principali cambiamenti traduttivi secondo criteri condivisibili ed applicabili nel modo più ampio possibile, il campo della traduzione filmica resta tuttora costellato di numerosi quesiti senza risposta e di numerose insufficienze nell’analisi del suo linguaggio.

A ciò va aggiunta, a mio avviso, un’altra fondamentale considerazione: mentre la traduzione interlinguistica viene solitamente affrontata da traduttori professionali, che sono ben consci del loro ruolo di mediatore linguistico e culturale e dei problemi inerenti all’analisi traduttologica e all’individuazione di una strategia traduttiva da adottare per ogni singolo caso, la traduzione cinematografica viene affrontata da persone – sceneggiatori e registi – che sono da considerarsi innanzitutto artisti – come gli scrittori – e non certo traduttori: essi compiranno certamente la loro traduzione filmica in base a dei criteri razionali, ma, più sovente, saranno soggetti alle loro ispirazioni o saranno influenzati dal loro personale estro artistico.

Dunque, la vera e propria analisi traduttologica nel predetto campo viene svolta per lo più a posteriori, da studiosi della materia che tentano di ricavare una teoria dal caso concreto, ovvero un metodo scientifico valido nel modo più ampio possibile al fine di catalogare i fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella trasposizione dal romanzo scritto al film.

Così, ad esempio, lo studioso di semiotica all’università di Tartu Peeter Torop

11

ha riconosciuto che nella trasposizione cinematografica di un testo il punto di partenza va ricercato nella scomposizione del testo stesso in parti4. In questo modo, il traduttore dovrà razionalmente intraprendere un processo di scomposizione e di analisi dei singoli elementi che compongono il prototesto, oltre che di ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi che condurranno alla creazione del metatesto, nel caso in oggetto rappresentato dal film.

Ma, poiché nella traduzione intersemiotica extratestuale il tipo di codice del prototesto è differente rispetto a quello del metatesto, il traduttore sarà costretto a scomporre il prototesto – ovvero il romanzo – nei suoi elementi costituivi e a convertire tali elementi nel tipo di codice del quale è composto il metatesto – ovvero il film. Infatti, mentre il romanzo viene fissato sotto forma di parola scritta, il film è costituito dall’immagine, sostenuta dal suono sotto forma di parole o di musica5. Inoltre, a causa delle proprietà intrinseche delle quali è formato il testo filmico, la quantità di sistemi segnici esistenti in un film è davvero notevole. Di conseguenza, l’analisi traduttologica sarà ancora più complessa ed irta di ostacoli.

Dunque, il romanzo è composto da elementi verbali, sintagmatici, paradigmatici, prospettici, ed è inoltre caratterizzato dalla creazione e descrizione di personaggi e temi che si esplicano attraverso fabula, intreccio e spazio, raffigurati però mediante le parole in forma scritta, mentre il film è costituito sì da elementi verbali e dalla ricreazione dei temi, del tempo, dello spazio e dei personaggi con la loro psicologia, i quali però non vengono descritti bensì rappresentati in modo visibile e dunque iconico, ma è anche costituito dall’immagine, che si esplica nelle inquadrature, nei movimenti di macchina – le carrellate –, negli effetti speciali – come la dissolvenza incrociata –, nella fotografia – luci e colori – e poi dal suono sotto forma di dialogo o musica o rumore, ed ancora dal montaggio, col quale viene operata una

4 P. Torop, 2000 5 P. Torop, 2000

12

selezione e combinazione degli elementi filmici in relazione allo spazio e alla durata del tempo della vicenda narrata, ed ancora da elementi scenografici e recitativi6. Infine, così come il romanzo è scritto sulla base dello stile e del pensiero dell’autore, il film viene costruito in base allo stile ed al pensiero del regista che, in tal senso, non è un traduttore ma un vero e proprio artista, ovvero uno scrittore e creatore di testi.

Tutti questi elementi possono essere in altre parole e più brevemente espressi, unificati e spiegati, secondo Torop, nei tre tipi di cronotopo sui quali si fonda e si concretizza l’analisi traduttologica del film: il cronotopo topografico, ovvero le coordinate spazio-temporali all’interno delle quali si muovono sia la storia sia i personaggi, il cronotopo psicologico, che include sia la psicologia dei personaggi sia la psicologia di gruppo, e, infine, il cronotopo metafisico, che corrisponde alla poetica autoriale7.

Da tutto ciò si evince quanto sia difficile, ancor più che in qualsiasi altro tipo di traduzione, creare un metodo scientifico di analisi della traduzione intersemiotica coeso e coerente ed applicabile nel modo più ampio possibile.

Di volta in volta ed a seconda dei singoli casi, nella trasposizione cinematografica il traduttore analizza e scompone il prototesto nei suoi elementi costitutivi e in quelli potenziali, decidendo poi per ognuno se sopprimerlo o se e come mantenerlo, ridurlo, modificarlo, amplificarlo o se aggiungere degli elementi nuovi all’interno del nuovo testo8. Si tratta di una vera e propria opera creativa, nella quale è difficile stabilire a priori che cosa corrisponda a che cosa.

Ogni elemento del prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, ma secondo modalità diverse per ogni film e per ogni regista, il quale, come già detto, sceglierà le caratteristiche dominanti da conservare –

6 A. Costa, 1985 7 P. Torop, 2000

13

magari anche modificandole – nel suo metatesto.

Nella seguente tabella mi sono proposta di riassumere, in modo schematico e stilizzato, le fondamentali tecniche cinematografiche ed i principali elementi che intervengono alla raffigurazione e realizzazione dei cronotopi, individuati da Torop, all’interno dell’opera filmica:

CRONOTOPO

SCELTA DOMINANTI

MEZZO ESPRESSIVO

1) Topografico

Soppressione Conservazione Aggiunta Storicizzazione Modernizzazione Riduzione Amplificazione Teatralizzazione

tempo

fabula

trama, ambientazione

intreccio

flashback, flashforward, dissolvenze, didascalie, salti, blocchi, montaggio

spazio

ambientazione

scenografia, paesaggio, inquadrature, movimenti di macchina, fotografia, suoni, montaggio, colori

2) Psicologico

psicologia personaggio

attore, mimica, gestualità, recitazione, abbigliamento, dialogo, voce, inquadrature soggettive-oggettive, voce over, linguaggio e campi espressivi, colori

psicologia gruppo

ambientazione, linguaggio, realia, intertesti, posizione e valori sociali, campi espressivi, colori

temi

gli altri cronotopi

3) Metafisico

poetica autoriale

interpretazione, stile e concezione cinematografica del regista

8 B. Osimo, 2001

14

Certamente, tale tabella non ha alcuna pretesa di esaustività, semplicemente si propone come schema di orientamento all’interno del “viaggio” che mi accingo ad intraprendere con questo mio lavoro. D’altronde, come accennato precedentemente, la quantità di sistemi segnici in un film è davvero notevole e, di conseguenza, difficilmente può essere ridotta a tabella. Nel caso della traduzione filmica, è arduo prendere in considerazione anche la ritraduzione nella lingua dell’originale9.

Il presente lavoro si propone di analizzare la trasposizione cinematografica dalla famosa novella Doppio Sogno dello scrittore viennese di inizio Novecento Arthur Schnitzler nell’altrettanto celebre e controverso film Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick.

Sulla base delle precedenti osservazioni, nella mia analisi traduttologica ho preso in considerazione innanzitutto il prototesto, che ho analizzato cercando di cogliere le sue dominanti all’interno dei cronotopi rilevati da Torop, per poi focalizzare la mia attenzione sul metatesto ed il modo in cui le predette dominanti ed i cronotopi sono stati ricreati e rappresentati nel metatesto stesso. Inoltre, ho deciso di concentrare e far quindi ruotare la mia analisi principalmente sul tema dominante della novella, ovvero la rappresentazione dei temi dell’opera e delle dinamiche di coppia che caratterizzano i due protagonisti.

Nel primo capitolo, dunque, ho esaminato ed approfondito maggiormente Doppio Sogno di Arthur Schnitzler sia dal punto di vista della trama – fabula e intreccio – sia dal punto di vista delle sue tematiche, cercando di individuare il tema dominante, sul quale anche il regista Kubrick ha basato la sua trasposizione cinematografica. Ho poi brevemente presentato la concezione cinematografica e le tematiche predilette da Kubrick nell’arco della sua carriera

9 P. Torop, 2000

15

di regista filmico, nonché Eyes Wide Shut unicamente considerando la sua valenza filmica.

Nel secondo capitolo mi sono concentrata sulla vera e propria analisi traduttologica dell’intera opera, prendendo in considerazione il modo in cui gli elementi caratteristici dei quali era composto il prototesto – ovvero la trama, i temi, l’ambientazione, i personaggi principali, il tempo e lo spazio – sono stati trasferiti e riprodotti nel metatesto. In particolare, ho prestato attenzione alla riproduzione del tema principale del racconto di Schnitzler, con le sue problematiche.

Nel terzo ed ultimo capitolo ho approfondito l’analisi traduttologica di una sola sequenza del film, ossia quella che, a mio avviso, raffigura e tratteggia con maggiore lucidità il tema dominante sia dell’opera stessa sia del mio lavoro: si tratta della scena del confronto iniziale fra i due protagonisti in seguito al veglione mascherato – una festa natalizia nel film; tale sequenza rappresenta nella novella la vera e propria apertura della vicenda, nella quale si delineano con chiarezza sia le dinamiche che scandiscono, muovono e caratterizzano la coppia dei due personaggi sia il tema che funge da asse portante dell’intero racconto, ovvero la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplicherà in un continuo ritorno di doppi ed alternanze, oltre che nel diagramma dei turbamenti paralleli vissuti dai protagonisti dell’opera. Ho cercato, in particolar modo, di sottolineare le differenze con le quali la sequenza è stata descritta nel racconto ed invece rappresentata nel film.

16

1. DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE

Doppio Sogno costituisce un soggetto ideale per il cinema: Schnitzler stesso nel 1930 ne abbozzò una sceneggiatura di trenta pagine, compiendo interventi di sviluppo e semplificazione del racconto.

Stanley Kubrick, senza successo, cercava di realizzare questo progetto sin dai primi Anni Settanta; vi riuscì soltanto nel 1999, a distanza di un quarto di secolo, dopo quasi due anni impiegati a scrivere la sceneggiatura, dopo 19 mesi di riprese, dopo più di un anno nel quale curò personalmente le fasi di montaggio e di postproduzione.

1.1. Doppio Sogno di Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, studioso della psicoanalisi e soprattutto scrittore, vissuto a cavallo tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo, contemporaneo a Sigmund Freud, pubblicò opere caratterizzate da un’analisi profonda e spietata delle motivazioni all’origine della azioni umane, distintive di un’incomparabile capacità di lettura psicologica della natura umana. I temi principali riguardano i rapporti sentimentali, le complicazioni della vita erotica e la paura della morte.

Il suo confronto con la psicoanalisi si è articolato attraverso una ricerca squisitamente artistica che, mediante l’assorbimento e l’elaborazione degli studi di Freud e della neonata psicoanalisi, ha ipotizzato l’esistenza del medioconscio (Mittelbewusstsein), una specie di territorio intermedio fluttuante fra la superficie del conscio e la profondità dell’inconscio, territorio in direzione del quale si attua il processo di rimozione degli elementi nella loro ascesa verso il

17

conscio o discesa verso l’inconscio10.

Traumnovelle, nella versione italiana Doppio Sogno, è un’opera in bilico fra sogno e realtà. Fu scritta fra il 1921 e il 1925 e si articola in sette parti che scandiscono le alterne e tormentate fasi della crisi di una giovane coppia viennese: in particolare, l’autore si concentra sul problema di incomunicabilità che, innescato da un qualsiasi motivo occasionale, viene improvvisamente a turbare e a minare l’equilibrio del rapporto tra l’uomo e la donna, descrivendo così lo sgomento dell’individuo di fronte alla enigmatica ed instabile realtà dell’esistenza. Mentre però nelle novelle precedenti Schnitzler tendeva ad evidenziare la conflittualità di uno solo dei due partner, in quest’opera la crisi appartiene ad entrambi e si sviluppa in modo parallelo, tanto che inizialmente il titolo pensato per la novella era Doppelnovelle (Doppia novella)11.

1.1.1. Breve sintesi

Il racconto di Schnitzler è incentrato in soli due giorni della vita di una giovane coppia viennese e si apre con il dialogo nella loro camera da letto, dove, a seguito di un ballo in maschera svoltosi la sera precedente nel corso del quale ad entrambi sono state rivolte profferte amorose, i due protagonisti si scambiano reciprocamente le proprie impressioni, le proprie incertezze, finendo però con lo svelare e confessarsi vicendevolmente i desideri e le angosce della loro vita più intima, in particolar modo un tradimento mai consumato da parte di entrambi durante una passata vacanza estiva in Danimarca, e col minare la stabilità del loro rapporto.

Inizia così il viaggio parallelo onirico-reale-surreale dei due: quello fisico di Fridolin tra assassini, prostitute e orge e quello mentale di Albertine tra sogni, incubi e preoccupazioni.

10 A. Schnitzler, 2001 11 G. Farese, 1977

18

Al termine delle reciproche rivelazioni, Fridolin viene chiamato al capezzale di un paziente, che però trova già morto. Lì incontra la figlia Marianne, la quale, pur essendo in procinto di nozze, gli confessa di averlo sempre amato. In strada, turbato dall’inaspettata rivelazione, Fridolin decide di accettare l’invito di una giovane prostituta, tuttavia, entrato in casa di lei, parlano soltanto, a lungo. Ormai è notte fonda e Fridolin decide di non rientrare a casa ed entra in un locale dove incontra un suo vecchio compagno di università che lavora come pianista. Da lui apprende l’esistenza di una strana setta che si riunisce in luoghi sempre differenti, dove avvengono raffinatissime e sontuose orge in maschera. Incuriosito, eccitato ed allo stesso tempo sconvolto dagli accadimenti della giornata, Fridolin, dopo essersi procurato un travestimento da monaco nel negozio dell’ambiguo mascheraio Gibiser, si fa dare dall’amico l’indirizzo e la parola d’ordine, che è Danimarca, e si intrufola, senza invito, nella villa della festa mascherata. Si ritrova così fra uomini e donne di grande bellezza che sembrano riconoscersi l’un l’altro il diritto di essere presenti. Solo una magnifica donna dal corpo fiorente e profumato sembra intuire che Fridolin è un intruso e più volte gli intima di fuggire prima che sia troppo tardi. Tuttavia, Fridolin viene scoperto dalla setta e catturato: solo l’intervento ed il sacrificio della misteriosa donna che in precedenza lo aveva supplicato di andarsene gli regalano la libertà e, forse, gli salvano la vita. Confuso ed esausto, rientra a casa dalla moglie, che in quel momento si sta svegliando da un lungo ed inquietante sogno, che si rivela speculare rispetto alle avventure notturne di Fridolin: infatti, in sogno Albertine si concede prima al giovane danese e subito dopo a molti altri uomini mentre assiste, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta il sacrificio pur di restarle fedele. L’infedeltà e l’indifferenza sognate da Albertine generano in Fridolin un moto di indignazione, che diviene il pretesto ed un’autogiustificazione a ritrovare la bella sconosciuta che si è offerta di essere punita o uccisa al suo posto.

Da questo momento, secondo un diagramma speculare e simmetrico rispetto a quanto accaduto prima del racconto del sogno da parte di Albertine, Fridolin

19

rincontra le stesse persone e rivive le stesse situazioni, o meglio tenta di rincontrare le stesse persone e tenta di rivivere le stesse situazioni, del giorno precedente. Così, cerca di rimettersi in contatto con l’amico pianista senza tuttavia riuscirci, va a trovare la figlia del paziente morto la quale, però, si mostra poco disponibile e si reca dalla giovane prostituta senza però trovarla in casa.

Poi, dopo avere letto su un giornale della tragica morte per avvelenamento di una giovane donna dalla straordinaria bellezza, Fridolin, sconvolto ed insospettito, si reca all’obitorio dove esamina il corpo della donna, senza tuttavia raggiungere la certezza che si tratti della sconosciuta che si è sacrificata per lui.

Tornato a casa, Fridolin trova con orrore sul suo cuscino, accanto alla moglie addormentata, la maschera che ha indossato durante la festa la notte precedente. Racconta allora ad Albertine la sua esperienza-incubo, come se fosse l’unico modo per salvare il loro matrimonio.

1.1.2. Analisi dell’opera

L’immediatezza con la quale Schnitzler presenta, con pochi tratti essenziali, situazioni e personaggi è caratteristica dello scrittore viennese e tocca ancora una volta in Doppio Sogno il culmine della maestria narrativa. Quella della tranquilla famiglia borghese è solo una maschera, una facciata illusoria che cela un groviglio di dubbi, di angosce, di aggressività, di desideri repressi che, una volta svelati e liberati, coinvolgeranno i personaggi in una ridda di avventure reali e sognate, costringendoli a percorrere le stazioni della loro crisi alla ricerca di una verità che non esiste se non nel tentativo della reciproca comprensione. Nessuna delle avventure erotico-surreali di Fridolin giungerà a compimento e l’orgia di piacere e di libidine incontrollata di Albertine è solo un sogno, così come il tradimento dei due coniugi, motivo scatenante dei turbamenti paralleli dei protagonisti, è solo frutto di una fantasia erotica.

20

La trama della novella si struttura e si dipana secondo il filo dell’alienazione e della vicendevole estraniazione dei due personaggi principali. Il simbolo di tale alienazione è la maschera ed il mistero che ad essa si accompagna: la storia si apre con il racconto delle vicende della festa mascherata della sera precedente, preludio di quello che accadrà in seguito. Ed infatti, è soprattutto la partecipazione notturna di Fridolin alla festa orgiastica mascherata, caratterizzata dall’assoluta assenza di volti e quindi di identità, e conclusasi con l’allucinante confronto con il corpo della donna morta nella sala anatomica, a segnare e a simboleggiare la perdita di identità che connota la crisi dei due personaggi.

Doppio Sogno, quindi, rappresenta la storia del progressivo allontanarsi affettivo e del progressivo ricongiungersi di Albertine e di Fridolin. La loro condizione psicologica lascia pensare a quella specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio che Schnitzler definiva «medioconscio», e che consente di inquadrare in una nuova prospettiva il turbamento interiore dei due personaggi, sospesi in bilico fra comprensione ed incomprensione12. Infatti, se è vero che il medioconscio costituisce «il campo più vasto della vita psichica e spirituale, [e da esso] gli elementi emergono incessantemente al conscio o precipitano nell’inconscio»13, allora anche la ritrovata intesa finale di Fridolin e Albertine dopo la turbinosa notte dei desideri inappagati rappresenta una sorta di ascesa al conscio, un ritorno alla normalità, dove però nulla sarà più come prima.

Il medioconscio dunque è la grande regione nella quale si muovono le ricognizioni analitiche di Schnitzler – basti pensare alle riflessioni ed ai monologhi interiori dei suoi personaggi –, una sorta di regno delle percezioni e dei ricordi che sfugge al dominio della razionalità e che tuttavia non è riconducibile all’inconscio. «Il medioconscio è la zona della psiche dove appare visibile la fragilità della condizione umana, l’autoillusione dell’individuo che si

12 S. Ciaruffoli, 2003
13 A. Schnitzler, 2001, p. 18

21

sottrae alla propria responsabilità etica, il carattere di maschera dei ruoli sociali»14.

L’accenno di Albertine al destino nel colloquio finale con il marito è un richiamo a quello iniziale dei due coniugi, ovvero il primo momento di dubbio ed incertezza reciproci e preludio al successivo sbandamento affettivo. In questo primo colloquio Schnitzler fissa e sintetizza la tematica della novella, preannunciandone allo stesso tempo lo sviluppo narrativo:

Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino.15

Schnitzler delinea subito la possibilità e l’intento di utilizzare il sogno come regione dell’anima nella quale è possibile la realizzazione dei desideri repressi; e sarà proprio Albertine ad intraprendere un viaggio liberatorio all’interno degli abissi della coscienza. Il suo sogno, però, non rappresenta unicamente la soddisfazione di un desiderio represso e non ha un contenuto latente, non ha bisogno di essere decodificato. È vero che il materiale onirico è costituito dai resti diurni e dal ricordo della conversazione con Fridolin in camera da letto – in sogno appaiono gli schiavi mori della fiaba raccontata alla figlioletta, il giovane ufficiale danese che aveva ammaliato Albertine durante la vacanza in Danimarca, la bella fanciulla che aveva avvinto Fridolin nella stessa occasione – ma l’azione onirica, così come descritta da Schnitzler attraverso le parole di Albertine, ha una funzione ben precisa ed ha carattere speculare rispetto alle fantastiche avventure reali di Fridolin: infatti, mentre Fridolin non riuscirà a

14 L. Reitani, 2001, p.119
15 A. Schnitzler, 1977, p. 13

22

possedere la bella sconosciuta durante la festa in maschera e, una volta scoperto, riuscirà a sfuggire ad una dura punizione, e forse alla morte, soltanto grazie al sacrificio della donna misteriosa, Albertine si concederà al giovane danese e assisterà poi, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta di morire pur di restarle fedele.

Nelle sue stesse trascrizioni ed osservazioni riguardanti i propri sogni16 Schnitzler non appare interessato ad una analisi del fenomeno onirico. Per quanto riveli una assimilazione di alcuni concetti fondamentali del pensiero freudiano – come il valore dei resti diurni o la nozione di «spostamento» – egli rimane ancorato al contenuto onirico manifesto, affascinato dalla simbologia dei sogni, dagli spazi e dalle dimensioni che in essi si aprono, dalla stessa ricorrenza di temi chiaramente ossessivi – come l’idea della morte legata al sogno, che richiama alla mente l’immagine dell’obitorio in Doppio Sogno. È dunque all’individuo ed alla sua crisi psicologica ed esistenziale che Schnitzler presta la sua attenzione, e non alla psiche in quanto tale17.

La risata sinistra e al contempo isterica con la quale Albertine si desta dall’inquietante sogno e l’orrore di Fridolin di fronte al volto estraneo della moglie che lo guarda terrorizzata segnano il culmine della loro estraniazione e del loro allontanamento affettivo. Mentre la fine del racconto del sogno da parte di Albertine costituisce il primo momento del loro successivo riavvicinamento18. Infatti, se da un lato il sogno ha assorbito tutti gli impulsi aggressivi di Albertine ed ha permesso il soddisfacimento di un inconscio desiderio di vendetta per l’incomprensione del marito, dall’altro ha costretto Fridolin, sgomento per l’infedeltà sognata dalla moglie e per la straordinaria coincidenza di fantasmi onirici e realtà da lui vissuta, a riflettere, seppure

16 È possibile prendere visione delle trascrizioni e valutazioni dei suoi stessi sogni in A. Schnitzler, 2001, p. 35-58
17 L. Reitani, 2001
18 G. Farese, 1977

23

inconsciamente, sulla sua stessa infedeltà, che solo per un singolare gioco del destino non si è mai tramutata in realtà. È da questo momento che Fridolin intraprenderà il viaggio che lo riporterà dagli abissi della sua stessa anima verso la superficie, ossia la normalità.

L’attenzione di Schnitzler è rivolta principalmente alla figura del protagonista maschile, Fridolin, il cui viaggio interiore alla ricerca di una soluzione al proprio smarrimento esistenziale è più lungo, complesso e travagliato rispetto a quello della moglie, che, sotto questo aspetto, diviene un personaggio secondario sebbene di fondamentale importanza per lo sviluppo della trama e del parallelismo delle vicende oniriche e reali della novella.

Anche la dicotomia fedeltà-tradimento, che costituisce l’asse portante della storia, si esplica maggiormente nelle contraddittorietà del personaggio maschile, ben rappresentate a partire dalla reazione di Fridolin alla reciproca confessione, in camera da letto, dei pericoli cui entrambi i partner sono sfuggiti durante la vacanza estiva in Danimarca19. All’affermazione di Fridolin: «in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te» Albertine replica: «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?». Emblematica è la reazione immediata di Fridolin: «Fridolin abbandonò le sue mani quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva»20. Alla base della debolezza e dell’indecisione di Fridolin vi è dunque l’ipocrita ed assurdo pregiudizio borghese che concede agli uomini il diritto ad una morale e relega la donna in una degradante posizione subalterna21. Diviso fra la morale borghese e l’amore per Albertine, incapace di risolvere razionalmente le proprie contraddizioni, Fridolin intraprende il proprio viaggio all’insegna dell’evasione erotica e di un illusorio senso di liberazione dalle proprie responsabilità, oltre che del desiderio di vendicarsi della moglie, che si rivela però vano tanto quanto il tentativo di

19 G. Farese, 1977
20 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 21 G. Farese, 1977

24

liberarsi dalla presenza stessa della moglie. Infatti, sebbene Fridolin sia fisicamente presente in tutti e sette i capitoli e il narratore lo segua passo passo nei suoi spostamenti, mentre Albertine sia realmente presente soltanto in quattro capitoli, di fatto la sua presenza viene percepita in ogni capitolo e la sua immagine, apparentemente rimossa, non ha mai abbandonato Fridolin. Egli se ne accorge proprio quando, nel tentativo disperato di svelare il mistero e dare un volto alla bella sconosciuta che si è sacrificata per lui, si reca all’obitorio:

[…] che cercava? Conosceva solo il suo corpo, il viso non l’aveva mai visto, ne aveva avuto solo un’immagine fugace la notte scorsa nell’attimo in cui aveva lasciato la sala da ballo o, per meglio dire, quando ne era stato cacciato. Eppure il non avere fino ad allora considerato quella circostanza derivava dal fatto che per tutto il tempo trascorso dal momento in cui aveva letto quella notizia sul giornale si era rappresentata la suicida, il cui volto gli era sconosciuto, con i lineamenti di Albertine e che, come si accorse solo ora rabbrividendo, aveva continuamente avuto davanti agli occhi l’immagine della moglie, identificandola con colei che cercava.22

Da un lato, dunque, l’immagine di Albertine non ha mai abbandonato Fridolin nella sua disperata ed assurda corsa verso l’evasione erotica, dall’altro quest’improvvisa rivelazione potrebbe essere interpretata come un nuovo segno di parallelismo e capovolgimento della situazione fra il sogno di Albertine e l’avventura di Fridolin: se si è sempre figurato il volto della suicida coi lineamenti della moglie, anche Fridolin si è in qualche modo vendicato dell’infedeltà e dell’incomprensione di Albertine facendo sì che, almeno nella sua immaginazione, Albertine stessa si sia sacrificata per lui e per la sua salvezza. La discesa agli inferi, nelle profondità dell’inconscio, è terminata e a chiunque appartenga quel corpo enigmatico di donna che lo ha magicamente attratto, esso non rappresenta oramai altro che «il cadavere pallido della notte

22 A. Schnitzler, 1977, p. 104

25

passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione»23.

Il ritorno a casa e la vista della maschera che ha indossato durante la festa nella misteriosa villa e che, trovata da Alberatine, è stata significativamente posta sul cuscino del marito, come a rappresentare la perdita di identità, lo straniamento e lo smarrimento del personaggio, è sufficiente a causare il crollo di Fridolin: caduta la maschera dietro la quale aveva creduto di poter celare le proprie contraddizioni, riaffiora in lui la coscienza del proprio rapporto con Albertine, e si profila la possibilità di una ripresa sulla base della reciproca comprensione24. Se, da un lato, l’affermazione conclusiva di Albertine, che sentenzia: «Non si può ipotecare il futuro»25 è indicativa del determinismo e dello scetticismo che caratterizza il pensiero di Schnitzler e che ha orientato anche l’amara tematica di Doppio Sogno, dall’altro i riferimenti al vittorioso raggio di luce che annuncia il nuovo giorno e il riso della bambina che si avverte dalla stanza accanto lasciano presagire una rinnovata speranza in un mondo in declino.

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick è stato definito un regista eccentrico, un genio, un maestro, un autore fortemente concettuale; certamente, non è un regista di immediata comprensione. Ma, in qualsiasi modo lo si voglia considerare, non si può non riconoscere l’importanza della sua arte, uno sguardo sul mondo e sull’uomo.

Nato a New York, ha vissuto per anni lontano dal mondo del cinema, isolato nella sua casa in Inghilterra, producendo capolavori ad intervalli di tempo sempre maggiori; ossessionato dal bisogno di esercitare un controllo assoluto su tutti gli aspetti del proprio lavoro, curava personalmente il montaggio e la

23 A. Schnitzler, 1977, p. 111 24 G. Farese, 1977
25 A. Schnitzler, 1977, p. 114

26

postproduzione, nonché i sottotitoli ed il doppiaggio per ogni edizione originale e straniera dei propri film.

1.2.1. Temi del cinema di Kubrick

Le sue opere raccolgono storie riconducibili ad un unico nucleo tematico, costituito dalla «rappresentazione della crisi del modello della ragione occidentale»26, tema affrontato da Kubrick mediante mezzi esclusivamente cinematografici, basandosi sulla forza delle immagini e dei suoni. Egli rappresenta tale crisi attraverso la crisi del controllo sulle azioni e sulle identità dei singoli soggetti, mediante un uso distorto dello spazio e del tempo e, infine, rappresentando la crisi del sistema sociale.

I personaggi di Kubrick si muovono in un universo che sfugge alla loro comprensione, in un mondo fatto di menzogne, di inganni e di false rappresentazioni. Questa perdita di controllo e di comprensione da parte dei singoli personaggi si riflette da un lato nella crisi dell’uso del linguaggio, che regredisce fino a divenire quasi grottesco nella sua povertà ed inadeguatezza, dall’altro nella progressiva spersonalizzazione dei personaggi, che divengono soggetti privi di un’identità salda, sicura, completa. Spesso i personaggi kubrickiani sono portatori di identità differenti ed inconciliabili fra di loro. L’uso insistito dei primi o primissimi piani delinea non tanto la volontà di esplorare reazioni psicologiche o di fissare stati d’animo soggettivi, quanto quella di indagare l’animo umano nella sua perdita e scissione di identità, attraverso la presentazione di smorfie grottesche, maschere distorte dei volti27. A tale proposito, la maschera è anch’essa un tema ricorrente nel cinema di Kubrick, così come la sua ossessione per il tema del doppio. In un quadro più ampio, la crisi dell’individuo si presenta come lo specchio di una più vasta crisi sociale. Altri espedienti per la rappresentazione della crisi della ragione sono un

26 R. Eugeni, 1995, p. 135 27 R. Eugeni, 1995

27

uso distorto dello spazio e del tempo, che perdono la loro neutralità per divenire espressioni della soggettività ed emotività dei personaggi. Ad esempio, l’uso del labirinto e dei corridoi indica uno svuotamento dello spazio e la mancanza di punti di riferimento, così come l’utilizzo dei carrelli in avanti o all’indietro che accompagnano il personaggio in una sorta di corridoio-tunnel assumono il significato di una realtà che risucchia i protagonisti, senza dar loro la possibilità di prevedere quale possa essere il punto d’arrivo. Alla crisi dello spazio di solito si accompagna la crisi del tempo, che perde la sua linearità per assumere fattezze soggettive, caratterizzate dalla presenza di ciclicità e ritorni, simmetrie inquietanti di eventi che si riproducono con ossessiva similitudine e che costringono i personaggi ad una coazione a ripetere, proiettando le loro azioni in un non-divenire.

1.2.2. Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick

Nel dicembre 1995 viene ufficialmente annunciato che il nuovo film di Stanley Kubrick sia chiamerà Eyes Wide Shut, e che avrà come protagonisti Tom Cruise e Nicole Kidman. Il film, sceneggiato dallo stesso Kubrick assieme a Frederic Raphael, affermato intellettuale, scrittore, saggista nonché sceneggiatore, è tratto dal racconto Doppio Sogno di Arthur Schnitzler. Le riprese iniziano nell’estate del 1996 e si svolgono nella massima segretezza: gli attori e i tecnici sono tenuti per contratto a non far trapelare il minimo particolare della vicenda e della lavorazione. Le riprese si protraggono ben oltre il previsto, anche a causa dell’ormai leggendaria meticolosità del regista che ripete la stessa scena anche fino a settanta volte, e si concludono ufficialmente il 31 gennaio 1998. Kubrick comincia a curare il montaggio e la fase di postproduzione del film. Il 5 marzo 1999 invia una copia di Eyes Wide Shut, finito di montare e sonorizzare il giorno prima, ai responsabili della Warner Bros. di New York, che ne effettuano una proiezione riservatissima. Alle prime ore del 7 marzo Kubrick muore nel sonno nella sua casa presso Londra, aprendo laceranti dubbi sulla completezza dell’ultima sua opera, nella quale molti hanno ravvisato

28

imprecisioni ed imperfezioni, soprattutto, per l’appunto, a livello di montaggio.

Il montaggio che possediamo, tuttavia, è l’ultimo sul quale ha lavorato Kubrick: i suoi collaboratori hanno preferito non intervenire per rispetto nei confronti del maestro. E se a molti può apparire incompiuto da un punto di vista produttivo, l’ultimo film di Kubrick appare a me invece come un’opera pienamente kubrickiana, caratterizzata da una forte coesione interna ed esplicativa dei motivi narrativi, tematici e stilistici che hanno contraddistinto tutto il cinema di Kubrick.

A tal proposito, Eyes Wide Shut diviene il testamento involontario di Stanley Kubrick sotto due aspetti: da un lato riprende quasi in forma di ricapitolazione i nuclei tematici ed i procedimenti stilistici del suo cinema, dall’altro sembra condensare in sé la filosofia cinematografica di Kubrick, nella quale il cinema diviene alter-ego del sogno ed il suo linguaggio, come quello dell’inconscio, diviene uno sguardo sulla realtà.

29

2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA

Alla luce dei temi prediletti di Kubrick e ricorrenti, seppure in modi e misure differenti, in pressoché tutti i suoi capolavori, credo giunga immediata una constatazione della simmetria perfetta fra il pensiero cinematografico del noto regista e la filosofia che ha orientato l’opera di Schnitzler. A questo punto, non solo Doppio Sogno si presenta come un soggetto ideale per il cinema, come sopraccitato, ma diviene anche e soprattutto un soggetto ideale per il cinema di Kubrick nello specifico.

2.1. Due trame a confronto

Sebbene Stanley Kubrick rimanga sostanzialmente fedele alla lettura di Doppio Sogno, nel film vi sono alcune importanti differenze narrative.

Innanzitutto, la storia è incentrata in quattro giorni della vita della giovane coppia anziché due ed è proiettata nella New York odierna durante il periodo natalizio. I protagonisti sono il medico Bill Harford e la bella moglie Alice in luogo del medico Fridolin e della moglie Albertine.

Il film si apre con la scena in cui i due coniugi si recano, come ogni anno, ad una sontuosa festa natalizia a casa del loro amico Victor Ziegler.

A tal proposito, vorrei sottolineare che questa festa, che nel racconto di Schnitzler rappresenta non più di una fuggevole parentesi unicamente funzionale allo sviluppo della storia stessa, occupa invece nel film una buona parte della scena ed assume una notevole importanza nel delineare sia lo sviluppo della vicenda sia alcuni dei temi fondamentali della storia

30

rappresentata da Kubrick. Inoltre, la sostanziale quanto implicita differenza strutturale tra un’opera letteraria, che viene fissata sotto forma di parola scritta, ed un film, che viene invece sostenuto dall’immagine, dalla parola sotto forma di dialogo o voce over, nonché dal suono, rende necessario mostrare attraverso l’immagine, appunto, ciò che nel libro ci viene invece solo riferito28. Oltre a ciò, è necessario aggiungere che, a differenza di molti altri suoi prodotti cinematografici, in Eyes Wide Shut Kubrick ha preferito lasciar scorrere le immagini e non affidarsi, ad esempio, alla voce fuori campo per descrivere determinate scene o situazioni, onde evitare di sovraccaricare troppo l’ambientazione onirico-reale-surreale della vicenda: anche questo spiega la necessità e la decisione di dar vita, nel film, alla festa soltanto accennata da Schnitzler mediante lunghe sequenze di musica e di immagini.

Anche il personaggio di Victor Ziegler rappresenta una novità rispetto al racconto di Schnitzler e costituisce una sorta di deus ex machina; in un confronto finale fra il protagonista Bill e Ziegler, Kubrick ha l’occasione di inserire una riflessione su due diversi tipi di morale: quella accomodante e superficiale di Ziegler e quella più problematica ma anche più consapevole di Bill. Inoltre, se da un lato l’introduzione di questo personaggio è stata una scelta in un certo senso obbligata, in quanto è colui che invita Bill e Alice alla festa di Natale, dall’altro il suo ritorno nel dialogo con Bill in merito all’altra festa, quella mascherata e segreta, è un espediente prima voluto dallo sceneggiatore Raphael e poi approvato ed utilizzato da Kubrick per conferire al film un maggiore senso di realtà, poiché «se non c’è realtà non c’è film»29.

Tornando alla trama del film, durante la festa a casa Ziegler, Alice viene corteggiata da un attempato ma seducente ungherese, Sandor Szavost, mentre Bill ritrova un vecchio compagno di università, che lavora ora come pianista e che lo invita, più tardi, a raggiungerlo in un locale nel quale si dovrà esibire.

28 P. Torop, 2000
29 F. Raphael, 1999, p. 40

31

Kubrick anticipa l’incontro fra il protagonista maschile e il vecchio amico rispetto a Schnitzler, eliminando quindi da un lato la casualità del successivo e determinante incontro fra i due personaggi e dall’altro, secondo una mia impressione, quell’immagine di predeterminazione che assume il viaggio di Fridolin in Doppio Sogno, quasi preannunciato ed evocato dal narratore quando fa riferimento all’«inafferrabile vento del destino»30.

Tornando alla trama, mentre anche Bill flirta con due modelle, il padrone di casa richiede il suo intervento: Mandy, una giovane modella con la quale Ziegler si era appartato nel bagno di casa, ha avuto una crisi di overdose. Bill salva la ragazza. Una volta a casa, Bill e Alice fanno l’amore.

La giornata successiva si svolge all’insegna della normalità.

A questo punto Kubrick riprende nel film la scena di apertura di Doppio Sogno.

La sera Bill e Alice fumano assieme della marijuana: resa eccitata ed aggressiva dalla droga, Alice dà il via ad un gioco della verità che la porta a confessare a Bill di avere provato tempo prima una forte ed irresistibile attrazione per un giovane ufficiale di marina durante una vacanza trascorsa a Cape Cod. Una telefonata interrompe il dialogo: il medico è chiamato al capezzale di un cliente appena deceduto.

Interessante e non comprensibile in questa scena è la decisione, da parte dello sceneggiatore Raphael e dello stesso Kubrick, di eliminare la reciprocità della confessione del mancato tradimento: nel racconto di Schnitzler, infatti, i due coniugi si erano trovati entrambi coinvolti da una forte attrazione per un’altra persona durante la vacanza; in tal modo, nel film si verifica uno sbilanciamento rispetto alla struttura originaria dell’opera, che perde sia parte della sua doppiezza, sia efficacia nel mostrare il parallelismo dei turbamenti dei due protagonisti, creando così un notevole residuo traduttivo. Oserei dire che, se Schnitzler concentra la propria attenzione prevalentemente sull’analisi del

30 A. Schnitzler, 1977, p. 13

32

personaggio maschile, nel quale si esplicano con maggiore forza le contraddittorietà dell’animo umano, Kubrick fa dell’emblematicità dello stesso l’asse portante della vicenda.

Da notare, inoltre, che la scelta di cambiare il luogo nel quale si è svolta la vacanza dei due protagonisti comporterà poi anche la modifica della parola d’ordine per accedere alla festa mascherata: infatti, non avrebbe avuto senso mantenere la parola Danimarca nel film, poiché nel racconto essa aveva una chiara funzione evocativa, che accentuava il carattere onirico-surreale del viaggio di Fridolin.

Uscito di casa, ha inizio l’odissea notturna di Bill, ossessionato dall’idea del tradimento non consumato della moglie con l’ufficiale.

A casa del defunto, la figlia di questi, Marion, nonostante sia in procinto di nozze, in un momento di intimità gli confessa il suo amore per lui. Sconvolto dall’inaspettata rivelazione, una volta in strada Bill decide di accettare l’invito di una giovane prostituta a seguirla nel suo appartamento, ma una telefonata di Alice gli impedisce di consumare il rapporto con la ragazza.

Nel racconto di Schnitzler, la presenza di Albertine viene percepita anche nei capitoli in cui non compare fisicamente, grazie al pensiero di Fridolin, spesso rivolto nei suoi confronti, sia quando pensa a lei teneramente sia quando rivive il mancato tradimento ed è mosso da moti di indignazione. Data la naturale differenza strutturale fra racconto scritto e film, che non può avvalersi della parola per indagare e descrivere il pensiero o la psicologia dei personaggi, e data la scelta da parte del regista di rinunciare all’utilizzo della voce fuori campo, Kubrick ha probabilmente deciso di rivelare la suddetta presenza della moglie attraverso altri espedienti, come la tecnologia, ovvero una telefonata che interrompe il flusso delle azioni e dei pensieri del medico. Anche il turbamento interiore di Bill viene mostrato, e non riferito come nel libro, oltre che mediante la gestualità e la mimica facciale, anche attraverso l’uso di immagini accompagnate da una inquietante musica di sottofondo che, simili a

33

fotogrammi che si inseriscono improvvisamente nel naturale svolgimento della storia, raffigurano la moglie assieme all’ufficiale di marina, così come avviene nei pensieri di Bill.

Nuovamente in strada, Bill si reca nel locale in cui si esibisce il vecchio compagno di università incontrato a casa di Ziegler. Intrattenendosi con l’amico, il medico viene a sapere dell’esistenza di una setta misteriosa, popolata da bellissime donne, che si riunisce in luoghi sempre differenti e dove avvengono sontuose orge. Incuriosito, Bill si fa dare l’indirizzo e la parola d’ordine, che è non più Danimarca bensì Fidelio, per accedere alla festa, e si reca poi dall’ambiguo mascheraio Milich per procurarsi un adeguato travestimento. Mentre si trova ancora nel negozio, Bill ed il proprietario scoprono la figlia di quest’ultimo in compagnia di due giapponesi seminudi e travestiti.

Un lungo ed imprecisato viaggio in taxi conduce Bill a Somerton, la villa in cui si svolge la festa mascherata. Tra una folla di individui incappucciati e protetti da maschere grottesche, prende avvio una sontuosa orgia. Bill viene avvicinato da una donna, anch’ella mascherata, che gli intima più volte di fuggire, pena un terribile castigo. Bill rifiuta e viene scoperto, sottoposto ad un processo, minacciato e costretto a confessare la sua intrusione. Improvvisamente, tuttavia, interviene la misteriosa donna mascherata che aveva cercato di avvertirlo poco prima, la quale si offre di sacrificarsi al suo posto. Bill viene liberato.

Tornato a casa, sente Alice che ride sfrenatamente nel sonno. Svegliatasi, la moglie gli racconta angosciata un sogno nel quale si concede prima all’ufficiale di marina e poi ad una grande moltitudine di uomini all’interno di un’orgia.

Così come nella confessione iniziale fra i due coniugi, anche nel racconto del sogno da parte della protagonista femminile Kubrick elimina una parte importante della storia originale: infatti, nella novella di Schnitzler Albertine, dopo essersi concessa al giovane ufficiale, assiste, ridendo, alla crocifissione del

34

marito, che accetta il sacrificio pur di rimanerle fedele. In effetti, la scelta da parte di Kubrick di eliminare, nella confessione del reciproco tradimento non consumato, la parte che vedeva coinvolto il protagonista maschile giustifica pienamente la decisione di eliminare anche questa parte del racconto. Nella novella di Schnitzler la reciproca confessione di un tradimento non consumato da parte dei due protagonisti è la causa dello smarrimento, dell’alienazione e anche del desiderio di vendetta di entrambi i partner: questo desiderio verrà soddisfatto da Albertine attraverso la crocifissione del marito mentre lei si concede ad altri uomini, e da Fridolin nell’abbandono all’evasione erotica. Poiché nel film manca la confessione del tradimento non consumato da parte di Bill, non avrebbe probabilmente avuto senso la rappresentazione del desiderio di vendetta da parte di Alice in sogno. In tal modo, il sogno di Alice perde del tutto la connotazione freudiana di soddisfacimento di un desiderio represso per svolgere unicamente una funzione simmetrica e speculare rispetto all’avventura notturna di Bill.

Come nel racconto di Schnitzler, anche nel film prodotto da Kubrick la confessione del sogno di Alice segna l’inizio di un nuovo viaggio, intrapreso da Bill, che si rivelerà speculare rispetto a quanto accaduto nella notte precedente.

Il mattino, prima di andare al lavoro, Bill tenta di mettersi in contatto con l’amico pianista, ma questi è scomparso in circostanze ambigue. Si reca quindi da Milich: i due giapponesi appaiono ora distintamente vestiti e salutano affabilmente il proprietario, col quale hanno raggiunto un “accordo”.

Bill si accorge di avere perduto la maschera che indossava alla festa notturna.

Mentre in Doppio Sogno non viene fatto cenno alcuno ad un eventuale smarrimento della maschera e non viene spiegato in maniera esplicita come, al termine del racconto, essa appaia sorprendentemente sul cuscino di Fridolin, lasciando così aperta l’interpretazione secondo cui la maschera non sia stata trovata e posta significativamente sul cuscino da Albertine, ma semplicemente sia riapparsa, quasi per magia – e, forse, viene vista e percepita soltanto da

35

Fridolin –, a significare, da un lato, la perdita di identità da parte del medico e, dall’altro, il superamento del confine fra sogno e realtà, in Eyes Wide Shut Kubrick si premura di fornire – o cercare di fornire – un senso ed una possibile spiegazione al ritrovamento della maschera al termine della storia, alla luce della sua volontà di impregnare la vicenda di un maggiore realismo.

Incapace di lavorare, Bill annulla tutti gli appuntamenti e si reca nuovamente alla villa, dove però gli viene consegnato un biglietto che gli intima di desistere da ogni ulteriore indagine. La sera esce e tenta di mettersi in contatto prima con Marion, poi con la prostituta della sera precedente, ma senza riuscirvi. Per strada Bill si accorge di essere pedinato; compra un giornale e si introduce in un caffè, dove legge della morte per overdose di una ex reginetta di bellezza, Amanda Curran, la stessa ragazza che aveva salvato nel bagno di casa Ziegler. Insospettito dalla coincidenza della morte di Amanda e della misteriosa donna mascherata durante da festa, Bill si reca all’obitorio dove fissa a lungo il corpo della ragazza. Una telefonata lo distoglie dai suoi pensieri e lo chiama a casa di Victor Ziegler, dove lo attendono alcune spiegazioni.

Anche il ricco cliente di Bill era all’orgia in maschera, destinata ad ospitare un gruppo selezionato di potentissimi personaggi. Il pianista è stato semplicemente allontanato. Amanda, anch’ella presente alla festa notturna, è morta poco dopo per la droga assunta volontariamente: non c’è stato nessun omicidio e il processo era solo una messa in scena per spaventare Bill.

All’uscita del film nelle sale cinematografiche, furono in molti quelli che trovarono nell’introduzione di questa scena, assolutamente innovativa rispetto al racconto di Schnitzler, nella quale Kubrick sembra insolitamente concedersi alla spiegazione, un motivo di critica: infatti, in nessuno dei suoi precedenti film il regista aveva mai ceduto ad un commento esplicativo, anzi, semmai aveva sempre cercato di oscurare anche il minimamente percettibile31. In verità,

31 S. Ciaruffoli, 2003

36

questa scena, voluta in origine principalmente dallo sceneggiatore Frederic Raphael, che sentiva la necessità di conferire alla storia una struttura narrativa concreta e il più possibile reale, e solo in extremis approvata e adottata da Kubrick, non solo non chiarisce nulla, ma, come avrò modo di spiegare più avanti, ad una più accurata analisi colpisce per il senso di teatralità che riesce a trasmettere e, di conseguenza, di falsità.

Tornato a casa, esausto e sconvolto per le rivelazioni della giornata e per gli accadimenti delle due giornate trascorse, il medico trova la maschera che aveva smarrito adagiata sul suo cuscino a fianco di Alice. La sola vista della maschera è sufficiente per provocare il crollo di Bill. Travolto da un incontenibile pianto liberatorio, egli decide di raccontare alla moglie quanto accaduto.

Il mattino dopo trova i coniugi Harford reduci da un lungo e sofferto racconto. Poi, i due si recano con la figlioletta Helena ad acquistare dei giocattoli. Nel negozio ha luogo un breve ma intenso dialogo conclusivo.

2.2. Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca

Stanley Kubrick, come attestato anche dalla testimonianza dello sceneggiatore Frederic Raphael32, desiderava rimanere il più possibile fedele al canovaccio di Doppio Sogno. Ed infatti, sebbene vi siano alcune sostanziali differenze fra la trama del film e quella del racconto, che lascerebbero supporre un totale stravolgimento da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad una più accurata analisi è possibile notare come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga rivestita e travestita dalla storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento sia sufficientemente sottile affinché la trama originale continui ad affiorare. Tutta l’ambientazione è volutamente ambigua sotto questo punto

32 F. Raphael, 1999

37

di vista.

Alla Vienna di inizio Novecento viene sostituta la New York odierna durante il periodo natalizio: tuttavia, «la New York descritta da Kubrick è uno strano ibrido tra la Grande Mela della fine del XX secolo e la Vienna di inizio ‘900 in cui è ambientato il racconto di Schnitzler»33. Per quanto si svolga in una città tanto multietnica e moderna, Eyes Wide Shut è costellato di personaggi e nomi europei centro-orientali: il seduttore ungherese Sandor Szavost; il signor Milich, proprietario del negozio di costumi, di provenienza balcanica; lo stesso Ziegler, il quale ha un cognome di chiara origine tedesca. Oppure, appaiono ambienti come il caffè Sharky’s, nel quale Bill si rifugia nel tentativo di sfuggire al misterioso pedinatore, intonato ad un clima tardo romantico e nel quale risuona il brano Rex Tremendae dal Requiem K. 626 di Mozart. Altre scelte musicali alludono alla cultura mitteleuropea: il valzer di Šostakovič che accompagna i titoli di testa e l’inizio del film, o i brani di Liszt e di Ligeti34. O, ancora, alcuni particolari come la carrozzina antiquata che la piccola Helena indica ai genitori nella scena finale. Infine, l’abbondanza di valletti, servitori, maggiordomi sia alla festa in casa Ziegler sia alla festa mascherata, o anche la figura del portiere dell’albergo, tutti personaggi compresi nel loro ruolo di subalterni in una società dominata da rigidi rapporti gerarchici, rimandano più alla civiltà aristocratica dell’Europa precedente la Prima Guerra Mondiale che a una moderna metropoli americana.

Tuttavia, la storia originale di Schnitzler non è la sola che si sente riecheggiare nella vicenda di Bill e Alice. Il film è dominato da una forte atmosfera fiabesca.

All’inizio del film Helena è vestita come la protagonista dello Schiaccianoci e chiede ai genitori il permesso di vedere la fiaba in televisione: alla fine del film, la stessa Helena richiama l’attenzione dei genitori su una versione della Barbie ricalcata sul modello dello stessimo personaggio. Lo Schiaccianoci, un balletto del

33 G. Alonge, 2002, p. 20 34 F. Ulivieri, 2001

38

1892 di Čajkovskij della favola Lo schiaccianoci e il re dei topi di E. T. Hoffmann, è una favola natalizia nella quale si narra di viaggi fantastici, di giocattoli meccanici simili a soggetti umani e di desideri sessuali di una bambina trasfigurati in sogno35. E’ piuttosto evidente il parallelismo fra la storia della fiaba e la storia del film. Anche i riferimenti all’arcobaleno contenuti nel dialogo fra Bill e le due modelle e poi nel nome del negozio di Milich – nella sceneggiatura originaria anche la parola d’ordine della festa orgiastica doveva essere «Fidelio rainbow» – rimandano alla storia del Mago di Oz, la favola di una viaggio fantastico di una ragazzina verso un paese incantato36. Infine, la sequenza iniziale del film, nella quale Bill cerca il portafoglio smarrito prima di recarsi alla festa di Ziegler, può essere paragonata alla scena iniziale di Peter Pan, così come rappresentata dalla versione disneyana del 1952, nella quale i signori Darling si preparano per andare ad una festa ed il padrone di casa reclamerà affinché qualcuno gli cerchi i gemelli che ha smarrito e coi quali deve completare il suo abbigliamento. La figura di Peter Pan raffigura nella riflessione psicoanalitica l’istanza dell’irrazionale, del sognante che si fa tentare dall’immaginazione e che non teme il paradosso, non si sottrae agli impulsi37.

Ma oltre ai rimandi di precise storie di viaggi e di sogni, la gamma di riferimenti culturali disseminati in Eyes Wide Shut è estremamente ampia a complessa. In particolar modo, vorrei sottolineare che mentre la parola d’ordine per accedere alla festa segreta in Doppio Sogno è Danimarca, con una chiara allusione ed un rimando alla confessione del mancato tradimento da parte di Albertine con il giovane ufficiale intravisto durante la vacanza estiva, nel film la stessa è Fidelio, titolo dell’opera di Beethoven che si conclude con un inno all’amore coniugale dopo avere esaltato l’idea di libertà38.

35 R. Eugeni, 1995
36 R. Eugeni, 1995
37 G. P. Caprettini, 2002 38 G. Alonge, 2002

39

2.3. Temi a confronto

Nelle sue opere precedenti Doppio Sogno, Schnitzler aveva già affrontato il tema della coppia e dei turbamenti che possono scuotere e minare un felice ed apparentemente tranquillo rapporto, tuttavia analizzando il punto di vista di un solo partner. Allo stesso modo, anche Kubrick, in alcuni suoi film precedenti Eyes Wide Shut, aveva già rappresentato questo tema: si trattava però di coppie anomale, come quella di Humbert e Lolita in Lolita, oppure il motivo apparteneva ad un più ampio affresco e riguardava coppie già in crisi, come in Barry Lindon o in Shining. Con Eyes Wide Shut, invece, il regista pone al centro del racconto l’esplorazione, da parte di una coppia adulta che vive in una sfera di normalità, quella di una tranquilla famiglia borghese, entro i gorghi della psiche, laddove il confine fra realtà materiale e realtà psichica, fra vero e falso, è costantemente rimesso in discussione, e la notte e il giorno si incontrano di continuo, «facendo del viaggio “reale” del marito un’esperienza più onirica e incompiuta del sogno della moglie»39.

L’aspetto saliente della coppia di Bill e Alice, dunque, è la dualità fra aspetto diurno e aspetto notturno, l’apparente normalità di una relazione felice e l’effettivo gorgo di desideri, di gelosie, di ossessioni che essa nasconde e che vengono richiamati alla superficie e liberati solo grazie ad un evento qualunque – la discussione dei due protagonisti in camera da letto, caratterizzata dalla reciproca incomprensione –, come meglio rappresentato nel racconto di Schnitzler. Ma, come sempre avviene nei film di Kubrick, i due aspetti sono separati solo all’inizio della rappresentazione e tendono poi a sovrapporsi. Sintomatico è il rientro di Bill a casa nel corso della terza giornata: un carrello in avanti accompagna il protagonista verso il tinello nel quale si svolge una pacata scena di vita famigliare: Helena sta facendo i compiti con la mamma. Ma quando Bill si reca in cucina e guarda Alice assistiamo al sovrapporsi di due

39 R. De Gaetano, 2002, p. 65

40

soggettive del medico: quella visiva ci mostra, con uno zoom in avanti, la donna tranquilla che sorride al marito, quella sonora ci fa ascoltare la voce sconvolta di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno.

Così, gli elementi inquietanti, perturbanti ed inattesi affiorano all’interno della vita domestica, rivelando il fondo oscuro, orrendo e crudele della quotidianità: «la persona che si credeva ben conosciuta diventa inquietante e ignota, il consueto si rivela misterioso»40. Kubrick mostra l’ambiente domestico come un luogo caldo, accogliente, piacevole, conferendogli la stessa atmosfera ovattata e rassicurante con la quale Schnitzler ha aperto il racconto in Doppio Sogno:

[…] La piccola aveva letto [la fiaba] fin lì ad alta voce; ora, quasi all’improvviso, le si chiusero gli occhi. I genitori si guardarono sorridendo, Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che si trovava sulla tavola non ancora sparecchiata. La bambina lo guardò come sorpresa.

«Sono le nove», disse il padre «è ora di andare a letto». E poiché anche Albertine si era accostata alla bambina, le mani dei genitori si incontrarono sulla fronte amata mentre i loro sguardi si scambiavano un tenero sorriso, che non era più rivolto solo alla bambina.41

Nella maggior parte delle sequenze, ambientate di sera e di notte, l’interno domestico viene posto in netto contrasto visivo con l’esterno mediante una scelta cromatica precisa: le stanze sono illuminate da una luce rossastra e contengono molti elementi scenografici rossi, come tende, tappeti, tovaglie, copriletti o divani, mentre dalle finestre entra una luce bluastra che contrasta sensibilmente con l’altra. Le tonalità rosse denotano un luogo caldo ed accogliente, ma allo stesso tempo rappresentano la tentazione ed il desiderio e indicano una situazione esistenziale in cui è presente il perturbante, il demoniaco, il misterioso. Le tonalità bluastre, oltre a raffigurare il buio della

40 F. Prono, 2002, p. 58

41

notte e a conferire al film un’atmosfera onirica, conferiscono una sensazione di pericolo proveniente dal mondo esterno, dall’ignoto. Secondo i diversi momenti della vicenda, queste due dominanti cromatiche si fronteggiano e coesistono l’una accanto all’altra in modo equilibrato, oppure una delle due prevale fino ad annullare l’altra. Ad esempio, nella sequenza in cui Bill, rientrato in casa dopo avere assistito all’orgia notturna, nasconde in un armadietto l’abito noleggiato, oppure in quella in cui il medico trova sul letto la maschera misteriosamente perduta, la semioscurità affogata nel blu segnala l’invasione del mondo esterno dentro il mondo domestico42.

Nel racconto di Schnitzler non vi sono indicazioni né descrizioni dettagliate che prendano in considerazione l’ambientazione, i colori o la fisionomia dei personaggi, o, ancora, che rendano concreto l’aspetto ambivalente della coppia di Fridolin e Albertine. L’intero racconto è permeato da un’atmosfera onirico- surreale che lascia ampio spazio all’immaginazione: ciò che più conta in Schnitzler, suppongo, sono le parole che vengono utilizzate per penetrare la mente, le sensazioni ed i sentimenti più intimi dei protagonisti. Nella mente del lettore che scorre le pagine si cela la costante ed insidiosa domanda sulla veridicità di quanto si sta leggendo: forse, l’intera storia è un sogno. Tale scarsità di particolari ha permesso, a maggior ragione ad un regista tanto eccentrico, indipendente ed innovativo quale è stato Kubrick, da un lato di aderire alla trama e alle tematiche di Doppio Sogno, facendo in modo che la storia originale emergesse costantemente, dall’altro di marchiare il film con la propria inconfondibile firma e con le proprie preferenze stilistiche, senza stravolgere il senso della vicenda.

Dunque, non è soltanto l’ambiente domestico nel quale vivono i due protagonisti e dal quale prendono avvio sia la storia in generale sia, nello specifico, la storia del doppio viaggio di Bill e Alice ad essere caratterizzato

41 A. Schnitzler, 1977, p. 11 42 F. Prono, 2002

42

dalla dualità del giorno e della notte, dell’istinto e della ragione, dell’amore e delle pulsioni sessuali. Sul piano cromatico tutto il film è giocato sul contrasto fra questi due colori, il rosso e il blu, costantemente giustapposti: Alice in vestaglia blu mentre pettina la figlia vestita di rosso, la tenda rossa contro la luce azzurra della finestra nella scena del litigio tra i due coniugi, la luce blu e i drappi rossi nel negozio di Milich, i due giapponesi che indossano rispettivamente una camicia blu ed una rossa, e via dicendo. Il contrasto cromatico è inoltre evidente nell’alloggio della prostituta, nel Sonata Cafe, dove Bill incontra l’amico pianista che gli fornisce poi l’indirizzo e la parola d’ordine per accedere all’orgia, nella sala da biliardo di Ziegler, nel palazzo della festa mascherata: in questi luoghi il rosso perde ogni connotato caldo, mantenendo solamente quello che suggerisce un senso di inquietudine e di morte. Un presentimento negativo, infatti, emerge dal rosso intenso di vari oggetti: la pedana sulla quale l’amico suona il pianoforte nell’abitazione di Ziegler, la poltrona sulla quale è distesa Mandy mentre si sente male, le pareti del Sonata Cafe e del bar dove Bill legge il giornale, il portone d’ingresso della casa della prostituta, le tende ed i tappeti della villa nella quale ha luogo l’orgia, così come il mantello rosso che indossa l’officiante, il panno del biliardo di Ziegler, ed anche le pareti e gli scaffali nel negozio di giocattoli, o la maglia con cui è vestito Bill nel finale, vari oggetti e decorazioni che alludono al Natale. La festività natalizia, in effetti, non mostra alcun aspetto autenticamente gioioso e positivo, ma sembra in qualche modo il raddoppiamento dell’orgia – caratterizzata da movimenti altamente coreografici ed impostati, sincopati, per nulla naturali –, un rito sociale e famigliare che a quella corrisponde43.

A questo proposito, la coppia di Bill e Alice appare come frammento e specchio del più ampio sistema sociale in cui è inserita. Anche la società nel suo complesso vive sul filo che separa due dimensioni, l’una diurna e l’altra notturna, sempre pronte a richiamarsi fra di loro e a sovrapporsi. Rivelatore di

43 F. Prono, 2002

43

questo aspetto è il ruolo espressivo e narrativo che rivestono all’interno del film le due feste in cui è coinvolto il protagonista: la festa iniziale a casa di Ziegler, caratterizzata dalla presenza di una luminosità diffusa e insistente, e quella notturna nella villa isolata, festa di ombra ammantata dal mistero44. Le sequenze di entrambe le feste durano esattamente diciassette minuti ed appaiono l’una come l’inverso ma anche il completamento dell’altra. La festa di Ziegler presenta un affiorare del desiderio nelle situazioni di corteggiamento in cui vengono coinvolti sia Bill sia Alice, entrambi si sentono sfiorati da «un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo»45 che li spingerà poi verso quel territorio nascosto, fluttuante e misterioso della parte più intima della loro anima: il medioconscio. Questa festa prevede inoltre un “fuori scena” – il bagno in cui Ziegler stava consumando il suo rapporto sessuale con la giovane modella prima che quest’ultima si sentisse male –, apparentemente immotivato, e che invece prepara narrativamente all’altra festa. Sintomatico è il codice vestiario: all’inappuntabile smoking di Ziegler fa riscontro la sua seminudità nella sequenza del bagno. In merito a tale sequenza, vorrei aggiungere l’acuta osservazione di Prono:

Nel Dottor Stranamore come in Shining e in Full Metal Jacket vediamo che il corpo umano da un lato soffre del mascheramento, dell’annullamento prodotti su di lui dalla civiltà, dalla razionalità, dalla macchina; dall’altro rivela a tratti la propria debolezza organica e la grande vulnerabilità, mostra il bisogno di consumare cibo e di ottemperare a tutte le necessità fisiologiche.46

Questo spiega il fatto che svariate sequenze nei film di Kubrick siano ambientate in cucine e in stanze da bagno, dove spesso vengono rappresentati con efficacia la malattia, la follia o la morte, come nel caso preso in esame in

44 R. Eugeni, 2002
45 A. Schnitzler, 1977, p. 14 46 F. Prono, 2002, p. 48

44

Eyes Wide Shut.

La festa a casa Ziegler, così luminosa, caratterizzata da un ambiente nel quale le persone vestono abiti elegantissimi e stupendi e chiacchierano secondo le convenzioni della morale borghese, dove nulla viene lasciato al caso o dichiarato in modo esplicito – le due modelle che corteggiano Bill utilizzano numerosi doppi sensi e non sono mai chiare: ad esempio, il significato del loro invito, rivolto a Bill, a seguirle «là dove finisce l’arcobaleno»47 è lasciato in sospeso e l’allusione alla successiva festa può essere colta dallo spettatore solo molto più avanti –, dunque, è la riproduzione ed anticipazione della successiva festa, l’orgia notturna e segreta, stilizzata e regolata come un balletto, nel quale i corpi si muovono quasi come manichini secondo la reiterazione esasperata dell’atto sessuale. La ritualità funeraria dell’orgia è possibile, peraltro, soltanto sotto una stretta copertura di segretezza e dissimulazione che comporta l’utilizzo di maschere e di mantelli sul corpo48.

Ancora una volta, la scena sociale appare in Kubrick come un luogo di rappresentazione e di travestimento. Tutte le persone che si muovono nell’ambiente benestante in cui vive Bill si coprono con le maschere delle convenzioni sociali, sono esse stesse maschere che celano la loro vera identità. Illuminante a questo proposito è la battuta con cui Bill, dopo che ha cominciato a ballare con Alice in casa di Ziegler, rispondendo alla domanda della moglie: «Non c’è nessuno che conosci qui?» le dice: «No, neanche un’anima»49. Nel film, infatti, vengono continuamente mostrati corpi, nudi o semi-svestiti, ma non si discute mai dell’interiorità delle persone. E più esplicito nell’annunciare il tema del travestimento e dell’ipocrisia borghese è il racconto di Schnitzler, poiché già la prima festa si presenta in forma mascherale – la vicenda di Doppio Sogno, in effetti, si svolge nella Vienna di inizio Novecento

47 S. Kubrick, 1999 48 F. Prono, 2002 49 S. Kubrick, 1999

45

proprio durante il periodo carnevalesco: «Quanto a Fridolin, appena entrato in sala era stato salutato come un amico atteso con impazienza da due maschere in domino rosso che non era riuscito a identificare […]»50. Inoltre, questo è l’unico momento della storia in cui Schnitzler nomina il colore rosso, che raffigura in questo caso la tentazione cui viene sottoposto Fridolin e l’affiorare del desiderio, e che è stato poi riproposto e raffigurato in modo più esteso da Kubrick nella sua personale rappresentazione della dualità fra notte e giorno in Eyes Wide Shut.

Centrale, quindi, sia nel racconto sia nel film, è il motivo della maschera: le maschere grottesche e deformate dei partecipanti dell’orgia notturna non sono altro che l’estrinsecazione di un più generale principio di mascheramento sociale. Per sua natura, la maschera si adopera in due sensi complementari e distinti:

Espropria l’individualità di chi la indossa ed al contempo gliene garantisce due ben distinte: una allegorica, che è raffigurata dalla maschera stessa, e l’altra puramente proiettiva, ideata da chi questa maschera la osserva e nell’impossibilità di scorgere il volto nascosto ne immagina uno a suo discernimento. Sta qui l’eyeswideshut kubrickiano, l’inintelligibilità di un volto, di uno sguardo, di un’espressione nascosti dietro l’infinita gamma di maschere tutte diverse per se stesse ma tutte drammaticamente uguali per chi le guarda.51

Esemplare sotto questo aspetto è il lavoro compiuto da Kubrick con il volto e gli stili mimici di Tom Cruise. Le espressioni tipiche dell’attore – il sorriso seducente, lo sguardo brillante ed allusivo, un certo sollevare le sopracciglia per sottolineare i buoni intendimenti e la sincerità – vengono fissate e serializzate in una piccola galleria di smorfie ricorrenti, buone per ogni occasione ed al

50 A. Schnitzler, 1977, p. 12 51 S. Ciaruffoli, 2003, p. 93

46

tempo stesso suscettibili di improvvisi svuotamenti52. Un esempio è la sequenza nella quale Bill si reca nuovamente a casa della prostituta, dove però trova la coinquilina che gli parla della malattia dell’amica: il volto inespressivo ed impassibile, il sorriso seducente e al contempo imbarazzato, i movimenti legnosi del corpo mirano a mascherare in modo ridicolo la sua incapacità di rispondere in modo adeguato alle sorprese che la vita gli riserva, nascoste oltre la superficie dei riti sociali quotidiani.

I suoi rapporti col mondo circostante si rifugiano continuamente in un cerimoniale meccanico e perbenista, che riduce la comunicazione a puro esercizio fatico: all’inizio del film, quando i due coniugi si stanno preparando per recarsi alla festa di Ziegler e lui dice alla moglie che è bellissima, lei protesta che in realtà non l’ha nemmeno guardata. E della comunicazione fatica fanno parte anche le sue abitudini di ripetere sempre, in forma di domanda, l’ultima parte del precedente discorso dell’interlocutore53.

D’altro canto, il principio del mascheramento è pervasivo e coinvolge gli stessi ambienti: questi sono tutti decorati con le stesse luci natalizie, ora bianche – nella casa di Ziegler e successivamente in una parte del negozio di Milich – ora colorate – nell’abitazione di Bill e Alice, nel negozio di giocattoli, nella casa della prostituta –, come se una seconda pelle uniformante si stendesse sugli ambienti più diversi. Occorre attendere l’orgia mascherata della villa per scoprire, finalmente, uno spazio spoglio di questa patina colorata e luminescente e tale dunque da rivelare la verità delle proprie superfici, laddove la società si mostra per quella che è: una messinscena nella quale le identità sono andate perdute.

Di fondamentale importanza, sia nel racconto di Schnitzler sia nel film di Kubrick, è la scena nella quale il protagonista, rientrando a casa, trova la maschera sul suo cuscino accanto alla moglie addormentata. La maschera,

52 R. Eugeni, 1995 53 F. Prono, 2002

47

situata nel luogo occupato durante il sonno – il sogno – del/dal medico, lo raffigura e lo sdoppia, risvegliandolo dal suo torpore e ponendolo di fronte al suo Es onirico. Al contempo, la stessa è la prova che gli avvenimenti vissuti hanno in qualche modo valicato il confine fra sogno e realtà, guadagnandosi una forma concreta. Diviene la prova tangibile del mondo immaginario del protagonista maschile: in questo frangente il fantastico risale «la gora dell’irreale su fino alla luce e assurge il simbolo dello smascheramento della messinscena»54.

Come spiega anche Eugeni55, poi, il gioco della rappresentazione sociale appare nel suo complesso tenue, fragile, sempre pronto a rivelare le sue trame e la sua artificiosità; e finisce così per affiorare il principio che muove effettivamente le azioni e le scelte dei soggetti: il principio del desiderio e la ricerca della verità, il cui statuto rimane incerto e sfuggente. La storia di Bill, dunque, consiste in un continuo rinvio non solo nel possedere una donna, ma anche e soprattutto nel possedere in forma definitiva una verità. Significative sono allora le parole di Alice nelle battute finali: il fatto che la coppia sia uscita indenne dalle avventure della notte viene legato alla possibilità che la realtà di tali esperienze corrisponda ad una verità.

2.4. Strutture a confronto

2.4.1. Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina

Dal punto di vista dei procedimenti di scrittura cinematografica Eyes Wide Shut conferma l’attrazione di Kubrick per un utilizzo insistito dei movimenti di

54 S. Ciaruffoli, 2003, p. 107 55 R. Eugeni, 1995

48

macchina. Carrelli e steady cam sono presenti per tutto il film. Più in particolare, lo spazio viene rappresentato secondo due modalità. Alcuni spazi sono resi dinamici grazie all’uso di carrelli all’indietro – a casa di Ziegler o nel negozio di giocattoli –, o in avanti – nel negozio di costumi o nei ritorni di Bill a casa –, o laterali – nelle scene in strada –, oppure mediante movimenti più complessi ed elaborati, di andamento circolare – durante il ballo alla festa di Ziegler o all’ingresso nella villa dell’orgia. Altri spazi, invece, sono resi statici da inquadrature fisse, che insistono spesso sui primi o primissimi piani dei soggetti lasciando fuori fuoco il resto dello spazio: in questo caso viene utilizzato lo zoom, che sottolinea la volontà di indagare da vicino i volti: ad esempio, nella scena del bagno in casa Ziegler, nell’abitazione della prostituta, o, ancora, nella camera da letto dei coniugi durante il litigio, all’interno del taxi che conduce Bill alla villa dell’orgia, nel caffè dove Bill legge il giornale e nell’obitorio56.

In particolare, però, è la figura della carrellata, e nello specifico quella all’indietro, a dominare il dipanarsi della vicenda in Eyes Wide Shut.

Come Schnitzler nella sua novella Doppio Sogno, anche Kubrick preferisce entrare subito nel vivo della vicenda, presentando con pochi tratti essenziali situazioni e personaggi. Dunque, sia nel romanzo sia nel film si avverte sin dalle prime battute un sensibile sbilanciamento verso la parte centrale del racconto, ovvero verso il culmine del viaggio onirico-surreale dei due protagonisti, in particolare quello del medico, che rappresenta sia per lo scrittore viennese sia per il regista il vero protagonista della vicenda. La stessa forza che richiama Bill in avanti verso la profondità dell’immagine – e quindi verso la macchina da presa che simultaneamente carrella all’indietro – è sia una sorta di coazione narrativa che accompagna il suo percorso verso il centro della storia sia la cifra stilistica che permette allo spettatore di avvertire lo stesso

56 R. Eugeni, 1995

49

senso di smarrimento che permea il personaggio interpretato da Cruise57.

Ecco l’elenco dei movimenti di macchina al seguito di Bill Harford contenuti nel film.

Carrellate all’indietro:

  1. IconiugiHarfordesconodallacameradalettoesalutanolafigliaprima di recarsi al ricevimento della famiglia Ziegler.
  2. Giunti alla festa, percorrono il corridoio che li conduce alla scalinata illuminata di fronte alla quale li attendono i coniugi Ziegler.
  3. Bill, sempre al ricevimento, intrattiene un dialogo con l’amico pianista.
  4. Bill passeggia a braccetto con le due modelle.
  5. Victor Ziegler e Bill si accingono ad uscire dal bagno dopo che quest’ultimo ha prestato le sue cure a Mandy.
  6. Bill passeggia in strada dopo avere lasciato il paziente deceduto e prima di incontrare la prostituta.
  7. Bill scende le scale del Sonata Cafe.
  8. Assieme a Milich percorre il corridoio del negozio Rainbow Fashion.
  9. Nella villa passeggia a braccetto della donna misteriosa mentre questa lo avverte di abbandonare la festa.
  10. Bill sfila osservando le scene dell’orgia.
  11. Lo stesso viene accompagnato di fronte all’officiante.
  12. Bill entra nell’albergo per cercare l’amico pianista.
  13. Torna per la seconda volta al negozio di costumi.
  14. Torna in automobile alla villa dell’orgia.

57 S. Ciaruffoli, 2003

50

15. Rientra a casa mentre la figlia sta facendo i compiti assieme ad Alice. 16. Si ripresenta a casa della prostituta.
17. Bill, accortosi di esser pedinato, entra nel caffè Sharky’s.
18. Percorre il corridoio che lo conduce all’obitorio.

19. Esce dall’obitorio.
20. Torna per la seconda volta a casa di Ziegler.
21. Nella sala del biliardo Bill sia allontana da esso per sedersi sul divano. 22. Rientra a casa, dove ritrova la maschera sul cuscino.
23. Bill passeggia assieme ad Alice nel negozio di giocattoli.

Carrellate in avanti:

  1. Bill, entrato nell’abitazione del paziente defunto, si dirige verso la camera da letto.
  2. Uscito dalla predetta abitazione viene importunato da un gruppo di facinorosi.
  3. Rientra a casa nel cuore della notte dopo essere stato alla villa della festa mascherata.

Carrellate laterali:

  1. Bill passeggia per strada prima di essere importunato dai facinorosi.
  2. Si dirige verso l’abitazione della prostituta.

3. SiavvicinaalSonataCafe.

È evidente la prevalenza numerica dei movimenti di macchina rivolti verso la profondità della scena piuttosto che quelli laterali.

Il regista, infatti, non ha bisogno di rappresentare la discesa verso l’inconscio da parte del protagonista attraverso l’utilizzo degli espedienti formali più classici del cinema: l’arretramento della macchina da presa assieme all’avanzare

51

pletorico di Bill diviene anche e soprattutto architettura e territorio dell’inconscio58.

Questo movimento di macchina è quello che più si avvicina al tipo di osservazione e di indagine da parte del protagonista. Con la carrellata all’indietro ci situiamo al vertice del punto di fuga dello sguardo di Bill: siamo qualche istante prima di lui nel luogo del suo percepito, tuttavia percependolo qualche istante dopo. Con la carrellata in avanti, invece, scorgiamo simultaneamente il dipanarsi della visione del protagonista, tuttavia raggiungendo brevemente in ritardo la sua prospettiva59. In entrambi i casi noi spettatori siamo con Bill e siamo in grado di seguire il flusso della narrazione grazie all’estensione del suo sguardo. Questo tipo di narrazione viene denominato «a focalizzazione interna» ed è lo stesso espediente narrativo utilizzato da Schnitzler, che ci consente di leggere il racconto Doppio Sogno dal punto di vista di Fridolin, attraverso i suoi pensieri, senza tuttavia utilizzare il flusso di coscienza. In altri film, come in Full Metal Jacket e in Arancia Meccanica, era compito del voce over, appartenente in entrambi i casi al protagonista, guidare lo spettatore all’interno della vicenda; in Eyes Wide Shut, invece, la parola è soppressa a favore dell’immagine: essendo la storia densa di ingerenze oniriche, la fluidità del racconto unita alla struttura particolare dei sogni sarebbe risultata sovraccaricata se fosse stata molestata da un’oratoria extra- filmica.

Il film ospita soltanto due momenti che rifuggono l’espediente della focalizzazione interna a favore del punto di vista della macchina da presa e del regista, che finalmente annuncia la sua presenza e pone la sua firma: la scena dell’obitorio e quella nella sala da biliardo a casa di Ziegler.

Nella prima sequenza, Bill, entrato in obitorio, si appresta a distinguere – o a tentare di distinguere – in Amanda Curran la donna misteriosa che si è

58 S. Ciaruffoli, 2003 59 S. Ciaruffoli, 2003

52

sacrificata per lui durante la festa mascherata. Ma, appena estratto il lettino dalla cella, avviene un cambio brutale di prospettiva: una plongée sul corpo della donna ci scosta da Bill confinandolo al margine dell’inquadratura. Ora ci troviamo nel punto di vista della macchina da presa, che ci regala un ampliamento del nostro orizzonte interpretativo: Mandy non è la donna misteriosa. Ella, infatti, ha gli occhi aperti – solo per lo spettatore – e ci è dato conoscere il suo aspetto grazie alla plongée adottata. Nell’inquadratura successiva, nuovamente secondo il punto di vista di Bill ed il suo mondo, la donna ha le palpebre abbassate: così, egli non riesce a raggiungere la certezza che Amanda possa essere la donna misteriosa o che, viceversa, non lo sia. Per un solo istante, dunque, il viaggio dello spettatore si è congiunto a quello del regista e si è separato da quello del personaggio e, proprio come recita il titolo, anche lo sguardo si è scisso in due: occhi aperti per lo spettatore, serrati per Bill60.

Nella seconda sequenza presa in esame, Bill, uscito dall’obitorio e ancora immerso nei suoi pensieri, viene interrotto da una telefonata e chiamato a casa di Ziegler, dove sembra lo attendano alcune spiegazioni: si tratta della famosa scena nella sala del biliardo, da molti criticata e contestata, che denota la massima riconoscibilità nell’impostazione simmetrica, frontale, e nell’impronta teatrale tipiche del cinema di Kubrick.

L’avvenimento narrato in questa sequenza, così come la sua struttura simmetrica, inoltre, sembrano rifarsi ad una scena di un celebre film di Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte (titolo originale: Vertigo), nella quale Tom Helmor si confida con James Stewart sulle stranezze della moglie pregandolo, in qualità di ex compagno di scuola ed ex poliziotto, di pedinarla61. In verità, lo spettatore intuisce che la confessione di Helmor è pura invenzione, uno stratagemma per impossessarsi e godere indisturbato i soldi dell’eredità della

60 S. Ciaruffoli, 2003 61 S. Ciaruffoli, 2003

53

moglie: Hitchcock non lo nasconde del tutto e l’evoluzione della scena non fa altro che svelarlo attraverso un uso teatrale dello spazio. Così, Helmor diviene attore della rappresentazione nella rappresentazione. Al momento della confessione menzognera, infatti, l’impresario Helmor va a porsi su un piano rialzato della stanza e al contempo Stewart si distacca da esso andando a sedersi in una poltrona. Magistralmente Hitchcock riproduce la situazione teatrale che vede lo spettatore seduto in platea e l’attore sul palco.

Col medesimo procedimento Kubrick ritrae il suo protagonista, Bill, in un ambiente teatrale che si rifà a quello falso di La donna che visse due volte, denunciando a maggior ragione la finzione nell’interazione fra i due personaggi. Così, non è solamente la sua impostazione teatrale – l’aumento spropositato della profondità di campo, Bill che si rivolge allo spettatore di un’ipotetica platea dando le spalle a Ziegler, la comunione dei punti di fuga della stanza con quello dello schermo – a ricordare la stanza del predetto film, ma soprattutto il suo arredamento. Rifacendosi in maniera indubitabile alla sequenza ed alla stanza del film di Hitchcock, Kubrick pone immediatamente in discussione e rende ambiguo il recitato di Bill e Ziegler. Inoltre, tale sequenza è ambientata attorno ad un biliardo ricoperto di un panno rosso, che ricorda e rinnova quello sul quale si svolge la cerimonia, il rito di iniziazione delle ancelle mascherate durante l’orgia nella villa segreta. Inoltre, il biliardo è la traslazione di un gioco che alla sua nascita si svolgeva all’aperto, o comunque su di un ampio spazio calpestato fisicamente dai suoi partecipanti – e di quello spazio rimane infatti il verde che richiama il colore del prato. Nelle due sequenze dell’orgia e del biliardo il colore protagonista non è il verde bensì il rosso ed il rito, con le sue regole, viene disciplinato rispettivamente dall’officiante vestito anch’egli di rosso e da Victor Ziegler, i quali divengono registi dell’artificio ludico62. Emblematico, poi, è il momento in cui Bill, esausto, mostra a Ziegler il ritaglio di giornale, domandandogli se la Amanda

62 S. Ciaruffoli, 2003

54

dell’articolo corrisponda alla donna misteriosa che si è sacrificata per lui. Ziegler, che in questo momento è vicino a Bill, si allontana per recarsi di fianco al biliardo, lo tocca e solo dopo risponde, con spudorata falsità evidenziata da uno stacco che ci mostra un suo primo piano illuminato dalle lampade: «Era lei»63. Ma è una menzogna. Amanda è sì la ragazza morta per overdose dell’articolo di giornale, ma non è la donna misteriosa: basta guardare i titoli di coda. I due personaggi sono stati recitati da due attrici diverse. Inoltre, Ziegler confessa a Bill, ancora a ridosso del biliardo, che Amanda non sarebbe stata uccisa durante l’orgia, bensì sarebbe stata accompagnata a casa da due partecipanti alla festa notturna: questo dettaglio non coincide con quanto scritto nell’articolo di giornale, secondo il quale la ragazza sarebbe stata accompagnata sì da due signori, ma in un albergo64. Dunque, la spiegazione offerta nella scena della sala del biliardo è falsa e la storia rimane enigmatica e senza soluzione.

2.4.2. Figura della geminazione simmetrica

Eyes Wide Shut si configura dunque come una sorta di lungo, ininterrotto viaggio che passa attraverso strade, stanze, corridoi per arrestarsi solo provvisoriamente in alcuni luoghi, dove pure continua una sorta di avanzamento all’interno degli individui – mediante l’utilizzo dello zoom.

A prima vista, questo viaggio sembra possedere un andamento continuo ed una perfetta forma circolare: esso parte da casa Harford e lì è destinato a terminare dopo avere toccato nuovamente, nella seconda parte, tutte le tappe della prima.

Effettivamente, il racconto di Schnitzler regala con maggior forza questa impressione di complessiva coerenza ed è strutturato secondo un andamento

63 S. Kubrick, 1999
64 È possibile prendere visione dell’articolo di giornale scritto in inglese e della sua traduzione in italiano in F. Ulivieri, 2001

55

circolare, diviso al suo interno in due parti disposte simmetricamente fra di loro. Le peregrinazioni di Fridolin sono strutturate secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Strada: facinoro si

Casa prostitui ta

Caffè del pianista

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Giorno 2

Casa Fridolin e Albertin e

Caffè del pianista e albergo

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Sera 2

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Casa prostitut a

Caffè del giornale e obitorio

Casa Fridolin e Albertin e

Come si può notare, l’abitazione di Fridolin e di Albertine rappresenta il punto di partenza e di arrivo di ciascun segmento narrativo. Viceversa, la villa dove si svolge l’orgia mascherata rappresenta il punto di massima lontananza prima del ritorno a casa da parte di Fridolin. Inoltre, la sequenza percorsa dal medico durante la notte del primo giorno viene ripercorsa dallo stesso il secondo giorno, ma in un ordine differente: di giorno Fridolin ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre di sera ripercorre le tappe iniziali, secondo una struttura simmetrica A-B-B-A. Il racconto termina nuovamente nell’abitazione dei due protagonisti, laddove era iniziato.

Al contrario, un’analisi più attenta della struttura del film rivela che il viaggio

56

del medico qui rappresentato è tutt’altro che circolare, coerente e continuo.

In primo luogo, la forma delle sue peregrinazioni non è affatto circolare, ma è caratterizzata da una struttura più complessa che si dipana secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Harford

Casa Ziegler

Sera 2

Casa Harford

Casa paziente defunto

Strada: facinorosi

Casa prostituta

Sonata Cafe

Rainbow Fashion

Somerton

Giorno 3

Casa Harford

Sonata Cafe e albergo

Rainbow Fashion

Somerton

Sera 3

Casa Harford

Ambulat orio: telefonata a Marion

Casa prostituta

Strada: pediname nto

Sharky’s e obitorio

Casa Ziegler

Giorno 4

Casa Harford

Negozio giocattoli

Come nel racconto di Schnitzler, l’abitazione dei due protagonisti rappresenta anche nel film il punto di partenza e di arrivo di ciascuno dei segmenti narrativi, mentre il punto di massima lontananza raggiunto prima del ritorno è qui rappresentato dalla casa di Ziegler e dalla villa a Somerton, in una disposizione a geminazione simmetrica A-B-B-A. Questo mostra una piccola

57

variazione rispetto alla struttura del libro. Anche nel film, poi, la sequenza percorsa la notte del secondo giorno – la storia del film è incentrata in quattro giorni anziché due – viene ripercorsa il terzo giorno in un ordine particolare: di giorno Bill ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre durante la sera torna sui luoghi della prima parte, con alcune modifiche. La struttura A-B-B-A appare quindi anche nell’alternanza dei posti toccati da Bill tra il secondo ed il terzo giorno.

A guidare gli spostamenti di Bill, dunque, non è una figura circolare, bensì la figura della geminazione simmetrica, rafforzata nel film dai cambiamenti alla trama apportati da Raphael e Kubrick, la quale possiede una logica speculare: essa presenta della seconda parte – B-A – il riflesso speculare della prima – A- B. Il percorso nel negozio di giocattoli è l’unico momento del film a uscire da tale logica, quasi ad evidenziare il fatto che i protagonisti sono usciti dal sistema spaziale che li aveva fin qui tenuti avvinti65.

Questa logica della specularità, d’altra parte, assieme all’iterazione di elementi identici o simili che mette in crisi il meccanismo della progressione lineare, attraversa per intero sia il racconto di Schnitzler sia, in maniera più evidente e con un impatto molto più forte anche grazie alle proprietà intrinseche delle immagini che mostrano ciò che le parole scritte possono solo riferire ed evocare, il film di Kubrick, costituendo effetti di eco e di corrispondenza fra le parti che li compongono.

Doppio Sogno è caratterizzato dalla figura del doppio, che si presenta sia in motivi figurativi come le «due maschere in domino rosso»66 conosciute da Fridolin durante la festa iniziale, i due uomini coi quali viene scoperta la figlia del mascheraio nel negozio di costumi, i due uomini che prelevano l’amico pianista dal suo albergo durante la notte o le due prostitute con le quali il medico si intrattiene prima e dopo gli avvenimenti del suo viaggio notturno, sia

65 R. Eugeni, 1995
66 A. Schnitzler, 1977, p. 12

58

in una fitta serie di richiami fra momenti differenti dell’opera: la confessione di Albertine in merito alla sua attrazione per il giovane ufficiale di marina viene richiamata da quella di Marianne, che confessa il suo amore represso a Fridolin accanto al padre deceduto; la scena nell’orgia notturna viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Albertine al ritorno a casa del marito, così come l’intero sogno rappresenta la reiterazione del viaggio compiuto da Fridolin durante la notte, sebbene di segno opposto. Come già accennato, il racconto stesso è costituito da due parti speculari, dove la seconda parte rappresenta la ripetizione della prima, ma di carattere opposto.

I temi del doppio e della reiterazione di elementi e di avvenimenti identici o simili fra di loro, così come la logica della specularità che attraversa e permea l’intera storia, sono stati ripresi e riproposti da Kubrick in modo quasi ossessivo e sanciscono la struttura labirintica, inestricabile e misteriosamente sempre uguale a se stessa che è propria della vita umana, per cui sia i desideri di fuga sia la ricerca della novità e del cambiamento sono puramente illusori. I raddoppiamenti continui, inoltre, raffigurano i diversi aspetti e le diverse facce delle persone che popolano la trama del libro e del film67.

Dunque, i motivi figurativi del doppio tornano insistentemente: le due modelle che accompagnano Bill durante la festa a casa Ziegler, i due giapponesi nel negozio di costumi, le due prostitute, le quali vivono in un appartamento la cui porta d’ingresso combacia con una porta gemella – tant’è che quando Bill torna per la seconda volta a casa della prostituta, inizialmente non sa a quale porta bussare –, le due donne misteriose alla festa orgiastica, delle quali una cerca di avvertire Bill del pericolo cui si sta sottoponendo restando lì, mentre l’altra cerca di coinvolgere e trattenere Bill alla festa. Il doppio viene rappresentato nel film anche grazie all’utilizzo di specchi presenti in numerosi contesti: ad esempio, il film si apre proprio con l’immagine di Alice di fronte ad uno specchio; e quando, al ritorno a casa dopo la festa di Ziegler, i due

67 F. Prono, 2002

59

protagonisti si accingono a fare l’amore di fronte allo specchio, la macchina da presa stringe su quest’ultimo, escludendo dal campo i corpi reali a favore del loro simulacro riflesso nel vetro. Vi sono poi elementi iconografici identici: l’immagine dell’arcobaleno chiamata in causa dalle due modelle alla festa di Ziegler viene successivamente incarnata dal nome del negozio di Milich. Ma in Eyes Wide Shut spesso le coppie non sono formate da elementi identici. Nella prima inquadratura, mentre ancora scorrono i titoli di testa, Alice viene ripresa di fronte allo specchio mentre si lascia cadere il vestito e rimane completamente nuda; poi, dopo un inserto che mostra una strada cittadina percorsa da uno scarso traffico notturno, appare Bill perfettamente vestito in smoking di fronte allo stesso specchio. Lo spazio è il medesimo, però ha subito alcune modifiche: nell’inquadratura con Bill è comparso un tappeto ed è scomparsa la lampada nell’angolo della stanza. Inoltre all’inappuntabile smoking del medico fa riscontro la nudità intergale di Alice nella scena precedente. Come in Doppio Sogno, poi, rimane nel film una fitta serie di richiami tra scene differenti: la confessione di Alice circa la sua attrazione per l’ufficiale di marina viene richiamata dalla scena nella quale la figlia del paziente deceduto confessa il suo amore represso a Bill; la telefonata che interrompe il dialogo fra Bill e Alice durante il litigio in camera da letto ritorna a interrompere Bill e la prostituta e nel sottofinale richiama Bill a casa di Ziegler. La scena dell’orgia a Somerton viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Alice a Bill al suo rientro. Vi sono, inoltre, inquadrature simili o identiche che appaiono nel corso del film: ad esempio, l’inserto che mostra la strada di fronte all’abitazione dei due protagonisti appare sia all’inizio del film, durante lo scorrimento dei titoli di testa, sia, identica, prima del rientro a casa di Bill subito dopo il dialogo nella sala del biliardo con Ziegler. Anche alcune espressioni verbali tornano in situazioni differenti della vicenda: per esempio, la frase «devo proprio essere sincero»68 (nell’originale «to be perfectly honest»)

68 S. Kubrick, 1999

60

viene pronunciata per tre volte: prima da Bill, mentre parla con la cameriera del bar di fianco al Sonata Cafe, poi dal concierge dell’albergo quando Bill tenta di ritrovare l’amico pianista, infine dalla coinquilina della prostituta quando questa rivela al medico la malattia dell’amica. Tale frase viene riecheggiata anche nel «devo proprio essere sincero» (nell’originale «I have to be completely frank») pronunciato da Ziegler nella scena della sala del biliardo. Come già detto, sul piano cromatico l’intero film è caratterizzato dalla presenza dei colori rosso e blu costantemente giustapposti. Infine, vi sono alcuni ambienti che si richiamano: in particolare, negli esterni la strada che si innesta a T sull’altra strada e presenta in fondo una vetrina aggettante – di volta in volta un locale anonimo, il Rainbow Fashion o lo Sharky’s – sembra tornare identica in situazioni e punti differenti del film: nella scena dell’aggressione da parte dei facinorosi, in quella del pedinamento, e via dicendo. A tale proposito, sottolineerei un ulteriore fatto: le strade dispiegate di fronte agli occhi di Bill non appartengono alla vera New York, ma appartengono in realtà a set ricostruiti negli studi Pinewood a Londra. Giacché «Ricostruire un ambiente in studio determina così la possibilità di modificarne degli aspetti per rendere più espressivo e funzionale il contributo significante dell’ambiente stesso all’opera come intero»69. Ed infatti, la permanente impronta di artificiosità delle strade è costantemente messa in ostentazione da Kubrick, che conduce il suo protagonista in un viaggio della mente, in una New York labirintica che rappresenta la proiezione della stessa da parte della mente di Bill nel suo viaggio all’interno dei meandri dell’inconscio70, esattamente come Schnitzler in Doppio Sogno insiste nel descrivere la spettralità dell’ambiente circostante Fridolin, improvvisamente a lui ignoto, così come l’ingannevole ed artificiosa vicinanza della primavera che viene ad un tratto ad interrompere il freddo della bianca notte invernale:

69 G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film, citato in S. Ciaruffoli, 2003, p. 66 70 S. Ciaruffoli, 2003

61

In strada dovette aprire la pelliccia. Era cominciato improvvisamente il disgelo, la neve sul marciapiede si era quasi sciolta e spirava un venticello che annunziava la primavera.71

Ed ancora:

Ad un tratto, superata ormai la sua meta, si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute a caccia notturna di uomini. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia, che ora immaginò tenersi per mano attorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca – persino la bambina, che a quell’ora dormiva raggomitolata nel lettino bianco, e la governante dalle guance rubiconde con la voglia sulla tempia sinistra – tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali.72

Il progressivo distaccarsi dalla quotidianità del suo viver borghese e la proiezione, inconscia, del proprio stato d’animo sul mondo esterno fa apparire a Fridolin ogni cosa avvolta in un’atmosfera spettrale, assolvendolo da ogni responsabilità e conducendolo poi nel viaggio di illusoria liberazione all’interno della propria anima e del proprio medioconscio:

[…] dopo la conversazione serale con Albertine si stava allontanando sempre più dalla normale sfera della sua esistenza, addentrandosi in un altro mondo, lontano ed estraneo.73

2.4.3. Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del personaggio

71 A. Schnitzler, 1977, p. 21 72 A. Schnitzler, 1977, p. 33

62

La logica che domina il viaggio di Bill – e prima di lui quello di Fridolin –, dunque, è una molteplice specularità caratterizzata da una serie di ripetizioni e da un’ambientazione surreale che indeboliscono la coerenza e la continuità del viaggio stesso del protagonista, producendo inoltre un’inquietante sensazione di déja-vu e dunque un senso di costante smarrimento. Lo spettatore è portato a dubitare dello statuto di realtà di quanto sta guardando e ascoltando, così come, nel caso del racconto di Schnitzler, il lettore è portato a fare lo stesso nei confronti di quanto sta leggendo. Il viaggio di Bill è reale o è un suo sogno ad occhi aperti?

Ritengo molto importante ricordare e rilevare, a questo proposito, l’utilizzo che Kubrick fa nel film delle inquadrature soggettive. Eyes Wide Shut è costantemente punteggiato da inquadrature che riferiscono le percezioni di Bill: oltre alle numerose soggettive visive, che si esplicano nell’utilizzo insistito delle carrellate all’indietro e che ho approfondito in precedenza, si presentano anche soggettive allucinatorie – i cinque flash che ritraggono Alice con l’ufficiale di marina – e sonore – della voce di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno nella quiete casalinga; e della donna misteriosa che durante la festa mascherata lo avvisa del pericolo imminente, nell’obitorio mentre fissa il corpo di Amanda. In alcune occasioni il regista ricorre poi ad un procedimento caratteristico: un’inquadratura apparentemente oggettiva si rivela a posteriori una soggettiva di Bill. Ad esempio, nella festa iniziale a casa di Victor Ziegler vediamo per la prima volta l’amico pianista mentre sta suonando sul palco e l’inquadratura successiva mostra Bill intento ad osservare questa scena. L’intero percorso che compiamo assieme al medico e attraverso i suoi sguardi durante il film si rivela un percorso labirintico: al di là di un apparente ordine, esso conduce in una rete di ricorrenze nelle quali non è più possibile orientarsi ad un certo punto e l’intero film viene permeato da una sensazione di perplessità e

73 A. Schnitzler, 1977, p. 37

63

di incertezza che si riflettono negli occhi dello spettatore74.

Questa sensazione è rafforzata da un altro procedimento: il particolare uso della dissolvenza incrociata. Nel linguaggio cinematografico classico la dissolvenza incrociata, nata come trucco di trasformazione – ovvero come procedimento ottico utilizzato per ottenere straordinarie metamorfosi di personaggi – è andata poi codificandosi come procedimento enunciativo usato per contrassegnare un mutamento spaziale e temporale: essa indica una transizione fra due sequenze e dunque un’ellissi temporale e spaziale; tale ellissi, tuttavia, non è quella istantanea e trascurabile dello stacco netto, né quella consistente della dissolvenza in nero. Si tratta piuttosto di un’ellissi temporale- spaziale dalla durata indefinita75. In Eyes Wide Shut Kubrick utilizza la dissolvenza incrociata in alcuni passaggi nei quali sarebbe sembrato più opportuno uno stacco netto oppure un’inquadratura di raccordo: ad esempio, il viaggio, relativamente breve, di Bill dal negozio di costumi fino alla villa nella quale si svolge l’orgia è marcato da ben quattro dissolvenze incrociate. Oppure, nella scena in cui Bill rientra a casa dopo il colloquio con Ziegler, una dissolvenza segna il suo passaggio dalla cucina dove beve una birra alla camera da letto dove Alice sta dormendo. Si tratta in entrambi i casi di una scelta anomala, perché l’ellissi che divide le azioni è minima. E la natura perturbante di quest’ultima dissolvenza nello specifico è tanto più forte quanto il salto temporale – dalla notte al giorno – immediatamente successivo, ovvero lo iato fra l’inizio e la fine della confessione da parte di Bill che racconta ad Alice tutte le sue avventure, segnato unicamente da uno stacco, sul primo piano di Nicole Kidman che, accovacciata sul divano, fuma con gli occhi gonfi di lacrime. Un uso reiterato ed incongruente della dissolvenza finisce col privare questa figura del montaggio cinematografico del suo significato canonico, contribuendo così al prevalere del tempo non-lineare della coscienza su quello vettoriale della

74 R. Eugeni, 1995 75 A. Costa, 1985

64

cronologia oggettiva76. Ne deriva un’incertezza che coinvolge al tempo stesso l’effettiva durata dello svolgimento temporale di tali segmenti della vicenda e le connessioni spaziali coinvolte: all’interno del film, dunque, la dissolvenza incrociata viene utilizzata anche per destabilizzare la continuità temporale- spaziale e per rafforzare la continua sensazione del passaggio dalla sfera della realtà a quella del sogno.

In Eyes Wide Shut, dunque, troviamo un tempo che si disgrega, un tempo interno alla mente del protagonista. Questo vanificarsi della cognizione del tempo e il cupio dissolvi che ne segue scandiscono con spietata crudeltà anche lo smarrimento del personaggio di Doppio Sogno:

Ma che fare ora? Andare a casa? E dove se no! Oggi non poteva ormai fare più nulla. E domani? Cosa? E come? Si sentiva impacciato, incerto, ogni cosa gli si vanificava tra le mani; tutto diventava irreale, persino la casa, sua moglie, la sua bambina, la sua professione, sì, persino lui stesso, mentre continuava a camminare meccanicamente nella sera coi suoi pensieri senza meta.

L’orologio della torre del municipio scoccò le sette e mezzo. D’altronde non importava che ora fosse; il tempo gli era completamente indifferente. Non provava interesse per nulla e per nessuno. Sentì una leggera compassione per se stesso. Molto fuggevolmente, non proprio come un proposito, gli venne l’idea di recarsi a una qualsiasi stazione, partire, non importava per dove, sparire per tutti coloro che lo avevano conosciuto, ricomparire in qualche luogo all’estero e incominciare una nuova vita, sotto spoglie diverse.77

C’è un altro aspetto, infine, che rivela l’incoerenza e la discontinuità della rappresentazione in Eyes Wide Shut. Kubrick adotta nel film uno stile modellato sul regime cinematografico classico, che fa della continuità e della coerenza il

76 G. Alonge, 2002
77 A. Schnitzler, 1977, p. 95-96

65

suo punto di forza. Tuttavia, in alcuni punti il regista fa inceppare questo meccanismo fluido e scorrevole. Questo avviene mediante tre espedienti78.

In primo luogo Kubrick viola deliberatamente alcune regole del montaggio classico. Durante il primo incontro fra Bill e l’amico pianista alla festa di Ziegler ed il primo colloquio fra il medico e Milich nel negozio di costumi viene attuato quello che tecnicamente si chiama uno scavalcamento dell’asse, per cui uno stacco di montaggio collega due punti di vista specularmente opposti: in entrambe le sequenze vediamo i personaggi inquadrati prima da una prospettiva, poi da quella diametralmente opposta, in modo che lo spazio si apra alla sua metà nascosta, proibita, con un effetto fortemente straniante per lo spettatore79. Infatti, questi raccordi “sbagliati” procurano a chi guarda una lieve ma insistente idea di salto nella linea di continuità della rappresentazione classica per il resto seguita.

Il secondo espediente consiste nell’introduzione di un numero molto alto di ripetizioni verbali. Queste possono avere luogo all’interno della battuta di un solo personaggio: nella sequenza del bagno a casa di Ziegler, Bill ripete a Mandy ben sei volte la parola «guardami» mentre cerca di rianimarla; l’amico pianista ripete «io suono» due volte, e via dicendo fino al «ti racconterò tutto»80 finale di Bill ad Alice, anch’esso ripetuto due volte. Le ripetizioni hanno luogo altrettanto spesso nei dialoghi fra due soggetti, uno dei quali ripete testualmente la battuta finale dell’altro come per un generale senso di perplessità e di incomprensione, riducendo la comunicazione a puro esercizio fatico: in particolare, questo si verifica nel protagonista, che ripete di volta in volta le battute della prostituta, dell’amico pianista o della moglie; ma avviene anche per altri personaggi, ad esempio nel negozio di costumi il mascheraio Milich ripete le battute di Bill. Ne risulta l’impressione che la macchina

78 R. Eugeni, 1995
79 G. Carluccio, 2002 80 S. Kubrick, 1999

66

rappresentativa si incanti, come un disco rotto che non sappia più rispondere ai comandi.

Il terzo ed ultimo espediente è l’uso dell’interruzione: in alcuni casi le immagini del film vengono bruscamente interrotte e sottratte allo sguardo dello spettatore. Fin dall’inizio il corpo nudo di Nicole Kidman è presentato per essere immediatamente riconsegnato al fondo nero dei titoli di testa. La scena del processo alla festa notturna a Somerton viene interrotta bruscamente con uno stacco sul ritorno di Bill a casa. Ed anche la conclusione del film, con la battuta finale di Alice sulla necessità per la coppia di «scopare»81, fa appena in tempo ad essere pronunciata che i titoli di coda interrompono bruscamente la scena del negozio di giocattoli.

Dunque, attraverso salti, ripetizioni e blocchi improvvisi la continuità della rappresentazione classica non viene esplicitamente distrutta, bensì sottilmente minata, sottoposta a piccole crisi locali e perdite di controllo infinitesimali, ma pure sensibilmente presenti.

81 S. Kubrick, 1999

67

3. ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT

Trovare il centro di un film quale Eyes Wide Shut e, ancor prima di esso, di un racconto della portata di Doppio Sogno non è semplice. Molte analisi, fra le quali la presente, hanno rivelato numerose simmetrie, ritorni di scene analoghe, spazi e personaggi che si ripresentano puntuali nel tessuto narrativo: entrambe le opere si porgono come un gioco di specchi e di rimandi potenzialmente infinito, un labirinto del senso che può essere percorso e ripercorso ma difficilmente dominato e posseduto.

Sono parecchi, sia nel racconto sia, in special modo, del film gli elementi, i temi ed i passi che meriterebbero un’attenzione tale da renderli, in qualche modo, il fulcro attorno al quale ruota l’intera storia: così, sono importanti i temi della coppia, dell’incomunicabilità, del tradimento, della maschera, dell’ipocrisia borghese, dello smarrimento esistenziale, nonché del sogno e del viaggio onirico-reale-surreale vissuto dai due protagonisti. Altrettanto importanti sono diversi passi, sia nel film sia nel libro, che raffigurano e sottolineano di volta in volta un tema piuttosto che un altro: così, diventano particolarmente significative le scene delle due feste – l’una l’opposto eppure anche il completamento dell’altra –, la scena del primo confronto fra i due coniugi, la scena del racconto del sogno da parte di Albertine/Alice al marito, il dialogo finale fra i due protagonisti ed infine, solo nel film, la scena del dialogo fra Bill e Ziegler nella sala del biliardo.

La maggior parte dei critici ha ravvisato nella scena dell’orgia notturna il perno e la parte centrale della storia82: essa non solo rappresenta sia il momento culminante della vicenda, nella quale si delinea con assoluta chiarezza

82 F. Villa, 2002

68

l’alienazione che connota la crisi e la perdita d’identità da parte del protagonista maschile, sia il momento nel quale quest’ultimo discende e, finalmente, giunge nella parte più nascosta ed intima di se stesso, il medioconscio, ma rappresenta anche, a livello narrativo, il vero e proprio centro della storia, che separa il “prima” e il “dopo”.

Tuttavia, a mio avviso, l’asse portante dell’intera vicenda, come detto in precedenza, è la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplica sia nella conflittualità dei due protagonisti, causata da una situazione di incomunicabilità innescata da un motivo occasionale, che li porterà a vivere una crisi strutturata secondo un diagramma di turbamenti paralleli, sia, più esplicitamente, nelle contraddittorietà del personaggio maschile, la cui fragilità psicologica e i cui pregiudizi derivanti dalla morale borghese nei quali è imprigionato lo condurranno verso uno smarrimento esistenziale molto più complesso e travagliato rispetto a quello vissuto dalla moglie.

Partendo da questo presupposto, dunque, ritengo che il centro non tanto del testo in quanto tale, quanto dell’opera complessiva di Doppio Sogno e di Eyes Wide Shut, sia la lunga sequenza del confronto iniziale fra i due protagonisti83, nella quale meglio vengono raffigurati e rappresentati i problemi che muovono e scandiscono le dinamiche di coppia, e grazie alla quale prende avvio la vicenda stessa. Inoltre, questo è uno di quei passi contenuti nel racconto di Schnitzler in cui lo sceneggiatore Raphael ed il regista Kubrick hanno operato un vero e proprio lavoro di trasposizione e rielaborazione cinematografica, compiendo tagli significativi ed apportando numerose modifiche, pur mantenendo, nel complesso, il senso globale di ciò che lo scrittore viennese ha voluto trasmettere all’interno dello stesso passo nel suo libro.

Mi accingo ora ad analizzare tale sequenza dal punto di vista della sua trasposizione cinematografica dal racconto di Schnitzler al film di Kubrick:

83 Nel racconto di Schnitzler a partire da p. 13, nel film di Kubrick a partire dal minuto 22

69

approfondirò quindi l’analisi della traduzione intersemiotica di tale sequenza.

3.1. Analisi della traduzione intersemiotica

All’interno di Doppio Sogno la sequenza della lunga e reciproca confessione di Albertine e Fridolin in merito ai pericoli cui sono sfuggiti durante una passata vacanza estiva in Danimarca, nella quale entrambi hanno provato una forte ed irresistibile attrazione verso due sconosciuti – rispettivamente nei confronti di un giovane ufficiale di marina visto in albergo e di una giovanissima fanciulla su di una spiaggia –, prende avvio in seguito ad uno scambio, apparentemente innocente e quasi disinteressato all’inizio, di impressioni sul veglione mascherato al quale i due coniugi hanno partecipato la notte precedente:

[…] e quegli avvenimenti irrilevanti furono ad un tratto magicamente e penosamente avvolti dall’ingannevole parvenza di occasioni perdute. Si scambiarono domande ingenue eppure insidiose e risposte maliziose e ambigue; a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era in fondo sincero e si sentirono, così, inclini a una moderata vendetta.84

Ben presto la gelosia prende il sopravvento e dalle conversazione sulle futili avventure della notte precedente i due protagonisti cominciano a discutere di quei desideri nascosti ed intimi, talvolta appena presentiti e per lo più sconosciuti, insiti nel profondo dell’animo umano, che, se riconosciuti, svelati e liberati, sono in grado di generare pericolosi vortici e scuotere e minare anche il rapporto più maturo e sincero:

Sebbene la loro unione si fondasse su una perfetta compenetrazione di sentimenti e di idee, sapevano tuttavia che ieri li aveva sfiorati, e non per la prima volta, un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo; trepidamente, tormentandosi, cercarono con sleale curiosità di carpirsi confessioni e, concentrandosi con angoscia sulla loro vita intima, ognuno

84 A. Schnitzler, 1977, p. 13

70

ricercò in sé qualche fatto anche insignificante, qualche avvenimento anche inconsistente, che potesse esprimere l’ineffabile e la cui sincera confessione riuscisse a liberarli da una tensione e da una diffidenza che cominciavano a diventare a poco a poco insopportabili.85

Segue la confessione da parte di Albertine al marito, la prima fra i due che, per ingenuità, indulgenza o forse anche coraggio e necessità di chiarezza, mette in gioco se stessa.

In Eyes Wide Shut la stessa sequenza si apre con l’immagine di Alice, riflessa nello specchio del bagno, che si accinge a prelevare da un armadietto posto sopra il lavandino un contenitore con della marijuana al suo interno e, di seguito, un primo piano sulle sue mani mostra la protagonista mentre arrotola la sigaretta.

Rilevante, in quest’apertura di sequenza, è la presenza ed il ruolo nuovamente giocato dallo specchio: simbolo del doppio e di ciò che si cela oltre la facciata illusoria della realtà, lo specchio mostra il riflesso e quindi la parte nascosta e speculare di chi gli si pone di fronte e gli dà la possibilità di studiare e comprendere se stesso. Questo specchio nasconde al suo interno ed oltre la sua superficie riflettente la sostanza, e di conseguenza il mezzo kubrickiano, che «per la prima volta libera la parola dal suo statuto […] di inanità e di indeterminatezza»86 e la presenta come raggiungimento di un fine e di uno snodo narrativo.

La marijuana posta a questo punto del film dà inizio ad uno stato alterato di coscienza: attraverso di essa, infatti, si attua un processo di iperstimolazione sensoriale, sancendo così un allontanamento dalla consueta capacità di percezione, che rappresenta il preludio alla successiva fase onirica ed alterazione che permea l’intero film. La marijuana, triplamente protetta – dalla

85 A. Schnitzler, 1977, p. 13-14 86 S. Ciaruffoli, 2003, p. 59

71

bustina di plastica, dalla scatola di cerotti e dall’armadietto – e dunque segno e simbolo di una difficoltà a raggiungere una meta – del resto, come già detto, l’intera vicenda, soprattutto di Bill, che prende avvio da questa sequenza consiste nel continuo rinvio nel possedere in forma definitiva e stabile una verità – viene usata da Alice per preparare uno spinello. A questo proposito, è curiosa e interessante l’inquadratura con la quale Kubrick segue la prima inalazione di Alice: mentre la donna aspira la sua boccata di fumo, lo spettatore è portato, metaforicamente parlando, a fare simultaneamente lo stesso. Con un’armoniosa zoomata all’indietro, infatti, Kubrick unisce specularmente lo spettatore con il suo personaggio e con il suo tiro di spinello. Questo espediente è molto interessante, perché per la prima volta il regista sottolinea con una sorta di rituale arcaico la comunione dello spettatore con il film e lo stato di alterazione che ne seguirà87.

Come i due protagonisti di Doppio Sogno, anche Bill e Alice si scambiano le proprie impressioni e si pongono domande insidiose sulla festa natalizia alla quale hanno partecipato la notte precedente. Tuttavia, mentre nel racconto di Schnitzler la gelosia ed il turbamento che accompagnano il dialogo fra i due coniugi sono vicendevoli sin dall’inizio, tant’è che condurranno alla reciproca confessione dei due tradimenti non consumati, in Eyes Wide Shut si avverte, fin dalle prime battute, come i moti di gelosia, di irritazione e di incomprensione che generano il litigio ed il successivo allontanamento emotivo dei due personaggi siano concentrati principalmente nella figura femminile, alla quale è riservato il ruolo di protagonista assoluta in questa scena, assieme alla confessione univoca del tradimento non consumato. Il protagonista maschile si fa qui spettatore dello “spettacolo” messo in atto dalla moglie, la quale, grazie all’aiuto della marijuana, nonché spinta dall’insensibilità e dalla mancanza di comprensione del marito, decide di togliersi la maschera delle buone convenzioni borghesi e di rivelare il suo contraddittorio, ambiguo e misterioso

87 S. Ciaruffoli, 2003

72

mondo interiore.

Nella sua novella, Schnitzler non fornisce alcuna indicazione sulle movenze o sullo spazio occupato dai personaggi all’interno di questa sequenza, per cui Kubrick ha avuto modo di realizzare la sua personale rielaborazione di tale sequenza in piena libertà, costruendo un ambiente a lui congeniale al fine di sottolineare l’ambiguità e la dualità fra ragione e istinto, fra l’aspetto diurno, solare, di ciò che appare normale e l’aspetto notturno, che racchiude in sé quei «desideri nascosti»88 ai quali accenna Schnitzler nel suo racconto.

L’estensione di questa sequenza in Eyes Wide Shut è di quattordici minuti e si apre, come già detto, con un prologo risolto in due inquadrature che mostrano Alice mentre preleva e poi prepara la marijuana, seguito da una lunga scena, ambientata interamente nella camera da letto dei due coniugi, nella quale marito e moglie discutono prima della festa natalizia a casa Ziegler e finiscono poi per litigare, fino alla rivelazione del mancato tradimento da parte di Alice. Questa scena può essere suddivisa in cinque segmenti narrativi89.

Primo segmento: dal primo piano di Alice che compie la prima inalazione di marijuana la macchina da presa allarga fino ad inquadrare la coppia sdraiata sul letto, lui alle spalle di lei. Lo sguardo di Bill è rivolto al corpo della moglie, mentre lei guarda fuori campo in direzione della macchina da presa. Le inquadrature risultano qui sostanzialmente oggettive, anche se il punto di vista varia sensibilmente, riprendendo ora un solo elemento ora entrambi gli elementi della coppia, e restando ancorato ad uno spazio posto al di qua del letto matrimoniale. In questa situazione visiva i due coniugi si perdono, assecondando i poteri del fumo, nel ricordo della festa a casa Ziegler avvenuta la sera precedente e rimproverandosi i reciproci corteggiatori.

Da notare che in questo frangente appare per la prima volta il colore blu,

88 A. Schnitzler, 1977, p. 13 89 F. Villa, 2002

73

trattenuto entro il vano della finestra del bagno di fronte al quale i due coniugi si stanno fronteggiando. Oltre a farsi sfondo di un personaggio nei momenti cruciali e più dissoluti, questo colore dona al film una tinta palesemente onirica e surreale, sottolineando così maggiormente l’architettura filmica imprigionata entro i confini della psiche. Inoltre, come riferito in precedenza, il dipanarsi della vicenda all’interno di un bagno o nelle sue immediate vicinanze assume nei film di Kubrick una forte valenza simbolica, in quanto rivela una manifestazione peggiorativa dell’attività umana: spesso il regista, nelle sue opere, ha rappresentato il bagno come luogo nel quale vengono inscenate la malattia, la morte, la follia e la crisi d’identità, l’alterità dell’animo umano90. Di conseguenza, lo stesso colore blu, ospite emblematico di questo ambiente, si connota d’ora in avanti nella medesima valenza negativa: raffigura il pericolo del mondo esterno che penetra nella sicurezza ovattata dell’ambiente domestico, la notte oscura che, con i suoi segreti ed i suoi misteri, si insidia nella luce del giorno e, con le parole di Schnitzler nel suo Doppio Sogno, viene a rappresentare «quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura»91.

Secondo segmento: Alice, profondamente irritata dalla leggerezza con la quale Bill dichiara di non meravigliarsi di fronte all’esistenza di un potenziale corteggiatore della moglie, si alza di scatto dal letto, indietreggia, ed arriva sulla soglia della porta del bagno contiguo alla stanza. Il corpo della donna risulta così incorniciato dagli stipiti. La macchina da presa abbandona il punto di vista per lo più oggettivo del segmento narrativo precedente, avanza lentamente fino a scavalcare il corpo di Bill e a posizionarsi di fronte a lui per contemplare appieno Alice. Dallo sguardo oggettivo si passa così ad una plausibile soggettiva del marito sulla moglie, enfatizzata dal doppio ritaglio del quadro della porta. Il dialogo, sempre più incalzante sulle eventuali differenze che

90 F. Prono, 2002
91 A. Schnitzler, 1977, p. 13

74

esistono fra uomo e donna e il corteggiamento dell’uomo rispetto a quello della donna, si scioglie in un’alternanza di inquadrature che vedono da una parte Alice in figura intera ripresa frontalmente, dall’altra Bill seduto staticamente sul letto come dall’inizio della scena, ripreso lateralmente.

In questa sequenza la figura di Alice, inquadrata dagli stipiti della porta della camera da letto, viene ad essere posizionata, per un gioco di raffinata prospettiva, al centro della porta del bagno che sta alle sue spalle ma anche al centro della finestra del bagno sullo sfondo. Inoltre, la luce bluastra proveniente dall’esterno, infiltrandosi tra le veneziane della finestra, viene ad incorniciare anche cromaticamente il corpo di Alice. «Così facendo il regista sottolinea la proprietà di un attimo e la sua riproduzione-rappresentazione in quadri che simboleggiano momenti e luoghi dissimili»92. In tutti i passi successivi Alice si troverà sempre inquadrata da una finestra posizionata sullo sfondo, dalla quale entra una luce bluastra, e le tende rosse, raccolte agli stipiti delle finestre, funzioneranno da sipario tirato per la recita che si consuma al proscenio. Inoltre, come detto in precedenza, il contrasto cromatico del blu e del rosso rappresenta anche il conflitto fra il mondo domestico – caldo ed accogliente, apparentemente sicuro – ed il mondo esterno – pieno di pericoli e contrassegnato dall’ignoto. Il rosso rappresenta anche il desiderio, la tentazione. Invece, Bill rimarrà seduto sul letto per l’intera sequenza, variando solo minimamente la propria posizione ed assumendo così il ruolo di spettatore dello spettacolo messo in scena dalla moglie. La sua staticità, posta in paragone alla dinamicità di Alice che al contrario sembra cercare ad ogni costo l’azione, assieme all’inespressività assunta dal suo viso che non lascia trapelare quasi la minima emozione se non un lieve imbarazzo e una leggera irritazione, assieme alla caratteristica abitudine di ripetere in forma di domanda l’ultima parte del precedente discorso della moglie, denotano con grande chiarezza la sua totale incapacità di affrontare la situazione e la sorpresa di fronte alla nuova

92 S. Ciaruffoli, 2003, p. 63

75

immagine della moglie, tanto sincera e diretta senza la propria maschera. Il letto diviene un palchetto d’onore dove Bill rimane pressoché immobile dinnanzi all’esibizione della moglie, che si muove, si agita, impadronendosi di tutto lo spazio possibile e soprattutto andando ad inquadrarsi da sola tra stipiti, specchi e finestre93.

Terzo segmento: Alice, sempre più infastidita dalle semplificazioni del marito, lascia nuovamente la postazione guadagnata e si dirige verso la toilette davanti al letto, posizionata a sinistra. Dopo avere speso qualche battuta sull’esposizione del marito, in quanto medico, alle eventuali lusinghe delle pazienti, crolla seduta sullo sgabello per poi alzarsi di nuovo. La macchina da presa resta sempre incollata a lei ed ai suoi movimenti, la segue di volta in volta inquadrata nella sua nuova posizione, in un costante campo/controcampo di Bill e del corpo di Alice.

Quarto segmento: il discorso sulla gelosia di coppia stringe attorno ai due protagonisti e Alice comincia a provocare il marito irridendone la sicurezza in merito alla fedeltà coniugale. La donna si sposta di nuovo, attraversa la stanza, passa ai piedi del letto, arrivando davanti ad una finestra. Di nuovo incorniciata, Alice, in figura intera, si agita cercando di spiegare le proprie ragioni, mentre Bill, sempre seduto sul letto ripreso frontalmente, sembra a tratti essere colto da afasia.

Quinto segmento: Alice attraversa nuovamente la stanza, passa per la seconda volta ai piedi del letto, si arresta in prossimità di un’altra finestra e viene inquadrata ancora una volta in figura intera. La macchina da presa non la lascia un istante in questo suo peregrinare nella stanza, al punto che quando la donna, in preda ad una risata isterica, barcolla fino ad accasciarsi a terra, lo sguardo su di lei si fa estremamente mobile, liberandosi in una macchina a mano, ed assecondando i sussulti del suo corpo, sempre secondo la soggettiva di Bill. A

93 F. Villa, 2002

76

questo punto appare un’inedita visione: la donna viene improvvisamente ripresa in primo piano e lateralmente da quel fuori campo iniziale, nello spazio al di qua della camera matrimoniale, dove la macchina da presa era posizionata all’avvio della lunga scena. Quest’ultimo segmento arriva al cuore della confessione di Alice, ripresa in primo piano di lato dall’inizio fino al termine del suo lungo monologo.

Le ultime tre sequenze prese in esame ritraggono il tentativo disperato da parte di Alice di ridestare il marito dal torpore che lo avvinghia e di risvegliare in lui la comprensione ed il desiderio che probabilmente un tempo li aveva accomunati. Ma egli risponde alle provocazioni della moglie con enorme insensibilità:

Alice: «E posso sapere perché non sei mai stato geloso di me?».

Bill: «Oh, questo non lo so Alice. Probabilmente perché sei mia moglie, può darsi perché sei la madre di mia figlia, forse perché penso che tu non mi tradiresti mai».

Alice: «Tu sei un uomo molto, molto sicuro di se stesso, vero?».

Bill: «No, sono sicuro di te».94

Dare per scontata la fedeltà della propria compagna significa essere convinto di possederla totalmente, senza riconoscerle autonomia e capacità di scelta, significa considerarla un oggetto la cui proprietà non può essere messa in discussione. Quando nascono dissidi all’interno della coppia e il clima diventa astioso e tagliente, possono generarsi all’improvviso le emozioni più imprevedibili ed intense; possono sprigionarsi anche dell’odio e dell’ostilità molto profondi che prendono il sopravvento sulle circostanze. Ecco allora screzi e dissapori, continui scontri verbali che feriscono l’anima come spade

94 S. Kubrick, 1999

77

taglienti95.

Incompresa ed insultata in questo modo, Alice cerca di sottrarsi a quella degradante posizione subalterna nella quale l’ha relegata il marito confessando e svelando ciò che si nasconde nel proprio animo: infatti, non appena Bill dichiara la propria sicurezza, una macchina a mano traballante segue la donna che scoppia a ridere e, dalla posizione eretta nella quale si trova, si abbassa progressivamente fino a sedersi sul pavimento. Analizzando unicamente lo stile, Alice si abbassa sia fisicamente sia metaforicamente e l’inquadratura traballa, ovvero la sua immagine si abbassa moralmente agli occhi del marito, il quale vede andare in frantumi le proprie certezze96.

La lunga scena della confessione viene chiusa dalla telefonata che Bill riceve da parte di Marion: il padre della ragazza è deceduto ed il medico trova così una via di fuga.

Nicole Kidman interpreta il ruolo di protagonista femminile con grande tensione emotiva e sensibilità, conferendo al personaggio profonda verità. Ella ottiene questo risultato con notevole economia di mezzi, modulando in modo raffinato le espressioni del volto, ma soprattutto movendo il proprio corpo con spontaneità e insieme con grande sapienza interpretativa, proponendolo splendidamente come strumento di comunicazione. In tal modo crea un personaggio credibile e stilizzato, inquietante ed affascinante insieme, i cui sogni e fantasie assumono connotati estremamente concreti ed emotivamente coinvolgenti.

In Doppio Sogno la confessione di Albertine non viene bruscamente interrotta da una telefonata e Fridolin non fugge. Alla confessione della moglie, il medico risponde con la sua personalissima confessione, aggiungendo tradimento a tradimento. E la donna, pur restando la prima a dichiarare segni di illecita

95 A. Carotenuto, 2003 96 F. Prono, 2002

78

passione, cede il passo al racconto dei desideri, ancor più proibiti, del marito, senza reclamare la scena. Fridolin diviene allora il protagonista del segmento narrativo, segnato dal suo improvviso dinamismo nei confronti della moglie, ora statica:

«[…] Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità. E poi anche tu hai avuto qualche avventura su quella spiaggia – lo so».

Fridolin si alzò, si mise a camminare avanti e indietro per la stanza, poi disse: «Hai ragione». Stava presso la finestra, il viso in ombra.97

Alla confessione del tradimento non consumato da parte di Fridolin, che lo vede attratto da una giovanissima fanciulla su di una spiaggia dove era solito passeggiare ogni mattino durante la vacanza danese, segue un intenso dialogo fra i due protagonisti, nel quale riemergono i fantasmi delle avventure giovanili del medico nonché il ricordo del loro primo incontro, al quale seguì il fidanzamento dei due protagonisti. Ed è solo in quest’ultimo scambio di battute che emerge, nel racconto di Schnitzler, tutta la problematica del personaggio maschile, nel quale, come già detto, si riflettono con maggiore limpidezza la debolezza e la fragilità dell’animo umano oltre che le contraddittorietà dettate dalla natura umana e dal pregiudizio borghese che, da sempre, relega la donna ad una degradante posizione subalterna mentre concede all’uomo il diritto ad una morale:

«In ogni donna – credimi, anche se può sembrare una facile affermazione – in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te; ne sono convinto più di quanto tu possa capire, Albertine».

Ella sorrise triste. «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?» disse, e il suo sguardo si trasformò e divenne freddo e impenetrabile. Fridolin abbandonò le sue mani, quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva; ma lei continuò: «Ah, se solo

97 A. Schnitzler, 1977, p. 15-16

79

sapeste!» e tacque di nuovo.98

La stessa contraddittorietà e lo stesso ipocrita pregiudizio borghese che contraddistinguono l’uomo sono rilevabili nel dialogo fra Bill e Alice prima che quest’ultima confessi al marito il suo mancato tradimento:

Bill: «Che cosa fa? Ah, ma io non lo so Alice … Che cosa fa? Ah, guarda: le donne non … non sono così, non ci pensano nemmeno a queste cose».

Alice: «Milioni di anni di evoluzione! Vero? Vero? Mentre gli uomini si preoccupano di infilarlo dovunque possono, le donne devono solo pensare alla stabilità della famiglia, alla fedeltà coniugale e a chissà quali altre cazzate!».

Bill: «Un concetto un po’ troppo semplificato, Alice. Ma di sicuro è qualcosa del genere».

Alice: «Se invece voi uomini solo sapeste …».99

Sebbene Kubrick anticipi questo momento, rendendo poi il dialogo fra i due personaggi più semplificato, molto meno verboso, meno articolato e conferendogli una modernità espressiva che naturalmente non si addirebbe allo stile di Schnitzler, e depenni la confessione del medico, eliminando in tal modo anche la duplicità e la forza della rivelazione che condurrà poi i due personaggi a vivere separatamente, seppure parallelamente, il loro viaggio onirico-reale- surreale, riesce comunque a mantenere intatte le dinamiche principali che muovono la coppia dei due protagonisti nel film: l’ipocrisia, la gelosia, le ossessioni e i turbamenti insiti nel profondo dell’anima sono ben presenti.

In Doppio Sogno, però, la gelosia che muove Fridolin viene espressa ed esternata in modo più articolato e con maggiore maestria narrativa rispetto a quanto non

98 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 99 S. Kubrick, 1999

80

abbia saputo fare Kubrick nel film, a causa dell’imponente taglio operato a questa sequenza all’interno della novella:

«Non riesco a capire» disse Fridolin. «Avevi appena diciassette anni quando ci fidanzammo». «Sedici passati, Fridolin. Eppure …» lo guardò francamente negli occhi «Non dipese da me se divenni tua moglie ancora vergine».

«Albertine …».

Ed ella raccontò:

«Fu sul Wörthersee, poco prima del nostro fidanzamento, Fridolin; una splendida sera d’estate un bellissimo giovane si fermò davanti alla finestra che guardava sull’ampia distesa del prato, ci mettemmo a parlare e durante quella conversazione pensai […]: che ragazzo simpatico e affascinante, – se dicesse ora una sola parola, quella giusta naturalmente, […] stanotte potrebbe avere da me tutto quello che vuole. […] Ma l’incantevole giovane non pronunciò quella parola; mi baciò delicatamente la mano, – e il mattino successivo mi chiese se volevo diventare sua moglie. E io dissi di sì».

Fridolin lasciò andare seccato la mano della moglie, poi disse: «E se quella sera ci fosse stato per caso un altro davanti alla tua finestra e gli fosse venuta in mente la parola giusta, per esempio …» pensò a quale nome dovesse dire […].100

È soprattutto a questo punto che Fridolin esterna la propria gelosia, quasi indifferente al fatto che il giovane indicato dalla moglie era lui. Egli, oramai confuso ed infastidito, toccato nel profondo e senza più alcuna certezza, associa la figura dell’ufficiale di marina, che l’estate precedente aveva avvinto la moglie, con quella di se stesso ventenne: in entrambi i casi, infatti, la donna è stata magicamente attratta con un semplice sguardo da un giovane, senza alcun

100 A. Schnitzler, 1977, p. 19-20

81

contenuto intimo del guardato. E scoprire, tutto d’un tratto, una parte che non conosceva, i torbidi meccanismi mentali che non credeva potessero appartenere alla figura femminile della propria moglie e madre della propria figlia, mette in discussione i meccanismi stessi e le sicurezze dell’esistenza di Fridolin. La frase «pensò a quale nome dovesse dire» lasciata così, senza soluzione, rivela come ciò che non sapeva in passato rimanga a lui ignoto anche nel presente. Egli è quel giovane che non conosceva, e non conosce tuttora, la parola magica che gli avrebbe permesso di possedere Albertine prima del matrimonio e di penetrare la sfera intima della sua compagna. Quella parola è rimasta nella mente della moglie senza che lui ne venisse a conoscenza. Questo è soltanto un indizio della separazione comunicativa che connota la crisi dei due personaggi e la considerazione iniziale della scena lo rende ancora più significativo: infatti, i due protagonisti erano rimasti soli per comunicarsi l’uno con l’altro le proprie impressioni e le proprie fantasie suscitate dall’esperienza vissuta al veglione mascherato della sera precedente, con la speranza che una sincera confessione fosse in grado di liberarli da un senso di oppressione e di incomunicabilità che cominciava a divenire insopportabile. Ma dalla successiva conversazione risulta che entrambi hanno vissuto separatamente quei momenti. Una volta rivelati mettono in crisi le certezze del medico; e poiché la sicurezza in se stesso è uno dei capisaldi sui quali si fonda l’amor proprio di Fridolin, egli sente la necessità di riscattarsi della delusione subita mediante le parole di Albertine.

Ecco, dunque, che nel film è stata notevolmente ridotta e sfilacciata una parte fondamentale del racconto di Schnitzler, cosicché la sua resa all’interno del film ne è risultata alquanto compromessa, determinando inoltre un consistente residuo traduttivo. Infatti, sebbene Kubrick riesca con notevole maestria e sapienza cinematografica, sfruttando al meglio le tecniche cinematografiche ed i mezzi espressivi caratteristici del cinema, a riprendere e a raffigurare i temi dominanti di tale sequenza e dell’intera opera sia nella riproduzione, seppure ridotta, di tale sequenza sia nella riproduzione dell’intera vicenda, la

82

soppressione di una parte tanto importante quale il racconto del tradimento non consumato da parte del protagonista maschile, contenuto nel racconto di Schnitzler, non può non determinare una sorta di sbilanciamento all’interno del film: qui in effetti, come già detto, il viaggio onirico-reale-surreale appartiene principalmente al medico, che in tal senso subisce passivamente la rivelazione della moglie; e la donna, grazie alla quale pur tuttavia prende avvio la vicenda stessa vissuta dal protagonista maschile, in seguito al racconto dei propri desideri di illecita passione, viene relegata ad una posizione subalterna di co- protagonista.

Inoltre, il momento centrale della confessione, in Doppio Sogno vera e propria apertura del racconto, viene proposto da un impeccabile narratore onnisciente ed il punto di vista sulle cose e sui personaggi resta “oggettivo”.

83

CONCLUSIONI

Riprendendo quanto affermato e considerato nell’Introduzione in merito alle valutazioni ed alle ricerche sinora condotte dagli studiosi di semiotica – ed in particolare da Torop, al quale maggiormente mi sono rifatta nella mia analisi della trasposizione cinematografica di Doppio Sogno in Eyes Wide Shut – in merito ai problemi inerenti all’analisi traduttologica del prototesto in vista della traduzione filmica e alla possibilità concreta di sviluppare un metodo scientifico per l’analisi dei fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella traduzione filmica, e ripercorrendo, a posteriori, l’intero lavoro di scomposizione ed analisi da me proposto e condotto su un caso concreto di trasposizione cinematografica, mi appare doveroso annotare alcune osservazioni finali, che si propongono come estrema sintesi di un intero percorso.

Ho già notato e segnalato quali siano le differenze intrinseche e fondamentali che intercorrono fra romanzo e film, prodotti appartenenti a due diversi sistemi segnici. Ed ho visto come l’analisi traduttologica del prototesto sia legata ad un processo di indagine e di scomposizione nei suoi elementi costitutivi e potenziali, per i quali verrà attuata una ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi al fine di trasformare – attraverso la scelta delle dominanti contenute nel prototesto – e rappresentare tali elementi mediante i mezzi espressivi caratteristici del cinema, fino alla creazione del metatesto, ovvero il testo filmico.

L’analisi e la scomposizione del prototesto nei suoi elementi costitutivi – e dei quali è formato anche il metatesto – è riconducibile all’individuazione dei tre tipi di cronotopo riconosciuti da Torop: a qualunque genere di sistema segnico appartenga, un testo è composto dal cronotopo topografico, dal cronotopo psicologico e dal cronotopo metafisico. A seconda che il testo appartenga ad un sistema di segni verbale – come il romanzo – o non soltanto verbale – come

84

il film – i tre tipi di cronotopo si esplicheranno in modi e mediante mezzi espressivi diversi. Inoltre, il dominio di un cronotopo sull’altro o, diversamente, la loro fusione armoniosa, determinerà un diverso approccio all’analisi traduttologica ed una differente rilevazione delle dominanti presenti nel testo stesso – sia nel prototesto sia nel metatesto.

Infine, ho osservato come la traduzione filmica sia una vera e propria opera creativa, in quanto non esiste ancora un metodo scientifico che stabilisca in che modo ogni traduzione deve essere condotta, semplicemente esistono delle concordanze di segni, per cui ogni elemento appartenente al prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, seppure secondo modalità diverse per ogni singolo romanzo e per ogni singolo film.

Per quanto concerne il caso preso in esame è possibile riscontrare, in fase di analisi, come il regista si sia sostanzialmente concentrato sulla lettura ed in particolare sui temi del romanzo. Infatti, sebbene vi siano delle notevoli differenze fra le due opere, che lascerebbero supporre uno stravolgimento totale da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad un esame più accurato è possibile notare, invece, come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga semplicemente rivestita della storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento lasci continuamente affiorare l’intreccio, i temi e gli elementi costitutivi originali del prototesto.

Il viaggio onirico-reale-surreale viene proposto e ricreato sia mediante l’utilizzo di un contrasto cromatico – rosso e blu – che delinea il conflitto fra realtà psichica e realtà materiale, fra il giorno e la notte, fra il rassicurante e noto mondo domestico e il misterioso, ignoto e dunque perturbante mondo esterno – che si insinua del mondo interno –, sia mediante l’utilizzo di movimenti di macchina che sembrano inghiottire, avviluppare e condurre il protagonista maschile verso un “laddove” proibito, una discesa entro i gorghi della sua stessa psiche – in quel territorio intermedio e fluttuante che si cela fra conscio e inconscio e che Schnitzler definiva «medioconscio» –, sia mediante la

85

ricostruzione in studio di una New York quasi irreale e labirintica, che viene percorsa e ripercorsa sino allo sfinimento, con la costante impressione da parte dello spettatore di trovarsi, invece, sempre nello stesso punto.

La dualità della coppia di protagonisti viene rappresentata, ancora, dal contrasto cromatico, dalla contrapposizione fra il calore dell’ambiente domestico e la freddezza del mondo esterno, dall’impiego di luci soffuse in opposizione a luci diffuse, dall’ampio utilizzo di inquadrature soggettive che si sovrappongono, in taluni casi, a quelle sonore, fornendo così ulteriormente un’impressione di scissione fra ciò che viene visto – la realtà materiale – e ciò che, al contrario, viene percepito – la realtà psichica.

Il tema del doppio, più in generale, viene ricostruito attraverso l’uso di specchi – simboli del doppio per eccellenza –, di luoghi, elementi e personaggi identici o analoghi, di situazioni simili fra loro oppure di carattere opposto, e di una struttura filmica caratterizzata dalla specularità.

Lo smarrimento interiore del personaggio, in special modo di quello maschile, viene raffigurato da una mimica facciale e da una recitazione volutamente goffe e ricercate, talvolta artificiose, che tendono a evidenziare le insicurezze e tutta l’inadeguatezza, da parte protagonista, nell’affrontare situazioni nuove ed impreviste, nonché dalla rappresentazione di un tempo – interno alla mente del protagonista – che si disgrega, grazie all’uso di numerose soggettive, di ripetizioni, di blocchi e di un insolito impiego della dissolvenza incrociata.

Il mascheramento sociale e l’ipocrisia della morale borghese affiorano continuamente durante la rappresentazione e sono evidenziare sia dai dialoghi sia dai comportamenti perbenisti e allo stesso tempo vuoti, meccanici, fatici, dei personaggi – inclusi i due protagonisti – sia dal raffronto di alcune scene e situazioni apparentemente opposte eppure complementari fra loro, come le due feste, o, ancora, dall’uso delle luci, dei colori, nonché, in modo molto più esplicito, dall’utilizzo delle stesse maschere. La famiglia, l’istituzione rappresenta una facciata illusoria dietro la quale si nasconde un groviglio di

86

dubbi, di angosce e di desideri repressi, diviene il luogo nel quale con maggiore lucidità si insidia e si sprigiona d’improvviso, travolgendo ogni certezza, il perturbante.

Tale lettura filologica, rivista in chiave moderna dovuta alla trasposizione cronotopica della storia di Doppio Sogno in una New York contemporanea, è stata possibile anche grazie alla comunione dei temi prediletti dal regista e quelli affrontati dallo scrittore viennese sia nel romanzo in oggetto sia nel corso della carriera artistica di entrambi gli autori. Questa similarità fra Schnitzler e Kubrick ha fatto sì che la novella schnitzleriana figurasse come un soggetto ideale per il regista statunitense.

Le principali differenze traduttive apportate da Kubrick alla novella di Schnitzler riguardano in special modo la scelta dell’ambientazione e alcune scelte in merito all’intreccio.

Per quanto riguarda l’ambientazione, mentre la storia di Doppio Sogno si svolge nella Vienna di inizio Novecento, quella di Eyes Wide Shut si svolge nella New York contemporanea; di conseguenza, la storia intera è stata completamente trasposta e modernizzata, con una conseguente modernizzazione anche dei realia e di alcuni motivi appartenenti alla cultura e all’epoca nella quale ha luogo la vicenda del prototesto – ad esempio, nel romanzo il protagonista maschile esprime il timore di contrarre una malattia venerea laddove nel film lo stesso timore viene espresso nei confronti dell’Aids; o, ancora, se il mezzo di trasporto utilizzato nel romanzo è la carrozza, nel film viene utilizzata l’automobile. Tuttavia, la New York descritta e rappresentata da Kubrick si discosta di gran lunga da quella vera: infatti, essa appare quasi un ibrido fra la reale città odierna e la Vienna di inizio Novecento, poiché costellata di nomi, personaggi, luoghi nonché musiche che si ricollegano al mondo mitteleuropeo e ricordano e regalano un clima tardo romantico.

Per quanto riguarda l’intreccio, nella storia di Eyes Wide Shut si possono rilevare numerose differenze narrative rispetto a quella originale: sia perché presenta

87

una dilatazione temporale – la vicenda di Doppio Sogno si svolge in due giorni mentre quella del film in quattro giorni – sia perché la storia stessa, come appena descritto, è stata ambientata in uno spazio ed in un’epoca differenti, sia e soprattutto perché alla trama nel film sono state apportate svariate modifiche, riguardanti vari fattori: in primo luogo la scelta di nomi di luoghi, personaggi, nonché della parola d’ordine per accedere alla festa orgiastica diversi rispetto al romanzo; in secondo luogo la modifica e l’amplificazione di alcune scene – in particolare, mi riferisco alla scena della prima festa alla quale partecipano entrambi i protagonisti: mentre nel racconto di Schnitzler questi impiega soltanto poche righe per descriverla, nel film viene dato ampio spazio alla rappresentazione della stessa sequenza –, che determinano anche l’assegnazione di un diverso peso delle stesse situazioni nel film rispetto al romanzo; in terzo luogo l’aggiunta ex novo di alcune sequenze e personaggi – ovvero l’introduzione del personaggio di Victor Ziegler nonché, nel sottofinale, il confronto fra quest’ultimo e il protagonista maschile nella sala del biliardo –; in quarto ed ultimo luogo, la soppressione di alcune scene, a mio avviso molto importanti, contenute invece nel romanzo – la reciproca confessione del tradimento non consumato da parte di entrambi i coniugi viene ridotta alla confessione di un desiderio di illecita passione unicamente da parte della protagonista femminile, cosicché la confessione del medico viene interamente depennata; allo stesso modo, il racconto del sogno da parte della donna, al rientro in casa del medico in seguito alle sue avventure notturne, viene notevolmente ridotto e alcuni suoi aspetti non vengono del tutto menzionati –, che determinano dunque, all’interno del film, un sensibile sbilanciamento di un tema fondamentale del romanzo di Schnitzler: la rappresentazione del doppio, nonché la doppia valenza del viaggio onirico-reale-surreale vissuto da entrambi i protagonisti.

Tale sbilanciamento si esplica più precisamente nel cosiddetto «residuo

88

traduttivo»101. Ogni tipo di traduzione – interlinguistica, intralinguistica e dunque anche quella intersemiotica extratestuale – comporta un residuo traduttivo, ossia un insieme di elementi che, in base alla strategia traduttiva adottata, non vengono trasferiti nel metatesto, poiché sono difficilmente riproducibili o perché non costituiscono una dominante del prototesto e vengono di conseguenza ignorati oppure spiegati in altro modo – ad esempio, nella traduzione metatestuale attraverso l’impiego di note.

Nel caso specifico, ovvero nella trasposizione cinematografica presa in esame, la scelta di depennare nel metatesto due sequenze tanto importanti – che contribuiscono alla costituzione di una dominante del prototesto, ovvero la dualità della coppia e la dicotomia fedeltà-tradimento – risulta difficilmente condivisibile e comprensibile e non appare dovuta né ad una possibile difficoltà di rappresentazione da parte del regista mediante le tecniche cinematografiche né, tanto meno, alla scarsa significatività delle due sequenze stesse. Purtroppo, la morte prematura e repentina di Kubrick ha lasciato un alone di mistero attorno all’ideazione del film e, soprattutto, alla sua effettiva rappresentazione. Infatti, sebbene determinate scelte siano state ampiamente commentate – da critici e studiosi, nonché dagli stessi attori e aiutanti del regista e, in ultimo, dallo sceneggiatore – nel vano tentativo di fornire delle spiegazioni esaustive e interpretazioni su di esse, tale tentativo si perde in una girandola di delucidazioni e dichiarazioni che altro non sono che ipotesi.

Dunque, non resta altro che questo: formulare congetture.

Anche in Doppio Sogno i temi dominanti si sviluppano maggiormente nella figura del medico, nella quale meglio si esplicano le contraddittorietà racchiuse nell’animo umano. Nel film, tuttavia, viene totalmente privilegiata la raffigurazione dello smarrimento interiore e del viaggio vissuto dal personaggio maschile a discapito di quello femminile. Inoltre, mentre nel romanzo la parola

101 B. Osimo, 2001

89

scritta consente allo scrittore di descrivere – e al lettore di penetrare – con più acume le profondità del pensiero e della psiche dell’uomo, nel film l’assoluta quanto naturale mancanza della parola scritta priva la storia di tanta interiorità e profondità. Kubrick cerca di ovviare sia alla soppressione da lui apportata alla vicenda sia all’impossibilità di utilizzare la parola scritta per raffigurare il tema della dualità e del parallelismo attraverso l’uso insistito di elementi iconici che rinviano lo spettatore all’immagine del doppio: ad esempio, viene fatto ampio uso di specchi o di figure identiche o simili; inoltre, il film ha una struttura più marcatamente simmetrica rispetto al romanzo e la dualità del viaggio, fra conscio e inconscio, viene rappresentata mediante diversi espedienti, come il contrasto cromatico.

Quel che è certo, però, è che Eyes Wide Shut si presenta come un capolavoro, l’ennesima, oltre che ultima, odissea kubrickiana che abbatte ogni confine fra realtà e sogno, e penetra in profondità nell’animo umano, rivelando, con la freddezza cinematografica che ha contraddistinto tutto il cinema di Kubrick, le più inconfessate debolezze e le più intime pulsioni dell’uomo.

90

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • AlongeGiaime,«Tobeperfectlyhonest…»or:MrHarfordandthevicious circle, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 17-27.
  • Caprettini Gian Paolo, Un malinconico incantesimo. Peter Pan e il modello fiabesco, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 9-12.
  • Carluccio Giulia e Villa Federica (a cura di), Dossier Eyes Wide Shut, numero monografico di La Valle dell’Eden. Quadrimestrale di cinema e audiovisivi, Anno III/IV, n° 8/9, Settembre-Dicembre 2001, Gennaio- Aprile 2002, Torino, Lindau, 2002, ISBN 88-7180-383-3.
  • Carluccio Giulia, Somewhere under the rainbow, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 29-37.
  • Carotenuto Aldo, Il gioco delle passioni amorose. Dinamiche dei rapporti amorosi, Milano, Bompiani, 2003, ISBN 88-452-5206-X.
  • Ciaruffoli Simone, Stanley Kubrick. Eyes Wide Shut, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2003, ISBN 88-87011-59-1.
  • Costa Antonio, Saper veder il cinema, Milano, Bompiani, 1985, ISBN 88- 452-1253-X.
  • De Gaetano Roberto, Le fluttuazioni del «semiconscio», in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 63-69.
  • EugeniRuggero,EyesWideShutolascuoladelladifferenza,inG.Carluccio e F. Villa, 2002, p. 71-77.
  • Eugeni Ruggero, Invito al cinema di Kubrick, Milano, Mursia, 1995, ISBN 88-425-1940-5.
  • FareseGiuseppe,PostfazioneaDoppioSogno,inA.Schnitzler,1977,p. 117-131.
  • Kubrick Stanley, Eyes Wide Shut, Gran Bretagna, Warner Bros, 1999.
  • Osimo Bruno, Corso di traduzione [online] [Modena, Italia], Logos, gennaio 2000 [citato ottobre 2005]. Disponibile dal world wide web:

91

http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.traduzione?lan

g=it>.

  • Osimo Bruno, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavolesinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.
  • Raphael Frederic, Eyes Wide Open, a cura di M. Giusti, traduzione di N.Gobetti, Torino, Einaudi, 1999, ISBN 88-06-15318-8.
  • ReitaniLuigi,Postfazione,inA.Schnitzler,2001,p.111-121.
  • Schnitzler Arthur, Doppio Sogno, a cura di G. Farese, Milano, AdelphiEdizioni, 1977, ISBN 88-459-1379-1.
  • Schnitzler Arthur, Sulla psicoanalisi, a cura di L. Reitani, Milano, SE,2001, ISBN 88-7710-504-6.
  • Torop Peeter, La traduzione extratestuale, in Torop Peeter, La traduzionetotale, a cura di B. Osimo, Modena, Guaraldi Logos, 2000, ISBN 88-

    8049-195-4, p. 299-343.

  • Ulivieri Filippo, Archivio Kubrick [online], [Roma, Italia] 2001 [citatosettembre 2005]. Disponibile dal world wide web:

    http://www.archiviokubrick.it/film/ews/index.html?main=mainews.

  • Villa Federica, Confessare lo sguardo, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p.39-45.

92

BIBLIOGRAFIA

  • Baracco Aldo, Eyes Wide Shut: la realtà del sogno, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 89-96.
  • DacquinoGiacomo,Checos’èl’amore.L’affettoelasessualitànelrapportodi coppia, Milano, Mondadori, 1994, ISBN 88-04-41845-1.
  • Del Ministro Maurizio, Eyes Wide Shut: una nuova odissea nel tempo e nello spazio, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 13-15.
  • Dinoi Marco, La danza di Mercurio. La visione e il movimento, il corpo e il mondo in Eyes Wide Shut, in G. Carluccio e F. Villa, 2002, p. 79-87.
  • Freud Sigmund, L’interpretazione dei sogni, traduzione di A. Ravazzolo, Roma, Newton Campton Editori, 1970, ISBN 88-7983-075-9.
  • Osimo Bruno, Traduzione e qualità. La valutazione in ambito accademico e professionale, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203-3386-4.
  • Rank Otto, Il doppio. Uno studio psicoanalitico, traduzione di I. Bellingacci con uno scritto di M. Dolar, Milano, SE, 2001, ISBN 88-7710-489-9.

93

Come Together Analisi testuale e culturale LOREDANA GENTILINI

Come Together
Analisi testuale e culturale

LOREDANA GENTILINI

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo
Correlatrice: professoressa Cynthia Bull

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2009

© Loredana Gentilini per l’edizione italiana 2009
Abstract in italiano
Questo lavoro parte dal concetto di «traduzione totale» elaborato da Torop nell’omonimo libro, in cui estende la concezione semiotica della traduzione di Jakobson, arrivando a definire come processo traduttivo qualsiasi trasferimento che da un prototesto porti a un metatesto. Attraverso l’analisi della canzone Come Together, esaminata sia da un punto di vista linguistico-testuale, fornendo anche una traduzione della canzone dall’inglese all’italiano, sia da un punto di vista culturale, analizzando gli aspetti culturali che si celano dietro le parole dell’autore, la candidata si propone di mostrare che anche una canzone può essere vista in termini traduttivi come metatesto, in quanto non è altro che la sintesi della cultura in cui viene prodotta.

English abstract
This work starts from the notion of “total translation” formulated by Torop. In his book, he develops the semiotic notion of “translation” by Jakobson, defining as “translating process” any transfer starting from a prototext and leading to a metatext. The song Come Together is examined both from a linguistic-textual point of view – providing a translation of the song from English into Italian – and from a cultural point of view – analysing the cultural aspects behind the author’s words. The candidate tries to show that a song can be seen in translation terms as a metatext, as a synthesis of the culture that produced it.

Deutsches Abstract
Der von Torop geprägte Begriff der „totalen Űbersetzung″ bildet die Grundlage dieser Arbeit. Torop erweitert in seinem gleichnamigen Buch den semiotischen Begriff der Űbersetzung von Jakobson und definiert jeden Transfer, der vom Prototext zum Metatext führt, als „Űbersetzungsprozess″. Das Lied Come Together wird sowohl vom sprachlich – textuellen als auch vom kulturellen Gesichtspunkt aus analisiert, wobei das Lied aus dem Englischen ins Italienische übersetzt wird und die kulturellen Aspekte des Liedtextes in Betracht gezogen werden. Diese Arbeit will zeigen, dass auch ein Lied als Metatext und als Synthese der Kultur, aus der es stammt, betrachtet werden kann.

Sommario

1. Prefazione 4
1.1 Premessa terminologica 6
1.2 Fonti utilizzate 7
2. Analisi del testo 9
2.1 Primo verso 11
2.1.1 Commento testuale 11
2.1.2 Commento culturale 13
2.2 Secondo verso 16
2.2.1 Commento testuale 16
2.2.2 Commento culturale 19
2.3 Terzo verso 21
2.3.1 Commento testuale 21
2.3.2 Commento culturale 21
2.4 Quarto verso 23
2.4.1 Commento testuale 23
2.4.2 Commento culturale 24
2.5 Quinto verso 25
2.5.1 Commento testuale 25
2.5.2 Commento culturale 25
2.6 Sesto verso 27
2.6.1 Commento testuale 27
2.6.2 Commento culturale 27
2.7 Settimo verso 29
2.7.1 Commento testuale 29
2.7.2 Commento culturale 29
2.8 Ottavo verso 31
2.8.1 Commento testuale 31
2.8.2 Commento culturale 31
2.9 Nono verso 33
2.9.1 Commento testuale 33
2.9.2 Commento culturale 33
2.10 Decimo verso 34
2.10.1 Commento testuale 34
2.10.2 Commento culturale 35
2.11 Undicesimo verso 36
2.11.1 Commento testuale 36
2.11.2 Commento culturale 36
2.12 Dodicesimo verso 38
2.12.1 Commento testuale 38
2.12.2 Commento culturale 38
2.13 Tredicesimo verso 41
2.13.1 Commento testuale 41
2.13.2 Commento culturale 42
3. Riferimenti bibliografici 43
4. Bibliografia 46
5. Ringraziamenti 49

1. Prefazione
Quasi tutto può essere visto in termini di traduzione, come afferma Torop nel suo libro del 1995 intitolato La traduzione totale. Nel libro egli riprende e amplia la concezione semiotica della traduzione elaborata da Jakobson in un articolo pubblicato nel 1959 dal titolo On linguistic aspects of translation, in cui divide la traduzione in tre tipi, definendo «traduzione» sia il trasferimento interlinguistico (da una lingua all’altra), sia quello intralinguistico (all’interno della stessa lingua), ma anche la trasmutazione intersemiotica, ovvero l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali. Torop estende ulteriormente questa concezione arrivando a definire come processo traduttivo qualsiasi trasferimento che da un prototesto (primo testo) porti a un metatesto (testo trasferito, testo successivo, testo ulteriore) (Osimo 2004: 9). È quindi ad esempio traduzione la fiaba popolare russa Pierino e il lupo che diviene una composizione musicale di Prokof’ev; è traduzione il romanzo di Tomasi di Lampedusa Il gattopardo che diventa un film di Luchino Visconti (Osimo 2004: 17-18) ed è un processo traduttivo una canzone, come nel mio specifico caso, in quanto è la traduzione – la sintesi – di una cultura.
Nella mia tesi ho analizzato la canzone Come Together dei Beatles sia da un punto di vista linguistico-testuale, fornendo anche una traduzione della canzone dall’inglese all’italiano, sia da un punto di vista culturale, esaminando gli aspetti culturali che si celano dietro le parole dell’autore, proprio perché una canzone non è altro che l’espressione della cultura in cui viene prodotta. È quindi possibile affermare che vi è un prototesto, costituito dalla cultura degli anni Sessanta in Gran Bretagna e in USA, e un primo metatesto costituito dalla canzone stessa, scritta in lingua originale, quella inglese. Vi è poi un altro metatesto costituito dalla canzone in lingua italiana, frutto di una traduzione interlinguistica, il cui prototesto è la canzone in lingua inglese.
Durante l’analisi della canzone, sono rimasta particolarmente colpita da come ogni singola parola, ogni verso e in generale ogni scelta creativa operata dall’autore esprima caratteristiche della cultura del tempo, del contesto culturale in cui è stata scritta, da cui è impossibile prescindere. Ad esempio, il verso he wear no shoe shine che ho tradotto con la frase «non porta scarpe lucidate», «non si lucida le scarpe», a prima vista potrebbe sembrare privo di connotazioni culturali e degno di poca considerazione. Infatti, Come Together è stata spesso descritta erroneamente come una canzone misteriosa, piena di nonsense, dal contenuto incomprensibile, nonostante sia stata una hit di grandissimo successo, cantata e ballata da milioni di persone in quegli anni, che forse non hanno saputo coglierne ogni significato. In realtà, il verso he wear no shoe shine ha un senso ben preciso che sintetizza un aspetto caratteristico della cultura degli anni Sessanta. Il fatto che l’autore dica che il personaggio non ha le scarpe lucide dovrebbe indurre il lettore/ascoltatore a pensare che sia un fatto insolito, perché altrimenti non ci sarebbe motivo di affermarlo. I ragazzi “perbene” dell’epoca, quelli che esprimevano la morale comune, erano soliti portare le scarpe ben lucidate, e il fatto di non averle lustre era considerato “anticonformista”, un segno di voluta rottura con la cultura dominante del tempo; segno che è poi sfociato nella moda delle scarpe Clarks, il cui modello più noto era costituito da scarponcini scamosciati (e perciò non lucidabili) divenuti poi uno dei tanti simboli della contestazione giovanile. O ancora, il verso I know you, you know me, apparentemente privo di connotazioni culturali particolari, e traducibile in italiano con l’espressione «io conosco te, tu conosci me», che di primo acchito potrebbe sembrare non voler dire nulla al di là del suo significato denotativo, in realtà nasconde un altro aspetto caratteristico di quegli anni: un modo molto aperto e diretto di approccio con l’altro, privo di inibizioni, soprattutto per quanto riguarda la sfera sessuale, tipico appunto della fine degli anni Sessanta. Mi riferisco a quel tipo di atteggiamento che porta poi all’esplosione della rivoluzione sessuale.
Anche il fatto che l’autore abbia scelto come caratteristica di tutto il testo di non coniugare i verbi alla terza persona – here come[-s] old flat top; he come[-s] grooving up slowly –, di ometterli – he [is] one holy roller –, di omettere il suffisso –s che denota la forma plurale – he got joo joo eyeball[-s]; he got hair down to his knee[-s] –, di omettere i soggetti – [he] [has] got to be a joker –, di utilizzare abbreviazioni – he [has] got toe jam football; he [has] got hair down to his knee – e, in generale, così facendo, di manifestare il rifiuto di seguire le regole – grammaticali e non – convenzionalmente in uso rispecchia la voglia di trasgredire e l’anticonformismo tipico delle culture “alternative” degli anni Sessanta.
1.1 Premessa terminologica
Durante l’analisi della canzone parlerò di «autore», riferendomi a John Lennon, e non di autori, benché la canzone Come Together (come molte altre, del resto) sia firmata da John Lennon e Paul McCartney. Infatti, nonostante i due componenti del gruppo siglassero, per un accordo commerciale, la paternità delle canzoni insieme, è noto che vi sono canzoni scritte esclusivamente da Paul e canzoni scritte esclusivamente da John e questa è tra quelle ascrivibili interamente a John.
1.2 Fonti utilizzate
Per realizzare la mia analisi e in particolare per tradurre la canzone dall’inglese all’italiano, ho utilizzato diverse fonti, da quelle più tradizionali, come dizionari monolingui e bilingui, (sia cartacei che telematici) a fonti meno “convenzionali”, tra cui il dizionario online Urban Dictionary, che mi è stato molto utile. Questo dizionario è stato creato nel 1999 e contiene definizioni in inglese scritte da utenti di tutto il mondo, che vengono poi controllate dagli utenti stessi. Il fatto che il dizionario sia costituito interamente da definizioni fornite da gente comune, che risiede in tutto il mondo, presenta sia aspetti negativi che aspetti positivi, su cui vorrei porre l’accento. Sicuramente, questo dizionario permette di trovare parole o espressioni che non è possibile trovare nei dizionari tradizionali, perché inevitabilmente non sono in grado di recepire tutte le novità e tutti gli usi. È altresì vero che, non essendoci nessun tipo di controllo, si potrebbe pensare che ognuno possa scrivere ciò che vuole, comprese informazioni non controllate. Per cercare di ovviare a questo problema reale, gli autori del sito hanno inserito un metodo per cui chi legge una definizione può esprimere il proprio parere al riguardo, “votando” mediante gli up (rappresentati visivamente dal pollice alzato) e i down (rappresentati dal pollice verso), a seconda che si condivida o meno la definizione fornita da un utente. Seguendo la logica introdotta da questo meccanismo di valutazione, è possibile affermare tendenzialmente che la definizione che detiene più up è la più condivisa. A seconda del numero di up attribuiti alle definizioni, queste vengono ordinate, affinché la prima definizione che appare nella pagina sia la più attendibile. Attraverso l’utilizzo di questo strumento, è già possibile farsi un’idea del significato della parola/espressione che si sta cercando. Proprio perché questo dizionario è “libero”, l’ipotesi formulata deve però essere poi controllata con l’ausilio di altre fonti, che possono smentire o avvalorare la definizione trovata nel dizionario. Ad esempio, la parola joo joo contenuta nel terzo verso della prima strofa della canzone non era presente nei principali dizionari bilingui e monolingui da me consultati durante la traduzione. Ho provato quindi a ricercare la parola nell’Urban Dictionary, dove ho trovato ben quattro definizioni, il che ne testimonia certamente un uso, trascurato dai dizionari da me consultati in precedenza. La prima definizione fornita dal dizionario è quella di karma, vibes (Mo’ Urban 2005), che presenta ben 39 up e 7 soli down e questo può essere interpretato già come un segnale positivo sull’attendibilità della fonte. Attraverso la consultazione del dizionario mi ero già fatta un’idea del possibile significato della parola, che ho poi appurato con l’ausilio di altre fonti: la moda della filosofia e della cultura orientale, soprattutto indiana, di quegli anni; il fatto che anche i Beatles si fossero avvicinati a quella cultura compiendo anche viaggi in India e l’usanza – tipica di quel periodo – di giudicare una persona in base alle vibrazioni che emanava (Norman 1981: 487), vibes appunto, mi hanno spinto a ritenere quella definizione veritiera e soprattutto adatta al contesto.
Anche Wikipedia è un’enciclopedia “libera” in cui ognuno può, a seconda delle proprie conoscenze, trattare un argomento, che può essere criticato e corretto dagli stessi utenti che, al momento della lettura, potrebbero riscontrare errori nelle trattazioni altrui. Anche Wikipedia è uno strumento utile, in quanto può fornire una prima “infarinatura”, anche superficiale, su un determinato argomento. Successivamente, come per l’Urban Dictionary, le informazioni vanno controllate e approfondite utilizzando altre fonti.
In conclusione, ritengo che anche queste fonti che possiamo definire “non ufficiali”, in quanto dispongono di un basso carattere di scientificità, possano essere utili, a patto che sull’informazione reperita vengano effettuati ulteriori controlli, utilizzando fonti primarie.

2. Analisi del testo

Here come old flat top
He come grooving up slowly
He got joo joo eyeball
He one holy roller
He got hair down to his knee.
Got to be a joker he just do what he please.

He wear no shoe shine
He got toe jam football
He got monkey finger
He shoot Coca Cola
He say I know you, you know me.
One thing I can tell you is you got to be free.

Come together right now over me.

He bag production
He got walrus gumboot
He got O-no sideboard
He one spinal cracker
He got feet down below his knee.
Hold you in his armchair you can feel his disease.

Come together right now over me.

He roller coaster
He got early warning
He got muddy water
He one Mojo filter
He say one and one and one is three.
Got to be goodlooking ‘cause he’s so hard to see.
Come together right now over me.
Come together.
Come together…

Autori: John Lennon/Paul McCartney
Anno: 1969

2.1 Primo verso
Here come old flat top
2.1.1 Commento testuale
Here svolge qui la funzione di avverbio (di luogo) e in questo specifico caso, dove è seguito dal verbo come, dà luogo alla locuzione here come[s], molto utilizzata nella lingua inglese e traducibile in italiano con l’espressione «ed ecco che arriva», «ed ecco arrivare». Questa espressione, sia per quanto concerne l’inglese che l’italiano, viene utilizzata all’inizio di una frase per attirare l’attenzione del lettore/ascoltatore. Procedendo alla ricerca del soggetto, lo si riscontra nella parola top e si nota subito che al verbo come, a cui il soggetto top si riferisce, manca il suffisso -s che in lingua inglese denota la terza persona singolare. Ritengo che la scelta da parte dell’autore di omettere il suffisso -s sia dettata da una questione di suoni, ma anche e soprattutto dal fatto che egli voglia liberarsi da ogni tipo di forma, legge o regola, anche grammaticale (Miccoli 1998). La parola top significa in questo contesto «testa» in quanto, come noteremo in seguito, si riferisce a una persona (he) e viene qui preceduta da due aggettivi: old e flat. Flat tra i vari significati presenta quello di «piatto», «schiacciato» (Ragazzini 2005). L’aggettivo old, «vecchio», che precede l’aggettivo flat potrebbe essere qui usato sia in senso dispregiativo: «ed ecco arrivare (il/un) vecchio con la testa piatta», sia in senso vezzeggiativo: in questo caso old assumerebbe dei toni amichevoli, in quanto l’autore si riferirebbe a una persona che conosce da tempo e l’espressione inglese potrebbe essere tradotta con: «ed ecco arrivare il vecchio testa piatta». Old flat top diverrebbe così un nickname, un soprannome. È possibile inoltre notare che il soggetto non è preceduto da nessun articolo, né determinativo (the), né indeterminativo (an) e questo potrebbe confermare la teoria secondo la quale old flat top potrebbe essere il soprannome con cui l’autore chiama il protagonista del testo perché altrimenti, considerando l’aggettivo old in un’accezione negativa, l’articolo a mio avviso sarebbe opportuno.

2.1.2 Commento culturale
Gli anni Sessanta sono gli anni del «movimento giovanile», che ha segnato uno dei più grandi cambiamenti di costume della storia del Novecento. Solitamente, la nascita del «movimento giovanile» si fa coincidere con gli anni Sessanta perché sono stati anni turbolenti, chiara espressione del disagio esistenziale dei giovani, considerato la scintilla che ha fatto esplodere tale movimento (Fenoglio 2009). In realtà, la manifestazione pubblica del disagio esistenziale giovanile ha un precedente verso la seconda metà degli anni Cinquanta, sviluppatosi in Europa e negli USA in due modi distinti: in Europa, soprattutto in Francia, ma non solo, si diffonde l’«esistenzialismo», espressione di una filosofia di crisi causata dal vuoto di certezze che ha seguìto la fine della Seconda guerra mondiale. Questo vuoto è dovuto al fatto che dopo la fine della Seconda guerra mondiale viene a mancare quella tensione ideologica che aveva prodotto e che trova il proprio fulcro nella contrapposizione nazifascismo/democrazia/comunismo. Si comincia così ad avvertire un rilassamento della vita, un vero e proprio «vuoto» che spinge l’individuo a vivere in una sorta di «vuoto esistenziale», in cui l’esistenza dello stesso viene considerata una mera possibilità (Fenoglio 2009). Questa sensazione di disagio si riflette immediatamente nella musica, considerata dal mondo giovanile il regno ideale per dare spazio alle emozioni e ai sogni, generando così una vera e propria moda che ha il suo centro a Parigi, ma che si diffonde ben presto in tutta Europa: quella dei Platters, la cui musica può essere definita come un mix di spiritual nero e rock, una sorta di “soft rock”. Per quanto riguarda invece gli USA, il segno del disagio giovanile è più forte, più aggressivo e trasgressivo e si traduce con il rock ‘n’ roll, in séguito contaminato da Elvis Presley con la musica country (Fenoglio 2009). Il rock ‘n’ roll, a partire dal movimento pelvico, rappresenta una vera e propria provocazione morale nei confronti del rigorismo puritano spesso incarnato nella figura dei genitori, con cui si apre un conflitto “generazionale” basato a sua volta su un conflitto di valori. Vi è poi un elemento particolarmente significativo che acuisce il disagio giovanile: la guerra del Vietnam, che comporta per i giovani statunitensi, ormai abituati al benessere e a una certa libertà (Fenoglio 2009), la coscrizione obbligatoria per combattere una guerra di cui non comprendono quasi le ragioni. Questo accentua la «drammaticità esistenziale» anche nella musica: è ormai finita la «giovinezza spensierata» e prende piede il pop statunitense “californiano” dei Beach Boys, caratterizzato da un suono più melodico e da un certo trasporto emotivo: è un rock “ingentilito”, da cui nasce la musica dei Beatles (Fenoglio 2009). I Beatles, a partire dal 1962, si fanno portavoce in Inghilterra di un’esplosione di liberazione istintuale generale rispetto al puritanesimo rigoroso che dominava in quegli anni. Diventano rappresentanti di una “liberazione” soprattutto emotiva, riguardante la sfera degli affetti e quella sessuale perché i giovani erano ormai stufi di sentirsi soffocati dal selfcontrol e dall’understatement della cultura britannica (Fenoglio 2009). Negli anni Sessanta in molti paesi, a partire dagli USA, i giovani sviluppano rapidamente un forte senso del collettivo, che li spinge a cercare una ben precisa identità di gruppo, che inizialmente si identifica nella contrapposizione al vecchio, nel conflitto generazionale, per poi estendersi al conflitto con le autorità, inserendo così una componente ideologica (Castaldo 1994: 86-87). «I giovani cominciano a percepire di essere portatori non solamente di un generico desiderio di autonomia, ma di veri e propri nuovi valori». Dalla ribellione del sabato sera, si passa così alla nascita di nuove forme di comportamento sociale, di vere e proprie posizioni in campo politico, soprattutto alla diffusa e totale adesione alle idee pacifiste. Già nel 1962 nascono alcuni movimenti giovanili altamente politicizzati che trattano temi pacifisti, antinucleari e in generale rivendicano un’estrema democratizzazione della partecipazione politica (Castaldo 1994: 87). Parallelamente, prende sempre più forma l’idea di un movimento studentesco, la cui data di nascita convenzionale viene fatta coincidere con la rivolta del campus della Berkeley, il 1° ottobre del 1964, e poi con la marcia su Washington del 1965. Attraverso tutto questo cresce un forte senso comunitario che trova il suo apice nei grandi raduni pop della fine degli anni Sessanta, rappresentazione dei nuovi modelli di vita (Castaldo 1994: 88).
La prima strofa, sull’onda di quella «liberazione istintuale» (Fenoglio 2009) a cui ho accennato prima, testimonia un modo molto diretto e aperto di approccio nei confronti dell’altro, tipico della cultura degli anni Sessanta, in contrapposizione con il modo di rapportarsi di oggi, in cui prevalgono invece la chiusura e un certo timore nei confronti di chi non si conosce o si conosce poco.
2.2 Secondo verso
He come grooving up slowly
2.2.1 Commento testuale
In questo secondo verso l’autore utilizza il pronome he, svelandoci così che il protagonista è un uomo. Si nota nuovamente la mancanza del suffisso -s nel verbo come, che denota la terza persona singolare. Questa sarà caratteristica di tutto il testo, a indicare il rifiuto totale da parte dell’autore di seguire ogni regola. Il verbo to groove up non è presente nei principali dizionari bilingui e monolingui, né nei principali dizionari monolingui di slang, probabilmente a causa del fatto che Lennon recepisce un uso in voga all’epoca. Se si analizza il verbo to groove, questo può essere sia transitivo che intransitivo. Se usato come transitivo significa: «incavare», «scanalare» (Ragazzini 2005), «fare solchi o scanalature in» (Picchi 2007), ma anche «incidere su disco», «godere», «apprezzare», «eccitare», «mandare (qualcuno) su di giri» (Ragazzini 2005), «fare o dare piacere» (Picchi 2007), «perfezionare (qualcosa) con la ripetuta pratica», «fare un lancio che raggiunge la metà campo della zona di strike (baseball)» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009); se usato invece come intransitivo significa «godersela», «andare su di giri», «essere in armonia», «andare d’accordo», «suonare bene» (Ragazzini 2005), «diventare schiavo di un’abitudine» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009). Se però si vanno a ricercare i significati del sostantivo groove, si trova tra gli altri anche quello di «ritmo avvincente» (Ragazzini 2005). Qui il verbo to groove è nella forma di gerundio (suffisso -ing) ed è seguito dall’avverbio slowly, «piano». Ritengo che in questo contesto l’autore, utilizzando l’espressione grooving up slowly, possa fare riferimento al modo di muoversi di questa persona, partendo dal concetto di groove, inteso come «ritmo», ma anche di groove, inteso come «solco» (Picchi 2007), da cui deriva il significato del verbo to groove «fare solchi o scanalature in» (Picchi 2007). Per quanto concerne la preposizione up che segue il verbo, ritengo che serva da rafforzativo. Alla luce di quanto detto sopra, He come grooving up slowly potrebbe essere tradotto con «arriva muovendosi lentamente» o ancora meglio «arriva trascinandosi», nella cui espressione si ritrova il concetto base della mia scelta traduttiva, che parte dal significato del verbo to groove «fare solchi» (Picchi 2007). Il fatto che il nostro personaggio arrivi trascinandosi potrebbe essere spiegato dal fatto che è stanco o affaticato. Vi è però a mio avviso un’altra chiave di lettura del verso, che parte dal significato del verbo to groove come «godere», «andare su di giri» (definizione tratta da American 2000). Uno dei significati del sostantivo groove è proprio quello di «un’esperienza molto piacevole» (definizione tratta da American 2000), «un’esperienza eccitante» (Ragazzini 2005) e se si va a ricercare il significato dell’aggettivo groovy si trovano tra gli altri particularly excellent, «particolarmente eccellente»; divine, «magnifico»; fabulous, «favoloso»; fantastic, «fantastico»; glorious, «splendido»; marvelous, «meraviglioso»; sensational, «sensazionale»; splendid, «splendido»; superb, «eccellente»; terrific, «favoloso»; wonderful, «meraviglioso» o ancora dandy, «eccellente», «di prima qualità»; dreamy, «fantastico»; ripping, «eccellente», «straordinario»; swell, «straordinario» e ancora cool, «che va forte», «grande», «figo»; hot, «alla moda», «popolare»; neat, «favoloso»; idiomatico out of this world, «fuori dal mondo» e very pleasing «molto piacevole», «molto gradevole» (definizione tratta da American 2000): il verbo ha a che vedere con qualcosa che dà piacere. Partendo proprio da questo concetto, il verso potrebbe essere letto in un altro modo: quel grooving up slowly potrebbe riferirsi al fatto che questa persona sta «avendo piacere piano», sta «godendo piano», «andando su di giri piano» e quindi potrebbe fare riferimento al fatto che il nostro personaggio ha assunto della droga e che questa piano piano stia facendo effetto. Il verso quindi potrebbe anche essere reso con «arriva mentre va pian piano su di giri».
2.2.2 Commento culturale
Durante gli anni Sessanta in Gran Bretagna e negli USA l’aggettivo groovy era molto in voga tra i giovani con il significato di «molto piacevole», «alla moda» (Ragazzini 2005), «splendido» (Ragazzini 2005), qualcosa di simile all’espressione odierna «figo». A testimonianza di ciò, cito una canzone di Simon and Garfunkel, noto duo folk statunitense, attivo durante gli anni Sessanta, il cui titolo è The 59th Street Bridge Song (Feelin’ Groovy), contenuta nell’album Parsley, Sage, Rosemary and Thyme del 1966.

Slow down, you move too fast,
You got to make the morning last
just kickin’ down the cobble stones
Lookin’ for fun and feelin’ groovy.
Ba da da da da da da feelin’ groovy.

Hello lamppost, whatcha knowin’,
I’ve come to watch your flowers growin’
Aintcha got no rhymes for me?
Dootin’ doo doo, feelin’ groovy.
Ba da da da da da da, feelin’ groovy.

Got no deeds to do, no promises to keep,
I’m dappled and drowsy and ready to sleep,
let the morning time drop all its petals on me.
Life, I love you, All is groovy.
Ba da da da da da da Ba da da da da

L’espressione feelin’ groovy, che ricorre più volte nel testo e che dà il titolo alla canzone, richiama proprio il sentirsi bene, il sentirsi in armonia con gli altri e con lo spazio che ci circonda, fino ad affermare – attraverso le parole Life, I love you, All is groovy – l’amore per la vita e che ogni cosa è meravigliosa.
Per i primi due versi di Come Together, come ha in séguito dichiarato lo stesso Lennon, egli si ispirò alla strofa di una canzone del 1956 di Chuck Berry, artista rock americano molto amato da Lennon, intitolata You Can’t Catch Me. Per questa ragione Lennon venne citato in tribunale da Morrys Levy, editore di Berry, con l’accusa di plagio. Come riparazione Lennon dovette incidere delle canzoni possedute da Levy che confluirono nel suo album del 1975 intitolato Rock ‘n’ Roll. Anche il fatto che i Beatles guardassero agli USA come un modello da seguire e imitare, a partire proprio dagli artisti rock da loro amati sin dall’adolescenza (Elvis Presley, Chuck Berry, Muddy Waters solo per citarne alcuni), può essere considerato un segno di anticonformismo per un’Inghilterra degli anni Sessanta molto chiusa in sé stessa. La ragione di questa particolare apertura nei confronti degli USA può in parte essere spiegata dalla natura della città di Liverpool, città natale dei Beatles, conosciuta assieme a Glasgow come «la città britannica della musica americana» (Castaldo 1994: 99) perché è una città portuale, a cui sin da quegli anni accedevano navi e transatlantici provenienti dagli USA. Infatti, i Cunard yanks, ovvero i marinai imbarcati sui mercantili atlantici, conoscevano le novità musicali prima di chiunque altro in Gran Bretagna e le diffondevano in città (Castaldo 1994: 99).
2.3 Terzo verso
He got joo joo eyeball
2.3.1 Commento testuale
Prosegue la descrizione del personaggio. He got è l’abbreviazione della forma completa del verbo «to have got» in terza persona singolare he has got. L’autore afferma che il personaggio ha joo joo eyeball. Anche la parola joo joo non è presente nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma il dizionario online Urban Dictionary definisce la parola joo joo come karma «karma», vibes «vibrazioni» (Mo’ Urban 2005). He got joo joo eyeball potrebbe essere tradotto con l’espressione «ha (gli) occhi da karma» e potrebbe riferirsi allo sguardo “fatto” dell’uomo in quanto avrebbe assunto della droga. Anche nella parola eyeball si riscontra la mancanza del suffisso -s che in questo caso denota il plurale: l’autore fa riferimento infatti a un solo occhio, non a tutti e due.
2.3.2 Commento culturale
Il karma è il concetto centrale della religione induista, a cui i Beatles, ma anche moltissime altre persone durante gli anni Sessanta, si sono avvicinate, compiendo anche, come gli stessi Beatles, viaggi in India. A partire dal 1966 la scoperta della cultura orientale diventa una vera e propria moda in Europa e negli USA. Secondo il principio del karma, le azioni del corpo, della parola e dello spirito (i pensieri) sono contemporaneamente causa ed effetto di altre azioni; niente è dovuto al caso: ogni avvenimento, ogni gesto, è legato da una rete di interazioni di causa/effetto. Secondo tale principio, se si produce sofferenza o si interferisce negativamente nel Dharma (legge universale) si produce karma negativo; se al contrario si fa del bene, si produce karma positivo e nella vita corrente e in quelle successive si pagherà o si verrà ripagati per le azioni compiute precedentemente (McDermott 2003). L’influenza esercitata dall’India e dalla religione induista negli anni Sessanta era talmente forte che una persona in quegli anni veniva giudicata sulla base delle vibrazioni, vibes, che emanava con la sua presenza e con il suo stato d’animo, a seconda che queste fossero «buone» o «cattive» (Norman 1981: 487). Questa strofa fa riferimento anche al grande consumo di droga del tempo, di marijuana ma anche di acidi, come LSD, di cui gli stessi Beatles, primo fra tutti John Lennon, facevano uso. Infatti, l’assunzione di queste sostanze causa la dilatazione e spesso l’arrossamento delle pupille: proprio da questa reazione potrebbe nascere l’espressione joo joo eyeball. Inoltre, il fatto che quest’uomo possa essere drogato può trovare conferma nel verso precedente, in cui, secondo la mia prima interpretazione, viene affermato che si trascina o comunque si muove lentamente, effetto tipico della droga, che rallenta le capacità percettive oppure, prendendo in considerazione la mia seconda ipotesi, per cui il nostro personaggio «sta andando pian piano su di giri», il verso troverebbe comunque conferma in quanto lo sguardo “fatto” non sarebbe altro che frutto dell’effetto della droga.

2.4 Quarto verso
He one holy roller
2.4.1 Commento testuale
Anche in questo verso vi è l’omissione del verbo essere (to be), più precisamente della terza persona singolare is. La definizione che i principali dizionari monolingui riportano di holy roller è quella di una parola utilizzata prevalentemente in senso dispregiativo che indica «qualunque membro di una confessione religiosa che esprima la propria devozione attraverso urla e gesti violenti» (definizione tratta da American 2000), addirittura «rotolandosi sul pavimento, sotto l’effetto dello Spirito Santo» (Mo’ Urban 2005), come riportano alcuni dizionari di slang. Ritengo però che tale definizione in questo contesto possa essere esclusa. Se quindi si analizzano separatamente le due parole, si nota che l’aggettivo holy oltre a significare «santo», «sacro», «consacrato», «devoto», «religioso» (Picchi 2007), viene utilizzato come rafforzativo con il significato di «vero» (Ragazzini 2005), «veramente», «vero e proprio». Se si analizzano i significati della parola roller, uno che a mio avviso potrebbe sembrare plausibile in questo contesto è quello di «chi deruba uno che dorme o è ubriaco» (Ragazzini 2005). Il verso He one holy roller potrebbe essere reso con l’espressione «è veramente uno che deruba gli ubriachi» e pertanto ricollegarsi alle affermazioni fatte nei versi precedenti ed essere un vagabondo drogato che vive derubando la gente in modo subdolo. Ma se si considera il verbo to roll, tra i vari significati vi è quello di «farsi una canna» (Mo’ Urban 2005) e partendo dal presupposto che il suffisso -er nella parola roller indica colui che compie l’azione di roll, l’espressione potrebbe essere resa con «è proprio uno che si fa un sacco di canne», che ritengo la traduzione migliore per questo contesto.
2.4.2 Commento culturale
La Cannabis sativa in quegli anni, come del resto la droga in generale, era molto in voga tra i giovani, soprattutto in certi ambienti alla moda, in cui aveva cominciato a prendere piede l’usanza di preparare una canna per poi «passarsela» (Norman 1981: 338-339). In Inghilterra, fino a quel momento, la marijuana e lo hashish, resina della canapa indiana, venivano usati soprattutto dagli immigrati delle Indie occidentali per alleviare la miseria in cui vivevano. Ora, come «erba» o «hash», erano diventate un oggetto fondamentale del comportamento sociale. Il fatto che la Cannabis fosse illegale non preoccupava nessuno, in quanto inizialmente non vi era controllo da parte delle autorità (Norman 1981: 338-339). Anche l’LSD era molto di moda e soprattutto accessibile: nel 1967 a Londra era infatti possibile comprare una pastiglia di LSD per meno di una sterlina (Norman 1981: 414).

2.5 Quinto verso
He got hair down to his knee.
2.5.1 Commento testuale
Ancora una volta si riscontra l’abbreviazione della forma completa del verbo to have got nella terza persona singolare e la mancanza del suffisso -s nella parola knee («ginocchio») che denota il plurale. Ci viene qui fornita dall’autore un’ulteriore indicazione sul nostro personaggio: ha i capelli lunghi sino alle ginocchia.
2.5.2 Commento culturale
Il protagonista del testo potrebbe essere quindi un ragazzo con i capelli lunghi, probabilmente un hippie, tra i quali all’epoca si registrava un forte consumo di droga. È opportuno inoltre ricordare che in quegli anni il fatto che un uomo portasse i capelli lunghi (fatto che oggi viene considerato del tutto normale) era una cosa inammissibile per la società istituzionale: in Inghilterra l’unico taglio di capelli presente e “consentito” per gli uomini era il taglio militare. Gli ultimi anni del decennio, in particolare, vengono anche ricordati per aver simboleggiato per un’intera generazione gli anni “dell’amore”, “della pace”, “della fratellanza”, “del potere dei fiori”. Gli hippie in quegli anni hanno dato vita a una vera e propria cultura, che ha avuto inizio negli USA quando un gruppo di beatnik (beats, membri della Beat Generation) si trasferì nel quartiere di Haight-Ashbury di San Francisco dove creò la prima comune. Gli hippie avevano i capelli lunghi, indossavano tuniche dai colori sgargianti, pantaloni a zampa di elefante, gilé, copricapi e bandane simbolo della cultura indiana, portavano sandali o camminavano a piedi nudi, si comportavano con estrema calma e tranquillità e, con ogni pretesto possible, si offrivano reciprocamente dei fiori. Avevano creato delle proprie comunità in cui ascoltavano rock psichedelico e abbracciavano la rivoluzione sessuale, la filosofia orientale, l’importanza dello spirito e delle droghe; respingevano invece con forza le istituzioni, criticavano i valori della classe media, erano contrari all’uso delle armi nucleari ed erano divenuti simbolo della protesta contro la guerra nel Vietnam, che aveva suscitato sdegno e biasimo in tutto il mondo e che si era tradotta in un’ondata di sentimenti pacifisti, facendo presa non solo fra le persone più eccentriche e i beatnik, ma anche tra i “normali” adolescenti, che andavano ad accrescere le diverse comuni hippie che stavano nascendo in tutto il mondo. Va inoltre ricordato che la marijuana per loro, come anche l’LSD, rappresentava il simbolo della fratellanza hippie, l’iniziazione alla credenza hippie, secondo la quale attraverso le droghe era possibile raggiungere un grado più elevato di saggezza e umanità (Iannaccone 2008) (Miles 2004) (Filippetti 1973) (Vidal 1972) (Bonaventura 1972) (Conti Guglia 1982) (Pivano 1972).

2.6 Sesto verso
Got to be a joker he just do what he please.
2.6.1 Commento testuale
Anche qui si riscontra l’omissione da parte dell’autore sia del soggetto, che resta sottinteso (he), sia della particella del verbo avere has. L’espressione got to be indica una certezza; la parola joker, se riferita come in questo caso a una persona, tra i vari significati presenta quello di «una persona che fa battute o scherzi» o, con un’accezione negativa, «una persona insolente», «noiosa», «incapace», «insignificante», «sgradevole» (definizione tratta da American 2000). In questo contesto ritengo che joker significhi «burlone» (Ragazzini 2005), nel senso che si tratta di una persona a cui piace scherzare e prendere le cose «alla leggera», dato che la seconda parte del verso può essere resa con «fa solo quello che gli piace». Il verso indica la presenza di uno “spirito libero”, che non segue nessuna regola imposta, ma che fa solamente ciò che gli dà piacere e lo diverte, incurante di ciò che, invece, sarebbe più sensato o opportuno fare (Miccoli 1998), secondo il pensiero comune. Ancora una volta si nota l’omissione da parte dell’autore del suffisso -s della terza persona singolare sia nel verbo please che nel verbo do, a indicare appunto il suo rifiuto delle regole imposte, in questo caso grammaticali.
2.6.2 Commento culturale
Come ho già accennato nell’introduzione, una delle caratteristiche degli anni Sessanta è un nuovo modo di rapportarsi, frutto della «libertà istintuale» che contraddistingue il nuovo atteggiamento dei giovani, ormai stufi di sentirsi soffocati da una sorta di autocontrollo, dettato dalla cultura precedente (Fenoglio 2009). Per «libertà istintuale» intendo che i giovani lasciano ora spazio ai propri istinti, fino a quel momento repressi, soprattutto per quanto concerne la sfera emotiva e sessuale. Ora non vogliono più avere paura di manifestare i propri sentimenti, non hanno più timore del giudizio altrui o della morale comune: vogliono solamente fare ciò che piace loro, come fa il joker descritto nel verso.

2.7 Settimo verso
He wear no shoe shine
2.7.1 Commento testuale
Anche in questo verso si nota la mancanza del suffisso -s nel verbo wear, che caratterizza la terza persona singolare. Prosegue la descrizione fisica del personaggio. Il verbo to wear significa qui «portare», «indossare», «vestire», «avere addosso» (Ragazzini 2005); la parola shoe shine, da cui si desume che al tempo si scriveva staccata, dove shoe significa «scarpa» e shine «lucentezza», «luccichio», «splendore» (Picchi 2007), è diventata poi parola unica (shoeshine) che significa «lustrata», «lucidatura» (Ragazzini 2005). Letteralmente quindi la strofa He wear no shoe shine significa «non indossa/porta lucidatura», che a mio avviso può essere meglio resa con «non porta scarpe lucidate», «non si lucida le scarpe».
2.7.2 Commento culturale
Anche il fatto di non portare scarpe lucidate era un segno di anticonformismo. Infatti, fino ad allora, i ragazzi erano soliti indossare scarpe ben lucidate. La moda delle scarpe Clarks, simbolo ancora oggi di comodità e di stile casual, esplode proprio in quegli anni: le Clarks diventano un’icona durante le contestazioni studentesche con i «regolari» che le sceglievano di camoscio chiaro o marrone e i «dropout» che invece le portavano con le stringhe rosse. La casa produttrice inglese delle Clarks viene fondata nel 1852 dai fratelli Cyrus e James Clarks. Nasce come fabbrica di pantofole in pelle di pecora, per poi passare alla produzione di tappeti e calze di lana d’agnello, e affermarsi infine nel 1950 con il lancio degli scarponcini Desert Boots, ideati da Nathan Clark (pronipote di James Clark) e ispirati ai comodi stivaletti scamosciati indossati dall’esercito inglese in partenza per la Birmania durante la Seconda guerra mondiale e portati al successo da Steve McQueen che le indossa nel film La grande fuga. In Italia arrivano nel 1968 e hanno subito un successo strepitoso che perdura ancora oggi (De Lucia Lumeno 2009) (Salza 2008-2009).

2.8 Ottavo verso
He got toe jam football
2.8.1 Commento testuale
Anche in questo verso si riscontra nuovamente l’abbreviazione del verbo «avere» alla terza persona singolare (he got anziché he has got). La parola toe jam football non è presente nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma la si trova all’interno di alcuni dizionari di slang come l’Urban Dictionary, il che ne attesta un certo uso. Secondo il dizionario, la parola toe jam football significa «to sit while picking funk from under your toenails or even in between them (it comes from after a long day on your feet); you produce this shit into a ball, then you try to fling a booger towards someone in the room you are in» (Mo’ Urban 2005), ovvero «sedersi mentre ci si pulisce lo sporco che si accumula sotto le unghie dei piedi o anche tra le dita (si forma tra le dita dei piedi dopo un’intera giornata) per poi formarne una pallina per lanciarla addosso a qualcuno». La parola toe jam, presente in molti dizionari di slang, viene infatti definita come «that grey-brown shit that accumulates between your toes. Primaly composed of dead skin cells, sock fluff and sweat» (Mo’ Urban 2005) ovvero «quella cosa dal colore grigio-marrone che si accumula tra le dita dei piedi, composta principalmente da cellule morte, pelucchi di calze e sudore; o ancora come black gunk under the toe nails or between the toes (Slang-Dictionary.org 2008), cioè «sostanza appiccicosa sotto le unghie o tra le dita dei piedi».
2.8.2 Commento culturale
L’uomo che ci viene descritto potrebbe essere una persona che si lava poco o che ha i piedi sporchi, molto probabilmente proprio perché si tratta di un hippie, solito a camminare scalzo e inevitabilmente a sporcarsi i piedi. Ovviamente parlare di queste cose, e i comportamenti stessi, sono elementi di trasgressione, anche se non collegata ad alcuna protesta politicizzata.

2.9 Nono verso
He got monkey finger
2.9.1 Commento testuale
Anche qui si ritrova l’abbreviazione della terza persona singolare del verbo «avere» e si nota di nuovo la mancanza del suffisso -s indicante il plurale nella parola finger. L’espressione «to have monkey finger», che inizialmente potrebbe sembrare una frase fatta, in realtà non lo è: infatti non compare nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma se ne trova una definizione all’interno del dizionario Urban Dictionary, che è la seguente: «that digit which, having been withdrawn from an anus, is now dry and whose owner is inclined to sniff repeatedly and contentedly along the length of it» (Mo’ Urban 2005), ovvero «quel dito infilato precedentemente nell’ano e poi annusato ripetutamente e con soddisfazione per tutta la sua lunghezza».
2.9.2 Commento culturale
La bromidrophilia è una perversione nota alla letteratura medica, per cui una persona prova eccitazione o comunque piacere nell’annusare gli odori corporei. È alquanto evidente che l’autore in questo verso come in quello precedente desidera scandalizzare anche attraverso l’uso di contenuti forti, con l’intento di provocare il “borghese” benpensante che sicuramente si inorridirebbe a sentir parlare di mettersi le dita nel sedere per poi annusarle oppure, come sopra, fare delle palline con la sporcizia che si accumula tra le dita dei piedi e sotto le unghie per poi lanciarle addosso a qualcuno.
2.10 Decimo verso
He shoot Coca Cola
2.10.1 Commento testuale
Anche in questo verso si nota l’omissione del suffisso -s nel verbo shoot, che denota la terza persona singolare. Il verbo to shoot presenta diversi significati e può essere sia transitivo che intransitivo. Se usato come transitivo significa «sparare a (o con)» (Ragazzini 2005), «fare fuoco» (Picchi 2007), «andare a caccia (di)», «cacciare», «abbattere (con il fucile)», «colpire», «ferire», «uccidere (con un’arma da fuoco)», «scaricare (un’arma da fuoco)» (Ragazzini 2005), «fare scoppiare» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009), mil. «fucilare», ind. min. «brillare», «sparare (una mina)» (Ragazzini 2005), «emettere (forme di energia)» (definizione tratta da American 2000), «gettare», «scagliare», «lanciare», «scoccare (arco)», «attraversare velocemente», falegnam. «piallare bene» (Ragazzini 2005), «iniettare», «iniettarsi (droga)», «bucarsi», bot. «germogliare», «spuntare», «tirare», «calciare verso la porta» (Picchi 2007), «sprecare» (definizione tratta da American 2000), «girare(film)», «determinare l’altezza di un astro» (Ragazzini 2005), «lanciare», «mandare», «muovere con rapidità, «scagliare», «passare velocemente», «superare rapidamente» (Picchi 2007). Se usato come intransitivo significa «sparare», «tirare (con un’arma da fuoco)», «andare a caccia (col fucile)» (Ragazzini 2005), «lanciarsi», «scagliarsi», «dirigersi a tutta velocità» (Picchi 2007), «apparire all’improvviso» (definizione tratta da American 2000), «parlare» o ancora «mettere le foglie», «germogliare» (Ragazzini 2005), «fotografare» (definizione tratta da American 2000), di film «girare», «riprendere» (Ragazzini 2005), di dolori «sentirsi a fitte», di luce «diffondersi», «irradiarsi» (Picchi 2007), «(volg.) eiaculare», «vomitare» (Ragazzini 2005). In questo caso il verbo è seguito dalla parola Coca Cola, nota bevanda analcolica statunitense. L’autore a mio avviso gioca qui con le parole: uno dei significati di shoot è quello di «bucarsi», «iniettarsi» (Picchi 2007), che presenta quindi un chiaro riferimento alla droga, come pure Coca Cola in quanto essa richiama la parola cocaine, «cocaina». Esiste infatti l’espressione to shoot cocaine e to shoot up cocaine poiché la cocaina, come l’eroina, si può iniettare, diluendola in acqua sterile. Si tratta però di un metodo molto rischioso perché attraverso l’iniezione si immette la droga direttamente nel sangue, provocando effetti istantanei e più intensi, rispetto ad altri metodi di assunzione della sostanza, e quindi se la sostanza non è pura aumentano i rischi di morte. Un’altra ipotesi potrebbe essere l’uso del verbo shoot con il significato di «sparare(si) una Coca Cola», nel senso di «bere», «farsi una Coca Cola», ma ritengo che in questo contesto sia più valida la prima interpretazione.
2.10.2 Commento culturale
La canzone venne bandita dalla BBC (Franzoni, Taormina 1992) proprio con la scusa del riferimento esplicito alla bevanda (o forse proprio a causa del riferimento esplicito alla droga), che venne considerato pubblicità.

2.11 Undicesimo verso
He say I know you, you know me.
2.11.1 Commento testuale
Qui l’autore riporta un discorso diretto e anche qui si nota che al verbo say manca il suffisso -s della terza persona singolare. Il verso può essere tradotto con: «dice io conosco te, tu conosci me».
2.11.2 Commento culturale
Indubbiamente la strofa testimonia ancora una volta un modo molto aperto e diretto di rapportarsi con gli altri, tipico di quegli anni, che in questo specifico caso riguarda la sfera sessuale. L’espressione I know you, you know me è un chiaro invito a fare sesso, del tipo «io conosco te, tu conosci me, quindi perché non dovremmo fare sesso?». Queste parole e soprattutto questo modo molto diretto di approccio nei confronti del sesso sono frutto della libertà sessuale che esplode negli anni Sessanta e che può essere riassunta dalle espressioni «amore libero» e «rivoluzione sessuale». La rivoluzione sessuale avviene proprio in quegli anni e produce un sostanziale cambiamento dei valori nel campo della sessualità, non tanto in termini di rottura rispetto ai costumi fino a quel momento in uso, bensì di una liberazione, dopo un periodo di forte chiusura tra gli anni Trenta e Cinquanta. Durante il periodo della guerra fredda negli USA vigeva un forte puritanesimo, che si scontrava con comportamenti sessuali del tutto naturali. Questo puritanesimo soffocante causa negli anni Sessanta quella ribellione culturale che si trasforma in rivoluzione sessuale e che produce profondi cambiamenti nel comportamento sessuale dei giovani, il che significa che essi praticavano sesso con maggiore frequenza, sperimentandone nuove forme, ma anche che se ne parlava più apertamente, senza timore di essere tacciati di malcostume. A testimonianza di ciò, cito un sondaggio svoltosi in Gran Bretagna, che ritengo particolarmente significativo per dimostrare il cambiamento di atteggiamento nei confronti del sesso avvenuto negli anni Sessanta. Secondo questo sondaggio, nel 1951 solamente il 51% delle donne intervistate aveva dichiarato che il sesso era molto importante all’interno del matrimonio, nel 1969 invece la percentuale era salita al 67% (Gorer 1970: 91).

2.12 Dodicesimo verso
One thing I can tell you is you got to be free.
2.12.1 Commento testuale
Anche qui viene riportato un discorso diretto, le parole pronunciate dal protagonista. È come se l’autore utilizzasse il protagonista del testo per comunicare al lettore/ascoltatore ciò che in realtà è un suo messaggio; è come se l’autore facesse parlare il protagonista del testo con le sue parole. È possibile inoltre notare nuovamente l’omissione della particella have del verbo «to have got». Il verso può essere tradotto con: una cosa che ti (vi) posso dire è che devi (dovete) essere libero(i). Come accennavo in precedenza, questo è chiaramente un messaggio di libertà che l’autore lancia a tutti i lettori/ascoltatori in modo esplicito. Qui viene dichiarato palesemente ciò che l’autore ci aveva già fatto intuire attraverso l’uso delle parole, attraverso cioè la volontà di non voler seguire le regole grammaticali comunemente in uso.
2.12.2 Commento culturale
Il messaggio di libertà contenuto nel verso si riallaccia al verso precedente e all’invito a fare sesso. Con l’avvento della rivoluzione sessuale si afferma una cultura maggiormente permissiva nei confronti della libertà e della sperimentazione sessuale: si comincia a parlare di «amore libero», anche grazie a importanti scoperte, tra cui lo sviluppo di antibiotici che rendevano possibile curare la maggior parte delle malattie veneree, attenuando così il pericolo di malattie sessualmente trasmissibili come la sifilide; l’avvento della contraccezione orale nel 1960, a partire dagli USA, (in Italia la pillola viene commercializzata solo a partire dal 1972) e quindi la possibilità di avere rapporti sessuali più liberi, ma anche importanti progressi nel campo della scienza, che hanno reso meno rischioso l’aborto. Anche per quanto concerne il cinema, si assiste a una progressiva liberazione sessuale: uomini e donne bellissime diventano vere e proprie icone, scritturate in film in cui vi sono scene d’amore romantiche. Era ormai diventato più accettabile mostrare segni d’affetto in pubblico e la presenza di almeno una scena d’amore in ogni film era considerata la norma. La nudità sugli schermi comincia a mostrarsi sempre di più, in concomitanza con una maggiore tolleranza della gente nei confronti della nudità parziale degli uomini e all’esibizione dei seni delle donne. Nasce un vero e proprio genere di attrici, famose perché particolarmente dotate di sex appeal: Mae West, Marilyn Monroe, Raquel Welch, Brigitte Bardot, solo per citarne alcune. Anche per quanto concerne la letteratura con contenuti erotici, vi è una vera e propria apertura tra il 1959 e il 1966, attraverso l’abolizione della censura fino ad allora applicata a libri dal contenuto particolarmente «piccante», tra cui L’amante di Lady Chatterley, Tropico del Cancro e Fanny Hill. In precedenza infatti erano stati attuati dei controlli molto rigidi su ciò che poteva o non poteva essere pubblicato e questi tre libri in particolare erano stati messi al bando negli USA e nella maggior parte dei paesi europei. Il romanzo L’amante di Lady Chatterley fu pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1928 e subito messo al bando in USA e in Europa: solo nel 1959 la casa editrice statunitense Grove Press ne pubblicò l’edizione integrale, che venne pubblicata in Gran Bretagna un anno più tardi, nel 1960 (Micorsoft 1997-2008). Per le stesse ragioni, il romanzo di Henry Miller Tropico del Cancro non poté essere pubblicato negli USA, ma l’edizione del romanzo pubblicata nel 1934 dalla Obelisk Press di Parigi, vi arrivò ugualmente di contrabbando. Negli USA venne pubblicato per la prima volta dalla Grove Press nel 1961 e scatenò una serie di denunce per oscenità, che accompagnarono Miller per tutta la vita e contribuirono a modificare per sempre la legislazione statunitense sulla censura. La pubblicazione del romanzo venne definitivamente permessa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti solamente dopo un estenuante iter giudiziario, quando la Corte Suprema cancellò l’accusa di oscenità mossa in precedenza, conferendo la natura di “opera d’arte” al romanzo di Miller, segnando così uno dei momenti cruciali della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta (Frati 2007); nel 1965 invece la Putnam pubblicò Fanny Hill di John Cleland, la cui prima pubblicazione risale addirittura al 1749. La decisione della Corte Suprema del 1966 di legalizzarne la pubblicazione integrale ebbe un effetto importantissimo: liberò gli scrittori dalla paura di azioni legali e cominciarono così ad apparire numerose opere riguardanti il sesso e la sessualità. Per quanto concerne il Regno Unito, i primi indizi di cambiamento si videro nel 1960, quando il governo cercò senza successo di perseguire per oscenità la Penguin Books per la pubblicazione de L’amante di Lady Chatterley, messo al bando fin dagli anni Venti.

2.13 Tredicesimo verso
Come together right now over me.
2.13.1 Commento testuale
È il ritornello del testo che può essere tradotto con: «vieni adesso insieme (a me), sopra di me». È un vero e proprio richiamo del protagonista, attraverso il quale invita energicamente e senza nessun tipo di inibizione la donna con cui vuole fare sesso a venirgli sopra. Questo verso non è altro che il culmine della discussione iniziata nei due versi precedenti dal nostro personaggio con un’ipotetica donna che desidera: nell’undicesimo verso si rivolge alla donna dicendole I Know you, you know me: un invito implicito a fare sesso; nel verso successivo con le parole One thing I can tell you is got to be free cioè, «una cosa che ti posso dire è che devi essere libero/a», è come se egli cercasse di convincerla ad andare assieme a lui; è come se la donna fosse un po’ titubante e lui stesse cercando di convincerla, invitandola a non pensare a nulla, ma a lasciarsi andare; in questo verso infine, attraverso le parole Come together right now over me, la richiama in modo molto esplicito, un po’ come se fosse stufo di parlare per cercare di convincerla e volesse passare ai fatti. L’espressione che utilizza richiama un’immagine molto forte, soprattutto nelle parole over me, «sopra di me». Va sottolineato inoltre che nell’espressione «vieni insieme» a cui l’autore richiama riecheggia l’allusione sessuale al verbo to come (Miccoli 1998). Questo ci conferma un altro aspetto del testo, nonché caratteristica peculiare del modo di scrivere di Lennon: quello del gioco, che nel testo si traduce nei pun, giochi di parole.
2.13.2 Commento culturale
Anche in questo verso si ritrova il tema della libertà sessuale, discusso nei due versi precedenti. Il ritornello fu ispirato a Lennon anche dalla campagna politica di Timothy Leary, psicologo licenziato dalla Harvard per aver condotto esperimenti sulle proprietà psichedeliche dell’LSD, per la sua candidatura a governatore della California, il cui slogan era Come together, join the party. Su richiesta di Leary, Come Together doveva essere la canzone politica che avrebbe accompagnato i suoi comizi contro Ronald Reagan, ma Leary venne arrestato per possesso di marijuana e sconfitto politicamente (The Beatles Bible 2008). John scrisse così un nuovo testo che propose ai Beatles, i quali registrarono subito la canzone.

3. Riferimenti bibliografici

Bonaventura, Caloro. (1972). Viaggio nel mondo hippy, Firenze: Le Monnier.
Castaldo, Gino. (1994). La Terra Promessa. Quarant’anni di cultura rock 1954-1994, Milano: Feltrinelli.
Conti Guglia, Carmelo. (1982). Un prete con gli hippies a Trinità dei Monti, Roma: San Paolo.
De Lucia Lumeno, Alessandra. (2009). «Il mito delle Clarks/Le scarpe che hanno fatto la storia». Blogonomy-il blog di economy, disponibile in internet all’indirizzo http://www.blogonomy.it/2009/01/14/il-mito-delle-clarks-le-scarpe-che-hanno-fatto-la-storia/, consultato nel gennaio 2009.
Fenoglio, Paolo. (2009). I Beatles e il movimento giovanile degli anni Sessanta, conferenza presso Dipartimento di lingue della Fondazione Scuole Civiche di Milano, 12 gennaio 2009.
Filippetti, Antonio. (1973). I Figli dei fiori, i testi letterari degli hippies, Torino: E.R.I.
Franzoni, Donatella, Taormina, Antonio. a cura di (1992). Beatles. Tutti i testi 1962-1970, Milano: Arcana.
Frati, David. (2007). «Henry Miller». Mangialibri, disponibile in internet all’indirizzo http://www.mangialibri.com/node/57, consultato nel febbraio 2009.
Gorer, Geoffrey. (1970). Sex and Marriage in England Today, London: Thomas Nelson & Sons Ltd.
The American Heritage Dictionary of the English Language: Fourth Edition. (2000). Bartleby.com, Houghton Mifflin Company, disponibile in internet all’indirizzo http://www.bartleby.com/, consultato nel febbraio 2009.
Iannacone, Mario Arturo. (2008). Rivoluzione psichedelica, Milano: Sugarco.
McDermott, James Paul. (2003). Development of the Early Buddhist Concept of Kamma/Karma, New Delhi: Munshiram Manoharlal Pubblishers Pvt.
Merriam-Webster (2009). Merriam Webster online, disponibile in internet all’indirizzo http://www.merriam-webster.com/, consultato nel febbraio 2009.
Miccoli, Marta. (1998). Parola di Beatles. Analisi del testo verbale nell’opera dei Beatles, tesi di laurea, Università degli Studi di Bari.
Microsoft Corporation. (1997-2008). «L’amante di Lady Chatterley». Microsoft Encarta Enciclopedia Online 2008, disponibile in internet al sito http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_1041500358/L%E2%80%99amante_di_Lady_Chatterley.html, consultato nel febbraio 2009.
Miles, Barry. (2004). Hippy. Miti, Musica e cultura della generazione dei figli dei fiori, Modena: Logos.
Mo’ Urban Dictionary: Ridonkulous Street Slang Defined. (2005). «Urban Dictionary», San Francisco: Andrews McMeel; disponibile in internet all’indirizzo http://www.urbandictionary.com/, consultato nel febbraio 2009.
Norman, Philip. (1981). Shout! La vera storia dei Beatles, traduzione di Michele Lo Buono, Milano: Arnoldo Mondadori.
Osimo, Bruno. (2004). La traduzione totale, Udine: Forum.
Picchi, Fernando. (2007). Il grande inglese 2008. Dizionario inglese/italiano italiano/inglese, Milano: Hoepli.
Ragazzini, Giuseppe. (2005). Il Ragazzini 2006. Dizionario inglese italiano/italiano inglese, Bologna: Zanichelli.
Salza, Laura. (2008-2009). «Clarks». Dizionario della Moda, disponibile in internet all’indirizzo http://dellamoda.it/fashion_dictionary/c/clarks.php, consultato nel gennaio 2009.
Slang-Dictionary.org. (2008). Slang-Dictionary.org, disponibile in internet all’indirizzo http://www.slang-dictionary.org/, consultato nel febbraio 2009.
The Beatles Bible. (2008). «Come Together». The Beatles Bible, disponibile in internet all’indirizzo http://www.beatlesbible.com/songs/come-together/, consultato nell’ottobre 2009.
Vidal, Luc. (1972). La strada. Il mio diario di hippy, Roma: Città nuova.

4. Bibliografia

Adinolfi, Francesco. (2000). Mondo exotica. Suoni, visioni e manie della Generazione Cocktail, Torino: Einaudi.
Aldridge, Alan. a cura di (1972). Il libro delle canzoni dei Beatles, traduzione di Umberto Santucci, Milano: Arnoldo Mondadori.
Aldridge, Alan. a cura di (1980).The Beatles illustrated Lyrics 2, New York: Dell.
Apple (2009). The Beatles, disponibile in internet all’indirizzo http://www.beatles.com/core/home/, consultato nel gennaio 2009.
Arnao, Giancarlo. (2005). Cannabis. Uso e Abuso. Viterbo: Nuovi Equilibri.
Asak & Co. (2009). «La storia». www.clarks.it, disponibile in internet all’indirizzo http://www.asak.it/storia/storia.html, consultato nel gennaio 2009.
Babylon (2008). Lingoz Beta, disponibile in internet all’indirizzo http://www.lingoz.com/it/, consultato nel febbraio 2009.
Bnc Webmaster. (2009). 2005, British National Corpus, a cura di Lou Burnard. University of Oxford. Disponibile in internet all’indirizzo http://www.natcorp.ox.ac.uk/, consultato nel febbraio 2009.
Choukri, Sam. (2005). «Bagism», disponibile in internet all’indirizzo http://www.bagism.com/, consultato nel gennaio 2009.
Cott, Jonathan e Dalton, David. (1969). The Beatles get back, London: Apple.
Davies, Hunter. (1970). I Beatles, traduzione di Bruno Oddera, Milano: Longanesi.
Du Noyer, Paul. (1997). La Storia dietro ogni canzone di John Lennon 1970-1980, traduzione di Stefano Focacci, Firenze: Tarab.
Duckworth, Ted. (1996-2009). «A Dictionary of Slang», disponibile in internet all’indirizzo http://www.peevish.co.uk/slang/, consultato nel febbraio 2009.
Gabrielli, Aldo. (2007). Il grande italiano 2008, Milano: Hoepli.
georgeharrison.com, disponibile in internet all’indirizzo http://georgeharrison.com/, consultato nel dicembre 2009.
Google (2009). «Google», disponibile in internet all’indirizzo http://www.google.it/, consultato nel febbraio 2009.
I Beatles per sempre (1982). A cura di Helen Spence, traduzione di Tina Verni Roma: Fratelli Gallo.
Impulse Communications. (2001). SlangSite.com, disponibile in internet all’indirizzo http://www.slangsite.com/, consultato nel febbraio 2009.
Indiana University. (2009). «Street drug slang dictionary», disponibile in internet all’indirizzo http://www.drugs.indiana.edu/drug-slang.aspx, consultato nel febbraio 2009.
John Lennon the official site, disponibile in internet all’indirizzo http://johnlennon.com/html/news.aspx, consultato nel dicembre 2009.
Liberweb srl. (2001). «John Cleland. Funny Hill». Liber on web, disponibile in internet all’indirizzo http://www.liberonweb.com/asp/libro.asp?ISBN=8831776533, consultato nel febbraio 2009.
Marwick, Arthur. (1991). Culture in Britain since 1945, Oxford-Cambridge (Massachusetts): Basil Blackwell.
MPL Communications Ltd/Paul McCartney. (2009). Paul McCartney.com, disponibile in internet all’indirizzo http://www.paulmccartney.com/index.php, consultato nel dicembre 2009.
Osimo, Bruno. (2001). Propedeutica della Traduzione, Milano: Hoepli.
Pivano, Fernanda. (1972). Beat Hippie Yippie, Roma: Arcana.
Pivano, Fernanda. (1976). C’era una volta un Beat. 10 anni di ricerca alternativa, Milano: Frassinelli.
Sessa, Alessandro. (2009). «Beatles-Abbey Road». Ondarock, disponibile in internet all’indirizzo http://www.ondarock.it/pietremiliari/beatles_abbey.htm, consultato nel gennaio 2009.
Simon, Paul, Garfunkel, Art. (1966-1969) Simon and Garfunkel’s Greatest hits. All Organ, Anchor Press: Tiptree.
SlangDictionary.com. (2009). Slang Dictionary.com, disponibile in internet all’indirizzo http://www.slangdictionary.com/, consultato nel febbraio 2009.
Starr, Ringo. (2006). Ringo Starr official Site, disponibile in internet all’indirizzo http://www.ringostarr.com/home.php, consultato nel dicembre 2009.
Wells, Simon. (2005). 365 Giorni con i Beatles, a cura di Andrea Danese. Traduzione Adriana Raccone. Vercelli: White Star.
YouTube, LLC. (2009). Disponibile in internet all’indirizzo http://www.youtube.com/, consultato nel febbraio 2009.

5. Ringraziamenti

Ringrazio i miei genitori, il mio ragazzo Mattia e la mia migliore amica Elisa per avermi supportato e “sopportato” nei momenti più difficili di questi tre anni.

Ringrazio Bruno Osimo, il mio relatore, e Cynthia Bull, la mia correlatrice, per la grande disponibilità dimostratami e per avermi seguita con passione e interesse nella stesura della tesi.

Un sentito grazie anche a Gaetana e a Nando, grandi fans dei Beatles, per il prezioso materiale messomi gentilmente a disposizione.

Montague Ullman Dreaming as a Metaphor in Motion Tesi di Maryam Romagnoli Sacchi

Montague Ullman Dreaming as a Metaphor in Motion Tesi di Maryam Romagnoli Sacchi

Fondazione Scuole civiche di Milano Istituto superiore interpreti e traduttori via A. Visconti 18 20151 Milano

Relatore: Professor Bruno Osimo Correlatore: Professor Vincenzo Bonini

Diploma di mediazione linguistica 17 ottobre 2002

1

The Dream is a law to itself; and as well quarrel with a rainbow for showing, or for not showing, a secondary arch. The Dream knows best, and the Dream, I say again, is the responsible party.—De Quincey

THERE is a timely need for the revision of dream theory along the following lines: (1) away from metapsychological speculation about dream origins, functions, form, and structure; (2) toward seeing the dream as an aspect of a total behavioral response; (3) toward examining the formal characteristics of dream thought in their intimate association with the altered level of brain function occurring at the time; (4) toward an examination of content as derivative of a social existence that in turn has unknown as well as known dimensions; and (5) toward the development and application of techniques for translating the dream metaphor that are not derived from or limited by specific theoretical systems.

The first four points have been considered in earlier communications1234. This presentation will address itself, in the main, to the last point.

Since the properties of metaphor as revealed in the dream will be our concern, let us begin with a dictionary definition of the term:

Metaphor.—”A figure of speech in which one object is likened to another by asserting it to be that other or speaking of it as if it were the other” (Funk and Wagnall’s New Standard Dictionary of the English Language, 1928). The roots are from the Greek meta meaning over and phero, meaning bear. Brown5 refers to metaphor as “the name for the utterance that suggests its referent through a transfer of meaning.”

Langer writes of metaphor as an instrument of abstraction. It comes into play in situations where an idea is genuinely new. It has no name and there is no word to express it. “When new unexploited possibilities of thought crowd in upon the human mind the poverty of everyday language becomes acute.”6 A process of abstraction is necessary before meaning can be grasped

2

as a thing apart from its concrete presentational aspects. Where the gap exists in situations of this sort it is through the use of metaphor that we can take a conceptual leap forward and establish an initial abstract position in relation to a new element in experience.

Langer7 also notes the paradoxical features of this kind of abstract thought and this is a point of crucial significance in connection with dreaming. She points out that the use of metaphor implies that abstract thinking is going on in a paradoxical sense. Metaphor is essentially a conceptualizing process but one that uses concrete imagery as the instrument for arriving at the abstraction.

If we extend the concept of metaphor to include the visual mode, we may restate its essential characteristics as follows as a first step in exploring its applicability to dream phenomena:
1. Metaphor involves the use of word or image in an improbable context.
2. This is done in order to capture and express a level of meaning that is freshly arrived at and in that sense new. (We are concerned with “live” metaphors rather than “faded” or “dead” ones referred to by linguists.)

3. The use of metaphor creates a greater impact and is more revealing of essential features than a literal statement.

Our main thesis is that dreaming involves rapidly changing presentational sequences which in their unity amount to a metaphorical statement (major metaphor). Each element (minor metaphor) in the sequence has metaphorical attributes organized toward the end of establishing in a unified way an over-all metaphorical description of the new ideas and relations and their implications as these rise to the surface during periods of activated sleep. In contrast to the brain-damaged patient in whom the power of abstraction is lost, the dreamer retains his abstracting ability. The physiologically altered brain milieu, however, does exert a limiting influence.

3

The dreamer’s abstracting powers are limited to the manipulation of concrete images.

Let us now consider dreaming in the light of the three properties of metaphor described above.

Context.—In the dream images do appear in improbable contexts. In fact, this is one of the features distinguishing cognitive content during activated sleep from content recoverable during other phases of sleep. Incongruity of elements, inappropriate relations, displacement, are all well known attributes of dreams.

Newness.—The value of dreams in therapy lies in the fact that they do say something new or at least new in the sense of its unfamiliarity to waking consciousness. Unless this were so, dreams would hardly be worth pursuing. It is the nature of the newness that has to be defined. It is precisely around this question that classical psychoanalytic notions about dreaming have been challenged by a host of critical comment converging from such disparate sources as experimentalists on the one hand8 and phenomenologists on the other,9 as well as from within the ranks of psychoanalysts themselves.101112

Freud regarded the newness as emerging in the form of a compromise arising out of the dash of two intrapsychic systems, namely, unconscious and conscious. The model is that of energy transfer within a closed system with the dreamer limited in his expression of novelty to his own particular repertoire of artful camouflage. True novelty is drained out in the insistence on the role of unchanging instinctual energies linked to infantile wishes in accounting for the fact of dreaming. Followed to its logical conclusion what emerges is an image of man as an impotent reactor—”a complicatedly constructed and programmed robot, perhaps, but a robot nevertheless.”13

Transformation and change and, with them, the element of novelty, are just as much features of dream consciousness as they are of waking consciousness. To arrive at an understanding of how they come about during the dream state we have to replace metaphysical speculation with a more

4

rigorous analysis of the psychological needs of the sleeping human organism and how the symbolic expression of these needs is influenced by the changes in brain milieu that occur during sleep. The former relate to the content of dreams, the latter to their form.

While asleep our brain is functioning differently and our psychological system is responsive to a different input and organized toward a different behavioral goal than in the waking state. When there are sufficient quantitative changes in brain milieu a qualitative change comes about that exerts a tremendously significant limiting influence on the articulating psychological system. Thought processes become bound to concrete presentations. The intact individual in the waking state is capable of thought processes reflecting events extended in time through a discursive mode of symbolic organization but he is at the same time capable of borrowing concrete expressions for intended metaphorical use. The brain-damaged patient cannot abstract and cannot employ metaphor. The closest he comes to it is in the use of unintended metaphor or quasimetaphor. The dreamer is somewhere in between. He has not lost the power of abstraction, but a sufficient alteration in brain milieu has occurred to influence the way in which the abstraction is arrived at and the way in which it gains expression. He is forced into a concrete sensory mode and, hence, the need to manipulate visual presentations toward the goal of a metaphorical explication of an inner state. I suggest that this necessity arises from physiological rather than psychological considerations. Under the conditions of sleep, behavior is not and cannot be directed toward the outside world. Input channels close down and normal motor effector pathways are inhibited. Consciousness, whether while dreaming or awake, cannot be divorced from the activity of the organism. The existence of a sensory mode of conscious expression does appear to be appropriate to the only effector system available to the sleeping organism, namely, the arousal mechanism or the reticular activating system (referred to as the vigilance system by Hernandez-Peon14). The behavioral

5

response in this instance would be an internal one in the form of an influence upon the level of arousal.

To develop this point further requires emphasis on the intimate relationship of conscious experience at a given moment to the activity the individual is engaged in. Activity has a different complexion in the waking state than it has during activated sleep. In the former, the term refers to that segment of the individual’s social practice, ie, his ongoing behavior in a social context, which happens to be in focus at a particular time. In the case of the dreamer, activity has to do with internal change or, more exactly, the potential for internal change, namely the possibility of a change from a state of activated sleep to one of full arousal. In the waking state all new afferent stimuli carry a double message to the central nervous system, one mediated through the reticular system and exerting an arousal effect and the other, which has an informational effect, through the direct sensory pathways to the cortex. While the dreamer is awake the factor of arousal makes possible a more effective orientation to the informational aspects of the stimulus. The dual significance of afferent stimuli is preserved in the dreaming state but with two important differences. An internal source of afferent stimuli is mobilized out of experiential data and the relative importance of the informational and arousal aspects of the stimuli is reversed. In the dreaming state the informational aspects serve the need to sustain and modulate the arousal level and, if necessary, bring about a full arousal effect. The metaphor, through the properties of vividness, emphasis, incongruity, and dramatic presentation, is suited to do just that. The obscurity of the metaphor may be related to the complexity and degree of strangeness of the situation being represented. The movement of the metaphor is the result of attention-directing processes brought into operation once initial activation occurs. The feelings rising to the surface at this time are new in the sense of not having come clearly into focus during the waking state. They act as motivational processes,1516 exerting a further energizing or arousal effect serving to organize or direct further behavioral change. The task before the dreamer is to express relations he has never before experienced. The sensory effects streaming down to the arousal center employ the visual mode predominantly and as these generate further arousal new and relevant motivational systems or feelings are tapped.

6

When we are awake we can tune out our feelings, but when we are asleep we have no choice but to express them should our nervous system become sufficiently aroused to allow us to do so. Feelings are, as Leeper emphasizes, processes capable of being touched off by very slight stimuli. In the case of the dreamer, such stimuli generally take the form of the day residue.

Other characteristics of feelings as a subclass of motives are also relevant to dreaming. These include:

1. Motives modify perceptual processes so that they become organized in a way that makes relevant items stand out forcefully. Elements appearing in dreams are selected on the basis of relevance. Beginning with an affective residue reexperienced at the onset of activated sleep, there is a heightened focal attention to the significant recent event responsible for this affective residue.

2. Motives initiate exploratory activity. The dreamer embarks upon a longitudinal exploration of relevant past data.

3. Motives act as regulatory mechanisms in the service of psychological homeostasis. As a consequence of the feelings initially evoked at the onset of dreaming and as further developed by the exposure of relevant past experiential data, the dreamer moves toward the resolution of any resulting psychological dysequilibrium, either by summoning up defenses or by the creative utilization of positive resources and growth potential.

The Use of Metaphor.—Under the conditions of activated sleep the concrete metaphorical mode is characteristic of this translation of felt reactions into conscious experience. It is in this sense that the dream is essentially a metaphor in motion. As indicated above, the dreamer has to concern himself with understanding new data. The reason a day residue serves as the precipitating mechanism for the subject matter of a dream is precisely because it is experienced as a faint beam of light playing upon shadowy, unknown, and sometimes rather frightening territory. The

7

exploration of this territory — that is, the capacity to engage with the new — requires the power of abstraction. The dreamer, forced to employ a sensory mode, has to build the abstraction out of concrete blocks in the form of visual sequences. The resulting metaphor can be viewed as an interface phenomenon where the biological system establishes the sensory medium as the vehicle for this expression and the psychological system furnishes the specific content.

To appreciate more fully the need for metaphorical expression during periods of activated sleep we have to introduce the concept of social vigilance. This concept involves an orientation to and exploration of events that impinge on the human organism in a novel way and which are, therefore, capable of influencing or changing the current level of social homeostasis. For the human organism, events of this kind tend to assume a mediated and symbolic form rather than the immediate and physically intrusive form characterizing vigilance operations in lower animals. The individual’s equilibrium is upset in one of two ways by such an event. An area of ignorance may be uncovered which then serves as a stimulus to growth and mastery or an area of psychological vulnerability may be exposed in which case efforts at mastery may be handicapped by defensive operations with the result that false or mythic explanations may either color the picture or even predominate in shaping the response.

Vigilance theory can be linked to dreaming by conceiving of the activated sleep state as instigated by a built-in physiologically governed mechanism providing the organism with periodic opportunities throughout the night to process internal or external data in such a way that awakening can occur if necessary by bypassing the main cyclical and gradual variations in levels of sleep. In doing this the organism may be borrowing a mechanism that may or may not have been related to vigilance operations originally.

The essence of a workable vigilance mechanism, as the survival of any lower animal attests, lies in its enforced truthfulness. If information conveyed

8

is false or its interpretation is inappropriate, the danger is enhanced. So it is with the dreamer. He is not at the mercy of deeper instinctual forces seeking to gain expression on the basis of fulfilling an infantile wish, but rather is dreaming of truer and more inclusive aspects of his own existence as partially exposed by a recent event in his life. He is concerned with such fundamental questions as: Who am I? What is happening to me? What can I do about it? The dreamer is making a very active attempt to reflect in consciousness the immediate aspect of his own existence. The dream in its totality is a metaphorical explication of a circumstance of living explored in its fullest implications for the current scene. To see the dream as an elaborate strategy to achieve gratification of a wish is to limit salience to one particular motive at the expense of the surging, forward-looking, exploring, chance- taking operations that also occur. The day residue, reappearing in the dream, confronts the individual either with new and personally significant data or forces a confrontation with heretofore unrecognized unintended consequences of one’s own behavior. There follows an exploration in depth with the immediate issue polarizing relevant data from all levels of one’s own past in an effort to both explore the implications of the intrusive event and to arrive at a resolution. What is unconscious in the presentations appearing in the dream are those aspects of his felt responses which cannot be accurately conceptualized, either because they have not heretofore been personally conceptualized, or because they are derivative of social relations that are not understood and hence cannot be conceptualized. When the personal or social unknown gains expression in the dream, it does so in a personal idiom and by as apt a metaphor as the individual can construct to describe what it feels like.

The following brief examples illustrate some of the points under discussion,

EXAMPLE I.—An architect, with schizoid tendencies, was under pressure to complete a set of drawings on time to meet a deadline. He was forced to devote four successive Sundays to the completion of this work. He had to isolate himself from

9

the rest of his family which includes his wife and four children. His wife managed well for the first three weeks but on this fourth Sunday was in a fretful and irritable mood. He remained closeted in his room for the entire day. He was vaguely aware of his wife’s feelings and from time to time would hear her lose her temper at the children. He fell asleep for a short time and had the following dream:

“I was calling the weather bureau to ask if the hurricane was expected to hit the city that afternoon. As I was asking the question I began to feel embarrassed and guilty. I awoke as I was trying to terminate the call.”

He awoke with the dream in mind. The associations to the dream were as follows:

He had a growing feeling of uneasiness with regard to the burden he was placing upon his wife, but felt that it was necessary and unavoidable. He associated the metaphor of the hurricane to the recurrent blasts of his wife’s temper, particularly in view of the fact that if another hurricane were in reality to occur its name would have begun with the same initial as that of his wife’s name. The incidental event precipitating the dream was the occasional sounds of his wife’s quarrels with the children which reached his ears while he was intensely preoccupied with the work he was doing. The contradiction which was deepened and brought closer to full awareness was one arising from the discrepancy between the actual nature of his activity on the one hand — the arbitrary and absolute way in which he cut himself off from his family when under pressure — and the way in which this activity was reflected in consciousness — that this was simply a necessary but transitory interlude in his family life which the others owed it to him to countenance. The reactions of his wife, related to his actual activity rather than to his conceptualized version of it, induced uneasy feelings. These feelings were the first expression in consciousness of the growing recognition of his own responsibility. They arose in connection with the real although indirect protests by his wife. His rationalizations were being forced to give way before a more accurate reflection of the entire situation namely, that whatever pressure the work subjected him to, it did not justify the absolute

10

kind of severance that he had effected with his family in total disregard of their needs.

EXAMPLE 2.—A dapper 63-year-old man, depressed over a period of several months, related a dream occurring several nights following his first visit:

‘I was the last guy in the world. There was nobody left. I found myself isolated. It woke me. I was very happy that I could get up and go to work.”

The patient had come for help at a point where all of his activities had become sharply curtailed and where he had become phobic about even leaving the house. He did, however, verbalize the hope that he could return to work. He appeared to need the active intervention and support of an outside authority to risk rejoining the world of other men and the world of business. The dream occurred in the context of feeling better following the first visit and a successful effort to mobilize himself to return to work. At the point where he began to move out of his depression he was able to create an image describing both the ultimate in hopeless alienation from all other men and at the same time one that lent itself to sudden termination by the simple process of awakening. The minor metaphor expresses an inexorable and utterly hopeless feeling of separation from all other men. To understand the major metaphor one has to take into account the behavioral effect of the dream, namely awakening, and with it the transformation of the feeling of hopelessness into its opposite. He is saying, in effect, “I can now relate to my illness as if it were a bad dream from which one awakens with relief.”

We have offered very little thus far concerning the laws governing the movement and development of the global or major metaphor of the dream. It is likely that the full exposition of the developmental aspects of the dream process will have to await further investigative effort using the new monitoring techniques at hand. Descriptively the dream evolves from the setting or presenting metaphor by extending its range horizontally through the elaboration of motivational process implied or alluded to in the setting and extending its scope longitudinally by introducing related motivational processes derived from earlier experience. The development is organized

11

rather than haphazard and reintegrative efforts are made, resulting in a resolution which in terms of its affective intensity either is or is not compatible with the normal temporal parameters of the activated sleep period in which it is occurring. These ideas could be tested experimentally by systematically examining the relationship of hypnagogic imagery to dream sequences of the same night. Is the hypnagogic image simply the first step in dreaming, namely, the translation of the last remembered bit of cognitive data into a visual image? Does it lack subsequent development and enrichment and remain as a “forme fruste” of the dream because the period of cortical activation needed to produce a dream is too fleeting in nature during the initial descent into deep sleep? A comparison of the two phenomena highlights the lack in hypnagogic image of the developmental features that characterizes the dream. The latter by comparison tends to be more complex, more dynamic, more evocative of the past and more apt to go beyond the immediate antecedent content of consciousness. In the dream the initial translation is the starting point of an active exploratory process extending throughout the period of activated sleep. A further difference involves the behavioral effect. Full arousal is rarely the result of hypnagogic imagery but it not infrequently occurs during the dream. Perhaps the hypnagogic image can be likened to a word which, no matter how unique or colorful, cannot compare in richness and expressive potential to the fully developed sentence.

The Dream Mystique.—The failure to perceive the full significance of the expository role of metaphor in dream consciousness has had a number of unfortunate consequences for the theory and practice of psychotherapy. Once the puzzling nature and apparent mystery of the dream was equated with unconscious but purposeful efforts at self-deception powerful supports for an instinctivist psychology came into being. The sum of man’s complicated relations to his social milieu is reduced to intrapsychic conflicts directed toward the subjugation and control over his own biology. Chein,

12

referring to this distorted view of man, writes: “Contemporary psychologists, it seems to me, tend to be rather obsessed with the corporeality of man and to be constantly diverted from the human being to the human body.” He further notes: “The emphasis on corporeality as the

essential quality of man is, of course, evident in the naïve — if persistent — effort to reduce psychological to bodily process. This is again a matter of philosophy dictating psychological theory.”

This point of view concerning man and the dream reflecting the struggle between instinctual wish and social prohibition has had a very limiting effect on the potential therapeutic application of dream interpretation. A relationship between dreaming and dream interpretation arose that was rather inappropriately and incongruously forced into a fixed medical model. The end-product more closely resembled the relationship between a patient, his heartbeat reflected in the electrocardiogram, and the physician who has the specialized knowledge needed to interpret the record. In the case of the dream, a universal phenomenon is dealt with as if it, too, were a special record decipherable only by an expert. […]

In the dream the visual image and the referent are linked by the element of similarity , hence the metaphorical quality . The view that has been expressed here is that this translation serves the same expressive purpose that figurative speech serves in the waking state. The other and traditional point of view de-emphasizes the metaphorical relation between referent and image and treats the image almost exclusively in terms of its associational connection with sex or aggression. As Bertalanffy17 points out, dream elements in a freudian sense are not true symbols, but rather what he terms free playing associations. Each element, by virtue of certain formal characteristics, stands for something else. Here the term “stands for” conveys a meaning opposite to metaphor, namely, one of obscuring, hiding, concealing. The end point of the latter development has been the evolution of a dream mystique whereby dream interpretation becomes a special tool in

13

the hands of a few, safeguarded by caveats of all sorts, most of which point to the dangers of inexpert dream interpretation and of deep interpretation. As a consequence, all but psychoanalysts and analytically trained physicians and psychologists carefully eschew any pretense at utilizing dreams. The dream as a potential instrument for self-learning hardly comes into its own under these circumstances. An aspect of ourselves that, in subtle and dramatic ways, highlights movement change and the creative interplay of old patterns and newly evoked responses remains a refined tool in the hands of the few rather than a widely developed and broadly applied medium for self-understanding.

References

Il Sogno è una regola in sé; e litiga con l’arcobaleno per mostrare, o non mostrare, un secondo arco. Il Sogno ben sa e il Sogno, ripeto, è il solo responsabile.—De Quincey

È opportuno rivedere la teoria del sogno in base ai seguenti princìpi: 1. allontanandosi da speculazioni metapsicologiche riguardo a origini, funzioni forma e struttura del sogno; 2. in direzione di una visione del sogno come risposta totalmente comportamentale; 3. in direzione di un’analisi delle caratteristiche formali del pensiero onirico in rapporto alla loro stretta associazione con l’alterazione del grado di funzionamento del cervello durante il sonno; 4. in direzione di un’analisi del contenuto, il quale è determinato da un’esistenza sociale che, a sua volta, possiede aspetti sia noti sia sconosciuti; 5. in direzione dello sviluppo e dell’applicazione di tecniche per la traduzione della metafora onirica che non ha origine né è limitata da sistemi teorici specifici.

I primi quattro punti sono stati analizzati in studi precedenti1234. Questo articolo, in generale, è rivolto all’ultimo punto.

14

Poiché ci occuperemo delle caratteristiche della metafora così come vengono rivelate dal sogno, partiamo da una definizione da dizionario del termine:

Metaphor. «A figure of speech in which one object is likened to another by asserting it to be that other or speaking of it as if it were the other»∗. (Funk and Wagnall New Standard Dictionary of the English Language, 1928). Il termine deriva dal greco meta, indicante «oltre» e fero che significa «portare». Brown5 definisce metafora «il nome dell’enunciazione che indica il proprio referente attraverso un trasferimento di significato».

La Langer descrive la metafora come strumento di astrazione. Entra in gioco in situazioni in cui si presenta un’idea assolutamente nuova. Non esiste nome o parola per esprimerla. «Quando nella mente umana si affollano nuove possibilità di pensiero non sfruttate, si acuisce la povertà del linguaggio di tutti i giorni»6. Prima che il significato possa essere afferrato indipendentemente dai suoi concreti aspetti apparenti è necessario un processo di astrazione. Quando esiste un divario in questo genere di situazioni, attraverso l’uso della metafora è possibile compiere un salto concettuale e stabilire una posizione astratta iniziale in relazione all’esperienza di un nuovo elemento.

La Langer7 nota anche le caratteristiche paradossali di questo tipo di pensiero astratto, punto di cruciale importanza in relazione all’attività onirica. Sottolinea che l’uso della metafora implica che il pensiero astratto procede in una direzione paradossale. La metafora altro non è che un processo di concettualizzazione che, però, ricorre a immagini concrete come strumento per giungere all’astrazione.

Se estendiamo il concetto di metafora alla modalità visiva, possiamo riportare le sue caratteristiche essenziali come primo passo per esplorare l’applicabilità della metafora ai fenomeni del sogno nel modo seguente:

∗ «Figura retorica attraverso cui un oggetto è paragonato a un altro affermando che quell’oggetto è l’altro o parlandone come se lo fosse» [N.d.T.].

15

  1. La metafora comporta l’uso di una parola o immagine in un contesto improbabile.
  2. Questo ha lo scopo di catturare ed esprimere un livello di significato acquisito di recente e in questo senso nuovo. (Ci occupiamo di metafore «vive» piuttosto che di metafore «morte» o «spente» a cui fanno riferimento i linguisti.)
  3. L’uso della metafora crea un effetto maggiore e rivela in misura superiore le caratteristiche essenziali rispetto a un’affermazione letterale.

    La nostra tesi principale è che l’attività onirica comporta un rapido

cambiamento di sequenze descrittive, che nella loro totalità corrispondono a un’affermazione metaforica (metafora maggiore). Ogni elemento (metafora minore) della sequenza possiede attributi metaforici organizzati allo scopo di stabilire in maniera unitaria una descrizione metaforica complessiva delle nuove idee, relazioni e implicazioni quando esse emergono durante le fasi del sonno attivo. Contrariamente ai pazienti con lesioni cerebrali, il sognatore mantiene la capacità di astrazione. Tuttavia il milieu cerebrale, modificato a livello fisiologico, esercita un’influenza restrittiva. Le capacità di astrazione del sognatore sono ridotte alla manipolazione d’immagini concrete.

Analizziamo ora l’attività onirica alla luce delle tre suddette proprietà della metafora.

Contesto. Nel sogno le immagini in effetti si presentano in contesti improbabili. Di fatto questo è uno degli aspetti che contraddistingue il contenuto cognitivo degli intervalli di sonno attivo da quello recuperabile durante le altre fasi. Discordanza tra gli elementi, relazioni inadeguate e spostamento sono note caratteristiche dei sogni.

Novità. L’importanza dei sogni nella terapia sta nel fatto che, in effetti, svelano qualcosa di nuovo o, per lo meno, nuovo in relazione alla loro scarsa familiarità con la coscienza della veglia. Se così non fosse, non varrebbe la pena indagare i sogni. È la natura di novità che va definita. Proprio su questo

16

punto le nozioni classiche della psicoanalisi riguardanti l’attività onirica sono state messe in discussione da numerosi commenti critici provenienti da fonti diverse: sperimentalisti da una parte8 e fenomenologisti dall’altra9, ma anche dalle schiere degli psicoanalisti stessi101112.

Freud riteneva che la novità fosse una forma di compromesso, risultato di un conflitto tra due sistemi intrapsichici, ossia inconscio e coscienza. Il modello è quello del trasferimento d’energia all’interno di un sistema chiuso in cui il sognatore vede limitata l’espressione di novità dal proprio repertorio di camuffamento artificioso. La vera originalità scompare con l’insistenza sul ruolo delle energie istintive invariate legate ai desideri infantili per spiegare l’attività onirica. Come conseguenza logica ciò che emerge è un’immagine dell’uomo come reattore impotente, «un robot, forse costruito e programmato in modo complesso, ma sempre un robot»13.

Trasformazione, cambiamento e, con essi, l’elemento di novità sono tutti aspetti sia della coscienza del sogno sia della coscienza vigile. Per comprendere come essi si realizzino durante lo stato onirico è necessario sostituire le speculazioni metafisiche con un’analisi più rigorosa dei bisogni psicologici dell’organismo umano dormiente e come l’espressione simbolica di questi bisogni sia influenzata dai mutamenti nel milieu cerebrale durante il sonno. I primi sono legati al contenuto dei sogni, la seconda alla loro forma.

Durante il sonno il cervello funziona diversamente e il nostro sistema psicologico risponde a un diverso input ed è organizzato verso un differente obiettivo comportamentale rispetto allo stato di veglia. Quando vi sono sufficienti cambiamenti quantitativi nel milieu cerebrale, si verifica un mutamento qualitativo che esercita una considerevole influenza restrittiva sul sistema psicologico di articolazione. A questo punto i processi di pensiero sono legati a presentazioni concrete. Durante la veglia il soggetto sano è in grado di compiere processi di pensiero che riflettono eventi prolungati nel tempo attraverso una modalità discorsiva di organizzazione simbolica ma, al tempo stesso, è anche in grado di ricorrere a espressioni concrete per

17

utilizzarle metaforicamente. Il paziente con lesioni cerebrali non può ricorrere né all’astrazione né alla metafora. Può al massimo fare uso di una metafora non intenzionale, o quasimetafora. Il sognatore si trova a metà: non ha perso la capacità di astrazione, ma nel milieu cerebrale si è verificata un’alterazione tale da influenzare il modo in cui giunge all’astrazione e nel quale l’astrazione acquista espressione. Viene costretto in una modalità sensoriale concreta e quindi alla necessità di manipolare le rappresentazioni visive allo scopo di fornire una spiegazione metaforica di uno stato interiore. Ipotizzo che questa necessità abbia origini fisiologiche e non psicologiche. Alle condizioni del sonno, il comportamento non è, e non può essere, diretto al mondo esterno. I canali di input si chiudono e le normali vie motorie sono inibite. La coscienza, sia allo stato vigile sia durante il sonno, non può essere separata dall’attività dell’organismo. L’esistenza di una modalità sensoriale di espressione cosciente in effetti appare appropriata per l’unico sistema a disposizione dell’organismo durante il sonno, cioè il meccanismo di attivazione o sistema reticolare attivatore (che Hernandez Peon14 chiama «sistema di vigilanza»). In questo caso la risposta comportamentale sarebbe interna, sotto forma di un’influenza esercitata sul livello di attivazione.

Al fine di sviluppare questo punto più approfonditamente è necessario sottolineare la stretta relazione dell’esperienza conscia – in un momento preciso – con l’attività in cui l’individuo è impegnato. L’attività nella veglia possiede caratteristiche diverse da quelle nel sonno attivo. Nel primo caso il termine fa riferimento a quel segmento delle pratiche sociali dell’individuo, ad esempio il comportamento che assume in un determinato contesto sociale, che è focalizzato in quel momento. Nel caso del sognatore l’attività ha a che fare con cambiamenti interni o, più precisamente, con il potenziale di cambiamento interno, ossia, la possibilità di passaggio dal sonno attivo allo stato di eccitazione diffusa. Durante la veglia tutti i nuovi stimoli afferenti recano al sistema nervoso centrale un messaggio doppio: uno mediato dal sistema reticolare che provoca il risveglio e l’altro, con effetto informativo,

18

dalle vie sensoriali dirette alla corteccia. Quando il sognatore è sveglio il fattore di attivazione rende possibile un più efficace orientamento sugli aspetti informativi dello stimolo. La duplice portata degli stimoli afferenti si mantiene durante lo stato onirico, ma con due differenze importanti. I dati esperienziali mobilitano una fonte interna di stimoli afferenti e si capovolge l’importanza relativa degli aspetti informativi e di quelli di attivazione. Nello stato onirico gli aspetti informativi servono a sostenere e a modulare il livello di attivazione e, se necessario, a produrre un effetto di eccitazione diffusa. Sicuramente la metafora si presta a tale scopo, grazie alle caratteristiche di vividezza, enfasi, incongruenza e teatralità che la contraddistinguono. L’oscurità della metafora può essere legata alla complessità e al grado di stranezza della situazione rappresentata. Il movimento della metafora è il risultato dei processi per dirigere l’attenzione che vengono avviati una volta verificatasi l’attivazione iniziale. Le sensazioni che emergono in questo momento sono nuove nel senso che durante la veglia non sono state messe bene a fuoco. Esse fungono da processi motivazionali1516 esercitando un effetto ulteriore che rafforza l’eccitazione diffusa. Questo serve a organizzare e a dirigere l’ulteriore cambiamento comportamentale. Il compito del sognatore è quello di esprimere relazioni che non ha mai sperimentato. Gli effetti sensoriali che fluiscono al centro di attivazione utilizzano soprattutto la modalità visiva, mentre questi ultimi attivano ulteriori sistemi motivazionali o sentimenti nuovi.

Quando siamo svegli possiamo anche non dare ascolto ai nostri sentimenti, ma mentre dormiamo non possiamo fare altro che esprimerli, a condizione che il sistema nervoso venga stimolato a sufficienza. Come sottolinea Leeper, le sensazioni sono processi che possono essere scatenati da stimoli leggerissimi; nel caso del sognatore tali stimoli assumono l’aspetto dei residui diurni.

Anche altre caratteristiche delle sensazioni, come sottoclasse di motivi, sono importanti per l’attività onirica. Tra queste figurano:

19

1. I motivi che modificano i processi percettivi, così che essi vengono organizzati in modo da evidenziare efficacemente gli oggetti pertinenti. Gli elementi che appaiono nel sogno vengono selezionati in base alla loro pertinenza, cominciando con un residuo affettivo, riesperito all’inizio del sonno attivo, si intensifica l’attenzione focale su un recente evento significativo, responsabile di questo residuo affettivo.

  1. I motivi avviano l’attività esplorativa. Il sognatore si imbarca in un’esplorazione longitudinale dei dati pertinenti passati.
  2. I motivi agiscono da meccanismo regolatore al servizio dell’omeostasi psicologica. In conseguenza delle sensazioni suscitate all’inizio dell’attività onirica, ulteriormente sviluppate con i dati esperienziali pertinenti, il sognatore si muove verso la risoluzione di qualunque disequilibrio psicologico risultante, o facendo appello alle proprio difese o utilizzando creativamente le risorse positive e il potenziale di crescita.

L’uso della metafora. Nelle condizioni di sonno attivo la modalità metaforica concreta è tipica di tale traduzione delle reazioni sperimentate nell’esperienza conscia. È in questo senso che il sogno è una metafora in movimento. Come detto sopra il sognatore deve cercare di capire i dati nuovi. I residui diurni servono da meccanismo scatenante per il materiale onirico proprio perché vengono vissuti come un fioco raggio di luce su un terreno oscuro, ignoto e, a volte, piuttosto terrificante. Esplorare questo territorio – cioè la capacità di intraprendere il nuovo – richiede capacità di astrazione. Il sognatore, obbligato a impiegare una modalità sensoriale, deve costruire l’astrazione partendo da blocchi concreti sotto forma di sequenze visive. La metafora che ne risulta può essere vista come il fenomeno di interfaccia in cui il sistema biologico attribuisce a un medium sensoriale il ruolo di veicolo per questa espressione, mentre il sistema psicologico fornisce il contenuto specifico.

20

Per comprendere pienamente la necessità di espressione metaforica durante le fasi del sonno attivo è necessario introdurre il concetto di vigilanza sociale. Questo concetto comporta un’esplorazione e un orientamento verso quegli eventi che si ripercuotono sull’organismo umano in una maniera nuova e, quindi, in grado di influenzare o cambiare il livello attuale di omeostasi sociale. Per l’organismo umano questo genere di eventi tende ad assumere una forma mediata e simbolica anziché la forma immediata e fisicamente intrusiva che caratterizza le operazioni di vigilanza degli animali inferiori. L’equilibrio dell’individuo viene alterato da tale evento in due modi possibili: uno consiste nello svelare un’area oscura che in seguito stimola la crescita e la capacità di controllo; il secondo consiste nel mettere a nudo un’area di vulnerabilità psichica e in questo caso gli sforzi per la capacità di controllo sono talora ostacolati dalle operazioni di difesa, con il risultato che spiegazioni false o mitizzate finiscono per dare una particolare tonalità o, addirittura, forma al quadro.

La teoria della vigilanza può essere collegata all’attività onirica immaginando che il sonno attivo sia provocato da un meccanismo interno regolato fisiologicamente che, durante la notte, fornisce più volte all’organismo la possibilità di elaborare dati interni o esterni in modo che il risveglio possa verificarsi, se necessario, aggirando le principali variazioni cicliche e graduali delle fasi del sonno. Facendo ciò l’organismo probabilmente ricorre a un meccanismo che in origine forse era legato alle operazioni dello stato di vigilanza.

La condizione essenziale di un meccanismo di vigilanza funzionale, come attesta la sopravvivenza degli animali inferiori, sta nella sua effettiva veridicità. Se l’informazione trasmessa è falsa o interpretata in modo non adeguato, il pericolo aumenta. Lo stesso accade al sognatore. Questi non è alla mercé di forze istintuali più profonde che cercano di acquistare espressione per appagare un desiderio infantile, ma sogna piuttosto aspetti più veri e comprensivi della propria esistenza, in quanto svelata da un

21

evento recente nella vita del sognatore. Egli cerca risposte a domande esistenziali come: «Chi sono? Cosa mi succede? Cosa posso farci?» il sognatore si sforza attivamente di riflettere nella coscienza gli aspetti immediati della propria esistenza. Il sogno nella sua totalità è un’esplicitazione metaforica di una circostanza di vita, esplorata nelle sue implicazioni più profonde per il presente. Vedere il sogno come strategia elaborata per appagare un desiderio significa limitare l’importanza a un motivo in particolare, a scapito delle altre operazioni, travolgenti, lungimiranti, esplorative e rischiose che si verificano. I residui diurni, che riappaiono nei sogni, mettono l’individuo di fronte a nuovi dati per lui significativi o impongono un confronto con le conseguenze finora involontarie e non riconosciute del proprio comportamento. Segue un’esplorazione in profondità in cui la questione immediata polarizza i dati pertinenti da tutti i livelli del proprio passato nel tentativo sia di esplorare le implicazioni dell’evento intrusivo sia di arrivare a una soluzione. Ciò che è inconscio nelle rappresentazioni del sogno sono gli aspetti delle risposte individuali debitamente concettualizzabili, o perché finora non sono state concettualizzate personalmente, o perché derivano da relazioni sociali che non sono state comprese e pertanto non concettualizzabili. Quando l’inconscio o sociale acquista espressione nel sogno, questo avviene tramite un linguaggio idiomorfo e tramite una metafora che, a seconda della capacità dell’individuo, sarà più o meno appropriata per descrivere ciò che prova.

I due brevi esempi che seguono illustrano i punti presi in esame.

ESEMPIO 1. Un architetto, con tendenze schizoidi, era sotto pressione poiché doveva terminare una serie di disegni in tempo per rispettare una scadenza. È stato costretto a dedicarvi quattro domeniche consecutive. Ha dovuto isolarsi dalla moglie e dai quattro figli. Per le prime tre domeniche la moglie ha sopportato questa situazione, ma la quarta era nervosa e irascibile. Il marito era rimasto chiuso tutto il giorno nel suo studio. Egli era vagamente consapevole dei sentimenti della moglie e ogni tanto la sentiva arrabbiarsi con i figli. Si è addormentato per qualche minuto e ha fatto questo sogno:

22

«Chiamavo l’ufficio meteorologico per sapere se era previsto che l’uragano si abbattesse quel pomeriggio sulla città. Mentre chiedevo l’informazione ho iniziato a sentirmi a disagio e in colpa. Mi sono svegliato mentre cercavo di troncare la telefonata».

Si è svegliato con in mente il sogno. Le associazioni con il sogno erano le seguenti:

Provava un crescente senso di disagio causato dal carico di lavoro a cui stava sottoponendo la moglie, tuttavia credeva che fosse necessario e inevitabile. Egli associava la metafora dell’uragano ai ricorrenti scatti d’ira della moglie, soprattutto in considerazione del fatto che se fosse venuto un uragano davvero, il suo nome sarebbe iniziato con la prima lettera del nome della moglie. L’evento accidentale che aveva provocato il sogno era il rumore occasionale delle sgridate della moglie ai figli che gli giungevano alle orecchie mentre era completamente immerso nel lavoro. La contraddizione, intensificata e portata quasi alla totale consapevolezza, aveva origine dalla discrepanza tra la vera natura della sua attività da una parte – la maniera assoluta e arbitraria con cui si isolava dalla famiglia quando era sotto pressione – e il modo in cui tale attività era riflessa nella coscienza: questa era semplicemente una parentesi necessaria, ma temporanea, della sua vita famigliare che gli altri dovevano sopportare. Le reazioni della moglie, legate alla vera natura della sua attività effettiva, e non a come lui se l’era immaginata gli causavano un senso di disagio. Era la prima espressione nella coscienza della crescente consapevolezza della propria responsabilità. Il disagio è emerso in rapporto alle proteste reali, sebbene indirette, della moglie. La razionalizzazione da lui operata doveva cedere di fronte a una riflessione più accurata dell’intera situazione: anche se il lavoro lo metteva sotto pressione, il distacco assoluto dai suoi famigliari, nel disinteresse totale dei loro bisogni, non era giustificabile.

ESEMPIO 2. Un elegante uomo di sessantatré anni che da alcuni mesi soffriva di depressione, raccontò un sogno ricorrente dopo la sua prima seduta:

23

«Ero l’ultimo uomo sulla terra. Non era rimasto nessuno. Mi sono ritrovato solo. Questo mi ha fatto svegliare. Ero molto felice di potermi alzare e di andare a lavorare».

Questo paziente era venuto da me in un momento in cui tutte le sue attività si erano ridotte nettamente e in cui era diventato fobico anche solo all’idea di uscire da casa. Aveva in effetti verbalizzato la speranza di potere tornare al lavoro. Sembrava avere bisogno di un intervento e di un sostegno attivo da parte di un’autorità esterna per affrontare il rischio di ritornare al mondo degli uomini e a quello degli affari. Aveva fatto questo sogno in un momento in cui si sentiva meglio, in séguito alla prima seduta e al tentativo riuscito di impegnarsi per tornare al lavoro. Nel momento in cui iniziava a uscire dalla depressione è riuscito a creare un’immagine che descriveva sia l’apice dell’isolamento disperato dal resto dell’umanità e, al tempo stesso, un’immagine che si prestava a un troncamento improvviso, grazie al semplice processo del risveglio. La metafora minore esprime un sentimento inesorabile, estremamente disperato, di separazione dal resto dell’umanità. Al fine di cogliere la metafora maggiore è necessario prendere in considerazione l’effetto comportamentale del sogno, ossia il risveglio, e con quest’ultimo il mutamento della disperazione nel suo opposto. In realtà sta dicendo: «ora accetto la mia malattia come se fosse un brutto sogno da cui ci si può svegliare con sollievo».

Finora abbiamo fornito pochi elementi sulle leggi che regolano il movimento e lo sviluppo della metafora globale o maggiore del sogno. Probabilmente la descrizione completa degli aspetti evolutivi del processo onirico dovrà attendere ulteriori indagini, utilizzando le nuove tecniche di monitoraggio disponibili. A livello descrittivo il sogno si evolve da metafora introduttiva o di presentazione estendendo la propria portata in senso orizzontale attraverso l’elaborazione del processo motivazionale implicato, o a cui fa allusione, nell’introduzione, ed estendendo il proprio spazio in senso longitudinale introducendo processi motivazionali correlati, derivanti dall’esperienza passata. Lo sviluppo non è casuale ma organizzato, vengono

24

inoltre compiuti dei tentativi di reintegrazione i quali determinano una risoluzione che in termini di intensità affettiva è, o non è, compatibile con i normali parametri temporali della fase di sonno attivo in cui si verifica. È possibile verificare tali idee in maniera sperimentale esaminando sistematicamente la relazione delle immagini ipnagogiche con le sequenze oniriche della stessa notte. L’immagine ipnagogica è solo il primo passo dell’attività onirica, cioè la traduzione dell’ultimo frammento ricordato dei dati cognitivi in immagine visiva? Manca forse di sviluppo successivo e arricchimento rimanendo come «forme fruste» del sogno poiché il periodo di attivazione della corteccia, necessario per produrre un sogno è di natura troppo breve durante la discesa iniziale verso il sonno profondo? Un confronto tra i due fenomeni mette in luce la mancanza nell’immagine ipnagogica degli aspetti evolutivi che caratterizza il sogno. Quest’ultimo al confronto tende ad essere più complesso, dinamico ed evocativo del passato e più incline ad andare oltre l’immediato contenuto precedente della coscienza. Nel sogno la traduzione iniziale è il punto di partenza di un processo esplorativo e attivo che si estende per tutto il periodo di sonno attivo. Un’ulteriore differenza riguarda l’effetto comportamentale. È raro che l’attivazione completa sia conseguenza di immagini ipnagogiche, ma non è raro che avvenga durante il sogno. È forse possibile paragonare l’immagine ipnagogica a una parola che, per quanto unica e multicolore, non può essere messa a confronto, in termini di ricchezza e potenziale espressivo, con la frase totalmente sviluppata.

La mistica del sogno. La mancata percezione di quanto sia significativo il ruolo espositivo della metafora nella coscienza del sogno ha avuto numerose conseguenze infelici per quanto riguarda la teoria e la pratica della psicoterapia. Dal momento che la natura enigmatica e misteriosa del sogno è stata equiparata a tentativi inconsci ma mirati di autoinganno, la psicologia istintivista ne ha avuto un forte sostegno. L’insieme delle complesse relazioni dell’individuo con il proprio ambiente sociale si riduce a conflitti

25

intrapsichici, volti a dominare e controllare la propria biologia. Chein, a proposito di questa visione distorta dell’uomo, scrive: «Gli psicologi contemporanei, a mio parere, tendono ad essere piuttosto ossessionati dalla corporeità dell’uomo e a essere costantemente spinti lontano dall’essere umano e vicini al corpo umano». Osserva inoltre: «L’enfasi posta sulla corporeità come qualità essenziale dell’uomo è certamente evidente nell’ingenuo tentativo – se persistente – di ridurre i processi psicologici a processi fisici. Ancora una volta la filosofia vuole imporsi sulla teoria psicologica.

Tale punto di vista dell’uomo e del sogno come specchio della lotta tra il desiderio istintivo e i divieti sociali ha avuto un effetto fortemente limitante sulla potenziale applicazione terapeutica dell’interpretazione dei sogni. La relazione tra l’attività onirica e l’interpretazione dei sogni, è stata costretta in modo piuttosto inappropriato e inadeguato, all’interno di un modello medico fisso. Il prodotto finale assomigliava più che altro alla relazione tra un paziente, il suo battito cardiaco rivelato nell’elettrocardiogramma, e il medico che possiede la conoscenza specifica per interpretarlo. Nel caso del sogno, un fenomeno universale viene affrontato come se anch’esso fosse uno speciale tracciato, che solamente un esperto è in grado di decifrare. Pur ammettendo che gli approcci naturalistici, intuitivi o di senso comune possano in qualche modo essere fuoristrada, l’arte dell’interpretazione dei sogni è ormai troppo coperta da una corazza tecnologica, più adatta a mantenere il divario fra il significato apparente e quello effettivo, che a colmarlo. I problemi cruciali e di demarcazione prendono forma intorno alla questione di come venga considerata la qualità metaforica.

Nel sogno l’immagine visiva e il referente sono collegati dall’elemento della somiglianza: di qui la qualità metaforica. La concezione qui espressa è che questa traduzione ha lo stesso fine espressivo del discorso figurativo allo stato vigile. L’altra concezione, tradizionale, minimizza l’importanza della relazione metaforica tra referente e immagine e tratta l’immagine tenendo

26

conto quasi esclusivamente della sua relazione associativa con sesso o aggressività. Come sottolinea Bertanlaffy17, gli elementi onirici, in senso freudiano, non sono veri e propri simboli ma piuttosto quello che definisce «associazioni libere». Ogni elemento, in virtù di certe caratteristiche formali, sta per qualcos’altro. Qui «sta per» trasmette un significato opposto a metafora, cioè quello di celare, nascondere, occultare. Il risultato di quest’ultima concezione è stata l’evoluzione di una mistica del sogno in cui l’interpretazione dei sogni diventa strumento specialistico in mano a pochi, con moltissime riserve, gran parte delle quali sottolineano i pericoli dell’interpretazione da parte di inesperti e dell’interpretazione profonda. Ne è risultato che tutti, tranne psicoanalisti, medici con formazione analitica e psicologi, abbandonano qualunque pretesa di utilizzare i sogni. In queste circostanze il sogno, come potenziale strumento per conoscere sé stessi, è poco diffuso Un aspetto di noi stessi che, in modo sottile e marcato, sottolinea il cambio le dinamiche evolutive e l’interazione creativa tra vecchi modelli e le risposte nuove, rimane uno strumento raffinato in mano a pochi anziché essere un medium sviluppato e largamente utilizzato per capire sé stessi.

Sommario

Il sogno è stato descritto come una comunicazione interiore data dalla rapida sovrapposizione di immagini che cambiano di continuo allo scopo di esprimere e analizzare le necessità della vigilanza dell’organismo umano dormiente. Le immagini visive si fondono producendo un effetto metaforico che possiede le caratteristiche specifiche della metafora e che facilita il processo di autoconfronto in atto. In queste condizioni, in cui l’effetto comportamentale implica l’alterazione di uno stato interiore, i processi di pensiero hanno le caratteristiche formali tipiche dei sogni. È pensiero in una

modalità sensoriale poiché è proprio l’effetto sensoriale ciò di cui ha bisogno.

27

Abbiamo inoltre ipotizzato che le operazioni cognitive si verificano a servizio della vigilanza, termine che utilizziamo per denotare le possibili minacce o interferenze con i sistemi simbolici e di valore che legano l’organismo al proprio ambiente sociale. Le sensazioni suscitate all’inizio del sonno attivo hanno le caratteristiche dei processi motivazionali e in questo modo possono avere un effetto energizzante, organizzativo e di attivazione (arousal). Il sognatore è costretto ad esaminare questi elementi intrusivi, sia a livello dei legami che essi hanno col passato sia a livello delle implicazioni che avranno in futuro. L’artificio della metafora e l’assenza di rumori di sottofondo sottolineano la novità e la dimensionalità del problema. Ogni elemento onirico, così come il sogno nel suo complesso, possiede una qualità metaforica. Possiamo forse parlare di metafore all’interno di metafore.

Un grosso passo è stato compiuto verso l’inserimento dell’impotenza all’interno del sistema simbolico, quando la teoria psicoanalitica ha collegato la difficoltà di comprendere i sogni all’atto volontario di mascheramento. L’autoinganno diventa la tecnica più conveniente per soddisfare le proprie necessità. Gli impulsi derivati sono in qualche modo manipolati per non essere scoperti e al tempo stesso per acquistare espressione. In realtà le esigenze e i motivi evocati non esistono, lasciando così il sognatore senza alcuna alternativa se non quella di combattere le stesse vecchie battaglie in un’infinità di modi possibili. La teoria gli fornisce anche dei paraocchi interni che gli impediscono di identificare correttamente la relazione fra la propria difficoltà e il disordine in un ambiente sociale dove spesso le esigenze dell’individuo sono subordinate ai rapporti di forza. È il nuovo, le implicazioni del nuovo e la risoluzione del nuovo a preoccupare il sognatore ed è questa preoccupazione che rende la metafora il mezzo naturale che permette al nuovo di acquistare espressione. La modalità metaforica infatti costringe il sognatore a correre il rischio di affermare qualcosa di nuovo riguardo a sé stesso. Nella misura in cui una metafora colorisce una metafora

28

non letta né compresa, il suo potere di incrementare l’autoconsapevolezza svanisce.

Bibliografia

1 Ullman, M.: Dreams and Arousal, Amer J Psychoter 12:222-242 (April) 1958. 2 Ullman, M.: Dreams and the Therapeutic Process, Psychiatry 21:123-181 (May) 1968.
3 Ullman, M.: The Adaptive Significance of the Dream, J Nerv Ment Dis 129:2 (Aug) 1959.

4 Ullman, M.: The Social Roots of the Dream, Amer J Psychoanal 20:2, 1960.
5 Brown, R.: Words and things, New York: The Free Press of Glencoe, Inc., 1958 p. 211.
6 Langer, S.K.: Philosophy in a New Key, New York: Penguin Books, Inc., 1948, p 121.
7 Langer, S.K.: Problems of Art, New York: Charles Scribner’a Sons, 1957, p 104. 8 Dement, W,C.: “Experimental Dream Studies,” In Masserman, J. (ed.): Science and Psychoanalysis, New York: Grune & Stratton, Inc., 1964, vol 3.
9 Boss, M.: The Analysis of Dreams, New York: Philosophical Library, Inc., 1967.
10 Tauber, E-S., and Green, M.R.: Prelogical Experience, New York: Basic Books, Inc., Publishers, 1959.
11 Fromm, E.: The Forgotten Language, New York: Holt, Rinehart & Winston, Inc., 1951.
12 Altahuler, K.Z.: Comments on Recent Sleep Research Related to Psychoanalytic Theory, Arch Gen Psychiat 15:235-269 (Sept) 1966.
13 Chein, I.: The Image of Man, J Soc Issues 31:3-20 (Oct) 1962.
14 Hernandez-Peon, R.: A Neurophysiologic Model of Dreams and Hallucinations, J Nerv Merit Dis 141:6, 1966.
15 Leeper, R.W., and Madison, P.: Toward Understanding Human Personalities, New York: Appleton-Century-Crofts, 1959.
16 Leeper, R.W.: “Some Needed Developments in the Motivational Theory of Emotions,” in Levine, D. (ed.); Nebraska Symposium on Motivation; 1965, Lincoln: University of Nebraska Press, 1965.
17 Bertalanffy, L.: “On the Definition of the Symbol,” in Royce, J.R. (ed.): Psychology and the Symbol, New York: Random House, Inc., 1965.

1 Ullman, M.: Dreams and Arousal, Amer J psychoter 12:222.242 (April) 1958.
2 Ullman, M: Dreams and the Theraupetic Process, Psychiatry 21:123-181 (May) 1968.
3 Ullman, M.: The Adaptive Significance of the Dream, J Nerv Ment Dis 129:2 (Aug) 1959.

29

4 Ullman, M.: The Social Roots of the Dream, Amer J Psychoanal 20:2, 1960.

5 Brown, R.: Words and Things, New York: The Free Press of Glencoe, Inc.,

1958 p.211.

6 Langer, S.K.: Philosophy in a New Key, New York: Penguin Books, Inc., 1948,

p 121.

7 Langer, S.K.: Problems of Art, New York: Charles Scribner’s Sons, 1957, p 104.

8 Dement, W.C.: “Experimental Dream Studies,” In Masserman, J. (ed.):

Science and Psychoanalysis, New York: Grune & Stratton, Inc., 1964, vol 3.

9 Boss, M,: The Analysis of Dreams, New York: Philosophical Library, Inc.,

1967.

10 Tauber, E-S., and Green, M.R.: Prelogical Experience, New York: Basic

Books, Inc., Publishers, 1959.

11 Fromm, E.: The Forgotten Language, New York: Holt, Rinehart & Winston,

Inc., Publishers, 1959.

12 Altahuler, K.Z.: Comments on Recent Sleep Research Related to

Psychoanalytic Theory, Arch Gen Psychiat 15:235-269 (Sept)1966.

13 Chein, L: The Image of Man, J Soc Issues 31:3-20 (Oct) 1962.

Hernandez-Peon, R.: A Neurophysiologic Model of Dreams and Hallucinations, J Nerv Merit Dis 141:6, 1966.
15 Leeper, R.W., and Madison, P.: Toward Understanding Human Personalities, New York: Appleton-Century-Crofts, 1959.
16 Laeper, R.W.: “Some Needed Developments in the Motivational Theory of Emotions,” in Levine, D. (ed.); Nebraska Symposium on Motivation; 1965, Lincoln: University of Nebraska Press, 1965.
17 Bertalanffy, L.: “On the Definition of the Symbol,” in Royce, J.R. (ed.): Psychology and the Symbol, New York: Random House, Inc., 1965.

14

30

Gregory Rabassa: If this be treason. Il residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica SIMONA CLERICI

Gregory Rabassa:

If this be treason.

Il residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

SIMONA CLERICI

 

 

Scuole Civiche di Milano

Fondazione di partecipazione

Dipartimento Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Dicembre 2009


 

© GREGORY RABASSA, New Directions, US, 2005

© Simona Clerici per l’edizione italiana 2009

 

Gregory Rabassa: If this be treason. Il residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

 

(Gregory Rabassa: If this be treason. Translation loss in interlingual communication)

 

 

 

Abstract in italiano

 

Non esiste un testo che dica tutto. Nel caso della comunicazione interlinguistica, la compensazione del residuo è complicata ulteriormente dall’opera di mediazione linguistica e culturale del traduttore. Quando un testo deve essere reso accessibile a una cultura che non gli è propria, il traduttore si trova di fronte a un continuum di possibilità traduttive che ha come estremi da un lato il concetto di «adeguatezza» e dall’altro quello di «accettabilità» teorizzati da Toury. Sulla base della mia traduzione di alcuni passi di If this be treason di Gregory Rabassa ho analizzato i processi mentali che mi hanno condotto a operare alcune scelte traduttive e a escluderne altre. I numerosi esempi riportati, oltre a non fare mai perdere di vista il testo originale, contribuiscono a rendere evidente la necessità di riflettere sulle finalità della traduzione: non il tentativo destinato a fallire di voler eliminare tutti i residui traduttivi nell’illusione che si possa operare una sorta di “riproduzione interlinguistica”, ma la presa di coscienza che questi esistono, e che ogni volta se ne dovrà tenere conto stabilendo uno schema di priorità a cui attenersi nella strategia complessiva e nelle singole scelte traduttive.

 

English abstract

 

A text which says everything doesn’t exist. In the case of interlingual communication, the compensation for translation loss is further complicated by the linguistic and cultural mediation carried out by the translator. When a text is to be made accessible to a different culture, the translator can choose among a continuum of translation possibilities the extremes of which are the concepts of “acceptability” and “adequacy”, as described by Toury. On the basis of my translation of some extracts of If this be treason by Gregory Rabassa, I have analyzed the mental processes that led me to make certain translation choices instead of anothers. The numerous examples quoted, besides keeping sight of the original text, stress the need to consider what are the very aims of translation: far from being the ill-fatedattempt to remove every translation loss under the delusion that an “interlingual reproduction” is possible, it is the awareness that translation loss exists, and it has to be taken into account by setting priorities and sticking to them in the whole strategy as well as in every single translation choice.

 

 

Résumé en francais

 

Un texte qui dit tout n’existe pas. Dans le cas de la communication interlinguistique, la compensation de cette perte est compliquée davantage par la médiation linguistique et culturelle du traducteur. Quand il faut rendre un texte accessible à une culture autre, le traducteur peut choisir parmi un continuum de possibilités traductives dont les extrêmes sont, d’un côté, le concept de «adéquation», et de l’autre celui de «acceptabilité», théorisés par Toury. Sur la base de ma traduction de certains extraits de If this be treason par Gregory Rabassa, j’ai analysé les procédés mentaux qui m’ont conduite à opérer certains choix traductifs et à en exclure d’autres. Les nombreux exemples retenus, outre qu’ils ne font jamais perdre de vue le texte original, contribuent à rendre évidente la nécessité de réfléchir sur les buts de la traduction: non pas la tentative, destinée à échouer, d’éliminer toutes les pertes induites par la traduction dans l’illusion qu’on peut opérer une sorte de ˝reproduction interlinguistique˝, mais la prise de conscience qu’elles existent et qu’à chaque fois il faut s’en charger en dressant une liste de priorités auxquelles s’en tenir dans la stratégie globale comme dans chaque choix traductif.

 

Sommario

 

1.                  Prefazione  4

1.1.                  Il residuo comunicativo  5

1.2.                  Il rumore semiotico nella teoria della comunicazione di Peirce  7

1.3.                  Il duplice significato di «metatesto»: scegliere dove convogliare il residuo  9

1.4.                  Come colmare la distanza cronotopica tra il prototesto e il lettore del metatesto  14

1.5.                  La dialettica tra funzione estetica e funzione informativa del testo: l’ambivalenza di If this be treason  17

1.6.                  L’intertestualità come secondo livello di lettura  22

1.7.                  Cultura più specificante  versus cultura meno specificante: le diverse delimitazioni dello spettro cromatico  31

1.8.                  I realia: esempi e soluzioni traduttive  36

1.9.                  L’impossibilità di capire e trasporre tutto  42

1.10.                  Alcune note biografiche su Gregory Rabassa  43

1.11.                  Riferimenti bibliografici 45

2.                  Traduzione con testo a fronte  48

 

 

 

 

 

 

  1. Prefazione


1.1.       Il residuo comunicativo

«Un testo non dice mai tutto, dà sempre per scontata una parte spesso cospicua del messaggio» (Osimo 2001: 33). La parte del messaggio che non giunge a destinazione in un atto comunicativo si chiama «residuo». Un testo che abbia la pretesa di “dire tutto”, oltre a risultare estremamente ridondante, sarebbe inconcepibile; ogni testo comporta un residuo. Questo vale a maggior ragione nel caso della comunicazione interlinguistica in cui ai residui insiti nel percorso di un messaggio che parte dalla cultura propria dell’emittente per trovare posto nel materiale psichico del destinatario si aggiungono i processi traduttivi per produrre un metatesto in una lingua naturale diversa da quella del prototesto; se nello schema classico della comunicazione (emittente, ricevente, codice, residuo e messaggio) il residuo è da ricondursi, oltre alle interferenze nel canale fisico, ai processi impliciti di verbalizzazione e deverbalizzazione, nella comunicazione interlinguistica la sequenza dei processi traduttivi è molto più stratificata e la compensazione dei residui è notevolmente più difficile. Quando un emittente decide di comunicare un messaggio a un destinatario «deve attingere alla propria mente, al proprio materiale psichico, tra quelli che Peirce chiama “interpretanti”, elementi psichici soggettivi di mediazione tra un segno e un oggetto» e tradurli in un codice verbale (Osimo 2001: 75). Siamo in presenza di un processo di verbalizzazione che è anche un primo processo traduttivo se per traduzione si intende «qualsiasi processo che trasformi un prototesto in un metatesto» (Osimo 2001: 3). Dove c’è traduzione c’è residuo, perché non tutti gli interpretanti scelti dall’emittente riusciranno a essere tradotti in parole. E una volta che il messaggio è stato attualizzato, le interferenze sul canale fisico di comunicazione potrebbero impedirne parzialmente la comprensione. Un terzo residuo è rappresentato dal processo di deverbalizzazione attraverso cui il destinatario decodifica il messaggio verbale per trasformarlo in interpretanti. Un ultimo problema che contribuisce all’impossibilità di compensare del tutto il residuo comunicativo è dato dal fatto che spesso i processi descritti sono inconsapevoli e «a volte l’emittente non è consapevole nemmeno del residuo insito nel proprio messaggio verbale» (Osimo 2001:75). Nella comunicazione interlinguistica questi residui aumentano notevolmente perché ai processi di traduzione compiuti dall’emittente e dal ricevente si sommano quelli compiuti dal traduttore, che deve essere innanzitutto lettore e operare una traduzione intralinguistica (come ogni destinatario deve arrivare a trasformare in interpretanti propri gli interpretanti verbalizzati dall’emittente) prima di affrontare la traduzione interlinguistica in una lingua diversa da quella in cui il testo è stato originariamente concepito. Un altro residuo insito nella traduzione interlinguistica che si aggiunge a quelli descritti riguarda la parte di messaggio che il traduttore decide consapevolmente di convogliare nei dispositivi metatestuali perché ritiene probabile che non venga compresa in modo immediato. In questo scenario intricato il traduttore può almeno ovviare a queste difficoltà scegliendo di volta in volta la strategia traduttiva che ritiene più adatta per ottenere il metatesto più efficace possibile. Ma anche un errore di calcolo nell’elaborazione del lettore modello (quindi una strategia traduttiva sbagliata) può essere fonte di ulteriori residui comunicativi, tanto maggiori quanto più grande sarà la distanza tra il lettore modello immaginato dal traduttore e il lettore empirico.

1.2.       Il rumore semiotico nella teoria della comunicazione di Peirce

Nella teoria semiotica della comunicazione il residuo comunicativo è detto «rumore semiotico». Charles Peirce, fondatore della semiotica moderna, spiega questo concetto servendosi della triade segno, interpretante, oggetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il processo interpretativo attraverso il quale un segno entra in relazione con un oggetto e produce nella mente del soggetto una rappresentazione che stabilisce una relazione tra segno e oggetto si chiama semiosi. Della semiosi, ovvero della significazione, si occupa la semiotica. Nel triangolo basato su Peirce un segno (qualunque cosa percettibile) non rimanda direttamente a un oggetto (ciò che esiste a prescindere dal segno), ma è mediato dal pensiero interpretante di chi codifica (o decodifica). Inoltre, «questo pensiero interpretante non è uguale per tutti, poiché è dettato dalle esperienze soggettive fatte dall’individuo con quel segno, con quell’oggetto e con segni e oggetti a loro mentalmente assimilabili» (Osimo 2004: 12). Le diverse codifiche che due interlocutori danno di uno stesso segno possono fare riferimento a oggetti mentali diversi. Ecco a cosa è dovuto in gran parte il residuo comunicativo:

 

Il segno diventa tale solo se viene interpretato come segno. L’albero resta un albero fino al momento in cui io, uomo primitivo, non lo indico per significare «rifugio dalla pioggia». Ma per il mio interlocutore può significare «luogo dove cadono i fulmini» (Osimo 2001: 35).

 

A creare il rumore semiotico però contribuiscono anche i contenuti impliciti di un messaggio, ovvero le parti di contenuto implicito il cui significato dato per scontato per il lettore modello del prototesto. Tenuto conto che ciò che in un contesto è implicito può non esserlo in un altro, risulta evidente che il traduttore deve preoccuparsi anche di questo aspetto nella scelta della strategia traduttiva. È bene ricordare infine che ogni traduzione rappresenta la visione parziale e momentanea del traduttore, dettata anche da fattori cronologici, geografici, culturali, psichici, come sottolineato da Osimo:

 

Ogni versione, a seconda del modo in cui il traduttore decide di farsi carico di ciò che non è possibile trasporre direttamente nella lingua o cultura ricevente, del “residuo intraducibile”, mette in risalto alcuni aspetti e ne tace, ahimè, altri. In altre parole, ogni versione differisce dalle altre soprattutto per il contenuto (denotativo, ma soprattutto connotativo e stilistico) che il traduttore ha deciso di sacrificare in nome della comunicabilità, della “trasportabilità” del testo in questione (Osimo 2004: 38).

 

1.3.       Il duplice significato di «metatesto»: scegliere dove convogliare il residuo

Per evitare confusioni, occorre innanzitutto fare chiarezza sul duplice significato di «metatesto»: questo termine si riferisce tanto al testo che traduce il prototesto quanto alle informazioni paratestuali che accompagnano una traduzione, ascrivibili alla funzione fatica della comunicazione, che Osimo definisce così: «in una traduzione, tutte le azioni volte a fare sì che il contatto tra emittente e ricevente non si interrompa» (Osimo 2004: 18).

Quando ci si trova di fronte a un testo da tradurre è buona abitudine documentarsi sull’autore, sul contesto culturale dell’opera, sulle altre pubblicazioni dell’autore eccetera. Nel caso di un libro, spesso buona parte di queste informazioni sono raccolte nel metatesto, inteso come «l’insieme delle parti di un libro che esulano dal testo principale» (Osimo 2004: 29). Anche le informazioni reperibili da altre fonti, persino attraverso citazioni, pubblicità, allusioni, secondo Peeter Torop rientrano nel concetto più ampio di «metatesto». Il loro denominatore comune è fornire «informazioni paratestuali sul testo principale» (Osimo 2004:29). Esistono più livelli di metatesto; per un libro, ad esempio, possiamo distinguere:

  • Le componenti direttamente reperibili al suo interno nell’apparato paratestuale: prefazione, postfazione, introduzione, commentario, note, glossario, mappe, illustrazioni, cronologia;
  • Le informazioni reperibili su altre opere di consultazione: recensioni, voci enciclopediche, biografia dell’autore, elenco delle sue opere;
  • Gli echi mediatici: pubblicità, notizie sulla pubblicazione.

Umberto Eco, nel capitolo «Perdite e compensazioni» di Dire quasi la stessa cosa (Eco 2003: 95-138) sostiene che in un testo tradotto possono intervenire alcune perdite «assolute», il cui contenuto può essere espresso esclusivamente ricorrendo alla nota a piè di pagina, l’ultima ratio di un traduttore che ne ratifica la sconfitta (Eco 2003: 95). La tesi sostenuta da Osimo è invece su questo aspetto completamente diversa:

 

Questo metodo tende alla manipolazione del testo senza che il lettore ne sia consapevole. Il lettore modello implicito in questo metodo non è degno di venire a conoscenza delle operazioni manipolatorie compiute senza precisa giustificazione dal traduttore, e non ha nessuna curiosità, si evince, per ciò che può essere tipico della cultura altrui, e diverso dalla propria. (Osimo 2004: 74)

 

Dello stesso parere è Nabókov:

 

In primo luogo, dobbiamo accantonare una volta per tutte il concetto convenzionale secondo cui una traduzione «deve essere scorrevole» e «non deve avere l’aria di una traduzione». […] Se sia di scorrevole lettura o no dipende dal modello, non dall’imitatore. (Nabókov 1984: XII-XIII in Osimo 2004: 70).

 

Secondo Eco invece dove è necessario è più conveniente intervenire direttamente all’interno del testo tradotto concedendosi alcune perdite a cui si possono far corrispondere in seguito dei tentativi di compensazione. Ma «Perdite» e «compensazioni», per quanto concordate tra l’autore e il traduttore e ritenute irrilevanti nell’economia generale del testo, devono essere fatte con parsimonia e il traduttore deve «resistere alla tentazione di aiutare troppo il testo, quasi sostituendosi all’autore» (Eco 2003: 108). Anche perché, come sottolinea lo stesso Eco, «una traduzione che arriva a “dire di più” potrà essere un’opera eccellente in sé stessa, ma non è una buona traduzione» (Eco 2003: 110). Sono quattro i motivi per cui, secondo Umberto Eco, un traduttore è tentato di intervenire direttamente sul testo originale, in modo quasi inconsapevole per una sorta di «tendenza ipertrofica alla mediazione» (Osimo 2004: 75), lasciando il lettore della traduzione all’oscuro di tutto:

  • Se un’espressione del testo originale appare ambigua. Ma ci si deve sempre chiedere se il lettore del prototesto sia davvero in grado di disambiguare le espressioni apparentemente incerte con maggiore facilità rispetto al lettore del metatesto. Spesso di fronte a una doppia possibilità interpretativa è il contesto che rende evidente la lettura corretta, che si tratti di prototesto o metatesto, e l’intervento del traduttore è del tutto superfluo.
  • Se l’autore del prototesto ha effettivamente creato un’ambiguità senza volerlo e il contesto non è sufficiente a risolverla.
  • Se l’autore non voleva essere ambiguo, ma il traduttore individua in questa ambiguità una scelta precisa dell’autore e fa il possibile per inserirla anche nel testo tradotto.
  • Se l’autore voleva espressamente risultare ambiguo.

Fatte queste concessioni, proseguendo la lettura di questo capitolo di Eco si evince che in linea di principio il traduttore non deve proporsi di “migliorare” il testo: «Se si traduce un’opera modesta mal scritta, che rimanga tale, e che il lettore di destinazione sappia che cosa aveva fatto l’autore» (Eco 2003: 118). A maggior ragione nell’ultimo caso in cui l’intervento del traduttore direttamente nel testo non è giustificato per nulla, perché chiarire significherebbe non riconoscere e non rispettare un’ambiguità voluta, e in definitiva vorrebbe dire tanto tradire le intenzioni dell’autore quanto fuorviare la ricezione dei lettori.

Quando invece un traduttore fa ricorso ad apparati metatestuali allo scopo di esplicitare e compensare un prototesto, è innegabile che siamo in presenza di una strategia consapevole. Dirk Delabastita definisce le strategie metatestuali artifici compensativi che un traduttore può adottare quando instaura un «secondo livello di comunicazione» con il metatesto che ha prodotto. Ecco una conferma dell’origine comune della duplice valenza del termine metatesto: in entrambi i casi il metatesto implica un processo di traduzione, nell’uno metalinguistica (che dà origine alle componenti paratestuali), nell’altro interlinguistica (che porta a tradurre il prototesto). A seconda della finalità dell’intervento metatestuale, Delabastita ne individua tre diversi tipi (Osimo 2004: 76):

  1. Commentare qualcosa del prototesto
  2. Commentare un modo in cui è stato tradotto il prototesto
  3. Commentare la relazione intercorrente tra prototesto e metatesto

Tornando a Peirce, è la teoria dell’abduzione che illustra sia perché un testo non può dire tutto, sia perché è proprio sul non detto che si basa il gioco abduttivo (Osimo 2001: 33) della lettura: questo tipo di logica muove da una costante nota (esempio: tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi) per inferire una congettura su un fenomeno nuovo (se questi fagioli sono bianchi, allora forse vengono da questo sacco). L’esempio è di Peirce. Le probabilità che questa congettura sia vera sono piuttosto basse, perché l’ipotesi che sta alla base del ragionamento è un caso, e non una regola. Ecco ciò che avviene ogni volta che si è alle prese con la lettura di un testo: man mano che la lettura procede si fanno ipotesi sul non detto del testo, ipotesi che (forse) verranno confermate o smentite in una fase successiva della lettura. Un testo non dirà mai tutto perché la semiosi di un testo è illimitata: ogni lettore formula ipotesi diverse e ogni ulteriore lettura da luogo a congetture diverse; allora il traduttore deve essere prima di tutto un critico per riuscire a rileggere il testo e estrapolarne la ratio.

1.4.       Come colmare la distanza cronotopica tra il prototesto e il lettore del metatesto

La scelta della strategia traduttiva deve tenere conto delle differenze tra la cultura emittente e la cultura ricevente, tanto sul piano dell’espressione quanto su quello del contenuto, come sostiene Anthony Pym:

 

Quando si attraversa una parete culturale, si incontrano luoghi particolari che richiedono l’espansione del testo. I termini più difficili tendono a richiedere una parafrasi o una spiegazione, di solito giustificabile in quanto esplicitazione di informazioni culturali implicite (Pym 1993: 123 in Osimo 2004)

 

Secondo il teorico tedesco Schleiermacher  esistono due diversi metodi per rendere direttamente nel testo tradotto ciò che altrimenti risulterebbe un residuo comunicativo, a seconda dell’atteggiamento assunto dal traduttore nei confronti del lettore del metatesto: «a mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore» (Nergaard 1993: 153)

L’argomentazione continua sostenendo che le due vie sono talmente diverse che una volta scelta quella da seguire non sono ammesse eccezioni, pena lo smarrimento completo sia del lettore che dello scrittore. Personalmente non condivido questo ultimo punto, perché non credo possa esistere una norma assoluta ma ritengo che stia al buon senso e all’esperienza di un traduttore valutare di volta in volta la strategia traduttiva più efficace. Trovo invece molto valide le descrizioni dei due modi in cui, di volta in volta, un traduttore può decidere di far procedere la sua traduzione: nel primo caso il traduttore si preoccupa di compensare la mancata comprensione da parte del lettore del testo tradotto cercando di comunicargli la stessa immagine che lui, che conosce la lingua dell’originale, ha tratto dalla sua lettura. Nel secondo, se la traduzione cerca di far parlare il suo autore romano come se a parlare o a scrivere fosse un tedesco per un pubblico di tedeschi, non muove l’autore nella direzione del traduttore, perché l’autore non gli parla in tedesco ma in latino, ma  muove lo scrittore incontro ai lettori trasformandolo in uno di loro. L’esempio è di Schleiermacher.

Anche lo scienziato della traduzione Gideon Toury vede in modo dinamico il processo che porta a colmare la distanza cronotopica tra il prototesto e il lettore del metatesto: questa distanza può essere percorsa o dal lettore, che si fa carico della fatica di avvicinarsi alla cultura altrui dell’autore, oppure dal traduttore, che avvicina il prototesto al lettore trasformando gli elementi di cultura altrui che contiene in elementi di cultura propria del lettore, a lui più familiari e quindi di più immediata comprensione. Nel primo caso siamo in presenza di una traduzione «adeguata», dove il concetto di «adeguatezza è visto in funzione del prototesto», mentre nel secondo di una traduzione «accettabile», questa volta dal punto di vista del lettore (Osimo 2001: 81-84). Ecco quali sono alcuni dei parametri su cui si basano queste due strategie:

 

Caratteristiche del prototesto

Adeguatezza

Accettabilità

Straniamento culturale

  • Esotismo
  • Storicismo
Conservato Addomesticamento culturale

  • Naturalizzazione
  • Modernizzazione
Realia Conservati
  • Sostituiti con quelli della cultura ricevente
  • Standardizzati
Nomi propri Conservati Adattati
Sintassi marcata Conservata Standardizzata
Forme metriche Conservate Sostituite con altre diffuse nella cultura ricevente
Proverbi e modi di dire
  • Conservati
  • Spiegati nell’apparato critico
  • Sostituiti con altri simili
  • Aboliti
  • Esplicitati
Polifonia (registri, idioletti) Conservata Uniformata
Deittici Conservati Adattati

 

Ciascuna delle due scelte comporta dei rischi: l’adeguatezza, che pone come dominante l’integrità del testo, prende atto dell’estraneità di un testo e non gli toglie le caratteristiche che lo identificano anche a costo di produrre un testo di difficile lettura; l’accettabilità ha come dominante la facilità di accesso al testo lasciando al lettore la possibilità di accedere a quei contenuti che altrimenti sarebbero risultati estranei alla cultura ricevente. Qui il rischio è di far perdere le tracce della cultura che ha generato il prototesto illudendo il lettore che le culture siano molto simili tra loro e la traduzione intralinguistica sia sempre possibile. Come sottolinea Osimo, il traduttore non è l’unico responsabile di una o dell’altra scelta:

 

Spesso è la cultura a dettare le norme della traducibilità. Possono intervenire fattori di ordine politico, il fatto che certe culture siano dominanti o siano recessive in un dato momento storico, o il fatto che in un’area prevalga la cultura dell’appropriazione delle culture altrui versus la cultura del confronto e dello scambio (Osimo 2001: 83).

 

Ma anche la cultura editoriale dominante in un Paese influisce notevolmente su queste scelte:

 

Vi sono editori che danno credito al lettore medio offrendogli traduzioni di non facilissima lettura corredate di note e di altre spiegazioni metatestuali utili a far entrare il lettore nella cultura da cui proviene il testo; altri editori invece tendono a preparare prodotti di facile consumo postulando, come diceva Nabòkov (1984), un lettore imbecille capace soltanto di consumare testi precotti, predosati, predigeriti: per questo lettore le traduzioni accettabili sono l’ideale (Osimo 2001: 84).

 

1.5.       La dialettica tra funzione estetica e funzione informativa del testo: l’ambivalenza di If this be treason

Nel modello di Peeter Torop, tra le varie possibili attualizzazioni del processo traduttivo in funzione delle dominanti trova posto anche la discriminante espressione versus contenuto. Fissare la dominante sull’espressione significa ritenere preponderante la funzione estetica di un testo; fissarla sul contenuto significa invece accordare maggiore importanza alla funzione informativa. In una traduzione, il piano dell’espressione (la forma) viene sottoposto a ricodifica, mentre il piano del contenuto viene sottoposto a trasposizione. Nella maggior parte dei casi un processo non esclude l’altro: i testi difficilmente sono del tutto dominati da una sola di queste due funzioni. Un testo che fissi la dominante esclusivamente sulla funzione informativa non intende convogliare nessun messaggio al di là del mero valore semantico delle parole; eccone un esempio: «L’interregionale 1231 per Forlì parte alle 14.05 dal binario 20» (Osimo 2004: 19). Per quanto la decifrazione di questo messaggio comporti la comprensione di alcune implicazioni referenziali, il suo unico scopo è dare questa informazione ai viaggiatori. In altre parole, nessuna parte di questo messaggio rischia di andare persa se il destinatario comprende il valore denotativo delle singole parole che lo compongono. Un testo di questo tipo è un testo chiuso, monosemico, e anche una parola polisemica (e «binario» lo è) è molto facile da disambiguare. Di un testo simile si può dire se sia giusto o sbagliato, perché non dà adito a interpretazioni soggettive dipendenti per esempio dalla cultura, dal momento storico, in una parola dal contesto. In un testo come questo il residuo può essere ridotto quasi a zero.

Altre volte invece è la forma in cui un messaggio viene espresso a essere l’elemento portatore di senso: basti pensare alla poesia, in cui sono la fonetica, la musicalità e la metrica ad avere un’importanza preponderante rispetto al puro contenuto semantico, come dimostra Osimo: «Non avrebbe infatti senso “tradurre” ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita’ come ‘Quando avevo trentacinque anni’ o qualcosa di simile: sarebbe una traduzione molto incompleta e per molti aspetti priva di senso» (2004: 19). Soprattutto nella poesia (ma non solo), il contenuto deve adattarsi a ciò che Eco chiama «ostacolo espressivo»: «Il principio della prosa è rem tene, verba sequentur, il principio della poesia è verba tene, res sequentur» (Eco 2003: 56).

Prendiamo ora un esempio di testo più articolato: la prosa narrativa; qui è impossibile ricondurre la dominante esclusivamente alla funzione estetica o a quella informativa. La funzione narrativa (informativa) è espletata dalla fabula, la sequenza cronologica degli eventi. Un autore può decidere (e lo fa quasi sempre) di ricostruire la fabula attraverso un racconto che non rispecchia il susseguirsi degli eventi finzionali, e in questo consiste l’intreccio. Basterebbe questo a farci comprendere quanto sia più stratificata la semiosi di un testo in cui fabula e intreccio non coincidono rispetto a quella di un testo puramente informativo. Un testo di questo tipo si chiama «aperto» e il significato di ciascuna delle sue proposizioni dipende tanto dal co-testo quanto dal contesto. Immaginiamo che l’esempio di Eco «Biancaneve ha mangiato la foglia» (Eco 2003: 50) faccia parte di un racconto più articolato; bisogna innanzitutto comprendere il senso letterale della frase per decifrarla, poi individuare le ambiguità tenendone conto nel corso della lettura e riconsiderare il significato di quella proposizione ogni volta che emergono nuovi elementi riconducibili  alle varie ipotesi interpretative.

 

[…] se leggessi che Biancaneve ha mangiato la foglia, probabilmente ricorrerei a un’altra serie di conoscenze enciclopediche in base alle quali raramente gli esseri umani mangiano foglie: di lì darei inizio a una serie di ipotesi, da controllare durante il corso della lettura, per decidere se per caso Biancaneve non sia il nome di una capretta. Oppure – come appare più probabile – attiverò un repertorio di espressioni idiomatiche, e comprenderò che mangiare la foglia è espressione proverbiale che ha un senso diverso da quello letterale (Eco 2003: 50-51).

 

Ma fabula e intreccio non esistono solo nei testi specificamente narrativi. In A Silvia di Leopardi Eco fa notare che la fabula (il poeta è innamorato di una ragazza, sua dirimpettaia, che morirà lasciando il poeta in preda alla nostalgia) non coincide con l’intreccio (il poeta entra in scena quando la ragazza è già morta, e il suo ricordo la fa rivivere nella poesia).

 

Quanto sia da rispettare l’intreccio in una traduzione ce lo dice il fatto che non ci sarebbe traduzione adeguata di A Silvia che non ne rispettasse, oltre alla fabula, anche l’intreccio. Una versione che alterasse l’ordine dell’intreccio sarebbe puro riassunto da bigino per gli esami, che farebbe perdere il senso straziante di quel rimemorare (Eco 2003: 52).

 

Pertanto in un testo è importante individuare i diversi livelli dell’espressione e i diversi livelli del contenuto. Se il traduttore fraintende la dominante, o se un testo viene interpretato in funzione di una sola delle varie dominanti del prototesto, e questa non è quella principale, manipola inevitabilmente la ricezione del testo nella cultura ricevente.

Individuare una funzione prioritaria nel testo di Rabassa non è cosa semplice. Lo scopo informativo è evidente: si tratta di un testo che ha l’obiettivo di definire che cosa significhi «tradurre» alla luce della lunga esperienza dell’autore in questo campo. Il lettore modello deve avere qualche nozione sulla traduzione per comprendere il testo. Anche le citazioni contenute sono piuttosto cólte, spesso implicite e non sempre di immediata comprensione. D’altra parte, è innegabile che questo testo abbia una spiccata vocazione letteraria e che non siamo di fronte a un manuale per addetti ai lavori ma a un testo divulgativo la cui ricerca estetica non è affatto secondaria rispetto al messaggio. Sembra piuttosto un testo che nasce con un intento didascalico e sfrutta a questo scopo moltissimi artifici retorici, primo su tutti l’ironia. Secondo Eco è proprio nella capacità di discernere non solo tra espressione e contenuto, ma anche tra i diversi livelli dell’una e dell’altro, che sta la buona riuscita di una traduzione:

 

Siccome in un testo a finalità estetica si pongono sottili relazioni tra i vari livelli dell’espressione e quelli del contenuto, la capacità di individuare questi livelli, di rendere l’uno o l’altro, (o tutti, o nessuno), e saperli porre nella stessa relazione in cui stavano nel testo originale (quando possibile), si gioca la sfida della traduzione (Eco 2003: 56).

 

1.6.       L’intertestualità come secondo livello di lettura

Per comprendere cosa sia l’intertestualità è utile introdurre il concetto di «semiosfera» di Jurij Lotman e quello di «polisistema» di Even-Zohar. La semiosfera, cioè l’universo della significazione, è un insieme di sistemi in continua evoluzione tra loro nei quali le singole culture interagiscono, arricchendosi; dato che non può esistere un testo che non porti in sé «le tracce della memoria collettiva» (Osimo 2004: 42), i testi nella semiosfera sono sempre intertesti (perché contengono inevitabilmente rimandi o allusioni, anche se impliciti, ad altri testi), e il traduttore, prima ancora di dover decidere come e quanto renderli evidenti nel metatesto, deve saperli decodificare. Il semiotico israeliano Even-Zohar chiama la semiosfera di Lotman «polisistema» e individua al suo interno «alcune leggi che regolano le relazioni tra i singoli sistemi all’interno del polisistema in funzione della loro posizione centrale o periferica e del loro atteggiamento statico o dinamico» (Osimo 2004: 43-44). Il centro del sistema dipende da fattori storici, e in definitiva dall’egemonia culturale di un’area rispetto a un’altra. I sistemi centrali sono meno ricettivi rispetto a quelli perferici perché più autosufficienti, non hanno cioè bisogno di rivolgersi all’esterno per innovarsi. Even-Zohar all’interno del polisistema isola il sistema «testi tradotti». Questo sottosistema, che ha un forte potenziale innovativo dato che si colloca al confine tra le culture e ne permette la comunicazione, acquisisce importanza maggiore o minore a seconda che i sistemi in cui la traduzione viene immessa siano centrali o marginali: «nei sistemi centrali (e quindi conservatori), i testi tradotti sono marginali, mentre nei sistemi periferici (e quindi innovativi) i testi tradotti sono centrali» (Osimo 2004: 44).

Per la decodifica di un testo particolarmente ricco di intertesti, come quello di Rabassa, la difficoltà di riconoscerli è direttamente proporzionale alla loro implicitezza. Ecco i tre parametri di implicitezza – esplicitezza individuati da Osimo:

  1. Presenza di delimitatori
  2. Implicitezza – esplicitezza della fonte
  3. Implicitezza – esplicitezza della funzione

Nella tabella seguente ho catalogato le principali citazioni testo secondo i parametri indicati.

Citazione

Pag.

“ ”

Fonte

Fonte esplicita

Funzione o esplicitazione

The treason done, the traitor is no longer needed

49

Life Is a Dream, Calderon

ü

Compito  del traduttore

Segismundo’s tower

53

No

Life Is a Dream, Calderon

Destino del traduttore che resta anonimo

Since words are only names for things […] to discourse on

53

Gulliver’s Travels, Swift

ü

Paradosso di fare a meno delle parole nella comunicazione

Babel

55

No

Bibbia

Dispersione delle lingue

 

Citazione

Pag.

“ ”

Fonte

Fonte esplicita

Funzione o esplicitazione

Mama Lucy

55

No

Scheletro di Australopithecus afarensis

Lingua originaria

Bouvard and Pécuchet

55

No

Bouvard and Pécuchet, Flaubert

Chi si applica con fervore a tutte le discipline, fino a scoprirne l’incapacità di dare risposte ai misteri del mondo

Say finay

59

No

W. C. Fields

ü

Pronuncia anglicizzata del francese c’est fini

Gregor Samsa

59

No

La metamorfosi, Kafka

ü

Tendenza all’atteggiamento centrifugo di una cultura dominante

Gordian knot

63

No

Leggenda sulla vita di Alessandro Magno

ü

Problema di intricatissima soluzione

Vital reason

63

Ortega y Gasset

ü

Esistenza di un legame di natura dinamica tra l’io e le cose

Alexander’s short sword

65

No

Leggenda sulla vita di Alessandro Magno

ü

Continua la metafora di pag. 63. Strumento per risolvere il problema

Lear

67

No

King Lear, Shakespeare

Importanza dell’umiltà per un traduttore

Old Saul

69

No

Bibbia

Insicurezza

Chico Marx as Chicolin$i

69

No

Duck Soup

ü

Inconsapevolezza infantile

 

Citazione

Pag.

“ ”

Fonte

Fonte esplicita

Funzione o esplicitazione

In the beginning was the Word […] and the Word was God

75

Vangelo secondo Giovanni

ü

Diverse traduzioni di God e Word

William James’s varieties

75

No

The Varieties of Religious Experience, William James

W.  James sostiene che le domande sull’esistenza di Dio siano irrilevanti: «God is not known, he is not understood; he is used» (James: 124)

Our father […] Howard be thy name

75

Vangelo secondo Luca

Ironia su chi interpreta male il nome di Dio

This is something up with which I will not put

85

Winston Churchill

ü

Ironia sull’ipercorrettismo

Les sanglots longs des violons de l’automne

87

Verlaine

ü

Esempio del legame tra suoni e cultura

It is too much with us

91

No

Wordsworth

Condanna all’approssimazione tipica di quest’epoca

 

Il primo parametro è il più semplice da analizzare. Si è trattato di riportare quelle parti di testo che figurano tra virgolette. Sono le citazioni più facili da individuare proprio perché graficamente riconoscibili, e anche se il lettore del metatesto non le comprende immediatamente, certamente le identifica in quanto citazioni e può rivolgersi ad altre risorse per capirne con una certa sicurezza almeno la fonte. In qualche caso, la fonte è già esplicitata all’interno del testo originale, facilitando ulteriormente il compito di chi legge. Qui il residuo dovrebbe essere piuttosto limitato, e in ogni caso l’intertesto non dovrebbe precludere la comprensione del testo. Molte delle citazioni di Rabassa sono esplicite da questi punti di vista, anche se spesso questo non basta per rendere evidente la loro funzione all’interno del testo, ma è fuor di dubbio che l’esplicitezza della fonte rende quanto meno la citazione trasparente. Ci sono casi in cui invece il rinvio non è trasparente (o almeno, non lo è per la cultura del traduttore). Secondo Eco, a volte le citazioni sono inviti aperti da parte dell’autore a cercare un rinvio equivalente nella propria cultura. Altre volte, se il traduttore non coglie il rinvio ed è l’autore che lo invita a sottolinearlo, allora:

 

(i) o l’autore ritiene che alcuni lettori possono essere più competenti dei traduttori, e invita questi ultimi a indirizzarli nel modo giusto, (ii) o l’autore sta giocando una partita disperata, in cui il testo è più ottuso di lui, e tuttavia non si vede perché i suoi affezionati traduttori non debbano compiacerlo, lasciandogli l’illusione che almeno un lettore tra un milione sia disposto a cogliere la strizzata d’occhio (Eco 2003: 215).

 

Rabassa probabilmente – facendo ciò che su un calco anglosassone si chiama «ironia ipertestuale», e cioè citando all’interno di un testo un altro testo senza darlo a vedere, in modo inatteso (ironically, appunto) – prevede una doppia lettura per suo mémoire, che può ottenere anche un successo popolare proprio perché può essere letto sia in modo ingenuo, senza cogliere i rinvii intertestuali, sia con maggiore consapevolezza. Si tratta di una doppia possibilità di lettura che dipende dalla consapevolezza enciclopedica del lettore:

 

(i) Il lettore ingenuo, che non individua la citazione, segue lo stesso lo svolgersi del discorso e dell’intreccio come se ciò che gli viene raccontato fosse nuovo e inaspettato (e pertanto, dicendogli che un personaggio trafigge un arazzo gridando un topo!, anche senza individuare il rinvio shakespeariano, può godere di una situazione drammatica ed eccezionale); (ii) il lettore colto e competente individua il rinvio, e lo sente come citazione maliziosa (Eco 2003: 213).

 

È bene ricordare che questo non è sempre vero: un’opera può abbondare in citazioni di testi altrui senza essere un esempio di ironia intertestuale. Ci sono casi in cui il lettore incolto può, certo, apprezzare il testo per il ritmo o per il suono, ma non cogliere i riferimenti significherebbe perderne il senso più importante e «godere del testo come chi origli da una porta socchiusa, cogliendo solo parte di una promettente rivelazione» (Eco 2003: 215).

L’ultima colonna della tabella riguarda l’esplicitezza della funzione della citazione. Il problema è capire quale sia la relazione tra la citazione e la cultura ricevente. A seconda della relazione possono verificarsi queste situazioni:

  • Il motivo per cui la citazione viene fatta è evidente a tutti
  • Il motivo per cui la citazione viene fatta è evidente solo all’interno della cultura emittente
  • Il motivo per cui la citazione viene fatta è evidente solo all’autore

Per concepire una strategia traduttiva adatta è necessario capire che tipo di citazione è presente nel testo.

Nel primo caso il traduttore non deve preoccuparsi di nulla, il rinvio è così trasparente che l’unica cosa sensata da fare è mantenerlo anche nella traduzione.

Sono gli altri due casi che aprono le sfide maggiori per un traduttore. In questi casi, la memoria testuale del traduttore è estremamente importante per garantire al lettore del metatesto la possibilità di cogliere gli intertesti presenti nell’originale. Ma anche il lettore è dotato di memoria testuale, e secondo Osimo «è a questi che si può delegare la decodifica degli intertesti che risultano impliciti, ma comprensibili, sia nell’originale che nella traduzione» (Osimo 2004: 42). In altre parole, esplicitare ciò che nel testo originale è implicito non rientra nei compiti di un traduttore. Per contro:

 

Tutta l’opera di addomesticamento che il traduttore non compie, è strada in più che deve essere percorsa dal lettore, e perciò, a seconda di quanto il lettore modello della cultura ricevente venga considerato capace e attrezzato per affrontare la realtà del mondo altro, il traduttore sarà nei suoi confronti più o meno paternalista, producendo un testo più o meno ghiotto di novità, più o meno liscio, scorrevole. Un testo è scorrevole non soltanto quando la sintassi e il lessico sono consueti, ma anche quando gli elementi culturali che vi si incontrano sono familiari (Osimo 2004: 56).

 

Ma come ci si deve comportare nel caso in cui il motivo per cui una citazione viene  fatta è evidente presumibilmente solo all’interno della cultura emittente o addirittura solo all’autore? Ecco un esempio estratto dal testo di Rabassa che ho tradotto:

 

Although the French sound of lingerie is not too difficult to reproduce fairy closely in English, most people will plusquam it into a hyper-Gallic lahnjeray, a sound worthy of W. C. Fields and his say finay [grassetto aggiunto].

 

Con una breve ricerca si risale facilmente a chi sia stato W.C. Fields, nome d’arte di William Claude Dukenfield (29 gennaio 1880 – 25 dicembre 1946), comico e attore statunitense. Il contesto in cui è inserita la citazione e qualche notizia in più sulla sua carriera permettono di stabilire che (forse) quel say finay non è altro che un tentativo di riportare la pronuncia all’americana dell’espressione francese c’est fini. Si tratta solo di un’ipotesi probabile. Se la citazione non è così memorabile per un lettore americano (visto che non ve n’è traccia on-line), meno ancora lo sarà per il lettore modello italiano del metatesto. Il traduttore dovrà trovare nell’apparato metatestuale lo spazio adeguato per rendere note al lettore queste considerazioni.

Un altro esempio può essere utile per evidenziare la difficoltà di inserire una citazione che l’autore fa velatamente nell’originale, quella che Eco chiama una «strizzata d’occhio al possibile lettore competente» (Eco 3003: 214), in un metatesto all’interno del quale non potrà che essere in qualche modo smascherata. Eccone la prova:

 

What makes translation seem so possible is that we live in a world of similarities and it is too much with us [grassetto aggiunto].

 

Il sospetto che l’ultima parte della frase potesse nascondere una citazione è nato dal risultato piuttosto insensato di una prima traduzione linguistica del passaggio. Una ricerca on-line mirata a verificare se si trattasse di un modo di dire o di una frase fatta mi ha immediatamente indirizzato sulla strada giusta, facendomi capire che mi trovavo di fronte a una citazione della poesia omonima di William Wordsworth. Questa citazione potrebbe passare del tutto inosservata per il lettore del prototesto, che se la individua può fruire dell’ironia ipertestuale prevista dall’autore, ma la sua lettura può proseguire senza ostacoli né rallentamenti anche se il rinvio non viene colto. Ma questo non è vero per il lettore del metatesto, che è costretto a fare i conti con l’effetto straniante della citazione che non può che essere riportata in inglese (non essendo stata mai tradotta autorevolmente). Il rinvio non potrà in alcun modo passare inosservato, ed è bene che il traduttore si preoccupi di informare il lettore che si tratta di una citazione, specificandone l’autore. Solo con una spiegazione metatestuale il lettore del metatesto potrà fruire di una traduzione adeguata e potrà stabilire un contatto autentico con la cultura da cui proviene il testo.

1.7.       Cultura più specificante  versus cultura meno specificante: le diverse delimitazioni dello spettro cromatico

Per stabilire con sicurezza se un enunciato A, it’s raining, sia equivalente a un enunciato B, espresso in un’altra lingua, piove, dovremmo poter esprimere quell’enunciato in una lingua C neutra rispetto alle altre due che serva da parametro. Esclusa la possibilità che esista una «situazione ideale» in cui al centro del processo traduttivo ci sia un oggetto concreto (o che esista una lingua naturale così flessibile da poter essere detta perfetta tra tutte), bisogna fare i conti con il fatto che al centro della mediazione ci sono due segni:

 

La struttura profonda universale [ipotizzata da Chomsky] non esiste, perché ogni lingua influenza il modo in cui viene catalogata la realtà, ogni cultura influenza il modo in cui funziona una lingua e ogni parlante ha un suo modo di esprimere uno stesso contenuto oggettivo (Osimo 2001: 41).

 

Il traduttore allora non può che partire dal segno del prototesto per scegliere un suo corrispettivo nel metatesto. Ma perfino per un semplicissimo enunciato a funzione denotativa è inevitabile incappare nell’obiezione del Terzo Uomo:

 

Per tradurre un testo A, espresso in una lingua Alfa, nel testo B, espresso in una lingua Beta (e dire che B è una traduzione corretta di A, ed equivalente per significato ad A), dovremmo confrontarci a un metalinguaggio Gamma e quindi decidere in che senso A è equivalente in significato a Γ espresso in Gamma. Ma per fare questo occorrerebbe un nuovo meta-metalinguaggio delta, tale che A sia equivalente a Δ espresso in Delta, e poi un meta-meta-metalinguaggio Ypsilon, e così all’infinito (Eco 2003: 348).

 

Il traduttore, costretto a scegliere un solo traducente, ne sceglierà uno con uno spettro semantico parzialmente sovrapponibile a quello del segno del prototesto, ma che certamente ricoprirà nella cultura ricevente anche significati diversi, non tutti previsti dall’autore del prototesto. Alcune culture infatti sono più specificanti di altre in una determinata sfera, e questo dà luogo a traduzioni più vaghe o riduttive (nel caso di traduzione da una cultura meno specificante a una più specificante) o ridondanti, quando la traduzione va nella direzione opposta. D’altra parte, Eco sottolinea che:

 

[…] se le diverse organizzazioni linguistiche possono apparire mutuamente incommensurabili, esse rimangono peraltro comparabili. […] Siamo stati ricattati per anni dalla notizia che gli eschimesi hanno diversi nomi per individuare, a seconda dello stato fisico, quella che noi chiamiamo neve. Ma poi si è concluso che gli eschimesi non sono affatto prigionieri della loro lingua, e capiscono benissimo che quando noi diciamo neve indichiamo qualcosa di comune a ciò che essi chiamano in vari modi. D’altra parte, il fatto che un francese usi la stessa parola, glace, per indicare sia il ghiaccio che il gelato, non lo porta a mettere cubetti di gelato nel proprio whisky (Eco 2003: 351).

 

Se la traduzione interlinguistica dà buoni risultati quando abbiamo a che fare con situazioni che concernono «stati fisici o azioni che dipendono dalla nostra struttura culturale» (Eco 2003: 352), diventa più complicato esprimere concetti che in altre culture non hanno un nome semplicemente perché “non esistono”. Il testo di Rabassa suggerisce un esempio particolarmente calzante e altrettanto quotidiano per poter affrontare questo aspetto della traduzione: i colori.

Si legge infatti a pagina 91: «Columbia’s blue can never reproduce Yale’s, yet both are blue and have a great many cultural concomitants in common» (Rabassa: 2005: 20).

La prima questione che il traduttore deve risolvere è capire di che colori si tratta, visto che con ogni probabilità a un traduttore italiano questi colori non dicono granché; la ricerca on-line di Yale blue rinvia immediatamente al sito della Yale University che dedica una sezione esclusivamente alla descrizione di questo colore e agli usi a cui deve essere destinato. Si tratta del colore distintivo dell’università: «Yale Blue should be used as a spot color for official stationery, banners and signage, brochures, and single-color publications». La pagina è corredata di un riquadro colorato che permette di capire a tutti gli effetti di che colore si sta parlando (del resto, basta consultare il sito della Yale University per ritrovarlo ovunque). Il referente di questo colore per chi ha una certa familiarità con l’università è evidente, per un lettore italiano invece potrebbe non rappresentare assolutamente niente.

Il significato di «Columbia’s blue» non è più chiaro. Procedendo allo stesso modo arriviamo a vedere di che colore si tratta, a capire che è il colore distintivo della Columbia University, ma non a trovare una soluzione traduttiva che renda giustizia tanto agli impliciti culturali che questi due «blue» portano con sé quanto all’esigenza di chiarezza nei confronti del lettore del metatesto (tanto più che Rabassa utilizza questi colori come esempio lampante di tonalità di «blue» tra loro diverse). È come se un italiano descrivesse un colore come «blu Inter». Anche se si tratta di una nomenclatura che non esiste, il lettore italiano non sarebbe turbato se leggendo la incontrasse, e l’idea di questo colore che formulerà un lettore di Torino sarà con ogni probabilità molto simile a quella che si farà un lettore di Agrigento, proprio perché ci troviamo di fronte a uno di quei rari casi in cui gli interpretanti di un lettore saranno verosimilmente molto simili a quelli di un altro lettore che appartiene allo stesso contesto culturale (nazionale, in questo caso) e il segno verbale «blu Inter» ha ottime probabilità di essere decifrato immediatamente e in modo corretto. La stessa nomenclatura potrebbe risultare completamente oscura per un lettore straniero poco interessato al calcio italiano o che non conosca i colori sociali dell’Inter. Probabilmente parlare a un americano di «blu Inter» è come parlare a un italiano di «Yale’s blue» o di «Columbia’s blue»: non veicola un messaggio preciso.

Una soluzione, che andrebbe nella direzione del lettore, potrebbe essere trasformare gli elementi di cultura altrui in elementi di cultura propria del lettore, lasciando il lettore ignaro della naturalizzazione compiuta: ecco un esempio di ciò che Toury chiama traduzione «accettabile». Si potrebbe procedere in questo modo: accostare le tavole con le principali gradazioni di blu e la loro nomenclatura in entrambe le lingue e selezionare degli omologhi per ciascuno dei due colori. Certo, questo procedimento oltre a non rispettare l’esotismo del testo originale va anche a scapito della precisione, ma con una certa approssimazione si può affermare che allo «Yale’s blue» corrisponde il nostro blu notte, mentre il «Columbia’s blue» è quello che noi chiamiamo semplicemente «azzurro». In definitiva, la scelta del traducente è una questione di negoziazione tra traduttore, autore e lettore.

In ogni caso, questo esempio ci conferma che:

 

(i) Esistono segmentazioni diverse del continuum spettrale e (ii) non esiste pertanto una lingua universale dei colri; tuttavia (iii) non è impossibile la traduzione da un sistema di segmentazione all’altro: […] abbiamo fatto riferimento a un parametro di riferimento, che è la divisione scientifica dello spettro, e in tal senso abbiamo certamente manifestato un certo etnocentrismo – ma in effetti abbiamo fatto l’unica cosa che potevamo fare, e cioè partire dal noto per arrivare a comprendere l’ignoto (Eco 2003: 362).

 

Ma la questione si complica, al punto che se traducessimo in questo modo provocheremmo una contraddizione in termini all’interno del testo tradotto. Ecco come sarebbe la traduzione del breve passaggio di Rabassa utilizzando questi traducenti: «L’azzurro non potrà mai riprodurre il blu notte, eppure entrambi sono blu e hanno molte concomitanze culturali». Innanzitutto è evidente che dire che l’azzurro è blu è un controsenso e il valore didascalico dell’esempio è perso. Visto che i linguaggi naturali non sono isomorfi e non esiste la corrispondenza reciproca biunivoca dei segni, è anche impossibile pensare al concetto di «equivalenza linguistica automatica» «blue» = blu, quando i traducenti di «blue» in italiano si distinguono in «blu», «azzurro» e «celeste», dal più scuro al più chiaro. Il che darebbe luogo ad assurdi, come quello descritto da Osimo:

 

Pensiamo all’esempio dei caschi “blu”. Chiunque abbia visto alla televisione le truppe dell’ONU sa che hanno il casco azzurro o celeste, ma di certo non blu. Si tratta certamente di una traduzione dall’inglese o dal francese che non ha tenuto conto della differenza di campo semantico (e spettro cromatico) e nemmeno del colore del casco (Osimo 2001: 59).

 

Non resta che propendere per la soluzione che Eco chiama «source oriented» (Eco 2003: 364) e far sentire al lettore lo straniamento di un mondo cromatico diverso dal proprio, mantenendo in traduzione Yale blue e Columbia blue e dedicando qualche riga all’interno dell’apparato di note alla spiegazione del processo traduttivo che ha portato alla scelta di questi traducenti.

1.8.       I realia: esempi e soluzioni traduttive

In traduttologia i realia, dall’aggettivo sostantivato latino che significa «le cose reali», sono «le parole che denotano cose materiali culturospecifiche» (Osimo 2004: 63). I ricercatori bulgari Vlahov e Florin ne danno questa definizione, che riporta Osimo:

 

[…] parole (e locuzioni composte) della lingua popolare che costituiscono denominazioni di oggetti, concetti, fenomeni tipici di un ambiente geografico, di una cultura, della vita materiale o di peculiarità storico-sociali di un popolo, di una nazione, di un paese, di una tribù. E che quindi sono portatrici di un colorito nazionale, locale o storico; queste parole non hanno corrispondenze precise in altre lingue (in Osimo 2004: 64).

 

Il problema della loro traduzione si inserisce nell’ambito più vasto della traducibilità culturale e rappresenta uno dei cardini su cui si costruisce una strategia traduttiva. Alle estremità del continuum delle loro possibilità traduttive ci sono «la sostituzione con un omologo locale del fenomeno della cultura emittente (“art nouveau” come resa francese di Jugendstil)», che colloca prepotentemente la traduzione nell’ambito dell’accettabilità e la «trascrizione (o traslitterazione se la parola originaria è di alfabeto diverso da quello della cultura ricevente) carattere per carattere» (Osimo 2004: 64), che invece fa andare la traduzione nella direzione opposta, quella dell’adeguatezza. Ma questi sono solo i due estremi del continuum di possibilità a disposizione di un traduttore; come fare a scegliere la strategia più adatta? Visto che non esiste una regola assoluta, è utile esaminare qualche esempio estratto dal testo di Rabassa e procedere all’analisi delle scelte caso per caso. La tabella illustra nella prima colonna l’esempio estratto dal testo originale, nella seconda colonna ho riportato le pagine di riferimento delle citazioni, nella terza le definizioni tratte dai dizionari, nella quarta il nome dei dizionari di riferimento e nella quinta una proposta di soluzione traduttiva, secondo i criteri individuati da Osimo (Osimo 2004: 64-65).

 

 

Esempio

Pag.

Definizione

Fonte

Soluzione

Felony

61

1: One of several grave crimes, such as murder, rape, or burglary, punishable by a more stringent sentence than that given for a misdemeanor.

2: Any of several crimes in early English law that were punishable by forfeiture of land or goods and by possible loss of life or a bodily part.

The American Heritage (2000)

Esplicitazione

Misdemeanor

61

A crime less serious than a felony.

Merriam-Webster (2000)

Esplicitazione

Walking the perp

61

The deliberate escorting of an arrested suspect by police in front of reporters and television cameras, especially as a means of pressuring or humiliating the suspect.

The free dictionary (2009)

Traduzione contestuale

The Village

71

Section of New York City in Manhattan on lower W side.

Merriam-Webster (2000)

Trascrizione

A good-time Charley

77

An affable, sociable, pleasure-loving man.

Dictionary.com (2006)

Trascrizione

A Johnny-come-lately

77

1: A late or recent arrival: newcomer

2: upstart <established families tend to hold themselves above the Johnny-come-latelies — William Zeckendorf †1976>

Merriam-Webster (2000)

Trascrizione

[Go to the] John

77

Informal, a toilet or bathroom.

Dictionary.com (2006)

Trascrizione

 

«Felony» e «misdemeanor» non hanno omologhi negli ordinamenti giuridici di Civil law. Il dizionario inglese-italiano (Garzanti 2009) propone il traducente «fellonia», che però copre solo parzialmente lo spettro semantico di «felony»; nello specifico, il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli definisce «fellonia» in questo modo: «‹fel·lo·nì·a› s.f. 1. Nel mondo feudale, il delitto di tradimento della fede giurata dal vassallo al signore. 2. Estens. (arc.). Perfidia, scelleratezza. [Der. di fellone]» (Devoto, Oli 2000).

Ecco la controprova del fatto che le accezioni di «felony» e «fellonia» non solo non si sovrappongono completamente, ma l’accezione di «felony» utilizzata nel testo originale non figura tra nessuna di quelle di «fellonia». La sola possibilità che resta al traduttore che voglia collocare la sua traduzione nell’ambito dell’adeguatezza è di mantenere «felony» nel metatesto. Considerando però il tipo di testo e il tenore del riferimento intertestuale, ho ritenuto più efficace esplicitarne il contenuto («grave crimine»), perdendo il rimando culturospecifico a vantaggio della conservazione della metafora che altrimenti non sarebbe risultata altrettanto immediata per il lettore del metatesto.

Per la traduzione di «misdemeanor» vale lo stesso ragionamento. Anche questo crimine non ha un equivalente nel nostro ordinamento giuridico e al traduttore non resta che adottare le stesse scelte traduttive operate per «felony». Nella mia traduzione «misdemeanor» è stato reso con «reato minore».

Il «perp walk», dove «perp» sta per «perpetrator», e cioè «someone who has committed a crime, or a violent or harmful act», è definito come «the deliberate escorting of an arrested suspect by police in front of the news media, especially as a means of pressuring or humiliating the suspect» (The American Heritage 2000). Rabassa fa rifermento alla pratica diffusa in America di far sfilare pubblicamente gli arrestati davanti ai cittadini e ai media al fine di richiamare tutti alle umiliazioni a cui si va incontro quando si viola la legge. Si tratta anche qui di un elemento culturospecifico che non ha equivalenti in Italia (e quindi neppure in italiano). Questa volta, per coerenza con le scelte precedenti relative alla metafora estesa del “traduttore criminale”, ho scelto una traduzione contestuale («mettere alla berlina») che permettesse di convogliare l’ironia che Rabassa intendeva conferire al passaggio a scapito del riferimento preciso alla legge americana. «Mettere alla berlina» o «mettere alla gogna», nel loro significato figurato si avvicinano molto a «walk the perp», ma la differenza sostanziale è che per un americano la locuzione rimanda a una prassi diffusa e legalizzata, mentre l’italiano fa riferimento a una pena di origine barbarica in uso fino al XIX secolo, della quale oggi è rimasta solo l’accezione figurata di «esporre allo scherno generale» (Devoto, Oli 2000). In altre parole, la scelta di mantenere invariati questi realia avrebbe creato un esotismo nel metatesto che nel prototesto non c’era (fatto di per sé normale, trattandosi di una traduzione), ma avrebbe anche avuto la conseguenza di spostare il focus della metafora dall’ironia all’esotismo.

Quando Rabassa descrive brevemente la sua infanzia parla del «Village». Anche la geografia è un elemento culturospecifico, ma in questo caso il lettore italiano ha dalla sua il fatto che la cultura americana impregna di sé molta della cultura italiana. I riferimenti al «Village» sono così frequenti – basti pensare al cinema, alla televisione o alla musica – che non si rende necessario neppure chiarire di cosa si tratta.

L’ultima scelta traduttiva che ho dovuto affrontare nella resa dei realia è stata quella dei soprannomi. Rabassa cita alcuni soprannomi in un passaggio del suo libro proprio per sottolineare il fatto che questi veicolano sempre delle sfumature culturali. Vista la funzione di esempio a cui sono stati destinati ho scelto di mantenere anche nel metatesto i soprannomi così come figurano nell’originale. Per completezza si potrebbe decidere di aggiungere una nota in cui vengano tradotti letteralmente i soprannomi per mostrare al lettore italiano la logica con cui sono stati costruiti, insieme all’esplicitazione del loro contenuto. L’effetto di straniamento è evidente soprattutto nell’ultimo caso, «go to the John». L’originale dice: «For purposes of evacuation we go to the John». Rabassa fa ancora una volta appello all’ironia utilizzando il termine «evacuation» nella sua accezione più “dissacratoria”, che ho interpretato, alla luce di quanto scritto in altre pagine del suo libro, come una sorta di condanna al diffuso “perbenismo” della società contemporanea. Nella mia traduzione ho preferito rinunciare a questa sfumatura esplicitando la locuzione «for purposes of evacuation» in «per andare in bagno», “appiattendo” lo stile dell’autore in modo che al lettore italiano fosse immediatamente chiaro il significato veicolato da quel soprannome. In altre parole, ai fini della comprensione per il lettore del prototesto la spiegazione del significato del soprannome sarebbe stata solo accessoria e ridondante, mentre diventa ben più importante per il lettore del metatesto.

1.9.       L’impossibilità di capire e trasporre tutto

Alla luce di tutte le considerazioni fatte fin qui, propongo uno schema che mette in evidenza la posizione del tutto particolare del traduttore nella comunicazione scritta nel caso di un testo tradotto.

 

Autore empirico cultura emittente > Autore modello cultura emittente > Testo cultura emittente > Lettore modello cultura emittente > Lettore esempio cultura emittente = Traduttore = Autore empirico cultura ricevente > Autore modello cultura ricevente > Testo cultura ricevente > Lettore modello cultura ricevente > Lettore empirico cultura ricevente (Osimo 2004: 45; neretto aggiunto).

 

Come sottolinea Osimo «la centralità grafica della posizione del traduttore – collocato tra due impegnativi segni di uguaglianza – corrisponde alla sua centralità operativa» (Osimo 2004: 45). La sua responsabilità nei confronti del lettore del metatesto è tanto più grande quanto più le ipotesi inferenziali che compie nel corso della traduzione determinano scelte traduttive che restringono il campo delle possibili ipotesi interpretative del lettore. In questo modo il traduttore assume su di sé il ruolo che lo scrittore del prototesto affida invece al suo lettore modello. Ma il traduttore è anche autore del metatesto, e pertanto acquisisce anche tutte le responsabilità dell’autore. Se è condivisibile affermare che in un certo senso «ogni traduzione è una traduzione scorretta (mistranslation)», come suggerisce Osimo sulla scorta della logica di Harold Bloom, secondo cui «ogni lettura è una lettura scorretta (misreading)» perché altro non è che il desiderio inconscio di ogni autore di eclissare i suoi precursori, concordo nel concludere che il fenomeno della mistranslation

 

«[…] non è legato necessariamente a un desiderio inconscio, quanto a un’impotenza di cui siamo del tutto consapevoli: è impossibile capire tutto ciò che un autore vuole trasmettere con il suo testo, ed è impossibile trasporre tutto ciò che si è capito in un alta lingua, lasciando al lettore le stesse possibilità di comprensione/incomprensione e interpretazione presenti nell’originale. Si ha comunque un residuo. L’importante è tenerne conto» (Osimo 2004: 40).

 

Concetto, questo, non molto diverso da quanto espresso da Rabassa a conclusione del terzo capitolo di If this be treason, «Stringing words together by culture», l’ultimo da me tradotto: «Translation may be impossible, but it can at least be essayed» (Rabassa 2005: 21).

1.10.   Alcune note biografiche su Gregory Rabassa

Gregory Rabassa nasce a Yonkers (New York) nel 1922 da padre cubano e madre statunitense. Cresciuto nel New Hampshire, frequenta la Dartmouth University alla facoltà di lingue romanze dove studia portoghese, russo e tedesco. Nel 1942 parte come volontario dell’esercito per il Nord Africa e l’Italia, e grazie alle sue competenze linguistiche entra a far parte dell’Office of Strategic Services con l’incarico di decifrare i codici segreti militari. È questo, in un certo senso, l’inizio della sua carriera di traduttore (Bast 2004). Tornato negli Stati Uniti, nel 1947 ottiene un master in letteratura spagnola e nel 1954 consegue il dottorato presso la Columbia University con la tesi The Negro in Brazilian Fiction since 1988 (Rivera 2003). Dopo la laurea lavora come redattore per Odyssey Rewiew, una rivista letteraria dedicata alla nuova letteratura europea e latinoamericana. Occupandosi lui stesso di alcune traduzioni destinate alla pubblicazione sulla rivista, ha l’opportunità di tradurre Rayuela, un romanzo sperimentale dello scrittore argentino Cortázar che gli fa vincere il primo National Book Award per la traduzione nel 1967. È proprio su suggerimento di Cortázar che Garcia Márquez sceglie Rabassa per tradurre in inglese il suo capolavoro Cent’anni di solitudine. Da quel momento Rabassa lavora incessantemente: ad oggi ha tradotto più di sessanta opere, di una trentina di autori provenienti da dodici paesi diversi, tra cui il Premio Nobel Miguel Ángel Asturias (Deresiewicz 2005). Dal 1968 insegna presso il Queens College di New York e oggi è Distinguished Professor of Hispanic Languages and Literatures. Il 9 novembre 2006 riceve la National Medal of Arts, la più alta ricompensa per meriti artistici, consegnata dal presidente George W. Bush a nome del popolo degli Stati Uniti nello Studio Ovale della Casa Bianca (Queens college 2009).

 


1.11.   Riferimenti bibliografici

 

Bast, A. (2004). «A translator’s long journey, page by page». New York Times, 25 maggio, disponibile in internet al sito www.nytimes.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Deresiewicz, W. (2005). «The interpreter». New York Times, 15 maggio, disponibile in internet al sito www.nytimes.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Devoto, G. e Oli, G. a cura di (2000). Il dizionario della lingua italiana, Firenze: Le Monnier.

 

Dictionary.com (2006). Dictionary.com unabridged, based on the Random House Unabridged Dictionary, Random House, disponibile in internet al sito www.dictionary.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Eco, U. (2003). Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano: Bompiani.

 

Garzanti Garzanti (2009), Dizionario di italiano Garzanti, disponibile in internet all’indirizzo www.garzantilinguistica.it, consultato nell’ottobre 2009.

 

Gray, P. (1988). «Books: bridge over cultures». Time, 11 luglio, disponibile in internet al sito www.time.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Margolis, M. (2005). «Flirting with treason». Newsweek, 9 maggio, disponibile in internet all’indirizzo www.newsweek.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Merriam-Webster (2000). Merriam Webster’s online dictionary, Springfield (MA): Merriam-Webster. disponibile in internet all’indirizzo www.merriam-webster.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

Nergaard, S. a cura di (1993). La teoria della traduzione nella storia. Milano: Bompiani.

 

Osimo, B. (2001). Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano: Hoepli.

 

Osimo, B. (2004). Manuale del traduttore: guida pratica con glossario, Milano: Hoepli.

 

Queens College (2009). «Professor Gregory Rabassa, translator of Latin American literature, receives national medal of arts». News Releases – QC Queens College, disponibile in internet all’indirizzo www.qc.cuny.edu, consultato nell’ottobre 2009.

Rabassa, G. (2005). If this be treason: translation and its dyscontents, New York: New Directions.

 

Rivera, L. (2003). «The translator in his labyrinth». Fine books & collections magazine, luglio/agosto, disponibile in internet all’indirizzo www.finebooksmagazine.com, consultato nell’ottobre 2009.

 

The American Heritage (2000). The American Heritage Dictionary of the English Language, Boston: Houghton Mifflin, disponibile in internet all’indirizzo www.education.yahoo.com/reference/dictionary/ consultato nell’ottobre 2009.

 

The free dictionary (2009), The free dictionary, disponibile in internet all’indirizzo www.thefreedictionary.com, consultato nell’ottobre 2009.

Torop, P. (2010) [2009]. La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, Milano: Hoepli.

 

 

 

 

 

 

 

  1. Traduzione con testo a fronte


Gregory Rabassa: If this be treason. La gestione del residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

 

Gregory Rabassa

New Directions, US

If this be treason. Translation and its dyscontents 2005 pp. 3-21

I

The  Many  Faces  of  Treason

 

 

Commonplaces may come and go, but one that has held forth over the years to the dismay and discouragement of translators is the Italian punning canard traduttore, traditore (translator, traitor), leading one to believe that the translator, worse than an unfortunate bungler, is a treacherous knave. Before copping a plea and offering a nolo contendere, let me see wherein this treason lies and against whom. Then we translators can withdraw once more into that limbo of silent servitors, for, as Prince Segismundo says at the end of Calderon’s Life Is a Dream when he awards his liberator the tower where he had been imprisoned, “The treason done, the traitor is no longer needed.”

 

Gregory Rabassa: If this be treason. La gestione del residuo traduttivo nella comunicazione interlinguistica

 

Gregory Rabassa

New Directions, US

If this be treason. Translation and its dyscontents 2005 pp. 3-21

I

le  molte  facce  del  tradimento

 

 

I Luoghi comuni vanno e vengono, ma uno che ha tenuto banco nel tempo provocando lo sgomento e lo sconforto dei traduttori è il maligno gioco di parole italiano traduttore, traditore, che porta a credere che il traduttore, più che uno sventurato pasticcione, è un traditore senza scrupoli. Prima di dichiararmi colpevole e di presentare un’istanza di nolo contendere, fatemi vedere dove risiede e contro chi è questo tradimento. Dopo di che noi traduttori possiamo ritirarci ancora una volta in quel limbo di servitori silenti perché, come dice il Principe Sigismondo alla fine di La vita è sogno di Calderón quando dà come ricompensa al suo liberatore la torre in cui era stato imprigionato, «el traidor no es menester siendo la traicion pasada».

 

Let us submit the practice of translation to a judicial enquiry into its various ways and means and in this display seek out the many varieties of betrayal which might be inherent to its art. I say art and not craft because you can teach a craft but you cannot teach an art. You can teach Picasso how to mix his paints but you cannot teach him how to paint his demoiselles. There are many spots where translation can be accused of treason, all inevitably interconnected in such diverse ways that an overall view is needed to reveal the many facets of the treason the Italians purport to see.

The most elemental of these will be betrayal of the word, for the word is the very essence of language, the metaphor for all the things we see, feel, and imagine. Out of this we also have a betrayal of language, in both directions (I try to avoid the jargon of “target language”; I am an old infantryman, and we dogfaces were taught to shoot at a target and, ideally, kill it). Languages are the products of a culture, or perhaps the reverse as some bold anthropologist might have it. Treason against a culture will therefore be automatic as we betray its words and speech as well as assorted other little items along the way.

Then we come to personal betrayals, those against the peo­ple involved in the act of translation. The first victim is, of course, the author we are translating. Can we ever make a different-colored done?……

 

Sottoponiamo a un’inchiesta giudiziaria la pratica della traduzione nei suoi molteplici aspetti e metodi, e in questa dimostrazione cerchiamo di scovare le molte varietà di tradimento che potrebbero avere attinenza con quest’arte. Dico arte e non abilità perché si può insegnare un’abilità ma non un’arte. Si può insegnare a Picasso come mischiare i colori ma non gli si può insegnare come dipingere le sue demoiselles. Ci sono molti ambiti in cui la traduzione può essere accusata di tradimento, tutti inevitabilmente correlati in modi così diversi che è necessaria una visione d’insieme per rivelare le molte facce del tradimento che gli italiani sostengono di vedere.

Il più elementare sarà il tradimento della parola, perché la parola è la vera essenza della lingua, la metafora di tutto ciò che vediamo, sentiamo e immaginiamo. Oltre a questo abbiamo anche un tradimento della lingua, in entrambe le direzioni (cerco di evitare il gergo di target language; sono un ex fante, e a noi soldati di fanteria insegnavano a sparare a un target, un bersaglio, e, in teoria, ucciderlo). Le lingue sono prodotti di una cultura, o forse è il contrario, come alcuni arditi antropologi sembrano sostenere. Il tradimento di una cultura sarà quindi automatico se oltre a tradire le sue parole e il suo discorso tradiamo contemporaneamente anche altri piccoli elementi.

Veniamo poi ai tradimenti personali, quelli contro chi è coinvolto nell’atto di tradurre. La prima vittima è, naturalmente, l’autore che stiamo traducendo. Potremo mai fare un clone di un un

 

clone of what he (read he/she, as in a U.N. document) has done? Can we ever feel what the author felt as he wrote the words we are transforming? As we betray the author we are automatically betraying our variegated readership and at the same time we are passing on whatever bit of betrayal the author himself may have foisted on them in the original (unless we have left it out on some Frosty morning along with the poetry). Lastly and most subtly we betray ourselves. We will sacrifice our best hunches in favor of some pedestrian norm in fear of betraying the task we were set to do. The facelessness imposed on the translator, so often thought of as an ideal, can only mean incarceration in Segismundo’s tower in the end. This last betrayal must stand before all the treasons here delineated as the most foul.

Words are treacherous things, much moreso than any translator could ever be. As is obvious, words are mere metaphors for things. This is shown by the biting episode in Part III of Gulliver’s Travels where the traveler reaches the city of Lagado and visits the Grand Academy. Here Dean Swift has the Projectors explain a plan to save our lungs by doing away with words in oral communication, “since words are only names for things, it €would be convenient for all men to carry about them such things as were necessary to express the particular business they are to discourse on.” This solution, along

 

altro colore di quello che lui (leggi lui/lei, come in un documento dell’ONU) ha fatto? Potremo mai sentire quello che sentiva l’autore mentre scriveva le parole che stiamo trasformando? Quando tradiamo l’autore tradiamo automaticamente il nostro pubblico variegato e allo stesso tempo  gli deleghiamo anche il più piccolo tradimento che l’autore stesso potrebbe avergli rifilato nell’originale (se non lo omettiamo come succede in qualche mattino di gelo insieme alla poesia). Ultimo e più sottile dei tradimenti, quello contro noi stessi. Sacrificheremo le nostre intuizioni migliori a favore di qualche norma pedestre nel timore di tradire il compito che ci è stato assegnato. L’anonimato imposto al traduttore, così spesso ritenuto un principio intoccabile, alla fine può solo portare alla carcerazione nella torre di Sigismondo. Quest’ultimo tradimento deve venire prima di tutti i tradimenti fin qui delineati perché è il più sporco.

Le parole sono cose subdole, ancora più di quanto possa esserlo qualunque traduttore. Come è ovvio, le parole sono semplici metafore delle cose. Ne è dimostrazione il pungente episodio della terza parte dei Viaggi di Gulliver in cui il viaggiatore raggiunge la città di Lagado e visita la grande Accademia. Qui il diacono Swift fa spiegare ai progettisti un piano per salvare i nostri polmoni evitando di usare le parole nella comunicazione orale, perché «essendo le parole soltanto nomi delle cose, sarebbe più conveniente se tutti gli uomini recassero seco le cose necessarie a esprimere una certa faccenda di cui debbono discorrere». Questa soluzione, oltre a …………

 

with prolonging our lives, would also eliminate the need for all the many languages that are spoken in the world. We could even get about rebuilding Babel. More than likely Swift was also hinting at class distinctions here, as a wealthy man with a retinue of servants carrying his “things” would be much more eloquent and expressive than a poor man who would have to do with one simple rucksack. In the real world the rich man with his college education can express himself so much better and more clearly than the poor illiterate.

There is more to it than this. If a word is a metaphor for a thing, why does a single thing have so many metaphors in orbit about it? Here we have the dire consequences of Babel. If Mama Lucy had speech, her Ursprache must have spread out and scattered into more variants than the birdsongs of a single species. This has left us with a welter of words to designate one simple thing. Stone can never sound like pierre, so are the two words interchangeable simply because they represent the same object? Since Flaubert would either say or think pierre when he picked one up does stone cover his thought when we translate him? We can only say that here translation has betrayed a complete and clear sense of the stone’s thingness for the author, with no attempt in this lithic example to bring in the attendant nuances of Peter and the Papacy. That Lagadian discussion would best be left to the likes of Bouvard and Pécuchet, along with the analysis of why a diamond is a stone to the

 

prolungare la nostra vita, eliminerebbe anche la necessità di tutte le molte lingue che sono parlate nel mondo. Potremmo persino pensare di ricostruire Babele. Con ogni probabilità qui Swift stava anche alludendo alle distinzioni di classe, dato che un uomo ricco con un seguito di servitori che trasportano le sue «cose» sarebbe risultato molto più eloquente ed espressivo di uno povero che avrebbe dovuto arrangiarsi con un semplice zaino. Nel mondo reale l’uomo ricco con la sua istruzione universitaria può esprimersi molto meglio e più chiaramente del povero analfabeta.

C’è ancora altro da aggiungere. Se una parola è metafora  di una cosa, perché una singola cosa ha così tante metafore nella sua orbita? Ecco le conseguenze disastrose di Babele. Se Mamma Lucy avesse saputo parlare, il suo Ursprache avrebbe dovuto diffondersi e scindersi in varianti più numerose dei canti degli uccelli di un’unica specie. Questo ci ha lasciato con un ammasso di parole per designare solo una cosa. Stone non suonerà mai come pierre, allora le due parole sono interscambiabili solo perché rappresentano lo stesso oggetto? Dato che Flaubert avrebbe detto o pensato pierre sollevandone una, stone ricopre tutto il suo pensiero quando lo traduciamo? Possiamo solo dire che qui la traduzione ha tradito un senso completo e chiaro della cosità della pietra per l’autore, e questo esempio litico non vuole essere un tentativo  di mettere in luce la conseguente sottile differenza tra  Pietro e il Papato. Quella discussione di Lagado sarebbe meglio che venisse lasciata ai simili di Bouvard e Pécuchet, insieme all’analisi del perché un diamante è una

 

jeweler but a rock to the jewel thief.

Not only has the object been betrayed here but the word itself has also been. As it moves ahead (progresses?), a language will load a word down with all manner of cultural barnacles along the way, bearing it off on a different tangent from a word in another tongue meant to describe the same thing. Among languages there are ever so many terms used to denote the same object and by their very variety they beggar any possibility of ascertaining the unique reality of said object. The now regnant cult of indeterminacy might be happy with this, but homo sapiens likes to know as his name implies and which is what makes us what we are today and what we shall be tomorrow if we ever get that far. It may be that there is something like Heisenberg’s principle of uncertainty at work in lexicology so that every time we call a stone a pierre we have somehow made it something different from a stone or a Stein. This leaves us with the question of whether a stone can ever be a pierre or a pierre a stone and whether either of them can be that hard object we are looking at on the ground, teaching us that even if a thing can be cloned the word that designates it cannot and any attempt to reproduce it in another tongue is betrayal.

Some concepts seem to be the exclusive property of one language and cannot be rightly conceived in another. When we have trouble coming up with just the right word in English we turn to the French and say “a certain je ne sais quoi”. If we say “a certain I ……..

 

pietra per il gioielliere ma un sasso per il ladro di gioielli.

Qui non solo è stato tradito solo l’oggetto, ma anche la parola stessa. Man mano che va avanti (progredisce?), una lingua si fa carico di una parola con ogni sorta di implicito culturale, e la colloca su una tangente diversa da quella di una parola in un’altra lingua volta a descrivere la stessa cosa. In ogni lingua ci sono tantissimi termini per riferirsi allo stesso oggetto e proprio a causa della loro estrema varietà rendono vana qualunque possibilità di accertare l’unica realtà dell’oggetto in causa. Il culto dell’indeterminatezza che regna oggi forse ne sarà felice, ma all’homo sapiens piace sapere come suggerisce il suo nome e questo è ciò che ci rende quello che siamo oggi e quello che potremmo essere domani se mai arriveremo così lontano. Forse c’è qualcosa come il principio di indeterminazione di Heisenberg all’opera in lessicologia così che ogni volta che chiamiamo una pietra pierre l’abbiamo resa in qualche modo qualcosa di diverso da una stone o da una Stein. Questo ci lascia con il dubbio se una pietra potrà mai essere una pierre o una pierre una pietra, e se una di queste sia effettivamente l’oggetto duro che stiamo guardando per terra, insegnandoci che anche se una cosa può essere clonata la parola che la designa non può esserlo e ogni tentativo di riprodurla in un’altra lingua è un tradimento.

Alcuni concetti sembrano di proprietà esclusiva di una lingua e non possono essere compresi con esattezza in un’altra. Quando non riusciamo a trovare la parola giusta in inglese ci rivolgiamo al francese dicendo «a certain je ne sais quoi». Se diciamo «a certain I

don’t know what” the effect is ragged and even unnatural. As we borrow from another language to enrich our own, more often than not there is treason afoot, if not in the meaning certainly in the sound. Although the French sound of lingerie is not too difficult to reproduce fairly closely in English, most people will plusquam it into a hyper-Gallic lahnjeray, a sound worthy of W. C. Fields and his say finay. A betrayal of language is many times the betrayal of words and at the same time it is a reflection of the hurdles present in com­municating between cultures. We tend to acculturate foreign sensitivities, sensibilities, and reflexes into our own milieu with  the requisite changes. Ask a New Yorker what Kafka’s Gregor Samsa awoke as and the inevitable answer will be a giant cock roach, the insect of record in his city. What Kafka called it was simply an ungeheuern Ungeziefer, a monstrous vermin. He then goes on to describe what is obviously a hard-carapaced beetle. The pull of local reality is too strong for a New Yorker to make a closer concept or translation. This then can be seen as a betrayal by the imposition of another culture.

Most of these matters merge to form an indirect betrayal of the author. He is a compendium of all these factors: language, culture, and individual words. These are, in fact, inseparable, and the author is their product, the same as what he writes. His free will and originality only exist within the bounds of his culture. If he is to betray it, he betrays it from within, which connotes intimate …….acqu
don’t know what» l’effetto è stridente e perfino innaturale. Dato che prendiamo in prestito elementi di un’altra lingua per arricchire la nostra, il più delle volte è in corso un tradimento, se non nel significato certamente nel suono. Benché il suono francese di lingerie non sia così difficile da riprodurre piuttosto fedelmente in inglese, la maggior parte lo esagererà in lahnjeray, un ipergallicismo degno di W.C. Fields e il suo say finay. Un tradimento della lingua spesso è il tradimento delle parole e allo stesso tempo è un riflesso degli ostacoli presenti nella comunicazione fra culture. Tendiamo ad acculturare la sensibilità, la ricettività e i riflessi stranieri nel nostro stesso ambiente con i necessari cambiamenti. Chiedete a un abitante di New York come si è ritrovato Gregor Samsa di Kafka quando si è svegliato e l’inevitabile risposta sarà uno scarafaggio gigante, un insetto ben noto nella sua città. Quello che intendeva Kafka era semplicemente un ungeheuern Ungeziefer, un mostruoso parassita. Poi continua a descrivere quello che ovviamente è un coleottero con un duro carapace. Per un abitante di New York il richiamo della realtà locale è troppo forte per arrivare a un concetto o a una traduzione più rigorosi.D Questo poi può essere visto come un tradimento provocato dall’imporsi di un’altra cultura.

La maggior parte di queste difficoltà si fondono per ordire un tradimento indiretto dell’autore. L’autore è un compendio di tutti questi fattori: lingua, cultura e singole parole. Questi sono, di fatto, inseparabili, e l’autore è il loro prodotto, proprio come ciò che scrive. Il suo libero arbitrio e la sua originalità esistono solo all’interno dei confini della sua cultura. Se la deve tradire, la tradisce dall’interno,
knowledge, while the translator betrays it from without, from an acquired reflective, not reflexive, awareness.

Whitin his cultural limits the author, asan individual, can and, indeed, must extend himself as far as he can to set himself and his art apart from the commonplace, showing all the while whence he comes, doing this through language most of all. With the translator we have quite the opposite situation. He cannot and must not set himself apart from the culture laid out before him. To do so would indeed be treasonous. He must marshal his words in such a way that he does not go counter to the author’s intent. Nowhere is translation more dubious than here as we try to translate into our own language and culture something that the author is translating into words within his culture and still make it our own. Treasonous it is. The important thing is to consider whether the treason is high or low, the sin mortal or venial. There are those who, like like Nabokov, view translation as a criminal act that can only be  judged as to whether it is a felony or just a misdemeanor and there are so many critics who do enjoy walking the perp.

While all this is going on, matters of which the translator must be quite aware, there is a danger of the translator’s committing the saddest treason of all, betrayal of himself. The translator, we should know, is a writer too. As a matter of fact, he could be called the ideal writer because all he has to do is write; plot, theme, characters, and all the other essentials have already been provided,

dimostrando di averne una conoscenza approfondita, mentre il traduttore la tradisce dall’esterno, da una consapevolezza acquisita che è basata su una riflessione, non su un riflesso.

All’interno dei suoi limiti culturali l’autore, come individuo, può, e di fatto deve, estendersi il più possibile per collocare se stesso e la sua arte al di là del luogo comune, mostrando nello stesso tempo da dove viene e servendosi soprattutto della lingua. Con il traduttore si ha una situazione esattamente opposta. Non può e non deve prendere le distanze dalla cultura che si trova di fronte. Fare questo infatti sarebbe un tradimento. Deve organizzare le parole in modo da non andare contro l’intento dell’autore. Non esiste traduzione più discutibile di quella in cui proviamo a tradurre nella nostra lingua e cultura qualcosa che l’autore sta traducendo in parole all’interno della sua cultura e infine farla nostra. È un tradimento. L’importante è considerare se il tradimento è alto o basso, il peccato mortale o veniale. C’è chi, come Nabokov, vede la traduzione come un atto criminale di cui si può solo giudicare se si tratti di un grave crimine o solo di un reato minore e sono tantissimi i critici che si dilettano a puntare il dito contro questi criminali.

Mentre succede tutto questo, problemi di cui il traduttore dev’essere ben consapevole, il traduttore corre il rischio di commettere il tradimento più triste di tutti, quello verso se stesso. Il traduttore, dovremmo saperlo, è anche uno scrittore. Di fatto, dovrebbe essere chiamato lo scrittore per eccellenza perché tutto ciò che deve fare è scrivere; trama, tema, personaggi, e tutti gli altri

 

so he can just sit down and write his ass off. But he is also a reader. He has to read the text closely to know what it’s all about. Here is

where he receives less guidance or direction from the text. It is a common notion to say that if a work has 10,000 readers it becomes 10,000 different books. The translator is only one of these readers and yet he must read the book in such a way that he will be reading the Spanish into English as he goes along, with the result that his reading is also writing. His reading, then, becomes the one reading that is going to spawn 10,000 varieties of the book in the unlikely case that it will sell that many copies and will be read by that many people.

Our translator must know that this is the best he can do in this place and at this time and must still recognize that his work is, in a sense, unfinished. Although I have been satisfied with a translation when I finish it (as a translator ought to be), years later as I peruse the published text I find myself wishing I could make some changes for the better. When a translator starts an attempt at reasoning out a solution it is best to emulate Alexander before Phrygia as he sliced through the Gordian knot with his sword in a demonstration of what Ortega y Gassect called “Vital reason.” The translator must not betray his hunches. There will be carping from the critics, but he will be closer to being right that way and, in any case, he will not have betrayed himself. A careful confidence in himself is as necessary for ……..

 

elementi essenziali ci sono già, quindi deve solo sedersi e scrivere, scrivere. Ma è anche un lettore. Deve leggere il testo attentamente per sapere di cosa parla. Ecco dove riceve meno direttive o indicazioni dal testo. È opinione comune dire che se un’opera ha 10.000 lettori diventa 10.000 libri diversi. Il traduttore è solo uno di questi lettori eppure deve leggere il libro in modo tale che mentre procede sta leggendo lo spagnolo trasformandolo in inglese, con il risultato che la sua lettura è anche scrittura. La sua lettura, allora, diventa l’unica lettura che darà origine alle 10.000 varietà del libro nell’improbabile caso in cui venderà così tante copie e sarà letto da così tanta gente.

Il nostro traduttore deve sapere che questo è il massimo che può fare nella sua posizione e in questo momento e deve anche riconoscere che il suo lavoro è, in un certo senso, incompleto. Nonostante io sia soddisfatto di una traduzione una volta finita (cosa che un traduttore dev’essere), anni dopo quando esamino attentamente il testo pubblicato mi ritrovo a voler fare alcune modifiche in meglio. Quando un traduttore inizia un tentativo di escogitare una soluzione è meglio imitare Alessandro di fronte alla Frigia quando ha tagliato il nodo gordiano con la spada, a dimostrazione di quello che Ortega y Gassat  chiamavano «ragione vitale». Il traduttore non deve tradire le sue intuizioni. Riceverà critiche persistenti, ma sarà più probabile che abbia ragione in quel modo e, in ogni caso, non avrà tradito se stesso. Una prudente fiducia in se stesso è necessaria per un traduttore tanto quanto lo è

 

a translator as it is for the point man in an infantry patrol. He must have a care, however, and remember that with the addition of a slightly aspirated letter auteur  becomes hauteur.

The translator must put to good use that bugbear of timid technicians: the value judgment. In translation as in writing, which it is as we have said, the proper word is better than a less proper but standard one. Here again the translator must borrow Alexander’s short sword. Translation is based on choice and a rather personal one at that. Long ago I discovered a funny thing: if you ponder a word, any word, long enough it will become something strange and meaningless and usually ludicrous. I suppose this is some kind of verbicide, bleeding the poor word of its very essences, its precious bodily fluids, and leaving a dry remnant that could pass for a five-letter group in a cryptographic message. When we snap out of it and retrieve the meaning of the word, we have, in a sense, deciphered it. This is as far as I would go in turning translation entirely over to reason since so much of it should be based on an acquired instinct, like the one we rely on to drive a car, Ortega’s vital reason.

 

per un uomo di punta in un reparto di fanteria. Deve fare attenzione, comunque, e ricordare che con l’aggiunta di una lettera leggermente aspirata auteur diventa hauteur.

Il traduttore deve sfruttare al meglio lo spauracchio degli esperti timorosi: il giudizio di valore. Nella traduzione come nella scrittura, e come abbiamo detto la traduzione lo è, la parola adatta è meglio di una meno adatta ma accettabile. Anche qui il traduttore deve prendere in prestito la spada corta di Alessandro. La traduzione si basa sulla scelta, e per di più su una scelta piuttosto personale. Molto tempo fa ho scoperto una cosa divertente: se rifletti attentamente su una parola, qualunque parola, dopo un po’ diventerà strana e senza senso, e di solito ridicola. Suppongo si tratti in qualche modo di verbicidio, si risucchia alla povera parola la sua vera essenza, i suoi preziosi liquidi biologici, e si lascia un residuo secco che potrebbe passare per un blocco di cinque lettere in un messaggio crittografico. Quando ce ne tiriamo fuori e recuperiamo il significato della parola, in un certo senso l’abbiamo decifrata. Ecco fino a che punto arriverei a sottoporre la traduzione al controllo della ragione dato che in gran parte dovrebbe basarsi su un istinto acquisito, come quello su cui facciamo affidamento quando guidiamo l’auto, la ragione vitale di Ortega.

 

II

IN  PURSUIT  OF  OTHER  WORDS

Let me commit an act of treason against myself now by confessing that translation was not a metier I had set out to follow, nor did I prepare myself for it with any conscious training or contemplation. The Spanish have a saying that goes “El diablo sabe mas por viejo que por diablo” (The devil knows more from being old than from being the devil). I’ve come to realize lately that what I’ve been preening myself for as intelligence is simply the fact that I’ve been around too damned long as I restrain hubris and remember that Lear was old ere he was wise, I have always thought that I just stumbled into translation because it was there serendipity, but with my wiser retrovision I can see that I harbored certain traits that fit nicely in with the needs of translation and which I have honed sharp through use.

I can trace my life back to a certain moment, an epiphany, if you will, when I came into complete self-awareness. From that moment on, existence has been a more or less continuous thread of memory, something that still makes me wonder as I contemplate it from this life of ours as schedule, with its hours, days, and years. I was about three years old and was walking back down Pinneo Hill road to the family house north of Hanover in New Hampshire. I don’t

 

II

ALLA  RICERCA  DI  ALTRE  PAROLE

Ora lasciatemi commettere un atto di tradimento contro me stesso confessando che la traduzione non è stata un’occupazione che avevo previsto di seguire, né a cui mi sono preparato consapevolmente con l’esercizio o la contemplazione. Gli spagnoli hanno un detto che recita: «el diablo sabe mas por viejo que por diablo» (il diavolo sa più cose perché è vecchio più che per essere diavolo). Mi sono reso conto solo di recente che l’intelligenza di cui andavo orgoglioso non è altro che la mia esperienza così incredibilmente lunga grazie alla quale reprimo l’arroganza e ricordo che Lear è diventato vecchio prima di diventare saggio. Ho sempre pensato di essermi imbattuto nella traduzione semplicemente perché era lì, serendipità, ma ripensandoci con il senno di poi mi rendo conto che ho coltivato alcune qualità che corrispondono alle esigenze della traduzione e le ho affinate con l’uso.

Posso ripercorrere a ritroso la mia vita fino a un certo punto, un’epifania se volete, in cui mi sono sentito completamente autocosciente. Da quel momento in poi l’esistenza è stata più o meno un continuo flusso di memoria, cosa che mi stupisce ancora quando la contemplo da questa nostra vita come un’agenda con le sue ore, giorni e anni. Avevo circa tre anni e stavo percorrendo a piedi  Pinneo Hill road per tornare a casa a nord di Hannover nel New

 

know where I’d been been or why, maybe to Damascus, but I was never as sure of myself as old Saul had been. Memory before that had been quite sporadic, as it has become once more over the years, bits and pieces recalled vaguely and episodically as from a dream. This was that odd period in existence when we are as strangers to our now selves. For most of any recall of what I had seen up to before that mystical revelation on Pinneo Hill I was beholden to my parents and others for any memory of what I had been doing. The gist of that period is nicely summed up by Chico Marx as Chicolini in Duck Soup when the prosecutor, played by Charles B. Middleton, asks him when he was born and Chico explains that he can’t remem­ber, he was just a little baby.

It is in this twilight consciousness that we first begin to lis­ten and to speak. When I came into full self-awareness at three I was already endowed with speech and a fair vocabulary in English. Other tongues came later, with conscious acquisition. At that existential awakening, however, as I returned home from I know not where up the hill, I seemed to have no conscious flow of memory of what I had been doing the day before and earlier. The mysterious part of that reverse Alzheimer’s was the existence of certain words and names that I had coined during those previous days, the provenance of which was unknown to me and to everyone else. One of these has stayed with me as I have been reminded of it, and it continues to

 

Hampshire. Non so dov’ero andato o perché, forse a Damasco, ma non sono mai stato sicuro di me come il saggio Saul. I miei ricordi prima di quel momento sono piuttosto sporadici, e lo sono diventati ancor di più col passare del tempo, frammenti e pezzetti ricordati in modo vago ed episodico come in un sogno. Era quell’insolito periodo dell’esistenza in cui ci sentiamo estranei al nostro sé attuale. Per la maggior parte dei ricordi di ciò che avevo visto prima della rivelazione mistica di Pinneo Hill ero grato ai miei genitori e ad altri per qualunque ricordo di quello che avevo fatto. Il succo di quel periodo è ben riassunto da Chico Marx nelle vesti di Chicolini ne La guerra lampo dei fratelli Marx, quando il procuratore, interpretato da Charles B. Middleton, gli chiede quando è nato e Chico spiega che non lo ricorda, era ancora un bambino piccolo.

È in questa consapevolezza crepuscolare che abbiamo iniziato ad ascoltare e a parlare per la prima volta. Quando all’età di tre anni mi sono sentito pienamente autocosciente sapevo già parlare e possedevo un buon vocabolario in inglese. Le altre lingue le ho acquisite consapevolmente più tardi. In questo risveglio esistenziale, comunque, mentre tornavo a casa da non so dove sulla collina, mi sembrava di non avere un flusso di memoria consapevole di quello che avevo fatto il giorno prima e quello prima ancora. La parte misteriosa di quell’Alzheimer al contrario era l’esistenza di alcune parole e nomi che avevo coniato in quei giorni precedenti, la cui provenienza era ignota tanto a me quanto a chiunque altro. Una di queste mi è rimasta dentro finché me la sono ricordata, e continua

 

to fascinate me. The word is magotso, or however it might be spelled, and it is evidently a word I would say when passing a cemetery. I am hard put to come up with a legitimate word for a graveyard that could have been mangled into this bizarre form by infantile efforts at speech. Could it have been some atavistic throwback to Adam who, according to Genesis, was given the marvelous creative privilege of naming things? Perhaps when the sad moment came to plant Abel. Or maybe it was something left over from what Lucy said. Yet again could there have been some early intimations of mortality brought on by my anticipation of getting to know Kierkegaard?

Then there was my first cat, a fine gray tabby queen whose descendants of all colors and types, depending on the wandering torn of the moment, came to inhabit the place for years to come. I must admit that at the time I thought the word “tabby” was, like “puss,” a synonym for cat. We called that type a tiger cat. I had dubbed the animal Quidry, a nice Latinate name; where I’d got it from remains a mystery. It might have been some attempt to reproduce the cat’s meow, which  she also was. This seemingly unconscious christening was more fortunate than one that I undertook many, many years  later during my conscious period. I’d come into possession of another fine tabby to share my cramped quarters on Sullivan  Street in the Village. This one I named Catso, no doubt under the influence of the name Fatso. I should have known better, having served in Italy for two and a half years during

 

ad affascinarmi. La parola è magotso, non so se si scrive così, ed è chiaramente una parola che direi passando per un cimitero. Faccio molta fatica a trovare una parola usata legittimamente per un campo santo che possa essere stata storpiata in questa forma bizzarra dallo sforzo di parola di un bambino. Può essersi trattato di un ritorno atavico ad Adamo a cui, secondo la Genesi, fu dato lo straordinario privilegio creativo di nominare le cose? Forse quando è arrivato il triste momento di seppellire Abele. O forse si tratta di qualcosa che è rimasto di quello che ha detto Lucy. O ancora, può esserci stato qualche segno premonitore di mortalità provocato dalla mia previsione di leggere Kierkegaard?

Poi è arrivato il mio primo gatto, un soriano femmina i cui discendenti di tutti i colori e tipi, a seconda del maschio vagabondo di turno, hanno popolato la zona per gli anni a venire. Devo ammettere che pensavo che la parola tabby  fosse, come puss, un sinonimo di cat. Chiamavamo quella varietà gatto tigrato. Avevo soprannominato l’animale Quidry, un bel nome latineggiante; da dove l’abbia preso resta un mistero. Potrebbe essere stato un tentativo di riprodurre il miagolio del gatto, e lei lo era. Questo battesimo apparentemente inconsapevole è stato più fortunato di un altro che risale a molti, molti anni più tardi durante il mio periodo consapevole. Ero venuto in possesso di un altro bel gatto soriano per condividere i miei pochi metri in Sullivan Street al Village. L’ho chiamato Catso, senza dubbio influenzato dal nome Fatso. Avrei dovuto accorgermi dell’errore, avendo fatto il militare in Italia per

 

during the war. Most likely I simply wasn’t aware of what I was doing, especially since there are differences in spelling, and southern Italians tend to voice the initial consonant.

These small personal anecdotes serve to show how words have any number of possible nuances for every individual as they rest in the subconscious and relate to some early experience. Mr. Chomsky might delve further into the possibility that we may be carrying some mysterious remote lexicon in our DNA. In the translation of words, then, the problem is compounded. We now have the personal word of the author’s to be transformed into a personal word of the translator’s. As always with translation, this calls for a choice among synonyms. Ideally the author’s choice among the synonyms in his own language was made in a purposeful and conscious way. In most cases, however, and as it should be, it is made quite naturally and instinctively: “This is how I want to say it.” The translator, too, should most usually work from this natural application of meaning: “This is how we say it in English.” Nevertheless, the translator must be alert and aware of the fact that both he and the author have their “own” words. It seems easy to match like words (dog/cão) and proceed on. What dog connotes for me, however, is probably different from what cão suggests for Antonio Lobo Antunes, although in common usage he must of course be satisfied with cão as I must be with dog.

 

due anni e mezzo durante la guerra. È molto probabile che semplicemente non fossi consapevole di cosa stessi facendo, specialmente a causa delle differenze di spelling e del fatto che al sud gli italiani tendono a pronunciare molto aperta la sillaba iniziale.

Questi piccoli aneddoti personali servono a mostrare come le parole abbiano infinite possibili sfumature per ciascun individuo dato che restano nell’inconscio e si riferiscono a qualche esperienza infantile. Chomsky potrebbe indagare più a fondo sulla possibilità che forse conserviamo nel DNA un misterioso e remoto vocabolario. Nella traduzione delle parole, poi, il problema si complica. Ora dobbiamo trasformare la parola personale dell’autore nella parola personale del traduttore. Come sempre con la traduzione, ciò comporta una scelta tra sinonimi. L’ideale sarebbe che la scelta dell’autore tra i sinonimi nella sua lingua fosse fatta di proposito e con consapevolezza. Nella maggior parte dei casi, comunque, e come dovrebbe essere, si fa in modo piuttosto naturale e istintivo: «È così che voglio dirlo». Anche il traduttore di solito dovrebbe lavorare sulla base di questa naturale attribuzione di significato: «È così che si dice in inglese». Eppure il traduttore deve essere vigile e consapevole del fatto che tanto lui quanto l’autore hanno le parole “proprie”. Sembra facile far corrispondere parole simili (dog/cão) e così via. Ciò che dog connota per me, comunque, è probabilmente diverso da ciò che cão comunica a António Lobo Antunes, benché nell’uso comune si accontenti senz’altro di cão come io di dog.

 

This personal aspect of language can be extended to life itself. As far as the individual is concerned, life truly exists only as he feels it and thereby ponders it. It follows, therefore, that life is an idea, a word, in short, a metaphor for conscious exis­tence and hence a translation. We are translating our existence and our circumstance as we go along living and before we are fatally assigned the translator’s lot once the treason has been done: Segismundo’s tower or tomb. We must also remember that “In the beginning was the Word, and the Word was with find and the Word was God” (John I:i). Even God as the Word has been put down and translated variously. The pensive Greeks call Him logos while the active Romans say verbum. So that even God, like existence, is an ambiguous translation, which could explain William James’s varieties .When God’s mystical name is finally articulated it, too, will have to be translated, unless we accept it as the acronym for Guaranteed Overnight Delivery which so blasphemously appears on certain trucks. Then there are those people hard of hearing who assert that God’s name is, in fact, Howard, as in “Our Father which art in Heaven, Howard be thy name”. I can’t see how anyone could be an atheist with a God named Howard and it also might explain why the universe is such a mixed-up place.

Names are one of the bugbears of translation and usually illustrate its impossibility. Almost all Christian and Old Testament names have local versions wherever the Good

 

Questo aspetto personale della lingua può essere esteso alla vita stessa. Per quanto riguarda l’individuo, la vita esiste davvero solo nel momento in cui lui la sente e quindi la analizza. Ne segue, quindi, che la vita è un’idea, una parola, in breve una metafora dell’esistenza consapevole e quindi una traduzione. Traduciamo la nostra esistenza e la nostra circostanza man mano che viviamo e prima di essere fatalmente assegnati al destino di traduttori una volta che il tradimento è stato fatto: la torre di Sigismondo o la tomba. Inoltre dobbiamo ricordare che «In the beginning was the Word, and the Word was with God, and the Word was God» (John I: i). Anche God e Word sono stati scritti e tradotti in vari modi. I contemplativi greci Lo chiamano logos mentre gli attivi Romani dicono verbum. Così che anche God, come l’esistenza, è una traduzione ambigua, il che potrebbe spiegare le Varieties of religious experience di William James. Quando finalmente sarà articolato il nome mistico di God, anche questo dovrà essere tradotto, a meno che non lo accettiamo come l’acronimo di Guaranteed Overnight Delivery che appare in modo così blasfemo su certi camion. Poi c’è chi è duro d’orecchi e sostiene che il nome di Dio, di fatto, è Howard, come in «Our father which art in Heaven, Howard be ty name». Non capisco come si possa essere atei con un Dio di nome Howard, e questo spiegherebbe anche perché l’universo è un luogo così confuso.

I nomi sono uno degli spauracchi della traduzione e di solito illustrano la sua impossibilità. Quasi tutti i nomi cristiani e del Vecchio

 

Book is esteemed; Charles becomes Carlos; John, Juancito or Johnny, and so forth. These names are not only loaded down with ancient biblical or classical connotations but have acquired ever so many new ones along the way. Names, and especially nick- names, almost always carry some cultural nuance: a good-time Charley, a Johnny-come-lately, Pedro por su casa. For purposes of evacuation we go to the john; in Portugal one goes to have a talk with Miguel, or simply to the Miguel. This last name in familiar English is reduced to one syllable, Mike, while in Spanish it gains another, Miguelito. Can either one therefore ever be the equivalent of the other?

By not translating names we can at least maintain a certain aura of the original tongue and its culture. Spanish almost always translates royal names and sometimes those of famous commoners (Thomas More/Tomas Moro), while English is inconsistent. Shakespeare will be Guillermo in Spanish but Cervantes is always Miguel in English. English renders Carlos V and Felipe II as Charles V and Philip II although Alfonso XIII is never Alphonse. Having grown up hearing about Kaiser Wilhelm II in English I am still a bit befuddled when hearing Emperor William II from those farther removed in time from that worthy. Hitler to me was always Adolf but now I most often see Adolph and hear ay-dolf. In my own transla­tions I prefer keeping names in the original while sometimes translating nicknames if they carry some descriptive value and can be translated without doing too much mischief to the tone of the …….

 

testamento hanno versioni locali nei luoghi in cui la Bibbia è rispettata; Charles diventa Carlos; John, Juancito o Jonny, e così via. Questi nomi non solo sono sovraccarichi di antiche connotazioni bibliche o classiche ma ne hanno acquisite moltissime altre nel tempo. I nomi, e soprattutto i soprannomi, veicolano quasi sempre alcune sfumature culturali: good-time Charley, Johnny-come-lately, Pedro por su casa. Per andare in bagno noi diciamo go to the John; in Portogallo si va a fare una chiacchierata con Miguel, o semplicemente da Miguel. Quest’ultimo nome in Inglese è ridotto a una sillaba, Mike, mentre in spagnolo ne prende un’altra, Miguelito. Potrà mai quindi uno di questi essere l’equivalente dell’altro?

Se non traduciamo i nomi possiamo almeno mantenere una certa aura della lingua originale e della sua cultura. In spagnolo si traducono quasi sempre i nomi regali e a volte quelli dei comuni mortali famosi (Thomas more/ Tomás Moro), mentre l’inglese è incoerente. Shakespeare sarà Guillermo in spagnolo ma Cervantes è sempre Miguel in inglese. In inglese si traducono Carlos V e Felipe II come Charles V e Philip II, ma Alfonso XIII non è mai Alphonse. Essendo cresciuto sentendo parlare di Kaiser Wilhelm II in inglese sono ancora un po’ confuso quando sento dire Emperor William II da chi  è stato in seguito rimosso in tempo da quella carica. Hitler per me è sempre stato Adolf ma ora vedo sempre più spesso Adolph e sento ay-dolf. Nelle mie traduzioni preferisco mantenere i nomi dell’originale e tradurre qualche volta i soprannomi se veicolano qualche valore descrittivo e possono essere tradotti senza fare troppi

 

story. Laurel and Hardy better known in Spanish as El Gordo y el Flaco, corresponding to what children in my day used to call them: Fat and Skinny (I would be interested in knowing why it is in both languages that the epithets should reverse the order of the surnames). Roman names are largely maintained in English while the pronunciation is anglicized (i.e., If Julius Caesar sees her he will surely seize her), while in Spanish and French they are hispanized and gallicized (Julio César and Jules César). To my ear the English usage sounds properly alien and classical. Greek names often hold a Latinate form in English, cf. Herodotus.

I recently finished the translation of a novel by the Colombian Jorge Franco Ramos entitled Rosario Tijeras, Rosario, the main character, is nicknamed Tijeras (shears, scissors) because her earliest act of violence was to take her mother s sewing tool and geld the man who had raped her. Translating the epithet that had been hung on her would be awkward. Leaving it also followed in a certain way the old manner in which surnames were acquired. Her real name, like God s, is never revealed and everyone knew her as Rosario Tijeras. Nor does the nickname stand in need of translation as the episode wherein she acquires it is recounted early in the book.

Words, as well as certain idioms and grammatical usages, are in many ways the items most quickly subject to a kind of Darwinian evolutionary process, except that the natural selection here encountered appears to my mind to be less of a survival of the

 

torti al tenore della storia. Laurel e Hardy in Spagna sono conosciuti meglio come El Gordo y El Flaco, che corrispondono al modo in cui i bambini li chiamavano ai miei tempi: Fat e Skinny (sarei interessato a sapere perché in entrambe le lingue gli epiteti debbano ribaltare l’ordine dei cognomi). I nomi romani sono ampliamente mantenuti in inglese mentre la pronuncia è anglicizzata (esmpio: If Julius Caesar sees her he will surely seize her), mentre in spagnolo e in francese sono ispanizzati e gallicizzati (Julio César e Jules César). A orecchio l’uso inglese sembra proprio straniero e classico. I nomi greci spesso mantengono una forma latina in inglese, come Herodotus.

Ho finito da poco la traduzione di un romanzo del colombiano Jorge Franco Ramos intitolato Rosario Tijeras. Rosario, la protagonista, è soprannominata Tijeras (cesoie, forbici), perché il suo primo atto di violenza è stato quello di prendere le forbici da sarto della madre per evirare l’uomo che l’aveva violentata. Tradurre l’epiteto che le è stato attribuito sarebbe stato inopportuno. Mantenerlo seguiva in un certo senso anche il vecchio uso secondo cui i cognomi andavano acquisiti. Il suo vero nome, come quello di Dio, non è mai rivelato e tutti la conoscevano come Rosario Tijeras. Né il nome ha bisogno di essere tradotto dato che l’episodio in cui lei lo acquisisce è raccontato all’inizio del libro.

Le parole, così come alcune espressioni idiomatiche e usi grammaticali, sono da molti punti di vista gli elementi più rapidamente soggetti a una specie di processo evoluzionistico darwiniano, salvo che la selezione naturale in cui ci siamo imbattuti

 

the fittest than it is a kind of dumbing down to the lowest common denominator. This, of course, depends on what one considers the fittest to be. Populists would most likely disagree with me in this matter, but I have always maintained that vox populi, vox Dei is an open invitation to atheism. Beyond any qualitative considerations, there is the matter of changing times, autres temps, autres moeurs. As one who has established a beachhead on the isle of Octogenaria (adjacent to the island of Barataria), I have found that in many ways I am what one might call “archaically active” or “actively archaic.” Certain words and usages have changed or appeared or died out during my lifetime. I have noticed more and more that gonna has become standard usage in presidential and high-level parlance and I wonder how it would have sounded back in 1941 if FDR had said “We’re gonna win the war.” Also how is it that gonna edges out gwine (too Uncle Remus?)and gone (too Pogo?) or the British geng? There must be some answer based on sound linguistic theory.

Translators, then, are placed in the difficult position of having to be careful not to nail their translation onto the period in which they are living. If the work under way is something contemporary the effect won’t be quite so bad since the original text might well become archaic even sooner than the translation. Like the leaves on trees, words age, yellow, and drop off after a time,

 

qui mi sembra essere non tanto la sopravvivenza del più adatto quanto un modo per ridurre al minimo comun denominatore. Questo, naturalmente, dipende da cosa si considera il più adatto. Con ogni probabilità i populisti non saranno d’accordo con me su questo punto, ma ho sempre pensato che vox populi, vox Dei sia un invito aperto all’ateismo. Al di là di ogni considerazione qualitativa, c’è il problema dei tempi che cambiano, autres temps, autres moeurs. Da persona che ha costruito una testa di sbarco sull’isola di Ottuagenaria (adiacente all’isola di Barataria), ho scoperto di essere da molti punti di vista ciò che si potrebbe chiamare “arcaicamente attivo” o “attivamente arcaico”. Alcune parole e usi sono cambiati o apparsi o scomparsi nel corso della mia vita. Mi rendo conto sempre di più del fatto che gonna è diventato di uso standard nei discorsi presidenziali e di alto livello e mi chiedo che effetto avrebbe fatto se nel 1941 F. D. Roosvelt avesse detto: «We’re gonna win the war». E poi, com’è possibile che gonna vada a finire in gwine (troppo Uncle Remus?) e gone (troppo Pogo?) o nell’inglese britannico geng? Devono esserci delle risposte sulla base delle teorie linguistiche più solide.

I traduttori, poi, si trovano nella difficile posizione di dover fare attenzione a non inchiodare le loro traduzioni al periodo in cui vivono. Se il lavoro in corso è qualcosa di contemporaneo il risultato non sarà proprio così brutto dato che il testo originale potrebbe tranquillamente diventare arcaico ancora prima della traduzione. Come le foglie sugli alberi, le parole invecchiano, ingialliscono, e

 

although languages, like trees, are divided into different species and the words in one may hold their meaning longer than those in the language into which they are being translated. When I come to translate a “classic” I try to find what we might call “evergreen” words. Translating Machado de Assis, who wrote the most enduring Portuguese since Camoes (perhaps even more so, given the fact that he was a novelist), I try hard to find words that are equally valid in his time and in ours and which, we hope, will endure beyond both ages. A good translation of Cervantes, and there are quite a few, must not be so contemporary that it will eventually become archaic because Cervantes as read today in Spanish is only mildly so. Motteux can sound archaic because he was a contemporary of Cervantes. Putman cannot. Where Motteux messed up was in not finding as many evergreen words as Cervantes had used. Perhaps he didn’t let Cervantes lead him linguistically. As I discovered translating Machado de Assis and Garcia Marquez, the masters will enable you to render their prose into the best possible translation if you only let yourself be led by their expression, following the only possible way to go. If you ponder you will have lost the path.

 

dopo un po’ cadono, anche se le lingue, come gli alberi, sono divise in specie diverse e le parole di una possono mantenere il loro significato più a lungo di quelle della lingua in cui si stanno traducendo. Quando mi capita di tradurre un “classico” cerco di trovare quelle che potremmo chiamare parole “sempreverdi”. Traducendo Machado de Assis, che ha scritto nel portoghese più duraturo dai tempi di Camões (forse anche di più, dato che lui era un autore di romanzi), faccio fatica a trovare parole che siano ugualmente valide ai suoi tempi e ai nostri e che, speriamo, sopravvivano a entrambe le epoche. Una buona traduzione di Cervantes, e ce ne sono un bel po’, non deve essere contemporanea fino al punto di risultare prima o poi arcaica perché Cervantes letto oggi in spagnolo non lo è così tanto. Motteux può sembrare arcaico perché era un contemporaneo di Cervantes, Putnam no. L’errore di Motteux è stato di non trovare tante parole sempreverdi quante ne aveva usate Cervantes. Forse non si è lasciato guidare da Cervantes dal punto di vista linguistico. Come ho scoperto traducendo Machado de Assis e García Márquez, i maestri vi permetteranno di rendere la loro prosa nella miglior traduzione possibile se solo vi lasciate guidare dalla loro espressione, seguendo l’unica strada percorribile. Se vi trovate a meditare significa che avete già sbagliato strada.

 

III

STRINGING WORDS TOGETHER BY CULTURE

 

 

We have seen the wild variety of meanings, subtle and di­rect, that cling to words. We have also considered the perils and impossibilities of metaphor as we go from one language to an­other. This morass of troubles is made all the more swampy as we come to the task of joining these translated words together to make sense in the new language. This process must take into account what is called syntax, grammar, and the like, as all the pitfalls we had to confront with individual words are not only encountered here but a good many new ones as well. Cultures are at work again. Word order that seems quite logical to one people will look absurd to another. So-called dialect comedians have used this phenomenon to great advantage in their skits since so much of comedy and humor is based on absurdities. Our own language itself can seem absurd when placed under a neutral light. If we stare at a word long enough it will become strange and even foolish, to the ruination of any sense it might have had before. Absurdities exist within our own language when we become hyper-correct, as shown by Winston Churchill’s mocking of a copyeditor’s correction, commenting that ‘”This is something up with witch I will not put.”

 

III

LEGARE  LE  PAROLE  TRA  LORO  SECONDO  LA  CULTURA

 

 

Abbiamo visto la notevole varietà di significati, sottili e diretti, che si aggrappano alle parole. Abbiamo anche considerato i pericoli e l’impossibilità delle metafore quando si passa da una lingua a un’altra. Questa giungla di difficoltà è resa ancor più paludosa quando arriviamo al compito di collegare queste parole tradotte perché abbiano senso nella nuova lingua. Questo processo deve tenere conto di ciò che si chiama sintassi, grammatica e simili, dato che tutti i trabocchetti con cui dobbiamo mettere a confronto le singole parole non sono solo quelli incontrati qui ma anche un buon numero di nuovi. Sono ancora in gioco le culture. L’ordine delle parole che sembra del tutto logico a un popolo sembra assurdo a un altro. Il cosiddetto teatro dialettale ha usato questo fenomeno al meglio negli sketch dato che gran parte della sua comicità e del suo humour si basa sulle assurdità. La nostra stessa lingua può sembrare assurda se messo sotto una luce neutrale. Se fissiamo una parola abbastanza a lungo diventa strana e perfino stupida, fino alla rovina di qualunque senso potesse avere avuto prima. Le assurdità esistono all’interno della nostra stessa lingua quando diventiamo ipercorretti, come ha dimostrato la presa in giro di Winston Churchill nei confronti di una correzione del curatore, commentando: «This is something up with which I will not put».

 

For older evidence of what annoyed Churchill we have the development of the Romance languages from Latin. As schoolboys and girls we had to struggle with the makeup of Greek and Latin. I think that Latin was harder, even if Greek did have its strange first and second aorists (only matched later on by Russian and its aspects). But we were studying that noble and complex tongue of Cicero and Virgil, not the language of the marketplace. The assorted Celtic, Iberian, Italic, and other hewers of wood and drawers of water had already made the Latin language more pliable to their simple needs as evinced by the language of their church in die Vulgate. The people were well on their way to getting rid of case endings and simplifying the system of tenses as what were to be new languages evolved. It really must pain the French in their lin­guistic hubris to realize that they are really speaking bad Latin. And, yet, these various supposedly inept versions of the Latin language have produced beautiful bits of expression that can belong only to them. For all of his wonderful lines it is impossible to imagine Ovid’s coming out with something like Verlaine’s “les sanglots longs des violons de l’automne.” I contend that the sound of a language must come from the cultural expression and evolution of a people. Only a Frenchman can properly mouth the poetry of Verlaine in a way that is completely natural and even instinctive because the rendition comes from that part of his brain wherein his native language is housed. It has been claimed that a person who has lost his speech because of a stroke can still communicate in a foreign language he

 

Una prova più antica di ciò che infastidiva Churchill è lo sviluppo delle lingue romanze dal latino. Da studenti e studentesse abbiamo dovuto lottare con le strutture del greco e del latino. Penso che il latino fosse più difficile, anche se il greco aveva i suoi strani aoristi primo e secondo (emulato in seguito solo dal russo con i suoi aspetti). Ma noi studiavamo la lingua nobile e complessa di Cicerone e Virgilio, non la lingua parlata al mercato. I vari celti, iberici, italici, e altri popoli di taglialegna e navigatori avevano già reso la lingua latina più flessibile alle loro semplici esigenze come si evince dal linguaggio della loro chiesa nella Vulgata. La gente sembrava proprio essere dell’idea di volersi liberare delle desinenze dei casi e di semplificare il sistema dei tempi verbali, man mano che si evolvevano le future lingue nuove? Dev’essere davvero un dolore per i francesi con la loro hybris linguistica sapere che in realtà parlano un brutto latino. Eppure, queste varietà ritenute versioni goffe della lingua latina hanno prodotto bellissimi modi di dire che possono appartenere solo a  loro. Nonostante i suoi meravigliosi versi è impossibile immaginare Ovidio che recita qualcosa come «les sanglots long des violons de l’automne» di Verlaine. Ritengo che il suono di una lingua debba derivare dall’espressione e dall’evoluzione culturale di un popolo. Solo un francese può articolare correttamente la poesia di Verlaine in un modo che sia completamente naturale e persino istintivo perché la resa proviene da quella parte del cervello in cui risiede la sua lingua madre. È stato detto che una persona che ha perso la parola in seguito a un trauma riesce ancora a comunicare

 

may have learned because it is lodged in a different portion of his brain (a very telling argument for learning another language). If this be so, then we are faced with the possibility that when we shift into another language we become a different person by running on a different part of our brain. So the poor translator must not just go back and forth between two languages, but if he is worthy of his calling must shift between two selves, with all the perils of this induced schizophrenia.

The matter of subject, verb, and object, therefore, and their placement in a sentence will depend on the cultural instincts of the language spoken. Heavy-handed humorists often avail themselves of syntactical differences between languages in order to make fun of them. This is usually accompanied by a burst of macaronic pronunciation. But Romance languages have, in certain ways, been an improvement over classical Latin as vehicles for easier communication with their elimination of case endings and a resort to prepositions in order to denote relationships. At the same time they did away with Latin’s ability to make words fit certain poetical meters in a way that becomes a quite natural rhythmical performance. Modern attempts to follow this too closely in translation are usually clumsy and  Procrustean. It all adds up to Robert Frost’s com­monplace regarding the relationship between poetry and its translations, but that comment of his could well apply to prose as well. In even the best of examples a translation cannot get to the

 

comunicare in una lingua straniera che aveva imparato perché questa risiede in un’altra area del cervello (argomentazione molto valida a favore dell’apprendimento di un’altra lingua). Se è così, allora siamo di fronte alla possibilità che quando passiamo a un’altra lingua diventiamo una persona diversa azionando una parte diversa del nostro cervello. Così il povero traduttore non deve solo fare avanti e indietro tra due lingue, ma se è degno del suo nome deve muoversi tra due “sé”, con tutti i pericoli di questa schizofrenia indotta.

La questione di soggetto, verbo e oggetto, quindi, e la loro collocazione in una frase dipenderanno dagli istinti culturali della lingua parlata. I comici più rozzi spesso si avvalgono delle differenze sintattiche tra le lingue per prendersene gioco. Di solito ciò è accompagnato dall’esplosione di una  pronuncia maccheronica. Ma le lingue romanze, in un certo senso, sono state un miglioramento del latino classico come veicoli per semplificare la comunicazione con l’eliminazione delle desinenze e il ricorso alle preposizioni per denotare le relazioni. Allo stesso tempo hanno eliminato la capacità del latino di adattare le parole ad alcuni metri poetici in modo da produrre un andamento ritmico piuttosto naturale. I tentativi contemporanei di mantenere la metrica in traduzione in modo fin troppo preciso di solito sono goffi e procustiani. Tutto questo si aggiunge al luogo comune di Robert Frost riguardo alla relazione tra la poesia e la sua traduzione, ma questo suo commento può benissimo adattarsi altrettanto alla prosa. Anche negli esempi migliori

 

marrow of what has been said in the original. A piece of writing cannot be cloned in another language, only imitated. Like the colors of the spectrum, languages are unique and distinctive; they can approach each other but never reproduce one another. Columbia’s blue can never reproduce Yale’s,yet both are blue and have a great many cultural concomitants in common. What makes translation seem so possible is that we live in a world of similarities and it is too much with us. Languages, like the colors mentioned above, are similar and we can at least imagine how they would look in another hue. But what about those invisible colors that lurk at the ends of the spectrum? The limits of our ability to perceive show up in the fact that we are unable even to imagine what these colors might be like. We would have to be certain birds. Translation may be impossible, but it can at least be essayed.

 

una traduzione non può arrivare fino al midollo di ciò che è stato detto nell’originale. Un’opera non può essere clonata in un’altra lingua, solo imitata. Come i colori dello spettro, le lingue sono uniche e particolari; possono avvicinarsi le une alle altre, ma mai riprodursi a vicenda. Il Columbia blue non potrà mai riprodurre lo Yale blue, eppure si chiamano entrambi blue e hanno moltissime concomitanze culturali. Ciò che fa sembrare la traduzione così possibile è che viviamo in un mondo di imitazioni e «it is too much with us». Le lingue, come i colori menzionati sopra, sono simili e possiamo per lo meno immaginare come apparirebbero in un’altra sfumatura. Ma per quei colori invisibili che si annidano alle estremità dello spettro? I limiti della nostra capacità percettiva emergono chiaramente con il fatto che non siamo capaci nemmeno di immaginare a cosa questi colori potrebbero assomigliare. Dovremmo essere un certo tipo di uccelli. La traduzione può essere impossibile, ma ameno può essere tentata.

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture SIMONA CLERICI

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

 

   

SIMONA CLERICI

 

 

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

 

 

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2011

 

ã 1987 by The Jakobson Trust; Mouton Publishers 1985

ã Clerici Simona per l’edizione italiana 2011

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

 

Abstract

 

Two essays, On Linguistic Aspects of Translation (1959) and Language and Culture (1967), written within eight years of each other by the Russian-born scholar Roman Jakobson, gave new impetus to the theoretical analysis of translation on the basis of the author’s semiotic approach to language. Putting aside the fallacious attempt to find translation equivalents, which used to be the central issue in translation, the notion of “equivalence in difference” implies that translation can always be carried out, regardless of the cultural or grammatical differences between the two languages involved, since any language is able to convey everything. Providing a number of examples comparing mainly the English and Russian grammatical patterns, the author demonstrates that any assumption of untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms because the definition of our experience requires recoding interpretation; that is, translation. This thesis presents a translation into Italian and an analysis of Jakobson’s essays.

 


 

Sommario

1. Traduzione con testo a fronte_________ 1

2. Analisi traduttologica_________ 45

2.1. Roman Jakobson:_________ 46

un americano con l’indole dell’emigrato russo_________ 46

2.2. Tra innovazione e tradizione_________ 48

2.3. Peculiarità del saggio_________ 50

2.3.1. Un crogiolo di culture 50

2.3.2. Il lettore modello 53

2.3.3. Perdite e compensazioni 54

2.3.3.1. Apparati metatestuali 54

2.4. Analisi linguistica ed extralinguistica_________ 57

2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali 58

2.4.1.1. Celibate 58

2.4.1.2. Cottage cheese 60

2.4.1.3. Intricacies 62

2.4.1.4. Nurture and nature 64

2.4.1.5. Creative writers 65

2.5. Metatesti a confronto:_________ 68

perché proporre una traduzione diversa del saggio_________ 68

on linguistic aspects of translation_________ 68

2.6. Riferimenti bibliografici_________ 73

3. Errata Corrige_________ 75

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


 

On linguistic Aspects of Translation

According to Bertrand Russell, “no one can understand the word ‘cheese’ unless he has a nonlinguistic acquaintance with cheese” (Russell 1950). If, however, we follow Russell’s fundamental precept and place our “emphasis upon the linguistic aspects of traditional philosophical problems,” then we are obliged to state that no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” and if he has at least a linguistic acquaintance with curds. We never consumed ambrosia or nectar and have only a linguistic acquaintance with the words ambrosia, nectar, and gods – the name of their mythical users; nonetheless, we understand these words and know in what contexts each of them may be used.

The meaning of the words cheese, apple, nectar, acquaintance, but, mere, and of any word or phrase whatsoever is definitely a linguistic–or to be more precise and less narrow–a semiotic fact. Against those who assign meaning (signatum) not to the sign, but to the thing itself, the simplest and truest argument would be that nobody has ever smelled or tasted the meaning of cheese or of apple. There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. An array of linguistic signs is needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in general or of any cheese, any milk product, any food, any refreshment, or perhaps any box irrespective of contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering, sale, prohibition, or malediction? (Pointing actually may mean malediction; in some cultures, particularly in Africa, it is an ominous gesture.)

For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic

Sugli aspetti linguistici della traduzione

Secondo Bertrand Russell «nessuno può capire la parola “cheese” se non ha un’esperienza non-linguistica del formaggio» (Russell 1950). Se però accettiamo il precetto fondamentale di Russell e mettiamo l’«enfasi sugli aspetti linguistici dei problemi filosofici tradizionali» siamo costretti ad affermare che nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» e se ha almeno un’esperienza linguistica di «latte cagliato». Noi non abbiamo mai assaggiato l’ambrosia o il nettare e abbiamo un’esperienza solo linguistica delle parole «ambrosia» [ambrosia], «nectar» [nettare], e «gods» [dèi] – il nome dei loro mitici consumatori; eppure, capiamo queste parole e sappiamo in quali contesti si può utilizzare ciascuna di esse.

Il significato delle parole «cheese», «apple», «nectar», «acquaintance», «but», «mere» [rispettivamente formaggio, mela, nettare, esperienza, ma, solo] e di qualsiasi parola o frase di qualsiasi tipo è chiaramente un fatto linguistico – o per essere più precisi e meno ristretti – semiotico. Contro chi assegna il significato (signatum) non al segno, ma alla cosa stessa, l’argomentazione più semplice e più vera sarebbe che nessuno ha mai sentito l’odore né il sapore del significato di «cheese» o di «apple». Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola sconosciuta è necessaria una serie di segni linguistici. Il semplice fatto di indicarla non ci dirà se «cheese» è il nome di quel singolo campione, o di qualsiasi confezione di camembert, o del camembert in generale, o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino, o forse qualsiasi confezione indipendentemente dal contenuto. Insomma, una parola dà semplicemente un nome alla cosa in questione, oppure implica un significato, per esempio, di offerta, vendita, proibizione o maledizione? (Indicare, di fatto, può significare maledizione; in alcune culture, in particolare in Africa, è un gesto di cattivo auspicio.)

Per noi, sia come linguisti sia come normali utenti di parole, il significato di

 

sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which it is more fully developed” as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Dewey 1946). The term “bachelor” may be converted into a more explicit designation, “unmarried man,” whenever higher explicitness is required. We distinguish three ways of interpreting a verbal sign: it may be translated into other signs of the same language, into another language, or into another, nonverbal system of symbols. These three kinds of translation are to be differently labeled:

  1. Intralingual translation or rewording is an interpretation of verbal signs by means of other signs of the same language.
  2. Interlingual translation or translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language.
  3. Intersemiotic translation or transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems.

The intralingual translation of a word uses either another, more or less synonymous, word or resorts to a circumlocution. Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate.” A word or an idiomatic phrase-word, briefly a code-unit of the highest level, may be fully interpreted only by means of an equivalent combination of code units, that is, a message referring to this code unit: “every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor,” or “every celibate is bound not to marry, and everyone who is bound not to marry is a celibate.”

Likewise on the level of interlingual translation, there is ordinarily no full equivalence between code units, while messages may serve as adequate interpretations of alien code units or messages. The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr, because cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru I tvorogu (bring cheese and [sic] cottage cheese). In standard Russian, the food made of pressed curds is called syr only if ferment is used.

Most frequently, however, translation from one language into another substitutes

qualsiasi segno linguistico è la sua traduzione in un segno ulteriore, alternativo, in particolare un segno «in cui è più pienamente sviluppato», come affermava insistentemente Peirce, il più profondo indagatore nell’essenza dei segni (Dewey 1946). Il termine «bachelor» [scapolo] si può convertire in una designazione più esplicita, «unmarried man» [uomo non sposato], ogni volta che sia richiesta una maggiore esplicitezza. Si distinguono tre modi di interpretare un segno verbale: si può tradurre in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua, o in un altro sistema, non verbale, di simboli. Questi tre tipi di traduzione devono essere classificati in modo diverso:

  1. La traduzione intralinguistica o riverbalizzazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua.
  2. La traduzione interlinguistica o traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua.
  3. La traduzione intersemiotica o trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali.

La traduzione interlinguistica di una parola o usa un’altra parola, più o meno sinonima, o ricorre a una circonlocuzione. Però la sinonimia, di norma, non è equivalenza completa: per esempio «every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate». Una parola o una frase idiomatica, insomma un’unità di codice del livello più alto, può essere interpretata pienamente solo per mezzo di una combinazione equivalente di unità di codice, e cioè un messaggio che si riferisce a questa unità di codice: «every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor» o «every celibate is bound not to marry and everyone who is bound not to marry is a celibate».

Similmente, a livello di traduzione interlinguistica di norma non c’è piena equivalenza tra diverse unità di codice, mentre i messaggi potrebbero fungere da interpretazioni adeguate di unità di codice o messaggi straneiri. La parola inglese «cheese» non si può identificare completamente con il suo eteronimo russo standard «syr» perché il «cottage cheese» [fiocchi di latte] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte). Nel russo standard l’alimento fatto di latte cagliato pressato si chiama «syr» solo se è un formaggio fermentato.

Spessissimo, comunque, la traduzione da una lingua a un’altra sostituisce


 

messages in one language not for separate code units but for entire messages in same other language. Such a translation is a reported speech; the translator recodes and transmits a message received from another source. Thus translation involves two equivalent messages in two different codes.

Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. Like any receiver of verbal messages, the linguist acts as their interpreter. No linguistic specimen may be interpreted by the science of language without a translation of its signs into other signs of the same system or into signs of another system. Any comparison of two languages implies an examination of their mutual translatability; widespread practice of interlingual communication, particularly translating activities, must be kept under constant scrutiny by linguistic science. It is difficult to overestimate the urgent need for and the theoretical and practical significance of differential bilingual dictionaries with careful comparative definition of all the corresponding units in their intention and extension. Likewise differential bilingual grammars should define what unifies and what differentiates the two languages in their selection and delimitation of grammatical concepts.

Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaiming the dogma of untranslatability. “Mr. Everyman, the natural logician,” vividly imagined by B. L. Whorf, is supposed to have arrived at the following bit of reasoning: “Facts are unlike to speakers whose language background provides for unlike formulation of them” (Whorf 1956). In the first years of the Russian revolution there were fanatic visionaries who argued in Soviet periodicals for a radical revision of traditional language and particularly for the weeding out of such misleading expressions as “sunrise” or “sunset.” Yet we still use this Ptolemaic imagery without implying a rejection of Copernican doctrine, and we can easily transform our customary talk about the rising and setting sun into a picture of the earth’s rotation simply because any sign is translatable into a sign in which it appears to us more fully developed and precise.

An ability to speak a given language implies an ability to talk about this language.

messaggi in una lingua non per singole unità di codice ma per messaggi completi in un’altra lingua. Una traduzione di questo tipo è un discorso riferito; il traduttore ricodifica e trasmette un messaggio ricevuto da un’altra fonte. Così, la traduzione riguarda due messaggi equivalenti in due codici diversi.

L’equivalenza nella differenza è il problema cardinale della lingua e la preoccupazione primaria della linguistica. Come ogni ricevente di messaggi verbali, il linguista funge da loro interprete. La scienza del linguaggio non potrebbe interpretare nessun campione linguistico senza tradurne i segni in altri segni dello stesso sistema o in segni di un altro sistema. Qualsiasi confronto tra due lingue implica un esame della loro reciproca traducibilità; la pratica diffusa della comunicazione interlinguistica, e in particolare le attività di traduzione, devono essere tenute costantemente sotto osservazione dalla scienza linguistica. È difficile sopravvalutare l’urgente bisogno e il significato teorico e pratico di dizionari bilingui differenziali con un’accurata definizione comparativa di tutte le unità corrispondenti nella loro intensione ed estensione. Similmente, grammatiche bilingui differenziali dovrebbero definire che cosa unifica e che cosa differenzia le due lingue nella loro selezione e delimitazione dei concetti grammaticali.

Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono assai intricate, e di tanto in tanto si fa qualche tentativo di spezzare il nodo gordiano proclamando il dogma dell’intraducibilità. «Il signor Chiunque, il logico naturale» uscito dalla vivida immaginazione di B. L. Whorf, dovrebbe essere arrivato al seguente ragionamento: «I fatti sono diversi per i parlanti il cui background linguistico ne fa dare una formulazione diversa» (Whorf 1956). Durante i primi anni della Rivoluzione russa alcuni fanatici visionari dibattevano sui periodici sovietici per ottenere una revisione radicale della lingua tradizionale e in particolare per sradicare espressioni fuorvianti come il sorgere e il tramontare del sole. Eppure noi usiamo ancora questo immaginario tolemaico senza che ciò implichi il rifiuto della dottrina copernicana, e possiamo facilmente trasformare il nostro parlare abituale del sole che sorge e tramonta in un’immagine della rotazione terrestre semplicemente perché qualsiasi segno è traducibile in un segno nel quale ci sembra più pienamente sviluppato e preciso.

La facoltà di parlare una data lingua implica la facoltà di parlare a proposito di


 

Such a metalinguistic operation permits revision and redefinition of the vocabulary used. The complementarity of both levels – object language and metalanguage – was brought out by Niels Bohr: all well-defined experimental evidence must be expressed in ordinary language, “in which the practical use of every word stands in complementary relation to attempts of its strict definition” (Bohr 1948).

All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology may be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions. Thus in the newborn literary language of the Northeast Siberian Chukchees, “screw” is rendered as “rotating nail,” “steel” as “hard iron,” “tin” as “thin iron,” “chalk” as “writing soap,” “watch” as “hammering heart.” Even seemingly contradictory circumlocutions, like “electrical horsecar” (èlektričeskaja konka), the first Russian name of the horseless streetcar, or “flying steamship” (jeha paraqot), the Koryak term for the airplane, simply designate the electrical analogue of the horsecar and the flying analogue of the steamer and do not impede communication, just as there is no semantic “noise” and disturbance in the double oxymoron—“cold beef-and-pork hot dog.”

No lack of grammatical device in the language translated into makes impossible a literal translation of the entire conceptual information contained in the original. The traditional conjunctions “and,” “or” are now supplemented by a new connective“and/or”—which was discussed a few years ago in the witty book Federal Prose—How to Write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Of these three conjunctions, only the latter occurs in one of the Samoyed languages (Bergsland 1949). Despite these differences in the inventory of conjunctions, all three varieties of messages observed in “federal prose” may be distinctly translated both into traditional English and into this Samoyed language. Federal prose: (1) John and Peter, (2) John or Peter, (3) John and/ or Peter will come. Traditional English: (3) John and Peter or one of them will come. Samoyed: (1) John and/ or Peter, both will come, (2) John and/ or Peter, one of them will come.

If some grammatical category is absent in a given language, its meaning may be translated into this language by lexical means. Dual forms like Old Russian brata are


 

questa lingua. Tale operazione “metalinguistica” permette la revisione e la ridefinizione del vocabolario usato. La complementarità di entrambi i livelli – linguaggio-oggetto e metalinguaggio – è stata messa in luce da Niels Bohr: ogni evidenza sperimentale ben definita deve essere espressa nella lingua ordinaria, «nella quale l’uso pratico di ogni parola sta in una relazione complementare con i tentativi della sua rigida definizione» (Bohr 1948).

Tutta l’esperienza cognitiva e la sua classificazione è trasponibile in qualsiasi lingua esistente. Quando vi sia una deficienza, è possibile qualificare e amplificare la terminologia mediante prestiti o traduzioni di prestiti, mediante neologismi o cambiamenti semantici e, infine, mediante circonlocuzioni. Così, nella neonata lingua letteraria dei ciukci della Siberia nordorientale, «vite» diventa «chiodo rotante», «acciaio» «ferro duro», «latta» «ferro sottile», «gesso» «sapone che scrive», «orologio» «cuore martellante». Persino le circonlocuzioni apparentemente contraddittorie, come «tram a cavalli elettrico» («èlektričeskaja konka»), il primo nome russo del tram senza cavalli, o «nave a vapore volante» («jena paragot»), il termine coriaco per l’aeroplano, designano semplicemente l’analogo elettrico del tram a cavalli e l’analogo volante della nave a vapore e non impediscono la comunicazione, allo stesso modo in cui non c’è “rumore” semantico o disturbo nel doppio ossimoro «cold beef-and-pork hot dog».

Nessuna categoria grammaticale mancante nella lingua verso la quale si traduce rende impossibile una traduzione letterale dell’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate da un nuovo connettivo – «and/or» [e/o] – di cui si è discusso qualche anno fa con arguzia nel libro Federal Prose – How to write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Di queste tre congiunzioni, in una lingua samoieda esiste solo l’ultima (Bergsland 1949). Nonostante le differenze nell’inventario delle congiunzioni, tutte e tre le varietà di messaggi osservate nella “prosa federale” possono essere tradotte distintamente sia verso l’inglese tradizionale sia verso la lingua samoieda in questione. Prosa federale: 1) John and Peter, 2) John or Peter, 3) John and/or Peter will come. Inglese tradizionale: 3) John and Peter or one of them will come. Samoiedo: 1) John e/o Peter verranno entrambi, 2) John e/o Peter, uno dei due verrà.

Se una data lingua manca di una categoria grammaticale, il suo significato si può tradurre in questa lingua con mezzi lessicali. Le forme duali come «brata» in russo

translated with the help of the numeral: “two brothers.” It is more difficult to remain faithful to the original when we translate into a language provided with a certain grammatical category from a language devoid of such a category. When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers”—“She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities—brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother.

As Franz Boas neatly observed, the grammatical pattern of a language (as opposed to its lexical stock) determines those aspects of each experience that must be expressed in the given language: “We have to choose between these aspects, and one or the other must be chosen” (Boas 1938). In order to translate accurately the English sentence I hired a worker, a Russian needs supplementary information, whether this action was completed or not and whether the worker was a man or a woman, because he must make his choice between a verb of completive or noncompletive aspect—nanjal or nanimal—and between a masculine and feminine noun—rabotnika or rabotnicu. If I ask the utterer of the English sentence whether the worker was male or female, my question may be judged irrelevant or indiscreet, whereas in the Russian version of this sentence an answer to this question is obligatory. On the other hand, whatever the choice of Russian grammatical forms to translate the quoted English message, the translation will give no answer to the question of whether I hired or have hired the worker, or whether he/she was an indefinite or definite worker (a or the). Because the information required by the English and Russian grammatical pattern is unlike, we face quite different sets of two-choice situations; therefore a chain of translations of one and the same isolated sentence from English into Russian and vice-versa could entirely deprive such a message of its initial content. The Geneva linguist S. Karcevskij used to compare such a gradual loss with a circular series of unfavorable currency transactions. But evidently the richer the context of a message, the smaller the loss of information.

antico si traducono con l’aiuto dei numerali: «due fratelli». È più difficile restare fedeli all’originale quando si traduce verso una lingua che dispone di una certa categoria grammaticale da una lingua che manca di tale categoria. Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli». Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» [fratello] o «brothers» [fratelli], o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «She has either one or more than one brother» [Lei ha uno o più fratelli].

Come ha acutamente osservato Boas, il modello grammaticale di una lingua (diversamente dal suo bagaglio lessicale) determina quali aspetti di ogni esperienza devono essere espressi in quella data lingua: «Dobbiamo scegliere tra questi aspetti, e uno o l’altro va scelto» (Boas 1938). Per tradurre correttamente la frase inglese «I hired a worker» [Ho assunto un/ un’ operaio/ a] a un russo occorrono altre informazioni: se questa azione è stata completata o no e se l’operaio era uomo o donna, perché deve effettuare la scelta tra un verbo di aspetto perfettivo o imperfettivo – «nanjal» o «nanimal» – e tra un nome maschile o femminile –  «rabotnika» o «rabotnicu». Se chiedessi a chi ha pronunciato la frase inglese se l’operaio in questione era un uomo o una donna, la mia domanda potrebbe essere reputata irrilevante o indiscreta, mentre nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo. D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre il messaggio inglese in questione, la traduzione non darà risposta alla domanda se «I hired» o «I have hired» il lavoratore, o se lui/ lei era una persona indefinita o definita («a» [un/ un’] o «the» [il/ l’]). Dato che le informazioni richieste dal modello grammaticale inglese e russo sono diverse, ci troviamo di fronte a sequenze completamente discordanti di situazioni ambigue; perciò più traduzioni a catena di una stessa frase dall’inglese verso il russo e viceversa potrebbero svuotare completamente del contenuto iniziale un messaggio del genere. Il linguista ginevrino S. Karcevski paragonò questa perdita graduale a una serie circolare di transazioni finanziarie sfavorevoli. Ma evidentemente, più è ricco il contesto di un messaggio, minore è la perdita di informazioni.


 

Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey. Each verb of a given language imperatively raises a set of specific yes-or-no questions, as for instance: is the narrated event conceived with or without reference to its completion? is the narrated event presented as prior to the speech event or not? Naturally the attention of native speakers and listeners will be constantly focused on such items as are compulsory in their verbal code.

In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations—the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms. But in jest, in dreams, in magic, briefly, in what one would call everyday verbal mythology, and in poetry above all, the grammatical categories carry a high semantic import. In these conditions, the question of translation becomes much mare entangled and controversial.

Even such a category as grammatical gender, often cited as merely formal, plays a great role in the mythological attitudes of a speech community. In Russian the feminine cannot designate a male person, nor the masculine specify a female. Ways of personifying or metaphorically interpreting inanimate nouns are prompted by their gender. A test in the Moscow Psychological Institute (1915) showed that Russians, prone to personify the weekdays, consistently represented Monday, Tuesday, and Thursday as males and Wednesday, Friday, and Saturday as females, without realizing that this distribution was due to the masculine gender of the first three names (ponedel’nik, vtornik, četverg) as against the feminine gender of the others (sreda, pjatnica, subbota). The fact that the word for Friday is masculine in some Slavic languages and feminine in others is reflected in the folk traditions of the corresponding peoples, which differ in their Friday ritual. The widespread Russian superstition that a fallen knife presages a male guest and a fallen fork a female one is determined by the masculine gender of nož (knife) and the feminine of

Le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere. Ogni verbo di una data lingua pone imperativamente una serie di domande che prevedono le risposte sì o no, come per esempio: l’evento narrato è concepito facendo riferimento al suo compimento oppure no? L’evento narrato è presentato come antecedente all’atto discorsuale oppure no? Naturalmente l’attenzione sia attiva che passiva dei madrelingua è costantemente focalizzata sulle parti obbligatorie nel loro codice verbale.

Nella sua funzione cognitiva la lingua dipende solo in minima parte dal modello grammaticale perché la definizione della nostra esperienza è in relazione complementare alle operazioni metalinguistiche – il livello cognitivo della lingua non solo ammette, ma richiede immediatamente un’interpretazione ricodificante, e cioè, una traduzione. Qualsiasi presunzione di ineffabilità o intraducibilità dei dati cognitivi sarebbe una contraddizione in termini. Ma negli scherzi, nei sogni, nella magia, insomma, in ciò che si potrebbe chiamare mitologia verbale quotidiana e soprattutto nella poesia, le categorie grammaticali hanno una forte rilevanza semantica. In queste condizioni, la questione della traduzione diventa molto più intricata e controversa.

Anche una categoria come il genere grammaticale, spesso ritenuta meramente formale, riveste un ruolo importante negli atteggiamenti mitologici di una comunità discorsuale. In russo il femminile non può designare una persona di sesso maschile, né il maschile può specificare una persona di sesso femminile. I modi di personificare o interpretare metaforicamente nomi inanimati sono suggeriti dal genere. Uno studio condotto presso l’Istituto psicologico di Mosca (1915) ha mostrato che i russi, inclini a personificare i giorni della settimana, rappresentavano costantemente il lunedì, il martedì e il giovedì come maschi e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femmine, senza rendersi conto che questa distinzione fosse dovuta al genere maschile dei primi tre nomi («ponedel’nik», «vtornik», «četverg») e, al contrario, al genere femminile degli altri («sreda», «pjatnica», «subbota»). Il fatto che la parola che sta per «venerdì» sia maschile in alcune lingue slave e femminile in altre si riflette nelle tradizioni folcloriche dei popoli corrispondenti, che differiscono nel rituale del venerdì. La diffusa superstizione russa secondo cui un coltello che cade è presagio di un ospite maschile e una forchetta che cade di uno femminile è determinata dal genere maschile di «nož» (coltello) e da quello

vilka (fork) in Russian. In Slavic and other languages where “day” is masculine and “night” feminine, day is represented by poets as the lover of night. The Russian painter Repin was baffled as to why Sin had been depicted as a woman by German artists: he did not realize that “sin” is feminine in German (die Sünde), but masculine in Russian (grex). Likewise a Russian child, while reading a translation of German tales, was astounded to find that Death, obviously a woman (Russian smert’, fem.), was pictured as an old man (German der Tod, masc.). My Sister Life, the title of a book of poems by Boris Pasternak, is quite natural in Russian, where “life” is feminine (žizn’), but was enough to reduce to despair the Czech poet Josef Hora in his attempt to translate these poems, since in Czech this noun is masculine (život).

What was the initial question which arose in Slavic literature at its very beginning? Curiously enough, the translator’s difficulty in preserving the symbolism of genders, and the cognitive irrelevance of this difficulty, appears to be the main topic of the earliest Slavic original work, the preface to the first translation of the Evangeliarium, made in the early 860s by the founder of Slavic letters and liturgy, Constantine the Philosopher, and recently restored and interpreted by A. Vaillant (Vaillant 1948). “Greek, when translated into another language, cannot always be reproduced identically, and that happens to each language being translated,” the Slavic apostle states. “Masculine nouns like potamos ‘river’ and astēr ‘star’ in Greek, are feminine in another language like rěka and zvězda in Slavic.” According to Vaillant’s commentary, this divergence effaces the symbolic identification of the rivers with demons and of the stars with angels in the Slavic translation of two of Matthew’s verses (7:25 and 2:9). But to this poetic obstacle, Constantine resolutely opposes the precept of Dionysius the Areopagite, who called for chief attention to the cognitive values (silě razumu) and not to the words themselves.

In poetry, verbal equations become a constructive principle of the text. Syntactic and morphological categories, roots, and affixes, phonemes and their components (distinctive features)—in short, any constituents of the verbal code—are confronted, juxtaposed, brought into contiguous relation according to the principle of similarity and contrast and carry their own autonomous signification.


 

femminile di «vilka»  (forchetta) in russo. Nelle lingue slave e nelle altre in cui «giorno» è maschile e «notte» è femminile, il giorno è rappresentato dai poeti come l’amante della notte. Il pittore russo Repin era perplesso di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come una donna: non si era reso conto che «peccato» è femminile in tedesco («die Sünde»), ma maschile in russo («grex»). Similmente, un bambino russo, leggendo alcune fiabe tedesche tradotte, si stupì nel vedere che Morte, ovviamente una donna (in russo «smert’», femm.) fosse ritratta come un vecchio (in tedesco «der Tod», masch.). Mia sorella la vita, il titolo di un libro di poesie di Boris Pasternak, è del tutto naturale in russo, dove «vita» è femminile («žizn’»), ma bastò per portare alla disperazione il poeta ceco Josef Hora nel tentativo di tradurre queste poesie, dal momento che in ceco questo nome è maschile («život»).

Quale fu il primo problema che emerse nella letteratura slava ai suoi albori? Piuttosto curiosamente, la difficoltà del traduttore nel preservare il simbolismo dei generi, e l’irrilevanza cognitiva di questa difficoltà, sembrano essere l’argomento principale della prima opera originale slava, la prefazione alla prima traduzione dell’Evangeliario, fatta poco dopo l’860 dal fondatore delle lettere e della liturgia slava, Costantino il Filosofo, e recentemente riportata alla luce e interpretata da André Vaillant (Vaillant 1948). «Il greco, quando è tradotto verso un’altra lingua, non si può sempre riprodurre in modo identico, e questo accade a ogni lingua che viene tradotta» afferma l’apostolo del mondo slavo. «I nomi maschili in greco come “potamos” (fiume) e “aster” (stella) sono femminili in un’altra lingua come “rěka” e “zvězda” in slavo». Secondo il commentario di Vaillant, questa divergenza cancella l’identificazione simbolica dei fiumi con i demoni e delle stelle con gli angeli nella traduzione slava di due versi di Matteo (7:25 e 2:9). Ma a questo ostacolo poetico, Costantino oppone con risolutezza il precetto di Dionigi l’Areopagita, che richiamava l’attenzione principale sui valori cognitivi («silě razumu») e non sulle parole stesse.

In poesia, le equazioni verbali diventano un principio costitutivo del testo. Le categorie sintattiche e morfologiche, le radici, e gli affissi, i fonemi e i loro componenti (tratti distintivi) – in breve, qualsiasi cosa costituisca il codice verbale – vengono confrontati, giustapposti, messi in relazioni contigue secondo il principio della somiglianza e del contrasto e sono dotati di una loro significazione autonoma. La

Phonemic similarity is sensed as semantic relationship. The pun, or to use a more erudite, and perhaps more precise term—paronomasia, reigns over poetic art, and whether its rule is absolute or limited, poetry by definition is untranslatable. Only creative transposition is possible: either intralingual transposition—from one poetic shape into another, or interlingual transposition—from one language into another, or finally intersemiotic transposition—from one system of signs into another, (from verbal art into music, dance, cinema, or painting).

If we were to translate into English the traditional formula Traduttore, traditore as “the translator is a betrayer,” we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? betrayer of what values?

 

 

 

Written in 1958 in Cambridge, Mass., and published in the book On Translation (Harvard University Press, 1959).


 

somiglianza fonemica è percepita come relazione semantica. Il gioco di parole, o per usare un termine più erudito, e forse più preciso, la paronomasia, regna sull’arte poetica, e, che il suo dominio sia assoluto o limitato, la poesia è per definizione intraducibile. Solo una trasposizione creativa è possibile: la trasposizione intralinguistica – da una forma poetica in un’altra, o la trasposizione interlinguistica – da una lingua in un’altra – o infine la trasposizione intersemiotica – da un sistema segnico in un altro (dall’arte verbale alla musica, alla danza, al cinema o alla pittura).

Se dovessimo tradurre verso l’inglese la formula tradizionale italiana «Traduttore traditore» come «The translator is a betrayer» priveremmo l’epigramma in rima di tutto il suo valore paronomastico. Quindi, un atteggiamento cognitivo ci costringerebbe a trasformare questo aforisma in un’affermazione più esplicita e a rispondere alle domande: traduttore di quali messaggi? Traditore di quali valori?

 

 

 

Scritto a Cambridge, Mass., nel 1958, e pubblicato nel volume On translation (Harvard University Press, 1959).


 

Language and Culture

The two speeches which have just been delivered are the first lectures in Japanese which I have heard in my life, and I shall tell you exactly what my feeling was. Around 1910, in my Moscow high-school years, I saw and heard a remarkable Japanese actress from Tokyo, Hanako. She ravished the Russian audience, was extolled by avant-garde writers and sketched by modern painters. I was deeply impressed by her performance and recounted to my parents her talks and monologues. Surprised by their question — “But what was her language?” — I answered, “Of course, it was Japanese, but we did understand it.” This is exactly what I can add to the clear-cut assertion of Professor Tsurumi.

What is needed in order to grasp the language of another? — One must have a keen feeling of intelligibility, an intuition of solidarity between the speaker and listener, and their joint belief in the capability of the message to go through, a capability which, in Russian, has found a felicitous label, doxodčivost’. If one longs for communication with his fellow man, the first step toward mutual comprehension is ensured. Because what is language? Language is overcoming of isolation in space and time. Language is a struggle against isolationism. And this fight occurs not only within the limits of an ethnic language, where people try to adjust to each other, and to understand each other within the bounds of family, town, or country; a similar striving also takes place on a bilingual or multilingual, international scale. One feels a powerful desire to understand each other. A palpable specimen is the example of neighboring Norwegian and Russian fishermen, who, during decades, or perhaps even centuries, met together for joint work and thus elaborated a common language which was called — Russians thought the label is Norwegian, and Norwegians, that this term is Russian — briefly, the common verbal code was named moyapåtvoya, which, in a Scandinavian shaping of Russian, means “mine in your way”. This may serve as a foreword to the topic of my paper.

Four decades ago, when the First International Congress of Linguists met in The Hague, all of us were struggling for the autonomy of linguistics, namely for the elaboration of its own specific methods and devices, and the very important task was to

Lingua e cultura

I due discorsi appena tenuti sono le prime conferenze in giapponese che io abbia mai ascoltato in vita mia, e vi dirò esattamente che sensazione ho provato. Attorno al 1910, all’epoca in cui frequentavo le scuole superiori a Mosca, ho visto e sentito parlare una notevole attrice giapponese di Tokio, Hanako. Rapì il pubblico russo, fu lodata da alcuni scrittori d’avanguardia e alcuni pittori moderni ne fecero degli schizzi. Io fui profondamente colpito dal suo spettacolo e ne raccontai discorsi e monologhi ai miei genitori. Sorpreso dalla loro domanda – «Ma in che lingua parlava?» – risposi: «In giapponese, naturalmente, ma lo capivamo». Questo è esattamente ciò che posso aggiungere all’affermazione esplicita del Professor Tsurumi.

Che cosa serve per cogliere la lingua altrui? – Bisogna sentire con chiarezza che c’è intelligibilità, intuire la solidarietà tra chi parla e chi ascolta e credere insieme che il messaggio possa passare, potenzialità che, in russo, ha trovato una definizione felice, «doxodčivost». Se si desidera comunicare con un altro essere umano, il primo passo verso la comprensione reciproca è assicurato. Perché, che cos’è il linguaggio? Il linguaggio è la vittoria sull’isolamento nello spazio e nel tempo. Il linguaggio è una lotta contro l’isolazionismo. E questa battaglia non avviene solo all’interno dei limiti di una lingua etnica, dove le persone provano ad adattarsi le une alle altre, e a capirsi a vicenda all’interno dei confini della famiglia, della città o della nazione; una tensione simile ha luogo anche su scala internazionale, bilingue o multilingue. Si avverte un forte desiderio di capirsi reciprocamente. Un caso concreto è l’esempio dei pescatori confinanti della Russia e della Norvegia, che, per decenni, o forse anche secoli, si incontravano per lavorare insieme ed elaborarono così un linguaggio comune che fu chiamato – i russi pensavano che il nome fosse norvegese, e i norvegesi che il termine fosse russo – insomma, questo codice verbale comune fu chiamato «moyapåtvoya», che, in una distorsione scandinava del russo, significa «mio a modo tuo». Ciò potrebbe fungere da prefazione al tema del mio intervento.

Quarant’anni fa, in occasione del Primo congresso internazionale dei linguisti a L’Aia, tutti noi ci battemmo per l’autonomia della linguistica, e cioè per l’elaborazione di tecniche e metodi specifici, e il compito più importante era quello di trovare e mostrare


 

find out  and to show where are the boundaries of linguistic science and what are the questions to which linguists must, and only linguists actually can, give an answer. Now, when we are near to the Tenth Congress of Linguists, which will begin in Bucharest at the end of this August, we stand before a completely different problem. At present, it is no longer the slogan of autonomy, but a program of integration, a plan of interdisciplinary relations, the problem of creative cooperation between diverse sciences. It is the problem of harmonious coordination for constructing a joint scientific domain, a science of mankind, and — in a far wider scope — a general science of life. Of course, integration implies autonomy, but, as it was once more neatly emphasized here by my dear friend, Professor Shirô Hattori, integration implies autonomy and excludes isolationism, because any isolationism harms our cultural life and our life in general. Obviously, there is no real integration without an autonomy which takes into account the necessity of intrinsic laws for every partial field and every discipline. There is another foe of these two creative ideas, autonomy and integration. The other dread enemy beside isolationism is heteronomy, or — if you permit me to translate this somewhat technical term into the vocabulary currently used by the newspapers — it is “colonialism” that we have to combat. Autonomy and integration: always welcome; isolationism and colonialism: henceforth inadmissible.

Now, what is the problem of language and culture? These two concepts are to be viewed in their interconnection. Then, first and foremost, what should we have in mind: language and culture or language in culture? Can we consider language as a part, as a constituent of culture, or is language something different, separate from culture? I know, many in the audience would like to ask: well, but how would one define culture? There are so many definitions, and an entire voluminous book was devoted by two outstanding American anthropologists, Kluckhohn and Kroeber, to the multifarious definitions of culture, their detailed list and discussion (Kluckhohn, Kroeber 1952). We may choose a very simple, operational definition, proposed in the instructive book Human Evolution by the biologist Campbell: “Culture is the totality of behavior patterns that are passed between generations by learning, socially determined behavior learned by imitation and instruction” (Campbell 1967). I think, one can agree with this emphasis on imitation and


dove fossero i confini della linguistica e quali fossero le domande alle quali i linguisti devono, e a cui di fatto solo i linguisti possono, dare una risposta. Ora che siamo vicini al «Decimo congresso dei linguisti», che comincerà a Bucarest alla fine di agosto, ci troviamo di fronte a un problema completamente diverso. Oggi non c’è più lo slogan dell’autonomia, ma un programma di integrazione, un progetto di relazioni interdisciplinari, il problema della cooperazione creativa tra scienze diverse. È il problema di un coordinamento armonioso per costruire un campo scientifico comune, una scienza dell’umanità, e – in un’ottica molto più vasta – una scienza generale della vita. Naturalmente l’integrazione implica l’autonomia, ma, come è già stato enfatizzato una volta con più decisione da un mio caro amico, il Professor Shirô Hattori, l’integrazione implica l’autonomia ed esclude l’isolazionismo, perché qualunque tipo di isolazionismo nuoce alla nostra vita culturale e alla nostra vita in generale. Ovviamente non c’è vera integrazione senza un’autonomia che tenga in considerazione la necessità di leggi intrinseche a ogni ramo parziale e a ogni disciplina. C’è un altro rivale di queste due idee creative, autonomia e integrazione. L’altro acerrimo nemico insieme all’isolazionismo è l’eteronimia, o – se mi consentite di tradurre questo termine, piuttosto tecnico, nel vocabolario usato normalmente dai giornali – è il “colonialismo” che va combattuto. Autonomia e integrazione: sempre gradite; isolazionismo e colonialismo: d’ora in poi inammissibili.

Ma qual è il problema della lingua e della cultura? Questi due concetti devono essere visti nelle loro reciproche relazioni. Inoltre, prima di tutto, che cosa dobbiamo avere in mente? Lingua e cultura o lingua nella cultura? Possiamo considerare la lingua come una parte, un costituente della cultura, o la lingua è qualcosa di diverso, di separato dalla cultura? Lo so, molti tra il pubblico vorrebbero chiedere: sì, ma come si potrebbe definire la cultura? Ne esistono tantissime definizioni, e due antropologi americani, Kluckhohn e Kroeber, hanno dedicato un intero volume alle molteplici definizioni di cultura, al loro elenco dettagliato e alla loro discussione (Kluckhohn, Kroeber 1952). Potremmo scegliere una definizione molto semplice e operativa, proposta nell’istruttivo libro Storia Evolutiva dell’uomo del biologo Campbell: «La cultura è la totalità dei modelli comportamentali trasmessi per apprendimento di generazione in generazione, un comportamento socialmente determinato appreso per imitazione e istruzione» (Campbell 1967). Penso


 

instruction as the basic cultural devices. But there is one gap in the passage cited and Professor Tsurumi’s lecture showed what the gap is: the diffusion of culture takes place not only in time but also in space. Learned solidarity of contemporaries cannot be disregarded. Yet if we accept the standpoint that cultural values are transmitted by learning, then what is to be said about language? Is it a cultural fact? Evidently language is transmitted by learning, and of course the acquisition of the child’s first language implies a learning contact between the infant and his parents or adults in general. If, moreover, one has to learn a second or further language, it requires a relation between people who learn one from the other. Among the definitions of culture current in anthropological literature, we also find an assertion that the principal way of diffusion for cultural goods is through the word, through the medium of language. Does this statement apply also to language itself? Of course, language is learned through the medium of language, and the child learns new words by comparing them with other words, by identifying and differentiating the new and previously acquired verbal constituents. According to the precise formula of the great American thinker Charles Sanders Peirce, verbal symbol originates from verbal symbol. Such is the way of language development.

If we define language as a cultural phenomenon, a very serious question immediately arises. In culture, we deal with the relevant notion of progress. I hardly need to add that any idea of straightforward progress is a bewildering oversimplification. We find most various and whimsical curves, and if we confront, for instance, the poetry of Dante and the pictorial masterpieces of the Italian 14th and 15th centuries with Italy’s poetry or art of the recent epochs, we could hardly view the 19th century as thoroughly advanced in comparison with works of the trecento. Many other striking examples could be adduced. When contemplating the fascinating Franco-Cantabrian cave paintings of beasts and hunters produced in the paleolithic period, sometimes we cannot but state how much more impressive and monumental they are than the so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers. These observations, however, do not imply any denial of progress. In the history of art, we deal


 

che si possa essere d’accordo con l’enfasi posta sull’imitazione e sull’istruzione come meccanismi culturali di base. Ma c’è una lacuna nel passaggio citato e la conferenza del professor Tsurumi ha mostrato di quale lacuna si tratta: la diffusione della cultura ha luogo non solo nel tempo ma anche nello spazio. Non si può trascurare la solidarietà appresa dei contemporanei. Eppure, se accettiamo l’idea che i valori culturali si trasmettono per apprendimento, cosa dire allora della lingua? È un fatto culturale? È evidente che la lingua si trasmette per apprendimento e ovviamente l’acquisizione della prima lingua da parte del bambino implica un contatto di apprendimento tra il neonato e i genitori o gli adulti in generale. Se, inoltre, si deve imparare una seconda o ulteriore lingua, è necessaria una relazione tra persone che imparano le une dalle altre. Fra le definizioni di cultura diffuse nella letteratura antropologica, si dice anche che è attraverso la parola che si diffondono maggiormente le merci culturali, per mezzo della lingua. Questa affermazione vale anche per la lingua stessa? Certo, la lingua si impara per mezzo della lingua, e il bambino impara le parole nuove confrontandole con altre parole, identificando e differenziando i nuovi costituenti verbali e quelli precedentemente acquisiti. Secondo la precisa formulazione del grande pensatore americano Charles Sanders Peirce, il simbolo verbale si origina dal simbolo verbale. È questo il modo in cui avviene lo sviluppo della lingua.

Se definiamo la lingua come fenomeno culturale, sorge immediatamente una questione molto seria. Nella cultura si ha a che fare con l’importante concetto di progresso. Non c’è bisogno di aggiungere che qualsiasi idea di progresso diretto è una semplificazione eccessiva che può disorientare. Vi si trovano le curve più diverse e inaspettate, e se confrontiamo, per esempio, la poetica di Dante e i capolavori pittorici del Trecento e del Quattrocento italiano con la poesia e l’arte italiana delle epoche recenti, faremmo fatica a considerare l’Ottocento veramente avanzato rispetto alle opere del Trecento. E di esempi così lampanti se ne potrebbero citare molti altri. Quando si contemplano le affascinanti pitture rupestri franco-cantabriche di animali e cacciatori risalenti al paleolitico, qualche volta non possiamo far altro che constatare quanto siano più impressionanti e monumentali delle cosiddette tele realistiche dell’Europa moderna, e, in particolare, dell’arte officiale dei suoi poteri autoritari. Queste osservazioni, comunque, non implicano alcuna negazione del progresso. Nella storia dell’arte abbiamo a che fare


 

with a progressively developing differentiation, technical innovations, etc. Similar conclusions on gradual sophistication may be made in the history of sciences, where, likewise, no straightforward line of development can be admitted. For instance, I recollect what was said to me by the greatest specialist of our time in questions of hearing, Professor G. von Békésy, who experienced a lively pleasure when reading Latin acoustical treatises of the 16th and 17th centuries where, despite the immense technical progress of modern acoustics, he used to detect some ideas of a higher refinement; with an affable smile he added: “It is not at all surprising; Stradivarius was made, not today, but just then.” Similar things could be stated on diverse scientific, for example, linguistic problems; certain branches, especially semantics, were in some respects more deeply conceived and elaborated during the Middle Ages than at present. Nonetheless, we must not forget those general lines of development which lead us still farther and farther and open ever new vistas.

Now let us approach language itself. Vocabulary may become richer and more adapted to the newer and more complex culture. The same with phraseology and with the diversity and variability of verbal styles. But in the grammatical system, morphological and syntactic, and in the whole sound pattern, no progress whatever has been detected. We can compare languages of the most cultivated nations with those of the socalled primitive peoples and we observe analogies and parallels between the former and the latter both in their grammatical processes and concepts: morphological categories and subclasses; structure of phrases, clauses, and sentences. All attempts of diverse linguists to find here traces of progress, and divergences between peoples of different cultural levels in the grammatical and phonological structure of their languages remained vain.

Occasionally, the question was raised whether that Samoyed language which has only one conjunction, in correspondence with our two conjunctions “and” and “or”, does not reflect a more primitive ethnic mind. However, a written variety of American English has recently developed a synthetic conjunction “and/or”, which is often considered a quite useful cultural tool. Now let us discuss whether a language which has merely one conjunction “and/or” instead of our two conjunctions “and” and “or” is impoverished in


 

con una differenziazione che si sta progressivamente sviluppando, con innovazioni tecniche, eccetera. Si possono trarre conclusioni simili a proposito di una graduale sofisticazione nella storia delle scienze, dove, anche in questo caso, non si può ammettere un andamento diretto dello sviluppo. Per esempio, ricordo ciò che mi è stato detto dal maggior specialista del nostro tempo per le questioni di udito, il Professor G. von Békésy, che provava grande soddisfazione nel leggere i trattati latini di acustica del sedicesimo e diciassettesimo secolo in cui, a dispetto dell’immenso progresso tecnico dell’acustica moderna, individuava alcune idee di maggior raffinatezza; con un sorriso affabile aggiunse: «La cosa non sorprende affatto; lo Stradivari si faceva all’epoca, non oggi». Considerazioni simili si potrebbero fare a proposito di diversi problemi scientifici, per esempio linguistici. Alcune branche, soprattutto la semantica, erano sotto certi punti di vista concepite ed elaborate molto più a fondo durante il Medioevo di quanto non lo siano oggi. Eppure, non vanno dimenticate quelle linee di sviluppo generali che ci conducono ancora più lontano aprendoci prospettive sempre nuove.

Ora avviciniamoci alla lingua in senso stretto. Il vocabolario può diventare più ricco e adattarsi maggiormente a una cultura più nuova e più complessa. Vale lo stesso per la fraseologia e la diversità e variabilità degli stili verbali. Ma nel sistema grammaticale, morfologico e sintattico, e nell’intero schema sonoro, non è stato individuato nessun progresso. Possiamo mettere a confronto le lingue delle nazioni culturalmente più avanzate con quelle dei cosiddetti popoli primitivi e osservarne analogie e paralleli sia nei processi sia nei concetti grammaticali: le categorie e le sottoclassi morfologiche; la struttura di proposizioni e frasi. Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso e divergenze tra popoli di diversi livelli culturali nella struttura grammaticale e fonologica delle loro lingue sono rimasti vani.

Ogni tanto qualcuno si è chiesto se quella lingua samoieda che dispone di una sola congiunzione corrispondente alle nostre due congiunzioni «and» [e] e «or» [o] non riflettesse una mente etnica più primitiva. Comunque, una varietà scritta di inglese americano ha di recente sviluppato una congiunzione sintetica «and/or» che è spesso considerata uno strumento culturale molto utile. Esaminiamo ora se una lingua che abbia una sola congiunzione «and/or» al posto delle nostre due congiunzioni «and» e «or» sia

its communicative means. Not at all! Everything can be expressed. If in this type of Samoyed language one says that “father and/or mother, one of them, will come”, we know that or is meant. If, however, the native says that “father and/or mother, both of them, will come”, then obviously and is the key: again, there is no annoying ambiguity in the message. The grammatical structure never does prevent the speaker from conveying the most complex and most exact information. If we venture to translate Albert Einstein’s or Bertrand Russell’s books into Bushmen or Gilyak languages, this task is perfectly achievable, whatever the grammatical structure of the given vernacular. Only its vocabulary must be enriched and adapted to the needs of a new scientific terminology. However, any new scientific or technical branch requires similar terminological reforms, adjustments, and innovations in languages of our civilization as well. Thus, for instance, such new fields as molecular genetics or quantum theory have generated their own, completely new dictionary, whereas the phonology, morphology, and syntax are pliable to any cultural need, with no request for modifications.

Still, there is the problem of explaining why no progress is seen in the phonological and grammatical structure of languages. The penetrating linguist Nikolaj Trubetzkoy told me once: “We should not forget that, in the age between two and five years, when we acquire the fundamentals of phonology and grammar, we do not belong to any adult culture, and the cultural level of the children’s environment plays no substantial role.” The primary orientation of infants tending to acquire the environmental language is directed towards linguistic universals. Here, we face the problem of universality in regard to languages. Yes, we search for a common language with our fellow men, and there is only one necessary prerequisite for finding a common language. Namely, we must apprehend that other human beings also speak a human language, and that, consequently, our languages are mutually translatable. Under these conditions, we may and must look for an actual accomplishment of the translation intended. Such a possibility vanishes only in the case when one of the virtual interlocutors does not realize that the other fellow is equally a human being. According to an old legendary story, after a shipwreck, the only white man who managed to reach a remote island was regarded by the natives as some kind of ape or demonic being. In either case, he was not suspected of mastering any


 

impoverita nei suoi mezzi comunicativi. Niente affatto! Si può esprimere tutto. Se in questo tipo di lingua samoieda si dice che «verrà il padre e/ o la madre, uno di loro» sappiamo che si intende «o». Se, invece, il madrelingua dice «verranno il padre e/ o la madre, entrambi» allora è evidente che la chiave è «e»: anche in questo caso non c’è alcuna fastidiosa ambiguità nel messaggio. La struttura grammaticale non impedisce mai al parlante di trasmettere l’informazione nel modo più complesso e più esatto. Se ci avventuriamo nella traduzione dei libri di Albert Einstein o Bertrand Russell nelle lingue boscimane o in gilyac, l’obiettivo è perfettamente raggiungibile qualunque sia la struttura grammaticale del vernacolo. Soltanto, il suo vocabolario deve essere arricchito e adattato alle necessità di una nuova terminologia scientifica. Del resto, qualsiasi nuova branca scientifica o tecnica richiede simili riforme, adattamenti, e innovazioni terminologiche anche nelle lingue della nostra civiltà. Così, per esempio, campi nuovi come la genetica molecolare o la teoria quantistica hanno generato i loro dizionari, completamente nuovi, mentre la fonologia, la morfologia e la sintassi si piegano a qualsiasi necessità culturale, senza richiedere alcuna modifica.

Eppure, occorre spiegare perché non si ravvisa alcun progresso nella struttura fonologica e grammaticale delle lingue. Il penetrante linguista Nikolaj Trubetzkoy una volta mi disse: «Non dovremmo dimenticare che, nell’età compresa tra i due e cinque anni, quando acquisiamo i fondamentali della fonologia e della grammatica, non apparteniamo a nessuna cultura adulta, e il livello culturale dell’ambiente che circonda i bambini non riveste un ruolo sostanziale». L’orientamento primario dei bambini che tendono ad acquisire la lingua ambientale è diretto verso gli universali linguistici. Qui ci troviamo di fronte al problema dell’universalità in relazione alle lingue. Sì, siamo alla ricerca di una lingua in comune con l’altro, e c’è un solo prerequisito necessario per trovare una lingua comune. E cioè, dobbiamo riconoscere che anche gli altri esseri umani parlano una lingua umana e che, di conseguenza, le nostre lingue sono mutuamente traducibili. In queste condizioni possiamo e dobbiamo cercare una realizzazione effettiva della traduzione desiderata. Tale possibilità svanisce solo nel caso in cui uno degli ipotetici interlocutori non comprenda che anche l’altro è un essere umano. Secondo una vecchia leggenda, dopo un naufragio, l’unico uomo bianco che riuscì a raggiungere un’isola remota fu visto dagli indigeni come una sorta di scimmione o di essere


 

intelligible language, and perished, unable to convince the aborigines that he, too, was a human being, and that, therefore, mutual comprehension was achievable.

We are faced with the fundamental fact and problem of the universally human and only human, command of language. Except in obviously pathological cases, all human beings, from their childhood, speak and understand speech. Nothing similar to human intercommunication exists outside mankind. This unique endowment must have some biological premises, namely, certain particular properties in the structure of the human brain. A further pertinent phenomenon has come to light. We observe a set of universal features in the structure of languages. Thus, all languages exhibit the same architectonic pattern, the same hierarchy of constituents from the smallest units to the widest, viz. from distinctive features and phonemes to morphemes, and from words to sentences. Any language whatever displays the same rules of implication and superposition, the same order alien to other sign systems. This structure of language turns it into an indispensable tool of thought and endows it with an imaginative and creative power. Language enables us to build ever new sentences and utterances, and to speak about things and events which are absent and remote in space and in time; to evoke nonexistent fictitious entities as well. The humane essence of language lies in the liberation of sayers and sayees from a confinement to the hic et nunc.

Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other — briefly, to delimit nurture from nature. Once again, we are faced with one of the most intricate questions of present scholarship. It is necessary to realize and to remember that the absolute boundary which our forebears saw between culture and nature does not exist. Both nature and culture intervene significantly in the behavior of animals, and also in that of human beings. A leading expert in problems of animal behavior, the English zoologist W. H. Thorpe, showed us, on the basis of his own observations and experiments which were supported by the research of other specialists, that birds, for instance, finches, if totally isolated from all other birds even before emerging from the egg, and moreover,


 

demoniaco. In un caso o nell’altro, non si sospettò che padroneggiasse una lingua intellegibile, e morì, incapace di convincere gli aborigeni che anche lui era un essere umano e che, quindi, si poteva arrivare a una comprensione reciproca.

Ci troviamo di fronte al fatto e al problema fondamentale della padronanza universalmente umana, e solo umana, della lingua. Ad eccezione di casi ovviamente patologici, tutti gli esseri umani, fin dall’infanzia, parlano e comprendono il parlato. Non esiste nulla di simile alla comunicazione fra esseri umani al di fuori del genere umano. Questa dotazione unica deve avere alcune premesse biologiche, e cioè, alcune proprietà particolari che risiedono nella struttura del cervello umano. È emerso un ulteriore e pertinente fenomeno. Nella struttura del linguaggio è presente una serie di caratteristiche universali. Così, tutte le lingue presentano lo stesso schema architettonico: la stessa gerarchia di costituenti dalle unità più piccole a quelle più ampie, cioè dai caratteri distintivi e fonemi ai morfemi, e dalle parole alle frasi. Qualsiasi lingua presenta le stesse regole di implicazione e sovrapposizione, ordine che è estraneo a sistemi segnici di altro tipo. Questa struttura della lingua la trasforma in uno strumento indispensabile di pensiero e la dota di potere immaginifico e creativo. La lingua ci consente di costruire frasi ed enunciati sempre nuovi, e di parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani nello spazio e nel tempo; e anche di evocare entità fittizie inesistenti. L’essenza umana della lingua risiede nella liberazione di coloro che dicono e coloro ai quali è detto dalla reclusione nell’hic et nunc.

Ora, quando si prende in considerazione la natura universalmente umana, e solo umana, della lingua, bisogna affrontare la questione delle barriere tra cultura e natura; tra adattamento culturale e apprendimento da un lato, ed eredità e innatezza dall’altro – insomma, si devono delimitare «nurture» e «nature». Ancora una volta, siamo di fronte a una delle questioni più intricate della scienza contemporanea. È necessario comprendere e ricordare che la barriera netta che i nostri predecessori vedevano tra cultura e natura non esiste. Sia la natura sia la cultura intervengono in modo significativo nel comportamento degli animali, così come in quello degli esseri umani. Uno dei massimi esperti nei problemi di comportamento degli animali, lo zoologo inglese W. H. Thorpe, ci ha mostrato, sulla base delle sue stesse osservazioni e di esperimenti supportati dalle ricerche di altri specialisti, che gli uccelli, per esempio i fringuelli, se completamente  isolati da


 

if they are deafened after being hatched, still perform the inborn blueprint of the song proper to the habit of their species, or even to the “dialect” of the subspecies (Thorpe 1961; 1963). This is a really inborn inheritance. If these artificially isolated fledgelings, (on the condition that their hearing has not been injured), are introduced into the society of other finches, they find and imitate their tutors. No equality exists even in the song of finches: there are better and worse performances, and the fledgelings try to follow the best singers. They learn, and their song improves.

In my adolescence, I had the opportunity to observe nightingales of the Tula region. If there was a master nightingale in the surroundings, all other neighboring nightingales sought to imitate him and to sing the habitual song with its customary variations in the best and most expanded way. But, whatever happens, a nightingale performs nothing else than the nightingale’s native song, and if you put a nightingale nestling among birds of another species, he will still cling to his inborn pattern without any adaptation to the environment. It is quite different with human children. If deprived of the adults’ model, they will remain speechless, without any traces of ancestral verbal habits. What they received as a biological endowment from their ancestors is the ability to learn a language as soon as there is a model at their disposal. Any of the extant human languages may serve them as an efficient cultural model. I knew a Nordic girl who spent her early childhood in South Africa, surrounded by aborigines, whom her father, a Norwegian anthropologist, was investigating. She spoke Bantu so well that students of Bantu could use her as a perfect native informant. After the family’s return to Norway, if she at any time felt insulted by her parents, she retorted in the purest Bantu language.

We conclude that both components — nature and culture, inheritance and acculturation — are present, but that the hierarchy of both factors is different. It is primarily nature in animals; primarily culture, ergo learning, in human beings. Accordingly, how will we define the place of language? We must say that language is situated between nature and culture, and that it serves as a foundation of culture. We may go even further and state that language is THE necessary and substantial foundation of human culture.


 

tutti gli altri uccelli ancor prima di uscire dall’uovo, e assordati appena dopo la schiusa, riproducono lo schema innato del canto caratteristico del comportamento della loro specie, o perfino del “dialetto” della sottospecie (Thorpe 1961; 1963). Si tratta di un retaggio davvero innato. Se questi uccellini isolati artificialmente (a condizione che il loro udito non sia stato danneggiato) sono introdotti in un’altra società di fringuelli, trovano e imitano i loro istruttori. Non c’è uguaglianza neppure nel canto dei fringuelli: ci sono prestazioni migliori e peggiori, e gli uccellini tentano di seguire chi canta meglio. Man mano che imparano, il loro canto migliora.

Da adolescente ho avuto l’opportunità di osservare gli usignoli della regione di Tula. Se c’era un usignolo maestro nelle vicinanze tutti gli altri usignoli da quelle parti cercavano di imitarlo e di eseguire il solito canto con le consuete variazioni nel modo migliore e più esteso possibile. Ma, qualunque cosa accada, un usignolo non canta nient’altro se non il canto innato dell’usignolo, e se mettiamo una nidata di usignoli tra gli uccelli di un’altra specie, resterà comunque fedele al suo modello innato senza adattarsi in alcun modo all’ambiente. Nel caso dei bambini, la situazione è completamente diversa. Se privati del modello adulto, resteranno muti, senza alcuna traccia delle abitudini verbali ancestrali. Ciò che hanno ricevuto come dotazione biologica dai loro antenati è la capacità di imparare una lingua in presenza di un modello a loro disposizione. Qualsiasi lingua umana ancora esistente potrebbe fungere da efficace modello culturale. Ho conosciuto una ragazza nordica che ha passato i primi anni della sua infanzia in Sudafrica, circondata dagli aborigeni che suo padre, un antropologo norvegese, stava studiando. Parlava il bantu così bene che gli studiosi del bantu potevano servirsi di lei come perfetta informatrice nativa. Dopo il ritorno della famiglia in Norvegia, ogni volta che si sentiva mancare di rispetto dai genitori rispondeva nella più pura lingua bantu.

In conclusione, entrambe le componenti – natura e cultura, eredità e acculturazione – sono presenti, ma la gerarchia di ciascuno dei due fattori è diversa. È soprattutto la natura negli animali; soprattutto la cultura, quindi l’apprendimento, negli esseri umani. Di conseguenza, come definiremo la posizione della lingua? Va detto che la lingua risiede tra la natura e la cultura, e che funge da fondamento della cultura. Potremmo anche spingerci oltre e affermare che la lingua è IL fondamento necessario e sostanziale della cultura umana.


 

When we hear the exact translation of these statements into Japanese by such a connoisseur of the two languages involved as Professor Shigeo Kawamoto, once more we ascertain the wonderful possibility of transposing scientific propositions and, in general, any statement of a purely cognitive character from one language into another. We learn again that the whole problem consists in a subtle, rational adjustment of the lexical and phraseological inventory. And what about the grammatical pattern? Here we enter into a question which had been repeatedly raised and, at the beginning of the 19th century, was clearly formulated by the prominent philosopher of language, Wilhelm von Humboldt. The most challenging approach to this question has been developed by the inquisitive linguist Benjamin Lee Whorf (1897-1941), plunged in a search as to whether and to what degree differences in the grammatical structure of languages reflect various attitudes toward the universe and dissimilarities in the thought of given ethnic groups (Whorf 1956). Sometimes, such a quest for an interconnection between language and thought led to narrowly isolationist doctrines, claiming that divergences in linguistic structure predestine peoples to an inevitable failure to understand each other. It might be replied to these fallacies that in any intellectual ideational, cognitive activities, we are always positively able to overcome the, so to speak, idiomatic character of grammatical structure and to reach a complete mutual comprehensibility.

However, beside strictly cognitive activities, there exists, and plays a great role in our life, a set of phenomena which might be labeled “everyday mythology”, and which finds its expression in divagations, puns, jokes, chatter, jabber, slips of the tongue, dreams, reverie, superstitions, and, last but not least, in poetry. The grammatical patterning of language plays a significant and autonomous part in these various manifestations of such mythopoeia.

I shall limit myself to a few examples. Students whose native tongue has no grammatical division of nouns into those of feminine and those of masculine gender are inclined to believe that such a division is purely formal. They admit that in application to animates a concept of the two sexes seems to underlie and to justify the difference of the two classes in languages which distinguish the above-mentioned grammatical genders, and that in these cases, the grammatical distinction is understandable, although hardly necessary. But we are told that, in respect to inanimate nouns, the opposition of


 

Quando sentiamo la traduzione esatta di queste affermazioni in giapponese da un tale conoscitore delle due lingue coinvolte come il Professor Shigeo Kawamoto, ancora una volta constatiamo la meravigliosa possibilità di trasporre proposizioni scientifiche e, in generale, qualsiasi affermazione di carattere puramente cognitivo da una lingua in un’altra. Ancora una volta comprendiamo come l’intero problema consista in un adattamento sottile e razionale dell’inventario lessicale e fraseologico. E il modello grammaticale? Qui introduciamo una questione che è stata sollevata più volte, e, all’inizio dell’Ottocento, è stata formulata con chiarezza dall’importante filosofo del linguaggio Wilhelm von Humboldt. L’approccio più stimolante alla questione è stato sviluppato dall’intraprendente linguista Benjamin Lee Whorf (1897-1941), intento a indagare se e in quale misura le differenze nella struttura grammaticale della lingua riflettano i diversi atteggiamenti nei confronti dell’universo e le diversità nel pensiero di dati gruppi etnici (Whorf 1956). A volte, una tale ricerca delle interconnessioni tra lingua e pensiero conduce a dottrine strettamente isolazioniste, che pretendono che le divergenze nella struttura linguistica condannino le persone a un inevitabile insuccesso nel comprendersi a vicenda. A queste fallacie si potrebbe ribattere che in qualsiasi attività intellettuale, ideativa e cognitiva, siamo sempre positivamente capaci di superare il cosiddetto carattere idiomatico della struttura grammaticale e raggiungere una piena comprensibilità reciproca.

Però, oltre alle attività strettamente cognitive, esiste, e riveste un ruolo importante nella nostra vita, una serie di fenomeni che potremmo chiamare “mitologia quotidiana”, e che trova la sua espressione in divagazioni, giochi di parole, chiacchiere, pettegolezzi, lapsus, sogni, fantasticherie, superstizioni, e, da ultimo ma non per importanza, nella poesia. La schematizzazione grammaticale della lingua riveste un ruolo significativo e autonomo nelle diverse manifestazioni di questa mitopoiesi.

Mi limiterò a qualche esempio. Gli studiosi la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile sono inclini a pensare che tale divisione sia puramente formale. Ammettono che, se applicato a esseri animati, il concetto dei due sessi sembra sottolineare e giustificare la differenza delle due classi nelle lingue che distinguono i sopracitati generi grammaticali, e che, in questi casi, la distinzione grammaticale è comprensibile, seppure quasi superflua. Ma ci dicono che, quanto ai nomi inanimati, l’opposizione di femminile e maschile perde


 

feminines and masculines loses any semantic pertinence. Let us illustrate the latent semantic value of these opposites in such a language as Russian, where the division of all nouns into genders is a relevant grammatical process. About 1915, an experiment was made in the Moscow Psychological Institute with the purpose of investigating how the ability to personify inanimate objects and abstract notions works. Fifty people were asked whether they could attribute such a personal nature to the days of the week. Five people said that to them the question made no sense, and were asked to leave the hall. The other forty-five had to write down how they visualized any week-day. The results were that all saw Monday, Tuesday, and Thursday as males, and Wednesday, Friday, and Saturday as females. Most of them did not realize that the reason for this division lies in the fact that in Russian these first three words are masculine, while the other three are feminine.

There is a superstitious or jocular foretoken that is widespread in Russia: when a knife (designated by a masculine noun) falls off the dining table, a male visitor is to be expected, but when it happens to be a fork or a spoon, then — in view of their feminine names — a female is supposed to come. In verbal art, the category of grammatical genders creates most peculiar situations. When, in my childhood, I read Grimms’ folk tales in Russian translation, I asked my mother, “How is it possible that death is an old man while actually she is a woman?” In German, the word for death — der Tod — is masculine, whereas its Russian equivalent — smert’ — is feminine. The association between sex and gender even filters into figurative art. The Russian painter I. Repin reacted to a German picture of “Sin” represented as a naked woman by an angry remark: “What a stupidity; sin (Russian masculine grex) must be virile.” Yet for Germans, with their feminine die Sünde, a manlike image of sin looks perverted.

The question of genders causes trouble in the translation of poetry. A noted Czech poet and translator of Russian poetry, Josef Hora, once called me in Prague, and said, “I am going crazy. I have translated all the poems of Boris Pasternak’s book My Sister Life (Sestra moja žizn’), but I am unable to reproduce its title.” The word for life (žizn’) is feminine in Russian, but masculine in Czech (život). He felt that it was awkward to build an apposition between the feminine sister and the masculine name of life, or to substitute


 

qualsiasi pertinenza semantica. Illustriamo il valore semantico latente di questi opposti in una lingua come il russo, dove la divisione di tutti i nomi in generi è un processo grammaticale importante. Nel 1915 circa è stato condotto un esperimento presso l’Istituto psicologico di Mosca, nell’intento di indagare in che modo funzionasse la capacità di personificare oggetti inanimati e nozioni astratte. Fu chiesto a cinquanta persone se fossero in grado di attribuire una natura personale ai giorni della settimana. In cinque risposero che la domanda era per loro priva di senso, e a questi fu chiesto di lasciare il locale. Gli altri quarantacinque dovevano scrivere in che modo visualizzassero ciascun giorno della settimana. Il risultato fu che tutti vedevano il lunedì, il martedì e il giovedì come maschili, e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femminili. La maggior parte di loro non si rese conto che la ragione di questa divisione risiede nel fatto che in russo le prime tre parole sono maschili, mentre le altre tre sono femminili.

In Russia è diffuso un presagio, per superstizione o per scherzo: quando un coltello (designato da un nome maschile) cade dalla tavola, ci si deve aspettare un ospite di sesso maschile, mentre quando a cadere sono una forchetta o un cucchiaio, a causa dei loro nomi femminili, dovrebbe arrivare una donna. Nell’arte verbale la categoria dei generi grammaticali crea situazioni molto peculiari. Quando, durante la mia infanzia, ho letto le fiabe dei fratelli Grimm nella traduzione russa, chiesi a mia madre: «Com’è possibile che la morte sia un vecchio quando in realtà è una donna?». In tedesco, la parola per morte – «der Tod» – è maschile, mentre il suo equivalente russo – «smert′» – è femminile. L’associazione tra sesso e genere traspare anche nelle arti figurative. Il pittore russo I. Repin, di fronte a una rappresentazione tedesca di «Peccato» raffigurato come una donna nuda, reagì con un’osservazione seccata: «Che sciocchezza; il peccato («grex» è il nome russo maschile) dev’essere virile». Eppure ai tedeschi, con il loro «die Sünde» femminile, un’immagine maschile del peccato sembra perversa.

La questione dei generi causa problemi nella traduzione poetica. Un noto poeta ceco e traduttore di poesie russe, Josef Hora, una volta mi chiamò a Praga e mi disse: «Sto impazzendo. Ho tradotto tutte le poesie del libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita (Sestra moja žizn’), ma non riesco a riprodurne il titolo». La parola vita («žizn’») è femminile in russo, ma maschile in ceco («život»). Trovava che fosse goffo inserire un’apposizione tra il nome femminile sorella e il nome maschile di vita, o sostituire


 

Brother for Sister in Pasternak’s suggestive simile. I shall choose my last example from countless, equally embarassing, divergences. In the famous octet of one of the greatest German poets, Heinrich Heine, a fir tree, alone and surrounded by snow and darkness in the far north, dreams about a palm, also lonely in the parching heat of the south. In its German text, this succinct poem is full of lyrical, unquenchable longing and grief; the contrasting genders, the masculine Fichtenbaum and the feminine Palme, prompt an erotic symbolism. The latter vanishes upon translation into a language deprived of a similar grammatic division, and for instance, English renditions of these lines make an insipid, rhetorical impression. A different complication arises when the same poem is transposed into Russian, where the names of the two trees both belong to the feminine gender (sosna, pal’ma). Therefore, in the translation made even by such an artist of Russian verse as Lermontov, native readers feel a peculiar, let us say, sugary tinge. French readers and listeners are amused or bewildered by Heine’s octet when translated into their mother tongue, which calls both trees by masculine nouns: le pin, le palmier.

Such grammatical categories as genders obviously find a wide and multiplex employment in those varieties of language where poetic or emotive function prevails over strictly cognitive aims. But what is the role of grammatical categories in the ordinary, current language of our everyday life? How can we define the grammatical meanings which necessarily underlie those categories? The pathfinder of American linguistics and anthropology, Franz Boas (1858-1942), outlined the specific character of grammatical meanings, namely the fact that they are compulsory in our speech (Jakobson 1959). Speakers are obliged to make constant use of them. Russian distinguishes, for instance, the perfective aspect, which signalizes the completion of a given process, and the imperfective which does not. Any time a Russian verb is used, one must state whether the completion is meant, or only the process, with no regard to completion. And when such a binary selection is incessantly repeated, almost in every sentence or even clause, one has to deal with a similar choice. This constant repetitiveness furthers a latent readiness (Einstellung) to respond to the given alternative and develops a specific subliminal orientation of the speakers’ and listeners’ attention. A similar focusing of attention takes place in regard to genders.


 

«Sorella» con «Fratello» nella suggestiva similitudine di Pasternak. Sceglierò il mio ultimo esempio tra innumerevoli differenze, tutte ugualmente imbarazzanti. Nel famoso ottetto di uno dei più grandi poeti tedeschi, Heinrich Haine, un abete, solo e circondato da neve e tenebre all’estremo nord, sogna una palma, anch’essa sola nell’arida calura del sud. Nel testo tedesco questa succinta poesia è pervasa di desiderio, lirico e inappagabile, e di dolore; i generi contrastanti, il maschile «Fichtenbaum» e il femminile «Palme», suggeriscono un simbolismo erotico. Quest’ultimo svanisce in una traduzione verso una lingua priva di tale divisione grammaticale e, per esempio, le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica. Una difficoltà ulteriore emerge quando si traspone la stessa poesia in russo, dove i nomi dei due alberi appartengono entrambi al genere femminile («sosna», «pal’ma»). Di conseguenza, anche nella traduzione di un artista della poesia russa come Lermontov, i lettori madrelingua sentono, per così dire, una punta di leziosità. I lettori e gli ascoltatori francesi restano divertiti o sorpresi dall’ottetto di Heine tradotto nella loro lingua madre, che chiama entrambi gli alberi con nomi maschili: «le pin», «le palmier».

Categorie grammaticali come i generi ovviamente trovano un ampio e molteplice impiego in quelle varietà della lingua in cui le funzioni poetica ed emotiva prevalgono sulle finalità strettamente cognitive. Ma qual è il ruolo delle categorie grammaticali nella lingua ordinaria e corrente della nostra vita quotidiana? Come possiamo definire i significati grammaticali che necessariamente stanno alla base di queste categorie? Il pioniere della linguistica e dell’antropologia in America, Franz Boas (1858-1942), ha delineato il carattere specifico dei significati grammaticali, cioè il fatto che sono obbligatori nel nostro discorso (Jakobson 1959). I parlanti sono costretti a farne un uso costante. Il russo distingue, per esempio, l’aspetto perfettivo, che segnala la compiutezza di un dato processo, e l’imperfettivo, che non lo segnala. Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento. E quando tale selezione binaria è ripetuta incessantemente, quasi in ogni frase o addirittura in ogni proposizione, bisogna fare i conti con tale scelta. Questa ripetitività costante incoraggia una disposizione latente (Einstellung) a reagire alla data alternativa e sviluppa uno specifico orientamento subliminale dell’attenzione dei parlanti e degli ascoltatori. Una simile focalizzazione dell’attenzione entra in gioco anche rispetto ai generi.

Grammatically, languages do not differ in what they can and cannot convey. Any language is able to convey everything. However, they differ in what a language must convey. If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It is none of your business.” But if we speak French or German or Russian, I am obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka. I am compelled to inform you about the sex of my companion not by virtue of a higher frankness, openness, and informativeness of the given languages, but only because of a different distribution of the focal points imparting information in the verbal codes of diverse languages. If you translate the mentioned sentence from Japanese into German, and the context of this sentence remains unknown to you, then three binary selections, compulsory in German, but deprived of equivalents in the grammatical pattern of Japanese, viz. a selection between masculine and feminine, between singular and plural, and between the definite and indefinite article, constrain you to choose one of eight semantically distinct possibilities: mit dem Nachbar; mit einem Nachbar; mit den Nachbarn; mit Nachbarn; mit der Nachbarin; mit einer Nachbarin; mit den Nachbarinnen; mit Nachbarinnen. Of course, if the verbal context or the nonverbalized situation of the given sentence does not supply its translator with sufficient cues, the latter faces certain dilemmas. They disappear when the same sentence has to be translated from German into Japanese, which is devoid of such grammatical distinctions. On the other hand, similar complications arise also for a translator of a German or Russian text into Japanese, which, in turn, is rich in grammatical distinctions without equivalents in Western languages. The outlined difficulties almost come to naught when translating a scientific work written clearly, unambiguously, and with lucid contextual meanings of all its verbal constituents.

The case of poetic language is quite different. One might even say that a close, faithful translation of poetry is a contradiction in terms. What remains possible is a congenial transposition — a free, creative response of an English poet to a Russian or Japanese author, and vice versa — a performance essentially similar to an artful,


 

Grammaticalmente, le lingue non differiscono in ciò che possono o non possono esprimere. Qualsiasi lingua è in grado di esprimere tutto. Al contrario, differiscono in ciò che una lingua deve esprimere. Se dico, in inglese (o analogamente in giapponese): «I spent last evening with a neighbor», potreste chiedermi se la persona che era con me fosse maschio o femmina, e io ho il diritto di fatto di darvi la risposta sgarbata «Non è affar vostro». Ma se parliamo francese, tedesco o russo, sono obbligato a evitare l’ambiguità e dire: «voisin» o «voisine», «Nachbar» o «Nachbarin», «Sosed» o «Sosedka». Sono costretto a informarvi sul sesso della persona che era con me non in virtù di una maggiore franchezza, apertura e informatività di tali lingue, ma solo a causa di una distribuzione diversa dei punti focali che ripartiscono l’informazione nei codici verbali di lingue diverse. Se traducete la frase in questione dal giapponese al tedesco, e il contesto di questa frase resta a voi sconosciuto, tre selezioni binarie, obbligatorie in tedesco ma prive di equivalenti nel modello grammaticale giapponese, e cioè una selezione tra maschile e femminile, tra singolare e plurale, e tra articolo determinativo e indeterminativo, vi costringono a scegliere una delle otto possibilità semanticamente distinte: «mit dem Nachbar»; «mit einem Nachbar»; «mit den Nachbarn»; «mit Nachbarn»; «mit der nachbarin»; «mit einer nachbarin»; «mit den Nachbarinnen»; «mit Nachbarinnen». Naturalmente, se il contesto verbale o la situazione non-verbalizzata della data frase non forniscono al traduttore indizi sufficienti, quest’ultimo si trova di fronte a una serie di dilemmi. Questi spariscono quando la stessa frase deve essere tradotta dal tedesco al giapponese, che è privo di queste distinzioni grammaticali. D’altro canto, simili complicazioni emergono anche per un traduttore di un testo tedesco o russo verso il giapponese, che, a sua volta, è ricco di distinzioni grammaticali senza equivalenti nelle lingue occidentali. Le difficoltà evidenziate diventano quasi irrilevanti traducendo un’opera scientifica scritta in modo chiaro, senza ambiguità, e con lucidi significati contestuali di tutti i suoi costituenti verbali.

Nel caso del linguaggio poetico le cose sono completamente diverse. Qualcuno potrebbe persino dire che una traduzione accurata e fedele della poesia è una contraddizione in termini. Ciò che rimane possibile è una trasposizione congeniale – una risposta libera e creativa di un poeta inglese a un autore russo o giapponese, e viceversa – un’interpretazione essenzialmente simile a una trasposizione ingegnosa, artistica di una


 

ingenious transposition of a poem or novel into a painting, motion-picture, ballet, or a piece of music. On the futility of any literal translation of poetic works into another language, we find a charming Russian story recounted by the linguist A. Potebnja: when a Greek was weeping over a native song, and curious Russians asked him to translate it, he replied that it was about a tree with leaves on its branches and a singing bird among the leaves; he added, “It’s nothing when translated, but as long as I hear it in Greek, it makes me cry.”

Our discussion of language and culture would remain incomplete without a few concluding remarks on the culture of language. With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities. In particular, the manifold problems of language teaching and learning on its different levels demand a wise and influential intervention from linguistic science. Various questions of standardization also acquire a heightened significance, and we linguists are prompted by colleagues from diverse fields of science, for instance, physics, who realize the great instrumental role of language in scientific operations, and who envisage and welcome the decisive contribution to be brought by the science of language to an overall checking inquiry into the language of science. In this connection it is, indeed, appropriate once more to recollect Niels Bohr’s insistence on the complementarity between the formalized or semi formalized language of sciences, particularly physics, and the usual, natural language which is the final foundation, the root of such artificial superstructures. This interrelation necessitates a durable interdisciplinary work. People primarily involved in the science of language, in other words linguists, must undertake it in collaboration with those representatives of diverse sciences who pay careful attention to the make-up of the formalized languages used by the given disciplines.

As to the question of the first paper delivered today, the need and task of an international auxiliary language, we must state that this question or rather bundle of questions, which had been deliberately disregarded by most linguists and linguistic institutions of the late nineteenth century, are presently more and more discussed.


 

poesia o di un romanzo in un quadro, un film, una danza o un brano musicale. Sulla futilità di qualsiasi traduzione letterale di opere poetiche in un’altra lingua esiste una storia affascinante raccontata dal linguista A. Potebnja: un greco stava piangendo mentre ascoltava una canzone della sua terra e, quando alcuni russi incuriositi gli chiesero di tradurla, rispose che parlava di un albero con i rami ricoperti di foglie e di un uccello che cantava tra le foglie; aggiunse: «Tradotta non dice nulla, ma quando la sento in greco mi fa piangere».

La nostra discussione a proposito di lingua e cultura resterebbe incompleta senza qualche considerazione conclusiva sulla cultura della lingua. Con il generale sviluppo, la crescita e la differenziazione della cultura, un’attenzione costante e attiva verso la cultura della lingua nei suoi diversi aspetti diventa un compito sempre più intricato, carico di responsabilità e urgente, per il quale i linguisti devono collaborare deliberatamente e sistematicamente con scrittori e altri validi portatori di attività culturali. In particolare, i molteplici problemi dell’insegnamento e apprendimento della lingua nei suoi diversi livelli richiedono un vasto e influente intervento della scienza linguistica. Anche diverse questioni di standardizzazione diventano più significative, e noi linguisti siamo stimolati dai colleghi di campi scientifici diversi, per esempio la fisica, che comprendono il grande ruolo strumentale della lingua nelle operazioni scientifiche, e che prevedono e accolgono volentieri il contributo decisivo che la scienza del linguaggio porta a un’indagine globale di controllo sul linguaggio della scienza. A questo proposito, infatti, è appropriato ricordare ancora una volta l’insistenza di Niels Bohr sulla complementarità tra linguaggio delle scienze formalizzato o semi-formalizzato, in particolare la fisica, e la lingua abituale, naturale, che è il fondamento ultimo, la radice di tali sovrastrutture artificiali. Questa interrelazione necessita di un lavoro interdisciplinare duraturo. Chi è primariamente coinvolto nella scienza del linguaggio, in altre parole i linguisti, deve portarla avanti in collaborazione con quei rappresentanti di scienze diverse che prestano particolare attenzione alla composizione delle lingue formalizzate usate da tali discipline.

Tornando alla questione sollevata nel primo intervento di oggi, il bisogno e il compito di una lingua ausiliaria internazionale, bisogna dire che la questione, o piuttosto il groviglio di questioni che sono state deliberatamente trascurate dalla maggior parte dei linguisti e delle istituzioni linguistiche della fine del diciannovesimo secolo, sono oggi


 

Linguists see now, with an ever greater clarity, that the study of a language cannot stop at its limits, and that we are faced with the vital phenomenon of languages in contact. The further experience of linguistic science reveals that interlingual ties are not confined to a territorial contact, since, furthermore, there exists a cultural contact between languages, independent of geographical contiguity. Such contact becomes an ever stronger international and universalistic bent and force, both in cultural and in linguistic aspects.

 

 

 

First presented as a public lecture in Tokyo on July 27, 1967 and published in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, no. 3 (May 1972).


sempre più discusse. Ora i linguisti capiscono, con sempre maggior chiarezza, che lo studio di una lingua non può fermarsi davanti ai suoi limiti, e che ci troviamo di fronte al fenomeno vitale delle lingue a contatto. L’ulteriore esperienza della scienza linguistica rivela che i legami interlinguistici non si limitano al contatto territoriale, dato che, a maggior ragione, esiste un contatto culturale tra le lingue, indipendente dalla contiguità geografica. Tale contatto diventa una spinta e una forza internazionale e universalistica ancora più forte, tanto per gli aspetti linguistici quanto per quelli culturali.

 

 

 

Presentato per la prima volta in occasione di una conferenza tenuta a Tokyo il 27 luglio del 1967 e pubblicato in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, n° 3 (maggio 1972).


Riferimenti bibliografici

BERGSLAND K. 1949 Finsk-ugrisk og almen språkvitenskap, in Bergsland K. Norsk Tidsskrift for Sprogvidenskap, XV.

BOAS F. 1938 Language, in Boas F. (ed.) General Anthropology, Boston.

BOHR N. 1948 On the Notions of Causality and Complementarity, in Bohr N. Dialectica, I.

CAMPBELL B. G. 1967. Human Evolution – An Introduction to Man’s Adaptations, Chicago, Aldine Publishing Company. Traduzione: Storia evolutiva dell’uomo, Milano, ISEDI, 1974.

DEWEY J. 1946 Peirce’s Theory of Linguistic Signs, Thought, and Meaning, in Dewey J. The Journal of Philosophy, XLIII.

JAKOBSON R. 1959 Boas’s View of Grammatical Meaning, in Jakobson R., Selected Writings, II, The Hague, Mouton.

KLUCKHOHN C., KROEBER, A. L. 1952 Culture: A Critical Review of Concepts and Definitions, in Kluckhohn C. e Kroeber A. Papers of the Peabody Museum of Harvard Archeology and Ethnology, Cambridge (Massachusetts), Museum Press.

MASTERSON J. R., WENDELL BROOKS P. 1948 Federal Prose, Chapel Hill, University of North Carolina Press.

RUSSELL B. 1950 Logical Positivism, in Russell B. Revue Internationale de Philosophie, IV, R. V. Marsh.

THORPE W. H. 1961 Bird Song, Cambridge University Press, Cambridge.

THORPE W. H. 1963 Learning and Instinct in Animals, London, Methuen.

VAILLANT A. 1948 La Préface de l’Évangeliaire vieux-slave, in Vaillant A. Revue des Études Slaves, XXIV.

WHORF B. L. 1956 Language, Thought, and Reality, Cambridge (Massachusetss), The M.I.T. Press, 1956. Traduzione: Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Analisi traduttologica


 

2.1. Roman Jakobson:

un americano con l’indole dell’emigrato russo

Qualche anno fa un uomo piuttosto anziano e trasandato entrò in un negozio di scarpe, a Ostia. Lo accompagnava una signora con la quale conversava fittamente in francese. Quasi senza interrompere il filo del discorso, scelse un paio di scarpe, le infilò e, lasciate quelle vecchie al centro del negozio, se ne andò. L’uomo era Roman Jakobson, ma se qualcuno si fosse preso la briga di informare il proprietario del negozio o i clienti presenti circa l’identità di quell’eccentrico personaggio, avrebbe avuto in risposta, quasi sicuramente, uno sguardo interrogativo […] (Mauri 1986).

Poco importa se le cose siano andate davvero nel modo in cui sono raccontate in questo aneddoto apparso su Repubblica il 25 novembre del 1986. Certo è che Jakobson, notissimo agli uomini di cultura del mondo intero, non è mai stato, a rigor di termini, popolare. Per questo motivo, prima di procedere all’analisi traduttologica dei due saggi cui il presente elaborato intende dedicarsi, ritengo opportuno fornire una breve nota biografica per inquadrare meglio una figura tanto eccentrica quanto schiva.

Nato nel 1896 in una famiglia benestante di Mosca, a soli diciannove anni, ancora studente presso la facoltà di storia e filologia della sua città natale, fondò insieme ad altri sei colleghi il Circolo linguistico di Mosca, la cui missione, «the study of linguistics, poetics, metrics and folklore» (Jakobson 1965: 530), gettò le basi della riflessione contemporanea non solo sulla poesia, ma, più in generale, sulla parola, sulla lingua. Nel corso degli anni Venti il progetto subì una battuta d’arresto; il nuovo assetto politico sovietico fu all’origine della diaspora del gruppo. Jakobson si trasferì a Praga, e nel 1933 gli fu assegnata una cattedra all’Università di Brno, che mantenne fino al 1939. Nel 1926 rivestì un ruolo di primo piano nella fondazione del Circolo linguistico di Praga, istituzione che influenzò enormemente lo strutturalismo europeo e la linguistica angloamericana del secondo dopoguerra. Nel 1939 l’occupazione nazista della Cecoslovacchia costrinse Jakobson alla fuga: dapprima in Danimarca, poi in Norvegia, e infine, nel 1940, in Svezia. Nel 1941 arrivò a New York, e nel corso degli anni Quaranta insegnò presso la Columbia University e l’École Libre des Hautes Études, dove ebbe modo di conoscere il padre fondatore dello strutturalismo antropologico, Claude Lévi-Strauss. Nel 1949 gli fu assegnata una cattedra alla Harvard e nel 1957 approdò all’M.I.T. Gli anni trascorsi negli Stati Uniti, dal 1941 fino alla morte avvenuta a Boston nel 1982, furono senza dubbio i più fecondi per la sua produzione. Ma l’autore non abdicò mai alle sue origini russe, e chi lo ha frequentato in America racconta che «la sua casa, la sua tavola, persino il suo funerale, celebrato secondo il rito ortodosso, erano tutt’ altro che americani» (Mauri 1986). Jakobson conservò sempre l’indole dell’emigrato, e la formazione multietnica cui fu esposto per tutta la vita riecheggia nell’intera sua opera.

Negli anni, entrando in contatto con le personalità più influenti del mondo scientifico e letterario dell’epoca, i suoi interessi si moltiplicarono: studiò i disturbi del linguaggio, grazie alla frequentazione di neurologi e psichiatri, si dedicò al linguaggio infantile e contribuì alla fondazione di una serie di discipline destinate a svilupparsi nel corso dei decenni successivi. Mauri, nell’articolo menzionato, ne riassume l’intensissima attività con queste parole: «[…] l’ uomo che era partito dalla fondazione di una scienza della poesia, dedicandosi a profondi studi anche sulla metrica cinese, oltre che sul verso russo e cèco, era arrivato infine a cercare i tratti unitari, le concatenazioni, nella apparente diversità del mondo» (Mauri 1986); una lettura a mio parere condivisibile, della quale i due saggi in esame sono una prova eloquente.


2.2. Tra innovazione e tradizione

A otto anni di distanza l’uno dall’altro, Roman Jakobson scrive due saggi destinati a dare inizio a un nuovo corso per gli studi sulla traduzione e a sgomberare il campo dai luoghi comuni che per anni li hanno assediati. On Linguistics Aspects of Translation (1959) e Language and Culture (1967) contengono, prima ancora che considerazioni sulla traduzione come attività, spunti sulla traduzione come concetto, sull’importanza che riveste nelle riflessioni in campo semiotico.

Alcuni anni prima, Benjamin Lee Whorf aveva avanzato la tesi secondo cui la nostra lingua madre restringerebbe l’ambito di ciò che siamo capaci di pensare, e che quindi «nessun individuo è libero di descrivere la natura con imparzialità assoluta ma è limitato a certe modalità interpretative anche mentre si crede assai libero» (Osimo 2002: 122). Le considerazioni di Whorf sul modellamento reciproco tra lingua e realtà stanno alla base dell’atteggiamento di Jakobson, che però affronta la questione dall’altra estremità: anziché soffermarsi su ciò che le lingue impediscono di pensare, l’attenzione è tutta rivolta a ciò che invece impongono di dire. Accantonata l’idea della presunta intraducibilità di alcuni fatti in parole, nel saggio del ’59 Jakobson giunge a una conclusione tanto semplice quanto geniale: «le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere» (p. 13). In altre parole, dal momento che non ci sono prove del fatto che esistano lingue che impediscono di pensare a qualcosa, era necessario guardare in un’altra direzione per scoprire in che modo la lingua madre modelli la nostra esperienza del mondo: se lingue diverse influenzano la mente in modi diversi, ciò non dipende da quello che la lingua ci permette di pensare, ma piuttosto da ciò che ci costringe a dire.

Da queste considerazioni prende le mosse il secondo saggio, Language and Culture, in cui la riflessione sulla relazione tra lingua e cultura si fa più profonda e articolata. Con sapiente retorica l’autore rivendica la stretta interconnessione tra lingua e cultura, fino ad affermare che la lingua è il fondamento della cultura umana.

Il riferimento implicito o esplicito a Peirce, «the great American thinker» (p. 22), è costante. In particolare, il richiamo al concetto di semiosi, da cui discende la volontà di inserire la traduzione nel campo d’indagine della «semiotica», permette di allargare lo studio della traduzione a fenomeni che fino a quel momento erano considerati del tutto estranei a questo ambito.

One of the most felicitous, brilliant ideas which general linguistics and semiotics gained from the American thinker is his definition of meaning as “the translation of a sign into another system of signs” (4.127). How many fruitless discussions about mentalism and anti-mentalism would be avoided if one approached the notion of meaning in terms of translation […] The problem of translation is indeed fundamental in Peirce’s views and can and must be utilized systematically (Jakobson 1977: 251).

Anche per Jakobson, in definitiva, «il nocciolo di qualunque processo di significazione […] è un insieme di processi traduttivi» (Osimo 2002: 181).


2.3. Peculiarità del saggio

2.3.1. Un crogiolo di culture

È raro che la traduzione dei saggi venga isolata come categoria a sé stante tra le diverse tipologie di testi tradotti. Eppure, meriterebbe un discorso a parte. Un saggio è «un testo non narrativo su un argomento di carattere prevalentemente filosofico, ma non necessariamente di filosofia pura: può occuparsi di letteratura, scienza, attualità, costume, politica» (Osimo 2004: 126). E, lungi dall’escludersi reciprocamente, queste (e altre) categorie spesso coesistono all’interno del medesimo saggio, complicando ulteriormente la situazione. La traduzione saggistica rientra nel campo della non-fiction, alla stregua dei testi scientifici, ma ha anche una forte componente estetica e intertestuale, propria dei testi letterari. Da un punto di vista formale, infatti, nel saggio prevale l’aspirazione estetica sul nozionismo puro, cosa che lo rende di più ampio respiro e più elegante rispetto a un articolo scientifico. Il suo elevato grado di connotatività e intertestualità, accanto alla precisione terminologica e al rigore delle argomentazioni, rende evidente come la distinzione tradizionale fra «traduzione letteraria» e «traduzione tecnica» non esaurisca la gamma delle traduzioni possibili. Nella traduzione saggistica, insomma, alle difficoltà terminologiche della traduzione settoriale si sommano le difficoltà stilistiche della traduzione letteraria. La presenza di riferimenti dati per scontati dall’autore, rimandi intertestuali impliciti ed espliciti e riflessioni di carattere filosofico hanno ricadute molto importanti sul piano della traduzione. Una sapiente abilità retorica consente a Jakobson di avvalorare le tesi scientifiche sostenute all’interno del saggio mettendole contemporaneamente in pratica: nel rivendicare l’integrazione tra scienze diverse e l’importanza delle relazioni interdisciplinari come base per costruire «a joint scientific domain, a science of mankind, and – in a far wider scope – a general science of life» (p.20), Jakobson abbraccia svariate discipline, anche molto distanti dall’ambito della linguistica, e dimostra di conoscerle a fondo.

Si spazia dall’antropologia di Kluckhohn, Kroeber e Boas alla biologia di Campbell, dalla neurofisiologia di Békésy alla fisica di Einstein, dalla zoologia di Thorpe alla filosofia di Russell. Anche la storia dell’arte e della letteratura sono chiamate in causa per stabilire che cosa si debba intendere per «progresso»: Dante e i capolavori della pittura italiana del Trecento e del Quattrocento sono paragonati ai risultati ben più deludenti dell’arte e della poesia dell’Ottocento. Jakobson risale fino al Paleolitico per citare le pitture rupestri franco-cantabriche, ancora una volta messe a confronto con la modernità delle «so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers». Non mancano i riferimenti anche ad altre letterature europee: per la tradizione tedesca compaiono i fratelli Grimm e le poesie di Heinrich Heine, mentre per la Cecoslovacchia il poeta Josef Hora. Dal mondo della religione provengono invece i cenni all’Evangeliario, a Costantino il Filosofo e a Dionigi l’Areopagita. Ovviamente, non potevano non esserci richiami alla linguistica: il linguista americano Benjamin Lee Whorf, il ginevrino Karcevskij, il tedesco Von Humboldt, il danese Bohr, l’ucraino Potebnja e l’immancabile Peirce.

Ma è il mondo russo a fare da sostrato culturale e linguistico a entrambi i saggi in esame. Benché Jakobson li abbia scritti in inglese, l’autore spesso sente la necessità di ricorrere alla sua lingua madre tanto nel lessico quanto nella scelta della cultura da cui estrarre i numerosi esempi proposti: la regione di Tula, il pittore Repin, il libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita, il poeta Lermontov. Anche le leggende, i racconti popolari, i vissuti dell’autore che costellano queste poche pagine attingono, per la maggior parte, alla tradizione russa. La dimensione esotica, già forte nel prototesto, risulta di impatto ancora maggiore per il lettore del metatesto, che oltre a dover fare i conti con i numerosi elementi culturospecifici di cui si è detto, deve confrontarsi con il riferimento costante al modello grammaticale inglese come termine di paragone nei confronti delle altre lingue chiamate in causa. Decidere quale trattamento riservare a questi esotismi (à 2.3.3.1) è stato un elemento fondante della strategia traduttiva. Non è sembrato opportuno operare una scelta di localizzazione perché il tipo di testo non lo avrebbe consentito: si tratta di saggi sulla traduzione, in cui l’autore riflette sul modo in cui categorie grammaticali diverse influiscono sul modo in cui le varie culture segmentano la realtà. Il confronto sistematico con il modello grammaticale inglese avrebbe perso di efficacia se gli esempi tratti da quella lingua fossero stati tradotti indiscriminatamente. Anzi, una simile strategia avrebbe fatto correre il rischio di commettere errori macroscopici. In Language and Culture, per esempio, un intero paragrafo è dedicato alla dimostrazione che «Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey» (p.12) e a tal proposito l’inglese e il giapponese vengono confrontati con il francese, il tedesco e il russo:

If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It’s none of your business”. But if we speak French or German or Russian, I’m obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka.

Nel caso della frase «I spent last evening with a neighbor», la traduzione verso l’italiano di «neighbor» implica necessariamente la scelta tra «vicino» o «vicina» anche laddove il contesto non fornisca elementi sufficienti per valutarlo, e questa “disambiguazione coatta” non darebbe adito a nessun equivoco sul sesso del vicino di casa. In questo senso le lingue differiscono in quello che devono esprimere, perché una traduzione della stessa frase che andasse nella direzione opposta, e cioè dall’italiano all’inglese, imporrebbe un solo traducente e ripristinerebbe l’ambiguità di fondo che solo il contesto potrebbe (forse) chiarire. Si tratta, in realtà, di un’ambiguità solo apparente, perché

Il fatto che nelle diverse culture si abbiano obblighi diversi di esprimere concetti significa che tutto ciò che non è obbligatoriamente espresso è dato per scontato, è implicito nella cultura, oppure è considerato di secondaria importanza (Osimo 2004: 33).

Peter Torop tra i parametri di traducibilità di una cultura inserisce anche il «parametro della lingua» (Torop 1995: 71) in cui rientrano le categorie grammaticali. In un esempio come quello citato sarebbe impensabile tradurre la frase esemplificativa in italiano, perché verrebbe meno la veridicità delle informazioni veicolate dal messaggio, data la diversità tra il modello grammaticale italiano e quello inglese. Per evitare simili inconvenienti e mantenere una coerenza di fondo nelle scelte traduttive si è deciso di non tradurre questi esempi e affidarne una spiegazione esaustiva al presente apparato metatestuale, con la consapevolezza che tale scelta postula un lettore modello non solo disposto ad aprirsi all’altro, ma anche «capace e attrezzato per affrontare la realtà del mondo altro» (Osimo 2004: 56).

 

2.3.2. Il lettore modello

[…] un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui […] (Eco 1979: 54).

Dalle parole di Eco si evince che l’autore (come il traduttore) deve prevedere un «modello del lettore possibile», condizione necessaria all’attualizzazione del testo e alla sua traduzione (Eco 1979: 7). È opportuno interrogarsi sulla sua identità, immaginarne gli interessi e le motivazioni che lo hanno spinto a prendere in mano due saggi di Jakobson. A un primo esame, risulta difficile ipotizzare un lettore che possa fruire di questi testi integralmente e in tutte le loro componenti. Le «condizioni di felicità», per dirla ancora con Eco, da soddisfare perché il testo sia pienamente attualizzato vorrebbero, a prima vista, un lettore-tuttologo. Basti pensare all’immenso patrimonio linguistico che si annida fra le pagine; per quantificare, sono citate sedici lingue, con relativi esempi: l’inglese, l’inglese americano, il russo, lo slavo antico, il norvegese, il giapponese, il bantu, il tedesco, il ceco, il francese, l’italiano, il latino, il greco, il koryak, le lingue samoiede e quelle slave. Considerato l’altissimo tasso di intertestualità dei testi in esame, una robusta competenza enciclopedica è indispensabile se non altro «per rendersi conto di sapere di non sapere […] e reagire indagando, e non assumendo di essere già in grado di affrontare lo scoglio» (Osimo 2007: 21). È opportuno supporre di eleggere a lettore modello una persona di cultura medio-alta, altrimenti rischierebbe di non cogliere i molti rimandi intertestuali di cui si è detto, presumibilmente di età adulta e con una conoscenza almeno rudimentale dell’inglese. Il notevole sforzo divulgativo compiuto dall’autore, che accanto all’enunciazione di concetti scientifici molto seri non disdegna l’aneddoto, la battuta e il tono colloquiale, va incontro al lettore interessato all’argomento ma con poche conoscenze di base. Le frequenti riformulazioni, le domande retoriche volte a tenere viva l’attenzione e a rendere più chiari i rapporti di causa-effetto delle argomentazioni, le fonti scrupolosamente indicate e la precisione terminologica concorrono all’innegabile fruibilità di un testo all’apparenza così ricco di insidie.

 

 

2.3.3. Perdite e compensazioni

Prendo in prestito il titolo di questo paragrafo da un capitolo del libro di Umberto Eco Dire quasi la stessa cosa (Eco: 2003) in cui l’autore demonizza le note a piè di pagina riducendole a ultima ratio a disposizione del traduttore, del quale sancirebbero la sconfitta. Di diverso parere è Torop, che anzi identifica una relazione di complementarità tra metatesto e paratesto:

[…] la parte fondamentale del protesto viene tradotta nel metatesto, ma alcune parti o aspetti possono essere “tradotti” nel commentario, nel glossario, nella prefazione, nelle illustrazioni (figure, mappe) e così via. In una simile complementarità non si può a mio parere ravvisare un’incompletezza nel metatesto: semplicemente, per il lettore del prototesto e per il lettore del metatesto il confine tra testuale ed extratestuale non coincide (Torop 1995: 64).

Non è un caso che la scuola semiotica di Tartu chiami «metatesto» tanto il testo tradotto quanto l’insieme delle informazioni paratestuali sul testo principale: entrambi i metatesti sono frutto di un processo traduttivo, interlinguistico in un caso, metatestuale («che genera metatesti»), dall’altro (Osimo 2004: 30). Il testo scritto, qualsiasi testo scritto, si sa, è solo la punta di un iceberg. Tutto il resto, la parte più cospicua, è non-detto. Esiste uno «spazio intertestuale» all’interno del quale ogni testo nasce, e da cui un autore è necessariamente influenzato, che ne sia consapevole o meno. Per questo motivo ogni testo è sempre un intertesto, e «ogni testo che viene generato porta in sé le tracce della memoria culturale collettiva, oltre a quella dell’autore» (Osimo 2004: 42). Tale rapporto tra detto e non-detto diviene in parte razionale nel caso di un testo tradotto, e una simile razionalizzazione comporta che la sua struttura venga denudata, esposta, messa in mostra (Torop 1995: 63). Da qui l’utilità di un ricco apparato metatestuale in cui convogliare tutte quelle informazioni che potrebbero interessare al lettore più desideroso di confrontarsi con l’altro, senza né venire meno alla cura filologica per l’originale, né imporre una lettura più lunga del necessario a chi non ne mostrasse interesse.

 

2.3.3.1. Apparati metatestuali

I due saggi in esame non esulano da queste considerazioni. L’elaborazione della strategia traduttiva deve prevedere anche a quale sede destinare la compensazione del residuo. Anzi, la decisione di come gestire il residuo è stata determinante per concepire la strategia traduttiva stessa: qualora non avessi avuto a disposizione lo spazio per redigere una postfazione accurata avrei certamente fatto ricorso alle note del traduttore per rendere conto degli impliciti culturali (che inglobano, secondo un approccio semiotico, anche le differenze linguistiche) e risolvere le questioni legate alla diversa categorizzazione grammaticale delle lingue e alle conseguenti differenze nella visione della realtà. Un caso di residuo incolmabile nel corpo del testo, ma di cui è semplice fornire una spiegazione in una sede diversa, è stata la traduzione di «cold beef-and-pork hot dog» (p. 8). È evidente che il gioco di parole tra «hot dog» e «cold beef-and-pork» può funzionare solo mantenendo l’esempio in inglese, e che, per giunta, una traduzione parola per parola sortirebbe un effetto di ridicolo nonsense («cane caldo freddo di manzo e maiale»). La presente postfazione, dunque, rientra a pieno titolo tra gli «artifici compensatori ed esplicitanti testuali» (Osimo 2004: 75) in quanto cerca di comunicare al lettore ciò che verosimilmente nella lettura andrebbe altrimenti perso, rendendo esplicito ciò che nel testo è implicito. In questo modo si ovvia alla spontanea «tendenza ipertrofica alla mediazione» (Osimo 2004: 75) propria di molti traduttori adottando una strategia consapevole con un apparato metatestuale ad hoc.

Ho invece preferito inserire direttamente all’interno del testo, isolate tra le consuete parentesi quadre, le traduzioni in italiano di singole parole che sono state mantenute in inglese anche nel metatesto per coerenza con altre scelte traduttive. Trattandosi di traduzioni funzionali esclusivamente alla comprensione lessicale, che non portano con sé un residuo di cui valga la pena rendere conto in una sede separata, ho ritenuto che fosse utile per il lettore trovarne la traduzione a portata di mano. Procedendo in questo modo la lettura non viene interrotta troppo di frequente, e anche il lettore che non avesse bisogno di consultarle non ne sarebbe disturbato vista la loro estrema sinteticità.

Le note inserite da Jakobson all’interno dei due saggi sono invece di carattere esclusivamente bibliografico. Per una loro catalogazione ho preferito adottare il sistema del richiamo per autore e anno di pubblicazione, collocati all’interno del testo in modo che non interrompano ma integrino adeguatamente la lettura, mentre l’elenco dei riferimenti bibliografici è stato inserito in coda ai saggi. In quest’ultimo, per una pronta identificazione, la data segue immediatamente il nome dell’autore, conformemente alle norme UNI 10168 e UNI ISO 7144.


2.4. Analisi linguistica ed extralinguistica

Dalle considerazioni fatte fin qui (à 2.3) emerge, in sostanza, che per realizzare una comunicazione totale, e cioè «essere in grado di individuare, sia durante il processo di decodifica, sia durante il processo traduttivo, l’informazione invariante» (Lûdskanov 1967: 54) chi traduce deve essere in possesso di quella che Lûdskanov chiama «informazione traduttiva necessaria». Se ci si chiede, con Lûdskanov, in che modo e da che fonte il traduttore possa accumularla, la risposta va cercata nell’analisi linguistica ed extralinguistica del testo in questione. Può accadere, infatti, che

[…] l’informazione ricavata attraverso l’analisi linguistica non [sia] sufficiente, in quanto la scelta del traduttore deve essere condizionata anche dalla conoscenza dell’epoca, dai tratti peculiari dell’opera, dalla visione stilistica e dal punto di vista estetico dell’autore, dalla sua visione del mondo. In tutti questi casi si dice che il traduttore fa riferimento alla realtà (Lûdskanov 1967: 53).

All’analisi, che permette di estrapolare le informazioni veicolate dal prototesto, segue la fase di decodifica, e cioè la scelta dei traducenti da attualizzare. È in questa fase che entra in gioco la necessità di avere a disposizione una quantità di informazioni maggiore di quella ricavabile dal co-testo, dalla porzione di testo in questione. E a chi sostiene che questa fase interessi esclusivamente i testi di natura letteraria, l’autore ribatte che tali dinamiche coinvolgono, invece, qualsiasi linguaggio anisomorfo, in quanto la necessità di fare riferimento alla realtà è intrinseca alla natura stessa dei linguaggi naturali. Laddove, infatti, si riconosce il carattere creativo del processo traduttivo, che si manifesta «nella necessità di compiere scelte non predeterminate tra i significati degli elementi linguistici del prototesto per attualizzarne uno» (Lûdskanov 1967: 55) non si può non condividere che la necessità di far riferimento alla realtà «sussiste nella traduzione di tutti i generi testuali attualizzati nella forma dei linguaggi naturali» (Lûdskanov 1967: 63).

Anche chi traduce il saggio, e forse a maggior ragione vista la natura ibrida di questo genere testuale, deve costantemente fare i conti con le dinamiche descritte. A livello di analisi lessicale, nei due saggi in esame sono stati individuati termini, parole ed espressioni sulla cui traduzione vale la pena di soffermarsi.

 

 

2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali

In questo paragrafo vengono presi in esame i problemi di traducibilità derivanti dalle «scarse possibilità di coincidenza tra campi semantici di parole diverse, sia della stessa lingua (i cosiddetti “sinonimi”) sia di lingue diverse (i cosiddetti “equivalenti”)» (Osimo 2004: 70). La scelta lessicale è uno dei punti nevralgici attorno ai quali si costruisce la coerenza di un testo, e il traduttore dev’essere sempre all’erta di fronte all’eventualità che l’autore abbia fatto ricorso ad allusioni velate realizzate proprio grazie all’ampiezza del campo semantico delle parole impiegate. Certo, non è sempre possibile conservare i riferimenti «narcotizzati» (Osimo 2001: 57), e talvolta diventa inevitabile sopprimerli: si tratta di scelte che devono essere di volta in volta dettate dalla strategia traduttiva e dal buon senso del traduttore. L’essenziale è però avere fiuto e accorgersi della loro presenza affrontando tutte le valutazioni del caso consapevoli dei limiti connaturati alla traduzione, che del resto ne fanno la miseria e lo splendore, come ebbe a dire José Ortega y Gasset.

Ecco qualche esempio che illustra alcune di queste dinamiche; i primi tre sono stati estratti dal saggio On Linguistic Aspects of Translation, mentre gli ultimi due da Language and Culture.

 

2.4.1.1. Celibate

Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate” (p. 4).

Riporto questa citazione perché vorrei soffermarmi sulla traduzione di «celibate». A una prima stesura l’istinto mi ha portato a tradurre «celibate» con «celibe», ma cercando la definizione di «celibate» sul dizionario monolingue per confrontarla con quella di «bachelor» e chiarire il senso della frase in esame, ho constatato che «celibate» e «celibe» hanno un significato molto diverso.

 

celibate (Merriam-Webster 2000)

celibe (Devoto, Oli 2000)

A person who lives in celibacy. Non ammogliato, scapolo.

 

Occorre a questo punto verificare la definizione di «celibacy»:

 

celibacy (Merriam-Webster 2000)

  1. the state of not being married.
  2. a: abstention from sexual intercourse; b: abstention by vow from marriage.

 

Dalle definizioni riportate si evince che il campo semantico di «celibate» coincide solo in parte con quello di «celibe», ma questo fatto del tutto normale deriva, si sa, dall’anisomorfismo delle lingue naturali. Tuttavia nel caso in esame il rischio di una traduzione solo parziale, quale potrebbe essere «celibe», non sarebbe foriera solo di un residuo traduttivo, ma precluderebbe la comprensione dell’intero messaggio veicolato dal prototesto. L’accezione che interessa a Jakobson nel suo esempio è evidentemente la seconda, quella non contemplata dal traducente «celibe», relativa a chi rinuncia a contrarre matrimonio (per motivi religiosi o di altra natura) e si astiene da ogni attività sessuale. Solo in questa accezione infatti la parola «celibate» si emancipa dalla sinonimia con «bachelor» nel contesto e fa acquisire senso all’esempio contenuto nel saggio. Ma qui il problema della scelta del traducente è ancor più rilevante se si pensa che la frase vuole essere un esempio lampante proprio del fatto che la sinonimia assoluta non esiste, e che anche all’interno della stessa lingua i presunti sinonimi non stanno in una relazione transitiva, come dimostra il fatto che «every celibate is a bachelor» ma «not every bachelor is a celibate». Di fronte a un caso simile, in assenza di un apparato metatestuale in cui convogliare il residuo in questione, ritengo che la decisione più opportuna da prendere sarebbe quella di mantenere l’esempio in inglese all’interno del testo e procedere a una sintetica spiegazione in nota del significato della frase. In questo modo non si precluderebbe l’indubbia efficacia dell’esempio in inglese a chi dispone dei mezzi linguistici adatti a comprenderlo, senza tentare di fornire una traduzione “comoda” ma fuorviante a chi ne è invece privo.

 

2.4.1.2. Cottage cheese

The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr because cottage cheese is a cheese but not a syr (p. 4):

In questo caso la difficoltà concerne la traduzione di «cottage cheese». Eccone, innanzitutto, la definizione che è stata ricavata dal dizionario monolingue Merriam-Webster:

 

cottage cheese (Merriam-Webster 2000)

a bland soft white cheese made from the curds of skim milk —called also Dutch cheese, pot cheese, smearcase.

 

Il corrispettivo italiano di tale prodotto inizialmente pareva essere la ricotta, salvo poi scoprire che il dizionario inglese distingue il cottage cheese dalla nostra ricotta, che è definita nel modo seguente:

 

ricotta (Merriam-Webster 2000)

a white unripened whey cheese of Italy that resembles cottage cheese; also: a similar cheese made in the United States from whole or skim milk.

 

La ricotta differisce dal cottage cheese innanzitutto perché si ricava dal siero avanzato dalla preparazione di altri formaggi, motivo per cui, a rigor di termini, non si tratta di un vero e proprio formaggio ma di un semplice latticino. Ai fini della traduzione nel contesto dato quest’ultima informazione è molto importante perché, se si decidesse di tradurre «cottage cheese» come «ricotta», un esperto in materia potrebbe obiettare che l’esempio riportato in traduzione sarebbe un controsenso, in quanto la ricotta non è un «cheese». La definizione data dal vocabolario in un caso così specifico non è sufficiente, ed è necessario ricorrere a testi specialistici che spieghino in modo più accurato le caratteristiche di questi formaggi per poter effettuare una scelta traduttiva sensata. L’atlante dei formaggi fa rientrare il «cottage cheese» nella famiglia dei formaggi freschi a struttura granulare, di cui fanno parte anche i «fiocchi di latte». Ecco le due descrizioni a confronto:

 

cottage cheese (Ottogalli 2001: 213)

fiocchi di latte (Ottogalli 2001: 213)

Si trova con questo nome solo nei paesi anglosassoni dove viene addizionato di panna e spesso di aromi, verdure o frutta. [Questi formaggi] in Italia non si conoscono con la dizione “Cottage”, ma come “Fiocchi di latte”, con una precisazione: vengono stabilizzati con un trattamento termico alla fine della lavorazione.

 

Indubbiamente ora siamo molto più vicini al significato di «cottage cheese» di quanto non lo fossimo prima. Certo qualche differenza c’è ancora, differenze sulle quali ritengo si possa soprassedere, considerato il tipo di testo e la funzione puramente esemplificativa per la quale sono stati chiamati in causa questi formaggi. Tuttavia, se si affronta la medesima questione da un punto di vista diverso, altre considerazioni farebbero propendere per una traduzione più «adeguata», per dirla con Toury. Per rendersene conto basta tornare per un attimo alla citazione originale, che si chiude così: «cottage cheese is a cheese but not a syr». «Syr» è il traducente russo di «cheese» più immediato, eppure un «cheese», che per di più contiene all’interno del suo nome la parola «cheese», (il «cottage cheese») non è un «syr». Altrimenti detto, la preferenza accordata a «cottage cheese» rispetto a qualunque altro traducente italiano deriva dal fatto che la ripetizione della parola «cheese» inserisce a maggior ragione il cottage cheese nella categoria dei «cheese», e quindi all’orecchio di un anglofono la frase russa tradotta in inglese suona assurda, ridondante. Da qui l’efficacia dell’esempio: Il cottage cheese è uno dei tanti cheese, ma lo tvoróg non è uno dei tanti syr, in quanto la parola «syr» rimanda, come ricorda Jakobson, soltanto ai formaggi fermentati.

È utile schematizzare questa situazione che si presta molto bene a fare luce su un problema ricorrente della traduzione:

 

Benché generalmente «cheese» (A) si traduca in russo con «syr», esisteranno sempre delle eccezioni come «cottage cheese» (Aa) che impediranno il formarsi di una relazione biunivoca automatica tra i campi semantici delle due parole.

Tornando al caso in esame, la strategia traduttiva adottata ha voluto privilegiare il principio dell’adeguatezza non censurando dunque del tutto il «cottage cheese» nel metatesto italiano. Mi sono però riservata di affiancargli la traduzione «fiocchi di latte» perché non bisogna dimenticare che Jakobson, citando il nome di alcuni formaggi ben noti al pubblico di madrelingua inglese, voleva fare un esempio che fosse lampante e spiegasse in modo molto concreto le considerazioni teoriche fatte fino a quel momento. Mi è sembrato sensato offrire anche al lettore italiano l’opportunità di fruire di questa dimensione ulteriore del testo affiancandogli una traduzione plausibile di «cottage cheese».

 

2.4.1.3. Intricacies

Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaming the dogma of untranslability (p. 6).

Questo esempio mira a sottolineare l’importanza di riconoscere e mantenere, nel limite del possibile, i rimandi intratestuali contenuti nel saggio. Prendiamo in esame la parola «intricacy» e vediamo che definizione ne dà il dizionario monolingue:

 

 

 

intricacy (Merriam-Webster 2000)

  1. the quality or state of being intricate.
  2. something intricate.

 

 

Cerchiamo a questo punto la definizione di «intricate»:

 

intricate (Merriam-Webster 2000)

  1. having many complexly interrelating parts or elements: complicated.
  2. difficult to resolve or analyze.

 

Il significato appare subito chiaro e comprensibile. Il traducente «difficoltà», adottato in un primo momento, sembra una soluzione sufficientemente rispettosa del senso dell’originale, benché generalizzante in quanto non evoca le «interrelating parts» che la parola inglese racchiude in sé. Muovendosi allora in questa seconda direzione, dalla stessa radice di «intricacies» si risale all’aggettivo «intricato», utile punto di partenza per ragionare su un nome che rimandi allo stesso campo semantico. Motivo ulteriore della necessità di trovare un traducente che vada in questa direzione è il seguito della frase con il riferimento al «Gordian knot», il famoso nodo gordiano, mentre qualche pagina dopo la questione della traduzione è definita «entangled». Siamo quindi in presenza di una metafora estesa in cui le parole «knot», «intricacies» e «entangled», provenienti dallo stesso campo semantico, si richiamano a vicenda. Da qui l’esigenza di una soluzione che mantenga il rimando anche per il lettore del metatesto. Partendo dall’aggettivo «intricato» si risale, per associazione di idee, al sostantivo «groviglio», che è stato adottato nella versione definitiva: «Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono piene di grovigli». Ecco una spiegazione efficace del perché è opportuno che il traduttore faccia tutto il possibile per conservare il maggior numero di elementi del prototesto:

La connotazione, e quindi anche il colorito, fa parte del significato, e di conseguenza è tradotta alla pari con il significato semantico della parola. Se non si è riusciti a farlo, se il traduttore è riuscito a trasmettere solo la “nuda” semantica dell’unità lessicale, per il lettore della traduzione la perdita di colorito si esprime nella incompleta percezione dell’immagine, ossia, in sostanza, nel suo travisamento (Vlahov e Florin 1986: 121 [in Osimo 2004b]).

 

2.4.1.4. Nurture and nature

Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other – briefly to delimit nurture from nature (p. 28).

Come si è detto nel capitolo 2.3, i saggi di Jakobson sono costellati di riferimenti a concetti scientifici la cui conoscenza da parte del lettore è data, il più delle volte, per scontata. L’immensa cultura dell’autore gli consente di muoversi con agilità tra discipline diverse e molto distanti dalla linguistica, a dimostrazione della tesi, ribadita in più occasioni, che coniugare i saperi di ambiti diversi sia il solo modo proficuo di garantirne la sopravvivenza e il reciproco arricchimento.

Molto spesso però si tratta di riferimenti impliciti con i quali Jakobson strizza l’occhio al lettore competente attraverso dei piccolissimi accenni che il lettore meno colto può trascurare senza che questo intacchi in modo sostanziale la sua fruizione del testo. Il traduttore invece deve stare all’erta per individuare il maggior numero possibile di questi riferimenti nascosti, e poi decidere se e quanto andare incontro al lettore nella sua opera di decodifica del testo.

Il caso di «nurture and nature» esemplifica bene la situazione appena descritta. Una breve ricerca enciclopedica consente di comprendere che i concetti di «nurture» e «nature» non solo sono interrelati fra loro, ma costituiscono i due estremi del dibattito sull’importanza dell’eredità e dell’ambiente nello sviluppo dell’uomo. La paternità dell’espressione è da attribuire all’antropologo inglese Francis Galton, che la consacra nel libro English men of Science: their Nature and Nurture, pubblicato nel 1874, in cui si legge:

The phrase “Nature and nurture” is a convenient jingle of words, for it separates under two distinct heads the innumerable elements of which personality is composed. Nature is all that a man brings with himself into the world; nurture is every influence that affects him after his birth (Galton 1874: 12).

Come spesso avviene in ambito scientifico, dove il gusto diffuso per le parole straniere è dovuto, in parte, al fatto che gli studiosi leggono articoli scritti perlopiù in inglese, alcune espressioni si cristallizzano nella lingua in cui sono state coniate e restano tali anche lontano dalla loro terra d’origine. Ed è questo il caso di «nurture» e «nature» le quali, complice l’assonanza che le rende accattivanti anche al lettore italiano che conosca poco o nulla l’inglese, compaiono tali e quali sulle nostre pubblicazioni scientifiche di maggior rilievo. Per queste ragioni si è scelto di mantenere l’espressione in inglese anche nella traduzione italiana.

 

2.4.1.5. Creative writers

With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities (p. 40).

Il problema, qui, è la traduzione di «creative writers». La parola «writer», apparentemente priva di insidie, nasconde invece un significato molto preciso che si sovrappone solo in parte al significato di «scrittore». Procediamo con la ricerca di «writer» sul dizionario monolingue inglese, e confrontiamo i risultati con le accezioni della parola «scrittore»:


writer (Merriam-Webster 2000)

scrittore (Devoto, Oli 2000)

  1. a person who writes.
  2. a person whose work or occupation is writing; now, specif., an author, journalist, or the like.

 

  1. Chi si dedica all’attività letteraria in quanto mosso da un intendimento d’arte.
  2. Scrivano, copista.

 

In italiano, uno scrittore è primariamente chi scrive di professione, e, molto meno comunemente, un sinonimo di scrivano o copista. In inglese invece un «writer» è, nella prima accezione della parola, una persona che scrive, uno scrivente qualsiasi. Nella seconda accezione dell’inglese, che è quella che in parte si sovrappone semanticamente a quella italiana, si evince però che sono «writer» anche i giornalisti e gli scrittori di testi tecnici. Da qui nasce, per Jakobson, la necessità di accostare al nome comune e generico «writer» l’aggettivo «creative» per distinguerlo da un «writer» di testi di carattere settoriale, tecnico. In altre parole, tradurre «creative writer» con «scrittore creativo» risulterebbe fuorviante per il lettore italiano, che sarebbe portato a pensare che Jakobson non stia parlando di tutta la categoria degli scrittori, ma solo di quelli particolarmente creativi, escludendo tutti gli altri. Mantenendo invece il solo traducente «scrittore», molto probabilmente si trasmette al lettore italiano la stessa rete di significati che Jakobson attribuisce a «creative writer».

Del resto, è lo stesso Jakobson ad aver teorizzato, nel saggio On Linguistic Aspects of Translation un principio fondamentale per la traduzione:

Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. […] All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology can be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions (p. 6).

Anche se, a causa della convenzionalità dei segni linguistici e delle differenze nello sviluppo storico dei rispettivi popoli, «i diversi linguaggi naturali suddividono in maniera distinta la realtà unica e comune per tutti» (Lûdskanov 1967: 29), motivo per cui la ricerca di presunti “equivalenti” traduttivi è destinata a essere vana e infruttuosa, Jakobson dichiara che la traduzione è sempre possibile, anzi, è addirittura necessaria: si tratta solo di cercare l’«equivalenza nella differenza» operando non su singole unità di codice, ma sull’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Questo perché

In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern, because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations – the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms (p. 12).

 


 

2.5. Metatesti a confronto:

perché proporre una traduzione diversa del saggio

on linguistic aspects of translation

 

Nel 1966 Feltrinelli pubblica la traduzione di Luigi Heilmann e Letizia Grassi degli Essais de linguistique générale, che comprendono, tra gli altri, anche il saggio On Linguistic Aspects of Translation. Quest’ultimo, scritto nel 1959, risalta per la sua importanza nell’ambito delle riflessioni sui problemi della traduzione, concentrando in poche pagine ciò che ancora oggi rappresenta una pietra miliare per chi si dedica a questa disciplina. Il limite della traduzione esistente risiede proprio nella scelta della strategia traduttiva che privilegia, per dirla con Toury, il criterio dell’accettabilità su quello dell’adeguatezza. Questo vale soprattutto per due aspetti, la standardizzazione dei realia e la localizzazione degli esotismi, che emergono principalmente nelle traduzioni sistematiche e fortemente addomesticanti delle citazioni. In un caso come nell’altro, il criterio adottato sembra essere poco efficace, tanto più a causa dello status del tutto particolare di questo tipo di testo, cui si è già accennato: una traduzione sulla traduzione. Il generale addomesticamento culturale porta il lettore a perdere la consapevolezza di essere in presenza di un testo tradotto che, di conseguenza, deve essere recepito come altrui. La traduzione di Heilmann, indubbiamente più scorrevole di quella qui proposta, risulta però priva di stimoli e in parte inefficace nella sua funzione didascalica. Per contro, la scelta di mantenere le citazioni in lingua originale è sembrata la sola praticabile per ovviare all’alternativa fuorviante di ritrovarsi a dover tradurre riflessioni sulla traduzione, riflessioni che prendono come esempi parole scelte appositamente da una certa lingua e non da un’altra. La sostituzione sistematica di tutti gli elementi esotici con elementi che appartengono alla metacultura crea, come si evince dagli esempi riportati di seguito, un forte senso di spaesamento nel lettore interessato e consapevole della cultura da cui proviene il testo.

Ecco una schematica analisi comparata del prototesto con i due metatesti in questione, limitatamente agli ambiti fin qui presi in esame, per osservarne i cambiamenti traduttivi.

PROTOTESTO

METATESTO (1)[1]

METATESTO (2)[2]

I

[…] no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. […] nessuno può capire la parola formaggio se non conosce il significato attribuito a questa parola nel codice lessicale dell’italiano. […]  nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese.

II

Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” […]. Qualsiasi membro di una collettività culinaria che ignora il formaggio capirà la parola italiana formaggio se sa che in questa lingua tale parola significa “alimento ottenuto con la fermentazione del latte cagliato” […]. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» […].

III

There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. Non esiste significato senza segno, né si può dedurre il senso della parola formaggio da una conoscenza non linguistica della mozzarella o del provolone senza l’aiuto del codice linguistico. Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale.

IV

[…] cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru i tvorogu “bring cheese and [sic] cottage cheese.” […] il formaggio bianco è bensì un formaggio, ma non un syr. I russi dicono prinesi syru i tvorogu, “porta del formaggio e (sic) del formaggio bianco (giuncata).” […] il «cottage cheese» [«fiocchi di latte»] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte).
V When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers” – “She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Quando si deve tradurre la frase italiana “essa ha dei fratelli,” in una lingua che distingue duale e plurale, siamo obbligati a scegliere fra due proposizioni: “essa ha due fratelli” / “essa ha più di due fratelli”, ovvero a lasciare la decisione all’ascoltatore dicendo: “essa ha due, o più di due, fratelli.” Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli».

VI

Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities – brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother. Allo stesso modo, se traduciamo in italiano da una lingua che ignora il numero grammaticale, siamo costretti a scegliere una delle due possibilità – “fratello” o “fratelli” – o a proporre al ricevente del messaggio una scelta binaria: “essa ha uno, o più di un, fratello.” Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» o «brothers», o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «Lei ha uno o più fratelli».

 

Osserviamo il primo esempio: si tratta di una citazione di Russell, che riflette sul significato della parola «cheese» nel «lexical code of English». Il metatesto (1) propone di tradurre «cheese» con «formaggio», scelta di per sé praticabile se non fosse che, per mantenere la coerenza della citazione, saremmo costretti a modificare anche il seguito della dichiarazione. E per farlo, dovremmo tradurre «English» con «italiano» mettendo in bocca a Russell parole che non ha mai pronunciato, né avrebbe mai potuto pronunciare. La piena esplicitezza della citazione nega, a maggior ragione, ogni diritto di manipolare le parole dell’autore. Lo stesso può dirsi per gli esempi II, V e VI, in cui, per coerenza, si è proceduto allo stesso modo, mentre il metatesto (1) è andato nella direzione opposta, ottenendo un risultato molto poco «traduzionale» (Popovič 1975: 48) in cui la dominante è senza dubbio la naturalizzazione, ottenuta attraverso la sistematica sostituzione degli elementi esotici con elementi propri della cultura ricevente. Un ragionamento analogo sorge spontaneo anche per la traduzione di «cheddar» o «camembert» (esempio III). È evidente che diventa piuttosto grottesco immaginare Jakobson parlare di mozzarella o di provolone. E non solo. Il lettore più attento e scrupoloso potrebbe persino pensare che Jakobson volesse in qualche modo strizzare l’occhio all’Italia e alle sue tradizioni culinarie. Niente di tutto ciò invece, e basta osservare l’originale per rendersene conto. È bene riportare fedelmente i nomi dei due formaggi citati, che sono peraltro ben noti al lettore italiano, in virtù del fatto che un testo tradotto è, e deve essere, espressione di una cultura estranea.

La strategia traduttiva adottata fino a questo punto ha subito una battuta d’arresto quando ho dovuto fare i conti con la traduzione delle frase riportata al punto IV. Per coerenza con le scelte precedenti avrei dovuto mantenere in inglese anche «cottage cheese», scelta che sarebbe stata praticabile nella prima parte della frase ma non nella seconda, dove avrei ottenuto qualcosa come: «Porta del “cheese” e del “cottage cheese”. Al fine di evitare di ridurre il testo a una serie di “mezze traduzioni” che finirebbero per richiedere al lettore uno sforzo di code switching sproporzionato rispetto alle intenzioni del prototesto, ho preferito affiancare a «cottage cheese» (à 2.4.1.2) una traduzione addomesticante, collocandola all’interno delle consuete parentesi quadre, in modo da poter utilizzare direttamente quest’ultima nell’esempio riportato alla riga successiva. In tal modo il testo guadagna in chiarezza, senza però venire meno alla precisione lessicale che un saggio di linguistica deve garantire.

Il metatesto (2) si propone, quindi, di ovviare alle difficoltà elencate proponendo una soluzione traduttiva diversa, che tenga conto dei limiti che sono stati messi in luce. Va ribadito che non esiste una soluzione corretta in assoluto, ma ogni tentativo di traduzione deve essere dettato da una strategia che necessariamente sacrifica alcuni elementi per privilegiarne altri, ritenuti, in quel determinato contesto, prioritari. La differenza di fondo tra i due risulati ottenuti è che il metatesto (1) passa (o tenta di passare) per un originale, ed è quindi molto poco traduzionale, mentre leggendo il metatesto (2) i campanelli d’allarme del fatto che si tratti di una traduzione sono molteplici. L’atteggiamento focalizzato sull’alta traduzionalità comporta molti rischi, primo su tutti quello di rendere molto ardua la fruizione da parte del lettore, e basta confrontare le due traduzioni proposte nella tabella per rendersene conto. D’altronde, se siamo concordi nell’affermare che «dal confronto matura la coscienza sia delle identità sia delle differenze» (Osimo 2010: 86), si deve riconoscere a questo canale un ruolo fondamentale nell’arricchimento della cultura.

Del resto, la traduzione è, in un certo senso, una contraddizione in termini, un ossimoro: «si presenta come copia ma in realtà è un’originale» (Osimo 2010: 109). Accantonata la pretesa di realizzare fantomatiche “traduzioni fedeli”, concetto che l’autore sfiora alla fine del saggio chiamando in causa il detto «Traduttore, traditore» per metterne a nudo l’infondatezza («traditore di quali valori? Traduttore di quali messaggi?»), Jakobson ribadisce l’importanza di definire innanzitutto i termini della questione affinché la materia trovi posto a pieno titolo tra le scienze. Per indagare su questo ossimoro, insomma, Jakobson reputa necessaria una scienza linguistica a un tempo autonoma e in grado di arricchirsi con i contributi di altre scienze, che ha dimostrato di saper integrare sapientemente come solo uno tra i più grandi ed eclettici studiosi di linguistica del secolo scorso poteva fare: con la semplicità dei geni.


2.6. Riferimenti bibliografici

 

BRADFORD R. 1994 Roman Jakobson. Life, Language, Art, London, Routledge, 1995.

DEVOTO G. e OLI G. (a cura di) 2000 Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier.

ECO U. 1979 Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1991.

ECO U. 2003 Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.

GALTON F. 1874 English Men of Science. Their Nature and Nurture, London, Macmillan.

JAKOBSON R. 1959 On Linguistic Aspects of Translation, in Jakobson R., Language in Literature, The Jakobson Trust, 1987.

JAKOBSON R. 1963 Saggi di linguistica generale, traduzione di L. Grassi e L. Heilmann, Milano, Feltrinelli, 2002.

JAKOBSON R. 1965 An Exemple of Migratory Terms and Institutional Models (On the fiftieth anniversary of the Moscow Linguistic Circle) in Jakobson R., Selected Writings – Word and Language (vol. II), Den Haag-Paris, Mouton, 1971: 527-538.

JAKOBSON R. 1967 Language and Culture, in Jakobson R., Selected Writings – Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology (vol. VII), Berlin-New York-Amsterdam, Mouton, 1985: 101-112.

JAKOBSON R. 1977 A Few Remarks on Peirce, Pathfinder in the Science of Language, in Jakobson R., Selected Writings – Contributions to Comparative Mythology. Studies in Linguistics and Philology (vol. VII), Berlin-New York-Amsterdam, Mouton, 1985: 248-253.

LÛDSKANOV A. 1967 Un approccio semiotico alla traduzione, a cura di B. Osimo, Milano, Hoepli, 2008.

MAURI P. Jakobson e il suo pullover in Repubblica, Milano, 25 novembre 1986

MERRIAM-WEBSTER 2000 Merriam Webster’s online dictionary, Springfield (Massachusetts), Merriam-Webster, disponibile in internet all’indirizzo: www.merriam-webster.com, consultato nel maggio 2011.

MIGLIORINI B., TAGLIAVINI C., FIORELLI P. 2011 Dizionario italiano multimediale e multilingue d’ortografia e di pronunzia, disponibile in internet all’indirizzo: www. dizionario.rai.it, consultato nel maggio 2011.

OSIMO B. 2002 Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2004 Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli.

OSIMO B. (a cura di) 2004b Corso di traduzione online, Logos Group, disponibile in internet all’indirizzo

http://courses.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.traduzione?lang=it, consultato nel maggio 2011.

OSIMO B. 2007 La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2010 Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli.

OTTOGALLI G. 2001 Atlante dei formaggi. Guida a oltre 600 formaggi e latticini provenienti da tutto il mondo, Milano, Hoepli.

POPOVIČ A. 1975 La scienza della traduzione, Milano, Hoepli, 2006.

TOROP P. 1995 La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, a cura di B. Osimo, Milano, Hoepli, 2010.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Errata corrige

 

 

Pagina

Posizione

nel testo

Metatesto 1

Metatesto 2

Note

3

cpv. 1,

riga 11

eppure,

eppure

punteggiatura

3

cpv. 2,

riga 2

[rispettivamente formaggio, mela […]

[rispettivamente: formaggio, mela […]

punteggiatura

3

cpv. 2,

riga 3

di qualsiasi tipo

di qualsiasi tipo

ridondante

3

cpv. 2,

riga 10

indicarla

indicarlo

concordanza con «cheese»

3

cpv. 2,

riga 11-12

[…] o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino o forse qualsiasi confezione […]

[…] o di qualsiasi formaggio, latticino, alimento, spuntino o forse qualsiasi confezione […]

evitare dove possibile la ripetizione di «qualsiasi»

5

cpv. 1,

riga 15

interlinguistica

intralinguistica

5

cpv. 1,

riga 18

frase idiomatica

espressione idiomatica

lessico

6

cpv. 1,

riga 1

same

some

trascrizione

7

cpv. 1,

riga 2

Una traduzione di questo tipo […]

Una simile traduzione […]

corpo sonoro (assonanza tra «tipo» e «riferito»)

8

cpv. 1,

riga 1

metalinguistic

“metalinguistic”

trascrizione

8

cpv. 2,

riga 8

jeha paraquot

jena paragot

trascrizione

9

cpv. 2,

riga 2

amplificare

ampliare

lessico

(amplificare: aumentare nella misura consentita dalla moltiplicazione dei valori o delle dimensioni iniziali: a. un suono; rappresentare in modo esagerato.

ampliare: aumentare quanto all’estensione o alle dimensioni. Fig: accrescere, aumentare) Devoto-Oli: 2000

9

cpv. 2,

riga 3

mediante neologismi

mediante neologismi

ripetizione superflua che appesantisce la frase

9

cpv. 2,

riga 7

 apparentemente

all’apparenza

corpo sonoro (assonanza con «semplicemente»)

9

cpv. 3,

riga 3

Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate […]

Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o] ora sono state integrate […]

punteggiatura

9

cpv. 3,

riga 8

[…] possono essere tradotte […]

[…] si possono tradurre […]

forma

11

cpv. 1,

riga 1

[…] dei numerali

[…] del numerale

numero

11

cpv. 1,

riga 10

[…] lei ha uno o più fratelli.

[…] lei ha uno o più di un fratello.

11

cpv. 2,

riga 11

[…] nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo.

[…] nella versione russa di questa frase una risposta a tale domanda è d’obbligo.

forma (evitare la ripetizione del dimostrativo)

11

cpv. 2,

riga 11

D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre

[…]

D’altro canto, qualunque forma grammaticale russa sia scelta per tradurre

[…]

forma

11

cpv. 2,

riga 13

il lavoratore

l’operaio

coerenza con scelte precedenti

11

cpv. 2,

riga 19

Karcevski

Karcevskij

trascrizione

11

cpv. 2,

riga 19

paragonò

paragonava

tempo verbale

12

cpv. 2,

riga 8

mare

more

trascrizione

13

cpv. 1,

riga 2-3

una serie di domande

una serie di domande specifiche

omissione di «specific»

13

cpv. 1,

riga 3

[…] le risposte sì o no […]

[…] le risposte «sì» o «no» […]

forma

13

cpv. 1,

riga 5

Naturalmente l’attenzione […]

Come è naturale, l’attenzione […]

forma (evitare l’assonanza tra «naturalmente» e «costantemente»)

13

cpv. 1,

riga 6

[…] è costantemente focalizzata […]

[…] sarà costantemente focalizzata […]

tempo verbale

13

cpv. 3,

riga 10

[…], al contrario, […]

[…], per contro, […]

lessico

15

cpv. 1,

riga 3

[…] di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come […]

[…] di fronte al fatto che alcuni artisti tedeschi avessero raffigurato Peccato come […]

forma

15

cpv. 2,

riga 5

[…] fatta poco dopo l’860 […]

[…] scritta poco dopo l’860 […]

forma

15

cpv. 2,

riga 13

Ma a questo ostacolo poetico, Costantino […]

Ma a questo ostacolo poetico Costantino […]

punteggiatura

15

cpv. 2,

riga 14

[…] richiamava l’attenzione principale sui […]

[…] richiamava l’attenzione principalmente sui […]

forma

15

cpv. 3,

riga 3

in breve

insomma

forma

15

cpv. 3,

riga 3

 qualsiasi cosa costituisca

qualsiasi costituente del

forma

17

cpv. 1,

riga 2

un termine più erudito, e forse più preciso

un termine più erudito e forse più preciso

punteggiatura

17

cpv. 1,

riga 5

− da una lingua in un’altra −

− da una lingua in un’altra,

punteggiatura

17

cpv. 2,

riga 1

«Traduttore traditore»

«Traduttore, traditore»

punteggiatura

19

cpv. 2,

riga 4

doxodčivost

doxodčivost’

trascrizione

19

cpv. 3,

riga 3

[…] e il compito più importante era quello di trovare […]

[…] e il compito più importante era trovare […]

forma

21

cpv. 1,

riga 3

«Decimo congresso dei linguisti»

Decimo congresso dei linguisti

coerenza con scelte precedenti

21

cpv. 1,

riga 6

É il problema […]

C’è il problema […]

coerenza con struttura frase precedente

21

cpv. 1,

riga 10

[…] come è già stato enfatizzato una volta con più decisione […]

[…] come è già stato enfatizzato una volta di più con decisione […]

senso

23

cpv. 1,

riga 11

[…] nella letteratura antropologica, si dice […]

[…] nella letteratura antropologica si dice […]

punteggiatura

23

cpv. 2,

riga 12

officiale

ufficiale

refuso

25

cpv. 1,

riga 4

[…] ricordo ciò che mi è stato detto dal […]

[…] ricordo ciò che mi disse il […]

forma e coerenza con tempi verbali successivi

25

cpv. 1,

riga 13

Eppure,

Eppure

punteggiatura

25

cpv. 2

riga 4

[…] non è stato individuato nessun progresso.

[…] non è stato individuato alcun progresso.

forma

25

cpv. 2,

riga 8

Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso […]

Tutti i tentativi compiuti da vari linguisti per trovarvi segni di progresso […]

corpo sonoro

(evitare assonanze e la ripetizione di «diversi»)

27

cpv. 1,

riga 9

Soltanto,

Soltanto

punteggiatura

27

cpv. 1,

riga 11

[…] adattamenti, e innovazioni terminologiche […]

[…] adattamenti e innovazioni terminologiche […]

punteggiatura

27

cpv. 2,

riga 3

[…] non dovremmo dimenticare […]

[…] non dimentichiamo […]

28

cpv. 2,

riga 8

[…] pattern, […]

[…] pattern: […]

trascrizione

29

cpv. 2,

riga 7

Nella struttura del linguaggio è presente […]

Nella struttura della lingua osserviamo […]

lessico e forma

(evitare la ripetizione tra «è presente» e «presentano»)

29

cpv. 2,

riga 9

[…] dai caratteri distintivi e fonemi […]

[…] da caratteri distintivi e fonemi […]

prep. semplice

29

cpv. 2,

riga 12

[…] strumento indispensabile di pensiero […]

[…]  indispensabile strumento di pensiero […]

ordine delle parole

29

cpv. 2,

riga 14

[…] parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani […]

[…] parlare di cose e situazioni che sono assenti e lontane […]

corpo sonoro

29

cpv. 2,

riga 16

[…] coloro che dicono e coloro ai quali è detto […]

[…] sayers and sayees […]

riferimento implicito al saggio Thought and language (1890) di Samuel Butler, contenuto in Essays on life, art and science. In particolare: «It takes two people to say a thing – a sayer as well as a sayee».

31

cpv. 1

riga 1

[…] appena dopo la schiusa […]

[…] appena dopo la schiusa […]

aggiunta

31

cpv. 2,

riga 8

Se privati del modello adulto, resteranno muti […]

Se privati del modello adulto resteranno muti […]

punteggiatura

33

cpv. 1,

riga 13

A volte,

Talvolta

forma e punteggiatura

33

cpv. 1,

riga 14

conduce

ha condotto

tempo verbale

33

cpv. 1,

riga 17

[…] e cognitiva, […]

[…] e cognitiva […]

punteggiatura

33

cpv. 2,

riga 5

[…] riveste un ruolo significativo e autonomo […]

[…] occupa una parte significativa e autonoma […]

forma

(evitare ripetizione con frase precedente)

33

cpv. 3,

riga 2

[…] la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile[…]

[…] la cui lingua madre non prevede la divisione grammaticale dei nomi di genere femminile e di genere maschile[…]

35

cpv. 1,

riga 4

[…], nell’intento di […]

[…] con l’obiettivo di […]

punteggiatura e forma

35

cpv. 2,

riga 5

durante la mia infanzia

durante l’infanzia

forma (evitare il possessivo)

35

cpv. 2,

riga 5

[…] ho letto le fiabe […]

[…] lessi le fiabe […]

tempo verbale

37

cpv. 1,

riga 8

[…] le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica […]

[…] la resa inglese degli stessi versi appare scialba e retorica […]

lessico, forma e corpo sonoro

37

cpv. 2,

riga 10

[…] che non lo segnala.

[…] che non la segnala.

concordanza con «compiutezza»

37

cpv. 2,

riga 10

Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento.

Ogni volta che si usa un verbo russo si deve esprimere se si intende l’azione compiuta o solo il processo, senza riferimenti al suo compimento.

punteggiatura

39

cpv. 1,

riga 4

«[…]», potreste chiedermi […]

«[…]» potreste chiedermi […]

punteggiatura

39

cpv. 1,

riga 10

ripartiscono

trasmettono

lessico

41

cpv. 2,

riga 8

vasto e influente intervento

intervento ponderato e influente

lessico e forma

41

cpv. 2,

riga 14

[…] complementarità tra linguaggio delle scienze […]

[…] complementarità tra il linguaggio delle scienze […]

forma

41

cpv. 2,

riga 20

alla composizione

all’elaborazione

lessico

 



[1] Traduzione del 1963 di Luigi Heilmann e Letizia Grassi

[2] Traduzione proposta in questo elaborato

Corrigan: Tradurre per gli attori CLAUDIA CALIANDRO

Corrigan:
Tradurre per gli attori

CLAUDIA CALIANDRO

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2009

© Robert W. Corrigan, 1961

© Claudia Caliandro per l’edizione italiana, 2009

Abstract in italiano

Questo lavoro, che parte dalla traduzione del saggio «Tradurre per gli attori» di Robert W. Corrigan, pubblicato nel 1961 nella raccolta Craft and Context of Translation a cura di Arrowsmith e Shattuck, si propone di affrontare la disciplina della traduzione teatrale da diversi punti di vista, compresa la semiotica del teatro. Partendo da alcuni accenni storici, vengono delineate le caratteristiche proprie che distinguono la traduzione teatrale dalle traduzioni di altri tipi di testo: la dominante della recitabilità e dell’accettabilità nella cultura ricevente è la caratteristica fondamentale. Vengono poi presentate le diverse concezioni della dialettica tra testo scritto (testo drammatico) e messinscena (testo spettacolare) e le scelte che il traduttore deve fare nell’affrontare la traduzione. Infine si analizza il rapporto tra le figure principali coinvolte nel processo traduttivo: l’autore dell’opera, il traduttore, l’attore e lo spettatore.

English abstract

This work, which starts with the translation of the essay «Translating for Actors» by Robert W. Corrigan, published in the collection Craft and Context of Translation edited by Arrowsmith and Shattuck in the 1960s, deals with drama translation, focusing on different points of view, including theatre semiotics. Starting from a historical outline, the main distinctive features of drama translation as compared to other types of texts are described: the dominants are performability and acceptability in the target culture. The different views of the relationship between written text (dramatic text) and play (performance text) are shown, together with the translator’s choices. The work ends with the analysis of the relationship among the main actors of the translating process: the playwright, the translator, the actor and the spectator.

Zusammenfassung auf Deutsch

Die vorliegende Diplomarbeit beginnt mit der Übersetzung des Essays «Translating for Actors» von Robert W. Corrigan, welches im Werk Craft and Context of Translation von Arrowsmith und Shattuck im Jahr 1961 veröffentlicht wurde. Diese Arbeit befasst sich mit der Theaterübersetzung unter Berücksichtigung verschiedener Ansichten, wie z.B. der Semiotik des Theaters. Beginnend mit einigen historischen Aspekten, werden anschließend die Hauptmerkmale beschrieben, welche die Theaterübersetzung von anderen Texttypologien unterscheiden; davon sind die Umsetzbarkeit auf der Bühne und die Akzeptanz in der Ziel-Kultur am wichtigsten. Außerdem werden die verschiedenen Meinungen über die Dialektik zwischen dem „Text-Modell“ und dem „Performance-Modell“, und die Entscheidungen des Übersetzers während des Übersetzungsprozesses dargestellt. Schließlich wird das Verhältnis zwischen den Hauptakteuren der Übersetzung untersucht: dem Autor, dem Übersetzer, dem Schauspieler und dem Publikum.

Sommario

1. Prefazione
1.1. Storia della traduzione teatrale
1.2. La semiotica del teatro
1.3. Drammaturghi, traduttori, spettatori
1.4. Riferimenti bibliografici
2. Traduzione con testo a fronte
2.1. Riferimenti bibliografici

1. Prefazione
1.1. Storia della traduzione teatrale
Gli studi sulla storia della traduzione teatrale sono davvero scarsi e non è possibile rifarsi a una teoria specifica o a un manuale con linee guida fisse e imprescindibili da seguire. L’impossibilità di costituire una teoria sulla traduzione teatrale forse è riconducibile alla stessa natura poco teorica del teatro, che in quanto «arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del momento […] [comporta che sia necessario] correggere costantemente la teoria critica deputata a descrivere il fenomeno teatro» (Pavis, 1998: 5). La labilità della disciplina teatrale, il suo essere contingente, e non eterno come invece molti tendono a pensare, si rispecchia anche nel lavoro di traduzione di testi teatrali.
In linea generale, le norme traduttive valide per la narrativa devono essere considerate valide anche per la traduzione teatrale, anzi amplificate. Per Zuber nella traduzione teatrale si dispiegano due fasi: la prima è il processo di traduzione da una lingua all’altra; la seconda è il processo di trasposizione del testo tradotto sul palcoscenico. Zuber considera la traduzione teatrale una «sottosezione» della disciplina della traduzione narrativa e la distingue da tutte le altre forme di traduzione in primis per due dominanti: la recitabilità e la parlabilità. «A play written for a performance must be actable and speakable» pertanto nella traduzione vanno presi in considerazione anche gli aspetti non verbali e culturali e i problemi sul palcoscenico (Zuber, 1988: 485). Non esisterà una traduzione giusta e una traduzione sbagliata, ma quella più o meno accettabile, che possa essere recepita dalla cultura ricevente nel migliore dei modi. «Unlike the translation of a novel, or a poem, the duality inherent in the art of the theatre requires language to be combine with spectacle, manifested through visual as well as acoustic images» (Anderman, 1998: 71).
In Europa la traduzione di opere teatrali inizia nella seconda metà del Seicento, quando la grande richiesta da parte delle compagnie teatrali porta alla produzione di numerose traduzioni affrettate e spesso poco accurate. Nell’Umanesimo nasce invece un tipo di traduzione che privilegia la lettura anziché la rappresentazione: la traduzione dei classici. Un esempio emblematico è la traduzione di Shakespeare, che nel buio della teoria sulla traduzione teatrale rappresenta il filo conduttore empirico per capire le logiche sottese alle ricerche sulla traduzione teatrale. La Routledge Encyclopedia (Baker, Malmkjaer, 1998: 222-226) dedica un capitolo alla Shakespeare Translation e paragona l’impatto che questa ha avuto sulle culture a quello avuto dalla traduzione della Bibbia. Nel caso di Shakespeare, ma ciò vale per tutte le traduzioni dei classici, si contrappongono i sostenitori dell’ortodossia filologica nella traduzione del dramma, che danno meno risalto alla recitabilità, e quelli che invece si azzardano a rivitalizzare il classico e a proporre scelte di traduzione che hanno come dominante l’accettabilità da parte della cultura ricevente. Solitamente però, questi ultimi tipi di “esperimenti” trovano poco séguito tra il pubblico e invece paradossale è sapere come traduzioni filologicamente orientate abbiano avuto così successo tra i classicisti, che vanno a teatro seguendo il testo scritto e solo di rado alzano gli occhi al palcoscenico[1]. La conseguenza estrema dell’atteggiamento classicista è considerare il testo originale qualcosa di “sacro” e rifiutare invece un approccio “relativistico”, che sappia cioè giudicare caso per caso il prototesto e la relativa traduzione.

1.2. La semiotica del teatro
Il traduttore può considerare il testo teatrale pura letteratura oppure parte integrante di una produzione teatrale, può quindi rispettivamente avere come committente un editore oppure un regista (o un teatro). Nel primo caso il frutto del lavoro del traduttore sarà un testo drammatico, nel secondo caso un testo spettacolare, cioè l’attuazione scenica.
La distinzione tra testo drammatico e testo spettacolare si deve alle riflessioni teoriche e analitiche del circolo di Praga, che agli inizi degli anni Trenta elabora la disciplina delle semiotica del teatro.
In una prima fase la semiotica del teatro punta il proprio interesse sull’elemento testuale del teatro, in particolare sul testo verbale scritto che costituisce il testo drammatico (concezione linguistico-strutturalista). La preferenza per il testo scritto, considerato l’elemento fisso e invariante del teatro, è sicuramente retaggio della concezione logocentrica, che da Aristotele fino alla fine dell’Ottocento, è stata considerata l’unica risposta valida nell’analisi teatrale. Il testo scritto sarebbe portavoce del senso e quindi struttura profonda ed elemento essenziale dell’arte drammatica e le messe in scena sarebbero solo espressioni superficiali, posteriori e subordinate al testo scritto. La concezione logocentrica pone il testo e la scena in un rapporto dialettico, associato alla teologia (In principio era il verbo), che vede il testo come anima, portatrice di senso e la scena come corpo esteriore che «distoglie il pubblico dalle bellezze della vicenda e dalla riflessione sul conflitto tragico» (Pavis, 1998: 487-488).
Dalla seconda metà degli anni Settanta, De Marinis si fa portavoce della necessità di una modifica radicale dell’approccio logocentrico: lo spettacolo concreto (il testo spettacolare) diventa vero oggetto dell’analisi semiotica. Il testo spettacolare permette di cogliere diacronicamente e sincronicamente il senso della rappresentazione. Alcuni semiotici considerano la messa in scena una traduzione intersemiotica, «una transcodifica di un sistema in un altro» e Pavis giudica ciò «una mostruosità semiologica» (Pavis, 1998: 394). Anche continuare a concepire il testo scritto come unico elemento essenziale invariante del dramma e la messa in scena come espressione, puro «allestimento di un’evidenza testuale» è secondo Pavis sbagliato. Artaud giudica un «teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di antipoeti, di positivisti, in una parola di Occidentali» quel teatro che si ostina a subordinare lo spettacolo al testo (Artaud citato in Pavis, 1998: 488). Meno estrema sembra l’opinione di Zuber, che vede il testo scritto come elemento irrevocabile e permanente, mentre ogni messinscena basata su quel testo è diversa, unica, assolutamente contingente e legata alle varianti di tempo e spazio in cui si realizza: «a theatre perfomance is subject to changes according to audience reaction, acting performance, physical environment, and other factors» (Zuber, 1988: 485).
Non è possibile dunque giudicare il testo scritto e il testo spettacolare in termini gerarchici: sono parti imprescindibili del testo teatrale, che esistono e funzionano reciprocamente per creare il fatto teatrale. Il testo scritto è portatore di senso e la rappresentazione è «l’enunciazione del testo drammatico in una data messa in scena che conferisce al testo un senso e non un altro» (Pavis, 1998: 395). Pavis pone l’attenzione su un’ulteriore corrente di pensiero che sostiene che tra testo e scena si creerebbe una distanza ermeneutica irriducibile, nel momento in cui non si considera più la scena subordinata al testo. La distanza che separa testo e scena permette di approcciarsi diversamente al testo e di interpretarlo con altri significati. Testo e scena diventerebbero così due componenti distinte, con significati diversi. Bernard Dort scrive che

forse a teatro il piacere è dato dal vedere un testo, per definizione estraneo al tempo e allo spazio, inscriversi nell’istante effimero e nel tempo delimitato dello spettacolo. Così, la rappresentazione teatrale non sarebbe il luogo di una ritrovata unità, ma piuttosto quello di una tensione, mai pacificata, tra eterno ed effimero, universale e particolare, astratto e concreto, testo e scena. La rappresentazione non rappresenta più o meno un testo, ma lo critica, gli fa violenza, lo interroga; si confronta con esso e lo confronta a sé: non è un accordo, ma una lotta (Dort, citato in Pavis, 1998: 488-489).

Il rapporto tra testo e rappresentazione non è d’altronde stato del tutto chiarito; le ricerche tendono a profilarsi su due binari paralleli: da una parte la semiotica del testo e dall’altra la semiotica della rappresentazione, senza individuare punti di confronto tra i risultati dei due approcci.
Boselli nel suo saggio sostiene che tra testo drammatico e testo spettacolare sono da notare elementi di convergenza tipici dell’arte teatrale, vincoli reciproci che accomunano i due livelli, costituiti da codici spettacolari e convenzioni teatrali che portano a considerare alla base di tutto una forte intertestualità. A volte alcuni critici, per identificare ciò che è puramente teatrale e ciò che è extrateatrale, hanno stabilito codici teatrali riferendosi a un caso particolare, e hanno poi preteso di usare quei codici per tutte le altre analisi di casi diversi. Questa teoria è troppo rigida per poter descrivere il teatro. Usare il codice come elemento costitutivo, ben celato, della rappresentazione è secondo Pavis sbagliato di principio. Il codice deve essere piuttosto un metodo di analisi, che il fruitore, in quanto ermeneuta, sceglie per interpretare l’elemento rappresentato, sotto la guida dell’interprete (Pavis, 1998: 394).
Secondo Tessari la caratteristica propria di un testo drammatico è l’autenticità teatrale. Anche se scritto e non deputato a una rappresentazione, il testo drammatico deve in ogni caso essere pensato per essere recitato, non deve restare parole su carta, frutto di una lettura individuale. «I personaggi, i dialoghi, i monologhi posti su carta […] nascono e prendono forma (inconfondibile forma) da ben altra inclinazione mentale: quella che guarda alle parole della pagina scritta come a segni pienamente fruibili e collettivamente fruibili soltanto se vivificati da una finzione in atto che sappia farli propri» (Tessari, 1996: 23, corsivo aggiunto).
«There is pratically no theoretical literature on the translation of drama as acted and produced», scrive Lefevere nel 1980, che individua il motivo della mancanza di teorie nell’analisi testuale fallace confinata solo al testo scritto (il testo drammatico) e nella scarsa importanza data alla pragmatica nel contesto della traduzione teatrale. E pensare che sono proprio i paradigmi pragmatici a distinguere un testo drammatico da un testo “ordinario”. Searle sosteneva che «non vi sono proprietà testuali, siano esse sintattiche o semantiche, che possano identificare un testo come opera di finzione» (Searle, citato in Pavis, 1998: 486); piuttosto un testo drammatico è tale perché circoscrivibile entro la cornice della finzione, perché pensato per essere sensorialmente percebile.
Il campo di interesse per un traduttore di testi teatrali deve essere dunque interdisciplinare. È «indispensabile che il traduttore di poesia teatrale lavori di conserva con tutti coloro che allestiscono lo spettacolo e prenda parte al vivo della sua preparazione» (Luzi, 1990: 99).

1.3. Drammaturghi, traduttori, spettatori
Mario Luzi nel suo saggio descrive il rapporto tra autore e traduttore nella lirica come un «duello» tra il primo che vorrebbe che il proprio lavoro rimanesse intonso, autentico, e il secondo che in quanto portatore di creatività e autonomia si sente legittimato alla creazione. Questo gioco tra le due parti può allo stesso modo capovolgersi, vedendo l’autore originale come vittima passiva dell’«immobilità dell’oggetto» creato, e il traduttore come l’artefice vero e proprio della creazione. La contesa sarà giocata non a cielo aperto bensì segretamente e quindi il vincitore e il vinto, i torti o le ragioni, insomma il giudizio, resterà completamente limitato ai princìpi sottesi riconosciuti solo da una delle due parti (Luzi, 1990: 97). Alcune concezioni comuni che riguardano la letteratura in generale considerano il testo originale come un «ipo-testo eterno» e autentico, e le sue traduzioni come «iper-testi caduchi» (Boselli, 1996: 66), meramente circoscritti alle varianti di tempo e spazio. Secondo tali concezioni la traduzione verrebbe vista e sentita come un rapporto padrone-servitore (senza neppure dunque considerare l’autore e il traduttore due duellanti di pari grado nella sfida!), in cui chi sopperisce alle leggi di autenticità e originalità è il traduttore, a discapito della «prerogativa del disporre e del fare» (Luzi, 1990: 97). Nell’àmbito della traduzione teatrale tali teorie immobiliste appaiono ingiustificate. A teatro la sottesa disputa tra autore e traduttore viene ufficializzata e il merito o il demerito dell’uno o dell’altro viene giudicato dal palcoscenico, che «registra come un sismografo le variazioni d’energia del linguaggio» (Luzi, 1990: 98). Anche le minuscole disattenzioni che sulla carta scritta possono considerarsi innocue irrimediabilmente trapelano nella messa in scena per la mancanza di fluidità nel dialogo o per l’assenza vera e propria di azione, come spesso nota Corrigan nel suo saggio. Stark Young a proposito della traduzione di Čehov sostiene che «the speech lives or dies […] by its precision. In the form alone lies much of its meaning and all its point» (Young, 1938: 740). Altre volte invece traduzioni corrette e dotate di senso logico non riescono a far scaturire l’azione, non assecondano la recitazione. Pirandello sostiene che

bisogna che il drammaturgo [e quindi il traduttore] trovi la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto, l’espressione unica, che non può essere che quella, propria cioè a quel dato personaggio in quella data situazione; parole, espressioni che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole (Pirandello, 1939: 235).

Nell’ambito teatrale si distinguono due scuole di pensiero che descrivono due diversi approcci che il traduttore di un’opera teatrale può assumere. La prima è quella dei traduttori “gelosi” della loro autonomia che perseguono la strada dalla traduzione “eterna”, producono testi statici che verranno solo pubblicati, e lasciano quindi libero arbitrio al regista per quanto concerne la messa in scena dell’opera. La seconda scuola invece, più saggiamente, si occupa di traduzioni in funzione di uno spettacolo che hanno quindi come dominante la recitabilità e tengono in conto soprattutto una reinterpretabilità da parte della cultura ricevente. Questa scuola si trova d’accordo con la seguente asserzione di Zuber: «as well as being a literary text, the translation of drama as a performing art is mainly dependent on the final production of the play on the stage and on the effectiveness of the play on the audience» (Zuber, 1988: 485). Tali traduzioni, pur di ottenere un’efficace ricezione dal pubblico, tralasciano il rigore e l’esattezza filologica del testo originale.
In un connubio tra immagini acustiche, visive ed emozionali, il teatro trasmette un messaggio e allo stesso tempo allieta l’animo del pubblico: quale migliore mezzo di comunicazione? Nel caso di un dramma tradotto si tratta di comunicazione interculturale. Ecco che il teatro riesce a diventare anche un eminente luogo d’intertestualità, assumendo «i connotati di una corsia preferenziale per il dialogo interculturale» (Boselli, 1996: 71). Non può esistere una traduzione definitiva ed eterna, ma solo adatta alla cultura che è pronta a riceverla. L’arte teatrale è in continua evoluzione e strettamente esposta all’influenza del momento. La lontananza temporale, linguistica, culturale sono sfide che il traduttore professionista affronta quotidianamente, sono presupposti del suo lavoro come lo è conoscere la lingua straniera. Nel teatro, chi giudica il lavoro del traduttore è il pubblico, che si aspetta, a seconda dei casi, di divertirsi o di commuoversi, ma soprattutto di trovare punti di complicità, di trarne un insegnamento, insomma di comprendere l’opera e sentirsi partecipe del fatto teatrale. Sminuire il pubblico come digiuno di senso critico, passivo, incapace di cogliere messaggi, è un grave torto che si fa al destinatario del fatto teatrale. È per lo spettatore che il traduttore deve lavorare, è per ottenere la sua ricezione dell’opera che il traduttore spesso deve scendere a patti con il rigorismo della traduzione letteraria, seguire scelte coraggiose che possano rendere la fluidità dell’opera e la sua freschezza, come se fosse nata nuovamente e per la prima volta venisse presentata a quel particolare pubblico. Cito a tal proposito Pirandello: «Nell’esecuzione si dovrebbero trovare tutti i caratteri della concezione» (1939: 234). Solo in questo modo si permette alla comunicazione interculturale di eseguirsi.
Se il teatro nega alla cultura emittente il diritto di essere rappresentata in maniera completa, con pregi e difetti, questa ne usce sconfitta, sminuita. La comunicazione si svolgerà solo in termini di chiusura tra le due culture e dà adito ai soliti pregiudizi e luoghi comuni, che purtroppo esistono proprio per una mancanza di conoscenza reciproca. Sconfitta è anche la cultura ricevente, che vede vanificato il suo andare a teatro: viene privata del diritto di giudizio spassionato di un’altra cultura, diversa e magari lontana, che il teatro avrebbe potuto rendere più vicina. Normalmente nella narrativa, in funzione dell’abbattimento della distanza spaziale e temporale che intercorre tra la cultura emittente e quella ricevente, la traduzione viene accompagnata da un apparato metatestuale, che può essere costituito da un’introduzione, da note, commenti, saggi critici che inquadrano il testo. Nel teatro un tale apparato è improbabile e poco fattibile, quindi a maggior ragione la distanza deve essere colmata nella rappresentazione, in tutto l’apparato teatrale, preceduta da un impianto teorico affidato alla collaborazione fra linguisti, letterati, comparativisti, drammaturghi e registi (Anderman, 1998: 74).
Chiaramente è impossibile ottenere l’effetto equivalente, ovvero sortire gli stessi effetti che l’autore originale voleva per il pubblico che parla la sua lingua, anche perché è difficile capire qual è. Pirandello nel suo saggio ha come leitmotiv l’impossibilità dell’interpretazione in toto. Ogni persona sente e vede alla sua maniera e quindi non esiste mai un’interpretazione perfettamente filologica, specchio di ciò che l’autore sentiva e vedeva. L’opera di mediazione tra una lingua e l’altra non è mai obiettiva perché il sentire e il vedere del traduttore non può mai venire completamente filtrato, annullato. E l’attore, che si “intromette” tra la creatura e l’autore, può solo cercare di incarnarsi nel personaggio creato dal drammaturgo e tuttavia l’immagine da lui incarnata è solo somigliante e non uguale, perché ricreata un’altra volta nel suo corpo, nella sua mente, nella sua voce, nel suo gesto. Pirandello associa il caso dell’attore a quello del traduttore: la creazione di qualcosa di altro, che pur perseguendo il fine della trasmissione di una «creatura» non sua, ha in sé l’espressività del traduttore, e non più dell’autore originale. La creazione da parte del traduttore di qualcosa di nuovo, di un altro originale si associa al pensiero elaborato da alcuni traduttori brasiliani, il «cannibalismo», secondo il quale il traduttore divora il prototesto e ne crea uno tutto suo (Boselli, 1996: 66).
Sia che si giudichi il traduttore un “cannibale” che si ciba del testo originale per crearne un altro, oppure un rigorista ortodosso e filologicamente fedele, è necessario affrontare la spinosa questione del lettore modello nella traduzione teatrale.
Il saggio di Corrigan ripete insistentemente che la traduzione deve essere fatta per gli attori. Possiamo dunque azzardare che il lettore modello del processo traduttivo di un’opera teatrale sia l’attore? E lo spettatore, il fruitore dell’opera, che ruolo assume nel processo teatrale? Probabilmente si dispiegano due passaggi traduttivi: nel primo il lettore modello del traduttore è l’attore; nel secondo il traduttore ha come lettore modello il pubblico.
Anche in questo caso non vi è purtroppo l’apporto teorico per rispondere al quesito. Le ricerche sono numerose per quanto concerne il ruolo dell’attore, il ruolo del pubblico e il lettore modello nella narrativa, ma non è ancora affiorato un confronto tra questi studi che dimostri quale sia il lettore modello nella traduzione teatrale.
Se si vuole considerare il teatro come una sorta di episodio di lettura collettiva, multimediale, possiamo ben decretare il pubblico come lettore modello a cui il traduttore si indirizza, un pubblico che però diventa entità unica. Durante la fruizione, infatti, l’individualità dei singoli spettatori si uniforma almeno parzialmente.

Non si può separare lo spettatore come individuo dal pubblico come agente collettivo. Nello spettatore-individuo passano i codici ideologici e psicologici di molti gruppi, mentre la sala costituisce, a volte, un’entità, un corpo che reagisce in blocco (Pavis, 1998: 426).

Uniformare il pubblico significa prefissarsi un pubblico ideale, che sia in grado di comprendere nell’unico modo possibile la messinscena. Questo concetto è il fulcro dell’estetica della ricezione di Jauss (Rezeptionsästethik) e Pavis ritiene assai improbabile considerare il fatto teatrale in funzione di un «ricevente onnipotente» (Pavis, 1998: 427). Il pubblico è a rigor di logica considerato in blocco perché si trova a dover interpretare in blocco nello stesso spazio e nello stesso tempo il fatto teatrale, ma non è detto che da esso scaturisca una reazione e un’interpretazione in blocco. Tale opinione però non vuole dare adito alla legittimità di molteplici interpretazioni tutte possibili, nel teatro così come nella letteratura: come Pareyson sostiene «è sempre una persona concreta quella che, dal suo punto di vista, cerca di rendere e far vivere l’opera com’essa stessa vuole» (Pareyson, 1954 [1988: 11]).

1.4. Riferimenti bibliografici

Anderman, G. 1998, «Drama translation» in Routledge Encyclopedia of Translation Studies a cura di M. Baker e K. Malmkjaer, London:Routledge: 71-74.

Artaud, A. 1968, Il teatro e il suo doppio e altri scritti, Torino: Einaudi. [princeps 1938].

Baldini Castoldi Dalai Editore 2008, La semiotica del teatro, disponibile nel sito http://delteatro.it/dizionario_dello_spettacolo_del_900/s/semiologia_teatro_e.php, Milano: Baldini Castoldi Dalai, consultato nel mese di gennaio 2009.

Baker, M., Malmkjaer, K. 1998, a cura di, Routledge Encyclopedia of Translation Studies, London, Routledge.

Boselli, S. 1996. «La traduzione teatrale». Testo a fronte. Milano: Crocetti, numero 15, ottobre: 63-80.

Delabastita, D. 1998, «Shakespeare translation» in Routledge Encyclopedia of Translation Studies, London: Routledge: 222-226.

Luzi, M. 1990. «Sulla traduzione teatrale». Testo a fronte. Milano: Guerini, numero 3, ottobre: 97-99.
Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore, Milano: Hoepli.

Pareyson, L. 1988, Estetica. Teoria della formatività, Milano: Bompiani. Prima edizione 1954.

Pavis, P. 1998. Dizionario del teatro, edizione italiana a cura di Paolo Bosisio, Bologna: Zanichelli.

Pirandello, L. 1908 «Illustratori, attori, traduttori», in Saggi, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano: Mondadori, 1939: 227-246.

Pisanty, V., Pellerey R. (2004). Semiotica e interpretazione, Milano: Bompiani.

Tessari, R., Alonge R. (1996). Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, Milano: LED.

Young, S. 1938, «On translating The Seagull», Theatre Arts Monthly in Chehkhov The critical heritage, a cura di Victor Emeljanow, London, Boston and Henley, Routledge & Kegan 1981: 418-422.

Zuber-Skerrit, O. «Toward a Typology of Literary Translation: Drama Translation Science», 1988, in Meta: journal des traducteurs, volume 3, numero 4: 485-490, disponibile nel sito www.erudit.org consultato nel febbraio 2009.

2. Traduzione con testo a fronte

Translating for Actors

Robert W. Corrigan

We are just now in this country discovering the plays of such European playwrights as lonesco, Beckett, Genet, Adamov, and Ghelderode. With a prudishness that is about par for the course, we tend to reject these plays and label their authors opprobiously as avant-garde. But somehow – in spite of our rejection – the plays keep reasserting themselves; they have a mysterious hold on our sensibilities. For all their apparent unintelligibility and simplicity, they possess a vitality we have missed in our theater. But what is the source of this vitality?
At first glance, it is the non-didactic quality which differentiates the work of these playwrights from those stereotyped forms to which we are so accustomed; there are no clear, packaged ‘morals’ or ‘inspiring’ attitudes. But we soon discover that underlying this lack of didacticism is a more central fact: each of these writers is revolting against the tyranny of words in the modern theater. The dialogue is not a monologue apportioned out to several characters; there is none of the planted line and heavy-handed cross-reference to which we are so accustomed; there are a multitude of symbols, but these symbols mean nothing in particular and yet suggest many things. In each of these plays the characters lead their own lives, talk their own thoughts. Their speeches impinge on each other and glance away. Finally, in all of these plays there is an
Tradurre per gli attori

Robert W. Corrigan

Ci troviamo ora in questo paese per scoprire le opere teatrali di drammaturghi europei quali Ionesco, Beckett, Genet, Adamov e Ghelderode. Con un certo moralismo che è quasi ciò che ci si aspetta, tendiamo a rifiutare tali opere e a qualificare oltraggiosamente i loro autori come avant-garde. Tuttavia, in un certo qual modo – nonostante la nostra avversione – le opere continuano a riaffermarsi; mantengono una misteriosa presa sulle nostre sensibilità. Nonostante la loro apparente imperscrutabilità e semplicità, possiedono una vitalità nel nostro teatro che si è persa. Ma qual è il fulcro di questa vitalità?
A una rapida osservazione, è la qualità non didascalica delle opere di questi drammaturghi a differenziarle da quelle forme stereotipate a cui siamo tanto abituati; non ci sono “princìpi morali” chiari e ben confezionati o gesta “ispiranti”. Tuttavia, sottolineando questa mancanza di didascalicità, scoviamo presto una questione più centrale: ciascuno di questi drammaturghi si sta rivoltando contro la tirannia delle parole del teatro moderno. Il dialogo non è un monologo ripartibile tra diversi personaggi; non c’è nessuna linea guida o rimando intertestuale evidente, ai quali siamo così avvezzi; sono presenti molteplici simboli, ma questi simboli non rappresentano nulla in particolare e allo stesso tempo evocano molte cose. In ognuna di queste opere i personaggi conducono la propria vita, esprimono i loro pensieri. I loro discorsi si ripercuotono l’uno sull’altro e scorrono altrove. Infine, in ogni dramma vi è

insistence upon the gestures of pantomime as the theater’s most appropriate and valuable means of expressions; an insistence that the mimetic gesture precedes the spoken word and that the gesture is the true expression of what we feel, while words only describe what we feel. In fact, these writers assert that in objectifying the feeling in order to describe it, words kill the very feeling they would describe.
It is no wonder, then, that these playwrights feel a great affinity to the mimes – Etienne Decroux, Marcel Marceau, and Jacques Tati; no wonder that they turn for inspiration to the early films of Charlie Chaplin, Buster Keaton, the Keystone Cops, Laurel and Hardy, and the Marx Brothers; no wonder, finally, that they are all under the influence of Jacques Copeau and Antonin Artaud. It is only with the recent translation into English of Artaud’s book, The Theater and Its Double (the earlier and more seminal work of Copeau has not as yet been translated), that most of us have been able to discover what the aesthetic of this whole avant-garde theater movement is.
Artaud’s basic premise was that in the theater it is a mistake to assume that ‘In the beginning was the word.’ And our theater does make just that assumption. For most of us, critics as well as playwrights, the Word is everything; there is no possibility of expression without it; the theater is thought of as a branch of literature, and even if we admit a difference between the text spoken on the stage and the text read by the eyes, we have still not managed to separate it from the idea of a performed text.

un’insistenza sui gesti della pantomima, annoverati come mezzi di espressione teatrale più appropriati e validi; un’insistenza sul fatto che il gesto mimico preceda la parola parlata e che il gesto sia la vera espressione di ciò che proviamo, mentre le parole possono soltanto descrivere ciò che proviamo. Precisamente, questi drammaturghi asseriscono che, oggettivando il sentimento nell’intento di descriverlo, le parole uccidono lo stesso sentimento che vorrebbero descrivere.
Non c’è da stupirsi, dunque, che questi autori si trovino in grande sintonia con i mimi – Etienne Decroux, Marcel Marceau e Jacques Tati; non c’è da stupirsi che traggano ispirazione dai primi film di Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, dei Keystone Cops, e dei fratelli Marx; non c’è da stupirsi infine che siano tutti sotto l’influenza di Jacques Copeau e Antonin Artaud. È solo con la recente traduzione verso l’inglese del libro di Artaud, Le Théâtre et son double [Il teatro e il suo doppio] (il primo, fondamentale, lavoro di Copeau non è stato ancora tradotto), che la maggior parte di noi ha potuto scoprire cosa fosse l’estetica dell’intero movimento teatrale dell’avant-garde.
La premessa fondamentale di Artaud era che nel teatro è un errore sostenere che «in principio era il verbo». E il nostro teatro fa proprio quell’assunto. Per la maggior parte di noi, critici così come drammaturghi, il verbo è tutto; senza non vi è possibilità di espressione; il teatro è considerato un ramo della letteratura, e anche se ammettiamo una differenza tra il testo declamato sul palco e il testo letto con gli occhi, non siamo ancora in grado di separarlo dall’idea di un testo recitato.
Artaud and the playwrights who have followed him maintain that our modern psychologically oriented theater is denying the theater’s historical nature. For them the stage is a concrete physical place which must speak its own language – a language that goes deeper than spoken language, a language that speaks directly to our senses rather than primarily to the mind as with the language of words.
This is the most significant thing about the avant-garde theater – it is a theater of gesture. ‘In the beginning was the Gesture!’ Gesture is not a decorative addition that accompanies words; it is rather the source, cause, and director of language, and insofar as language is dramatic, it is gestural. It is this insistence upon restoring the gestural basis to theater that has resulted in the renascence of pantomime in such plays as The Chars, Waiting for Godot, Ping-Pong, Endgame, The Balcony, and Escurial. Those of you who have seen any of these plays in production know how different this pantomime is from pantomime as most moderns conceive of it. For most of us, pantomime is a series of gestures which represent words or sentences – a game of charades. But this is not the pantomime of history. For the great mimists, Artaud points out, gestures represent ideas, attitudes of mind, aspects of nature which are realized in an effective, concrete way, by constantly evoking objects or natural details much as Oriental language represents night by a tree on which a bird that has closed one eye is beginning to dose the other.

Artaud e i suoi discepoli sostengono che il nostro teatro moderno orientato psicologicamente stia sconfessando la natura storica del teatro. A loro parere, il palco è un luogo fisico concreto che deve parlare un linguaggio proprio – un linguaggio che va più in profondità rispetto alla lingua parlata, una lingua che si rivolge direttamente ai nostri sensi, invece che in primis alla nostra mente, come fa il linguaggio delle parole.
Questo è l’aspetto più significativo del teatro dell’avant-garde – è un teatro del gesto. «In principio era il gesto»! Il gesto non è un’aggiunta decorativa che accompagna le parole; è invece il fulcro, la causa e il regista della lingua, e per quanto il linguaggio sia drammatico, è essenzialmente gestuale. È questa insistenza sul ripristinare la base gestuale del teatro che ha condotto alla ripresa della pantomima in opere quali Les Chaises [Le sedie], En attendant Godot [Aspettando Godot], Le Ping Pong [Ping-Pong], Fin de partie [Finale di partita], Le Balcon [Il balcone] e Escurial. Chiunque di voi abbia assistito a un riallestimento di queste commedie sa come questa pantomima sia diversa dalla pantomima come viene intesa dalla maggior parte dei contemporanei. Per molti di noi, la pantomima è una serie di gesti che rappresentano parole o frasi – una sciarada. Ma questa non è la pantomima storica. Per i grandi mimi, sostiene Artaud, i gesti rappresentano idee, atteggiamenti mentali, aspetti della natura che sono realizzati in un modo efficace e concreto, evocando costantemente oggetti o dettagli della natura, come fa il linguaggio orientale rappresentando la notte con un albero su cui un uccello che ha

The famous director, Meyerhold, was striving for the same thing in his attempt to restore vitality to the Russian theater at the turn of the century. With the exception of Chekhov – and the affinity of Chekhov to the avant-garde is greater than one might at first think – most of the playwrights of that time were trying to transform literature for reading into literature for the theater. Meyerhold correctly saw that these playwrights were in fact novelists who thought that by reducing the number of descriptive passages and enlivening the story by increasing the characters’ dialogue, a play would result. Then this novelist-playwright would invite his reader to pass from the library into the auditorium. As Meyerhold put it in his essay, ‘Farce’:
Does the novelist need the services of mime? Of course not. The readers themselves can come onto the stage, assume parts, and read aloud to the audience the dialogue of their favorite novelist. This is called ‘a harmoniously performed play.’ A name is quickly given to the reader-transformed-into-actor, and a new term, ‘an intelligent actor,’ is coined. The same dead silence reigns in the auditorium as in the library. The public is dozing. Such immobility and solemnity is appropriate only in a library.

There has been a bit of intentional overstatement in all of this. Obviously, it is not a matter of suppressing the speech in the theater. It is not that language is not important in the theater, it is rather a matter of changing its role. Since the

un occhio sta per chiudere l’altro.
Il famoso regista Mejerhol´d al volgere del secolo si stava impegnando per raggiungere lo stesso obiettivo, nel tentativo di ridare vitalità al teatro russo. A eccezione di Čehov – e l’affinità dell’avant-garde con Čehov è maggiore di quanto si possa pensare a una prima lettura – numerosi drammaturghi di quel tempo stavano cercando di trasformare la letteratura da leggere in letteratura per il teatro. Mejerhol´d notò correttamente che questi scrittori erano in realtà romanzieri che pensavano che riducendo il numero dei passaggi descrittivi e rianimando la vicenda aumentando i dialoghi tra i personaggi, ne sarebbe risultata un’opera teatrale. Quindi questo scrittore-romanziere avrebbe invitato il lettore a passare dalla biblioteca all’auditorium. Come Mejerhol´d scrisse nel suo saggio Фарс [La farsa]:
Il romanziere ha bisogno dei servizi del mimo? Certamente no. Gli stessi lettori possono salire sul palco, assumere delle parti, e leggere al pubblico ad alta voce il dialogo del loro romanziere prediletto. Questo è ciò che viene denominato «un’opera recitata armoniosamente». Al lettore-trasformato-in-attore viene subito dato un nome e viene coniato un nuovo termine, «un attore intelligente». Lo stesso silenzio di tomba regna tra il pubblico, come in biblioteca. Gli spettatori sonnecchiano. Tale immobilità e solennità è appropriata solamente a una biblioteca.

Vi è una certa sopravvalutazione intenzionale in tutto questo. Ovviamente, non si tratta di sopprimere il discorso nel teatro. Non è che il linguaggio sia meno importante nel teatro,
theater is really concerned only with the way feelings and passions conflict with one another, and man with man, in life –
Mr. Arrowsmith hit it perfectly when he used the term ‘turbulence’ – the language of the theater must be considered as something other than a means of conducting human characters to their external ends. To change the role of speech in theater is to make use of it in a concrete and spatial sense, combining it with everything else in the theater. In short, language in the theater must always be gestural: it must grow out of the gesture, must always act and never be descriptive. The theater is dead the moment there is a substitution of statement for dramatic process.
This may seem far removed from the problems of translation, and yet I think not. If we are clearly so incapable in our time of giving an idea of Aeschylus, Sophocles, or Shakespeare that is truly expressive of what they were trying to achieve in the theater, it is very likely because we have lost the sense of their theater’s physics. It is because the directly human and active aspect of their way of speaking and moving, their whole scenic rhythm, escapes us. It is not enough to have the texts of their plays, for none of these great tragedians is the theater itself. The theater is always a matter of scenic materialization in space. Call it an inferior art if you will, but as Artaud insists, ‘theater resides in a certain way of furnishing and animating the air of the stage, by a conflagration of feelings and human sensations at a given point creating situations that are expressed in concrete gestures.’

piuttosto questione di cambiare il suo ruolo. Dato che l’unica preoccupazione del teatro è davvero il modo in cui i sentimenti e le passioni confliggono l’uno con l’altro, e l’uomo con l’uomo, nella vita – Arrowsmith lo descrive perfettamente usando il termine «turbulence» – il linguaggio del teatro deve essere considerato qualcosa di diverso da un mezzo per condurre i personaggi umani al loro compimento esteriore. Cambiare il ruolo del discorso nel teatro significa usarlo in un senso concreto e spaziale, combinarlo con qualsiasi altro elemento del teatro. In breve, il linguaggio del teatro deve essere sempre gestuale: deve scaturire dal gesto, deve sempre recitare e non deve mai essere descrittivo. Nel momento in cui la dichiarazione si sostituisce al un processo drammatico, il teatro muore.
Ciò può apparire abbastanza avulso dai problemi della traduzione, ma io non la penso proprio così. Se nel nostro tempo non siamo in grado di dare un’idea di Eschilo, Sofocle e Shakespeare che sia davvero esplicativa di ciò che stavano cercando di conseguire col teatro, è molto probabile che abbiamo perso il senso della loro concretezza nel teatro. È perché l’aspetto attivo e direttamente umano del loro modo di parlare e muoversi, tutto il loro ritmo scenico, ci sfugge. Non è abbastanza avere i testi delle loro opere, perché nessuno di questi grandi tragediografi è il teatro stesso. Il teatro è sempre questione di materializzazione scenica nello spazio. Chiamatela «arte inferiore», se volete, ma come insiste Artaud, «il teatro risiede in un certo modo di allestire e animare l’aria del palco, attraverso una conflagrazione di sentimenti e sensazioni umane
Keeping this in mind, we must take one more step before we can deal with the specific problems of translating for the theater. And for this part of the journey we will need a new Vergil – so Antonin Artaud gives way to Mr. R. P. Blackmur, that fine gentleman and critic who has guided so many in modern criticism. I refer specifically to his essay, ‘Language as Gesture.’*
In this essay Blackmur takes us into those realms where language becomes gestural. He sees beyond the simple distinction that language is made of words and gesture is made of motion, to the reverse distinction: ‘Words are made of motion, made of action or response, at whatever remove; and gesture is made of language – made of the language beneath or beyond or alongside of the language of words.’ Working from this premise it is possible for Mr. Blackmur to consider that notion which is so important for anyone writing for the theater: ‘When the language of words most succeeds it becomes gesture in its words.’ He sees that gesture is not only native to language, but that it precedes it, and must be, as it were, carried into language whenever the context is imaginative or dramatic. Without a gestural quality in language there can be no drama. This is so since ‘the great part of our knowledge of life and nature perhaps all our knowledge of their play and interplay [their drama] – comes to us as gesture, and we are masters of the skill of that knowledge before we can ever make
a un dato punto, creando situazioni espresse in gesti concreti».
Tenendo questo in mente, prima di poter affrontare i problemi specifici della traduzione per il teatro dobbiamo fare un passo avanti. E per questa parte del viaggio avremo bisogno di un nuovo Virgilio: così Antonin Artaud cede il posto a R. P. Blackmur, quel raffinato gentleman e critico cha ha guidato molti verso la critica moderna. Mi riferisco nello specifico al suo saggio, Language as Gesture*.
In questo saggio, Blackmur ci conduce in quei regni dove il linguaggio diventa gestuale. Blackmur vede oltre la semplice distinzione per cui la lingua è fatta di parole e il gesto è fatto di moto, fino ad arrivare alla distinzione opposta: «Le parole sono fatte di moto, fatte di azione o risposta, a qualsiasi distanza; e il gesto è fatto di linguaggio – fatto di un linguaggio al di sotto o oltre o in parallelo alla lingua delle parole». Partendo da questo presupposto è possibile per Blackmur considerare quel concetto così importante per chiunque scriva per il teatro: «Quando la lingua delle parole ha più successo diventa gestuale nelle sue parole». Blackmur nota che il gesto non è solo nativo della lingua, ma la precede, e dev’essere, in un certo senso, portato nella lingua che il contesto sia immaginativo o drammatico. Senza una qualità gestuale, nella lingua non esiste dramma. È così da quando «la gran parte della nostra conoscenza della vita e della natura – forse tutta la nostra conoscenza della loro opera e interrelazione – arriva a noi come gesto, e noi siamo maestri dell’abilità di quella conoscenza prima ancora di essere
a rhyme or a pun, or even a simple sentence.’ Blackmur then goes on to define what he means by gesture in language, and I quote his definition because I believe it will be helpful to the rest of my argument. It reads:

Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward and imaged. meaning. It is that play of meaningfulness among words which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is moving, in every sense of that word: what moves the words and what moves us (Blackmur 1952)[i].

When we can capture that quality in words we will then be writing (or translating) for actors. And in the theater you write only for actors – never for readers. Even the most cursory glance at the history of the theater shows that whenever playwrights cease writing for actors the theater loses its vitality and loses its literature, too. Certainly, Shakespeare provides us with our strongest evidence on this point – but Aeschylus, Sophocles, Euripides, or Molière would do just as well. Shakespeare is the greatest dramatist in the English language and his plays are great works of literature, but he was not writing literature; he was primarily writing for actors; and, as we know, he was writing for specific actors. And this is the source of the plays’ enduring vitality. Furthermore, I would even maintain that he would never have created some of the scenes he did if he had not known the actors who were to play them and from what we know of the Greek festivals and the French theater of the seventeenth century, it is probably safe to
capaci di una rima o di un gioco di parole, o anche di una semplice frase. Blackmur poi procede definendo ciò che intende per «gesto nel linguaggio», e cito la sua definizione perché credo sarà utile al resto della mia argomentazione. Eccola:

Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward and imaged meaning. It is that play of meaningfulness among words which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is moving, in every sense of that word: what moves the words and what moves us ( Blackmur 1952)[ii].

Quando riusciamo a catturare quella qualità nelle parole staremo così scrivendo (o traducendo) per gli attori. E nel teatro si scrive solo per gli attori, mai per i lettori. Persino lo sguardo più affrettato alla storia del teatro dimostra che questo perde vitalità, e perde persino letteratura, nel momento in cui i drammaturghi smettono di scrivere per gli attori. Certamente, Shakespeare ci dà la prova più evidente su questo punto ma Eschilo, Sofocle, Euripide o Molière andrebbero altrettanto bene. Shakespeare è il più grande drammaturgo in lingua inglese e le sue opere sono grandi opere di letteratura, ma lui non stava scrivendo letteratura; lui scriveva soprattutto per gli attori; e, come sappiamo, scriveva per attori ben precisi. E questo è il fulcro della vitalità duratura delle opere. Inoltre, vorrei persino affermare che Shakespeare non avrebbe mai creato alcune delle sue scene se non avesse conosciuto gli attori che avrebbero dovuto recitarle. E per ciò che sappiamo dei festival greci e del teatro francese del Seicento, si può
assume that Sophocles had his Burbage and Molière was his own Will Kemp.
Now, the art of writing for actors has been almost totally neglected. The idea that plays are written to be performed appears to disturb many people. This attitude is, I think, largely a reaction to the acting practices of the nineteenth century, which so often proved to be little more than the sleight-of-hand of technique. Throughout the history of the theater this kind of magic can be found. The most guilty men were usually actors; often they were what are called ‘great actors.’ Then virtuoso players cannot be wholly blamed, for, with some major exceptions, during the past 150 years actors have been given everything to act except plays: pamphlets, tracts, novels, newspaper articles, and even epic poems. This forced actors –who are animals with a strong sense of self-preservation and considerable ingenuity – to abandon literary texts altogether in favor of exciting and suspenseful situations that gave them, the opportunity to exhibit their skill. This was very poor art, but extremely good business.
Although today we tend to measure an actor by his ability to achieve the fullness of the dramatist’s intention, we nevertheless regard with suspicion any play that seems to have been written primarily for actors. This is too bad, for the actor is the playwright’s most valuable means of expression.

sostenere che Sofocle aveva il suo Burbage[iii] e Molière era il suo Will Kemp[iv]
Ora, l’arte di scrivere per gli attori è stata quasi totalmente trascurata. L’idea che delle opere siano scritte per essere recitate sembra disturbare molte persone. Questo atteggiamento è, secondo me, in gran parte una reazione agli esercizi ottocenteschi di recitazione, che così spesso hanno dato prova di essere poco più che la prestidigitazione della tecnica. In ogni momento della storia del teatro si può trovare questo tipo di magia. Gli uomini più colpevoli erano solitamente attori; spesso erano quelli che venivano chiamati «grandi attori». Questi attori virtuosisti non possono essere del tutto condannati, dato che, con alcune importanti eccezioni, durante gli ultimi centocinquant’anni agli attori è stato dato da recitare di tutto tranne opere teatrali: pamphlet, trattati, articoli di giornale, e persino poemi epici. Ciò ha costretto gli attori che sono animali con un forte istinto di autoconservazione e considerevole ingegnosità ad abbandonare del tutto i testi letterari in favore di situazioni entusiasmanti e piene di suspense che davano loro la possibilità di esibire le proprie abilità. Arte molto scadente questa, ma business estremamente buono.
Anche se oggi tendiamo a misurare un attore dalla sua abilità nel raggiungere la completezza dell’intenzione del drammaturgo, ciò nonostante consideriamo con diffidenza qualsiasi opera che sembri scritta principalmente per gli attori. Questo è estremamente sbagliato, dato che gli attori sono il

The actor’s power lies in his humanity, not – as we so often suppose – in his mind, his body, his face, or even his voice. Only in the theater can the artist call on men as men to communicate, to express, and to interpret. I have never understood why the actor’s art is so often discounted because of its transience. Surely the emotional force of the actor’s performance – that quality which moves an audience – resides in the fact that it possesses a mortality of its own, that it is gone into the past as irrevocably as any human action.
It is for this reason that the actor’s concern is to achieve, not truth, but a rightness. To perfect this rightness is his job. Movement, the costumes, make-up, even the words are subsidiary. Thus what the actor demands from a play is not words in dialogue form, but a stimulus to his imagination. It is at this point that the playwright and his actors first come together, and it is important to remember that in every way the theater is a coming together. This is true of a performance and it is true of the making of that performance. It is a playwright’s vanity to claim creation because he is the first link in the chain of a production. His play would be no play if it remained words on paper.
It is for this reason that the playwright – and also the translator – cannot really be concerned with ‘good prose’ or with ‘good verse’ in the usual sense of those terms.

mezzo di espressione più valido del drammaturgo. Il potere dell’attore risiede nella sua umanità, non come supponiamo così spesso nella sua mente, nel suo corpo, nella sua faccia o addirittura nella sua voce. Solo nel teatro l’artista può rivolgersi agli uomini in quanto uomini per comunicare, esprimersi, e interpretare. Non ho mai capito il motivo per cui l’arte dell’attore venga così spesso sminuita per la sua transitorietà. Sicuramente la forza emotiva della rappresentazione dell’attore quella qualità che commuove il pubblico risiede nel fatto che possiede una propria mortalità, che è già andata nel passato irrevocabilmente come qualsiasi azione umana.
È proprio per questa ragione che la preoccupazione dell’attore è di raggiungere, non la verità, piuttosto la correttezza. Rendere perfetta questa correttezza è il suo lavoro. Il movimento, i costumi, il trucco, e persino le parole sono accessori. Ciò che quindi l’attore chiede a un’opera non sono parole in forma di dialogo, bensì uno stimolo alla sua immaginazione. È a questo punto che il drammaturgo e i suoi attori convengono per la prima volta, ed è importante ricordare che il teatro è sempre un convenire. Questo è vero per la rappresentazione ed è vero per la creazione di tale rappresentazione. Essendo il commediografo il primo anello della catena della produzione, è una sua vanità rivendicarne la creazione. La sua opera non sarebbe mai un’opera teatrale se rimanesse solo parole su carta.
È per tale ragione che il commediografo – e anche il traduttore – non possono davvero preoccuparsi della “buona prosa” o del “buon verso” nel senso comune delle parole.
The structure is action; not what is said or how it is said but when. For example, the use of soliloquies, choral passages, stichomythia, indirect dialogue and pauses, to mention but a few of the structural uses of dramatic language. By this method it is possible to control from within the text of the play the speed and exact rhythm which are usually imposed by the director. Only by realizing the plays theatrical dynamic in this way, can the actors see the dramatic shape of an individual part within a scene and not be forced to rely on an intuitive sense which is often false and sometimes leads to distortion.
The basic, the unalterable, factor of drama is the moment ‘when,’ and the dramatist’s first concern must be with this moment of action. If he does not, as so often is the case, it will be imposed by the director or the actors. In other words, the dramatist must create not only the dialogue, but what is done and when.
Recently, playwrights and critics alike have been greatly concerned with the question of style in writing for the theater. Invariably, such inquiries deal with the form of the spoken word. This is a mistake, for words are not the starting point. The great hope for our theater is that today our new playwrights are finally sensing this. We must concern ourselves first with the gestures that supply the motives behind the words. This calls to mind that old and only partly humorous adage of the theater: Never pay attention to the playwright’s

La struttura è azione; non cosa viene detto né come viene detto, bensì quando. Per menzionare solo alcuni degli usi strutturali del linguaggio drammatico, per esempio l’uso di soliloqui,soliloqui, passaggi corali, sticomitia, dialogo indiretto e pause. Attraverso questo metodo, è possibile controllare dall’interno del testo dell’opera la velocità e il ritmo esatto che solitamente sono imposti dal regista. Soltanto capendo la dinamica teatrale dell’opera in questo modo, gli attori possono vedere la forma drammatica della parte individuale all’interno di una scena, invece di essere costretti ad affidarsi a un’intuizione che spesso è falsa e qualche volta porta a un’alterazione.
Il fattore fondamentale, inalterabile del dramma è il “quando”, e la prima preoccupazione del drammaturgo deve essere questo momento dell’azione. Se non se ne cura, ed è il caso più frequente, saranno il regista o gli attori ad imporlo. In altre parole, il drammaturgo deve creare non solo il dialogo, ma anche quello che viene fatto e quando.
Recentemente, commediografi e critici in egual misura si sono occupati della questione dello stile dello scrivere per il teatro. Invariabilmente, tali ricerche hanno a che fare con la forma della parola parlata. Questo è però un errore, dato che il punto di partenza non sono le parole. Oggi i nostri nuovi commediografi hanno finalmente questa percezione e ciò rappresenta la grande speranza per il nostro teatro. Dobbiamo noi stessi preoccuparci in primis dei gesti che producono i motivi che stanno dietro le parole. Ciò richiama alla mente quella vecchia e in parte umoristica massima del teatro:
stage directions. (In this regard it is interesting to note, and I think it is to my point, that there are no stage directions other than entrances and exits in the plays of the Greeks, or Shakespeare, or Molière. The motive, meaning, and gestures were in the words themselves.) In the modern theater those stage directions, however, are the dramatist’s first means of communication with his actors. They must never presume to take the place of the director’s ‘blocking’ by telling the actor where to move or how to sit. Nor must they instruct the actor how to read the lines – ‘pensively,’ ‘bitterly,’ ‘joyfully.’ (One is reminded at this point of Eugene O’Neill, whose ‘flat’ language had practically no emotive quality. As a result it was necessary for him to prefix nearly every speech with a stage direction to indicate how the actor should read words which had no emotional power of their own.) They must augment the words to be spoken. The stage directions are guidelines of motive and action throughout the individual parts, and when realized in performance they are as much part of the play as the words the actors speak.
By this time the reader may be wondering if I am aware that my subject is translation and not playwriting. I am, believe me; but I feel very strongly that no one can translate for the theater – just as no one can write for it – unless he knows what writing for the theater is and how it differs from literature.

Mai prestare attenzione alle indicazioni sceniche del commediografo. (In questo senso è interessante notare, e penso sia il fulcro del mio discorso, che nelle opere greche, o di Shakespeare, o di Molière non esistono indicazioni sceniche, se non entrate e uscite di scena. Il motivo, il significato e i gesti si trovano nelle parole stesse). Nel teatro moderno, comunque, le indicazioni sceniche sono il primo mezzo di comunicazione tra il drammaturgo e i suoi attori. Tali indicazioni non devono mai permettersi di sostituirsi al blocco[v] del regista dicendo all’attore dove muoversi o come sedersi. E neppure devono istruire l’attore su come leggere le battute “pensierosamente”, “amaramente”, “allegramente”. (Si ricorda a questo punto Eugene O’Neill, il cui linguaggio “piatto” non aveva praticamente nessuna qualità emotiva. Di conseguenza è stato necessario per lui aggiungere un prefisso vicino a ogni dialogo con un’indicazione di scena per indicare come l’attore avrebbe dovuto leggere le parole, che di per sé non avevano alcun potere emozionale). Le indicazioni sceniche devono aumentare le parole da dire. Sono delle linee guida di tema e azione tra le parti individuali, e qualora realizzate nella rappresentazione diventano parti dell’opera come lo sono le parole che l’attore pronuncia.
A questo punto il lettore potrebbe chiedersi se io sia consapevole del fatto che il mio argomento è la traduzione e non la stesura di opere teatrali. Lo sono, credetemi; tuttavia credo davvero fortemente che nessuno sia in grado di tradurre per il teatro – e che nessuno possa scrivere per esso – se non sa cosa significa scrivere per il teatro e come ciò si differenzia
In fact, I would go so far as to say that good translations of plays will never come from those who have not had at least some training in the practice of theater. Without such training the tendency will be to translate words and their meanings. This practice will never produce performable translations, and this is, after all, the purpose of doing the job in the first place.
This leads us to our final consideration. Granted that translating for actors is a different undertaking, what are its specific problems and techniques?
The first law in translating for the theater is that everything must be speakable. It is necessary at all times for the translator to hear the actor speaking in his mind’s ear. He must be conscious of the gestures of the voice that speaks – the rhythm, the cadence, the interval. He must also be conscious of the look, the feel, and the movement of the actor while he is speaking. He must, in short, render what might be called the whole gesture of the scene. To do this it is important to know what words do and mean, but it is more important to know what they cannot do at those crucial moments when the actor needs to use a vocal or physical gesture. Only in this way can the translator hear the words in such a way that they play upon each other in harmony, in conflict, and in pattern – and hence as dramatic. I suppose what I am saying is that it is necessary almost to direct the play, act the play, and see the play while translating it.
I first became interested in translating for the theater out of practical necessity. Several years ago I was asked to direct a

dalla narrativa. Procederei dunque a sostenere che non scaturiranno mai buone traduzioni di opere teatrali da coloro che non abbiano avuto una certa formazione nella pratica del teatro. Senza tale formazione la tendenza sarebbe quella a tradurre le parole e i loro significati. Questa pratica non produrrebbe mai traduzioni recitabili, che è, in fondo, lo scopo di questo lavoro in prima istanza.
Questo ci porta alla nostra considerazione finale. Tenuto conto che tradurre per gli attori è un’impresa diversa, quali sono le tecniche e i problemi specifici?
La prima regola della traduzione per il teatro è che ogni cosa deve essere parlabile. È sempre necessario per il traduttore udire mentalmente l’attore parlare. Deve essere consapevole dei gesti della voce che parla, il ritmo, la cadenza, l’intervallo. Deve altresì essere consapevole dell’aspetto, del sentire, del movimento dell’attore mentre sta parlando. Deve, in breve, rendere ciò che può essere chiamato l’intero gesto della scena. Per fare ciò è importante sapere cosa fanno le parole e cosa significano, ma è ancora più importante sapere cosa non possono fare in quei momenti cruciali in cui l’attore ha bisogno di usare un gesto vocale o fisico. Solamente in questo modo il traduttore riesce a sentire le parole nel modo in cui si indirizzano l’una alle altre in armonia, in conflitto, e secondo uno schema e quindi come teatrali. Quello che dico, forse, è che è necessario piuttosto che dirigere un’opera, recitare l’opera, e osservarla mentre la si sta traducendo.
Mi sono interessato alla traduzione per il teatro per necessità pratica. Diversi anni fa mi è stato chiesto di dirigere
production of Chekhov’s Uncle Vanya. I had a superb cast and decided to use what is generally regarded as the best translation of Chekhov. The initial reading rehearsals were miserable. At first I thought this was the usual thing and the actors would get over their stiffness. After all, the translation made logical sense. But soon – I had the good, but unusual, fortune to have three months in which to do the show – the actors unconsciously began revising the speeches. They sounder better; there was a flow. Now, traditionally, Chekhov plays are thought of as moody, complex, soulful, vague, and impossible to perform successfully on the American stage. But my actors were giving evidence that this was not necessarily so. It was then that I recalled Chekhov’s troubles with Stanislavski and how the playwright always insisted that the great director-actor was complicating what was very simple.*
And I realized too that the translations were not expressing this simplicity upon which Chekhov insisted. Instead of the text’s ‘But what for?’ the translation had ‘though what his provocation may be I can’t imagine.’ Or ‘There is another thing

una produzione di Čehov, Дядя Ваня [Zio Vanâ]. Avevo un cast eccellente e decisi di utilizzare quella che è generalmente considerata la traduzione migliore di Čehov. Le prove di lettura iniziali furono pietose. All’inizio credevo che ciò fosse consuetudine e che gli attori avrebbero superato la rigidità. Dopo tutto, la traduzione aveva un senso logico. Ma ben presto – avevo la grande, anche se inusuale, fortuna di contare su tre mesi per preparare lo spettacolo – gli attori inconsciamente si misero a rivedere le battute. Suonavano meglio, v’era un flusso. Ora, le opere di Čehov sono tradizionalmente pensate come volubili, complesse, profonde, vaghe e impossibili da riproporre con successo sul palcoscenico americano. Tuttavia i miei attori stavano dimostrando che non era necessariamente così. Fu allora che ricordai i problemi di Čehov con Stanislavskij e come il commediografo abbia sempre insistito che il grande regista-attore stava complicando ciò che in realtà era molto semplice*. E ho capito inoltre che le traduzioni non stavano esprimendo quella semplicità su cui Čehov insisteva. Invece del «But what for?» del testo, la traduzione riportava «though what his

too – you take a drop of vodka now,’ when all Chekhov wrote was: ‘And you drink too.’ Or finally, ‘as if the field of art were not large enough to accommodate both new and old without the necessity of jostling;’ he wrote: ‘but there’s room for all.’
Then, the light dawned. The meaning and complexity of his plays – and they are extremely dense – has to be achieved indirectly. When Chekhov wrote,

The demand is made that the hero and the heroine (of a play) should be dramatically effective. But in life people do not shoot themselves, or hang themselves, or fall in love, or deliver themselves of clever sayings every minute. They spend most of their time eating, drinking, running after women, or men, or talking nonsense. It is therefore necessary that this should be shown on the stage. A play ought to be written in which the people should come and go, dine, talk of the weather, or play cards, not because the author wants it but because that is what happens in real life. Life on the stage should be as it really is and the people, too, should be as they are and not stilted.

he was trying to tell us that his dramatic actions are all enclosed by a very simple and inconsequential frame. The surfaces of life are apparently reproduced with all their natural and familiar inanity. There is very little that is dramatic in the events themselves. What makes these episodes powerful theater is the way they are combined, the sequences, the underlying associations and complications, the contrasts and ironies. It is in this way that the profound meanings are created. But if this is true of his dramaturgy, it must be equally

provocation may be I can’t imagine». Oppure «There is another thing too you take a drop of vodka now», quando Čehov aveva
scritto semplicemente: «And you drink too». Oppure, infine, «as if the field of art were not large enough to accommodate both new and old without the necessity of jostling»; lui aveva scritto: «but there’s room for all».
Poi, ecco un’illuminazione. Il significato e la complessità delle sue opere – e ne sono estremamente – ricche devono essere raggiunti indirettamente. Quando Čehov scrisse

Si richiede che l’eroe e l’eroina (di un’opera) siano drammaticamente efficaci. Solo che nella vita reale le persone non si sparano addosso, né s’impiccano, né s’innamorano, né riportano a sé stesse proverbi ogni momento. Trascorrono la maggior parte del tempo mangiando, bevendo, rincorrendo donne, o uomini, oppure dicendo sciocchezze. È pertanto necessario che questo venga mostrato sul palcoscenico. In un’opera dev’esserci scritto che le persone vanno, vengono, cenano, parlano del tempo o giocano a carte non perché l’autore lo voglia ma perché questo è ciò che succede nella vita reale. La vita sul palcoscenico dev’essere com’è davvero, e anche le persone devono essere come sono, e non artificiose.

stava cercando di dirci che le sue azioni drammatiche sono tutte racchiuse in una cornice banale e molto semplice. I piani della vita in apparenza sono riprodotti in tutta la loro familiare e naturale stupidità. Negli eventi in sé e per sé c’è ben poco di drammatico. Ciò che fa di questi episodi un teatro ricco di forza è la peculiare combinazione di sequenze, associazioni implicite e complicazioni, contrasti e ironie. È in questo modo che si creano i significati profondi. Ma se ciò vale per la drammaturgia, deve
true of the speech. It was then that I saw that the translation must be easy and natural on the surface. The inner meanings and profundities should appear – and would only appear as theater rather than statement – through the interaction of surface simplicities and not through complex or vague lines, not through what Stark Young has called a ‘muggy, symbolic, swing-on­to-your-atmosphere sort of tone.’
Perhaps I can make my point with one example. In the third act of Uncle Vanya there is a long speech by Professor Serebryakov, that stuffy pedant who has spent a lifetime rehashing other people’s ideas about the ‘isms’ of literature, and who now projects his own inadequacy and unconscious sense of failure onto those about him with acts of cruelty. In this speech he announces his plan to sell the estate that Vanya has worked so hard to keep productive. I take what seems to me the best of the translations of this speech:
Here is maman. I will begin, friends (a pause). I have invited you, gentlemen, to announce that the Inspector-General is coming. But let us lay aside jesting. It is a serious matter. I have called you together to ask or your advice and help, and, knowing your invariable kindness, I hope to receive it. I am a studious, bookish man, and have never had anything to do with practical life. I cannot dispense with the assistance of those who understand it, and I beg you, Ivan Petroviĉ, and you, Ilâ Iliĉ, and you, maman. . . . The point is that manet omnes una nox that is, that we are all mortal. I am old and ill, and so I think it is high time to settle my

valere anche per le battute. Mi resi insomma conto che la traduzione doveva essere apparentemente facile e naturale. I significati interni e le profondità possono e devono apparire solo in forma teatrale e non dichiarativa, per mezzo di interazioni di semplicità superficiali e non battute complesse o vaghe, né di quello che Stark Young ha chiamato una «muggy, symbolic, swing-on-to-your-atmosphere sort of tone».
Forse posso arrivare al punto con un esempio. Nel terzo atto di Zio Vanâ vi è un lungo discorso del professor Serebrâkov, quel retrogrado pedante che ha trascorso tutta una vita a rimasticare le idee altrui sugli “ismi” della letteratura, e che ora proietta la propria inadeguatezza e il proprio inconsapevole senso di fallimento con atti di crudeltà contro chi gli sta vicino. In questo discorso annuncia il suo piano di vendere la tenuta che Vanâ ha lavorato così duramente per mantenere produttiva. Prendo quella che mi sembra la migliore traduzione di questo discorso:
Here is maman. I will begin, friends (a pause). I have invited you, gentlemen, to announce that the Inspector-General is coming. But let us lay aside jesting. It is a serious matter. I have called you together to ask for your advice and help, and, knowing your invariable kindness, I hope to receive it. I am a studious, bookish man, and have never had anything to do with practical life. I cannot dispense with the assistance of those who understand it, and I beg you, Ivan Petroviĉ, and you, Ilâ Iliĉ, and you, maman. . . . The point is that manet omnes una nox that is, that we are all mortal. I am old and ill, and so I think it is high time to settle my

worldly affairs so far as they concern my family. My life is over. I am not thinking of myself, but I have a young wife and an unmarried daughter (a pause). It is impossible for me to go on living in the country. We are not made for country life. But to live in town on the income we derive from this estate is impossible. If we sell the forest, for instance, that’s an exceptional measure which we cannot repeat every year. We must take some steps which would guarantee us a permanent and more or less definitive income. I have thought of such a measure, and have the honour of submitting it to your consideration. Omitting details I will put it before you in rough outline. Our estate yields on an average not more than two per cent on its capital value. I propose to sell it. If we invest the money in suitable securities, we should get from four to five per cent, and I think we might even have a few thousand roubles to spare for buying a small villa in Finland.

In the first place, even Houdini couldn’t cut through some of those constructions and no actor could say the lines convincingly. But more important, the translation misses the whole tone and meaning of the situation. Here is a bad professor giving a lecture or a talk to the Rotary Club. All the mannerisms of the podium – the bad jokes, the phrases, the outline method, the pedantic attempts not to be pedantic – are cut out or submerged in the wrong kind of verbiage. Also, the translation misses the rhetorical quality of the speech – the dramatic way the speaker sees himself. As T. S. Eliot has

worldly affairs so far as they concern my family. My life is over. I am not thinking of myself, but I have a young wife and an unmarried daughter (a pause). It is impossible for me to go on living in the country. We are not made for country life. But to live in town on the income we derive from this estate is impossible. If we sell the forest, for instance, that’s an exceptional measure which we cannot repeat every year. We must take some steps which would guarantee us a permanent and more or less definitive income. I have thought of such a measure, and have the honour of submitting it to your consideration. Omitting details I will put it before you in rough outline. Our estate yields on an average not more than two per cent on its capital value. I propose to sell it. If we invest the money in suitable securities, we should get from four to five per cent, and I think we might even have a few thousand roubles to spare for buying a small villa in Finland.

Innanzitutto, neppure Houdini sarebbe riuscito a fare tagli a questi costrutti e nessun attore sarebbe riuscito a suonare convincente. Ma, cosa più importante, alla traduzione mancavano il tono e significato della situazione nell’insieme. Qui c’è un cattivo professore che tiene una conferenza o una concione al Rotary Club. Tutti i manierismi da podio gli scherzi, le espressioni di cattivo gusto, il metodo del riassunto, i pedanti tentativi di non essere pedante, sono scartati o sottomessi a una prolissità di natura sbagliata. In più, alla traduzione manca la qualità retorica della battuta – il modo teatrale in cui

pointed out in his essay, ‘Rhetoric and Poetic Drama,’ this kind of rhetoricizing is common to us all and can be of great help to the modern dramatist in that it permits the audience to see a character not only as the other characters see him, but as the character consciously dramatizes himself. Rather the speech should read:
Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am not thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to which we could not resort every year. We must work out some method of guaranteeing ourselves a permanent, and . . . ah, more or less fixed annual income. With this object in view, a plan has occurred to me which now I have the honour of proposing to you for your

l’oratore vede sé stesso. Come T. S. Eliot ha puntualizzato nel saggio Rhetoric and Poetic Drama, questo modo di fare retorica è comune a noi tutti e può essere di grande aiuto al drammaturgo moderno perché permette al pubblico di vedere un personaggio non solo come viene visto dagli altri personaggi, ma come lo stesso personaggio consapevolmente drammatizza sé stesso. Il discorso invece dovrebbe essere:

Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to which we could not resort every year. We must work out some method of guaranteeing ourselves a permanent, and . . . ah, more or less fixed annual income. With this object in view a plan has occurred to me which I now have the honor
consideration. I shall give you only a rough outline of it, omitting all the othersome and trivial details. Our estate does not yield, on an average, more than two per cent on the investment. I propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should probably have a surplus of several thousand roubles, with which we could buy a small villa in Finland . . . .

It is only when the sense of speakability is achieved that we have theater. I am sure that this is one of the things Hamlet meant when he advised the players: ‘Speak the speech, I pray you. . . . trippingly on the tongue.’ To achieve this I think translators fail to use an important source – namely, the actors themselves. I have directed all of my translations of Chekhov and time and time again the actors have made or suggested changes that have improved the translation a great deal. First, two examples of minor changes made by actors which didn’t do much more than improve the flow of the words. Originally, I had ‘It is too stifling.’ The actor changed it to ‘The day is too hot.’ Or changing ‘will they remember us in a kindly spirit?’ to ‘will they remember us with grateful hearts?’ But actors can also make changes that alter the whole dynamic of a scene. When I directed The Three Sisters, I tried without success for three weeks to get the final scene of the third act to build properly – in fact merely to build at all. My three sisters were fine actresses and all had had good professional training and

of proposing to you for your consideration. I shall give you only a rough outline of it, omitting all the othersome and trivial details. Our estate does not yield, on an average, more than two per cent on the investment. I propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should probably have a surplus of several thousand roubles, with which we could buy a small villa in Finland . . . .

Si ha teatro solo quando si ottiene il senso della parlabilità. Sono sicuro che questa è una delle cose che intendeva Hamlet quando raccomandava ai suoi attori: «Speak the speech, I pray you… trippingly on the tounge». In vista di tale obiettivo penso che i traduttori sbaglino nell’utilizzo di una risorsa importante: gli attori stessi. Ho diretto personalmente tutte le mie traduzioni di Čehov e, di volta in volta, gli attori hanno sempre fatto o suggerito modifiche che hanno migliorato molto la traduzione. Innanzitutto, due esempi di modifiche minime apportate dagli attori che non hanno fatto altro che migliorare il flusso delle parole. Originariamente avevo «It is too stifling». L’attore ha proposto «The day is too hot». Altrove «will they remember us in a kindly spirit?» è dicentato «will they remember us with grateful hearts?» Tuttavia gli attori possono fare modifiche che alterano l’intera dinamica di una scena. Quando ho diretto Три сестры [Tre sorelle], per tre settimane ho cercato invano di costruire l’ultima scena del terzo atto in modo degno, o almeno di costruirla. Le mie tre sorelle erano ottime attrici e tutte avevano avuto una buona

experience. I knew the build had to begin in one of Irina’s speeches, but nothing happened. Then on night she took the speech her way and the whole scene came to life; we achieved what we wanted. It was only afterwards that I. realized she had changed one of the lines and it was this change that made the speech and hence the rest of the scene dramatic. Originally, the line read, ‘Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!’ The actress changed it to: ‘I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not work,’ and in this way she got a structure that could be vocally built. Obviously, I am not suggesting that irresponsible changes be made or changes that alter the meaning of a speech. But an actor – in having to say the line – may be of great service to the translator in making the text more actable.
In addition to making the text speakable, the translator must also be prepared to lose things. Clearly, all translations are necessarily imperfect. As Eric Bentley said, ‘If life begins on the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of impossibility!’ This is particularly true of Chekhov since his plays are so finely textured and depend on many peculiarly Russian traits. For example, there is the watchman’s rattle in the second act of Uncle Vanya. This is a perfectly realistic touch, but it also functions as a symbol for the action. It is used at that crucial time at the end of the act when Yelena and Sonya have just had an honest talk with each other and

esperienza e formazione professionale. Sapevo che la costruzione doveva avere inizio con uno dei discorsi di Irina, ma non ne veniva nulla di buono. Poi una sera l’attrice ha impostato il discorso a modo suo e la scena ha preso forma; era quello che volevamo. Solo in séguito mi sono reso conto che aveva cambiato una delle battute, e proprio questa modifica aveva trasformato il discorso, e quindi il resto della scena, in drammatico. La battuta originale era «Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!» l’attrice aveva invece detto «I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not work», ottenendo in questo modo una struttura che poteva essere costruita con la voce. Ovviamente, non sto suggerendo di fare modifiche azzardate o modifiche che alterino il significato del discorso. Semmai che un attore – nel dire la battuta – può essere di grande aiuto al traduttore per rendere il testo più recitabile.
Oltre a rendere il testo più parlabile, il traduttore deve anche essere disposto a lasciare un residuo. Chiaramente, tutte le traduzioni sono necessariamente imperfette. Come diceva Eric Bentley, «If life begins on the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of impossibility!» Ciò è particolarmente vero per Čehov, dato che le sue opere sono finemente intessute e si fondano su tratti specifici della cultura russa. Per esempio, nel secondo atto dello Zio Vanâ vi è il battere del guardiano. È un tocco perfettamente realistico, ma funziona anche da simbolo per l’azione. Viene usato in quel momento cruciale della fine dell’atto, quando Elena e Sonâ si
because of it, are capable of some feeling. The windows are open, it has been raining – and everything is clean and refreshed. Yelena thinks she can play the piano again. As Sonya goes to get permission, the watchman’s rattle is heard, Yelena has to shut the window, and Serebryakov says ‘no.’ Their whole life of feeling has been protected by a watchman to the point that they have no feelings left. But in production when the rattle is used, the audience – instead of seeing its significance – thinks the pipes in the auditorium are rattling. The same kind of thing is true of the many topical allusions in The Three Sisters. The only way you can make these understandable is to write footnotes or a program note. Heaven forbid that we should de either. If the plays are done properly, however, these effects will have an impact on the audience’s senses if not their understanding.
But there are some things that are lost that need not be. For instance in all of the published translations of Uncle Vanya the shooting is botched. The typical translation reads:
Let me go, Helen, Let me go! (Looking for Serebryakov)
Where is he? Oh, here he is! (Fires at him) Missed!
Missed again! (Furiously) Damnation – damnation take it
. . . (Flings revolver on the floor and sinks onto a chair, exhausted).

Not one translator has seen that in the Russian Vanya does not fire the gun, but he says ‘Bang!’ He has become so incapable of action that even when his whole life is at stake he
sono appena parlate con franchezza, e proprio per questo sono capaci di un certo sentimento. Le finestre sono aperte, piove e tutto è pulito, rinfrescato. Elena pensa di poter riprendere a suonare il pianoforte. Quando Sonâ va a chiedere il permesso, si sente il battere del guardiano, Elena deve chiudere la finestra e Serebrâkov dice «no». Tutta la loro vita sentimentale scorre protetta da un guardiano, al punto che non è rimasto loro alcun sentimento. Tuttavia, quando nell’allestimento vengono riprodotti quei colpi, il pubblico stenta a scorgerne l’importanza pensando che il rumore venga dalle tubazioni dell’auditorium. Lo stesso vale per molte allusioni culturali di Tre sorelle. L’unico modo per renderle comprensibili è scrivere delle note a piè pagina o un programma di sala. Dio non voglia che facciamo né l’uno né l’altro. Se le opere sono allestite come si deve, questi effetti avranno comunque un impatto sui sensi del pubblico, se non la sua comprensione.
Tuttavia c’è un residuo che andrebbe evitato. Per esempio, in una delle traduzioni pubblicate di Zio Vanâ la scena dello sparo è resa male. La versione diffusa è:

Let me go, Helen, Let me go! (Looking for Serebryakov)
Where is he? Oh, here he is! (Fires at him) Missed!
Missed again! (Furiously) Damnation – damnation take it
. . . (Flings revolver on the floor and sinks onto a chair, exhausted).

Nessun traduttore s’è accorto che nel testo russo Vanâ non preme il grilletto della pistola, ma dice «Bang!». È ormai
cannot act but substitutes words.
Here is a case where the meaning of the play has been drastically changed by the translator’s failure to see that Chekhov’s conception of that ghastly moment is truer than our more simple-minded logic.
The last point I want to make is that in addition to being written for actors, translations must be good English. I do not wish to get involved in the controversy over free or literal versions, but obviously the translator must not feel he has to have a word for word correspondence. If you translate literally into French, ‘For crying out loud’ you will not have translated it. I think Bentley is right when he says:
Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation ­ unless the original is in bad German, bad French, or what have you.

But in making it good English one must always try to do it in the playwright’s way. Where he uses repetitions we must use them too and not discount him as wordy. After all, in Macbeth’s ‘Tomorrow and tomorrow and tomorrow,’ it is not at all the meaning the words have that counts, but the meaning that repetition in a given situation makes them take on. The

talmente incapace di agire che nemmeno quando è in gioco la vita riesce ad agire, e ripiega sulle parole.
È un caso in cui il senso dell’opera viene drasticamente alterato perché il traduttore non si accorge che la visione čehoviana di quel momento orrendo è più vera di qualsiasi logica semplicistica.
L’ultimo punto del mio discorso è che, oltre a essere rivolta agli attori, la traduzione dev’essere scritta in buon inglese. Non mi lascio coinvolgere nella diatriba versione libera versus versione filologica, ma è evidente che il traduttore non deve necessariamente perseguire la corrispondenza parola per parola. Se si rendesse parola per parola in francese «For crying out loud!», non lo si tradurrebbe. Credo che Bentley abbia ragione quando sostiene:

Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation unless the original is in bad German, bad French, or what have you.

Tuttavia, nel rendere un buon inglese, si deve sempre cercare di farlo alla maniera del commediografo. Quando questi usa ripetizioni, dobbiamo usarle anche noi, non screditarlo come prolisso. Dopo tutto, nel «Tomorrow and tomorrow and tomorrow» di Macbeth quello che conta non è certo il significato delle parole, ma il senso che assumono nella

same with all the other gestures of language – puns, rhymes, alliteration. Or, when a playwright wrongly paraphrases another author or a song, the translator should not correct the author’s mistake. Chekhov, for instance, constantly has his characters quote Shakespeare – but the quotation is usually wrong. The meaning is in the wrongness. But Chekhov’s well-intentioned translators have always felt that poor Anton Pavelovich didn’t know English very well and so they helped out by correcting his faulty efforts. Finally, it is important to remember that duration per se in stage speech is a part of its meaning, and stage time is based upon the breath. This means that the translator must always, whenever he can, try to keep the same number of words in each sentence.
Let me close by saying that if we always remember that the language of the stage must appear as necessity, as a result of a series of compressions. collisions, scenic frictions, and evolutions, then it will be right, for it will be gestural. ‘Language as gesture,’ as Mr. Blackmur revealed, ‘creates meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the inner bite, of things forced together,’ and this is the conflict we call dramatic, the conflict most at home in the theater.

ripetizione in quel contesto. Lo stesso vale per tutti gli altri gesti della lingua, giochi di parole, rime, allitterazioni. Oppure, quando un commediografo cita un autore o una canzone sbagliando, il traduttore non deve correggere l’errore dell’autore. Čehov, per esempio, fa continuamente citare ai suoi personaggi Shakespeare ma di solito sono citazioni sbagliate. Il senso sta nella loro inesattezza. Ma i traduttori benintenzionati di Čehov hanno sempre ritenuto che il povero Anton Pavlovič non sapesse molto bene l’inglese, e gli sono quindi andati in soccorso correggendo i suoi tentativi imperfetti. Infine, è importante ricordare che nel discorso teatrale la durata fa parte del senso complessivo, e che nella scrittura teatrale i tempi sono scanditi dal respiro. Quindi potendo il traduttore deve mantenere invariato il numero delle sillabe della battuta.
Lasciatemi dire in conclusione che, se terremo sempre presente che il linguaggio teatrale deve apparire come una necessità, come risultato di una serie di compressioni, collisioni, frizioni sceniche ed evoluzioni, funzionerà, perché sarà gestuale. «Language as gesture», come rivelava Blackmur, «creates meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the inner bite, of things forced together», e questo è il conflitto che noi definiamo «drammatico», il conflitto che si sente più a suo agio nel teatro.

2.1. Riferimenti bibliografici

Čehov, A. 1991 Zio Vanja, Torino: Einaudi

Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore, Milano: Hoepli.

Pavis, P. 1998 Dizionario del teatro, edizione italiana a cura di Paolo Bosisio, Bologna: Zanichelli.

Peja, L. 2004 La supermarionetta , articolo disponibile nel sito http://www.piccoloteatro.org/elementi/articolo.php?idRub=4&news=78 Milano: Annamaria Cascetta, ultimo aggiornamento aprile 2004, consultato nel febbraio 2009.

Schino, M. 2001, «Teorici, registi e pedagoghi» in Storia del teatro Einaudi, vol. III, Torino: Einaudi.

[1] Boselli nel suo saggio riporta come esempio l’aneddoto di Peter Arnott che nel 1961 raccontava delle “triennal perfomances at Cambridge…piously attended by delegations of classicists who occasionally lift their eyes from the texts in their hands to observe the action going forward on the stage”.
* Published in Accent in 1943 and then reprinted in a book with the same title in 1952.

* Pubblicato in Accent nel 1943 e poi ristampato in un libro con lo stesso titolo nel 1952.
* In fact, I would go so far as to say that Stanislavski and the tradition of The Moscow Art Theater have probably done more to distort our ideas about Chekhov than any other person or group. Which suggests that the translator should at all times be a critic. It is no accident, it seems to me, that the best translations in the oft-mentioned ‘Chicago’ Greek tragedies were done by the two best critics of Greek tragedy in our time. And in saying this, I suddenly realize that I have just created a kind of Craig-ian Übermarionette: The translator is writer, director, actor, audience, and now he is the critic, too. What do we need a theater for? If translators will all unite, the theater can be made obsolete in a fortnight and all our problems will be solved.
* Infatti, azzarderei a dire che Stanislavskij e la tradizione del Teatro dell’arte di Mosca hanno probabilmente fatto molto più di chiunque altro individuo o gruppo per distorcere la nostra idea su Čehov. Cosa che suggerisce quanto il traduttore debba essere sempre un critico. Non è un caso, a mio parere, che le migliori traduzioni delle tragedie greche spesso menzionate “Chicago” siano state realizzate da due dei migliori critici di tragedia greca dei nostri tempi. E dicendo questo, capisco improvvisamente che ho appena creato una specie di Craig-hiana Übermarionette [Supermarionetta]: il traduttore è scrittore, regista, attore, spettatore, e ora persino critico. A cosa ci serve un teatro? Se tutti i traduttori si unissero, il teatro potrebbe essere definito desueto ogni quindici giorni e tutti i nostri problemi sarebbero risolti.

Note

[ii] Blackmur R. P. 1952, Language as Gesture, New York.

[iii] Richard Burbage (1568-1619). Figlio dell’impresario James Burbage. Amico di William Shakespeare e suo collega attore nelle compagnie delle corti elisabettiane. Fu primo attore, infatti, dei The Lord Chamberlain’s Men [“servi del Lord Ciambellano], la compagnia teatrale per la quale Shakespeare componeva.

[iv] William Kempe (1560-1603). Attore teatrale e ballerino britannico, esperto nelle parti clownesche e considerato per questo l’erede naturale di Richard Tarlton. Kempe fu danzatore comico di giga e si produsse al Globe Theatre con la compagnia teatrale di Shakespeare, The Lord Chamberlain’s Men.

[v] Si definisce «blocking» o «staging»: «the precise moment-by-moment movement and the grouping of actors on stage». Il blocco consiste nelle posizioni statuarie di forze contrapposte assunte dagli attori sul palcoscenico per raggiungere un equilibrio. Trasposto nel movimento, significa controllo assoluto di tutte le sezioni del corpo da parte dell’attore. Il concetto si rifà alla concezione di Übermarionette [Supermarionetta] di Edward Gordon Craig, che vede l’attore come una marionetta, appunto, che si affida al regista, previo studio e controllo del proprio corpo. «L’artista (o la Supermarionetta) è l’attore che si preoccupa di ricordare nei dettagli, e di ripetere sempre uguale, il proprio percorso fisico e verbale. È l’attore capace, così, di creare un materiale paradossalmente solido, su cui il regista, quando ci sarà, potrà lavorare» [Schino 2001: 71]