Category Archives: L’Altiero

Metaesistenza, metafarina, metalinguaggio

La maggior parte di noi usa le parole come strumenti, non come oggetti di pensiero: non usiamo il metalinguaggio. In questo le parole sono subdole, perché fanno finta di essere strumenti puri, ma invece hanno una direzione loro, conferiscono una direzione ideologica alle cose che noi vogliamo dire, spesso a nostra insaputa. «Non volevo dire quello, sono state le parole a farmelo dire».
Quante volte abbiamo sentito dire, o detto, «crisi esistenziale». La locuzione si riferisce a uno stato d’animo in cui è possibile trovarsi, nel quale ci si focalizza sullo scopo della propria esistenza e si fatica a capire quale possa essere, quindi si fatica a esistere. La metaesistenza mette in crisi l’esistenza.
A prima vista, senza fare una riflessione sul metalinguaggio, siamo portati a credere che «esistenzialismo» vada invece d’accordo con «esistenza».

Crisi esistenziale di un

 

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La differenza tra linguaggio e metalinguaggio si può illustrare facilmente con l’esempio della pasta.
impasto e farina come metalinguaggio
Faccio la pasta. Prendo il tagliere. Ci metto sopra la farina, a fontana. Rompo un uovo all’interno. Comincio a mescolare uovo e farina, che diventa un impasto. L’impasto è umido, tende ad attaccarsi al tagliere. A un certo punto, prendo dell’altra farina [attenzione! sembra un passo scialbo dell’intreccio invece è determinante!] e la spargo sul tagliere perché mi faccia da cuscinetto tra l’impasto e il tagliere, e l’impasto non si appiccichi.

Farina e metafarina (linguaggio e metalinguaggio)

La farina quindi svolge due funzioni: la prima è di ingrediente, la seconda è di metaingrediente (come il metalinguaggio): come ingrediente si mescola all’uovo per formare la pasta; come metaingrediente serve da strato di delimitazione della pasta, ma non si mangia: alla fine, la farina che ho usato sul tagliere per non far appiccicare l’impasto si butta via rimuovendola con un coltello.
Così è la parola «esistenziale»: la uso e mi serve a comunicare (linguistica). Poi però prendo altre parole (come la farina sparsa sul tagliere) per riflettere sulla parola «esistenziale». E scopro che l’esistenza è possibile in modo fluido quando non ci rifletto troppo, quando non faccio pensieri esistenziali.

Esistenza o suicidio?

Esistenziale non rimanda alla vita (esistenza), ma alla morte, al tentato suicidio. L’esistenza, per noi che siamo animali metaconsapevoli, consapevoli di essere esistenti, è fluida tanto più in quanto non ci domandiamo perché esistiamo. Se stiamo continuamente cercando di sfamarci, di reperire il cibo necessario a sostentarci, non possiamo avere una crisi esistenziale (benché la nostra esistenza sia in crisi). La crisi esistenziale subentra quando siamo sazi.

Primo Levi ci scrive

Primo Levi scrive, dal campo di annientamento: «poiché siamo tutti, almeno per qualche ora, sazi, […] non sorgono litigi, ci sentiamo buoni, il Kapo non si induce a picchiarci, e siamo capaci di pensare alle nostre madri e alle nostre mogli, il che di solito non accade». «Per qualche ora, possiamo essere infelici alla maniera degli uomini liberi».
La crisi esistenziale (essere infelici alla maniera degli uomini liberi) subentra quando cessa la fame. La metaesistenza subentra quando l’esistenza è garantita. La metafarina subentra quando l’impasto è formato. Prima, c’è soltanto della farina indifferenziata che non ha ancora preso coscienza

Eh sì, anche l’autore è traduttore: Daniele Petruccioli, «Le pagine nere»

Tradurre significa non dover mai dire mi dispiace? Se siete in cerca di una raccolta di frasi fatte sulla traduzione, questo illuminante libro di Daniele Petruccioli non fa proprio per voi. Non fa per voi nemmeno se vi aspettate un testo scritto in “critichese”, il linguaggio dei critici letterari, acrobati dell’idioletto, funamboli dell’esibizionismo accademico.

Perché questo è un libro scritto da un traduttore non pretenzioso, che esprime con parole semplici concetti complessi ma alla portata di tutti. Un libro difficile da recensire perché verrebbe voglia di citarlo tutto – ma allora dove sarebbe la sintesi? Proverò dunque a proporre alle lettrici e ai lettori alcune citazioni sparse commentandole. Cominciamo da questa, tratta da pagina 35:

Lo scrittore «traduce da un mondo interiore… http://www.laltiero.it/eh-si-anche-lautore-traduttore/foto_petruccioli

Michael Zadoorian, Il cercatore di divertimento

Nella nostra cultura si pensa che la parola «vecchio» sia da evitare, e si preferisce la parola «anziano». E ciò è profondamente volgare. Mi fa venire in mente quella maestra di mia figlia che, quando scoprì che dei compagni le davano dell’ebrea per insultarla, anziché spiegare loro che “ebreo” non è un insulto, disse loro: “Non datele dell’ebrea!!!” Non usare la parola «vecchio» è il segno tangibile che la si considera una parolaccia. Non male per una società che in buona parte è composta da vecchi.

«Ecco, non posso crederci, ancora con questa storia. Ma se ne abbiamo parlato e riparlato, e si era deciso che una cosa simile era fuori discussione».

È proprio esasperata. Non mi piace che si scaldi così. Ha avuto problemi di… vedi il resto dell’articolo

 

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Amava bambini, aranci (come se il mondo avesse bisogno di portieri d’albergo)

Amava bambini, aranci

(come se il mondo avesse bisogno di portieri d’albergo)

«Per lui l’occidente era roba da ragionieri». La prima difficoltà che ha dovuto affrontare Cristina Battocletti per scrivere questa meravigliosa, ricchissima biografia di Bazlen è stata quella di trovarsi di fronte a un problema d’intraducibilità. Cosa più del materiale disponibile per ricostruire questa vita è frammentario, sfuggente alla categorizzazione, anomalo, idiosincratico e refrattario a una descrizione lineare? Da un lato, una montagna di cartoline, lettere, testimonianze, alberghi, amici, nemici, scritti apparentemente privi di una coerenza – dall’altro un volume stampato con eleganza da La nave di Teseo, privo di refusi – che già di per sé è una notizia nel panorama attuale – ben scritto, a volte scritto in modo trascinante («Piazza dell’Unità d’Italia è un bagliore di ori e pinnacoli che guarda con devozione all’acqua, mentre la sua lingua più lunga, il molo Audace, è una specie di desiderio di goderne un’ultima vertigine»), molto più avvincente di un romanzo, di quelli che, quando finisci di leggerli, ti appigli all’indice, al sommario, alla quarta di copertina – genere in cui Bazlen eccelleva – pur di non doverli cedere.

Come tutte le intraducibilità, nemmeno questa è assoluta: Cristina Battocletti l’ha vinta, e l’ha vinta con stile, dimostrandosi in primo luogo un’eccellente mediatrice linguoculturale.

«L’obiettivo di Bobi non era arricchirsi, quanto continuare con la sua vita di lettore e di nomade»: Bobi Bazlen non era uno scrittore, non era un editore, non era un traduttore («non ho voglia di fare come tutti le solite traduzioni pagate a metro: facendole con un certo impegno, e lavorando tutta la giornata, non salta fuori nemmeno un ristorante decente», «se traduceva dal tedesco, sua lingua madre, preferiva rimanere anonimo»), non era un poeta («È chiaro che lei non è un poeta» gli disse Elsa Morante), non era un consulente editoriale («suggeriva le opere da pubblicare agli amici»), non era un addetto alle public relations, non era un talent scout («non ha mai avuto un ruolo ufficiale nell’editoria o una pubblicazione che ne definisse la figura. Non ha assunto la direzione di una collana editoriale»), non era l’amico di poeti e scrittori («poeta delle note editoriali e aforista geografico»), non fondava case editrici («la sua genialità era il fiuto editoriale finissimo»): era tutte queste cose messe insieme. «Per Bobi la professione di editor era così commistionata con il privato da averla esercitata fino a un attimo prima di morire».

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[continua a leggere]copertina battocletti bazlen.jpg

Cristina Battocletti

Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste

La nave di Teseo, 400 pagine. 19,50 euro cartaceo. 9,99 euro ebook.

 

Gli snecchini ovvero l’osceno in un segno alimentare

Il lettore modello – in questo caso spettatore modello – della Fiorentini Alimentari è un minotauro: il corpo della modella gli viene offerto in un volgare, prepotente rosso sangue rappreso, che le fascia le braccia sotto forma di guanti fin sopra il gomito, e nel quale si scioglie, dal seno compreso in giù, il corpo stesso. Della modella umana restano solo le spalle e la testa: sotto un andante fiocco-regalo, con un nastro sempre rosso sangue come il colore triviale del marchio. Questo nastro, oltre a mortificare le forme, trasformando la donna in un maschio senza fianchi, sembra sciogliere nell’acido la bellezza, dissolvendola in sangue. Come dire: se vuoi dimagrire, ti costerà sangue, e tanto anche.
La musica che accompagna la mostruosità della scena è un martellamento privo di qualsiasi altra pretesa: do-do re re, do-do mi mi, do-do re re do-do mi mi – do-do do-do do-do do-do do-do do-do do-do do-do re-re re-re re-re re-re re-re re-re re-re re-re. In sostanza è un chiodo che ci viene piantato in testa con violenza. Per essere sicuri che si capisca, ne viene piantato anche uno un centimetro più a destra e uno un centimetro più a sinistra. [CONTINUA A LEGGERE]

Vado ad Harvard o ad Sapienza? Forse meglio ad Spinelli!

articolo pubblicato su L’Altiero

Stando alla versione ‘inglese’ del sito del governo italiano, per poche ore nel 2001 un ministro appena entrato in carica è risultato laureato alla ‘Mouthfuls University’. Non conoscete questa università? Ma sì, è a Milano, e ospita la più nota facoltà di economia. Normalmente la chiamano Bocconi, ma chi aveva predisposto il sito aveva deciso di tradurre anche il nome proprio. È una malattia epidemica, si chiama «traduttivite», colpisce anche cittadini al di sopra di ogni sospetto.

La falsità delle notizie riguardanti università e altre istituzioni spesso è garantita, e chi cerca di sottrarsi alle improprietà del mainstream usage viene dilavato insieme alla corrente.

Nessun madrelingua italiano penserebbe di formulare la frase ***«Si è laureato a Bocconi»*** Perché, in questa forma, sembrerebbe il nome di un luogo, mentre tutti sappiamo che è il nome di un ateneo, fondato da Bocconi Ferdinando, per ricordare il figlio Luigi.

maxresdefaultMa allora perché sentiamo dire di continuo ***«ad Harvard»***? È un’espressione che concentra in sé una certa quantità di distrazione. Cominciamo dalla pronuncia. Come si può sentire da qui https://forvo.com/word/harvard_university/#en la pronuncia della prima lettera (h) è perfettamente udibile, ciò che impedisce l’uso della preposizione eufonica ad, che si può usare solo davanti a un suono vocalico.

ladige-18-12-2015_largeUn altro problema non da poco è che si tratta di un cognome, e precisamente quello del pastore John Harvard di Charlestown, che nel 1638 alla morte ha lasciato la biblioteca e il patrimonio alla schoale perché facessero un colledge. La Harvard è situata a Cambridge, nel Massachusetts, meno di 350 chilometri a nordest di New York. Volendo usarla come complemento di luogo, perciò, sarebbe «studio a Cambridge, nel Massachusetts». Oppure «studio alla Harvard».

Più in generale, i nomi propri non si traducono. Quando ancora leggiamo, in un’edizione di cent’anni fa, che un libro è di «Leone Tolstoi», o di «Alessandro Dumas», o di «Sigismondo Freud», ci viene da sorridere, perché oggi non ci sogneremmo nemmeno di dire «Emanuele Macron», «Teresa May» o «Vladimiro Putin». Lo stesso vale per i nomi propri di cosa: di cinema (***Little Gym Theatre*** anziché Cinema Palestrina?), alberghi (***Albergo Crollalanza*** anziché Shakespeare Hotel?), navi (***Venetian Victory*** anziché Vittorio Veneto?) e istituzioni, naturalmente.la-fashion-blogger-chiara-ferragni

Per esempio, la Washington University può essere solo resa con questi caratteri esatti, né uno di più né uno di meno. Quando la incontriamo su libri e giornali come ***Università di Washington***, la falsità è addirittura raccapricciante. Innanzitutto perché si trova a Saint Louis, nel Missouri. Poi perché è intitolata non a una città ma a George (non Giorgio, come si legge sulla targa della via a Milano) Washington, e quindi è un caso simile – anche se, concedo, lievemente meno noto – alla nostra Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli».  Inoltre esistono altre tre università con nome simile: la University of Washington (che, si badi bene, non è A Washington, ma NEL Washington, a Seattle), la Washington State University (che, si badi bene di nuovo, non è A Washington, ma NEL Washington, a Pullman, città che persone affette da traduttivite rendono come «autobus») e la George Washington University, che è davvero a Washington ed è la più vecchia delle quattro, essendo del 1821.

Ragionamento simile vale per la Stanford (fondata da Leland and Jane Stanford a Palo Alto), la Yale (fondata da Elihu Yale a New Haven), la Cornell (fondata da Ezra Cornell a Ithaca) e così via.

Quando scriviamo il nostro CV in inglese, evitiamo di tradurre i nomi delle scuole in cui abbiamo studiato. Ciò che va tradotto è il titolo, che in tutto il mondo si capisce se è espresso così: BA (laurea triennale), MA (laurea specialistica), PhD (dottorato di ricerca). Per non fare la figura dei provinciali è meglio evitare anche di usare titoli onorifici tipo «dottore» all’estero: l’Italia è l’unico paese al mondo dove la qualifica di dottore si acquisisce già subito, dopo il BA, mentre nel mondo vero si deve aspettare di avere finito il dottorato.

A parte il fatto che nel resto del mondo il titolo di studio è spesso sottaciuto, quando non strettamente pertinente: «Ho mandato a quel paese il signor Einstein: fa sempre sgocciolare la biancheria sulle mie piante» non significa che non è laureato, ma che non è quello il punto. Ostentare il titolo fa parte del nostro provincialismo: se non fosse interpretato, nella nostra cultura, come status symbol, forse potremmo perfino fare a meno del CEPU e abolirne il valore legale.

Ho il sentore che qualcuno obietterà che tutti fanno così, non si può fare diversamente, ormai ***ad Harvard*** è entrato nel cosiddetto uso…

hvd1_235Lascio la risposta allo scrittore polacco Waldemar Łysiak: «Gdy tylu ludzi pochwala to samo, wtedy łatwo jest dojść do wniosku: jedzmy gówna, przecież miliony much nie mogą się mylić!» [Quando una certa cosa è apprezzata da tantissimi individui, è facile giungere alla conclusione: mangiamo gówna, in fondo, non è possibile che milioni di mosche si sbaglino!]

per la versione integrale originale:

articolo pubblicato su L’Altiero

 

Certo, certissimo, anzi… probabile (scienza o fede del mediatore)

17 maggio 2017

pubblicato su L’Altiero

Traducendo, anche i più distratti si accorgono delle differenze culturali tra diverse popolazioni e nazioni. E qualcuno si accorge anche che il nostro modo di mediare fra culture può perseguire uno di questi due scopi: confermare le certezze del lettore nostrano, fondate o infondate che siano, oppure metterle pericolosamente in dubbio.

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Ricordo la mia prof di traduzione inglese-italiano, nel 1977 all’ILI (Istituto linguistico internazionale) di corso Vittorio Emanuele 13. All’inizio dell’anno occorreva comprare la dispensa, consistente in tanti fogli quante erano le lezioni, e ogni foglio conteneva il testo da tradurre. Il che significa che la signora ogni anno faceva ritradurre alle allieve (24+me) gli stessi testi dei quali deteneva, mentalmente, le WC, ossia le Versioni Corrette. Il tutto si basava su un assioma poi risultato sbagliato, che la traduzione sia una prova a stimolo chiuso e risposta chiusa, quando noi tutti sappiamo benissimo che lo stimolo (l’originale) è sì chiuso (fisso), ma la risposta è aperta, ossia ci sono tante versioni “giuste” quante sono le persone che ci si cimentano.

Orbene, quando c’imbattemmo nella parola inglese evidence, la signora ci spiegò che è sbagliato tradurla «evidenza» – sarebbe un calco! –, perché è semplicemente il modo inglese di dire «prova». Quindi Experimental evidence for beneficial effects of Vitamin B diventerebbe secondo lei «Prove sperimentali degli effetti benefici della vitamina B». Il che, più che una traduzione, è una trasformazione disciplinare, e per la precisione è la trasformazione della scienza in religione.

karl_popperSì perché Karl Popper nel 1934 ha spiegato qualcosa che ha rivoluzionato il modo di pensare in tutto il mondo (tranne – grazie a noi traduttori beneducati attenti ai calchi – in Italia). Le ipotesi scientifiche non possono mai essere confermate o verificate, ma solo controllate mediante tentativi di falsificarle. In altre parole, non ci sono teorie vere, ma solo congetture non ancora falsificate. Lo scienziato (non solo quello col camice bianco e le provette degli spot pubblicitari per il popolo bue, ma anche il filologo, il semiotico, il critico letterario) non conosce la verità, non pensa nemmeno che esista: fa solo abduzioni e cerca di metterle alla prova.

(Sì, lo so, questa visione delle cose mette una certa ansia. Per chi non riesce a sopportarla, in alternativa alla scienza c’è sempre la religione. Lì nulla è sicuro, ma almeno tutto è certo e verificato: ne ho le prove.)

Dunque, to test e to check non si potranno mai tradurre «verificare» senza stravolgerne il senso, ed è bene renderli con «controllare» o «testare» o «mettere alla prova» o simili. Evidence – mi perdoni, prof! non lo dico per mancanza di rispetto! – va tradotto necessariamente «evidenza» e mai «prova» o «dimostrazione». E show va tradotto «mostrare», «suggerire», «far supporre», non «dimostrare». Altrmenti il nostro lettore si farà un’idea sbagliata della notizia, e della scienza.

Da questo esempio paradigmatico si capisce com’è facile, per un italiano, confondere la scienza con la fede. È anche colpa di tutti i giornalisti che, insieme a noi traduttori, hanno divulgato la scienza male, o meglio, dopo che l’hanno divulgata, non è più stata scienza. Qui non si tratta di errori di traduzione, ma di decisioni strategiche su qual è la concezione della scienza – del progresso – che si vuole diffondere in una data cultura. Tradurre evidence con «prova» equivale a tirare su generazioni di creduloni che, con la stessa faciloneria con cui credono alla Scienza-Verità, possono passare in un amen a credere alla Scienza-Complotto (in fondo si tratta solo di cambiare setta), e magari smettono di vaccinare i figli, creando per ignoranza della propria ignoranza sconquassi a catena di dimensioni galattiche.

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C’è un altro àmbito in cui la confusione tra prove ed evidenze è assai pericolosa: quello giudiziario. L’imputato, specie se innocente, preferisce che si dica che ci sono evidenze a suo carico, non prove, ed è proprio aver capito che l’evidenza non è una prova ad aver permesso la nascita della cultura dell’abolizione della pena di morte.

Si vede, a questo punto, quanto è immensa la differenza tra sapere le lingue e saper mediare, tradurre? Sapere le lingue ha a che fare con la comunicazione, con la tautologia, col saper dire quanto è già stato detto in un’altra forma. Saper tradurre ha a che fare col filtro, col lasciar passare e con lo stravolgere, col manipolare, col gestire la comunicazione, con l’evoluzione del senso. In principio, mediare non può mai essere ideologicamente neutro.

Per l’articolo completo, vedi https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0ahUKEwi6udaz0ezVAhXFblAKHVkkAcIQFggrMAA&url=http%3A%2F%2Fwww.laltiero.it%2Fcerto-certissimo-anzi-probabile-scienza-fede-del-mediatore%2F&usg=AFQjCNG0h11R3ipX_uBVtBCC887yrZvqdA

Ceci n’est pas un biais

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Quando la mente umana si trova davanti a un fenomeno nuovo, cerca subito il modo di descrivere tale fenomeno a sé stessa per poterlo riconoscere economicamente in futuro. Dato che tale descrizione deve essere sintetica, la mente cerca nella complessità del fenomeno delle costanti ricorrenti, dei pattern, in modo da rendere più agevole il riconoscimento. Se per esempio d’estate il cielo all’improvviso si oscura, tira vento e gli uccelli smettono di cinguettare, so che sta per scoppiare un acquazzone: «acquazzone» è il nome di un pattern riconoscibile, applicabile a fenomeni diversi ma che hanno qualcosa in comune.

 

Sulla base di un pattern percettivo, la mente si crea un modello: è quella che si chiama modellizzazione, e serve per la prossima volta che percepirò qualcosa di assimilabile.

L’acquisizione di un modello della realtà è però un’arma a doppio taglio: se da un lato accelera la percezione, dall’altro rischia di deformare la realtà: in questo caso si parla di «bias».

Il bias è un pattern di deviazione da standard di giudizio che comporta la formulazione di congetture irragionevoli. È l’applicazione inconscia di un filtro mentale deformante alla realtà, così che non è recepita in modo oggettivo, ma ‘obliquo’, ‘storto’.

Tale filtro è applicato dalla nostra mente in modo inconsapevole, perciò noi abbiamo l’illusione di percepire La Realtà.

Ma perché mai dovrebbe interessare ai mediatori linguoculturali? Perché, se tutti sono soggetti a deformazioni percettive, le percezioni deformate dei mediatori si riflettono sul testo che producono, e quindi su migliaia di ascoltatori/lettori successivi.

I tipi principali:

  1. bias di ancoraggio (basarsi solo sulle informazioni avute per prime); per esempio, se cerco una parola nel dizionario e trovo varie spiegazioni, mi fisso sulla prima trascurando le altre;

  2. patternicity (illudersi di trovare pattern significativi in quelli che invece sono fenomeni casuali); come fanno gli scommettitori professionali del lotto quando puntano sul numero che non esce da più tempo, ritenendo che ci sia un modello secondo cui tutti i numeri devono uscire con la stessa frequenza;

  3. bias di conferma (o ideologismo; pescare tra i dati tenendo solo conto di ciò che conferma quello di cui si è a priori convinti);

  4. il “senno di poi” («te l’avevo detto»; illudersi di avere sempre stati certi dell’esito di una determinata situazione).

«Bias» è una parola strana. Un po’ perché non si sa con certezza da dove arrivi, anche se si tende a pensare che venga dal provenzale «biais» che significa «obliquo». I francesi però a loro volta sostengono che a loro sia giunto dal greco βιάς / biás, «atto di violenza».  Nonostante tutto ciò, a noi arriva dall’inglese, che la pronuncia |ˈbīəs|, e così, obbedienti, noi la pronunciamo bàias.

Probabilmente la metafora dello sbieco ciascuno di noi la può intuire: così come «guardare di sbieco» significa «guardare storcendo gli occhi», si può ben capire che, storcendo gli occhi, le cose si vedono deformate. E uno sguardo bieco è obliquo, prima di risultare eventualmente anche minaccioso e sinistro.

Lo sbieco è quella fettuccia, tessuta a 45° anziché a 90°, in cui i fili sono girati in senso trasversale a quelli del vestito, motivo per cui va molto bene per fare orli, poiché se la si piega, mantiene la piega già prima di essere cucita e applicata al tessuto del vestito.

La mispercezione del bias mi fa venire in mente quella della ostranenie, o “stranificazione”, parola di cui proprio quest’anno ricorre il centenario, perché nel 1917 Viktor Šklovskij la coniava per spiegare il procedimento artistico (priëm), ossia descrizione in modo strano di un oggetto allo scopo di far uscire il lettore dall’automatismo della percezione. Con la differenza che l’artista usa la ostranenie apposta – ed è perché la usa che lo consideriamo artista – invece noi tutti la subiamo senza accorgercene.

Originariamente pubblicato su L’Altiero, luglio 2017

Pòver purscèl (nel senso del maiale)

È impressionante come possiamo “cambiare idea” a seconda che ci sia con noi il nostro fidanzato o un collega, nostra moglie o una passante, la nostra gattina o un coniglio composto nel polistirolo. Entrando a far parte di sistemi via via diversi, a seconda delle ore del giorno, tendiamo a occupare di volta in volta la posizione che ci sembra più consona nel dato contesto, in funzione della nostra personalità, del nostro carattere.

laltieroC’è un contesto dentro di noi e uno al di fuori. Nel contesto esterno la nostra persona è un elemento del sistema e ha un’identità coerente nei confronti degli altri elementi. Se noi al nostro interno talora siamo ‘combattuti’ tra due posizioni, all’esterno siamo costretti ad armonizzare quantomeno superficialmente le nostre intenzioni tra loro perseguendo una logica che gli altri finiscono per riconoscere come il nostro stile.
Ma al nostro interno c’è un altro sistema, dentro il quale si confrontano e si combattono istanze diverse, desidèri, mete, obbiettivi di breve e di lungo termine anche in contrasto tra loro. Dentro di noi c’è un fermento che talora sarebbe arduo definire omogeneo, ma siamo costretti a ‘ripigliarci’ nel momento in cui l’aspettativa di un confronto con l’esterno ci costringe a ‘ricomporci’, a ‘fare sistema’ per poter sopravvivere come entità accanto alle altre entità individuali (e non [continua a leggere] http://www.laltiero.it/pover-purscel-nel-senso-del-maiale/