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Tutte le poesie di Majakovskij

Маяковский. La lettera я è la terza del cognome del poeta russo, e ha un suono che corrisponde grosso modo al nostro dittongo «ia». Fino al 1995 la norma internazionale ISO 9 suggeriva di traslitterare la я con due caratteri latini, «ja». Da quell’anno è uscita una nuova versione della norma ISO 9, che permette di avere una corrispondenza biunivoca tra i 33 caratteri dell’alfabeto russo e quelli latini corrispondenti. Di conseguenza in base alla norma internazionale non si scriverà più «Majakovskij», ma «Maâkovskij».
Lo scopo di questa norma è permettere di ricostruire la grafia cirillica e quella latina di una parola a chiunque, a prescindere dalla conoscenza della lingua russa. Altre due lettere che sono state interessate dalla “riforma” del 1995 sono la х cirillica, che si legge come una h, o come la «c» della parola «casa» pronunciata da un toscano, che prima si trascriveva «ch», e ora si traslittera «h»; e la щ, che prima si trascriveva «šč», e ora si traslittera «ŝ». Per esempio, il cognome del capo della Russia dal 1953 al 1964, Хрущёв, che contiene in terza posizione quella lettera, e che prima veniva scritto in vario modo tra cui spesso, alla buona, «Krusciov», ora dovrebbe traslitterarsi «Hruŝëv».
Le poesie di Maâkovskij sono famose in tutto il mondo perché con le sue “scalette” di versi e con la sua sperimentazione lessicale e grafica sono state innovative e, per un certo tempo, sono state compagne di strada del regime totalitario instauratosi nell’ottobre 1917. Nel 1923 Maâkovskij andò a New York e davanti a un grattacielo fu ispirato a scrivere la sua prima poesia “a scaletta”. Probabilmente è stato ispirato dalle finestre accese/spente del grattacielo. Dal 1923 al 1930, anno del suicidio, quasi tutte le sue poesie sono scritte così, con i versi che non vanno a capo del tutto, descrivendo delle “scalette” con i caratteri tipografici.
Il suicidio del poeta nel 1930 – causato in parte dalla disperazione del proprio amore possessivo per Verónika Polónskaâ – si inserisce nel contesto della divaricazione sempre più marcata tra il poeta della (sua personale idealizzata astratta) rivoluzione, e il poeta di riferimento del Partito comunista dell’Urss – ruolo, quest’ultimo, che lo metteva sempre più a disagio.
I poeti morti suicidi spesso godono di una fama particolare, e in questo Maâkovskij non fa eccezione. Sono stati fatti diversi studi scientifici sulla correlazione tra malattia mentale e poesia, e tra poesia e suicidio, e sono state scoperte varie cose interessanti. In sostanza esiste una correlazione positiva tra schizofrenia e creatività verbale e in particolare poetica. La cosa non deve sorprendere, se pensiamo che scrivere poesie significa spingere al limite estremo il confine tra scrittura – e quindi sintassi, linearità della prosa – e associazione libera – e quindi paradigma, salto logico, metafora, nesso privato.
Per dirlo con un termine che è volutamente in parte tecnico-medico e in parte suggestivo di una collocazione di frontiera, i poeti sono «borderline», cavalcano il confine tra lingua e metalinguaggio, fanno il surf sull’onda che separa l’esposizione ordinata e l’affastellamento creativo, e a volte ne sono travolti. Maâkovskij soffriva di certo di un delirio di onnipotenza-grandezza.
La poesia “mette in piazza” la mente del poeta proprio perché infrange le consuetudini dell’associazione di parole sostituendole con combinazioni inedite e specialmente espressive, interpretabili in vario modo a seconda di chi le legge e di quando e in che condizioni le legge.
Se il testo è un processo che si svolge tra la mente dell’autrice e la mente della lettrice, ancora più calzante è questa definizione nel caso della poesia, dove interpretazioni diverse possono scaturire anche solo dall’attualizzazione orale di un testo scritto: pause, tratti soprasegmentali, intonazione, “musica” del testo (tonalità), timbro della voce, peculiarità di pronuncia, inflessioni locali.
Proprio per questa necessità di comunicare creativamente i propri stati d’animo in forma verbale, poete e poeti sono generalmente persone per un verso deboli – e quindi bisognose di oggettivare, di fotografare i propri stati d’animo per prenderne coscienza – e per un altro verso autocentrate – e quindi non restie a usare come argomento principale sé stesse, l’argomento più interessante in assoluto anche secondo Woody Allen.
E del resto la labilità psichica e l’egocentricità sono caratteristiche che possono considerarsi i due lati di una stessa medaglia, in quanto la prima richiede la seconda e la seconda viene in soccorso alla prima. 
Egocentrico era sicuramente anche Maâkovskij, le dimensioni del cui corpo fisico – 190 centimetri di statura e corrispondente corporatura, per l’epoca eccezionale – lo portavano a risaltare naturalmente in mezzo alla folla.
Dotato di un indubbio genio poetico, che qua e là ha prodotto qualche poesia lirica raffinata e godibile, si è coinvolto sempre più sul piano ideologico, costringendosi a fare da megafono alla propaganda di un regime sempre meno rivoluzionario e sempre più burocratico e repressivo.
Naturalmente nessun proclama ideologico potrà mai essere una poesia lirica. L’artisticità della sua produzione risente progressivamente sempre di più dell’interferenza dell’ideologia e della propaganda. Sembra quasi che l’artista in lui sia sempre più oppresso dall’evolversi degli eventi, e che l’esplosione che nel 1930 fa scoppiare il petto di Vladìmir Vladìmirovič corrisponda a un’esplosione interna dovuta all’eccessiva repressione delle sue pulsioni vitali.
Le poesie sono qui date in ordine cronologico, senza tenere conto di altro che della data che risulta (quelle senza data sono accorpate in fondo). Anche i poemi come Nuvola in calzoni, Flauto-spina dorsale, Io amo, Cristoforo Colombo, eccetera sono inseriti in ordine cronologico. Non esiste metrica, non esiste rima, e questo ha facilitato molto la traduzione. Ciò che invece l’ha resa difficile è l’accostamento apparentemente folle delle parole più disparate: in questo modo non è sempre possibile farsi aiutare dal contesto a risalire all’accezione più plausibile. Si tratta di una vera propria forma di esibizionismo verbale, che rispecchia l’esibizionismo generale di Maâkovskij.
A volte sembra di avere a che fare, più che con poesia, con una prosa che va a capo in modo capriccioso. Ho cercato di dare una versione più possibile precisa, con note a piè pagina per le parole riguardanti i realia. Le lettrici e i lettori troveranno, in effetti, duecento note a piè pagina, una quantità eccezionale per un libro di poesia. Ma la mia idea è proprio quella di permettere a chi non conosce ancora la linguacultura russa di accedere a una realtà diversa. Mi rivolgo a chi è curioso della diversità, non a chi è in cerca di testi scorrevoli o facili da leggere in fretta.

Buona lettura!

Deiva Marina, 1° gennaio 2022




P. S. Il nome del poeta è Vladìmir, quindi né Vlàdimir, né Vladimìr, che sono le due pronunce più frequenti in Italia. Vladìmir, con gli accenti come «addio». E il patronimico – ancora più difficile – è Vladìmirovič, quindi è bisdrucciolo, come «fàbbricalo». Se ci provate, ci riuscite di sicuro.
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Philip Roth La controvita The counterlife

Philip Roth

 

La controvita
La bocca era il suo mestiere, certo – e anche di Wendy – eppure parlarne in quel modo, a fine giornata, con la porta chiusa, e l’esile, giovane biondina che si offriva per un lavoro – si stava rivelando incredibilmente stimolante. Si ricordò del suono della voce di Maria che gli diceva tutte quelle cose su quanto fosse meraviglioso il suo cazzo – «Ti metto la mano nei pantaloni, e mi lascia a bocca aperta, è così grosso e gonfio e duro». «Il controllo che hai», gli diceva sempre, «quanto lo fai durare, non c’è nessuno come te, Henry». Se Wendy si fosse alzata e fosse andata alla scrivania e gli avesse infilato la mano nelle mutande, avrebbe scoperto quello di cui parlava Maria.
«La bocca», stava dicendo Wendy, «è proprio la cosa più personale con cui un dottore può avere a che fare».
«Sei una delle poche persone che l’abbia mai detto», le disse Henry. «Te ne rendi conto?»
Quando si accorse che il complimento l’aveva fatta arrossire, spinse il discorso su un terreno ancora più ambiguo, sapendo, tuttavia, che nessuno che avesse origliato avrebbe potuto accusarlo di parlare con lei di qualcosa di diverso dalle sue qualifiche per il lavoro. Non che qualcuno potesse in qualche modo sentirli.
«Un anno fa la tua bocca la davi per scontata?» le chiese.
«A confronto di quanto faccio adesso, sì. Ovviamente, mi sono sempre presa cura dei miei denti, del mio sorriso…»
«Ti sei presa cura di te», fece Henry, con approvazione.
Sorridendo – e quello era un bel sorriso, il segno di un abbandono del tutto innocente, bambinesco – lei prese la palla al balzo. «Sì, certo, mi prendo cura di me stessa ma non mi ero resa conto di quanto per l’odontoiatria contasse l’aspetto psicologico».
Lo stava forse dicendo perché ci andasse piano, gli stava forse educatamente chiedendo di lasciar perdere la sua bocca? Forse lei non era così innocente come credeva – ma quello era anche più eccitante. «Parlamene un po’», disse Henry.
«Be’, quello che ho detto prima – il rapporto con il tuo sorriso è un riflesso del tuo rapporto con te stesso e di come ti poni di fronte agli altri. Penso che l’intera personalità possa svilupparsi, non riguardo ai denti, ma a tutto quello la riguarda. In uno studio dentistico hai a che fare con la persona nella sua totalità, anche se sembra di aver solo a che fare con la bocca. Come posso accontentare la persona interamente, bocca compresa? E quando si parla di odontoiatria cosmetica, è pura psicologia. Nello studio del Dott. Wexler avevamo qualche problema con le persone che si facevano mettere le capsule e volevano denti bianchi-bianchi, che non stavano bene con i loro denti, con la loro colorazione. Devi fargli capire quali sono i denti che hanno un effetto naturale. Gli dici, ‘Avrai il sorriso perfetto per te, ma non puoi arrivare e semplicemente scegliere il sorriso perfetto e fartelo piazzare in bocca.’»
«Ed avere una bocca», aggiunse Henry, dandole una mano, «che sembra la tua».
«Giusto».
«Voglio che tu lavori per me».
«Oh, fantastico».
«Penso che potremmo farlo», disse Henry, ma prima che farlo potesse assumere troppi significati, si sbrigò a presentare subito le sue idee alla nuova assistente, come se concentrarsi seriamente sull’odontoiatria potesse in qualche modo trattenerlo dall’essere pesantemente allusivo. Si sbagliava. «Molta gente, come già saprai, non pensa che la sua bocca faccia parte del suo corpo. Né che i denti facciano parte del corpo. Non inconsciamente, almeno. La bocca è un vuoto, la bocca non è niente. Molte persone, al contrario di te, non ti diranno mai cosa rappresentala loro bocca. Se sono spaventati dall’odontoiatria a volte è per qualche tremenda esperienza di molto tempo prima, ma soprattutto è per quello che significa la bocca. Chi la tocca è un intruso o un aiuto. Portarli dal pensare che lavorare su di loro è come intromettersi all’idea che lo stai facendo per aiutarli, è quasi come avere un’esperienza sessuale. Per molte persone, la bocca è qualcosa di segreto, è il loro nascondiglio. Proprio come i genitali. Ricorderai che a livello embriologico la bocca è correlata ai genitali».
«L’ho studiato».
«Davvero? Bene. Poi capisci che le persone vogliono che tu sia molto delicato con la loro bocca. La delicatezza è l’aspetto più importante. Con tutti i soggetti. E, stranamente, gli uomini sono più vulnerabili, soprattutto se non hanno più i denti. Perché per un uomo perdere i denti è un’esperienza forte. Un dente per un uomo è come un mini-pene».
«Con ci avevo mai pensato», disse, ma non era sembrata affatto turbata.
«Be’, che idea ti fai della prestanza sessuale di un uomo senza denti? Cosa pensi che lui pensi? Mi è capitato qui un tipo molto in vista. Aveva perso tutti i denti e aveva una fidanzata giovane. Non voleva farle sapere che aveva la dentiera, perché significava che era un vecchio, e lei era una ragazza. Più o meno della tua età. Ventuno?»
«Ventidue».
«Aveva ventun anni. Così gli ho fatto degli impianti, invece che la dentiera, e lui era felice, lei era felice».
«Il Dottor Wexler diceva sempre che la soddisfazione più grande viene dalle imprese più ardue, di solito da un caso disperato».
Wexler se l’era scopata? Henry ancora non era andato oltre il classico flirtare con qualsiasi assistente di qualunque età – non solo era poco professionale ma un’incredibile distrazione in uno studio pieno di lavoro, e il caso disperato allora diventava il dentista. In quel momento capì che non avrebbe mai dovuto assumerla; era stato del tutto esageratamente impulsivo, e adesso rendeva tutto ancora più complicato con quelle chiacchiere sul mini-pene che glielo stavano facendo venire duro. E nonostante tutto quello che stava succedendo in quei giorni e che lo faceva sentire tanto spavaldo, non riusciva a smettere. Qual era la cosa peggiore che poteva capitargli? Spavaldo com’era, non ne aveva idea. «La bocca, non devi dimenticare, è l’organo primario dell’esperienza…» Continuava, guardandola sfrontatamente senza batter ciglio.
Tuttavia, passarono sei intere settimane prima che risolvesse i suoi dubbi, non solo sull’oltrepassare la linea più di quanto avesse fatto al colloquio ma proprio sul tenerla in studio, nonostante il lavoro eccellente che stava facendo. Tutto quello che aveva detto a Carol sul suo conto si era rivelato vero, anche se gli suonava come la razionalizzazione più trasparente del perché lei fosse lì. «È sveglia e vivace, è graziosa e piace alla gente, ci sa fare e mi aiuta incredibilmente –per merito suo, quando entro, posso mettermi subito al lavoro. Questa ragazza», aveva detto a Carol, anche più spesso di quanto avrebbe dovuto nel corso di quelle prime settimane, «mi fa guadagnare due o tre ore al giorno».
Poi una sera dopo il lavoro, mentre Wendy ripuliva il vassoio e lui si stava lavando come al solito, si girò verso di lei e, dato che sembrava proprio non esserci più un modo per uscirne fuori, si mise a ridere. «Guarda», disse, «facciamo un gioco. Tu sei l’assistente e io sono il dentista». «Ma io sono l’assistente», disse Wendy. «Lo so», rispose, «e io sono il dentista – ma fingiamo lo stesso.” «E così», disse Henry a Nathan, «ecco com’è andata». «Giocavate al dentista», disse Zuckerman. «A quanto pare», disse Henry, «lei ha fatto finta di chiamarsi ‘Wendy’ e io ho fatto finta di chiamarmi ‘Dott. Zuckerman’, e abbiamo fatto finta di essere nel mio studio dentistico. E poi abbiamo fatto finta di far sesso – e l’abbiamo fatto». «Interessante», disse Zuckerman. «Era, era selvaggio, ci faceva impazzire – è stata la cosa più folle che io abbia mai fatto. L’abbiamo fatto per settimane, fingevamo così, e lei diceva continuamente, ‘Perché è così eccitante quando tutti fingiamo di essere quello che siamo?’ Dio, se era fantastico! Che bomba!»
Be’, quel folle gioco piccante era ormai acqua passata, non c’era più il malizioso trasformare ciò-che-era in ciò-che-non-era o cosa-potrebbe-essere in cosa-era – c’era solo la desolante realtà di questo-è-quanto. Non c’è niente che un uomo di successo, oberato e brillante ami più della piccola Wendy accanto a lui, e niente che potrebbe rallegrare la piccola Wendy più che chiamare il suo amante «Dottor Z» – lei è giovane, è disponibile, è nel suo studio, lui è il capo, lo guarda nel suo grembiule bianco mentre tutti lo adorano, vede la moglie che scarrozza i bambini e le iniziano a spuntare i capelli bianchi e lei neanche si rende conto dei centimetri del girovita… incantevole a tutto tondo. Sì, le sedute con Wendy erano stati arte per Henry; lo studio dentistico, dopo la chiusura, un atelier; e la sua impotenza, pensò Zuckerman, come la vena di un artista che si prosciuga per sempre. Gli era stata riattribuita l’arte della responsabilità –sfortunatamente giusto a quel punto la routine lavorativa dalla quale aveva bisogno di prendersi vacanze sempre più lunghe per poter sopravvivere. Era stato ricacciato nel suo talento per la banalità, esattamente quello in cui era stato rinchiuso per tutta la vita. Zuckerman si era sentito male per lui e, come uno stupido, come uno stupido, non aveva fatto niente per fermarlo.

 

Čechov, Casa con mezzanino, nuova traduzione


copertina dom s mezoninom

Casa con mezzanino (racconto di un pittore)

I

Fu sei-sette anni fa, vivevo in un distretto del governatorato di T., nella tenuta del possidente Belokùrov, un giovane che si alzava molto presto, portava la poddëvka1, la sera beveva birra e continuava a lamentarsi con me di non riuscire a trovare comprensione da nessuna parte in nessuno. Lui viveva nella dépendance in giardino, e io nella vecchia casa padronale, nell’enorme sala con colonne, che non aveva mobili a eccezione del divano largo su cui dormivo e del tavolo su cui facevo i solitari. Qui sempre, anche col bel tempo, c’era qualcosa che fischiava nelle vecchie stufe Amosov2, e durante i temporali tutta la casa tremava e, sembrava, cadeva a pezzi, e faceva un po’ paura, soprattutto di notte, quando tutte e dieci le grandi finestre venivano all’improvviso illuminate da un lampo.

Condannato dalla sorte al continuo ozio, non facevo decisamente nulla. Per ore intere guardavo dalle mie finestre il cielo, gli uccelli, i vialetti, leggevo tutto quello che mi portavano dalla posta, dormivo. A volte uscivo di casa e fino a tarda sera passeggiavo senza meta.

Una volta, mentre tornavo a casa, senza volere mi ritrovai in un podere che non conoscevo. Il sole si stava già nascondendo, e sulla segale in fiore si distendevano le ombre della sera. Due file di abeti vecchi, piantati uno vicino all’altro, molto alti, si ergevano come due muri continui, formando un vialetto scuro, bello. Varcai con facilità la siepe e m’incamminai per questo vialetto, scivolando sugli aghi d’abete che coprivano il terreno per qualche centimetro. Era silenzioso, buio, e solo in alto sulle cime degli alberi tremolava qua e là una luce chiara dorata che si rifletteva sulle ragnatele formando un arcobaleno. Forte, fin soffocante era l’odore degli aghi. Poi svoltai in un lungo vialetto di tigli. Anche qui desolazione e vecchiaia; il fogliame dell’anno passato frusciava con tristezza sotto i piedi e al crepuscolo le ombre si nascondevano tra gli alberi. A destra, nel vecchio frutteto, di malavoglia, con voce flebile cantava un rigogolo, anche lui vecchio, probabilmente. Ma ecco che finirono anche i tigli; passai accanto a una casa bianca con un terrazzo e un mezzanino, e davanti a me d’un tratto si rivelò una vista sul cortile padronale e su un ampio laghetto con una kupal’nâ3, con una distesa di salici verdi, con un paesino sull’altra riva, con un campanile alto e stretto, sul quale ardeva una croce, riflettendo il sole che tramontava. Per un momento mi avvolse l’incanto di qualcosa di caro, di molto familiare, come se avessi già visto questo stesso panorama da bambino.

E vicino alle colonne di pietra bianca, che dal cortile conducevano ai campi, vicino alle colonne robuste con i leoni, c’erano due ragazze. Una di loro, la maggiore, esile, pallida, molto bella, con una chioma di folti capelli castani, con una piccola bocca ostinata, aveva un’espressione severa e mi degnò a malapena di uno sguardo; l’altra invece, ancora molto giovane – avrà avuto diciasette o diciotto anni, non di più – anche lei esile e pallida, con la bocca grande e con gli occhi grandi, mi guardò sorpresa, mentre le passavo accanto, disse qualcosa in inglese e si imbarazzò, e mi sembrava di conoscere anche queste due facce graziose da molto tempo. E tornai a casa con la stessa sensazione di quando si fa un bel sogno.

Da lì a poco, a mezzogiorno, mentre io e Belokùrov stavamo passeggiando vicino a casa, all’improvviso, frusciando sull’erba, entrò nel cortile una carrozza molleggiata, con dentro una di quelle ragazze. Era la maggiore. Veniva a farci firmare una petizione a favore delle vittime dell’incendio. Senza guardarci, ci raccontò con molta serietà nei dettagli quante case erano andate a fuoco nel villaggio di Siânov, quanti uomini, donne e bambini erano rimasti senza tetto e che cosa intendeva fare come prima cosa il comitato per le vittime dell’incendio, di cui ora faceva parte. Dopo averci fatto firmare, mise via il foglio e cominciò subito a salutarci.

«Pëtr Petróvič, vi siete completamente dimenticato di noi» disse lei a Belokùrov, dandogli la mano. «Venite, e se monsieur N. (pronunciò il mio cognome) vorrà dare un’occhiata a come vivono gli ammiratori del suo talento, e venire a trovarci, io e la mamma ne saremo felici».

Feci un inchino.

http://store.streetlib.com/casa-con-mezzanino