Category Archives: semiotica

GAIA COZZI Dinda L. Gorlée Equivalence, translation, and the role of the translator (Equivalenza, traduzione e il ruolo del traduttore)

GAIA COZZI

Dinda L. Gorlée

Equivalence, translation, and the role of the translator

(Equivalenza, traduzione e il ruolo del traduttore)

Mémoire de traduction littéraire

inglese/italiano

Relatore Prof. Bruno Osimo Correlatrice Prof.ssa Cynthia Bull

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione

Dipartimento di lingue
Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori

Université March Bloch – Strasbourg Insitut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

a.a. 2003-2004 (sessione di settembre)

          ______________________________________________________

© 1994 Dinda L. Gorlée
© 2004 Gaia Cozzi (traduzione parziale)

Indice

Abstract……………………………………………………………………………………………………………p. 5 Prefazione………………………………………………………………………………………………………..p. 6

1. 2.

Fonte e autrice del testo……………………………………………………………………………p. 6 Analisi traduttologica………………………………………………………………………………..p. 7

  1. 2.1  Tipologia testuale e contenuto……………………………………………………………….p. 7
  2. 2.2  Struttura, stile e destinatario…………………………………………………………………..p. 9
  3. 2.3  Documentazione e ricerca……………………………………………………………………….p. 10
  4. 2.4  Problemi e scelte specifiche di traduzione…………………………………………..p. 10
  5. 2.5  Residuo traduttivo e note…………………………………………………………………………p. 11

Ringraziamenti……………………………………………………………………………………………p. 12

3.

Traduzione con testo a fronte……………………………………………………………………p. 13 Bibliografia……………………………………………………………………………………………….p. 90 Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………..p. 93

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Abstract

Equivalence, translation, and the role of the translator is an article from the volume Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Amsterdam/Atlanta, 1994). Its author, Dinda L. Gorlée, is multilingual and translator English, Spanish and Norwegian; she is also visiting Professor of Semiotics and Translation Studies at the Department of Translation Studies of the University of Helsinki and researcher in the field of Semiotics and Translation Studies. In her text, largely argumentative, Gorlée aims to show the relevance of Peirce’s philosophy of signs by taking up, as illustrative examples, the following issues: (1) equivalence between source text and target text, (2) the translation process and its phases and (3) the role of the translator in the translation process. The text presents the typical structure of essays, that is, introduction, argument, conclusion, and a considerable metatext: notes and references are to be found in every page. The style is coherent; as for syntax, Gorlée generally uses short sentences and simple constructions, with few coordinate sentences; as for lexicon, she uses a jargon and a number of Latinisms. The model reader of the original text is in all likelihood a Semiotics and/or Translation Studies scholar or lover: the issue itself is rather specific and the approach is very professional. The texts consulted for my work were, apart from monolingual and bilingual dictionaries, mainly old translations (mine) of Gorlée’s essays, where I was able to find a good number of terms. This strategy was successful as it allowed me to work quickly and easily, as did the use of searching engines, thanks to which I was able to find the information I needed and to check the use of words in real time. However, in my work some translation loss remained: an untranslatable pun based on the ambiguity of the word “mind” and a play on words based on the change of consonants. In the first case I made a note explaining that it was not possible to render the pun, assuming that the model reader should know English; in the second case I translated the sentence plainly, proven that the play on words was not indispensable to the understanding of the sentence. To avoid further translation loss I decided to add some notes, i.e. to specify that a sentence was written in Italian also in the original text. Other notes were added to translate quotations that Gorlée had left in German, giving for granted that the reader knew it.

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Prefazione 1. Fonte e autrice del testo

Equivalence, translation, and the role of the translator è un articolo tratto dal volume Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Amsterdam/Atlanta, 1994).
L’autrice è Dinda L. Gorlée, Professore Ospite di Semiotica e Scienza della

Traduzione al dipartimento di Scienze della Traduzione dell’Università di Helsinki e ricercatrice tra l’altro nel campo della semiotica in relazione alla teoria della traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica. Gorlée ha fondato la Norwegian Association for Semiotic Studies ed è stata il primo presidente della Nordic Association for Semiotic Studies. È inoltre membro del comitato esecutivo all’interno della IASS (International Association for Semiotic Studies) in rappresentanza dei Paesi Bassi. Ha collaborato in qualità di ricercatrice con numerose università tra cui l’Indiana University, l’università di Amsterdam, di Vienna e di Ouagadougou (Burkina Faso) e ha pubblicato un consistente numero di saggi di semiotica e teoria della traduzione. Si interessa inoltre di traduzione biblica, di traduzione legale (di cui dirige un’agenzia a L’Aia) e in modo particolare dell’intersemiosi lingua- musica.

Le sue pubblicazioni più recenti sono Grieg’s Swan Songs (in Semiotica 142- 1/4:153-210), 2002) e On Translating Signs: Exploring Text and Semio-

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Translation (Rodopi, Amsterdam/New York, 2004); è in preparazione il volume Song and Significance: Interlingual and Intersemiotic Vocal Translation.
Semiotics and the Problem of Translation costituisce probabilmente la sua opera più importante.

2. Analisi traduttologica

2.1 Tipologia testuale e contenuto

L’articolo che ho tradotto è un testo prevalentemente argomentativo, in cui l’autrice si ripropone di dimostrare l’attinenza della filosofia dei segni di Peirce all’interno della teoria della traduzione, tesi che Dinda Gorlée dimostra sviluppando tre argomenti principali: l’equivalenza tra prototesto e metatesto, il processo traduttivo e le sue fasi e il ruolo del traduttore all’interno del processo traduttivo.

Nel primo punto viene innanzitutto chiarito il significato del termine «equivalenza», in quanto diversi studiosi lo usano in sensi diversi. La critica della traduzione tende poi a proporre una varietà incredibile di equivalenze e a fare ampio uso di termini correlati (uguaglianza, analogia, isomorfismo…), creando una certa confusione terminologica e concettuale. Gorlée fa inoltre notare che, se in genere prototesto e metatesto vengono idealmente messi in una corrispondenza di uno-a-uno, dal punto di vista semiotico il concetto di

intercambiabilità di prototesto e metatesto risulta paradossale: poiché il 7

processo traduttivo è un atto irreversibile, non potrà mai verificarsi una ri- traduzione. Come ha dimostrato Peirce, equivalenza non è sinonimo di corrispondenza “uno-a-uno” bensì “uno-a-molti”. Il suo concetto di equivalenza è dunque governato dalla Terzità e non dalla Primità (iconicità). La studiosa illustra quindi i concetti di «equivalenza qualitativa» tra un segno e il suo interpretante (equivalenza riferita ai segni in sé) e di «equivalenza referenziale» (equivalenza dei segni prodotti dalla Secondità) e introduce le dimensioni logiche di «ampiezza, profondità e informazione», a cui Peirce si è dedicato quand’era lettore all’università, per spiegare da un altro punto di vista la connessione tra rappresentazione dei segni e interpretazione dei segni. Riprende poi con il concetto di «equivalenza significazionale» (equivalenza dei segni prodotti dalla Terzità).

Nel secondo punto Dinda Gorlée prende in esame il processo traduttivo, un altro argomento problematico della teoria della traduzione sul quale, secondo lei, è possibile far chiarezza inserendolo nella cornice della teoria peirciana dei segni. A questo scopo introduce alcune delle teorie di diversi studiosi in merito alle fasi della traduzione per esaminarle alla luce del processo interpretativo di Peirce, da lui sistematicamente descritto come un processo di ragionamento triplice consistente nella produzione di tre successivi interpretanti. Le teorie esaminate sono: le Arbeitsstufen di Koller (Rohübersetzung, Arbeitsübersetzung, druckreife Übersetzung), interessanti ma definibili solo in relazione l’una con l’altra, le quattro fasi di Toury

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(scomposizione, selezione, trasferimento, ricomposizione), non sempre applicabili e il «quadruplice movimento ermeneutico» proposto da Steiner in After Babel, che assomiglia molto alla semiosi: tre fasi più una “illusoria”: fiducia iniziale, confronto, incorporazione, (compensazione), reminescenti della successione peirciana di tre momenti interpretativi (interpretanti immediati/emozionali, interpretanti dinamici/energetici, interpretanti filiali/logici, questi ultimi suddivisi a sua volta in un interpretante logico “non definitivo” e in uno definitivo. Nel paragrafo successivo vengono spiegati i tre interpretanti di Peirce. Il primo è emergente nel momento in cui ci si trova di fronte a «situazioni problematiche di natura intellettuale» e per risolverle viene formulata una congettura o ipotesi. È la fase più istintiva e produce un flusso di idee. Il secondo, in cui le ipotesi di lavoro vengono testate e verificate mediante un giudizio fondato, e produce “una” traduzione che fornisce “una” soluzione al problema. Con il tempo e il duro lavoro, una mente allenata produrrà un terzo interpretante come soluzione quasi perfetta mediante la quale la semiosi potrebbe giungere a un punto morto. Essendo comunque un pensiero-segno, il terzo interpretante dovrà mantenere la propria efficacia comunicativa nel tempo, per cui bisognerebbe far compiere al processo semiosico un ulteriore passo, in cui il segno verrrebbe chiamato ad «adempiere all’esplosivo compito di generare la sola, infallibile abitudine con cui la semiosi giungerebbe definitivamente a termine».

L’ultimo punto discusso è quello del ruolo del traduttore nel processo 9

traduttivo, figura attorno alla quale sono sempre stati creati falsi miti, in positivo e in negativo. Il traduttore è per Peirce un medium passivo nell’attività traduttiva, poiché è il pensiero che pensa nell’uomo e non viceversa, ed egli è portato “suo malgrado” da un pensiero all’altro. Un traduttore nello spirito intellettuale di Peirce non è tanto un individuo esperto che conosce ogni risposta, quanto «uno studente dedito a ciò che si manifesta nella semiosi a cui partecipa»: è intrigato o disorientato dal segno che ha di fronte, o ne è persino innamorato… Ecco, il traduttore peirciano può essere definito come una persona che compie disinteressatamente un lavoro d’amore. Infine, nella conclusione, l’autrice propone come nuovo adagio «traduttore- abduttore» al posto del «traduttore-traditore» citato nell’introduzione: secondo lei rifletterebbe meglio ciò che in una filosofia peirciana dei segni dovrebbe essere la principale preoccupazione del traduttore, che dovrebbe staccarsi dal proprio ruolo “tradizionale” e impegnarsi nel «paradosso creativo del tradimento per aumento, […] riduzione o distorsione», altrimenti produrrebbe solo repliche morte dell’originale, e soffocherebbe la semiosi. Deve partire dai fatti ma senza, all’inizio, seguire una teoria, bensì lasciandosi guidare da una “ragione” istintiva.

2.2 Struttura, stile e destinatario

Il testo che ho tradotto è un saggio ospitato in un volume che raccoglie articoli di semiotica e teoria della traduzione. Presenta quindi la struttura tipica dei 10

saggi: introduzione, argomentazione e conclusione. L’argomentazione si articola a sua volta in dieci paragrafi: Introductory remarks, Equivalence, Qualitative equivalence, Referential equivalence, Breadth, depth, information, Significational equivalence, Translation process, First, second, and third logical interpretants, The role of the translator, Concluding remarks. Presenta inoltre un corposo apparato paratestuale: note e rimandi sono presenti praticamente in ogni pagina.

Lo stile è lineare. Per quanto riguarda la sintassi, Gorlée usa periodi generalmente brevi, poiché spezzati mediante la punteggiatura, e di costruzione semplice, con poche coordinate. Ciò rende il testo abbastanza scorrevole, un pregio per un testo di tipo argomentativo. A livello lessicale, il testo presenta una certa terminologia settoriale e un buon numero di latinismi. Il lettore modello del testo originale è con tutta probabilità un appassionato o uno studioso di semiotica e/o scienza della traduzione. Quest’ipotesi ci è confermata prima di tutto dall’argomento, non certo da manuale di divulgazione, e poi dal taglio piuttosto professionale: il testo, oltre a usare come già detto una terminologia settoriale, offre numerosi rimandi a testi e saggi della stessa disciplina. Ciò dimostra che l’autrice aveva in mente destinatari con una discreta se non buona conoscenza della materia.

2.3 Documentazione e ricerca

Per far fronte a dubbi e difficoltà sono ricorsa essenzialmente a dizionari 11

(monolingui e bilingui), a testi paralleli e a internet. Come testi paralleli ho consultato per lo più mie traduzioni precedenti di testi della stessa autrice, in cui ho potuto ritrovare buona parte della terminologia. Tale strategia si è rivelata particolarmente utile e rapida, così come la consultazione di motori di ricerca, che mi ha permesso di trovare in tempo reale informazioni riguardo agli studiosi citati e alle loro teorie, di consultare un buon numero di dizionari on line e di verificare l’uso di alcuni termini; attraverso il Servizio Bibliotecario Internazionale ho potuto poi controllare quali testi erano stati tradotti in italiano. Preziosi sono stati inoltre i chiarimenti del mio relatore e della mia correlatrice.

2.4 Problemi e scelte specifiche di traduzione

Ho avuto qualche difficoltà nella traduzione della frase «To ignore its need to grow would be an antiquarianism» (pag. 60), termine quest’ultimo che i dizionari consultati (Merriam-Webster, Oxford Dictionary and Thesaurus, Enciclopaedia Britannica, Picchi) non riportavano. Inizialmente avevo pensato come possibile traduzione «[…] equivarrebbe a fare dell’antiquariato», ma mi sono poi resa conto che «antiquariato» avrebbe fatto pensare più che altro al commercio di oggetti antichi, insomma era troppo connotato. Dovevo trovare una parola più generica, più astratta, che si avvicinasse di più al concetto che voleva esprimere l’autrice, ossia la mania di conservare cose (in questo caso segni-parole) antiche, antiquate. La mia correlatrice mi aveva proposto 12

«arcaismo», ma poi abbiamo convenuto che allora anche l’autrice avrebbe potuto benissimo servirsi del termine «archaism»: evidentemente voleva un termine più particolare, più “a effetto”. Anche «arcaismo», inoltre, mi sembrava troppo connotato. Forse per assonanza, mi è venuto in un secondo tempo in mente il termine «antichismo», anch’esso usato molto raramente nella lingua italiana e quindi rispecchiante la scelta di Gorlée e soluzione migliore della precedente anche perché manteneva il suffisso «-ismo», a marcarne l’accezione ideologico-astratta. Ho provato a inserirlo in Google, trovando, tra l’altro, una pagina che lo usava nel seguente modo: «Questo richiamo ai costumi degli antichi non è dettato da alcuna forma di “antichismo”». Mi è sembrato che usato così si avvicinasse molto alla connotazione data a «an antiquarianism» da Gorlée, per cui l’ho ripreso nella mia traduzione: «Ignorare il suo bisogno di crescita sarebbe una forma di antichismo».

Per il resto non ho avuto particolari problemi, avendo già tradotto testi di questa teorica.

2.4 Residuo traduttivo e note

Nel testo tradotto sono rimasti due residui traduttivi. Uno è a pag. 63, nella traduzione della frase «[the translator] has been invested, and indeed infested, with such images as the copyist, the acolyte […]». Qui l’autrice attua infatti un 13

gioco di parole basato sul cambio di consonante (inVested – inFested) che in italiano non è stato possibile rendere. Mi sono limitata pertanto a tradurre la frase così com’era, dato che, per quanto simpatico, il gioco di parole non era indispensabile per la comprensione del testo, a differenza di quanto accadeva a pag. 47 nella citazione di Peirce: «[…] and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind […]». Anche qui troviamo un gioco di parole, questa volta però intraducibile in quanto in italiano non esiste un termine che abbia contemporaneamente tutti i significati che ha il termine inglese «mind». Alla luce di ciò, l’unica “soluzione” è stata quella di lasciare la citazione originale e aggiungere una nota spiegando questa scelta. Altre note che ho ritenuto necessario aggiungere: a pag. 17, la traduzione dei termini in tedesco, lingua che magari non tutti i lettori potrebbero conoscere e che invece Gorlée dà più volte per scontata (forse in quanto plurilingue?), si vedano anche pag. 49 e 51; a pag. 79 ho specificato che l’adagio «traduttore traditore» e la nuova versione di Gorlée «traduttore abduttore» erano in italiano anche nel testo originale. Ho reso inoltre esplicita l’etimologia del termine «traditore» (trado=consegnare, affidare, tramandare), menzionato dall’autrice nella frase: «Forse traditore può essere qui preso positivamente, nel suo senso etimologico – che renderebbe il traduttore un trasmettitore neutrale del messaggio». Non è infatti detto, a mio avviso, che tutti i lettori la ricordino o la intuiscano immediatamente.

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3. Ringraziamenti

Vorrei ringraziare in particolare il professor Bruno Osimo e la professoressa Cynthia Bull per la gentile collaborazione e la disponibilità. Un grazie sentito anche a tutti coloro che mi hanno incoraggiata durante la stesura della Tesi.

Dinda L. Gorlée

EQUIVALENCE, TRANSLATION, AND THE ROLE OF THE TRANSLATOR

“If we were to translate into English the traditional formula Traduttore traditore as ‘the translator is a betrayer’, we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? Betrayer of what values?”

Introductory remarks

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(Jakobson 1959:238)

Certain translation-theoretical key issues have loomed large in the preceding chapters, and deserve to be addressed at this point. Despite the longstanding discussions among translation theoreticians about precisely these issues, no agreement seems to be in view at this time. Yet it may be said without undue drama that proper and continued discussion of these controversial topics, from a variety of methodological angles, is critical to the harmonious evolution of the interdisciplinary (or better transdisciptinary) field of translation theory. If it can be shown – as I propose to do in these pages – that Peirce’s philosophy of signs throws new light upon these problems, my contribution here will be instrumental, albeit in a modest way, in bringing the discussion closer to a consensus, a “settlement of opinion” in Peirce’s spirit.

Let me therefore next take up, as illustrative examples of the relevance of a Peircean semiotics to translation theory, the following issues: (1) equivalence between source text and target text, (2) the translation process and its phases and (3) the role of the translator in the translation process.

Equivalence

By equivalence will be meant here the stipulation, recurrent in any text in the theory of translation, that there be between source text and target text identity1 across codes. Firstly, different translation scholars use the notion of equivalence in different senses, Koller (1992:214-215) mentions, among others, Nida’s “closest natural equivalent”, Wilss’s “möglichst äquivalenter zielsprachlicher text” and Jäger’s term, “kommunikativ äquivalent”. The picture is further blurred by the manifold qualifications given the term, which is often used not in a merely descriptive (that is, value neutral) sense, but as an a priori requirement with which a text should comply in order to qualify as an adequate translation. The varieties of equivalence which have been put forth in translation criticism is indeed truly astonishing: besides “translation equivalence”, the seemingly most general term2, one finds “functional 16

equivalence”, “stylistic equivalence”, “formal equivalence”, “textual equivalence”, “communicative equivalence”, “linguistic equivalence”, “pragmatic equivalence”, “semantic equivalence”, “dynamic equivalence”, “ontological equivalence”, and so forth; to say nothing of the ostensibly free use of related terms such as sameness, invariance, congruence, similarity, isomorphism, and analogy.

In this landscape of, it would seem, utter terminological and conceptual confusion,

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it is nevertheless clear that it is generally claimed that original text and translated text are ideally placed in a one-to-one correspondence, meaning by this that they are to be considered as codifications of one piece of information, as logically and/or situationally interchangeable, – the “invariant core” being, of course, “a hypothetical construct only” (Toury 1978:93)3. However, semiotic viewpoint this would seem to be a misconception, or at least a gross simplification of the facts. One case in point is Jakobson’s statement (1959:233): “Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics”, and hence of translation. In general-semiotic parlance, one would say that both original and translation are signs forming part of a semiosic chain – a sequence of interpretive signs. Yet in contradistinction to the interchangeability claim, the translation follows from and is caused by (Peirce would obviously say “is determined by”) the original; it is its interpretant-sign. If both signs are lifted out of the infinite semiosic sequence and studied in isolation, the original is of the two the primary sign, both temporally and logically. The interpretant is not an imitation of an immanent structure of the sign or the object, nor is it an arbitrary structure imposed on the object from the outside. It is the law or habit (weak or strong), through which sign and object become related so that an effect of the semiosis can occur. The mediating sign-action, once set into motion, is a recursive but irreversible process of sign translation. This implies that there is in the sense intended here no back-translation possible: the pre-semiosic situation cannot be restored. This turns the very idea of interchangeability between original and translation into a paradox. Indeed, the semiosis has not only dramatically changed the original sign; it also offers, perhaps, new knowledge of the dynamical object (in Peirce’s sense) to which both signs, if still indirectly and incompletely, refer.

To reduce sign translation, linguistic or otherwise, to mimicry or to a mirroring procedure is to respond to nothing but the sign’s Firstness, and thus to atrophy its full signifying potential. A translation is obviously more than a “hypoicon” – an iconic in

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otherwise degenerate Third (Gorlée 1990). From a semiosic standpoint, the zealously pursued preservation of any semiotic substance – be it meaning, information, ideas, or content (just to mention some of the commonly used terms) – is more than irrelevant, counterproductive to what translation should be concerned with, namely the sign-and-code- enriching confrontation between sameness and otherness: “du Même et de l’Autre” (Ladmiral 1979:209)4. Genuine semiosis is non-mechanical engenderment and re- engenderment, and is for this reason the very opposite of mimesis: “Nay, exact conformity would be in downright conflict with the taw [of habit]; since it would instantly crystallize thought and prevent all further formation of habit” (CP:6.23,1901).

Mention of one tradition within linguistics – Humboldt’s (1767-1835) linguistic relativism – is in order here, because it opposed at an early date what may he called the received view (according to which fixed world-word connections are established), thereby foreshadowing Peirce’s dynamic version of the indeterminacy of meaning, the Sapir-Whorf hypothesis, as well as some of Chomsky’s concepts. I refer here to the

adage of Wilhelm von Humboldt’s, one that was later embraced (although never explained) by Chomsky – who called it in his early writings “creativity”, or sometimes “open- endedness” – about the capability of languages to “make infinite use of finite means”. (Sebeok 1991:29)

Humboldt’s “alternative” view is of particular interest in a discussion of translation, because it would later inspire, explicitly and/or implicitly, the “holistic” view on literary translation which was initiated by Holmes and further developed by Toury and others5. This approach would, despite its concentration upon one particular kind of translation – the translation of verbal art –, or perhaps because of it, breathe new life into what had become a rather unfruitful approach to it from traditional linguistics. According to the relativistic concept of

verbal language, different languages correspond to different world-visions. From the 19

viewpoint of the different languages, reality is not experienced as it “really” is, but as it is molded, reflected – subjectively, homogeneously, but variously – in and by the different languages.

Although Humboldt is frequently recognized as the founder of general linguistics, his pioneering role in linguistic semiotics has received scant recognition (Schmitter et alii 1986:317). This is perhaps due (as indicated by Trabant 1986) to Humboldt’s language- orientedness which has turned problematic at a time when sign-theoretical discussions, following Peirce, are moving away from “linguistic imperialism” and towards a semiotic perspective which places the verbal and the non-verbal on a continuum, the former being superior to the latter, but nevertheless building upon it. Not coincidentally, Humboldt considered language to be not only a system of social invented and intrinsically arbitrary signs, but also to have an iconic aspect to it6.

Prefiguring, it would seem, Saussure’s langue-parole dichotomy, Humboldt distinguished between language as ergon (theory, a written or orally transmitted verbal corpus) and energeia (praxis, a verbal activity). While the latter builds and feeds the former, it – energeia – is for Humboldt the essence of language itself. Language consists not only of a systematic, rule-bound whole, but of energies, and this dynamic interactive principle elevates language to the semiotic (or rather, semiosic) status of expression of thought. Humboldt’s so-called “anti-semiotics” of language (Trabant 1986:69-90) was only opposed to a linguistic semiotics to the extent that the latter limits its considerations to the arbitrary and conventional nature of the signs of language, thereby “killing all its spirit and sending all its life into exile” (Humboldt in Trabant 1986:72; my trans.). In fact, language is, for Humboldt (as it would later be, if in a more radically evolutionary paradigm, for Peirce) a living “organism” (Nöth 1990:201), an essentially semiotic sign-system, an irreversible processuality, in which man establishes shifting connections between language and the phenomena of the world surrounding him.

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The relevance of this to translation/interpretation in Peirce’s sense should be clear. Peirce himself used the term “equivalence” with special reference to the interpretant. This shows that for him equivalence was synonymous not with one-to-one correspondence, as in Firstness (iconicity) and, in a different modality, in Secondness, but with the kind of one-to- many correspondence that obtains whenever a sign “gives birth” to an interpretant (or rather a series of interpretants). Two signs which are thus dynamically equivalent7 can be logically derived from one another. Peirce typically struggled with language trying to express exactly what he meant by his dynamic equivalence which takes place in the semiosis:

A sign . . . is an object which is in relation to its object on the one hand and to an interpretant on the other in such a way as to bring the interpretant into a relation to the object corresponding to its own relation to the object, I might say “similar to its own”[,] for a correspondence consists in a similarity; but perhaps correspondence is narrower. (PW:32,1904)

In his much-quoted definition of a sign, Peirce said that the sign creates in the mind of the person it addresses an “equivalent sign, or perhaps a more developed sign” (CP:2.228,1897). Elsewhere he noted: “An equivalent of a proposition is the same proposition differently materialized. For the proposition consists in its meaning” (MS599:62,c.1902), which implies that it is not what language or code a text-sign is in, but what signification it has, which is to the interpretational (that is, the translational) point. That Peirce’s concept of equivalence is teleological (that is, is governed by Thirdness) is further put into evidence by his statement that “two signs whose meanings are for all possible purposes equivalent are absolutely equivalent” (CP:5.448,n.1,1906; emphasis added).

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Qualitative equivalence
Let us next take a closer look at Peirce’s views on equivalence by approaching somewhat

differently. It should by now be clear that translational equivalence cannot be identified, at least not wholly, with an algebraic equation or other sign of Firstness. Discussing different sets of diagrams, Peirce ascertained that it every algebraic equation is an icon, insofar as it exhibits by means of the algebraic signs (which are not themselves icons) the relations of the quantities concerned” (CP:2.282,c.1893). After giving this quote from Peirce, Jakobson added the following:

Any algebraic formula appears to be an icon, “rendered such by the rules of communication, association, and distribution of the symbols”. Thus “algebra is but a sort of diagram”, and “language is but a kind of algebra”. Peirce vividly conceived that “the arrangement of words in the sentence, for instance, must serve as icons, in order that the sentence may be understood”. (Jakobson 1971b:350)

Now this is no doubt true for the physical construction of whole sentences and sets of sentences. And in this sense two linguistic signs, each one couched in a different code, can share the same overall external structure of their parts, and thus be derived from the same model, the common source which itself remains tacit. In this sense, too, a text and its translation (both composite linguistic signs), taken together, may be viewed as a self- reflexive dual construct; they do not need anything beyond themselves in order to be recognized and understood as signs sharing a number of significant qualities – sensory and/or material properties. It is easy to imagine that texts such as a sonnet, a marriage contract, and a court reporter’s transcript share some significant physical features with their respective translated versions – sign-internal features which may even be appreciated

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without knowledge of the languages8 involved. Such common features are abstracted from sign-external reality, and may occur, in some form or other, in all codes, linguistic and non- linguistic alike. For example, in the case of verbal text-signs, the primary text and its translation may show an equivalent length, distribution of paragraphs, rhyme structure, and/or use of punctuation9. Such features make them immediately recognizable as similar signs – similar, that is, in “feel”, “tone”, or other “quality of feeling” (as Peirce would say).

If both signs (the translated and the translating sign) are taken as being morphologically, syntactically, etc. symmetrical (in other words, as mutually convertible across code barriers) this is done without taking into due consideration that one is the antecedent and the other the consequent. Yet the essential hierarchical relation which determines the one to be the interpretant of the other, and not vice versa, cannot be denied. Translational equivalence must always be a diachronic affair (to use a term from Saussure). Moreover, various quasi-synonymous equivalents (with mutually inconsistent terms) may be obtained from one sign. This means that the sign and its equivalent interpretant-sign may only be considered as one another’s counterparts to the extent that their signhood in its aspect of Firstness is under inquiry. I propose to call this equivalence referred to the signs-in-themselves “qualitative equivalence”.

Referential equivalence

Having traced qualitative equivalence between a sign and its interpretant-sign, we may next consider equivalence originating from Peirce’s other categories: Secondness, the category of the object, and Thirdness, the category of the interpretant. The aspects of sign equivalence yielded by Secondness and Thirdness will be called respectively “referential equivalence” and “significational equivalence”. The three aspects of equivalence together may then be named semiotic (or more accurately, semiosic) equivalence. This will be explained in adjacent paragraphs.

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Concerning referential equivalence between sign and interpretant-sign, a distinction must be made between the standing-for relation on the level of the immediate object and on the level of the dynamical object10. The immediate object being the idea called up directly by a particular sign-use, is only knowable through the sign. As opposed to qualitative aspects of the sign (Firstness sensu stricto) the sign-immediate object relation represents the Firstness of Secondness; it concentrates on the sign’s referent on referents on the code level. Of course, the sign may be placed in any code or sign-system, verbal or nonverbal; and its immediate object is given in the exhibitive, ostensive, or verbal (depending on the code) manifestation of the sign. The interpreter sees the object only insofar as the sign reflects it. Without previous acquaintance with the code the sign is in, it is not possible to gain knowledge of its immediate object, let alone to penetrate into the inner sanctum of its “deeper” signification.

Translation involves at least two codes: a source code and a target code. For a sign in one code to be a translation of a sign in a different code, the respective immediate objects need not be the same. Since the immediate object is “the idea which the sign is built upon” (MS318:70,1907), it is differently represented in each code. The immediate object will be subject to change in and through the intercede semiosis of translation. In tandem with equivalence on the level of the sign, here too sameness is no requirement, neither on the micro-level (such as, in language, word-to-word or sentence-to-sentence correspondence) nor on the macro-(i.e., textual) level; and here too equivalence must be understood in a broad sense, as the kind of “loose” sameness created through any kind of semiosic interpretation, This does not imply that it is not crucial for both signs (the primary sign and the translated sign) to give, through their immediate objects, “hints” (as Peirce called them), careful examination of which in their contexts must lead to the same underlying idea, – the common real” or “dynamical” object, which stays itself outside the sign relation and is therefore not translated,

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Let me give one example of this, To translate the Spanish expression, cortar el bacalao, by an expression which is identical on the immediate-objectual level creates equivalence if the expression occurs, for instance, in a fish recipe. But if the expression refers, in a figurative sense, to power structures, identity on the level of the immediate object would be a misinterpretation and distortion of the real facts pointed at by and in the code. The immediate object is therefore one referential meaning criterion, but one which needs to be supplemented by contextual information. A sign normally does not function in a vacuum, but is embedded in a communicational environment which supplies linguistic, referential, ideological, etc. indications to its right understanding. It is only within such a context that the interpreter can be led by the immediate object towards the dynamical object – the real feeling, thing, event, phenomenon, thought, or concept which causes the sign relation but remains itself independent from it.

The dynamical object is itself absent and remains outside the semiosic event. It is the Second under the aspect of Secondness; and as a “double Second” it is only knowable through the immediate object, which, as indicated, is the outward perceptible form in which the object manifests itself in the sign. In order to get to know the dynamical object of a sign one can only perceive, study, and try to understand what is implied by the immediate object. This requires, according to Peirce, “experience”, “collateral observation” (real or imagined), and skills such as “imagination and thought” (MS318:77,1907). The dynamical object corresponds to the hypothetical sum total of all instances of the sign-bound immediate object, of which the primary sign and the translated sign are two instances couched in different (sub)codes and more often than not with different immediate object. “No man can communicate any information to another without referring to some experiences to be shared by him and the person whom he addresses” (NEM3,2:770,1900). Like all other forms of communication, translation is sign-action within a physical universe of social interaction. The existence of a common experiential ground is a

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crucial element of communication: without it, access to knowledge of what the message really means (its dynamical object) is blocked. The more freely and directly collateral experience is shared with a partner in a communication situation, the more efficient the communication. Peirce wrote:

I go into a furniture shop and say I want a “table”. I rely upon my presumption that the shop-keeper and I have undergone reactional experiences which though different have been so connected by reactional experiences as to make them virtually the same, in consequence of which “table” suggests to him, as it does to me, a movable piece of furniture with a flat top of about such a height that one might conveniently sit down to work at it. (NEM4:259,c.1904)

In other words, “when there are both an utterer and an interpreter, the [dynamical object of the sign] is that which the former has in mind, but which it does not occur to him to express, because he well knows that the interpreter will understand that he refers to that, without his saying so” (MS318:69,1907). By this token, it is essential for intercode communication to successfully take place, that the communicational partners, though belonging to different codes, have acquired and possess, albeit implicitly, a shared knowledge of the phenomena of the world in their different semiotic expressions.

Obviously, it is easier to get to know a dynamical object which has an indexical relation to the sign than one which is an icon or a symbol.11 What the latter have in common, and what distinguishes them from Seconds, is their generality. Iconic signs show possible attributes, yet unattached to any existent; symbolic signs give general rules, applicable but not yet applied to a particular case; while indexical signs are concrete sign- instances embodying icons and governed by symbols.

Now even if the primary sign and the translated interpretant-sign have different immediate objects, their dynamical objects will always need to be identically the same, at least ideally. Even their sameness is, however, relative, since it is to some degree always the result of an interpretation, of an inferential procedure. In other words, the relation

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between the two must be mediated by a semiosis which makes it possible for one to be a logical consequence of the other. Before embarking upon further analysis of this, I will try to explain form a slightly different angle how sign-representation is connected with sign- interpretation.

Breadth, depth, information

The sign’s standing-for and standing-to relations must be taken together for a specific purpose: to introduce a group of concepts which, though still connected with the sign and the code it is in, pertain specifically to its external relations. These concepts were addressed by Peirce as a young lecturer, most prominently in his paper “Upon logical comprehension and extension” (W1:454-471,186612). I shall not attempt to give an exhaustive account of Peirce’s thought here, but will limit myself to the ideas having a direct connection with my main theme.

Following a long-recognized tradition, Peirce argued in the above-mentioned Lowell Institute Lecture VII that a word (or any other symbol13) has two different logical dimensions which, as stated by Peirce in a later manuscript, “are equally applicable . . . to . . . all kinds of signs” (MS200:49,1907). One of these logical dimensions is “extension”, “denotation”, or “breadth”; the other is “comprehension”, “connotation”, or “depth”. Despite the fact that these concepts have been standard expressions in logic since the Port Royalists, they have been lacking in precise designation. Peirce proposed to adopt as the most serviceable designations, logical breadth and depth.

The logical breadth, or denotation, of a term relates the term to the world. It indicates the (real) individuals or objects to which the term applies and which occasion its use. Logical depth, or connotation, refers to a term’s meaning-content, the attributes or qualities that can be predicated to it, “the possibilities which are imagined or judged to be realized” in those individuals (MS200:49,1907). Not only does the word force an

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interpreting mind to recognize the thing, phenomenon, event, or relation which is indicated or designated by it; the word is also informed and influenced by its designatum, or object; and finally, “Everything must be comprehended or more strictly translated by something” (W1:333,1865). Note, however, that both aspects are not equally important: “Every symbol denotes by connoting” (W1:272,1865). Peirce wrote, and “Denotation is created by connotation” (W1:287,1865). Whereas both aspects of the word are essential, depth, as referring to sign-enriching action, thus has priority over breadth, the indicative aspect of the sign. As Peirce put it later (in an unpublished letter to his former student, Christine Ladd- Franklin), “the depth of the sign seems to be nothing but its better self. The sign is related to its depth . . . as an idea to an ideal, as memory to vivid hallucination . . . (MSL237:187,1902).

Logical breadth refers backward to the object, and logical depth forward to the interpretant. The dual elements in the sign produce what Peirce called “information”14. Whenever a sign is interpreted, it “always results in an increase either of extension [denotation, breadth] or comprehension [connotation, depth] without a corresponding decrease in the other quantity” (W1:464,1866). By information Peirce meant the “amount of com-

prehension [connotation, breadth] a symbol has over and above what limits its extension [denotation, breadth]” (W1:287,1865). And increase of information of a sign means “an addition to the number of terms equivalent is produced; in other words, in each act of sign interpretation/translation new knowledge (that is, Thirdness) is generated15.

The following passage from Peirce, taken from a later work, may help to clarify the foregoing analysis:

A symbol, once in being, spreads among the peoples. In use and in 28

experiences, its meaning grows. Such words as force, law, wealth, marriage, bear for us very different meanings from those they bore to our barbarous ancestors. (CP:2.302,c.1895)

Take, for instance, the occasion when, in common law, a judge makes a court decision which establishes a new precedent for a certain type of case; or when, in Roman law, a new law is added to the body of law. What transpires then is an increase of information. The term “law” can be applied to a new object, but its basic characters remains unchanged. Consequently, it has increased in breadth, but with no increase in depth. Or imagine a newly-married convert to Islam, locked up in a harem. Her concept of “marriage” has probably undergone a dramatic change. Though the marital institution itself is the same as she knew it previously, a series of new characters were added to it. The term “marriage” remained constant in breadth, but has increased in depth. In this case, too, information has increased. By “spreading among the peoples” (CP:2.302,c.1895) (that is, by being interpreted, translated), the semiotic features of symbols (words, concepts, etc.) are developed and enhanced.

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Significational equivalence

Inspired by these and similar thoughts, Peirce “invented” the concept of the interpretant as he saw it, thus:

Indeed, the process of getting an equivalent for a term, is an identification of two terms previously diverse. It is, in fact, the process of nutrition of terms by which they get all their life and vigor and by which they put forth an energy almost creative – since it has the effect of reducing the chaos of ignorance to the cosmos of science. Each of these equivalents is the explication of what there is wrapt up in the primary – they are the surrogates, the interpreters of the original term. They are new bodies, animated by that same soul. I call them the interpretants of the term. And the quantity of these interpretants of the term. And the quantity of these interpretants, I term the information or implication of the term. (W1:464- 465,1866)16.

From the perspective of Peirce’s evolutionary logic, each translation makes the implicit more explicit, thereby involving increased information. This is clearly expressed by Peirce’s “a sign is something by knowing which we know something more” (PW:31- 32,1904). The growth of knowledge is accompanied by an increase in either breadth or depth. It has no influence upon the signified facts themselves, nor the characters attributed to them, which may be either true or false (NEM4:24,c.1904). But when two signs are equivalent, they denote the same things and have the same logical breadth. They may depend, for their truth-value, upon a particular connotative depth (as obtained in interpretation) or they may depend only upon this denotative breadth.

The interpretant is supposed to indicate the same things or facts as the primary sign,

and to signify these things, and assert these facts, in like manner. But both relations are 30

unlikely to remain constant and unchanged in the course of time – in other words, in the course of a series of semiosic events of an inferential nature. Equivalence, in the strictest sense, between sign and interpretant is therefore logically impossible: it would stifle the growth of knowledge, which growth is exactly the point of sign production and sign use. Ours whole human universe being, in Peirce’s words, “perfused with signs, if it is not composed exclusively of signs” (CP:5.448,n.1,1905), we communicate by signs, of which we produce a constant stream of new interpretants, which we interpret again, and so on. During this never-ending inferential process, new significations (and thereby new truth- values) are constantly put forth, probed, weighed, accepted, negotiated, defended, ignored, held in reserve, rejected, etc.17 New knowledge is thereby accrued of the object. In accordance with Peirce’s pragmatic maxim, the ultimate goal of this exercise remains, nonetheless, to achieve total knowledge of the meaning of a sign. To achieve this, one needs to persevere in making ever-new interpretations/translations of the sign, in order to gain access, via the sign and its immediate object, to the sign’s prima causa, the dynamical object. In the final analysis, translation, linguistic and otherwise, is about our own life- world, real and imagined, and the myriad ways in which we make sense of it by creating significational equivalents of it and its parts18.

Translation process

Let us next take another example of an issue in translation theory for which a solution can be found by placing it into the framework of a Peircian theory of signs. The translation procedure itself has been commonly but arguably hypothesized as a chronological scenario involving variously three or four stages. It is tempting to view the nature and role of these stages in the light of Peirce’s process of interpretation, which is systematically described by him as a threefold reasoning-process consisting in the production of three successive interpretants.

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In reference to the study of the translation process in itself, Toury advances the following cautionary remarks:

Since we know very little of the inner, psychological mechanisms involved in translating, any single act of this kind of activity is in the position of a “black box”, that is, an open system whose internal structure can be guessed at, or tentatively reconstructed, only on the basis of the relationships between the entities established as its input and output. (Toury 1986:1114)

Now, rather than a sign of intellectual humility, the foregoing remarks appear to me to call for a Peircean approach to the phenomenon of translation. It is a well-known fact that Peirce, the logician, was radically opposed to psychologism – meaning by this the dependence of semiotics upon psychology. For him, the study of sign action does not require knowledge of the exact workings of the human mind. This is not to say that Peirce considered that the mind as a thinking (i.e., sign-processing) agency was irrelevant to his logic; rather, the reverse is actually true. “I am using mind”, Peirce wrote half in jest,

. . . as synonym of Representation; and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind. I think they mainly talk about consciousness, in the sense of the first category, and hypothetical arrangements in the brain. (MS478:157,1903)

Instead of Firstness, Peirce, the logician, studied Thirdness; “not the psychological process, but the logical function” (MSL237:126,c.1900); not the contents of the “black box” itself, but the inferential processes leading from premisses to conclusions. These processes he called the “modes of action of the human soul” (CP:6.144,1892). All thought is, for Peirce, about showing how one sign leads rationally to another, thereby signifying growth and

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development. This being Peirce’s main subject of inquiry, he would hardly have been inclined to embark upon a serious investigation of how mental processes may fail, derail, or get paralyzed, as would be the concern of the psychologist19.

For the purpose of the argument here, it is critical to bear in mind that semiotics as Peirce conceived it is a query about the logical relationship between a particular sign on the on hand, and its interpretant or translated sign on the other; and also that this relationship can be defined as either abductive, inductive, or deductive. The translation process being a mental process not open to direct scrutiny, Toury seems to contend (at least in the above quotation) that it can only be explained by abduction, while this makes a perfectly valid statement, it would for Peirce probably have been a somewhat “pessimistic ” way of dealing with the facts of the matter. Despite their reliance on guessing instinct, abductive hypotheses are often remarkably right in their explanations of the facts, so their truth-value should not be considered too lightly. Moreover, abductive leaps call for inductive testing, the search for facts by “experiments which bring to light the very facts to which they hypothesis had pointed” (CP:7.218,1901). Finally, induction again prepares the ground for deduction, the development of laws ruling the facts and giving them a “purpose or end” (MS292:13,c.1906). For the argument here, the questions raised by Toury are timely, because the three kinds of reasoning are directly dependent on the categories and must be considered as the equivalents, in the logical sign relation, of the three kinds of logical interpretants which correspond to the three stages in the translation process. This shall be argued in subsequent paragraphs.

Let us first introduce, seriatim, some of the ideas as to the stages in translation, as proffered by different scholars. In a highly praxis-oriented spirit, Koller (1992:203-204) distinguishes between three “Arbeitsstufen”: the “Rohübersetzung” or shortlived transla-

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tion, the “Arbeitsübersetzung” or middlelived translation, and the “druckreife Übersetzung” or longlived translation, Koller’s criteria are qualitative and correspond to a mounting scale of grammatical, lexical, stylistic, etc. “Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit”, “accuracy, correctness, and adequacy” (Koller 1992:20-4). As explained by Koller, the first phase produces a draft translation of limited scope and usage. Its focus on “Genauigkeit”, or accuracy, means that there must be “Identität des Inhaltes”, but violations against morphological, syntactic, phraseological, lexical, stylistic, etc. rules are in this stage still accepted. In a second-phase translation, “Genauigkeit und Richtigkeit”, accuracy and correctness, are required; it may contain no grammatical, lexical or stylistic errors. Finally, Koller’s “print-ready” translation is characterized by the triad, “Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit” – accuracy, correctness, and adequacy. A product of solid research and serious reflection, it is intent on satisfying the highest norms and expectations. It must be noted, however, that the progression from, roughly, fidelity to source-fact, to agreement with target-code, and finally accordance with text-type between source-text and target-text, sets singularly relative priorities. The three steps advanced by Koller to describe the quality of the translator’s performance can only be defined in relation to one another. External criteria of assessment are absent here. This greatly reduces the usefulness of Koller’s three- step process outside pure translation practice and pedagogy.

With some necessary “theoretical speculation”, Toury himself proposes a four-stage schematic representation of translation:

(1) an indispensable decomposition of the initial entity up to a certain,

varying

level,

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and assigning its constituents at this level the status of “features”;
(2) a selection of features to be retained, that is, the assignment of relevance to some part of the initial entity’s features, from one point of view or another;
(3) the transfer of the selected, relevant features over (one or more than one) more or less defined semiotic border;
(4) the (re)composition of a resultant entity around the transferred features, while assigning to them the same or another extent of relevancy. (Toury 1986:1114)

In contradistinction to Koller’s practical proposal describing the quality of the end-product, ‘I’oury’s program is highly theoretical and process-oriented. A prerequisite for it is that the text ab quo can be divided into discrete units, some of which may then be considered as relevant “from one point of view or another” (as signifying, in semiotic parlance) and others as irrelevant (as non-signifying). Only the former are then transcoded, while the fate of the latter, evidently disposable, units remains rather unclear in Toury’s proposal.

It would seem to me that no parts of a text-sign may be concealed by camouflage without practicing some form of erosion, whereby the semiotic substance is thinned in the successive semioses it undergoes, instead of becoming progressively richer in content, as Peirce would have it. The notion of relevancy brandished by Toury is really a dangerous and indiscriminate weapon. Due to the fact that it may have either an ideological or an intuitive bias, or both, Toury’s scenario here seems more tailored to suit rhetorical needs than to lead to the summum bonum, the truth in the way Peirce saw it20.

In After Babel, Steiner proposes a fourfold “hermeneutic motion, the act of elicitation and appropriative transfer of meaning” (Steiner 1975:296), which in his description really consists of three stages and an illusory fourth. In the first stage there is,

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according to Steiner, “initiative trust” in the meaningfulness of the “‘other’ as yet untried, unmapped alterity of statement” (Steiner 1975:296) in the text-to-be-translated. This trust “will ordinarily be instantaneous and unexamined, but it has a complex base” (Steiner 1975:296). After what looks like a description of Peirce’s Firstness, Steiner proceeds to the second stage of translation, where the initial trust is put to the test of confrontation, and the “manoeuvre of comprehension [becomes] explicitly invasive and exhaustive” (Steiner 1975:298). The text is now attacked, as it were, in its “otherness”, in an act of aggression in which we “‘break’ [its] code . . . leaving the shell smashed and the vital layers stripped” (Steiner 1975:298). Now, this is remarkably similar to Peirce’s Secondness. “The third movement”, Steiner continues, “is incorporative, in the strong sense of the word . . . embodiment . . . [W]e come to incarnate alternative energies and resources of feeling” (Steiner 1975:298-299). This last process, of “comprehensive appropriation”, may result in a “complete domestication, an at-homeness” of the translation in its new situation; or the translation may have acquired a “permanent strangeness and marginality” in it (Steiner 1975:298). The fact that a translation may work either like “sacramental intake” or like its opposite, an “infection” (Steiner 1975:299), means, for this critic, that it still lacks

. . . its fourth stage, the piston-stroke, as it were, which completes the cycle. The aprioristic movement of trust puts us off balance. We “lean towards” the confronting text . . . We encircle and invade cognitively. We come home laden, thus again off-balance, having caused disequilibrium throughout the system by taking away from “the other” and by adding, though possibly with ambiguous consequence, to our system is now off-tilt. The hermeneutic act must compensate. If it is to be authentic, it must mediate into exchange and restored parity. (Steiner 1975:300)

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By reaching this new state of synthesis, Steiner’s model has come full circle. Though Steiner would surely never place himself under the banner of semiotics – any semiotic banner –, yet his “hermeneutic motion” closely resembles semiosis, and his stepwise scenario described above is interestingly reminiscent, conceptually and otherwise, of Peirce’s succession of three interpretive moments as manifested in the first (immediate/emotional), second (dynamical/energetic), and third (final/logical interpretants) – the latter again subdivided, according to Short (1986a:115), in a “non-ultimate” and an ultimate logical interpretant21.

Translation, at least in its lingual varieties, deals with signs interpretable by logical interpretants; it is a “pragmatic” process of making sense of intellectual concepts, or signs of Thirdness. The solution of mental problems, of which translation would be one exemplary instance, occurs for Peirce in three, perhaps partly overlapping, inferentially- reached developmental stages showing an increasing degree of “hardness” or solidity of belief22. When embodied in an actual (and thus observable) tangible (and thus testable) translation, this concept may serve as a quality norm roughly similar to Koller’s above- mentioned three grades of “accuracy, correctness, and adequacy” (Koller 1979:94). This is hardly coincidental, because Peirce’s logic is a normative science (Ransdell 1981:201- 202n;Fisch 1996:269ff.) – albeit in a more “technical” sense than meant by Koller – and translation taken in its non-descriptive performance-directed aspects is equally processual and, at the same time, norm-governed.

First, second, and third logical interpretants
The first in the series of logical interpretants emerges when we are faced with problematic

situations of an intellectual nature, as a fleeting belief, a mere set of feelings arising

. . . when upon a strong, but more or less vague, sense of need is 37

superinduced some involuntary experience of a suggestive nature; that being suggestive which has a certain occult relation to the build of the mind. We may assume that it is the same with the instinctive ideas of animals; and man’s ideas are quite as miraculous as those of the bird, the beaver, and the ant. For a not insignificant percentage of them have turned out to be the keys of great secrets. (CP:5.480,c.1905).

To solve or explain the problem a conjecture, or hypothesis, is formulated. Peirce drew a felicitous parallel between this initial, heuristic stage of scientific inquiry and the “Pure Play of Musement”, or intellectual reverie (CP:6.452ff.,1908). In the translation process this would correspond to the more instinctive than rational phase when the text-sign first enters a receptive mind. A trained translator’s mind will then, spontaneously and with practiced ease, start generating a flow of ideas. This impromptu translation may be a fragmentary and tentative draft, perhaps; it is nevertheless a new sign susceptible of serving as a point of departure in the next semiosis.

Whereas with animals “conditions are comparatively unchanging, and there is no further progress” (CP:5.480, c.1905), with humans the first conjectural interpretants can be further developed, introducing a process of growth of ideas. The next logical interpretant is a product of what Peirce called “the dash of cold doubt that awakens the sane judgment of the muser” (CP:5.480,c.1905), and expresses itself in experimentation, in weighing pros and cons. The working hypotheses are at this stage put to the test and verified by solid judgment. In the translation situation the more or less lucky guesses are now out on the dissecting table and analyzed with a clear hand. The result is “a” translation which provides “a” solution to the problem. It offers at best a successful solution, one which works in the intended communicational situation and one which makes sense (that is, significant) in the target culture. But it may at worst be received in it

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with mixed feelings, shock, or even rejection.
Given time and hard work, a practiced mind is bound to produce a third logical

interpretant as the near-perfect solution with which semiosis to all intents and purposes may come to a (possibly temporary) logical standstill. Such an ideal translation will have found its natural habitat in the recipient situation, thereby losing its acute “percussivity” (NEM4:318,c.106). The new configuration having thus become unproblematic and more or less harmonious, the mind ceases to be in the “state [of] activity . . . mingled with curiosity” (NEM4:318,c.1906) by which it is stimulated to put out further interpretant- signs.

This ideal status quo should, nevertheless, never become a taking refuge in some artificial fixity. The third logical interpretant does express a firm belief, but it is still a thought-sign; and its primary goal is therefore to remain alive and communicative throughout time. To ignore its need to grow would be an antiquarianism. The judge of any interpretant’s finality must always be the social community, or communis opinio, the norms of which are naturally changeable. Although the semiosis at this point may have lost its edge, yet the translation process has reached a still non-ultimate moment. Its apparent finality is no more than a resting-point.

For this reason it is possible, and even essential, to take the semiosic process one crucial step further, and to consider that the semiosic fire is susceptible of rekindling at any future moment, however distant or utopian. The sign would then be called upon to fulfill the explosive task of generating the one single unfailing habit with which the semiosis would definitely come to its end. This ultimate logical interpretant would embody the final truth-norm and would therefore no longer be placed in the triadic relation which characterizes the Peircian sign. A translation which would pretend to give final answers is, however, an alarming oxymoron, a sure sign that culture itself has, for instance by some irreversible catastrophic final event, come to an end23. This would make

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the actual production of a truly final ultimate translation a terminal matter, or sign of the death of the sign (CP:5.284=W2:224,1868).

The role of the translator

The next and last point that will be raised here is the role of the translator in the translation process. Alternatively criticized and ridiculed, enhanced and romanticized, the translator has frequently been taken out of proportion to the job he or she really does. The technical translator has essentially been seen as a craftsman (or craftswoman), and his or her work as a form of expertise – difficult, perhaps, but not an impossible skill to master. At the other end of the scale, the literary translator, and in particular the poetic translator, has been elevated (or has elevated him- or herself) to the interesting status of creative artist in his or her own right. This dichotomy has created a potent mythology around the figure of the translator, who has been invested, and indeed infested, with such images as the copyist, the acolyte, the slave, the amanuensis, the bricoleur, the re-creator, the mediator, or other metaphors serving to either efface or aggrandize the translator’s personal performance.

In the face of such ambiguous assessment of the professional persona and talents of the translator, and of his or her role in the translation process, I would like to construe the translator in terms of Peirce’s semiotics, in order to argue that on the whole, the personal impact of the translator on the translating procedure seems perhaps to have been subject to indue inflation – both “upward” and “downward” inflation. This is at least the (hopefully more realistic) direction in which Peirce’s doctrine of signs would point us.

The translator as communicator has a dual role. He or she embodies both the addressee (or one of the addressees) of the original message, and the addresser of the translated message; both interpreter and utterer; both the patient interpreting the primary sign, and the agent uttering the translated meta-sign. In semiotic terms, the translator is

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charged with both the standing-for and the standing-to relation, and thus he or she monopolizes the whole sign-manipulative process in which translation consists. The following statements, from Peirce, seem to point by implication to the translator’s situation: ” . . . two separate minds are not requisite for the operation of a sign . . . [T]wo minds in communication are, insofar, ‘at one’, that is, are properly one mind in that part of them” (MS283:107,1905-1906); “In the Sign they are, so to say, welded” (CP:4.551,1906).

Now it is a notorious fact that Peirce considered that “neither an utterer, nor even, perhaps, an interpreter, is essential to a sign, characteristic of signs as they both are” (MS319:58,1907). Although semiosis is for Peirce triadic action and he did not explicitly include any such fourth or fifth component, in addition to the sign, its object, and the interpretant24, this is not to say that Peirce did not recognize the existence of either. In fact, he did so repeatedly, for instance, when he stated that when a (verbal) sign is made, “there really is some speaker, writer, or other sign-maker who delivers it-, and he supposes there is, or will be, some hearer, reader, or other interpreter who will receive it” (CP:3.433,1896); or in his often-cited definition of the sign as “something which stands to somebody for something . . . It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign . . . ” (CP:2.228,1897); or when Peirce referred to “the Utterer’s (i.e. the speaker’s, writer’s, thinker’s or other symbolizer’s) total knowledge” (CP:5.455,1905).

Some caveats are in order. Firstly, Peirce did not have in mind, it would seem, that the utterer and the interpreter were human individuals or even specific minds25. “A sign is whatever there may be whose intent is to mediate between an utterer of it and an interpreter of it, both being repositories of thought” Peirce wrote (MS318:206,1907;Peirce’s emphasis). He was rather thinking, in an abstract way, of what he called “theatres of consciousness” (MS318:55,1907) or “quasi minds”: “Signs require at least two Quasi-minds; a Quasi-utterer and a Quasi-interpreter” (CP:4.551,1906). Peirce

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argued as a central piece

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of his theory of signs that semiosis “not only happens in the cortex of the human brain, but must plainly happen in every Quasi-mind in which Signs of all kinds have a vitality of their own” (NEM4:318,c.1906). Secondly, the interpreter seems to be more essential for sign-action than the utterer. Many signs have no utterer, or at least they do not emanate from any personalized and conscious sign-maker. To illustrate this, Peirce mentioned “such signs as symptoms of disease, signs of the weather, groups of experiences serving as premisses, etc.” (MS318:56-57,1907). But a sign is no sign unless there is some interpreter interpreting it as such – “capable of somehow ‘catching on’” (MS318:205,1907) – if not really then at least potentially. A sign which for whatever reason is unable ever to be interpreted can not really be considered a sign in the semiotic sense. Thirdly, the utterer and the interpreter inside the translator’s mind are engaged in a dialectic relation evolving over time, a dialogue, half internal and half external, in which the translator/utterer is subordinate to the translator/interpreter; yet the performance of both “roles” by the one translator is clearly dominated by that of the interpretant-sign – that is, the interpretant turning again the sign, or the sign as it is being transformed into an interpretant.

As opposed to Saussurean-based linguistics semiotics, with its emphasis on sign production, pragmatic semiotics (that is, semiotics in the Peircian tradition) proceeds to the contrary and manifests itself first and foremost as a theory of sign interpretation. The sign as Peirce conceived it is, in contradistinction to its Saussurean counterpart, not defined in terms of an utterer and/or interpreter, but in terms of its relations – with itself, with its object, with its interpretant. Through semiosis, the sign deploys its meaning; its full meaning is thus knowable, “although it may lie only at the ideal and infinitely distant terminus of inquiry” (Savan 1983:6). Sign action and sign interpretation are not necessar-

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ily determined by a human utterer or interpreter: Peirce’s semiosis is self-generating triadic action. As all semiotic signs, the text-sign interpretation are not necessarily determined by a human utterer or interpreter: Peirce’s semiosis is self-generating triadic action. As all semiotic signs, the text-sign is a living agency actively seeking to realize itself through some interpreting mind rather than passively waiting to be realized by it, as is the case in linguistic semiotics. One reason why the Peircean concept of text-sign may at first seem fanciful is that it diminishes the significance of the reader/interpreter/translator. In a Saussurean-inspired text-semiotics, the latter is customarily looked upon as the sole discourse-producing subject, as the one agency giving the text-sign its pragmatic, Peircian paradigm, the presence of an interpreter is somehow subsumed but at the same time de-emphasized.

This means that the active mediating role in the kind of semiosic action ordinarily called translation is played not by the translator, as is commonly thought, but by the autonomous action itself through which the sign gets to realize its meaning. Peirce wrote about thought and the thinking person that thought thinks in man rather than man in it (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), and

[T]he idea does not belong to the soul; it is the soul that belongs to the idea. The soul does for the idea just what cellulose does for the beauty of the rose; that is to say, it [the cellulose] affords it [beauty] opportunity. (CP:1.216,1902)26

Applied to the translation situation this means that the translator is merely instrumental in making sign-action possible; he or she is used (that is, acted upon, influenced) by the sign. Therefore it would be a misconstrual of the facts to hold, as is generally done, that the sign is translated by the translator, because it really translates itself27. The translator does not

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address the text-sign; the text-sign addresses the translator. And the translator is not addressed as a flesh-and-blood person but as a mind (that is, as a sign). The sign addresses, in the interpreter’s memory, “a particular remembrance or image” which is “the mental equivalent” of that sign – in short, its interpretant (W1:466,1866). “The whole function of the mind is to make a sign interpret itself in another sign” (MS1334:44,1905). Of course, the translator may be a Marxist, a woman, an Italian; but at the moment of translating one is, if not simply the “site being traversed by words” which Barthes postulated, certainly not a calculus of ideological or sexual or national sentiments. The text-sign must be seen as a living organism requiring translation for its survival and actively seeking a receptive mind capable of generating interpretants; without interpretive response the text-sign would die and disappear.

The relevance of this semiotic transaction to machine translation is obvious. To be sure, Peirce envisioned, in 1905, the possibility of translation by a mechanical device – non-human but programmed by a human mind. He wrote:

. . . if we had the necessary machinery to do it [translation], which we perhaps never shall have, but which is quite conceivable, an English book might be translated into French or German without the intervention of translation into the imaginary signs of human thought . . . Supposing there were a machine or even a growing tree which. without the interpolation of any imagination were to go on translating and translating from one possible language to a new one, . . . (MS283:97-98,1905)

The translator is thus for Peirce essentially a passive medium in the translational business, which he or she (like Peirce’s “growing tree”) can

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influence only peripherally.
Embodying the (above-mentioned) idea that thought thinks in man rather than man in

it (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), the translator is “carried in spite of [him- or herself] from one thought to another” (CP:1.384,1890-1891). Peirce’s deemphasis of the personal interpreter bears on his (still somewhat mysterious) “man is a sign equation (CP:5.314=W2:241,1868). In Peirce’s semiotic aphorism, man is considered as much as a symbol, a process of communicating, knowing, and learning, as is the sign itself; consequently, all terms involved in the semiosic process are signs. Neither the utterer nor the interpreter can function as autonomous agencies under the umbrella of semiosis. They are as much signs convertible into one another within this communicative relationship, as the sign uttered and/or interpreted somehow needs them for its existence. By this token, signs of all kinds interpret themselves by themselves, man interprets man, man interprets signs, and signs man, all in an irreversible self-organizing generative system which constantly renews itself28. This makes the pragmatic process of carrying ideas (that is, thought-signs), as opposed to being carried by them, into a sort of contractual relationship29 in which

. . . men and words reciprocally educate each other; each increase of a man’s information involves and is involved by, a corresponding increase of a word’s information. (CP:5.313=W2:241,1868)30

While “[e]very utterance naturally leaves the right of further exposition in the utterer” (CP:5.447,1905), at the same time the interpreter enjoys what Peirce significatively called the “privilege of carrying its [the sign’s] determination further” (CP:5.447,1905). Being a term subsumed by the triadic sign-process, the translator-sign is only given a limited freedom of interpretive action. As Peirce stated, “a sign which should make its interpreter

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its deputy to determine its signification at his pleasure should not signify anything, unless nothing be its significate” (CP:5.448,n.1,1906). By this shrewd but slightly malicious observation, Peirce obviously meant more than that interpreters/translators, when left to their

own resources, are capable of, and indeed prone to, producing non-sense. Peirce’s remark that “the barbaric conception of personal identity must be broadened drives home the fact that

All communication from mind to mind is through continuity of being. A man is capable of having assigned to him a rôle – no matter how humble it may be, – so far he identifies himself with its Author. (CP:7.572,c.1892)

A translator in Peirce’s intellectual spirit leads therefore a “problematic existence” (CP:2.334,c.1895): he or she is not so much an individual expert who may pretend to know all the answers, as he or she needs to be a dedicated student of what transpires in the semiosis in which he or she participates. The truly Peircian translator is intrigued, fascinated, or puzzled by the sign in front of him or her, even in love with it. By the same token, the translator’s mind needs to be open and subject to semiosis – that is, committed to growth and engaged in an ongoing learning-process. it must submit itself unreservedly to the sign’s attractive force, inspired by what can rightly be called “creative Love”, as opposed to self-love (Henry James, William James’s father, quoted in Murphey 1961:351;see also CP:6.287,1893).

The erotic overtones of this imaginery are hardly coincidental. They serve to highlight the fact that the translator is to some degree a devotee of the sign, one whose desire consists in unconditional surrender to its needs and desires, rather than looking in the text-sign for opportunities to show off his or

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her own skills and talents. Whereas love of self is, for Peirce, a mere euphemism for greed (CP:6.291,1893), creative love is, in accordance with Peirce’s agapastic theory of evolution with its roots in the gospel of St. John, the same as his “evolutionary love”,

. . . which teaches that growth comes only from love, from I will not say self-sacrifice, but from the ardent impulse to fulfill another’s highest impulse. Suppose, for example, that I have an idea that interests me. It is my creation. It is my creature; . . . it is a little person. I love it; and I will sink myself in perfecting it. It is not by dealing out cold justice to the circle of my ideas that I can make them grow, but by cherishing and tending them as I would the flowers in my garden. The philosophy we draw from John’s gospel is that this is the way mind develops . . . (CP:6.289,1893)31

This, too, is synechism, the evolutionary principle of inquiry, which, applied to the translator’s (or any other investigator’s) mental attitude, concentrates upon facts not as isolated phenomena, but as embodying “a true continuum . . . whose possibilities of determination no multitude of individuals can exhaust” (CP:6.170,1902). In this fashion, then, the translator partakes of a metaphysical cosmology in which meaning-potentialities, relationships, and generalities informing the sign are established which would escape the anatomically-oriented mind.

I hope to have made clear that in tandem with this conception of the role of the translator as disinterestedly performing a labor of love, translation as semiosis finds a whole new and exciting expression32.

Concluding remarks

A turn away from the linguistic approach to translation, and a return (following Peirce and in the company of Jakobson, Steiner, and others) to a philosophical perspective on the phenomenon of translation, makes the whole perennial discussion regarding the “fidelity” or “infidelity” of a translation (as it is often called with a moralizing flavor) redundant, and sheds a wholly new

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light upon the epistemology of its “truth”. These ideas are no longer in order in a theory of translation which aims not at the reproduction of meaning (without, however, losing its normative and purposive character) but at the embodiment and deployment of a sign’s meaning-potential.

Translators shall accept the compliant role and be considered as bare and anonymous minds. In the epigraph of this chapter I mentioned the old cliché, traduttore traditore, and Jakobson’s timely remarks upon it. Perhaps traditore may be taken here positively, in its etymological sense – which would make the translator a neutral transmitter of the message. Perhaps also, translators should be able and willing to sabotage their “traditional” duties, to display deviant behavior, and to engage in the creative, or simply deceptive, “paradox of betrayal by augment” (Steier 1975:298), and also betrayal by reduction or distortion. Otherwise what they may produce are transliterations, dead replicas of the original. To the degree that a translation is a mere simulacrum it only serves to stifle semiosis, because it weaves patterns in which likeness, or even sameness, is a recurrent motif. Modelling in translation needs to be speculative, by suggesting a hypothesis. It makes its start from facts, but without, at the outset, having any particular theory in view. It aims to propose the construction of a prognostic model, but it must do so guided by instinctive “reason”. This is not the oxymoron it looks like at first blush. Let me therefore propose traduttore abduttore as a new adage suited to reflect what should, in a Peircian philosophy of signs, be the primary concerns of the translator. This makes semiosis, translational or otherwise, perhaps a risky game, but never a trivial pursuit. For the translation of texts, it is the breath of life.

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Notes

Dinda L. Gorlée

EQUIVALENZA, TRADUZIONE E IL RUOLO DEL TRADUTTORE

«If we were to translate into English the traditional formula Traduttore traditore as ‘the translator is a betrayer’, we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? Betrayer of what values?»

(Jakobson 1959:238)

Introduzione

Nei capitoli precedenti ci siamo imbattuti in alcuni temi chiave della teoria della traduzione che meritano a questo punto di essere esaminati. Nonostante le discussioni di lunga data tra teorici della traduzione proprio riguardo a questi temi, sembra che al momento non si riesca a trovare un accordo. Tuttavia si potrebbe affermare senza farne un dramma che l’accurata e

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continua discussione di questi argomenti controversi da varie angolature metodologiche è decisiva per l’evoluzione armoniosa del campo interdisciplinare (o meglio, transdisciplinare) della teoria della traduzione. Se si può mostrare – come mi propongo di fare io in queste pagine – che la filosofia dei segni di Peirce getta nuova luce su questi problemi, il mio contributo qui sarà determinante, per lo meno in modo modesto, per portare la discussione verso un consenso, un accordo di opinioni in spirito peirciano.

Permettetemi allora di prendere come esempi illustrativi dell’attinenza della semiotica peirciana con la traduzione i seguenti argomenti: (1) l’equivalenza tra prototesto e metatesto, (2) il processo traduttivo e le sue fasi e (3) il ruolo del traduttore all’interno del processo traduttivo.

L’equivalenza

Per equivalenza si intenderà qui la stipulazione, ricorrente in qualsiasi testo nella teoria della traduzione, tra l’identità del prototesto e quella del metatesto tra codicii. Innanzitutto, diversi studiosi di traduzione usano il concetto di equivalenza in vari sensi. Koller (1992:214-215) cita, tra gli altri, il «closest natural equivalent» di Nida, il «möglichst äquivalenter zielsprachlicher Text1» di Wilss e il termine di Jäger «kommunikativ äquivalent2». Il quadro è ulteriormente offuscato dalle varie qualifiche date al termine, che spesso viene usato non in senso meramente descrittivo (ossia, oggettivamente), bensì come un requisito a priori che un testo dovrebbe soddisfare per qualificarsi come traduzione adeguata. Le varietà di equivalenze proposte dalla critica della traduzione sono davvero

1 Letteralmente, testo in lingua d’arrivo il più equivalente possibile [NdT]. 2 Equivalente comunicativo [NdT].

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sorprendenti: oltre a «equivalenza traduttiva», il termine apparentemente più generaleii, è possibile trovare «equivalenza funzionale», «equivalenza stilistica», «equivalenza formale», «equivalenza testuale», «equivalenza comunicativa», «equivalenza linguistica», «equivalenza pragmatica», «equivalenza semantica», «equivalenza dinamica», «equivalenza ontologica» e così via; per non parlare dell’uso ostentatamente libero di termini correlati quali uguaglianza, invarianza, congruenza, somiglianza, isomorfismo e analogia.

In questo panorama di, sembrerebbe, totale confusione terminologica e concettuale, è tuttavia chiaro che in genere prototesto e metatesto vengono idealmente messi in una corrispondenza di uno-a-uno, intendendo con ciò che devono essere considerati codificazione di un’informazione, logicamente e/o situazionalmente intercambiabili – essendo ovviamente il «nucleo invariante» «solo un costrutto ipotetico» (Toury 1978:93)iii. Tuttavia, da un punto di vista semiotico ciò sembrerebbe un errore o per lo meno una grossolana semplificazione dei fatti. In proposito Jakobson ha affermato (1959:233): «L’equivalenza nella differenza è il problema cardine della lingua e la preoccupazione principale della linguistica», e quindi della traduzione. Nel lessico semiotico generale si direbbe che sia il prototesto, sia il metatesto sono segni che formano parte di una catena semiosica – una sequenza di segni interpretativi. Tuttavia, diversamente dalla pretesa di intercambiabilità, la traduzione deriva ed è causata (Peirce ovviamente direbbe «è determinata») dall’originale; è il suo segno-interpretante. Se entrambi i segni vengono separati dalla sequenza semiosica infinita e studiati singolarmente, l’originale dei due è il segno primario, sia temporalmente, sia logicamente. L’interpretante non è l’imitazione di una struttura immanente del segno o dell’oggetto, e nemmeno una struttura arbitraria imposta all’oggetto dall’esterno. È la legge o l’abitudine (debole o forte) attraverso cui segno e oggetto diventano correlati affinché possa verificarsi un effetto semiosico. Il segno- azione che funge da mediatore, una volta messo in moto, è un processo di traduzione del

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segno ricorsivo ma irreversibile. Ciò implica che, nel senso inteso qui, non sarà possibile una ri-traduzione: la situazione pre-semiosica non può essere ripristinata. Ciò rende paradossale l’idea di intercambiabilità tra metatesto e prototesto. In realtà la semiosi non ha cambiato considerevolmente solo il segno originale; offre anche, forse, una nuova conoscenza dell’oggetto dinamico (in senso peirciano) a cui entrambi i segni si riferiscono – anche se indirettamente e in modo incompleto.

Ridurre la traduzione di segni, linguistica o non, a imitazione o a un processo di rispecchiamento [«mirroring»] è rispondere a nient’altro che alla Primità del segno, ossia atrofizzare tutto il suo potenziale significante. Ovviamente una traduzione è più di un’ipoicona – un sinsegno iconico o un altrimenti degenerato Terzo (Gorlée 1990). Da un punto di vista semiosico, la conservazione solertemente perseguita di ogni sostanza semiotica – intendendo con ciò informazioni, idee o contenuti (solo per citare alcuni dei termini usati comunemente) – è oltremodo irrilevante e controproducente per ciò che dovrebbe interessare la traduzione, cioè il confronto arricchente tra uguaglianza e alterità: «du Même et de l’Autre» (Ladmiral 1979:209)iv. La vera semiosi è una generazione e ri- generazione non meccanica, e per questa ragione è il contrario della mimesi: «Anzi, l’esatta conformità starebbe nel conflitto totale con la legge [dell’abitudine]; poiché cristallizzerebbe all’istante il pensiero e impedirebbe la formazione ulteriore dell’abitudine» (CP:6.23,1901).

Qui è giusto citare una tradizione all’interno della linguistica, il relativismo linguistico di Humboldt (1767-1835), che si opponeva precedentemente a ciò che si può chiamare la concezione invalsa (secondo la quale vengono stabiliti rapporti fissi tra parola e mondo), preannunciando così la versione dinamica di Peirce dell’indeterminatezza del significato, le ipotesi di Sapir-Whorf e anche alcuni dei concetti di Chomsky. Mi riferisco qui all’

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adagio di Wilhelm von Humboldt, che fu successivamente abbracciato (seppur mai spiegato) da Chomsky – il quale, nei suoi primi scritti lo chiamò «creatività», o a volte «open-endedness» – per quanto riguarda la capacità dei linguaggi di «fare un uso infinito di mezzi finiti». (Sebeok 1991:29)

Questa visione “alternativa” di Humboldt si rivela particolarmente interessante nelle discussioni sulla traduzione perché avrebbe poi ispirato, esplicitamente e/o implicitamente, la visione “olistica” sulla traduzione letteraria iniziata da Holmes e successivamente sviluppata da Toury e altriv. Quest’approccio avrebbe portato, nonostante la sua focalizzazione su un tipo particolare di traduzione – la traduzione dell’arte verbale – , o forse proprio grazie a essa, una ventata di vitalità in quello che era diventato un approccio piuttosto sterile da parte della linguistica tradizionale. Secondo la concezione relativistica del linguaggio verbale, linguaggi differenti corrispondono a visioni del mondo differenti. Dal punto di vista dei diversi linguaggi, la realtà non è sentita com’è “realmente”, ma com’è plasmata, riflessa – soggettivamente, omogeneamente, ma in modo vario – ne, e da, i diversi linguaggi.

Sebbene Humboldt venga spesso considerato il fondatore della linguistica generale, il suo ruolo da pioniere nella semiotica linguistica ha ricevuto uno scarso riconoscimento (Schmitter et alii 1986:317). Ciò è probabilmente dovuto (come indicato da Trabant 1986) alla focalizzazione sulla lingua di Humboldt, diventato problematico in un momento in cui le discussioni segno-teoriche, seguendo Peirce, si stanno allontanando dall’“imperialismo linguistico” e stanno andando verso una prospettiva semiotica che pone il verbale e il non verbale in un continuum, essendo il primo superiore al secondo senza però basarsi su di esso. Non a caso, Humboldt riteneva non solo che il linguaggio fosse un sistema di segni

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inventati dalla società e intrinsecamente arbitrari, ma anche che avesse un aspetto iconicovi. Anticipando, a quanto pare, la dicotomia di Saussure langue-parole, Humboldt fece una distinzione tra lingua come ergon (teoria, un corpus trasmesso per iscritto o oralmente) ed energeia (pratica, un’attività verbale). Mentre quest’ultima costituisce e alimenta la prima, essa – l’energeia – è per Humboldt l’essenza della lingua stessa. La lingua non consiste solo in un’interezza sistematica e legata alle regole, ma anche in energie, e questo principio interattivo dinamico eleva la lingua allo status semiotico (o meglio, semiosico) di espressione del pensiero. La cosiddetta «antisemiosi» della lingua di Humboldt (Trabant 1986:69-90) si opponeva a una semiotica linguistica solo in quanto quest’ultima limita le sue considerazioni alla natura arbitraria e convenzionale dei segni della lingua, in questo modo «uccidendo . . . tutto il suo spirito e mandando in esilio tutta la sua vitalità» (Humboldt in Trabant 1986:72; trad. mia). Infatti, per Humboldt (come successivamente sarebbe stato, anche se in un paradigma più radicalmente evoluzionista, per Peirce), un «organismo» vivente (Nöth 1990:201), un sistema di segni essenzialmente semiotico, una processualità irreversibile, in cui l’uomo stabilisce legami variabili tra la lingua e i

fenomeni del mondo che lo circonda.
La connessione di ciò con la traduzione/interpretazione nel senso di Peirce dovrebbe

essere chiara. Peirce stesso usava il termine «equivalenza» riferendosi in particolare all’interpretante. Questo mostra che per lui equivalenza non era sinonimo di corrispondenza uno-a-uno, come nella Primità (iconicità) e, in modo diverso, nella Secondità, ma del tipo di corrispondenza uno-a-molti che si ottiene ogni qualvolta un segno «dà vita» a un interpretante (o meglio a una serie di interpretanti). Due segni che sono infatti dinamicamente equivalentivii possono essere logicamente derivati uno dall’altro. Peirce si sforzava sempre di riuscire a esprimere esattamente ciò che intendeva con la sua equivalenza dinamica che si verifica nella semiosi:

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Un segno . . . è un oggetto che è in relazione al suo oggetto da un lato e a un interpretante dall’altro, in modo da portare l’interpretante in relazione all’oggetto corrispondente alla sua stessa relazione con l’oggetto. Potrei dire «simile alla sua stessa»[,] in quanto una corrispondenza consiste nella somiglianza; ma forse la corrispondenza è più ristretta. (PW:32,1904).

Nella sua famosa definizione del segno, Peirce ha affermato che il segno crea nella mente della persona a cui è indirizzato un «segno equivalente, o forse un segno più sviluppato» (CP:2.228,1897). Altrove ha notato: «Un equivalente di una proposizione è la stessa proposizione materializzata in modo differente. Perché la proposizione consiste nel suo significato» (MS599:62,c.1902); ciò implica che non è in che lingua o codice un testo-segno è, ma quale significazione ha, a essere il punto interpretativo (ossia traduttivo). Che il concetto d’equivalenza di Peirce sia teleologico (ossia governato dalla Terzità) è ulteriormente messo in evidenza dalla sua affermazione che «due segni i cui significati siano equivalenti

in tutti i casi possibili sono assolutamente equivalenti» (CP:5.448,n.1,106; enfasi aggiunta).

L’equivalenza qualitativa

Osserviamo più da vicino le idee di Peirce sull’equivalenza usando un altro approccio. Dovrebbe essere ormai chiaro che l’equivalenza traduttiva non può essere identificata, o per lo meno, non totalmente, con un’equazione algebrica o un altro segno di Primità. Discutendo diverse serie di diagrammi, Peirce ha appurato che «ogni equazione algebrica è un’icona nella misura in cui mostra mediante i segni algebrici (che non sono loro stessi icone) le relazioni delle quantità esaminate» (CP:2.282,c.1893). Dopo aver fornito questa citazione da Peirce, Jakobson ha aggiunto quanto segue:

Ogni formula algebrica pare un’icona, «resa tale dalle regole della 56

comunicazione, dell’associazione e della distribuzione dei simboli. Pertanto, l’«algebra non è che una sorta di diagramma», e la lingua non è che un tipo di algebra». Peirce ha immaginato in modo vivido che «la disposizione delle parole nella frase, ad esempio, deve servire come icone, in modo che la frase possa essere compresa». (Jakobson 1971b:350)

Ora, ciò vale senza dubbio per la costruzione fisica di intere frasi e serie di frasi. E in questo senso due segni linguistici, ognuno espresso in un codice differente, possono condividere la stessa struttura globale esterna delle loro parti, e quindi derivare dallo stesso modello, la fonte comune stessa che rimane tacita. Anche in questo senso, un testo e la sua traduzione (entrambi segni linguistici compositi), presi assieme, potrebbero essere considerati come un costrutto duale auto-riflessivo; non hanno bisogno d’altro oltre a sé stessi per essere riconosciuti e compresi come segni che hanno in comune una serie di importanti qualità – proprietà sensoriali e/o materiali. È facile immaginare che testi quali un sonetto, un contratto di matrimonio o la relazione di un messaggero di corte abbiano alcune importanti caratteristiche fisiche in comune con le loro rispettive versioni tradotte – caratteristiche interne ai segni che potrebbero anche essere apprezzate senza conoscere le lingue coinvolteviii. Tali caratteristiche comuni sono estratte dalla realtà esterna ai segni e possono verificarsi, in una forma o in un’altra, in tutti i codici, linguistici o non linguistici. Ad esempio, nel caso dei testi-segni, il testo primario e la sua traduzione possono rivelare una pari lunghezza, distribuzione di paragrafi, struttura della rima e/o uso della punteggiaturaix. Tali caratteristiche li rendono immediatamente riconoscibili come segni simili – simili, cioè, nella “sensazione”, il “tono” o in altre «qualità del sentire» (come direbbe Peirce).

Se entrambi i segni (quello tradotto e quello che traduce) sono considerati morfologicamente, sintatticamente ecc. simmetrici (in altre parole, reciprocamente

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convertibili oltre le barriere dei codici), ciò è fatto senza considerare come si dovrebbe che uno è l’antecedente e l’altro il conseguente. Tuttavia il rapporto gerarchico essenziale che determina che l’uno sia l’interpretante dell’altro e non viceversa non può essere negato. L’equivalenza traduttiva deve sempre essere una faccenda diacronica (per usare un termine di Saussure). Inoltre, da un segno è possibile ottenere vari equivalenti quasi sinonimi (con termini reciprocamente non coerenti). Ciò significa che il segno e il suo equivalente segno interpretante possono essere considerati solamente un’altra controparte nella misura in cui la loro segnità nel suo aspetto di Primità sia oggetto di studio. Io propongo di chiamare quest’equivalenza riferita ai segni in sé «equivalenza qualitativa».

L’equivalenza referenziale

Avendo delineato l’equivalenza qualitativa tra un segno e il suo segno interpretante potremo ora considerare l’equivalenza derivante dalle altre categorie di Peirce: la Secondità, la categoria dell’oggetto, e la Terzità, quella dell’interpretante. Gli aspetti dell’equivalenza dei segni prodotti dalla Secondità e la Terzità saranno chiamati rispettivamente «equivalenza referenziale» ed «equivalenza significazionale». I tre aspetti dell’equivalenza assieme potrebbero quindi esser chiamati equivalenza semiotica (o, per essere più precisi, semiosica). Questo verrà spiegato nei paragrafi successivi.

Per quanto riguarda l’equivalenza referenziale tra segno e segno interpretante, è necessario operare una distinzione tra la relazione “di stare per” sul piano dell’oggetto immediato e su quello dell’oggetto dinamicox. Essendo l’oggetto immediato l’idea richiamata direttamente da un particolare uso dei segni, è conoscibile solamente mediante il segno. In contrapposizione agli aspetti qualitativi del segno (Primità in senso stretto), la relazione dell’oggetto di segno immediato rappresenta la Primità della Secondità; si concentra sul referente o i referenti del segno a livello di codice. Ovviamente il segno può essere inserito in qualsiasi codice o sistema di segni, verbale o non verbale; e il suo oggetto

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immediato è dato dalla manifestazione esibitiva, ostensiva o verbale (a seconda del codice) del segno. L’interprete vede l’oggetto solamente fintanto che il segno lo riflette. Senza una precedente conoscenza del codice in cui si trova il segno non è possibile conoscere il suo oggetto immediato, tanto meno valicare il santuario interiore della sua significazione più “profonda”.

La traduzione implica almeno due codici: un codice emittente e uno ricevente. Affinché un segno in un codice sia una traduzione di un segno in un altro codice, i rispettivi oggetti immediati non devono essere gli stessi. Poiché l’oggetto immediato è «l’idea su cui è costruito il segno» (MS318:70,1907), in ogni codice viene rappresentato diversamente. L’oggetto immediato sarà soggetto a cambiamenti nella e attraverso la semiosi intercodice della traduzione. In tandem con l’equivalenza sul piano del segno, anche qui la «sameness» non è un requisito necessario, né a microlivello (come, nella lingua, la corrispondenza parola per parola o frase per frase), né a macrolivello (ossia, quello testuale); e anche qui l’equivalenza deve essere intesa in senso lato, come il tipo di «sameness» “ampia” creata attraverso qualsiasi tipo di interpretazione semiosica. Ciò non implica che non sia cruciale per entrambi i segni (quello primario e quello tradotto) dare, mediante i loro oggetti immediati, degli «indizi» [«hints»] (come li chiamava Peirce), il cui studio accurato nei loro contesti deve portare alla stessa idea di base – l’oggetto comune “reale” o “dinamico”, che sta esso stesso all’infuori della relazione segnica e pertanto non è tradotto.

Farò ora un esempio a riguardo. Tradurre l’espressione spagnola cortar el bacalao con un’espressione identica a livello dell’oggetto immediato crea un’equivalenza se l’espressione ricorre, ad esempio, in una ricetta di pesce. Ma se l’espressione si riferisce, in senso figurato, alle strutture di potere, l’identità a livello dell’oggetto immediato sarebbe un’interpretazione errata e una distorsione della realtà dei fatti indicati dal e nel codice. L’oggetto immediato è perciò un criterio di significato referenziale, ma che necessita di essere integrato da informazioni contestuali. Normalmente un segno non funziona nel

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vuoto, ma è inserito in un ambiente comunicativo che fornisce indicazioni linguistiche, referenziali, ideologiche ecc. per una corretta interpretazione. È solo all’interno di un contesto del genere che l’interprete può essere portato dall’oggetto immediato verso l’oggetto dinamico – il sentimento, la cosa, l’evento, il fenomeno, il pensiero o il concetto reale che crea la relazione segnica ma ne rimane indipendente.

L’oggetto dinamico stesso è assente e rimane all’infuori dell’evento semiosico. È il Secondo sotto l’aspetto della Secondità; e, in quanto “doppio Secondo”, è conoscibile solamente attraverso l’oggetto immediato, che, come accennato, è la forma percepibile esteriore in cui l’oggetto si manifesta nel segno. Per riuscire a capire l’oggetto dinamico di un segno si può solo provare a intuire, studiare e cercare di capire cos’è implicato dall’oggetto immediato. Ciò richiede, secondo Peirce, «esperienza», «osservazione collaterale» (reale o immaginaria) e doti come «fantasia e pensiero» (MS318:77,1907). L’oggetto dinamico corrisponde al totale ipotetico della somma di tutte le circostanze dell’oggetto immediato legato ai segni, il cui segno primario e segno tradotto sono due circostanze espresse in (sotto)codici diversi più che con oggetti immediati diversi.

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«Nessuno può comunicare un’informazione a un’altra persona senza riferimenti a esperienze comuni con la persona a cui ci si rivolge» (NEM3,2:770,1900). Come ogni altra forma di comunicazione, la traduzione è un’azione di segni all’interno di un universo fisico di interazione sociale. L’esistenza di un terreno d’esperienza comune è un elemento cruciale per la comunicazione: senza di questa l’accesso alla conoscenza di ciò che il messaggio davvero significa (il suo oggetto dinamico) è bloccato. Più l’esperienza collaterale è condivisa liberamente e direttamente con l’interlocutore in una situazione comunicativa, tanto più efficiente è la comunicazione. Peirce ha scritto:

Entro in un negozio di mobili e dico che voglio un «tavolo». Mi baso sul presupposto che io e il negoziante abbiamo vissuto esperienze reattive che, per quanto diverse, sono state talmente collegate da esperienze reattive da renderle quasi le stesse, cosicché «tavolo» gli suggerisce, così come a me, un mobile con una superficie piana di un’altezza a cui una persona ci si possa comodamente sedere a lavorare. (NEM4:259,c.1904)

In altre parole, «quando ci sono sia un parlante, sia un’interprete, [l’oggetto dinamico del segno] è quello che il parlante ha in mente, ma che non gli occorre esprimere perché sa bene che l’interprete capirà che si sta riferendo a quello senza che lo dica» (MS318:69,1907).

Per lo stesso motivo, affinché la comunicazione intercodice sia efficace, è essenziale che coloro che stanno comunicando, sebbene appartenenti a codici diversi, abbiano acquisito e posseggano, anche implicitamente, una conoscenza comune dei fenomeni del mondo nelle loro differenti espressioni semiotiche.

Ovviamente, è più semplice arrivare a conoscere un oggetto dinamico che abbia una relazione indicale con il segno che non uno che sia un’icona o un simboloxi. Ciò che questi

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ultimi hanno in comune e che li distingue dai Secondi è la loro generalità. I segni i-

conici mostrano possibili attributi, non collegati tuttavia ad alcunché di esistente; i segni simbolici danno regole generali, applicabili ma non ancora applicate a un caso particolare; mentre i segni indessicali sono istanze di segno che rappresentano icone e sono governati da simboli.

Ora, sebbene il segno primario e il segno interpretante tradotto abbiano oggetti immediati differenti, i loro oggetti dinamici dovranno sempre essere esattamente gli stessi, per lo meno idealmente. Tuttavia, anche la loro identità è relativa, essendo comunque in parte il risultato di un’interpretazione, di una procedura inferenziale. In altre parole, la relazione tra i due deve essere mediata da una semiosi che renda possibile per l’uno essere una conseguenza logica dell’altro. Prima di imbarcarci in un’ulteriore analisi dell’argomento cercherò di spiegare da un punto di vista leggermente diverso la connessione tra rappresentazione dei segni e interpretazione dei segni.

Ampiezza, profondità, informazione

Le relazioni di “stare per” e “stare a” del segno devono essere considerate assieme a uno scopo preciso: introdurre una serie di concetti che, sebbene siano ancora connessi al segno e al codice in cui è inserito, sono specificamente attinenti alle sue relazioni esterne. A questi concetti si è dedicato Peirce quando era un giovane lettore all’università, in modo particolare nel suo saggio Upon logical comprehension and extension (W1:454-471, 1886xii). Non provo nemmeno a dare un resoconto esaustivo del pensiero di Peirce qui, ma mi limito alle idee direttamente legate al tema principale.

Seguendo una tradizione che si perpetua da lungo tempo, Peirce ha affermato nella Lowell Institute Lecture VII sopraccitata che una parola (o qualsiasi altro simboloxiii) ha due

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diverse dimensioni logiche che, come da lui dichiarato in un manoscritto successivo, «sono ugualmente applicabili . . . a . . . tutti i tipi di segno» (MS200:49,1907). Una di queste dimensioni logiche è l’«estensione», «denotazione» o «ampiezza»; l’altra è la «comprensione», «connotazione» o «profondità». Nonostante questi concetti siano espressioni standard della logica sin dai linguisti di Port Royal, è sempre mancata loro una designazione precisa. Peirce ha proposto di adottare, come definizioni più funzionali, ampiezza e profondità logica.

L’ampiezza logica, o denotazione, di un termine mette il termine in relazione al mondo. Indica gli individui o oggetti (reali) a cui il termine si riferisce e che causano il suo uso. La profondità logica, o connotazione, si riferisce al contenuto di significato di un termine, gli attributi o le qualità che gli possono essere attribuiti, alle «possibilità che si immaginino o si giudichino essere realizzate» in quegli individui (MS200:49,1907). La parola non solo costringe una mente interpretante a riconoscere la cosa, il fenomeno, l’evento o la relazione da essa indicata o designata, ma viene anche formata e influenzata dal suo designatum, o oggetto; e, infine, «Tutto deve essere compreso o più rigorosamente tradotto con qualcosa (W1:333,1865). Si noti, tuttavia, che i due aspetti non sono ugualmente importanti: «Ogni simbolo denota connotando» (W1:272,1865), ha scritto Peirce, e «La denotazione è creata dalla connotazione» (W1:287,1865). Mentre entrambi gli aspetti della parola sono essenziali, la profondità, in quanto si riferisce all’azione che arricchisce il segno, ha priorità rispetto all’ampiezza, l’aspetto indicativo del segno. Come Peirce ha affermato successivamente (in una lettera non pubblicata alla sua ex allieva Christine Ladd-Franklin), «La profondità del segno non sembra essere altro che il suo sé migliore. Il segno è legato alla sua profondità . . . come un’idea a un ideale, come la memoria all’allucinazione vivida. . .» (MSL237:187,1902).

L’ampiezza logica fa a sua volta riferimento all’oggetto e la profondità logica nell’altro senso all’interpretante. Questi elementi duali nel segno producono quella che

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Peirce ha chiamato «informazione»xiv. Ogni qual volta un segno viene interpretato, «produce sempre un aumento dell’estensione [denotazione, ampiezza] o della comprensione [connotazione, profondità] senza una corrispondente diminuzione dell’altra quantità» (W1:464, 1866). Per informazione Peirce intendeva la«quantità della comprensione [connotazione, profondità] che un simbolo ha e i limiti della sua estensione [denotazione, ampiezza]» (W1:287,1865). E aumento dell’informazione di un segno si risolve in «un incremento del numero di termini equivalenti a quel termine» (W1:287,1866). Ciò accade ogni volta che viene prodotto un nuovo equivalente; in altre parole, in ogni atto di traduzione/interpretazione del segno è generata nuova conoscenza (ossia, Terzità)xv.

Il seguente passo da Peirce, preso da un’opera successiva, può servire a chiarire quanto appena analizzato:

Un simbolo, una volta in essere, si diffonde tra i popoli. Nell’uso e nell’esperienza, il suo significato cresce. Parole quali forza, diritto, ricchezza, matrimonio hanno per noi significati molto diversi da quelli che avevano per i nostri antenati barbari. (CP:2.302,c.1895)

Prendiamo, ad esempio, l’occasione in cui, nella giurisprudenza, un giudice prende una decisione che crea un nuovo precedente in un certo tipo di caso; oppure, quando, nel diritto romano, si aggiunge una nuova legge al corpus delle leggi. Ciò che si verifica allora è un aumento delle informazioni. Il termine «diritto» può essere applicato a un nuovo oggetto, ma le sue caratteristiche di base rimangono le stesse. Di conseguenza, è aumentato in ampiezza, senza però aumentare in profondità. O immaginiamo una sposa novella convertita all’Islam rinchiusa in un harem. Il suo concetto di «matrimonio» ha probabilmente subito un cambiamento notevole. Sebbene l’istituzione matrimoniale sia la

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stessa che conosceva prima, ad essa è stata aggiunta una serie di nuove caratteristiche. Il termine «matrimonio» è rimasto costante nell’ampiezza, ma la sua profondità è aumentata. Anche in questo caso, le informazioni sono aumentate. «Diffondendosi tra i popoli» (CP:2.302,c.1895) (ossia, venendo interpretate, tradotte), le caratteristiche semiotiche dei simboli (parole, concetti ecc.) si sono sviluppate e ampliate.

L’equivalenza significazionale

Ispirato da questi pensieri e da altri simili, Peirce ha “inventato” il concetto di interpretante come lo vedeva lui:

Il processo di ottenere un equivalente da un termine è proprio un’identificazione di due termini precedentemente diversi. È, di fatto, il processo di nutrizione di termini mediante il quale questi ottengono tutta la loro vitalità e il loro vigore e producono un’energia quasi creativa – poiché essa ha l’effetto di ridurre il caos dell’ignoranza al cosmo della scienza. Ciascuno di questi equivalenti è la spiegazione di ciò che è avvolto in quello primario – sono i surrogati, gli interpreti del termine originario. Sono nuovi corpi, animati da quella stessa anima. Io li chiamo gli interpretanti del termine. E definisco la quantità di questi interpretanti informazione o implicazione del termine. (W1:464-465,1866)xvi

Dal punto di vista della logica evolutiva di Peirce, ogni traduzione rende l’implicito più esplicito, implicando così maggiori informazioni. Ciò è espresso chiaramente dalla sua affermazione «un segno è qualcosa conoscendo il quale si conosce qualcosa in più» (PW:31-32,1904). La crescita della conoscenza è accompagnata dall’aumento dell’ampiezza o della profondità. Non influisce sui fatti significati, né sui caratteri a essi attribuiti, che potrebbero essere veri o falsi (NEM:241,c.1904). Ma quando due segni sono equivalenti, denotano le stesse cose e hanno la stessa ampiezza logica. Possono dipendere, per il loro valore di verità, da una particolare profondità connotativa (come accadeva con l’interpretazione) oppure solo da quest’ampiezza denotativa.

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L’interpretante dovrebbe indicare le stesse cose o gli stessi fatti del segno primario e significare quelle cose e asserire quei fatti in modo simile. Ma è poco probabile che entrambe le relazioni rimangano costanti e invariate nel corso del tempo – in altre parole, nel corso di una serie di eventi semiosici di natura inferenziale. L’equivalenza, nel senso più

stretto, tra segno e interpretante è quindi logicamente impossibile: soffocherebbe la crescita della conoscenza, e questa crescita è esattamente il succo della produzione e dell’uso dei segni. Essendo per Peirce il nostro intero universo umano «perfuso, se non composto esclusivamente, di segni» (CP:5.448,n.1,1905), comunichiamo mediante segni, di cui produciamo un flusso costante di nuovi interpretanti, che interpretiamo ancora, e così via. Durante quest’infinito processo inferenziale vengono costantemente proposte, provate, soppesate, accettate, negoziate, difese, ignorate, tenute di riserva, rifiutate, ecc. nuove significazioni (e quindi nuovi valori di verità)xvii. Perciò all’oggetto è aggiunta nuova conoscenza. Conformemente alla massima pragmatica di Peirce, lo scopo ultimo di quest’esercizio rimane tuttavia ottenere una conoscenza totale del significato di un segno. Per riuscirci bisogna perseverare nel creare sempre nuove interpretazioni/traduzioni del segno, in modo da accedere, mediante il segno e il suo oggetto immediato, alla prima causa del segno, l’oggetto dinamico. Nell’ultima analisi, la traduzione, linguistica o di altro tipo, riguarda il mondo in cui viviamo, reale o immaginario, e le miriadi di modi in cui ne ricaviamo un senso creando equivalenti significazionali suoi e delle sue partixviii.

Il processo traduttivo

Vediamo un altro esempio di un problema della teoria della traduzione per cui è possibile trovare una soluzione inserendolo nella cornice della teoria

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peirciana dei segni. Il processo traduttivo stesso è stato spesso ma discutibilmente ipotizzato come uno scenario cronologico che comprende tre dei quattro stadi. Sarebbe interessante esaminare la natura e il ruolo di questi stadi alla luce del processo interpretativo di Peirce, da lui sistematicamente descritto come un processo di ragionamento triplice consistente nella produzione di tre successivi interpretanti.

In riferimento agli studi del processo traduttivo in sé, Toury avanza le seguenti con-

siderazioni che invitano alla cautela:

Poiché sappiamo molto poco dei meccanismi psicologici interni implicati nella traduzione, ogni singolo atto di questo tipo di attività assume la posizione di “scatola nera”, ossia un sistema aperto la cui struttura interna può essere indovinata o ricostruita per tentativi solo sulla base delle relazioni tra le entità stabilite come suoi input e output. (Toury 1986:1114)

Ora, più che un segno di umiltà intellettuale, le precedenti considerazioni mi sembrano richiedere un approccio peirciano verso il fenomeno della traduzione. È risaputo che Peirce, il logico, si opponeva radicalmente allo psicologismo – intendendo con ciò la dipendenza della semiotica dalla psicologia. Secondo lui, lo studio dell’azione dei segni non richiede una conoscenza dell’esatto meccanismo della mente umana. Questo non significa che Peirce ritenesse che la mente in quanto agente pensante (cioè, processore del segno) fosse irrilevante per la sua logica; piuttosto, è vero il contrario. «I am using mind», ha scritto Peirce tra il serio e il faceto,

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. . . as synonym of Representation; and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind. I think they mainly talk about consciousness, in the sense of the first category, and hypothetical arrangements in the brain3. (MS478:157,1903)

Invece della Primità, Peirce, il logico, ha studiato la Terzità; «Non il processo psicologico, ma la funzione logica» (MSL237:126,c.1900); non i contenuti della ‘scatola nera’, ma i processi inferenziali che portano dalle premesse alle conclusioni. Questi processi sono stati da lui chiamati i «modi di azione dell’anima umana» (CP:6.144,1892). Per Peirce, ogni pensiero intende mostrare come un segno porti razionalmente a un altro, significando così crescita e sviluppo. Essendo questo il principale oggetto di studio di Peirce, difficilmente egli avrebbe teso a imbarcarsi in seri studi sul fallimento, il deragliamento o la paralisi dei processi mentali, come sarebbe stato d’interesse per uno psicologoxix.

Ai fini della presente argomentazione è fondamentale ricordare che la semiotica così come la concepiva Peirce concerne la relazione logica tra un particolare segno da un lato, e il suo interpretante o segno tradotto dall’altro; e anche che questa relazione si può definire abduttiva, induttiva o deduttiva. Poiché il processo traduttivo è un processo mentale non aperto allo scrutinio diretto, Toury sembra sostenere (almeno nella suddetta citazione) che possa essere spiegato con l’abduzione. Mentre questa costituisce un’affermazione assolutamente valida, per Peirce sarebbe probabilmente stato un modo “pessimistico” di trattare i fatti della materia. Nonostante si basino sulle congetture istintive, le ipotesi abduttive sono spesso giustissime nelle loro spiegazioni dei fatti, pertanto il loro valore di verità non dovrebbe essere considerato troppo alla leggera. Inoltre, sbalzi abduttivi richiedono la verifica induttiva, la ricerca dei fatti mediante «esperimenti che portano alla luce i fatti stessi cui l’ipotesi alludeva» (CP:7.218,1901). Infine, l’induzione prepara il terreno per la deduzione, dato che lo sviluppo delle leggi regola i fatti e dà loro uno «scopo

3 Questo passo è stato lasciato in inglese affinché non venisse meno il gioco di parole con «mind» [NdT]. 68

o una fine» (MS292:13,c.1906). Per l’argomento in questione, le questioni sollevate da Toury sono tempestive, perché i tre tipi di ragionamento dipendono direttamente dalle categorie e devono essere considerati gli equivalenti, nella relazione logica dei segni, dei tre tipi di interpretanti logici che corrispondono alle tre fasi del processo traduttivo. Questo argomento sarà discusso nei paragrafi successivi.

Introduciamo prima, punto per punto, alcune delle idee riguardo alle fasi della traduzione, come profferite da diversi studiosi. In uno spirito molto orientato verso la prassi, Koller (1992:203-204) distingue tra tre «Arbeitsstufen4»: la «Rohübersetzung5» o traduzione a vita breve, l’«Arbeitsübersetzung6» o traduzione a vita media e la «druckreife Übersetzung7» o traduzione a vita lunga. I criteri di Koller sono qualitativi e corrispondono a una scala crescente di «Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit», accuratezza, correttezza e adeguatezza (Koller 1992:204). Come spiegato da Koller, la prima fase produce una prima stesura della traduzione a scopo e uso limitato. Il suo focalizzarsi sulla «Genauigkeit» o accuratezza significa che ci deve essere «Identität des Inhaltes8», ma in questa fase vengono ancora accettate violazioni delle regole morfologiche, sintattiche, fraseologiche, lessicali, stilistiche ecc. In una seconda fase della traduzione, vengono richieste «Genauigkeit und Richtigkeit», accuratezza e correttezza; può non contenere errori grammaticali, lessicali o stilistici. Infine, la traduzione «pronta per la stampa» di Koller è caratterizzata dalla triade «Genauigkeit, Richtigkeit und Ädequatheit» – accuratezza, correttezza e adeguatezza. Prodotto di solida ricerca e seria riflessione, è tesa a soddisfare le più alte norme e aspettative. Bisogna notare, tuttavia, che la progressione da, per così dire,

4 «Livelli di lavoro» [NdT]
5 «Traduzione appena abbozzata» [NdT]
6 «Traduzione di servizio» [NdT]
7 «Traduzione pronta per la stampa» [NdT] 8 «Identità del contenuto» [NdT]

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fedeltà all’originale ad accordo con il codice ricevente e infine accordo del tipo di testo tra prototesto e metatesto, imposta priorità singolarmente relative. Le tre fasi proposte da Koller per descrivere la qualità del lavoro del traduttore possono essere definite solo in relazione l’una con l’altra. Qui mancano criteri esterni di valutazione. Ciò riduce sensibilmente l’utilità del processo trifasico di Koller all’infuori della pura pratica della traduzione e della pedagogia.

Con alcune “speculazioni teoriche” necessarie, Toury propone una rappresentazione schematica della traduzione composta da quattro fasi:

(1) un’indispensabile scomposizione dell’entità iniziale fino a un certo livello variabile e l’assegnazione dei suoi costituenti a questo livello dello stato di “caratteristiche”;
(2) una selezione delle caratteristiche da mantenere, ossia l’assegnazione di rilevanza ad alcune parti delle caratteristiche dell’entità iniziale, da un punto di vista o un altro;

(3) il trasferimento delle caratteristiche rilevanti selezionate verso (un o più di un) confine semiotico più o meno definito.
(4) la (ri)composizione di un’entità risultante attorno alle caratteristiche trasferite, assegnando loro allo stesso tempo lo stesso o un altro livello di rilevanza. (Toury 1986:1114)

A differenza della proposta pratica di Koller che descrive la qualità del prodotto finito, il programma di Toury è altamente teorico e orientato verso un processo. Prerequisito di ciò è che il testo ab quo possa essere diviso in unità discrete, alcune delle quali possono quindi essere considerate pertinenti «da un punto di vista o un altro» (significative, in gergo semiotico) mentre altre non pertinenti (in quanto non significative). Solo le prime vengono quindi transcodificate, mentre il destino delle altre unità, evidentemente eliminabili, nella proposta di Toury rimane piuttosto oscuro.

Mi sembra quasi che nessuna parte del segno di un testo possa essere camuffato 70

senza praticare alcuna forma di erosione, mediante la quale la sostanza semiotica, nelle successive semiosi a cui è sottoposta, viene assottigliata anziché diventare sempre più ricca di contenuto, come vorrebbe Peirce. La nozione di pertinenza brandita da Toury è davvero un’arma pericolosa e indiscriminata. Potendo avere sia una deformazione ideologica, sia una intuitiva, o anche entrambe, lo scenario di Toury sembra più adatto a rispondere ai bisogni retorici che a portare al summum bonum, la verità così come la vedeva Peircexx.

In After Babel, Steiner propone un quadruplice «movimento ermeneutico, l’atto di elicitazione e di trasferimento appropriativo del significato» (Steiner 1975:296), che nella sua descrizione consiste in realtà in tre fasi e in una quarta fase illusoria. Nella prima fase c’è, secondo Steiner, «fiducia iniziale» nella significatività dell’«‘altro’ come alterità di affermazione non ancora sperimentata e mappata» (Steiner 1975:296) nel testo da tradursi. Tale «fiducia» «sarà normalmente istantanea e non controllata, ma ha una base complessa» (Steiner 1975:296). Dopo quella che assomiglia alla descrizione della Primità di Peirce, Steiner procede alla seconda fase della traduzione, in cui la fiducia iniziale è messa alla prova con il confronto, e la «manovra della comprensione [diventa] esplicitamente invasiva ed esaustiva» (Steiner 1975:298). Il testo è ora attaccato, per così dire, nella sua “alterità”, in un atto di aggressione in cui «‘rompiamo’ il [suo] codice . . . lasciando il guscio in frantumi e gli strati vitali spogliati» (Steiner 1975:298). Ora, ciò assomiglia notevolmente alla Secondità di Peirce. «La terza mossa» continua Steiner «è incorporante, nel senso forte della parola . . . incorporazione . . . [A]rriviamo a incarnare energie e risorse del sentire alternative» (Steiner 1975:298-299). Quest’ultimo processo di «appropriazione globale» può determinare un «addomesticamento completo, un sentirsi a casa» della traduzione nella sua nuova situazione; oppure la traduzione potrebbe avere acquisito in tale situazione una «stranezza e [una] marginalità permanente» (Steiner 1975:298). Il fatto che una traduzione possa funzionare sia come «assunzione sacramentale», sia come il suo contrario – un’«infezione» (Steiner 1975:299) – significa,

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per il critico, che manca ancora della

. . . sua quarta fase, il colpo del pistone, per così dire, che completa il ciclo. Il movimento a priori della fiducia ci fa sbilanciare. Ci “sporgiamo” verso il testo che ci viene incontro . . . Accerchiamo e invadiamo cognitivamente. Torniamo a casa carichi, ossia di nuovo sbilanciati, avendo causato squilibrio in tutto il sistema portando via dall’“altro” e aggiungendo, anche se forse con conseguenze ambigue, al nostro. Il sistema è ora squilibrato. L’atto ermeneutico deve compensare. Se è autentico, deve mediare nello scambio e restaurare la parità. (Steiner 1975:300)

Avendo raggiunto questo nuovo stato di sintesi, il modello di Steiner è di nuovo al punto di partenza. Sebbene Steiner non si porrebbe sicuramente sotto l’insegna dei semiotici – nessuna –, il suo «movimento ermeneutico» assomiglia molto alla semiosi, e il suo

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scenario a fasi descritto sopra è curiosamente reminescente, concettualmente e sotto altri aspetti, della successione peirciana di tre momenti interpretativi che si manifestano nel primo (interpretanti immediati/emozionali), nel secondo (interpretanti dinamici/energetici) e nel terzo (interpretanti finali/logici) – quest’ultimo a sua volta suddiviso, secondo Short (1986a:115), in un interpretante logico «non definitivo» e in uno definitivoxxi.

La traduzione, almeno nelle sue varietà linguistiche, tratta di segni interpretabili con interpretanti logici; è un processo “pragmatico” per dare un senso a concetti intellettuali, o segni di Terzità. La soluzione di problemi mentali, della quale la traduzione sarebbe un caso esemplare, avviene secondo Peirce in tre fasi , forse parzialmente sovrapposte, a cui si è giunti deduttivamente, che mostrano un crescente grado di «hardness» o solidità di convinzionexxii. Quando incarnato in una traduzione vera (e quindi osservabile), tangibile (e quindi controllabile), questo concetto può fungere da norma di qualità vagamente simile ai sopraccitati tre gradi di «accuratezza, correttezza e adeguatezza» (Koller 1979:94) di Koller. Questa difficilmente è una coincidenza, poiché la logica di Peirce è una scienza normativa (Ransdell 1981:201-202n;Fisch 1986:269ff.) – benché in un senso più “tecnico” rispetto a quello inteso da Koller – e la traduzione considerata nei suoi aspetti non descrittivi diretti alle prestazioni è ugualmente processuale e, allo stesso tempo, governata da norme.

Primo, secondo e terzo interpretante logico

Il primo della serie degli interpretanti logici emerge nel momento in cui ci troviamo di fronte a situazioni problematiche di natura intellettuale, come una convinzione fugace, una mera serie di sensazioni che nascono

. . . quando a un forte ma più o meno vago senso di bisogno si 73

sovrainduce una qualche esperienza involontaria di natura suggestiva; quell’essere suggestiva che ha una certa relazione occulta con la struttura della mente. Possiamo ipotizzare che sia lo stesso delle idee istintive degli animali; e le idee dell’uomo sono tanto miracolose quanto quelle dell’uccello, del castoro e della formica. Poiché una percentuale non indifferente di essi si sono rivelati le chiavi dei grandi segreti. (CP:5.480,c.1905).

Per risolvere o spiegare il problema viene formulata una congettura o ipotesi. Peirce ha fatto un felice parallelo tra questa prima fase euristica di indagine scientifica e il «Pure Play of Musement», o fantasticheria intellettuale (CP:6.452ff.,1908). Nel processo traduttivo ciò corrisponderebbe alla fase più istintiva che razionale quando il segno del testo penetra per la prima volta in una mente recettiva. La mente di un traduttore allenato inizierà allora, spontaneamente e con facilità, a generare un flusso di idee. Questa traduzione improvvisata potrà essere una bozza frammentaria e incerta, forse; eppure è un nuovo segno suscettibile di fungere da punto di partenza della semiosi successiva.

Mentre negli animali «le condizioni sono relativamente costanti e non c’è un ulteriore progresso» (CP:5.480,c.1905), negli umani i primi interpretanti ipotetici possono essere ulteriormente sviluppati, avviando un processo di crescita delle idee. L’interpretante logico successivo è un prodotto di ciò che Peirce chiamava «il pizzico di freddo dubbio che risveglia il sano giudizio del meditatore» (CP:5.480,c.1905), e si esprime nella sperimentazione, nel soppesare i pro e i contro. In questa fase le ipotesi di lavoro vengono testate e verificate mediante un giudizio fondato. Nella situazione traduttiva, le ipotesi più o meno felici vengono ora messe sul tavolo operatorio e analizzate a mente fresca. Il risultato è “una” traduzione che fornisce “una” soluzione al problema. Al meglio offre una buona soluzione, che è efficace nella situazione comunicativa intesa e ha un senso (ossia, è

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significante) nella cultura ricevente. Ma al peggio può essere presa con sentimenti contrastanti, shock o persino un rifiuto.

Con il tempo e il duro lavoro, una mente allenata produrrà un terzo interpretante logico come soluzione quasi perfetta mediante la quale la semiosi potrebbe giungere a tutti gli effetti a un punto morto (magari temporaneo). Tale traduzione ideale avrà trovato il proprio habitat naturale nella situazione ricettiva, perdendo così la sua «percussivity» acuta (NEM4:318,c.1906). Poiché la nuova configurazione non presenta più problemi ed è diventata più o meno armoniosa, la mente cessa di essere nello «stato [di] attività . . . mescolato alla curiosità» (NEM4:318,c.1906) dal quale è stimolata a trovare ulteriori segni- interpretanti.

Questo status quo ideale, tuttavia, non dovrebbe mai diventare un attraente rifugio in una qualche fissità artificiale. Il terzo interpretante logico esprime sì una solida convinzione, ma è comunque un pensiero-segno, e il suo scopo principale è quindi rimanere vivo e mantenere la propria efficacia comunicativa nel tempo. Ignorare il suo bisogno di crescita sarebbe una forma di “antichismo”. Il giudice della finalità di ogni interpretante deve sempre essere la comunità sociale, o communis opinio, le cui norme sono naturalmente modificabili. Sebbene a questo punto la semiosi possa aver perso la propria incisività, il processo traduttivo ha raggiunto un momento non ancora definitivo. La sua finalità apparente non è altro che una tappa intermedia.

Per questa ragione è possibile, anzi fondamentale, far compiere al processo semiosico un ulteriore passo cruciale e considerare che il fuoco semiosico è suscettibile di ravvivarsi in ogni momento, per quanto distante o utopico. Il segno verrebbe quindi chiamato ad adempiere all’esplosivo compito di generare la sola, infallibile abitudine con cui la semiosi giungerebbe definitivamente a termine. Quest’interpretante logico definitivo incarnerebbe la norma-verità finale e non verrebbe quindi più inserita nella relazione triadica che caratterizza il segno di Peirce. Una traduzione che pretendesse di dare risposte

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definitive, è, tuttavia, un allarmante ossimoro, un segno sicuro che la cultura stessa, ad esempio per un qualche evento catastrofico, è giunta alla finexxiii. Ciò renderebbe la vera produzione di una traduzione davvero definitiva una questione terminale, o un segno della morte del segno (CP:5.824=W2:224,1868).

Il ruolo del traduttore

Il prossimo e ultimo punto che verrà discusso è il ruolo del traduttore nel processo traduttivo. Spesso non si è dato il giusto peso al reale lavoro del traduttore, figura talvolta criticata e ridicolizzata, talaltra valorizzata e idealizzata. Il traduttore tecnico è stato essenzialmente visto come un artigiano, e il suo lavoro come una forma di abilità – difficile, forse, ma non una specializzazione impossibile da padroneggiare. Sull’altro piatto della bilancia, il traduttore letterario, e in particolare quello poetico, è stato elevato (o si è elevato) all’interessante status di artista creativo di diritto. Questa dicotomia ha creato un potente mito attorno alla figura del traduttore, che è stato investito, anzi infestato, con immagini quali il copista, l’accolito, lo schiavo, l’amanuense, l’appassionato di bricolage, il ricreatore, il mediatore o altre metafore atte a sminuire o a ingrandire la performance personale del traduttore.

Alla luce di questi ambigui giudizi sulla persona professionale e i talenti del traduttore e sul suo ruolo nel processo traduttivo, vorrei esaminare il traduttore in termini della semiotica di Peirce, per affermare che, nel complesso, l’impatto personale del traduttore sul processo traduttivo sembra forse essere stato soggetto a un’inflazione esagerata– sia “ascendente”, sia “discendente”. Questa è almeno la direzione (si spera più

realistica) in cui ci indirizza la dottrina dei segni di Peirce. 76

Il traduttore in quanto comunicatore ha un duplice ruolo. Incarna sia il destinatario (o uno dei destinatari) del messaggio originale, sia il destinatario del messaggio tradotto; sia l’interprete, sia l’enunciatore; sia il paziente che interpreta il segno primario, sia l’agente che enuncia il metasegno tradotto. In termini semiotici, al traduttore è assegnata sia la relazione “di stare per”, sia quella di “stare a”, e così monopolizza l’intero processo di manipolazione dei segni in cui la traduzione consiste. Le seguenti affermazioni di Peirce

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sembrano indicare implicitamente la situazione del traduttore: «. . . non sono necessarie due menti separate per il funzionamento di un segno . . . [D]ue menti in comunicazione sono, fino a una certa misura, ‘d’accordo’, cioè sono propriamente una sola mente in quella parte di esse» (MS283:107,1905-1906); «Nel Segno sono, per così dire, saldati» (CP:4.551,1906).

Ora è noto che Peirce considerasse che «né un enunciatore, né, forse, nemmeno un interprete sono essenziali per un segno, essendo entrambi caratteristiche del segno» (MS318:58,1907). Sebbene la semiosi sia per Peirce un’azione triadica ed egli non avesse esplicitamente incluso una quarta o quinta componente del genere oltre al segno, il suo oggetto e l’interpretantexxiv, ciò non significa che Peirce non abbia riconosciuto l’esistenza dell’uno o dell’altro. In realtà lo ha fatto ripetutamente, ad esempio quando ha affermato che nel momento in cui un segno (verbale) viene prodotto, «c’è davvero un parlante, uno scrivente o un altro produttore di segni che lo enuncia, e suppone che ci sia, o che ci sarà, un ascoltatore, un lettore o un altro interprete che lo riceverà» (CP:3.433,1896); o nella sua citatissima definizione del segno come «qualcosa che per qualcuno sta per qualcosa . . . Si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente . . .» (CP:2.228,1897); o quando Peirce si riferiva alla «conoscenza totale dell’enunciatore (ossia del parlante, dello scrivente, del pensante o di altri agenti simbolizzatori» (CP:5.455,1905).

Si rendono qui necessari degli avvertimenti. In primo luogo, Peirce non aveva in mente, pare, che l’enunciatore e l’interprete fossero esseri umani e nemmeno menti specifichexxv. Ha scritto: «Un segno è qualsiasi cosa possa esistere il cui intento è mediare tra un suo enunciatore e un suo interprete, essendo entrambi depositari di pensiero» (MS318:206,1907; enfasi di Peirce). Stava piuttosto pensando, in modo astratto, a ciò che chiamava «teatri della coscienza» (MS318:55,1907) o «quasi menti»: «i segni necessitano di almeno due Quasi menti; un Quasi parlante e un Quasi interprete» (CP:4.551,1906).

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Peirce affermava come parte centrale della sua teoria dei segni che la semiosi «non solo si verifica nella corteccia del cervello umano, ma deve verificarsi chiaramente in ogni Quasi mente in cui Segni di ogni tipo hanno una propria vitalità» (NEM4:318,c.1906). In secondo luogo, l’interprete pare essere più essenziale all’azione del segno rispetto all’enunciatore. Molti segni non hanno un enunciatore, o per lo meno non emanano da alcun produttore di segni personalizzato e conscio. Per illustrare ciò, Peirce ha citato «segni come sintomi di una malattia, segni del tempo atmosferico, gruppi d’esperienza che fungono da premesse ecc.» (MS318:56-57,1907). Ma un segno non è un segno a meno che non ci sia un interprete che lo interpreti come tale – «capace in qualche modo di ‘coglierlo’» (MS318:205,1907) – per lo meno potenzialmente. Un segno che per qualsiasi ragione non sia mai in grado di essere interpretato non potrà mai essere considerato un segno nel senso semiotico. Terzo, l’enunciatore e l’interprete all’interno della mente del traduttore sono impegnati in una relazione dialettica che si evolve nel tempo, un dialogo, metà interno e metà esterno, in cui il traduttore/enunciatore è subordinato al traduttore/interprete; tuttavia la performance di entrambi i “ruoli” da parte del singolo traduttore è chiaramente dominata da quella del segno-interpretante – cioè l’interpretante che si trasforma di nuovo in segno, o il segno che si trasforma in interpretante.

Al contrario della semiotica linguistica basata sulle teorie di Saussure, con enfasi sulla produzione del segno, la semiotica pragmatica (vale a dire la semiotica nella tradizione peirciana) procede al contrario e si manifesta prima di tutto ed essenzialmente come una teoria dell’interpretazione dei segni. Il segno così come Peirce lo concepisce, a differenza della sua controparte saussuriana, non definita in termini di un enunciatore e/o interprete bensì in termini delle sue relazioni – con sé stesso, con il suo oggetto, con il suo interpretante. Mediante la semiosi, il segno dispiega il suo significato; il suo significato pieno è così conoscibile, «sebbene possa trovarsi solo al termine ideale e infinitamente distante dell’indagine» (Savan 1983:6). L’azione e l’interpretazione dei segni non sono

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necessariamente determinate da un enunciatore o interprete umano: la semiosi di Peirce è un’azione triadica autogenerante. Come tutti i segni semiotici, il testo-segno è una forza vivente alla ricerca attiva della propria realizzazione attraverso una qualche mente interpretante piuttosto che in attesa passiva di essere da essa realizzato, come nel caso della semiotica linguistica. Una ragione per cui il concetto peirciano di testo-segno potrebbe a prima vista sembrare bizzarro è che riduce l’importanza del lettore/interprete/traduttore. In una semiotica del testo di ispirazione saussuriana, quest’ultimo è normalmente visto come il solo soggetto che produce un discorso, l’unica forza che fornisce al testo-segno il suo significato accoppiando signifiant e signifié. Passando invece a un paradigma pragmatico peirciano, la presenza di un interprete è in qualche modo inclusa ma allo stesso tempo privata della sua enfasi.

Ciò significa che il ruolo attivo di mediazione in quel tipo di azione semiosica solitamente chiamata traduzione è svolto non dal traduttore, come si crede comunemente, ma dall’azione autonoma stessa mediante la quale il segno giunge a comprendere il proprio significato. Riguardo al pensiero e alla persona pensante, Peirce ha scritto che è il pensiero che pensa nell’uomo piuttosto che l’uomo nel pensiero (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), e

[L’]idea non appartiene all’anima; è l’anima che appartiene all’idea. L’anima fa per l’idea solo ciò che la cellulosa fa per la bellezza della rosa; vale a dire, [la cellulosa] dà la possibilità a essa [la bellezza]. (CP:1.216,1902)xxvi

Applicato alla teoria della traduzione, questo significa che il traduttore è solo strumentale nel rendere possibile l’azione del segno; è usato (ossia impiegato, influenzato) dal segno. Perciò sarebbe un’interpretazione erronea dei fatti sostenere, come accade generalmente, che il segno è tradotto dal traduttore, perché in realtà si traduce da séxxvii. Il traduttore non si rivolge al testo-segno; è il testo-segno che si rivolge al traduttore. E non gli si rivolge come

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a una persona in carne e ossa ma come a una mente (cioè un segno). Il segno si rivolge, nella memoria dell’interprete, a «un particolare ricordo o immagine» che è «l’equivalente mentale» di quel segno – in breve, al suo interpretante (W1:466,1866). «L’intera funzione della mente è di fare interpretare a un segno sé stesso in un altro segno» (MS1334:44,1905). Naturalmente il traduttore può essere un marxista, una donna, un italiano; ma al momento della traduzione è, se non semplicemente il «sito attraversato dalle parole» postulato da Barthes, sicuramente non un calcolo di sentimenti legati a un’ideologia, al sesso o alla nazionalità. Il testo-segno deve essere visto come un organismo vivente che per sopravvivere richiede una traduzione e che è alla ricerca attiva di una mente recettiva in grado di generare interpretanti; senza reazioni interpretative il testo-segno morirebbe e scomparirebbe.

La rilevanza di questa transazione semiotica per la traduzione automatica è ovvia. Anzi, nel 1905 Peirce ha immaginato la possibilità di una traduzione compiuta da una macchina – non umana ma programmata dalla mente umana. Ha scritto:

. . . se avessimo i macchinari necessari per farla [la traduzione], cosa che forse non avremo mai, ma che è assai concepibile, un libro in inglese potrebbe essere tradotto verso il francese o il tedesco senza l’intervento della traduzione nei segni immaginari del pensiero umano . . . Supponendo che ci fosse una macchina o anche un albero in crescita che, senza l’interpolazione di alcuna immaginazione continuerebbe a tradurre da una possibile lingua all’altra, . . . (MS283:97-98,1905)

Il traduttore è quindi per Peirce essenzialmente un medium passivo nell’attività traduttiva, che egli può influenzare (come «l’albero in crescita» di

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Peirce) solo marginalmente.
Poiché incarna l’idea (sopraccitata) che sia il pensiero a pensare nell’uomo piuttosto

che viceversa (CP:5.289,n.1=227,n.4,1868), il traduttore è «portato, suo malgrado, da

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un pensiero all’altro» (CP:1.384,1890-1891). La mancata enfasi di Peirce sull’interprete personale influisce sulla sua (ancora in parte misteriosa) equazione «l’uomo è un segno» (CP:5.314=W2:241,1868). Nell’aforisma semiotico di Peirce, l’uomo è considerato alla stregua di un simbolo, un processo di comunicazione, conoscenza e apprendimento, proprio come lo è il segno; di conseguenza, tutti i termini coinvolti nel processo semiosico sono segni. Né l’enunciatore, né l’interprete possono fungere da forze autonome sotto l’egida della semiosi. Sono segni convertibili l’uno nell’altro all’interno di questa relazione comunicativa tanto quanto il segno proferito e/o interpretato ha bisogno, in qualche modo, di loro per la sua esistenza. Per lo stesso motivo, segni di tutti i tipi si autointerpretano da soli, l’uomo interpreta l’uomo, l’uomo interpreta i segni e i segni l’uomo, il tutto in un sistema generativo auto-organizzante irreversibile che si rinnova costantementexxviii. Questo rende il processo pragmatico del portare idee (ossia segni-pensieri) in opposizione all’essere portato da esse, in una sorta di relazione contrattualexxix in cui

. . . uomini e parole si istruiscono reciprocamente; ogni aumento delle informazioni di un uomo implica un aumento corrispondente delle informazioni di una parola ed è da esso implicato. (CP:5.313=W2:241,1868)xxx

Mentre «[o]gni enunciato lascia naturalmente il diritto di un’ulteriore esposizione da parte dell’enunciatore» (CP:5.447,1905), allo stesso tempo l’interprete gode di ciò che Peirce ha significativamente chiamato il «privilegio di portare la sua [del segno] determinazione oltre» (CP:5.447,1905). Poiché un termine è incluso in un processo di segni triadico, al traduttore-segno è data solo una libertà limitata di azione interpretativa. Come ha affermato Peirce, «un segno che lascia che il suo interprete lo interpreti a suo piacimento non significherebbe nulla, a meno che il nulla sia il suo significato» (CP:5.448,n.1,1906). Con quest’osservazione sagace ma un po’ maliziosa Peirce non intendeva ovviamente solo dire

83

che spesso e volentieri gli interpreti/traduttori, quando lasciati alle proprie risorse, producono assurdità. L’osservazione di Peirce che «la concezione barbara dell’identità personale deve essere ampliata» sottolinea il fatto che

Ogni comunicazione da mente a mente è attraverso la continuità dell’essere. Un uomo è capace di avergli assegnato un rôle – per quanto umile – a patto che si identifichi con il suo Autore. (CP:7.572,c.1892)

Un traduttore nello spirito intellettuale di Peirce conduce quindi un’«esistenza problematica» (CP:2.334,c.1895): non è tanto un individuo esperto che può pretendere di conoscere ogni risposta, quanto uno studente dedito a ciò che si manifesta nella semiosi a cui partecipa. Il vero traduttore peirciano è intrigato, affascinato o disorientato dal segno che ha di fronte, o ne è persino innamorato. Per questo motivo, la mente del traduttore deve essere aperta e incline alla semiosi – vale a dire, impegnata a crescere e coinvolta in un continuo processo di studio. Deve piegarsi incondizionatamente alla forza attrattiva del segno, ispirato da ciò che può essere giustamente chiamato «Amore creativo», in opposizione all’auto-amore (Henry James, padre di William James, citato in Murphey 1961:351;vedi anche CP:6.287,1893).

Le connotazioni erotiche di questo immaginario non sono certo una coincidenza. Servono a evidenziare il fatto che il traduttore sia, in parte, un patito del segno, uno il cui desiderio consiste nella resa incondizionata ai suoi [del segno, NdT] bisogni e desideri, piuttosto che nel cercare all’interno del testo-segno occasioni per dimostrare la propria abilità e il proprio talento. Secondo Peirce, mentre l’amore di sé è un semplice eufemismo dell’ingordigia (CP:6.291,1893), l’amore creativo corrisponde, conformemente all’agapastica teoria peirciana dell’evoluzione che ha le sue radici nel vangelo di Giovanni, al suo «amore evolutivo»,

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. . . che insegna che la crescita arriva solo dall’amore; non direi dall’autosacrificio, ma dall’impulso ardente di soddisfare il più alto impulso di un altro. Supponiamo, ad esempio, che io abbia un’idea che mi interessa. È la mia creazione. La mia creatura; . . . è una personcina. La amo, e mi butterò a capofitto nel suo perfezionamento. Non è infliggendo una fredda punizione al circolo della mie idee che posso farle crescere, ma nutrendole e occupandomi di loro come farei con i fiori che ho in giardino. La filosofia che traiamo dal vangelo di Giovanni è che è così che la mente si sviluppa . . . (CP:6.289,1893)xxxi

Anche questo è sinecismo, il principio evolutivo dell’indagine, che, applicato all’attitudine mentale del traduttore (o di qualsiasi altro studioso), si concentra suoi fatti non come fenomeni isolati, ma come un qualcosa che incarna «un vero continuum . . . le cui possibilità di determinazione non possono essere esaurite da nessuna moltitudine di individui» (CP:6.170,1902). In questo modo, allora, il traduttore prende parte a una cosmologia metafisica nella quale vengono stabilite le potenzialità di significato, le relazioni e le generalità del segno che rifuggirebbero una mente orientata atomicamente.

Spero di aver chiarito che in tandem con questa concezione del ruolo del traduttore come persona che compie disinteressatamente un lavoro d’amore, la traduzione come semiosi trova un’espressione completamente nuova ed emozionante.xxxii

Conclusioni

Un allontanamento dall’approccio linguistico alla traduzione e un ritorno (seguendo Peirce e in compagnia di Jakobson, Steiner e altri) a una prospettiva filosofica sul fenomeno della traduzione rendono la perenne discussione riguardante la «fedeltà» o l’«infedeltà» di una traduzione (come si dice spesso con un tono moralistico) ridondante, e getta una luce

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completamente nuova sull’epistemologia della sua “verità”. Queste idee non sono più valide in una teoria della traduzione che non punta alla riproduzione del significato (senza, tuttavia,

perdere il suo carattere normativo e finalizzato) ma all’incarnazione e allo spiegamento del potenziale di significato di un segno.

I traduttori accetteranno questo ruolo remissivo e di essere considerati menti vuote ed anonime. Nell’epigrafe di questo capitolo ho citato il vecchio cliché, traduttore traditore9, e i tempestivi commenti di Jakobson in proposito. Forse traditore può essere qui preso positivamente, nel suo senso etimologico10 – che renderebbe il traduttore un trasmettitore neutrale del messaggio. E forse, i traduttori dovrebbero anche sapere e volere sabotare i loro ruoli “tradizionali”, mostrare un comportamento deviante e impegnarsi nel «paradosso» creativo o semplicemente ingannevole «del tradimento per aumento» (Steiner 1975:298), e anche nel tradimento per riduzione o distorsione. Altrimenti ciò che potrebbero produrre sarebbero traslitterazioni, repliche morte dell’originale. Nella misura in cui una traduzione è un mero simulacro serve solo a soffocare la semiosi, poiché tesse trame in cui la somiglianza, o persino la coincidenza, è un motivo ricorrente. La modellazione nella traduzione deve essere speculativa, suggerendo un’ipotesi. Parte dai fatti, ma senza, all’inizio, seguire una particolare teoria. Si prefigge di proporre la costruzione di un modello prognostico, ma deve farlo guidata da una “ragione” istintiva. Questo non è l’ossimoro che a prima vista sembrerebbe. Lasciatemi quindi proporre traduttore abduttore11 come nuovo adagio adatto a riflettere ciò che, in una filosofia

9 In italiano nell’originale [NdT]
10 Il latino «trado» (-is, -dĭdi, -dĭtum, -ĕre) significa «consegnare, affidare, tramandare» [NdT] 11 In italiano nell’originale [NdT]

86

peirciana dei segni, dovrebbe essere la preoccupazione principale del traduttore. Ciò rende forse la semiosi, traduttiva o di altro tipo, un gioco rischioso, ma mai una ricerca banale. Per la traduzione di testi è l’alito della vita.

87

Note

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1
for instance, van den Broeck 1978 and Wills 1977:156-191.

On identity vs. difference, see also Chapter 7. On the problem of translational equivalence, see also,

2
emphasized in 1965 by Catford, thus: “The central problem of translation-practice is that of finding TL [target

The need to define, and thereby delimit, translation equivalence (both in theory and in practice) was

93

language] translation equivalents. A central task of translation-theory is that of defining the nature of conditions of translation equivalence” (Catford 1965:21).

3

Toury also speaks of “some informational core [which] is retained invariant under transformation”

(Toury 1986:1112-1113) and, more specifically, of an invariant core which “may be functional (ad hoc,

textual, or habitual, linguistic and/or text-typological)” or “formal, when . . . the invariant is the linguistic

substance itself” (Toury 1986:1117).

4

In the translational-theoretical context, this is a conclusion also arrived at by Frawley (from a

semiotic but non-Peircian point of view): “Thus, in an interlingual translation, for example, the matrix code

provides the phonological information, the morphological information, the syntactic information, and so on,

to be bound to different semiotic constraints. Hence the notion of identity is actually antithetical to the notion

of translation. There is no meaningful (meaningful ≠ semantic) information except that it is coded, and the

very fact of differential coding militates against ‘exact translation’ . . . [T]here is information only in

difference, and the differential coding, the recoding, is what allows the interlingual translation to produce any

information at all” (Frawley 1984a:168).

5 6

See Chapter 2, especially the section on “Semiotics and translation studies: generalities”.

Even Saussure, the champion of the arbitrary, conventional sign, recognized the existenc of

motivated (or, in his terminology, natural) signs. To address the form of language as having adopted, to some

degree, the form of external reality, is particularly momentous for the study of literature, where a completely

unmotivated sign concept would forbid all reference of the sign to its object. Interestingly, in this context,

Humboldt also composed an art theory, which must fall outside the scope of the present discussion.

7

This idea overlaps, at least to a certain point, with Nida’s principle of “equivalent effect”, which is “not so concerned with matching the receptor-language with the source-language message, but with the dynamic relationship between receptor and message [which] should be substantially the same as that which

existed between the original receptors and the message” (Nida 1964:159). Upon this principle Nida based his well-known dynamic-equivalence (as opposed to formal-equivalence) model.

8
translation; therefore it would be more adequate to use “codes” than “languages” here.

These remarks apply to the products of intralingual and interlingual, as well as intersemiotic

94

9

Jakobson argued that sequential use is made of equivalent units in two cases: “In poetry one syllable

is equalized with any other syllable of the same sequence; word stress is assumed to equal word stress, as

unstress equals unstress; prosodic long is matched with long, and short with short; word boundary equals

word boundary, no boundary equals no boundary; syntactic pause equals syntactic pause, no pause equals no

pause” (Jakobson 1971b:71). A translation of a poem must reproduce such equivalences across the language

barrier. Yet Jakobson continued: “It may be objected that metalanguage also makes a sequential use of

equivalent units when combining synonymic expressions into an equational sentence: A = A (“Mare is the

female of the horse”). Poetry and metalanguage, however, are in diametrical opposition to each other: in

metalanguage the sequence is used to build an equation, whereas in poetry the equation is used to build a

sequence” (Jakobson 1971b:71). Translation is, of course, a typical metalinguistic operation.

10 11

For details concerning Peirce’s concepts, see Chapter 3.

Since language is primarily a symbolic sign-system, this means that experiential knowledge is not

only linguistic but may also be non-linguistic. For Jakobson, however, “The meaning of the word ‘cheese’

cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance

of the verbal code. An array of linguistic signs needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not

teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in

general, or of any cheese, any milk product, any foodm any refreshment, or perhaps any box irrespective of

contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering,

slae, prohibition, or malediction?” (Jakobson 1971b:260-261). Jakobson’s contention here would gain in

clarity and scope by being placed in a broader framework – such as Peirce’s philosophy of signs – which does

not separate linguistic sign from non-linguistic signs, but places the different kinds of mental processes in a

continuum. This point is convincingly argued in Johansen (1993:235-244).

12

13

An expanded version of this lecture has been published in CP:2.391-2.430,1866.

In his earlier period Peirce, the logician, identified “sign” with thought-sign, his “symbol. Following

Peirce, I shall also use “term” in the general sense of “concept”, unrelated to Peirce’s specific understanding

of it, as an alternative to “rheme”.

14

Peirce used the term “information” as a measure of entropy – that is, similar to its modern use. He did 95

this long before the recent development of information theory, of which he must be considered a pioneer.

15
to the “essential”, “informed”, and “substantial” breadth and depth. See also Johansen 1993:147ff.

16 17 18

For a discussion of this crucial passage from a different perspective, see Chapter 5.
More on this in Chapter 10.
Having discussed, in the foregoing, semiotic equivalence in terms of the three elements of the

In reference to this, Peirce proposed three graded states of information, or knowledge, corresponding

semiosic sign-relation – sign-related, or qualitative equivalence; object-related, or referential equivalence; interpretant-related, or significational equivalence –, I need to respond briefly to Johansen’s view on this matter, since it differs somewhat from mine. Johansen (1988:26) includes in his list of partial equivalences, “extensional equivalence” and “significational (or intensional) equivalence”, in addition to what he calls “intentional equivalence” and “rhetorical equivalence”. That Johansen makes no explicit mention here of my qualitative equivalence, but includes instead the perspectives of respectively the utterer and the interpreter, is perhaps a reflection on the fact that he discusses one specific type of signs, namely literary signs. My own view on Johansen’s extension of Peirce’s triadic sign-relation, will become clear later in this Chapter. I may add here that, if I interpret Johansen’s list of four equivalences rightly, his extensional equivalence and my referential equivalence overlap, his intensional (or significational) equivalence corresponds to my own significational equivalence, while my qualitative equivalence seems included in his rhetorical equivalence (but without being identical to it).

19
For a detailed discussion of the relevance of Peirce’s semiotics to psychology, see Colapietro 1989:49ff. and

passim. 20

See also Chapter 10, particularly the section on “Utterer and interpreter in translational semiosis”.

See also Holmes 1988:89. Given the general and rather indeterminate character of Toury’s representation of the translation process here, I may perhaps venture an alternative interpretive suggestion. If by

relevancy is (implicitly) meant the opposite of redundancy in the information-theoretical sense, this makes the “irrelevant” units the non-informative relative waste of the message qua content. Seen from the point of typology, this would then refer to the invariants in the semiotic process – repeatable and thus superfluous.

96

This reductionist approach creates more problems than it solves, because in a semiotic context, invariance is not identical with insignificance, nor is variance the same as significance.

21

For Peirce’s different interpretants see also Chapter 3. Robinson’s (1991:294-296,n.24) criticism of

Steiner contains an interesting point: Steiner is accused of “unwillingness to take a stand on the theoretical

status of his movements”, of not stating clearly “whether they are psychohistorical phases in every translator’s

approach to a text, sociohistorical phases in a culture’s approach to foreign texts . . . or static logical

categories into which specific translations can be classified” (Robinson 1991:295,n.24).

22

clarity are interpreted as connected with the categories.

Peirce himself related to “three grades of clearness” in CP:3.456ff., 1897. See also his essay on “How to make your ideas clear” (W3:257-276,1878). Following Fisch (1986:290,327-329), the three grades of

23

Eco’s semiosic concept of culture as translation or an ongoing process of generating new

interpretants by a society of interpreters (Eco 1979:71) is incompatible with the idea of an ultimate logical

interpretant. I am indebted to Professor Eco for some of the stimulating ideas he put forward during his

lecture on “Drift and unlimited semiosis” at the Institute for Advanced Studies of Indiana University at

Bloomington on July 19,1989. A version of his lecture has been published in The limits of interpretation (Eco

1990:23-43).

24
element of semiosis (which for Morris was a relation between “sign”, “signification”, and “interpretant”).

26

It was not Peirce but Charles W. Morris who first spoke (1938:3) of the interpreter as a fourth

25
PW:81,1908). This issue is also discussed in Chapter 10.

This is also demonstrated by Peirce’s repeated remarks on the “sop to Cerberus” (see, for example,

Liszka (1981:47) affirms that “for Peirce, unlike Kant, the mind is not primarily synthetic, but analytic (1.384), i.e., mind does not constitute experience, but merely analyzes it. The mind gets synthesized rather than serving as the synthesizing agent: ‘Real synthesis occurs when we are carried in spite of ourselves from one thought to another’ (1.384)”.

27
upon similar ideas. The art of archery, for instance, is wholly an affair of “finding one’s cosmic center”.

Eastern martial arts, in which Zen-Buddhist and other meditation systems are an integral part, build

97

Paradoxically to the Western mind, it is not the archer who shoots the arrow: once the “tao”, or moment of inner balance, has been found, the arrow is simply shot from the bow. As the metaphor goes, it leaves the bow as the ripe fruit falls from the tree. Coincidentally or not, Peirce used the same image when he described “that ultimate . . . , definitive, and final interpretant” as “the ripe fruit of the thought”, “attaining the purpose” (MS298:24,1906). And he added: “But this perfect fruit of thought can hardly itself be called thought, since it has no signification and does not belong to the faculty of cognition at all; but rather to the character” (MS298:24,1906). Transposed to a different artistic key, the music is in the instrument, and the player needs only to make him- or herself available to it, for the music to come out.

28 29 30

For a particularly lucid, learned, and provocative study of this, see Merrell 1991.
See Chapter 10.
The same idea, viewed from the side of man as interpreter, is implied in the following quotation: “In

any case, such a Sign [Pheme] is intended to have some sort of compulsive effect on the Interpreter of it . . . It [The Delome] is a Sign which has the Form of tending to act upon the Interpreter through his own self- control, representing a process of change in thoughts or signs, as if to include this change in the Interpreter” (CP:4.538,1906). Note, however, Peirce’s “as if” in the last sentence, which, again, seems to limit the active role of the interpreter in semiosis.

31
horticultural metaphors.

32

In a previous article (Gorlée 1987) I addressed more specifically the meaning of Peirce’s

This concept of the translator displays a striking similarity to the purport of Walter Benjamin’s essay on “The task of the translator”: see Chapter 7. For a full, if more “conservative” discussion of the role of the translator in the translation process, see Wills 1988:41-59. Finally, Bellett (1978) places “translation as personal mode” vis-à-vis” the translator as nobody in particular”: “Both are ploys, impersonations, heuristic deceptions”, this writer argues (Bellett 1978:30), and “The operative word is faith and not fidelity” (Bellett 1978:39). Although these statements sound remarkably Peircian, Bellett refers here to the (un)faithfulness of the translator to the author of the original, not to the translator’s relation to the original
text, nor to the translation process – as Peirce would have it.

i
van den Broeck 1978 e Wilss 1977:156-191.

Su identità/differenza vedi anche cap. 7. Sul problema dell’equivalenza traduttiva vedi anche, p.e.,

ii
pratica) è stato enfatizzato nel 1965 da Catford: «Il problema centrale della pratica della traduzione è trovare

Il bisogno di definire, e quindi di delimitare, l’equivalenza traduttiva (sia nella teoria, sia nella

98

gli equivalenti traduttivi della lingua ricevente. Uno dei compiti fondamentali della teoria della traduzione è definire la natura delle condizioni dell’equivalenza traduttiva» (Catford 1965:21).

iii

Toury parla anche di «un nucleo informativo [che] è mantenuto invariato nella trasformazione»

(Toury 1986:1112-1113) e, più specificatamente, di un nucleo invariante che «potrebbe essere funzionale (ad

hoc, testuale o abituale, linguistico e/o della tipologia testuale)» o «formale quando . . . a essere invariata è la

sostanza linguistica stessa» (Toury 1986:1117).

iv

All’interno della teoria della traduzione, questa è una conclusione a cui è arrivato anche Frawley (da

un punto di vista semiotico ma non peirciano): «Così, in una traduzione interlinguistica, ad esempio, il codice

matrice fornisce le informazioni fonologiche, quelle morfologiche, quelle sintattiche e così via, da legare a

diversi vincoli semiotici. Pertanto il concetto di identità è in realtà antitetica a quella di traduzione. Non ci

sono informazioni significative (significative ≠ semantiche) eccetto che è codificata, e che proprio il fatto del

codificare differenziale è in contraddizione con l’‘esatta traduzione’ . . . [C]i sono informazioni solo nella

differenza, e il codificare differenziale, il ricodificare, è proprio ciò che permette alla traduzione

interlinguistica di produrre informazioni» (Frawley 1984a:168).

v vi

Vedi cap. 2, in particolare la sezione Semiotica e studi sulla traduzione: generalità.

Persino Saussure, il campione del segno arbitrario e convenzionale, ha riconosciuto l’esistenza dei

segni motivati (o, usando il suo termine, naturali). Dedicarsi alla forma di linguaggio come qualcosa che ha

adottato, fino a un certo punto, la forma della realtà esterna, è particolarmente importante per lo studio della

letteratura, in cui un concetto di segno completamente immotivato vieterebbe ogni riferimento del segno al

suo oggetto. In questo contesto, Humboldt ha anche formulato una teoria artistica che prescinde dall’intento

della presente discussione.

vii

tori originali e il messaggio» (Nida 1964:159). Su questo principio Nida ha basato il suo celebre modello di equivalenza dinamica (in opposizione a ll’equivalenza formale).

Quest’idea coincide, almeno fino a un certo punto, con il principio di Nida dell’«effetto equivalente», che non si occupa tanto dell’abbinamento della lingua-ricevente con quello originale quanto della relazione dinamica tra recettore e messaggio [che] dovrebbe essere sostanzialmente la stessa esistente tra i recet-

viii

Queste osservazioni valgono per i prodotti di una traduzione intralinguistica, interlinguistica e

intersemiotica; pertanto qui sarebbe più adeguato usare «codici» al posto di «lingue».

ix

Jakobson ha affermato che l’uso sequenziale consiste in unità equivalenti in due casi: «In poesia una 99

sillaba è equiparata a un’altra sillaba della stessa sequenza; ad accento tonico corrisponde accento tonico e ad atonia atonia; in prosodia, a una lunga corrisponde una lunga, a una corta una corta; ai limiti di una parola corrispondono i limiti di una parola, nessun limite a nessun limite; a pausa sintattica è fatta corrispondere pausa sintattica, a nessuna pausa nessuna pausa» (Jakobson 1971b:71). La traduzione poetica deve riprodurre tali equivalenze attraverso la barriera della lingua. Jakobson ha continuato: «Si potrebbe obiettare che anche il metalinguaggio fa un uso sequenziale di unità equivalenti combinando espressioni sinonimiche in una frase equazionale: A = A («la cavalla è la femmina del cavallo»). La poesia e il metalinguaggio, però, sono diametricalmente opposti l’uno all’altra: nel metalinguaggio la sequenza viene usata per costruire un’equazione, mentre nella poesia viene usata per costruire una sequenza» (Jakobson 1971b:71). La traduzione è, naturalmente, una tipica operazione metalinguistica.

x xi

Per dettagli sui concetti di Peirce vedi cap. 3.

Poiché la lingua è primariamente un sistema di segni simbolici, ciò significa che la conoscenza data

dall’esperienza non è solo linguistica ma può anche essere non linguistica. Per Jakobson, tuttavia, «il

significato della parola ‘formaggio’ non può essere inferito da una conoscenza non linguistica di cheddar o

camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola non familiare è necessaria una serie di

segni linguistici. Il semplice indicare col dito non ci dirà se «formaggio» è il nome specifico di quel

formaggio, della confezione di camembert, del camembert in generale o di tutti i formaggi, di tutti i latticini,

di tutti i cibi, di ogni ristoro o forse di tutte le confezioni indipendentemente dal loro contenuto. Infine, una

parola nomina semplicemente la cosa in questione o implica un significato quale un’offerta, una vendita, un

divieto o una maledizione?» (Jakobson 1971b:260-261). Il pensiero di Jakobson guadagnerebbe qui in

chiarezza e portata se fosse messo in una cornice più ampia – come la filosofia peirciana dei segni – che non

separa il segno linguistico dai segni non linguistici, ma pone i diversi tipi di processo mentale in un

continuum. Questo punto è argomentato in modo convincente in Johansen (1993:235-244).

xii

xiii

Una versione ampliata di questa lezione è stata pubblicata in CP:2.391-1.430,1866.

Quand’era ancora agli inizi, Peirce, il logico, identificava «segno» con pensiero-segno, il suo

«simbolo». Seguendo Peirce, dovrei usare anch’io «termine» nel senso generale di «concetto», non legato alla

comprensione specifica di Peirce riguardo a esso, come un’alternativa a «rema».

xiv
quello odierno. Questo molto prima del recente sviluppo della teoria dell’informazione, di cui deve essere

Peirce usava il termine «informazione» come misura dell’ entropia – ossia, ne faceva un uso simile a

100

considerato un pioniere.

xv
all’ampiezza e alla profondità «essenziale», «informata» e «sostanziale». Vedi anche Johansen 1993:147ff.

xvi xvii xviii

Per una discussione di questo importantissimo passaggio da una prospettiva diversa vedi cap. 5. Ulteriori informazioni nel cap. 10
Avendo discusso, precedentemente, l’equivalenza semiotica in termini dei tre elementi della

Riguardo a ciò Peirce ha proposto tre gradi di informazione, o conoscenza, corrispondenti

relazione semiosica tra segni – relativa al segno, o qualitativa; relativa all’oggetto, o referenziale; relativa all’interpretante, o significazionale – , è necessario che risponda brevemente alla visione di Johansen in materia, poiché è in qualche modo diversa dalla mia. Johansen (1988:26) include nella sua lista di equivalenze parziali l’«equivalenza estensionale» e quella «significazionale» (o intensionale), oltre a quelle da lui chiamate «equivalenza intenzionale» ed «equivalenza retorica». Che Johansen non citi esplicitamente la mia equivalenza qualitativa ma includa invece la prospettiva di, rispettivamente, parlante e interprete, è forse indice del fatto che egli considera un tipo specifico di segni, e cioè i segni letterari. La mia posizione sull’estensione di Johansen della relazione segnica triadica di Peirce verrà chiarita più avanti in questo capitolo. Potrei aggiungere che, se interpreto correttamente la lista di Johansen di quattro equivalenze, la sua equivalenza estensionale e la mia equivalenza referenziale coincidono, la sua equivalenza intensionale (o significazionale) corrisponde alla mia equivalenza significazionale, mentre la mia equivalenza qualitativa sembra inclusa nella sua equivalenza retorica (senza tuttavia esserne identica).

xix
discussione dettagliata dell’importanza della semiotica di Peirce per la psicologia vedi Colapietro 1989:49ff. e

Vedi anche cap. 10, in particolare la sezione «Parlante e interprete nella semiosi traduttiva». Per una

passim. xx

intende (implicitamente) il contrario di ridondanza in senso informativo-teorico, ciò rende le unità “irrilevan- ti” lo scarto relativo non-informativo del messaggio in quanto contenuto. Dal punto di vista della tipologia, questo si riferirebbe quindi agli invarianti nel processo semiotico – ripetibili e perciò superflui. Questo approccio riduzionista crea più problemi di quanti ne risolva, poiché in un contesto semiotico l’invarianza non

Vedi anche Holmes 1988:89. Dato il carattere generale e piuttosto indeterminato della rappresentazione di Toury del processo traduttivo, potrei azzardare un’interpretazione alternativa. Se con «rilevanza» si

101

è identica all’insignificanza, così come la varianza non equivale alla significatività.

xxi

Per i diversi interpretanti di Peirce vedi anche cap. 3. La critica di Robinson (1991:294-296,n.24) a

Steiner contiene un punto interessante: Steiner è accusato di «riluttanza a prendere una posizione riguardo allo

status teorico delle sue mosse», di non dichiarare apertamente «se sono monofasi psico-storiche presenti in

ogni approccio del traduttore verso il testo, fasi socio-storiche nell’approccio di una cultura verso testi

stranieri . . . o categorie statiche logiche in cui traduzioni specifiche possono essere classificate» (Robinson

1991:295,n.24).

xxii

chiarezza sono interpretati come connessi con le categorie.

Peirce stesso si è riferito ai «tre gradi di chiarezza» in CP:3.456ff., 1897. Si veda anche il suo saggio «How to make your ideas clear» (W3:257-276,1878). Secondo Fisch (1986:290,327-329), i tre gradi di

xxiii

Il concetto semiosico di Eco della cultura come traduzione o un processo continuo di generazione di

nuovi interpretanti da parte di una società di interpreti (Eco 1979:71) è incompatibile con l’idea di un

interpretante logico definitivo. Sono in debito con il Professor Eco di alcune delle idee stimolanti che ha

proposto durante la conferenza «Drift and unlimited semiosis» tenuta a Bloomington all’Institute for

Advanced Studies dell’Indiana University il 19 luglio 1989, una versione della quale è stata pubblicata in The

Limits of Interpretation (Eco 1990:23-43).

xxiv

Non è stato Peirce ma Charles W. Morris il primo a parlare (1989:3) dell’interprete come del quarto

elemento della semiosi (che secondo Morris era una relazione tra «segno», «significazione» e

«interpretante»).

xxv
(vedi p.e. PW:81,1908). Questo tema è discusso anche nel cap. 10.

xxvi

xxvii

Questo è dimostrato anche dalle ripetute osservazioni di Peirce riguardo al «dolcetto per Cerbero»

Liszka (1981:47) afferma che «per Peirce, a differenza di Kant, la mente non è soprattutto sintetica, ma analitica (1.384), vale a dire la mente non costituisce l’esperienza, ma si limita ad analizzarla. La mente viene sintetizzata piuttosto che fungere da agente sintetizzante: ‘La sintesi reale avviene quando siamo portati, nostro malgrado, da un pensiero a un altro’ (1.384)».

Le arti marziali orientali, di cui il Buddismo-Zen e altri sistemi di meditazione sono parte integrante, si basano su idee simili. L’arte del tiro con l’arco, ad esempio, è tutta questione di «trovare il proprio centro cosmico». Cosa paradossale per la mentalità occidentale, non è l’arciere che tira la freccia: una volta che il «tao», o il momento di equilibrio interiore, è stato trovato, la freccia viene semplicemente tirata dall’arco.

102

Metaforicamente, lascia l’arco così come il frutto maturo cade dall’albero. Per coincidenza o no, Peirce ha usato la stessa immagine descrivendo «quell’interpretante ultimo . . . , definitivo e finale» come «il frutto maturo del pensiero», «che raggiunge lo scopo» (MS298:24,1906). E ha aggiunto: «Ma questo frutto perfetto del pensiero non può essere definito pensiero, poiché non ha significato e non appartiene affatto alla facoltà della cognizione; ma piuttosto al carattere» (MS298:24,1906). Detto in un’altra chiave artistica, la musica è nello strumento, e il musicista deve solo rendersi disponibile affinché venga fuori.

xxviii xxix xxx

Per uno studio particolarmente lucido, istruttivo e provocatorio in proposito, vedi Merrel 1991.
Vedi cap. 10.
La stessa idea, vista dal lato dell’uomo come interprete, è implicita nella citazione seguente: «In ogni

caso, un Segno [Pheme] tale dovrebbe avere una sorta di effetto compulsivo sul suo Interprete . . . [The Delome] è un Segno avente la forma che tende a fare uso dell’Interprete mediante il proprio autocontrollo, rappresentando un processo di cambiamento nei pensieri o nei segni, come per includere questo cambiamento nell’Interprete» (CP:4.538,1906). Si noti, tuttavia, il «come per» di Peirce nell’ultima frase, che, di nuovo, sembra limitare il ruolo attivo dell’interprete nella semiosi.

xxxi
metafore orticolturali di Peirce.

xxxii

In un articolo precedente (Gorlée 1987) mi sono occupata più specificamente del significato delle

Questa concezione del traduttore mostra un’incredibile somiglianza con le idee espresse da Walter Benjamin nel saggio su «Il compito del traduttore»: vedi cap. 7. Per una discussione completa e, se vogliamo, più “conservatrice” del ruolo del traduttore nel processo traduttivo vedi Wills 1988:41-59. Infine, Bellett (1978) pone la «traduzione come un modo personale» vis-à-vis con «il traduttore come nessuno in particolare»: «Entrambi sono espedienti, impersonificazioni, inganni euristici», sostiene lo scrittore (Bellett 1978:30), e «Il termine effettivo è fiducia e non fedeltà». Sebbene queste affermazioni sembrino molto peirciane, Bellett si riferisce qui alla (in)fedeltà del traduttore verso l’autore dell’originale, non alla relazione del traduttore
con il testo originale o al processo traduttivo – come avrebbe fatto Peirce.

103

Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments By Dinda L. Gorlée Emilia de candia

Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments

By Dinda L. Gorlée

 

Emilia de candia

 

 

Université Marc Bloch

Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

Dipartimento di Lingue – SCM

Istituto Superiore Interpreti Traduttori

Corso di Specializzazione in Traduzione

 

Primo supervisore: professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: professor Ludwig CONISTABILE

 

Master: Langages, Cultures et Sociétés

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence

Parcours: Traduction littéraire

estate 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Dinda L. Gorlée, 2007

 

© Emilia de Candia per l’edizione italiana, 2008

 

 

Abstract

 

This thesis consists of the partial translation into Italian of the essay Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments by Dinda L. Gorlée. This essay analyzes the fragments of Peirce’s papers that have been collected in the Collected Papers by some editors after the death of the American philosopher. A commentary on the translation and its contents is also included.

 

 

 

 Sommario

Abstract 3

1. Traduzione con testo a fronte. 6

Riferimenti bibliografici 107

2. Analisi traduttologica. 120

2.1 Dinda Gorlée studiosa di Peirce. 121

2.2 Broken Signs 121

2.3 Charles Sanders Peirce. 123

2.4 La traduzione saggistica. 124

2.5 Tradurre Peirce in italiano. 126

2.6 Musement e amusement 129

2.7 Le citazioni 131

2.8 Conclusione. 135

Riferimenti bibliografici 136

 


 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments

 

Dinda L. Gorlée

Mazes intricate. Eccentric, interwov’d, yet regular.

The most, when most irregular they seem.

(John Milton’s Description of the Mystical Angelic

Dance, see epigraph Peirce, CP: 4.585, 1908)

 

Pragmatism is the principle that every theoretical judgment

is a confused form of thought … (Peirce, CP: 5.18, 1903)

 

 

 

 

 

Segni incompiuti: la traduzione architettonica dei frammenti di Peirce

 

Dinda L. Gorlée

Labirinti intricati. Eccentrici, intrecciati, eppure regolari.

Di più, quanto più irregolari sembrano.

(John Milton, Description of the Mystical Angelic

Dance, si veda l’epigrafe in Peirce, CP: 4.585, 1908)

 

Il pragmatismo è il principio per cui ogni giudizio teorico è una forma confusa di pensiero… (Peirce, CP: 5.18, 1903)

 

 

 

 

Tricks and truth in Peirce’s labyrinths

The eight-volume volumes edition of Charles S. Peirce’s collage-like Collected Papers, other collections of Peirce’s works, and his unpublished entire manuscripts, are preserved for scholarship only in their radical fragmentariness. The broken fragments are conveyed in their collective gathering of all kinds of terms, phrases, statements, paragraphs, drafts, maxims, verses, letters and papers, all of them written in different places and at different times, and here interweaved and assembled under the ‘architectural’ roof of the publicized and editorial volumes (following Peirce’s building instructions are written in his first article in The Monist, called ‘The Architecture of Theories,’ CP: 6.7-6.34, 1891). Architectonics means ‘the process of ordering the elements of a work of art as to give them meaning only through the organism, in the companionship of the whole’ (Shipley 1972: 29). Is philosophical discourse a good design, but also an artistic genre?

According to Charles Hartshorne and Paul Weiss, the first editors of Peirce’s works, the original fragments tend to ‘represent all stages of incompleteness’ (1931: iv). Hartshorne and Weiss describe their theorical intent and practical purposes as follows:

 


Inganni e verità nei labirinti di Peirce

 

L’edizione in otto volumi dei Collected Papers di Charles S. Peirce, sotto forma di collage, le altre raccolte delle opere di Peirce e tutti i suoi manoscritti inediti sono disponibili al mondo accademico solo nella loro frammentazione estrema. La discontinuità dei frammenti è data dal fatto che si tratta di una raccolta realizzata a più mani di termini, frasi, asserzioni, paragrafi, bozze, massime, versi, lettere e studi, tutti scritti in posti diversi e in tempi diversi, e qui assemblati e riuniti sotto l’etichetta “architettonica” dei volumi editoriali (seguendo le istruzioni di Peirce riportate nel suo primo articolo in The Monist, intitolato The Architecture of Theories, CP: 6.7-6.34, 1891). «Architectonics» significa: «ordinare gli elementi di un opera d’arte per conferire loro un significato solo attraverso l’organismo, in sintonia con l’intero» (Shipley 1972: 29). Il discorso filosofico è un buon modello? Ma è anche un genere artistico? Secondo Charles Harsthorne e Paul Weiss, i primi curatori delle opere di Peirce, i frammenti originali tendono a «rappresentare tutti gli stadi di incompletezza» (1931: iv). Hartshorne e Weiss descrivono il loro intento teorico e i risultati pratici come segue:


Frequently there is no date or title, and many leaves are out of place or altogether missing. Some of them were written as many as a dozen times: it is often evident that Peirce himself was not able to select the final form. Some are clearly identifiable as earlier drafts of his published papers; others one may assume to have been such drafts, although they differ from the published papers so much as to make this a matter of doubt. Often these unpublished studies contain passages or longer portions, which impress those who have examined them as being of greater worth or clarity than those of the published articles. There are, likewise, a number of studies, often incomplete and of considerable length, and yet plainly unrelated to any which were printed. Sometimes they can be identified, through contemporary correspondance, as definite projects for publication which for one or another reason, never came into fruition. Often, however, there is no indication of such definite intent; he seems to have written merely from the impulse to formulate what was on his mind. (Hartshorne and Weiss 1931: iv)


Molto spesso non c’è né la data, né il titolo, e molti fogli sono fuori posto o del tutto mancanti: spesso è evidente che lo stesso Peirce non fu capace di scegliere la forma finale. Alcuni sono chiaramente identificabili come prime stesure dei suoi studi pubblicati; altri si può pensare fossero prime stesure, sebbene siano così diverse dagli studi pubblicati da far venire un dubbio. Spesso questi studi non pubblicati contengono passi o parti più lunghe, che impressionano coloro che li hanno esaminati perché di maggior valore o chiarezza rispetto a quelli presenti negli articoli pubblicati. Ci sono, inoltre, alcuni studi spesso incompleti e di considerevole lunghezza, e tuttavia chiaramente senza alcun rapporto con quelli stampati. A volte possono essere identificati, attraverso la corrispondenza contemporanea, come progetti definiti per la pubblicazione che per un motivo o per l’altro, non si sono realizzati. Spesso non c’è nessuna indicazione di tale intento definito; sembra che [Peirce] abbia scritto in preda unicamente all’impulso di formulare quello che aveva in testa. (Hartshorne and Weiss 1931: iv)


There seems to remain a hard core of history in Peirce’s edited work, both fragments and whole. Despite the ‘great variety of forms’ (CP: 1.iv, 1931), they refer back to a variety of his writings published in the Collected Papers (CP) (and other collections of the immense volume of Peirce’s writings) where, ‘[l]ecture series were broken apart and published in separate volumes, single papers were cut in two, and under a single title might appear excerpts from writings composed more than thirty years apart’ (Houser 1992: 1262). The fragmentary collection has virtues and vices, particularly since the jigsaw fragments falsely create ‘an impression of Peirce as a philosopher of threads and patches — and one who needs to be threaded and patched by outside hands’ (Gallie 1952: 43). The academic ‘tinkering’ of later generations of editors and translators of the collection, in the original English and transposed to many guises and languages, generates the desire and will to compose a genuine wholeness out of the fragments by publishing the materials, including footnotes with glossary references by the editors.

The raw material of Peirce’s writings has become a startling collection of separate documents, one that confounds through its size and magnitude all preconceived notions about the nature of scholarly inquiry. This ‘piecemeal pluralism’ (Rosenthal 1994: ix) has turned the whole of Peircean scholarship into a quixotic exploration with a heterogeneous and fragmentary nature. The ‘definitive critical edition, in chronological arrrangement, of a wide selection of Peirce’s writings’ (Houser 1992:1264) Nell’opera curata di Peirce, sia nei frammenti sia nel tutto, sembra rimanere il nocciolo duro della storia. Nonostante la «grande varietà di forme» (CP: 1.iv, 1931), questi rimandano a una varietà di suoi scritti pubblicati nei Collected Papers (CP) (e ad altre raccolte dell’immensa mole degli scritti di Peirce) in cui, «le serie di conferenze sono a parte e pubblicate in volumi separati, i singoli fogli sono tagliati in due parti, e sotto un unico titolo compaiono citazioni prese da scritti composti a più di trent’anni di distanza l’uno dall’altro» (Houser 1992: 1262). La raccolta frammentaria ha pregi e difetti, in particolare poiché i frammenti creano «la falsa immagine di Peirce filosofo “taglia e cuci” – che ha bisogno di essere tagliato e cucito da mani esterne» (Gallie 1952: 43). L’“armeggiare” accademico delle ultime generazioni di curatori e traduttori della raccolta, nella lingua originaria inglese e trasposta sotto molte sembianze e in varie lingue, ha fatto nascere il desiderio e la volontà di comporre un’integrità vera e propria usando i frammenti, pubblicando i materiali, comprese le note a piè pagina con riferimenti dei curatori al glossario. Il materiale non elaborato degli scritti di Peirce è diventato una raccolta sorprendente di documenti diversi che, per ampiezza e importanza, mette in crisi tutte le opinioni preconcette sulla natura della ricerca accademica. Questo «pluralismo frammentario» (Rosenthal 1994: ix) ha trasformato tutti gli studi accademici su Peirce in un’impresa titanica di natura frammentaria ed eterogenea. L’«edizione critica definitiva, disposta cronologicamente, di un’ampia selezione di scritti di

has now provided six volumes of the Writings (1982-2000, further volumes forthcoming). The volumes embrace Peirce’s juvenalia (1857-1890) and convey, in their fragments, the time-bound wholeness of his early vision. Peirce’s whole philosophy consists of a number of related theories, discussed in the publications of Peircean scholarship. The theories or pseudo-theories are intellectual or physical efforts, interrelated so as to generate a unity out of the assembled fragments. The mazes of Peirce’s web of methodologies are these: Among the most characteristic of Peirce’s theories are his pragmaticism (or ‘pragmaticism,’ as he later called it), a method of sorting out conceptual confusions by relating meaning to consequences; semiotics, his theory of information, representation, communication, and the growth of knowledge; objective idealism, his monistic thesis that matter is effete mind (with the corollary that mind is inexplicable in terms of mechanics); fallibilism, the thesis that no inquirer can ever claim with full assurance to have reached the truth, for new evidence or information may arise that will reverberate throughout one’s system of beliefs affecting even those most entrenched; tychism, the thesis that chance is really operative in the universe; synechism, the theory that continuity prevails and that the presumption of continuity is of enormous methodological importance for philosophy; and, finally, agapism, the thesis that love, or sympathy, has real influence in the world and, in fact, is ‘the great evolutionary agency of the universe.’ The last three doctrines are part of Peirce’s comprehensive evolutionary

Peirce» (Houser 1992: 1264) ha prodotto ora sei volumi dei Writings (1982-2000, altri volumi sono imminenti). I volumi comprendono gli scritti giovanili di Peirce e trasmettono, nella loro frammentarietà, la provvisoria integrità delle sue prime idee. L’intera filosofia di Peirce consta di varie teorie collegate, discusse nelle pubblicazioni dei ricercatori. Le teorie o pseudoteorie sono tentativi fisici o intellettuali interrelati così da creare un’unità attraverso i frammenti assemblati. I labirinti della rete di metodologie di Peirce sono i seguenti:

Tra le più importanti caratteristiche delle Teorie di Peirce ci sono il pragmatismo (o “pragmaticismo” come l’ha poi chiamato), un metodo per uscire dalla confusione mentale collegando il significato alle conseguenze; la semiotica, la sua teoria dell’informazione, rappresentazione, comunicazione, e aumento della conoscenza; l’idealismo oggettivo, la tesi monadica il cui argomento è la mente indebolita (con il corollario per cui la mente è inspiegabile in termini di meccanica); il fallibilismo, la tesi per cui nessun investigatore possa mai dichiarare con piena sicurezza di aver scoperto la verità, poiché possono presentarsi nuove evidenze o informazioni che risuoneranno attraverso il proprio sistema di credenze andando a intaccare anche le più arroccate; il tychism, la tesi secondo cui il caso è davvero operativo nell’universo; il sinecismo, la teoria per cui la continuità prevale e la presunzione di continuità è di un’importanza metodologica enorme per la filosofia; e infine, l’agapismo, la tesi secondo cui l’amore, o la simpatia, ha una reale influenza nel mondo e, infatti, è «la maggior causa evolutiva dell’universo». Le ultime tre dottrine fanno parte dell’esauriente cosmologia evoluzionaria di Peirce (Houser e Kloesel 1992: xxii, corsivo di Peirce).


cosmology. (Houser and Kloesel 1992: xxii, Peirce’s emphasis)

The inquiry into Peirce’s ‘great works, or individual mental products’ (MS 1135: 25, [1895]1896) must, technically, still be considered a structure of spatiotemporal wholism united in fragments, provided with all systems of clues, interpretations and meanings, including those linked to the fragmentary translations. The Peircean study is the use (and abuse) of bricolages and paraphrases, splitting apart the fragments and whole existing in the common experiment of reading and interpreting, in order to reveal to the readers (including the translators) how interconnected everything in so-called unity is. Peirce’s adage was that, ‘All that you can find in print of my work on logic are simply scattered outcroppings here and there of a rich vein which remains unpublished. Most of it I suppose has been written down; but no human being could ever put together the fragments. I could not myself do so’ (epigram CP: 2.xii, 1903). The lost and preserved fragments seem to stand well on their own and appear to provide a reliable, but still provisional, guide to Peirce’s thought and knowledge, which sporadically and episodically reflect the pragmatic effects of ‘some amazing mazes’ (title of CP: 4.585 and note, 1908) in the labyrinth of whole-part relations in his works (Gorlée 2004: 18f.).


L’indagine delle «grandi opere, o dei singoli prodotti mentali!» (MS 1135: 25, [1895]1896) di Peirce tecnicamente va ancora considerata una struttura di olismo spaziotemporale unita in frammenti, provvista di tutti i sistemi di indizi, interpretazioni e significati, compresi quelli legati alla frammentarietà dei testi tradotti. Lo studio peirciano è l’uso (e abuso) di bricolage e parafrasi che separano i frammenti e il tutto, nella pratica comune di leggere e interpretare, così da rivelare ai lettori (compresi i traduttori) come ogni cosa sia interconnessa nella cosiddetta unità. La massima di Peirce era:

Tutto ciò che si può trovare stampato del mio lavoro sulla logica sono semplicemente affioramenti sparsi qua e là di una vena ricca che resta inedita. Penso che perlopiù sia stata scritta; ma nessun essere umano potrebbe mai mettere insieme i frammenti. Non ci sono riuscito nemmeno io (epigramma CP: 2.xii, 1903 [mia traduzione]).

I frammenti persi e quelli preservati sembrano avere senso anche da soli e costituiscono un’affidabile, ma ancora provvisoria, guida al pensiero e alla conoscenza di Peirce, che sporadicamente ed episodicamente riflette gli effetti pragmatici di «alcuni labirinti sorprendenti» (titolo di CP: 4.585 e nota, 1908) nel labirinto delle relazioni tra il tutto e le parti presenti nelle sue opere (Gorlée 2004: 18f.).


By engaging readers in the hermeneutic activity of interpreting these hidden connections in Peirce’s World Wide Web, one finds that the ‘providence, foreknowledge, will, and fate’ of the discussions are characterized by ‘fixed date, free will, foreknowledge absolute … [which] found no end in wandering mazes lost’ (Milton’s Paradise Lost, Book 2, lines 558-561, quoted from Milton 1972: 103). Peirce wrote that by following ‘this labyrinthine path it is possible to attain evidence’ and such ‘evidence belongs to every necessary conclusion’ (quoted in Eysele 1979: 241). As Peirce’s first editors have showed, the original fragmentariness was a ‘tragedy which cannot be set right’ (CP: 1.v, 1931) by the hazarded guesses and choices made in the edited versions, where ‘[i]lluminating passages of great interest must be passed by because [they are] inextricably connected with other material the inclusion of which is not justified’ (CP: 1.v, 1931). The publishers clearly have perceived that ‘[o]n the other hand, because the doctrines they present are too important to be omitted, papers and fragments must often be included although one is sure that the author would not have printed them in their present condition,’ while ‘[o]ften there are alternative drafts of the same study, one distinctly superior in some portion or respect; the other, in some other portion or respect’ (CP: 1.v, 1931). In such editorial cases ‘a choice is necessary, although any choice is a matter of regret’ (CP: 1.v, 1931).


Coinvolgendo i lettori nell’attività ermeneutica di interpretare queste connessioni nascoste nel world wide web di Peirce, si può scoprire che «la provvidenza, la prescienza, la volontà e il fato» delle discussioni sono caratterizzate da «date fisse, libero arbitrio, prescienza assoluta [la quale] non ha fine interrogandosi sulla perdita dei labirinti» (Milton, Paradise Lost, Libro 2, versi 558-561, citazione da Milton 1972: 103). Peirce scrisse che seguendo «questo sentiero labirintico è possibile conseguire l’evidenza» e tale «evidenza fa parte di ogni conclusione necessaria» (citato in Eysele 1979: 241). Come hanno mostrato i primi curatori di Peirce, la frammentazione originaria era una «tragedia a cui non si può porre rimedio» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]) con le congetture azzardate e le scelte fatte nelle versioni curate, in cui «i passi illuminanti di grande interesse vanno ignorati perché [sono] inestricabilmente connessi con altri materiali la cui inclusione non è giustificata» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]). Gli editori si sono chiaramente resi conto che: «d’altro canto, poiché le dottrine che presentano sono troppo importanti per essere omesse, gli scritti e i frammenti spesso vanno inclusi sebbene si sia certi che l’autore nella loro presente condizione non li avrebbe dati alle stampe», «[s]pesso ci sono bozze alternative dello stesso studio, una distintamente superiore in alcuni parti o per alcuni aspetti» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]). In casi editoriali simili «è necessaria una scelta, sebbene ogni scelta sia un rimpianto» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]).


Perceiving Peirce’s published works as things fully grown is a misunderstanding or misconstruction. Peirce’s oeuvre is a construct of thought and writing that has changed, irretrievably over time and space. In my view, all of its processes were embraced in established alternatives which the editors have fallen back on, or denied or rejected, as the case may be. The intercourse with Peirce’s whole thinking is realized by the interconnectedness of the variety of fragments to fully interpret the soul and essence of Peirce’s framework during his active working life in Victorian times. The contents of the broken fragments can perhaps be unbroken in order to construct the whole text (or textuality) and provide, through its interconnectedness, source material for modern scholars, despite the isolationist trends in linguistics (Gorlée 2004: 17-98). Experimentation with new modes of interdisciplinary expression offers multiple paths in linking broken and unbroken segments into new varieties. The quantum physicist David Bohm stated that ‘[o]ne is led to a new notion of unbroken wholeness which denies the classical idea of analyzability of the world into separately and independent existing parts,’ adding that: We have reversed the usual classical notion that the independent ‘elementary parts’ of the world are the fundamental reality, and that the various systems are merely particular contingent forms and arrangements of these parts. Rather, we say that inseparable quantum interconnectedness of the whole universe is the fundamental reality, and that relatively independently behaving parts are merely particular and
Considerare le opere pubblicate di Peirce come qualcosa di compiuto è un fraintendimento o un equivoco. L’opera di Peirce è un costrutto di pensieri e scritti irrimediabilmente cambiato nel tempo e nello spazio. Dal mio punto di vista, tutti i processi insiti nell’opera contemplavano determinate alternative che i curatori a seconda dei casi hanno scartato, negato o rifiutato. La relazione con tutto il pensiero di Peirce è realizzata dall’interconnessione della varietà dei frammenti per interpretare pienamente l’anima e l’essenza della struttura di Peirce durante la sua vita lavorativa in epoca vittoriana. I contenuti dei frammenti discontinui forse possono essere resi più continui così da costruire il testo intero (o una testualità) e offrire, attraverso l’interconnessione, materiale originale per gli studiosi contemporanei, nonostante la tendenza all’isolamento che c’è nella linguistica (Gorlée 2004: 17-98).

La sperimentazione con nuove modalità di espressione interdisciplinare offre varie possibilità di correlare segmenti discontinui e continui in nuove varietà. Il fisico quantistico David Bohm affermò:

Si è condotti a una nuova concezione di totalità ininterrotta che nega l’idea classica della possibilità di analizzare il mondo in parti esistenti in maniera separate e indipendente […] Abbiamo rovesciato la consueta concezione classica secondo la quale le “parti elementari” indipendenti del mondo sono la realtà fondamentale e i vari sistemi sono solo forme e disposizioni particolari e contingenti di tali parti. Anzi, diciamo che la realtà fondamentale è l’inseparabile interconnessione quantistica di tutto l’universo e che le parti che hanno un comportamento relativamente indipendente sono solo forme particolari e contingenti dentro a questo tutto (Bohm 1975, citato in Capra 1989: 157).


contingent forms within this whole. (Bohm 1975 quoted in Capra 1976: 141-142). Peirce was aware of this interconnectedness. Following him, Robert Cummings Neville’s book The Truth of Broken Symbols stated, for example, that all religious symbols which convey to mankind ‘something’ about the elusive God should be recognized as broken symbols (2000: passim). Bread, wine, cross, fire, heaven, desert, storm, and other images are finite and flexible fragments referring to the boundaries of the infinite, and understood by humans if we combine faith and intellect (see Gorlée 2005a). Their reference and meaning are both practical (i.e., integrity of the religious community) and representational (i.e., praise to the divine) forms of religious interpreting, but the real limitations of the larger story — focused on Peirce’s general truth — remain for the moment unknown and untrue. The semio-logical, or better semiosis-directed, remedy which is suggested to evidence the web of interrelations is the use of Peirce’s elementary building blocks of the categories First, Second, and Third, embodied in varying forms, shapes, and effects. The linguistic and metalinguistic unities and arrangements based on the patterns of the categories are projected in the fragments with a view to constructing the whole verbal meaning. Peirce wrote that as ‘a bird trusts to its wings without understanding the principle of aerodynamics according to which it flies, and which show why its wings may be trusted, we might venture to say that there must be an intelligence behind that chance’ (MS 318: 25, 1907).
Peirce era consapevole di questa interconnessione. Il libro di Robert Cummings Neville, The Truth of Broken Symbols, si rifà a Peirce e afferma, per esempio, che tutti i simboli religiosi che comunicano al genere umano “qualcosa” riguardo a un Dio elusivo dovrebbero essere considerati simboli discontinui (2000: passim). Il pane, il vino, la croce, il fuoco, il paradiso, il deserto, la tempesta e altre immagini sono frammenti finiti e flessibili che si riferiscono ai limiti dell’infinito e sono compresi dall’uomo combinando la fede con l’intelletto (si veda Gorlée 2005a). Il loro riferimento e il loro significato sono pratici (ossia, integrità della comunità religiosa) e rappresentano la realtà (ossia, preghiera alla divinità), forme di interpretazione religiosa, ma le vere limitazioni della storia a livello più ampio – concentrate sulla verità generale di Peirce – per il momento rimangono sconosciute e false.

Il rimedio semio-logico, o meglio ancora semiosi-diretto che viene suggerito per dimostrare la rete di interrelazioni è l’applicazione dei componenti elementari delle categorie First, Second, Third, realizzate in varie forme, strutture e effetti. Le unità linguistiche e metalinguistiche e le disposizioni basate sui modelli delle categorie sono proiettate in frammenti allo scopo di costruire l’intero significato verbale. Peirce scrisse che come:

un uccello si affida alle sue ali senza capire il principio di aerodinamica secondo il quale può volare, e che illustra perché ci si possa affidare alle ali, possiamo azzardarci a dire che ci deve essere dell’intelligenza dietro a quel caso (MS 318: 25, 1907 [mia traduzione]).

In scientific study, without the function of Peirce’s categories, the elementariness of individual fragments would remain a suggestion and thereby converted in some unscientific and unsound items. Translation, the multilingual subject of this essay, remains a paradox of bizarre duality, since it is considered a ‘process of passage — the transferring of textual matter between different locations, different peoples, and therefore different languages’ (Montgomery 2000: 10). Translation, considered now as a triadic discipline, tends to give to Peirce’s speaking and reading community of interpreters in all countries numerous copies and variants in translated and retranslated forms, but the translational phenomenon still affords, at its basis, chances without pure security (defined in Gorlée 1994: 40ff. and discussed further in Gorlée 2004).

The contents of all fragments and the whole interconnected text adapt the mixture of all three categories in order to form an intimate as well as public meaning of the proposed whole. In a Peircean key, translation must include Firstness, Secondness and Thirdness, representing reference, meaning, and interpretation, and variants of Peirce’s icons, indices, and symbols. The connected consciousness of fragmentariness — with reference to Michail M. Baxtin’s ‘elementariness’ (under his ideological nom de guerre, Vološinov 1973: 110) — operates on all those tracks at the same time, first privately and subsequently with public extensions.


Nello studio scientifico, senza la funzione delle categorie di Peirce, l’elementarità dei singoli frammenti rimarrebbe un suggerimento e verrebbe perciò trasformata in dati non scientifici e poco attendibili. La traduzione, il soggetto multilingue di questo saggio, rimane un paradosso di dualità bizzarra, poiché è considerata un «processo di passaggio – il trasferimento di materiale testuale tra diversi luoghi, diverse persone, e quindi diverse lingue» (Montgomery 2000: 10). La traduzione, considerata ora una disciplina triadica, tende a dare alla comunità degli interpreti di Peirce di tutti i paesi in forma orale o scritta numerose copie e varianti in forme tradotte e ritradotte, ma il fenomeno traduttivo offre ancora, di fatto, possibilità senza una reale sicurezza (definito in Gorlée 1994: 40 e seguenti  e successivamente discusso in Gorlée 2004). I contenuti di tutti i frammenti e l’intero testo interconnesso adattano il miscuglio di tutte e tre le categorie così da formare un significato intimo e allo stesso tempo pubblico del tutto che viene proposto. In chiave peirciana, la traduzione deve comprendere Firstness, Secondness, Thirdness corrispondenti a riferimento, significato e interpretazione, e varianti delle icone, degli indici e dei simboli di Peirce. La consapevolezza della frammentarietà collegata a ciò – facendo riferimento all’«elementarità» di Mihail Bahtin (con il suo ideologico nom de guerre, Vološinov 1973: 110) – opera allo stesso tempo su tutte queste tracce, prima in privato e di conseguenza anche in pubblico.


The constant transitions are not exhausted in a single fragment but appear in consistency with distinctive features. As we shall see in this article, this process of multitracking focuses on details, on surfaces, on parts, and afterwards on discontinuous experiences and fleeting reactions.

In Peirce’s terminology, fragments-in-print are quasi-propositions, meaning that they are quasi-improvisatory Firsts or Seconds, arriving as a mediating set of rules (Third) in the unfragmented whole. The referential signs of vocabulary, phraseology, and textology (Scheffler 1967: 37f. and Gorlée 2004: 197f., discussed further in this article) are interpreted and translated into relevant and pertinent whole units as existing as entities in different languages (see Lohmann 1988 for extensive bibliography). In the inquiry we shall discover that mere vocabulary encompasses the image of words alone and gives no real communication. Real meaning would reach from groups-of-words building on sentences to construct an actual and meaningful message. Textology produces statements about (pseudo)standardized meaning, and no more. This (sub)division is crucial for the translation of verbal messages of all kinds and exists in various kinds in all languages. Semio-translation (announced in Gorlée 1994: 226-232, further developed in Gorlée 2003, 2004a) is a Peirce-oriented use of the interpretation applied particularly to translation. In his last book, Surrogates (2002), Paul Weiss stated that his general term — ‘surrogates’ — could stand for the interpreted and translated fragments:


Le transizioni costanti non si esauriscono in un singolo frammento ma appaiono in armonia con i tratti distintivi. Come possiamo vedere in questo articolo, il processo di multitracking si focalizza su dettagli, superfici, parti e successivamente su esperienze discontinue e reazioni momentanee. Secondo la terminologia di Peirce, i frammenti in-stampa sono quasi-proposizioni, ossia sono First o Second quasi-improvvisati, che arrivano come serie di norme di mediazione (Third) nel tutto non frammentato. I segni referenziali del vocabolario, la fraseologia e la testologia (Scheffler 1967: 37 e seguenti, e Gorlée 2004: 197 e seguenti, successivamente discussi in questo articolo) sono interpretati e tradotti in unità rilevanti e pertinenti in quanto esistenti in qualità di entità in diverse lingue (per una bibliografia più ampia vedi Lohmann 1988 ). Nella ricerca scopriremo che il mero vocabolario racchiude l’immagine delle sole parole e non produce un’effettiva comunicazione. Il significato effettivo si ottiene creando frasi con gruppi di parole per attualizzare un messaggio significativo. La testologia produce affermazioni riguardo al significato (pseudo)standardizzato, e nient’altro. Questa (sub)divisione è cruciale per la traduzione di messaggi verbali di ogni genere ed esiste sotto varie forme in tutte le lingue. La semio-traduzione (definita in Gorlée 1994: 226-232, successivamente sviluppata in Gorlée 2003, 2004a) è un uso basato sul pensiero di Peirce dell’interpretazione applicata in particolare alla traduzione. Nel suo ultimo libro, Surrogates (2002), Paul Weiss afferma che il suo termine generale – «surrogati» – potrebbe valere per i
Readers of difficult texts try to find surrogates in other expressions that preserve the meaning of the original. Translators go further, trying to retain all the virtues of the original in the languages they know so well, but which have nuances that the original does not have’ (Weiss 2002: 32).

 

The logical implications of semiosis are a confrontational paradigm for sign translation from one language to another, and sign translation exemplifies in its turn the dynamic activity of semiosis, or sign action. The sign includes the object (its idea potentiality) and must be interpretable or translatable to be intelligible or meaningful: it is represented by a developed sign, its growing interpretant. The original and translated semiotic sign itself is ‘something which stands for something in some respect or capacity’ (CP: 2.228, c.1897). Peirce added that it ‘addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign’ (CP: 2.228, c.1897), thereby providing a ‘mechanical’ activity to the ‘reasoning machines’ of translation and interpreting as qualities of semiosis. In the three-fold interpretive relation to its object (which is ficticious or real), translational semiosis would include signifying, dynamic and identifying the fragmentary signs, integrating all characters, media, and codes as available, including linguistic and extralinguistic ones.


frammenti interpretati e tradotti:

I lettori di testi difficili cercano di trovare surrogati in altre espressioni che preservino il significato dell’originale. I traduttori vanno più lontano, cercando di mantenere tutte le virtù dell’originale nelle lingue che conoscono bene, ma che hanno sfumature che l’originale non ha (Weiss 2002: 32).

Le implicazioni logiche della semiosi sono un paradigma di confronto per la traduzione segnica da una lingua a un’altra, e la traduzione segnica esemplifica, a sua volta, l’attività dinamica di semiosi, o azione segnica. Il segno comprende l’oggetto (la sua potenzialità ideale) e per essere intelligibile o significativo deve essere interpretabile o traducibile: è rappresentato da un segno sviluppato, il suo interpretante sviluppato. Il segno semiotico originale e tradotto è «qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità» (CP: 2.228, circa 1897 [mia traduzione]). Peirce aggiunse che «si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato» (CP: 2.228, circa 1897 [mia traduzione]), procurando quindi un’attività “meccanica” alle “macchine che ragionano” della traduzione e dell’interpretazione in quanto qualità della semiosi. Nella relazione interpretativa triadica con l’oggetto (che è fittizio o reale), la semiosi traduttiva implica significare, dinamizzare e identificare i segni frammentari, integrare tutti i caratteri, i media e i codici disponibili,

The three translational dimensions are based on the categories and generate a complex terminology. Its categorial branches (qualisign-sinsign-legisign, immediate-dynamical-general object, immediate-dynamical-final interpretants) and its logical dimensions (abduction-induction-deduction, icon-index-symbol, rheme-proposition-argument, instinct-experience-form and many other terms) yield an evolutionary triadic model, giving in the process of semiosis an endless and infinite series of interpretants – that is, a potential succession of interactive signs produced by signs and translating signs that ‘gives rise to more bewilderment and misunderstanding’ (Gallie 1952: 126). In practical (and translational) life, the infinite growth of interpretants is inevitably cut short, as ‘unecomic’ waste, and reduced to one final statement according to a single ‘direction, point, and purpose’ (Gallie 1952: 126-127). This single focus seems puzzled with worries and uncertainties.

Using in the available semio-translations the isolated and collective meaning(s) of isolated fragments, groups of words, and entire documents, now replaced into the specific sense(s) of new target languages, the translations create a variety of suggestive or interrogative, indicative and imperative modalities of pragmatic mediation. Translational mediation is, in principle, a regulative principle, but the final truth remains a questionable affair for the translators, the original authors, and the whole future readership.


compresi quelli linguistici e quelli extralinguistici.

Le tre dimensioni traduttive si basano sulle categorie e generano una terminologia complessa. Le sue diramazioni categoriali (qualisegno-sinsegno-legisegno, oggetto immediato-dinamico-generale, interpretanti immediato-dinamico-finale) e le sue dimensioni logiche (abduzione-induzione-deduzione, icona-indice-simbolo, rema-asserzione-argomento, istinto-esperienza-forma e molti altri termini) producono un modello triadico evolutivo, producendo serie infinite di interpretanti nel processo di semiosi: ossia una successione potenziale di segni interattivi prodotti da segni e da segni traducenti che «dà adito a ulteriore confusione e fraintendimento» (Gallie 1952: 126). Nella vita pratica (e traduttiva), lo sviluppo infinito degli interpretanti è inevitabilmente troncato in quanto spreco “antieconomico”, e ridotto a una dichiarazione finale in armonia con “direzione, punto e scopo” singoli (Gallie 1952: 126-127). Sembra che questa singolarità sia accompagnata da preoccupazioni e incertezze.

Usando nelle semio-traduzioni disponibili i significati collettivi e isolati dei frammenti isolati, di gruppi di parole, e di documenti interi, ora sostituiti dal senso specifico attualizzato nelle nuove lingue, le traduzioni creano una varietà di modalità di mediazione pragmatica suggestive o interrogative, indicative o imperative. La mediazione traduttiva è, in teoria, un principio regolativo, ma la verità finale rimane una questione discutibile per i traduttori, gli autori dell’originale, e tutti i futuri lettori.
The personalized, doubting and questioning acts of mediation to translation mean that the translators use the three-fold ways of the private translational processuality to achieve their public translational event. The translators interlingually and intersemiotically exchange source words, paraphrases, and definitions, and (re)question their status in terms of truth, consistency, or evidential warrant against the target language and culture. Peirce stated that the act of translation would be:

… a method for ascertaining the real meaning of any concept, doctrine, proposition, word or other sign. The object of a sign is one thing; its meaning is another. Its object is the thing or occasion, however indefinite, to which it is to be applied. Its meaning is the idea which it attaches to that object, whether by way of mere supposition, or as a commend, or as an assertion. (CP: 5.6, c.1905). This semiotic method is the object of this article. The method is applied in the practical examples, where various translations of (ir)regular fragments written in Peirce’s later years, around the year 1900, are discussed to construct the pragmatically and metaphorically expressed wholeness of Peirce’s work on the categories. Isolated fragments such as the ones about ‘lithium’ and (to a certain degree) Peirce’s term ‘musement,’ replicated fragments such as the ‘decapitated frog’ paragraphs, and the versions of the ‘pragmatic maxims,’ all of them remain fallibly and fallaciously translated into fields of scripture composed in various languages.

Gli atti di mediazione alla traduzione, che possono essere personalizzati, porre dubbi o domande, significano che i traduttori usano la triadicità della processualità traduttiva privata per ottenere il loro risultato traduttivo pubblico. I traduttori a livello interlinguistico e intersemiotico scambiano parole, parafrasi, e definizioni, e (ri)mettono in discussione il loro status in termini di verità, coerenza, o evidenza confrontandosi con la lingua e la cultura ricevente. Peirce affermò che l’atto traduttivo sarebbe:

[…] un metodo per accertare il vero significato di qualsiasi concetto, dottrina, proposizione, parola o altro segno. L’oggetto di un segno è una cosa; il suo significato è un’altra. L’oggetto è la cosa o occasione, per quanto indefinita, alla quale esso viene applicato. Il significato è l’idea che attribuisce a quell’oggetto, o per mera supposizione, o come commento o come affermazione (CP: 5.6, circa 1905 [mia traduzione]).

L’oggetto del presente articolo è questo metodo semiotico. Il metodo semiotico viene applicato in esempi pratici, in cui vengono discusse svariate traduzioni di frammenti (ir)regolari scritti da Peirce negli ultimi anni, intorno al 1900, per costruire l’interezza pragmatica e metaforica dell’opera di Peirce sulle categorie. I singoli frammenti quali «lithium» e (in una certa misura) il termine di Peirce «musement», frammenti ripetuti come i paragrafi sulla «decapitated frog», e le versioni delle «massime pragmatiche», tutti questi rimangono tradotti fallibilmente e fallacemente in campi di scrittura composti in diverse lingue.


Fragments and whole

In verbal messages, the whole is fragmentized, but without the possibility of some fragments there is no whole (Koch 1989). As Roman Jakobson argued, a whole conveys a ‘multistory hierarchy of wholes and parts’ without an ‘autonomous differential tool’ (1963: 158). In his article ‘Parts and Wholes in Language,’ Jakobson confronted the vague status of frontiers somewhere between unity and disunity, adding that: ‘From a realistic viewpoint, language cannot be interpreted as a whole, isolated and hermetically sealed, but it must be simultaneously viewed both as a whole and as a part’ (Jakobson 1963: 159). According to him, the ‘artificial separation’ between the structure of a fragment and its whole is a misconstruction, since both parties have the same ‘morphological constituents’ as well as ‘informationally pointless fragments’ (Jakobson: 1963: 160). Both do basically the same things, but they do not cohere and no semiosis takes place. The level of the whole varies greatly, yet the verbalized events possess the same positive and negative particularities: unity and disunity, closure and disclosure, and finite and infinite contrasts possess a factual similarity. Signum and signans are crystallized together in the original text-sign. A fragment is a brief reaction, which can be prolonged in reference to a change in context and code (or subcode) (Jakobson 1963: 161). In Jakobson’s view, design and token, larger and smaller, and invariant and variant are overlapping multiplications written in verbal code.

I frammenti e il tutto

Nei messaggi verbali, il tutto viene frammentato, ma senza la possibilità di certi frammenti non c’è il tutto (Koch 1989). Come dimostrato da Roman Jakobson, un’unità veicola una «gerarchia a vari livelli di unità e parti» senza uno «strumento differenziale autonomo» (1963: 158). Nell’articolo «Parts and Wholes in Language», Jakobson ha confrontato lo status vago dei confini a mezza strada tra unità e disunità, aggiungendo che: «Da un punto di vista realistico, il linguaggio non può essere interpretato come un tutto, isolato ed ermeticamente sigillato, ma vanno visti allo stesso tempo tutto e parte» (Jakobson 1963: 159). Secondo Jakobson, la «separazione artificiale» tra la struttura di un frammento e il tutto è un equivoco, poiché le due parti hanno gli stessi «costituenti morfologici» così come «frammenti inutili a livello informativo» (Jakobson: 1963: 160). Fondamentalmente fanno le stesse cose, ma non sono coerenti e non ha luogo nessuna semiosi. Il livello del tutto varia molto, tuttavia gli eventi verbalizzati hanno le stesse particolarità negative e positive: unità e disunità, chiusura e apertura, e contrasti finiti e infiniti hanno una somiglianza fattuale. Signum e signans sono cristallizzati insieme nel testo-segno originale. Un frammento è una breve reazione, che può essere prolungata con riferimento a un cambiamento nel contesto e nel codice (o sottocodice) (Jakobson 1963: 161). Secondo il punto di vista di Jakobson, progetto e occorrenza, grande e piccolo, e invariante e variante sono moltiplicazioni sovrapposte scritte in codice verbale.

Jakobson stated that a ‘rich scale of tensions between wholes and parts is involved in the constitution of language, where pars pro toto and, on the other hand, totum pro parte, genus pro specie, and species pro individuo are the fundamental devices’ (Jakobson 1963: 162, his emphasis). These meaningful figures take place in the acquisition of language: Jakobson’s knowledge of the laws of phonology, grammar, child language, and aphasic disorder (Jakobson 1971, 1980 and other publications), where ‘structuration, restructuration, and destructuration of language’ (Jakobson and Waugh 1979: 237) are the key points (see Pharies 1985: 77-81). Yet the figure-ground distinctions of encoding and decoding seem to transpire in different ways in the ‘recoding, code switching, briefly the various faces of translation’ (Jakobson 1961: 250), happening from one verbal code into the next one. The process of translation has thereby moved away from a single-language learning process to become a code-switching meta-activity with a special (and specialized) developing strategy of general and specific mindsets. This fallible (and never infallible) being-and-becoming process adheres to rules as well as creations of translators (Gorlée 2004: 198 ff.). A verbal sign written in any language, an original and translated general sign, ‘denotes any form of expression assigned to translate an ‘idea’ or a ‘thing’ … as a stock of ‘labels’ to be attached to preexisting objects, as a pure and simple nomenclature’ (Greimas and Courtès 1982: 297).


Jakobson affermò che una «ricca scala di tensioni tra tutto e parti è insita nella costituzione della lingua, i meccanismi fondamentali sono pars pro toto e, dall’altro lato, totum pro parte, genus pro specie, e species pro individuo » (Jakobson 1963: 162, suo corsivo). Tali figure significative si verificano durante l’acquisizione della lingua: la conoscenza da parte di Jakobson delle leggi di fonologia, grammatica, linguaggio infantile, e disturbo afasico (Jakobson 1971, 1980 e altre pubblicazioni), in cui i punti chiave sono «strutturazione, ristrutturazione, e destrutturazione della lingua» (Jakobson e Waugh 1979: 237) (si veda Pharies 1985: 77-81). Tuttavia le distinzioni figura-sfondo tra codifica e decodifica sembrano trasparire in modo diverso nella «ricodifica, nel code switching, insomma nei vari aspetti della traduzione» (Jakobson 1961: 250), che avvengono da un codice verbale all’altro. Il processo traduttivo è perciò passato dal processo di apprendimento di una sola lingua a una meta-attività di code switching con una strategia speciale (e specializzata) che sviluppa le attitudini mentali generali e specifiche. Tale processo in essere e in divenire è fallibile (e mai infallibile), e aderisce alle regole così come le creazioni dei traduttori (Gorlée 2004: 198 e seguenti).

Un segno verbale scritto in qualsiasi lingua, un segno generale originale e tradotto, «denota qualsiasi forma di espressione destinata a tradurre un’“idea” o una “cosa” […] come uno stock di “etichette” da assegnare a oggetti preesistenti, in qualità di nomenclatura pura e semplice» (Greimas e Courtès 1982: 297).

Saussure’s dyadic rules, with their opposition between perfect vs. imperfect signs, was basically followed by Jakobson (Jakobson and Waugh 1979: 233-237) and further developed by Henri Quéré’s (1988) discussion of the inside and outside of the fragment. Quéré points, by metaphors, to patterns of categorical meaning of fragmentariness in the ‘puzzle,’ the ‘iceberg,’ and the ‘syncope’ (1988: 54). The oppositional duality, the emblem of semiology (also called: structuralism) has moved away to enter the different, triadic realm of Peirce’s semiosis, where the semiotic sign, its object and the interpretant are dynamically interfaced and resurfaced in the tripartite concept of fragmentariness with its variety of reference(s), meaning(s), and interpretation(s). Jakobson’s dual oppositions of signum and signans are united with perfect and imperfect signs in the company of intermediate values between perfection and imperfection. Peirce’s semiosis adds to the structuralist double values of signum and signans in the company of Jakobson’s ‘signatum, that is, with the intelligible, translatable, semantic part of the total signum’ (1963: 157, Jakobson’s emphasis). In the triadic process of semiosis, we deal with fragmentary and whole ‘signs produced by signs and producing signs, with no absolute starting point and no absolute stopping point’ (Ransdell 1980: 165). Semiosis seems to start from a ‘stopping-place [which] is also a new starting-place for thought’ (CP: 5.397 = W: 3: 263, 1878).


Le regole diadiche di Saussure, con l’opposizione segno perfetto versus segno imperfetto, erano fondamentalmente state seguite dalla discussione di Jakobson (Jakobson e Waugh 1979: 233-237), e ulteriormente sviluppate dal discorso di Henri Quéré sull’interno e sull’esterno del frammento. Quéré si riferisce metaforicamente a modelli del significato categoriale della frammentarietà in «puzzle», «iceberg», e «syncope» (1988: 54). La dualità in opposizione, emblema della semiologia (anche chiamato: strutturalismo) si è spostata per entrare nel regno triadico della semiosi di Peirce, in cui il segno semiotico, il suo oggetto e l’interpretante sono interfacciati dinamicamente nel concetto tripartito di frammentarietà con le sue varietà di riferimento(i), significato(i), e interpretazione(i). Le opposizioni diadiche di Jakobson tra signum e signans sono unite da segni perfetti e imperfetti insieme a significati intermedi tra perfezione e imperfezione. La semiosi di Peirce aggiunge ai valori doppi signum e signans dello strutturalismo il signatum di Jakobson, “che è la parte semantica intelligibile e traducibile del signum nella sua interezza” (1963: 157, corsivo di Jakobson). Nel processo triadico della semiosi, trattiamo la frammentarietà e il tutto, «segni prodotti da segni e che producono segni, con nessun punto di partenza in assoluto e nessun punto di arrivo» (Ransdell 1980: 165). Sembra che la semiosi inizi da un «punto di arrivo, [che] è anche un nuovo punto di partenza per il pensiero» (CP: 5.397 = W: 3: 263, 1878).


Peirce denoted the translational processuality, steadily generating new thought, in the figurative phrases of a proverb: ‘The life we lead is a life of signs. Sign under Sign endlessly’ (MS 1334: 46, 1905).

This Heraclitean rapprochement broadens the ‘ordinary’ concept of translation, in order to encompass Jakobson’s intralingual, interlingual and intersemiotic types of translation (1959). Intralingual translation or ‘rewording is an interpretation of verbal signs by means of signs of the same language,’ and interlingual translation or ‘translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language,’ whereas intersemiotic translation or ‘transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal systems’ (Jakobson 1959: 233, his emphasis). Intralingual translation is monadic because of its single-language equivalence; interlingual translation is dyadic, since it involves two-language-orientation. Interlingual translation is some kind of warfare, struggle or at least a rivalry between Saussurean language and parole, signifying a (re)encounter between textual and verbal reality. Intersemiotic translation is sequentially triadic (or more complex systems), since it involves the union (or unification) of intermedial translations into an embedded translation. The three kinds of translation were still rather narrowly defined by Jakobson, who appears unconcerned with the reverse operation, the translation of nonlinguistic into linguistic signs (Gorlée 1994: 147-168, see Gorlée 2005a: 33ff.).

Peirce descrisse la processualità traduttiva, che genera costantemente un nuovo pensiero, con la figuratività di un proverbio: «La vita che conduciamo è una vita fatta di segni. Segno sotto Segno all’infinito» (MS 1334: 46, 1905 [mia traduzione]). Questo rapprochement eracliteo amplia il concetto “ordinario” di traduzione, così da racchiudere i tipi di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica di Jakobson (1959). La traduzione intralinguistica o «riformulazione è un’interpretazione di segni verbali attraverso i segni di una stessa lingua», e la traduzione interlinguistica o «traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali attraverso qualche altra lingua», mentre la traduzione intersemiotica o «trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali attraverso segni di sistemi non verbali» (Jakobson 1959: 233 corsivo suo). La traduzione intralinguistica è monadica per l’equivalenza con la sua stessa lingua; la traduzione interlinguistica è diadica dal momento che riguarda l’orientamento tra due lingue. La traduzione interlinguistica è una sorta di guerra, lotta o almeno una sorta di rivalità tra langue e parole di Saussure, vale a dire un (re)incontro tra realtà testuale e verbale. La traduzione intersemiotica è sequenzialmente triadica, dal momento che implica l’unione (o unificazione) di traduzioni intermedie in una traduzione subordinata. I tre tipi di traduzione sono ancora definiti da Jakobson in modo limitato, poiché sembra indifferente all’operazione inversa, la traduzione del nonverbale in segni verbali (Gorlée 1994: 147-168, si veda Gorlée 2005a: 33 e seguenti).

Translators busy themselves with essential Thirdness, in the company of factual Secondness and fictive Firstness. These categories are enshrined in terms suitable for use by interlingual and intercultural translators and interpreters according to their knowledge expertise, skill, and know-how – being equivalent terms for Thirdness, Secondness, and Firstness. Jakobson’s types of translation can be focused pairwise to the triad of Peirce’s categoriology (Gorlée [forthcoming]), though they are not identical with the categories and may vary with the communicational instantiations and the varieties of textual network.

Jakobson treated poetic devices like metaphor, alliteration, and archaism, associated with literary language (Werlich 1976). At the same time, he referred to Saussurian and at times Peircean terms and terminology (Liszka 1981 and Short 1998). Together, these different ways clear the path from the collection of fragments to the genuine whole. Jakobson pointed to the imaginative images involved in both divisions: ‘It is necessary to see the forest and not just the trees, and in the given case to see the whole network of distinctive features and their simultaneous and sequential interconnections and not just an apparent mosaic of unrelated acquisitions’ (Jakobson and Waugh 1979: 166).


I traduttori hanno a che fare con l’essenziale Thirdness, insieme alla fattuale Secondness e alla fittizia Firstness. Queste categorie sono conservate in termini idonei all’uso di traduttori e interpreti interlinguistici e interculturali in base alle loro conoscenze, competenze e al loro knowhow, equivalenti a Thirdness, Secondness, e Firstness. I tipi di traduzione di Jakobson possono essere associati alla triade di Peirce (Gorlée [in corso di pubblicazione]), sebbene non siano identici alle categorie e possano variare con le varietà della rete testuale e le specificità comunicative.

Jakobson trattò gli artifici poetici, quali metafore, allitterazioni e arcaismi, associati con il linguaggio letterario (Werlich 1976). Allo stesso tempo, fece ricorso ai termini e alla terminologia saussuriani e a volte peirciani (Liszka 1981 e Short 1998). Insieme, questi approcci diversi spianano la strada dalla raccolta dei frammenti al tutto vero e proprio. Jakobson parlò delle immagini fantasiose implicite in entrambi gli approcci: «è necessario vedere la foresta e non solo gli alberi, e nel caso specifico vedere l’intera rete di tratti distintivi e le loro interconnessioni simultanee e sequenziali e non solo un apparente mosaico di acquisizioni non collegate» (Jakobson e Waugh 1979: 166).


Abstracted from Jakobson’s metaphorical application of linguistics to literary discourse, Peirce stated in his general and philosophical essay ‘Some Amazing Mazes, Fourth Category’ (MS 200, publicized in fragments CP: 6.318-6.348, c.1909, CP: 4.647-4.681, c.1909) that, from a logical point of view, both forest and trees seem to belong to

 

… one universe … as for example between the cells of a living body and the whole body, and often times between the different singulars of a plural and the plural itself. … Speaking collectively, the one logical universe, to which all the correlates of an existential relationship belong, is ultimately composed of units, or subjects, none of which is in any sense separable into parts that are members of the same in the universe’ (CP: 6.318, c.1909, with Peirce’s emphasis).

Therefore, the fragments and the whole seem to build together the metaphorical and literal ecosystem of the labyrinthine universe with its factual similarity of and difference between the three interactive poles sign, object, and interpretant. These energies are destined to lead through a mazed path along multiform tracks to clear the way for future study (or just lecture) of signs and their multiple functions (see CP: 7.189ff., 1901, where Peirce avoids using semiotic terminology, so as not to be misunderstood by his audience).

Peirce, lungi dall’applicazione metaforica jakobsoniana della linguistica al discorso letterario, enunciò nel suo saggio filosofico e generale «Some Amazing Mazes, Fourth Category» (MS 200, pubblicato in frammenti CP: 6.318-6.348, circa 1909, CP: 4.647-4.681, circa 1909) che, da un punto di vista logico, sia la foresta, sia gli alberi sembrano appartenere a:

[…] un universo […] come per esempio tra le cellule di un corpo vivente e tutto il corpo, e spesso tra i diversi singolari di un plurale e il plurale stesso […] parlando a livello collettivo, l’unico universo logico, a cui appartengono tutti i termini di correlazione di una relazione esistenziale, è alla fine composta da unità, o soggetti, nessuno dei quali è in alcun senso separabile in parti che sono membri dello stesso universo (CP: 6.318, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]).

 

Dunque, sembra che i frammenti e il tutto formino l’ecosistema metaforico e letterale dell’universo labirintico con la sua somiglianza fattuale tra i i tre poli interattivi: segno, oggetto e interpretante, e la loro differenza. Queste energie sono destinate a condurre attraverso un percorso labirintico lungo sentieri multiformi per spianare la strada a futuri studi (o solo lezioni) dei segni e delle loro funzioni multiple (si veda CP: 7.189 e seguenti, 1901, in cui Peirce evita di usare la terminologia semiotica, in modo da non essere frainteso dal pubblico).

The intertwined triangles along the course figuratively (re)present together the enterprises of fragments and the larger whole through the relational conjunction of the distinctive values (or features) of the sign(s), its object(s) and its interpretant(s). The triangular dynamic organisation, integrating Jakobson’s dyadism, enters into the recursive processes of Peirce’s infinite semiosis. Semiosis (both ordinary semiosis and translational semiosis) is repeated at more or less regular intervals and in the process growing stronger in sign interpretation and sign translation. The fragments of Peirce’s writings are no random bits of symbol-fragments, since all words are symbolically related to their objects, but are retraceable signs taken from Peirce’s manuscripts in continuous time and space, rooted in the turning points of his scientific topology. The history of Peirce’s manuscripts characterize fragments as ‘imparting form to the welded whole’ (CP: 6.330 = MS 200: 36, c.1909). Fragments are ‘instantaneous impulses’ (CP: 6.330 = MS 200: 36, c.1909) and form integrated elements of the still unfirm yet unbreakable connection with the supposed whole. The fragments ‘balance the probabilities’ defined as providing access to ‘plausibility and verisimilitude’ (CP: 8.224-225, c.1910), whereas the aggregate of all fragments would tend to reach the ultimate object, the truth. Fragments in themselves would ‘in philosophy and practical wisdom’ invite within their fuzzy outlines a degree of ‘vagueness and confusion’ (CTN: 2: 161, 1898; see 1: 168-169, 1892),


I triangoli intrecciati lungo il percorso a livello figurativo rap(presentano) insieme lo spirito dei frammenti e il tutto attraverso la congiunzione relazionale dei valori (o tratti) distintivi del segno(i), del suo oggetto(i) e del suo interpretante(i). L’organizzazione dinamica triangolare, che integra il diadismo di Jakobson, entra nei processi ricorsivi dell’infinita semiosi peirciana. La semiosi (sia quella ordinaria sia quella traduttiva) viene ripetuta a intervalli più o meno regolari e così facendo si rafforza nell’interpretazione e nella traduzione del segno.

I frammenti degli scritti di Peirce non sono parti casuali di frammenti-simbolo, poiché tutte le parole sono simbolicamente correlate ai loro oggetti, ma sono segni riconducibili ai manoscritti di Peirce, in un tempo e in uno spazio continui, radicati nei punti focali della sua topologia scientifica. La storia dei manoscritti di Peirce descrive i frammenti come «conferenti forma al tutto saldato» (CP: 6.330 = MS 200: 36, circa 1909 ). I frammenti sono «impulsi istantanei» (CP: 6.330 = MS 200: 36, circa 1909 ) e costituiscono elementi integrati della connessione ancora instabile e tuttavia indistruttibile con il presunto tutto. I frammenti «bilanciano le probabilità» che sono definite come ciò che dà accesso a «plausibilità e verosimiglianza» (CP: 8.224-225, circa 1910), laddove l’insieme di tutti i frammenti tenderebbe a raggiungere l’oggetto ultimo: la verità. I frammenti in sé indurrebbero nei loro profili indefiniti, «nella filosofia e nella saggezza pratica» un grado di «vaghezza e confusione» (CTN: 2: 161, 1898; si veda 1: 168-169, 1892),

yet their transformation to fragmentary continuity grows into the continuous wholeness. Peirce’s manuscripts and other miscellaneous documents are still emerging from known and unknown sources; fragments and the whole are broken and unbroken at the same time. Significant portions of the whole have now been edited for publication, since the editors and scholars tend to struggle with ambiguous fragments in order to compose the full writings. The whole of Peirce’s writings is today a true but still vague repository of ideas. Both fragment and whole opened up the possibility of (im)perfectibility, the ability to innovate and react to them in novel ways in new situations, Peirce’s habituality, as we clearly see in the old and new translations of Peirce’s writings.

Fragments and wholeness are broken signs; they are distinguished but not divided (CNT: 1: 168, 1892). If we retrace the archeology of the sign, we discover the original sense of the vocable. As can be ascertained from the Oxford English Dictionary (OED), ‘fragment’ was adopted from the Latin fragmentum by way of the sixteenth Century French fragment, meaning ‘a part broken off or otherwise detached from a whole,’ figuratively used to refer to a ‘detached, isolated, or incomplete part’ as an ‘extant portion of a writing or composition which as a whole is lost’ (OED 1989: 6: 137).


tuttavia la loro trasformazione in una continuità frammentaria cresce fino a diventare un tutto continuo. I manoscritti di Peirce e altri documenti miscellanei stanno ancora emergendo da fonti conosciute e sconosciute; i frammenti e il tutto sono continui e discontinui allo stesso tempo. Per pubblicare alcune parti significative del tutto, sono state prima modificate, poiché per comporre gli scritti completi i curatori e gli studiosi hanno la tendenza a eliminare le ambiguità dei frammenti. L’insieme degli scritti di Peirce è una vera e propria miniera di idee, tuttavia ancora vaghe. Sia i frammenti, sia il tutto aprono un varco alla possibilità della (im)perfettibilità, alla capacità di innovarli e reagirvi in nuovi modi e in nuove situazioni come possiamo vedere chiaramente nelle nuove e vecchie traduzioni delle opere di Peirce.

I frammenti e il tutto sono segni discontinui; sono distinti ma non divisi (CNT: 1: 168, 1892). Se ripercorressimo la storia del segno, scopriremmo il senso originario del vocabolo. Come si può constatare dall’Oxford English Dictionary (OED), «fragment» deriva dal latino fragmentum; nel Cinquecento fragment, significava «una parte staccata dal tutto»; a livello figurativo la si usava per riferirsi a «una parte distaccata, isolata, o incompleta» come una «porzione ancora esistente di un testo o di una composizione il cui tutto è andato perso» (OED 1989: 6: 137).


A whole is ‘free from damage or defect’ and ‘unbroken, untainted, intact’ (OED 1989: 20: 291). A fragment refers to a disconnected and negligible fraction, especially as something broken off the wholeness. The broken off fragment belongs to an equally incomplete or destroyed whole. There is no real perfection and imperfection, nor unity and disunity, since both fragments and wholeness are pregnant with absurdity and (self)contradiction: which is what? Peirce wrote to a friend, the psychologist William James, about the emergence of his work in pragmatics: ‘… I seem to myself to be the sole depository at present of the completely developed system, which all hangs together and cannot receive any proper presentation in fragments’ (CP: 8.255, 1902). The virtual study of fragments (and no more than that) is perfected in Peircean scholarship by the application of readily intelligible and controllable mechanisms of (re)versing the steps of their semiosic process, through the process of Peirce’s three-dimensional categories. By this token of the complex fabric woven of ‘Feeling, Reaction, Thought’ (CP: 8.256, 1902), Peirce ‘secretly’ continued the categorical inquiry of the archeological fragments in order to achieve his own architectual wholeness.


Il tutto è «privo di danni o difetti» e «intero, puro e intatto» (OED 1989: 20: 291). Un frammento si riferisce a una frazione staccata e irrilevante, in particolare a qualcosa di distaccato dal tutto. Il frammento appartiene a un tutto altrettanto incompleto o distrutto. Non c’è una vera perfezione o imperfezione, o un’unità o disunità, poiché sia i frammenti, sia il tutto sono pieni di assurdità e si contraddicono da soli: chi è cosa? Peirce scrisse a un amico, lo psicologo William James, a proposito dell’emergere della pragmatica nella sua opera: «Al momento mi sembra di essere l’unico depositario del sistema completamente sviluppato, che sta tutto insieme e non può avere alcuna presentazione propria nei frammenti» (CP: 8.255, 1902). Lo studio virtuale dei frammenti (e non più di questo) viene perfezionato dagli studiosi di Peirce con l’applicazione di meccanismi prontamente intelligibili e controllabili per rovesciare i passaggi del loro processo semiotico, attraverso il processo delle categorie tridimensionali di Peirce. Attraverso questo segno con una struttura complicata intessuta di «Impressione, Reazione, Pensiero» (CP: 8.256, 1902), Peirce “segretamente” continuò l’indagine categorica dei frammenti archeologici così da ottenere il proprio tutto architettonico.


The concept of the fluid ‘fragments,’ demonstrated by Peirce’s writings, himself the interdisciplinary laboratory scholar avant la lettre, lie in his endeavour to reach the widest pragmaticism within various branches. He focuses on them according to his categorial scheme: firstly, mathematics; secondly, philosophy, with the three branches of categories, normative science (aesthetics, ethics) and metaphysics; and thirdly, special sciences (fields of inquiry such as linguistics, history, archeology, optics, crystallography, chemistry, biology, botany, and astronomy) as well as other, non-scientific pursuits or folk wisdom, in which we possess maxims such as: the whole is greater that the parts and the whole is simpler than its parts. The study of the fragment follows Peirce’s order: originally it is a mathematical concept, where ‘the contemplation of a fragment of a system to the envisagement of the complete system’ (CP: 4.5, 1898) and ‘one of the number of fragmentary manuscripts [is] designed to follow the present articles’ (CP: 4.553, n.2, c.1906) belonging to the whole. As opposed to Peirce’s frequent use of ‘part’ in the literal and non-technical sense (see list in CTN: 4: 129), fragment is a mathematical ‘remaining’ fraction (CP: 8.86, c.1891) of an unknown whole. It is used literally and figuratively in Peirce’s theory of pragmaticism, and applied to ‘all areas of man’s thought except in the formulation of conjecture and in the processes of logical analysis’ (Eisele 1979: 237ff.).


Il concetto di «frammenti» fluidi, dimostrato dagli scritti di Peirce – essendo Peirce stesso uno studioso da laboratorio interdisciplinare ante litteram, sta nel suo sforzo di conseguire il pragmatismo più ampio possibile nelle varie branche del sapere. Si focalizza su queste secondo il suo schema categoriale: primo, matematica; secondo, filosofia, con le tre branche di categorie, scienze normative (estetica, etica) e metafisica; e terzo, le scienze speciali (settori di ricerca come la linguistica, la storia, l’archeologia, l’ottica, la cristallografia, la chimica, la biologia, la botanica e l’astronomia) così come altre suddivisioni ascentifiche e di saggezza popolare in cui abbiamo massime quali: il tutto è più grande delle parti e il tutto è più semplice delle parti. Lo studio del frammento segue l’ordine di Peirce: originariamente è un concetto matematico, in cui «la contemplazione del frammento di un sistema fino alla previsione del sistema completo» (CP: 4.5, 1898) e «uno dei manoscritti frammentari [è] pensato per seguire i presenti articoli» (CP: 4.553, n.2, c.1906) che appartengono al tutto. Diversamente dall’uso frequente di Peirce di «parte» in senso letterale e non tecnico (si veda l’elenco in CTN: 4: 129), il frammento è un frazione matematica «rimanente» di un tutto sconosciuto. Viene usato letteralmente e figurativamente nella teoria del pragmatismo di Peirce, e applicato a «tutte le aree del pensiero umano, tranne che alla formulazione di congetture e nei processi di analisi logica» (Eisele 1979: 237 e seguenti).


Fragmentariness is applied by Peirce, a mathematician turned generalized research scientist, in order to face the hidden and invented analogue of God’s mind: ‘a fragment of His Thought, as it were the arbitrary figment’ (CP: 6.502-6.503, c.1906). Abstracted from fragments within theology, we found fragments in science, biology, psychology, logic, and cosmology (CP: 8.86, c.1891; CP: 6.283, c.1893; CP: 3.527, 1897; CP: 7.503, c.1898; CP: 8.117, n.12, 1902). Fragments are characterized as mere ‘sundries, as a forgotten trifle’ (CP: 6.6, 1892). Peirce refers to the fluid intuition of fragments, their general but vague quality of Firstness, and their ‘superficial and fragmentary’ sign (CP: 1.119, c.1896), which tends to give ‘possible information, that might take away the astonishing and fragmentary character of the experience by rounding it out’ (CP: 8.270, 1902). Peirce, the logician, thought it necessary to add that ‘we want later to get a real explanation’ (CP: 8.270). Firstness has a weak sign-quality of a ‘rudimentary fragment of experience as a simple feeling’ (CP: 1.322, c.1903), definitely away from the struggle of real life governed by logical rules. An example is given by the attempt

.. to give an account of a dream, [where] every accurate person must have felt that it was a hopeless undertaking to attempt to disentangle waking interpretations and fillings out from the fragmentary images of the dream itself … Besides, even when we wake up, we do not find that the dream differed from reality, except by certain marks, darkness and fragmentariness’ (CP: 5.216-5.217, 1868, Peirce’s emphasis).

La frammentarietà viene applicata da Peirce, matematico diventato scienziato ricercatore su scala generale, così da far fronte all’analogo inventato e nascosto della mente di Dio: «un frammento del Suo Pensiero, come se fosse finzione arbitraria» (CP: 6.502-6.503, c.1906). Senza considerare i frammenti presenti in teologia, ne troviamo in scienza, biologia, psicologia, logica e cosmologia (CP: 8.86, circa 1891; CP: 6.283, circa 1893; CP: 3.527, 1897; CP: 7.503, circa 1898; CP: 8.117, nota 12, 1902). I frammenti sono definiti come semplici «generi diversi, come un’inezia dimenticata» (CP: 6.6, 1892). Peirce si riferisce alla fluida intuizione dei frammenti, alla loro qualità generale ma vaga di Firstness, e al loro segno «superficiale e frammentario» (CP: 1.119, circa 1896), che è diretto a dare un’«informazione possibile, che può togliere il carattere frammentario e sorprendente dell’esperienza arricchendola» (CP: 8.270, 1902). Peirce, il logico, ritenne necessario aggiungere che «vogliamo dare più tardi una vera spiegazione» (CP: 8.270). La Firstness ha un inconsistente segno-qualità di un «rudimentale frammento dell’esperienza come semplice impressione» (CP: 1.322, c.1903), staccata in maniera definitiva dalla lotta per la vita vera retta da regole logiche. Un esempio è dato dal tentativo:

[…] cercando di raccontare un sogno, ogni persona attenta deve avere spesso avvertito il tentativo di districare le interpretazioni e le integrazioni fatte da svegli dalle immagini frammentarie del sogno stesso. […] D’altronde anche quando ci svegliamo, troviamo che il sogno differiva dalla realtà solo per certe marche: oscurità e frammentarietà (CP: 5.216-5.217, 1868, corsivo di Peirce).

Fragmentariness, expressive and meaningful iconicity, is the first sign of Peirce’s ‘musement.’ ‘Musement’ requires ‘an ungrudging study of the conditions of a healthy exploration’ (PW: 65, 1908) to gain access to sign-directed inquiry through its beginning Firstness. Unbroken Firstness is strengthened by broken Secondness; from single and undivided feeling the sign takes on ‘Reaction as the be-all’ (CP: 8.256, 1902). The textual sign in our daily reality triggers the balance between action and reaction, and its meaning becomes rooted in our time and space fragments ‘composed of units, or subjects, none of which is in any sense separable into parts’ (CP: 6.318, c.1909), although ‘this continuous Time and Space merely serve to weld together while imparting form to the welded whole’ (MS 200: 36, c.1909). Secondness is the temporal-spatial topology of indexicality, stated by Peirce in fragments: ‘If the sign be an Index, we may think of it as a fragment torn away from the Object, the two in their Existence being one whole or a part of that whole’ (CP: 2.230, 1910). In the index, fragments and whole are separate but still integrated together. The whole is ‘broken up and thrown away’ (CP: 6.325, c.1909) in indexical fragments, but ‘it is an easy art to learn to break up such problems up into manageable fragments’ (CP: 4.369, 1911). Indexical fragments are a ‘serviceable’ (CP: 6.325, c.1909) and ‘manageable’ (CP: 4.369, 1911) strategy to build up a categorical theory (or pseudo-theory) in order to describe different versions of the indexicality (see CP: 2.358, 1901). This echoes the opportunity to reach logical Thirdness.

La frammentarietà – l’iconicità espressiva e significativa – è il primo segno del musement di Peirce. Il musement richiede «un generoso studio delle condizioni di una sana esplorazione» (PW: 65, 1908) per ottenere l’accesso all’indagine imperniata sul segno attraverso la Firstness iniziale. La Firstness continua è rafforzata dalla Secondness discontinua; da feeling singolo e non diviso il segno assume la «reazione da tutto» (CP: 8.256, 1902). Il segno testuale nella realtà quotidiana provoca l’equilibrio tra azione e reazione, e il suo significato si radica nei nostri frammenti spaziotemporali «composti di unità, o soggetti, nessuno dei quali è in nessun senso divisibile in parti» (CP: 6.318, circa 1909), sebbene «questo Tempo e Spazio continuo serva meramente a unire insieme e non a dare una forma al tutto unito» (MS 200: 36, circa 1909). La Secondness è la topologia dell’indicalità spazio-temporale, enunciata da Peirce nei frammenti: «Se il segno è un indice, possiamo pensarlo come un frammento staccato dall’Oggetto, Oggetto e Indice essendo rispettivamente un intero o una parte di tale intero» (CP: 2.230, 1910). Nell’indice, i frammenti e il tutto sono separati ma tuttavia integrati tra loro. Il tutto è «spezzettato e buttato via» (CP: 6.325, circa 1909) nei frammenti indicali, ma «è un’arte facile imparare a spezzare tali problemi in frammenti gestibili» (CP: 4.369, 1911). I frammenti indicali sono una strategia «utile» e «gestibile» per costruire una teoria (o pseudoteoria) categoriale così da descrivere versioni differenti dell’indicalità (si veda CP: 2.358, 1901). Questo fa da eco alla possibilità di arrivare alla Thirdness logica. Semiotically, this virtual division can be illustrated by the indexical example of the single footprint in the sand that was to the Romantic fictional hero Robinson Crusoe a strange intermingling of signs from all three categories. In Peirce’s words, in his The Monist article (1906), the impression of the foot was ‘an Index to him that some creature was on his island, and at the same time, as a Symbol, called up the idea of a man. Each Icon partakes of some more or less overt character of its Object’ (CP: 4.531, 1906). The shocking discovery of the ‘print of a man’s naked foot on the shore’ was for Robinson Crusoe, marooned on the desert island, a ‘thunderous’ sign (Defoe [1719]1995: 117-118). It clearly (and unclearly) represented for the shipwrecked sailor, his own human fragmentariness and its referral to the whole of mankind. Crusoe, Daniel Delfoe’s adventurer, described his circumstances thus:

… I fancied it must be the devil, and reason joined in with me upon this suppositions; for how should any other thing in human shape come into the place? Where was the vessel that brought them? What marks was there of any other footsteps? And how was it possible a man should come there? But then to think of Satan should take human shape upon him in such a place, where there could me no manner of occasion for it, but to leave the print of his foot behind him, and that even for no purpose too, for he could not be sure I could see it; this was an amusement the other way. (Defoe [1719]1995: 118)

A livello semiotico, questa divisione virtuale può essere illustrata dall’esempio indicale di un’unica impronta sulla sabbia che, per Robinson Crusoe immaginario personaggio romantico, era uno strano miscuglio di segni di tutte e tre le categorie. Secondo le parole di Peirce, nell’articolo del The Monist (1906), l’impronta del piede era «per lui un Indice che c’era una creatura sull’isola, e nello stesso tempo, in quanto Simbolo, richiamava l’idea di un uomo. Ogni Icona partecipa di un qualche carattere più o meno manifesto del suo Oggetto» (CP: 4.531, 1906). La scoperta scioccante dell’«impronta di un piede umano nudo sulla battigia» fu per Robinson Crusoe, abbandonato sull’ isola deserta, un segno «minaccioso» (Defoe [1719]1995: 117-118). Questo segno rappresenta chiaramente (e non chiaramente) per il marinaio naufragato, la sua frammentarietà umana e il suo riferimento all’umanità tutta. Crusoe, l’avventuriero di Daniel Defoe, descrive così le sue condizioni:

[…] A volte ero indotto a pensare che quella fosse l’orma del demonio, e la ragione sembrava confortare una siffatta ipotesi: com’era possibile, infatti, che un essere umano fosse giunto in un luogo simile? Dov’era la nave che lo aveva portato sin lì? E come mai c’era quell’unica impronta? D’altra parte l’eventualità che Satana assumesse forma umana in un luogo simile, dove non aveva altra possibilità se non quella, appunto, di lasciare la propria orma impressa sulla sabbia (e anche questa senza uno scopo apprezzabile, perché non poteva essere certo ch’io la vedessi) appariva per un altro verso incongrua e ridicola (Defoe [1719]1976: 165) .


The contents of both the fragments ‘torn away from’ (CP: 2.230, 1910) the whole text (referring to the outside pictorial and linguistic world) includes the meaning of all categories. Shapewise, the sign was an iconic impression of some isolated human foot, symbolizing in its nature the hidden feelings of the voyageur sur la terre about the possible and real opportunity to attain human friendship through divine intervention. The fictional protagonist of the first-person novel, Robinson Crusoe, sees the isolated sign in its stream-of-consciousness structure of time and place, bringing his present being into the future. This strange Robinsonade, ‘borrowed’ from the preserved and revered marks left by feet of saints and holy men (see Psalms 89: 50-51 and Ezek. 43: 7) was, in the vision of Defoe’s Crusoe, an existential trace suggesting, embodying and interpreting the sign with oppressive, even devious, significations to trick his readers into believing his fictions as truth.

Peirce wrote that the shape of Firsts were just iconic ‘pictures or diagrams or other images … used to explain the signification of words’ while their aspect of symptoms (Second) will signify ‘the denotations of subject-thought’ (CP: 6.338 = MS 200: 43, c. 1909), here personified in the feelings and attitudes of the novel’s protagonist.the denotations of subject-thought’ (CP: 6.338, c.1909), here personified in the feelings and attitudes of the novel’s protagonist.


 

I contenuti di entrambi i frammenti «staccati da» (CP: 2.230, 1910) il testo intero (che si riferiscono al mondo linguistico e pittorico esterno) comprendono il significato di tutte le categorie. Dal punto di vista della forma, il segno era un’impressione iconica di un piede umano isolato, che nella sua natura simboleggiava i sentimenti nascosti del voyageur sur la terre riguardo alla reale possibilità di ottenere l’amicizia umana attraverso l’intervento divino. Il protagonista immaginario del romanzo in prima persona, Robinson Crusoe, vede il segno isolato nel suo flusso di coscienza spazio-temporale, proiettando il suo essere presente nel futuro. Questa strana Robinsonade, “presa in prestito” dalle impronte conservate e venerate lasciate dai piedi dei santi (si veda Psalms 89: 50-51 e Ezek. 43: 7) era, nella visione del Crusoe di Defoe, una traccia esistenziale che suggeriva, incarnava e interpretava il segno con significati oppressivi e persino devianti, per ingannare i lettori facendo passare la finzione per realtà.

Peirce scrisse che la forma dei Firsts era solo iconici «dipinti o diagrammi o altre immagini […] usate per spiegare il significato delle parole» mentre il loro aspetto di sintomi (Seconds) significherà «le denotazioni del soggetto-pensiero» (CP: 6.338 = MS 200: 43, c. 1909), qui personificate nelle sensazioni e negli atteggiamenti del protagonista del romanzo.


The first-person narrative of The Life and Adventures of Robinson Defoe; Written By Himself is composed into forms and shapes of dialogic interaction, channeling together the inner and outer speech in the mixture of the major indices of the sign, coming from the voices of the real author, Defoe, and his alter ego, the fictional Robinson Crusoe. The footprint was possibly (First) and actually (Second) left by some other, a supposedly ‘savage’ man later baptized with the day of the human encounter, Friday (Third). The other, unknown sign is to be perceived and interpreted by the voice of the known, ‘intellectual’ Robinson Crusoe. In the picaresque art of applied semiotics, the Firstness of Peirce’s musement has thereby overflowed into a narrative form of amusement of otherness, as we read Robinson Crusoe’s eye-witness account. To show the dynamic interaction of Peirce’s triadic truism, namely amusement (which is not the opposite of musement), as mentioned in his miscellaneous manuscripts (MS 1521-1539, n.d., Robin 1967: 161-162) and illustrated in Robinson Crusoe’s ‘autobiography,’ would be the effect of a semiotic art, game, or science, both private and public, and include the intermingling intermediate diversions. In Peirce’s view, amusement is an ‘occupation calling the mind into activity for the sake of excitement,’ adding that ‘[i]t is not necessarily light or hilarious; and though it is pleasurable, that is not the essence of it. Its true motive is the impulse to live actively’ (MS 1135: 118, [1895]1896).


Il narratore in prima persona di The Life and Adventures of Robinson Crusoe; Written By Himself è composto in forme e strutture di interazione dialogica, canalizzando insieme il discorso interiore ed esteriore nella mescolanza dei maggiori indici del segno, risultanti dalle voci dell’autore reale, Defoe, e dal suo alter ego, l’immaginario Robinson Crusoe. L’impronta probabilmente (First) e realmente (Second) è stata lasciata da qualcun altro, un presunto uomo “selvaggio” in seguito battezzato con il nome del giorno in cui ha incontrato Robinson, Venerdì (Third). L’altro segno sconosciuto viene percepito e interpretato dalla voce del conosciuto, “intellettuale” Robinson Crusoe. Nell’arte picaresca della semiotica applicata, la Firstness del musement di Peirce è perciò sfociata in una forma narrativa di amusement della altruità, mentre leggiamo di ciò che vedono gli occhi testimoni di Robinson Crusoe. Mostrare l’interazione dinamica del truismo triadico di Peirce, vale a dire l’amusement (che non è l’opposto del musement), come menzionato nei suoi manoscritti miscellanei (MS 1521-1539, non datati, Robin 1967: 161-162) e illustrato nell’“autobiografia” di Robinson Crusoe sarebbe l’effetto di un’arte, un gioco, o una scienza semiotica, allo stesso tempo privata e pubblica, e comprende le diversioni intermedie che si intrecciano tra loro. Nella visione di Peirce, l’amusement è «un’occupazione che attiva la mente per raggiungere l’eccitazione» aggiungendo che «non è necessariamente divertente e ilare; e nonostante sia piacevole, non è l’essenza del piacere. La sua vera ragione è l’impulso a vivere attivamente» (MS 1135: 118, [1895]1896).

Further, social amusement is a pastime or hobby ‘to which the stimulus is the desire to accomplish for the execution of ‘these amusements of other people, but merely as playthings’ (MS 1135: 103, [1895]1896). In Peirce’s lists of amusement (MS 1135: 99-121 [1895]1896), amusement is basically a Second — card games, picnics, coin-collecting, catching butterflies, letter writing — flowing back into First — amateur cookery, horticulture, embroidery, swimming — and overflowing into Third — diplomacy, chess as well as other games of calculations, mathematical problems, and logical games such as word scrambles, crosswords, puzzles and existential graphics (Peirce’s examples). Robinson Crusoe’s bizarre amusements on his desert island illustrated the ‘Adventures With Personal Danger,’ ‘Contests Between a Man and a Brute’ approximating the ‘Pursuit of Strange Experiences’ (MS 1135: 102, 104, [1895]1896). The central tension which the story of Crusoe clarifies is that between ‘intellectual’ and ‘savage’ ways of thought, wherein lies a secret code fashionable in Defoe’s (and Peirce’s) days, with a hidden message. Defoe tries to square the circle by both recording events in both ways of thinking and shaping them to intellectually determine the readership’s responses then and today. The novelistic struggle between different pictures is ultimately inconclusive, as of course semiosis has to be.


Inoltre, l’amusement sociale è un passatempo o hobby «il cui stimolo è il desiderio portare a compimento» questi amusement di altra gente, ma come meri giocattoli» (MS 1135: 103, [1895] 1896). Nella lista di amusement di Peirce (MS 1135: 99-121 [1895]1896), l’amusement fondamentalmente è un Second – giochi di carte, picnic, collezione di monete, caccia alle farfalle, stesura di lettere – che rifluisce nel First – cucina amatoriale, orticultura, ricamo, nuoto – che straripa nel Third – diplomazia, scacchi così come altri giochi di calcolo, problemi matematici, e giochi di logica come anagrammi, parole crociate, puzzle e grafici esistenziali (esempi di Peirce). Gli strani amusement di Robinson Crusoe sull’isola deserta illustravano le «Avventure Con Pericolo Personale», «Contenuto tra un Uomo e un Bruto» che si accosta alla «Ricerca di Strane Esperienze» (MS 1135: 102, 104, [1895] 1896). La tensione centrale che la storia di Crusoe chiarifica è che tra i modi di pensare «intellettuale» e «selvaggio» si trova un elegante codice segreto ai giorni di Defoe (e Peirce), con un messaggio nascosto. Defoe cerca di far quadrare il cerchio sia registrando secondo entrambe le modalità di pensiero, sia dando loro forma per determinare intellettualmente le risposte dei lettori di allora e di oggi. Lo scontro romanzesco tra immagini diverse in definitiva non si conclude mai, come certo deve succedere anche alla semiosi.


 Bricolage, paraphrase, manuscript

 

The contents of both fragments and the whole include the dynamic dialectic of the interactive categories. The ‘wild romance’ (Chesterton 1985: 79) of First, Seconds, and Thirds transforms the textual units of sentence, paragraph, and section (Werlich 1976: 192ff.) into Peirce’s intertextual categories (Almeida 1979), utilizing the fragmentary and fluid tools of bricolage, paraphrase, and manuscript. The few luxurious comforts of Robinson Crusoe enable him to survive by transformation on his island, accomodating seen for unseen and old for new:

Every kitchen tool becomes ideal because Crusoe might have dropped it in the sea. It is a good exercise, in empty or ugly hours of the day, to look at anything. The coal-scuttle or the book-case, and think how happy one could have brought it out of the sinking ship on to the solitary island. But it is as better exercise still to remember how all things have had this hair-breath escape: everything has been saved from a wreck. … Men spoke in my boyhood of restricted or ruined men of genius: and it was common to say that many a man was a Great Might-Have-Been. To me it is a more solid and startling fact that any man in the street is a Great Might-Not-Have-Been. (Chesterton 1985: 79)


Bricolage, parafrasi, manoscritto

I contenuti sia dei frammenti sia del tutto comprendono la dialettica dinamica delle categorie interrative. Il «wild romance» (Chesterton 1985: 79) di First, Second, e Third trasforma le unità testuali di frase, paragrafo e sezione (Werlich 1976: 192 e seguenti) nelle categorie intertestuali di Peirce (Almeida 1979), usando gli strumenti frammentari e incompleti del bricolage, della parafrasi, e del manoscritto. I pochi comfort di lusso di Robinson Crusoe gli permettono di sopravvivere sulla sua isola mediante trasformazione, adattandosi tra visto e non visto, tra vecchio e nuovo:

Ogni utensile da cucina diviene ideale perché Crusoe avrebbe potuto lasciarlo cadere nel mare. È un buon esercizio nelle ore vuote o cattive del giorno stare a guardare qualche cosa, il secchio del carbone o la cassetta dei libri, e pensare quante sarebbe stata la felicità di averli salvati e portati fuori dal vascello sommerso sull’isolotto solitario. Ma un miglior esercizio ancora è quello di rammentare come tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio. […] Sentivo parlare, quand’ero ragazzo, di uomini di genio rientrati o mancati sentivo spesso ripetere che più d’uno era un grande «Avrebbe-potuto-essere». Per me, un fatto più solido e sensazionale è che il primo che passa è un grande «Non-avrebbe-potuto-essere» (Chesterton 1955: 89).


The model of Peirce’s laboratory experiment and the tools and materials utilized in the survival-machine of the progressive technique of the words, sentences, and text (Gorlée 2000) are in accord with the lesson on the cumulative and complex acts of translation, which ‘may be broken down into a doing interpretive of the ab quo text and a doing of the ad quem text’ (Greimas and Courtès 1982: 352, their emphasis). This two-way interfacing of adaption and adjustment of verbal units leads from perception of the three-way known item to possible knowledge of the unknown item. Translated into Peirce’s three-way continuity cum discontinuity, translation is basically a creative manipulation of different levels of language: Secondness and Firstnesss in dynamic accord with its essential Thirdness. These stages of concern are also implicit in the virtual ‘laboratory’of the translator who is provided with a suitably qualified, workmanlike (or workwomanlike) mind, one who can be no idealistic know-it-all of the fragments, but whose duties is to create from the known textual units a unknown but knowable ones ‘living’ in a different verbal code.

Fragmentariness, Peirce’s quality of Firstness, is what Claude Lévi-Strauss famously called bricolage in French. In La pensée sauvage (1966: 16-36, trans. from 1962), Lévi-Strauss indicated a first fragment belonging to a whole, crystallized in a situation of bricolage, the material sign derived from the Old French bricole, meaning ‘trifle.’

Il modello dell’esperimento da laboratorio di Peirce e gli strumenti e i materiali usati nella macchina della sopravvivenza della tecnica progressiva di parole, frasi, e testo (Gorlée 2000) sono in accordo con la lezione sugli atti di traduzione cumulativi e complessi, che «possono essere frammentati in un fare interpretativo del testo ab quo e un fare del testo ad quem» (Greimas e Courtès 1982: 352, corsivo degli autori). Questo interfacciarsi biunivoco di adattamento e aggiustamento delle unità verbali porta dalla percezione dell’oggetto triadico noto alla conoscenza possibile dell’oggetto sconosciuto. Tradotta nel triadico continuità cum discontinuità di Peirce, la traduzione è fondamentalmente una manipolazione creativa di livelli diversi del linguaggio: Secondness e Firstness in accordo dinamico con l’essenziale Thirdness. Questi gradi di interesse sono anche impliciti nel “laboratorio” virtuale del traduttore che è fornito di una mente artigianale adeguatamente qualificata, che può non essere la conoscenza idealistica di tutti i frammenti, ma il cui compito è creare dalle unità testuali conosciute altre unità sconosciute ma conoscibili “viventi” in un codice verbale diverso.

La frammentarietà, la qualità di Firstness di Peirce, è ciò che Claude Lévi-Strauss chiamava in francese, come è noto, bricolage. Nel Pensiero selvaggio (1968: 16-36), Lévi-Strauss indicava un primo frammento che apparteneva al tutto, cristallizzato in una situazione di bricolage, il segno materiale derivato dal francese antico bricole, che significava «inezia».

A bricolage gives a false assumption without real seriousness, trivial guesswork hazarded in some haste to construct with the combination of the old word-signs something new and exciting for the new receivers. Lévi-Strauss changed the quality of the original signs and their function to accommodate it to the function of the new word-sign. Peirce had anticipated the bricolage situation in his ‘forgotten trifle’ (CP: 6.6, 1892) where he took up a ‘rudimentary fragment of experience as a simple feeling’ (CP: 1.322, c.1903). Thereby he illustrated an First example of ‘weak’ type of logic. The handyman or makeshift tinkerer (Fr. bricoleur) makes use of his (her) ‘savage thought’ – also called by Lévi-Strauss the product of ‘“prior” rather than “primitive” … speculation’ (1966: 16). The new and changed construction is made or put together with whatever happens to be at hand, available and/or left over. Bricolage shows the free activities of the amateur and professional artisan, both engaged in a manual craft, a technical trade, or a cultural handicraft, and maybe integrating some imaginative aspects of engineers and artists. Jean-Paul Dumont revealed that

 

Anyone who has ever turned an empty Chianti bottle into a lamp, ‘liberated’ milk-crates to transform them into book-shelf supports, or ruined a table knife in trying to loosen the screws of a door-knob can appreciate the quintessence of ‘bricolage.’ …

Un bricolage dà una presupposizione falsa senza una reale serietà, una congettura banale azzardata in fretta per costruire grazie alla combinazione di vecchie parole-segno qualcosa di nuovo ed eccitante per i nuovi destinatari. Lévi-Strauss cambiò la qualità dei segni originali e la loro funzione per adattarla alla funzione del nuova parola-segno. Peirce aveva anticipato la situazione bricolage nella sua «inezia dimenticata» (CP: 6.6, 1892) in cui prese in considerazione un «frammento rudimentale dell’esperienza come semplice percezione» (CP: 1.322, c.1903). Perciò illustrò un primo esempio di tipo di logica “debole”. Il tuttofare o l’improvvisato aggiustatutto (francese bricoleur) fa uso del suo «pensiero selvaggio» detto anche da Lévi-Strauss prodotto della «speculazione» a priori più che «primitiva» (1968: 16). La costruzione modificata e nuova è fatta o messa insieme con qualsiasi cosa sia a portata di mano, disponibile e/o rimasta. Il bricolage mostra le attività libere dell’artigiano amatore o professionale, entrambi impegnati in un lavoro manuale, un mestiere tecnico, o un artigianato culturale, e che forse integrano alcuni aspetti immaginativi degli ingegneri e degli artisti. Jean-Paul Dumont rivelava che:

Nessuno che non abbia mai fatto diventare un bottiglia vuota di Chianti una lampada, una cesta del latte “liberata” una libreria, o rovinato un coltello da tavolo cercando di allentare le viti del pomo di una porta, può apprezzare la quintessenza del bricolage […].


No need of fancy projects: jotting, at lunch, a phone number on a paper napkin or using, on one’s desk, a yogurt pot as a pencil holder are already akin to bricolage. In fact, knowingly or not, by taste or perforce, with more or less success, willy-nilly, we are all ‘bricoleurs’ and thus all of us participate in savage thought … (Dumont 1985: 29-30)

 

The domesticated ‘science of the concrete’ (Lévi-Strauss 1966: 16) can grow into a complex mechanism in its scope responding to the tasks of a gardener, an interior decorator, a storyteller, a sculptor, or chef, disengaging from their actual function to fabricate something new and unexpected cultural sign, creative and new but still ‘pregnant with historical contingencies’ (Dumont 1985: 31) (see Peirce’s incomplete sketch in MS 1135: 144, [1895]1896, itself a bricolage). Some intellectual or scientific examples are also possible (a trained engineer and a judge), in order to interface Peirce’s provisional, strictly ad hoc feelings with logical and rational responses (Colapietro 1993: 56, Gorlée 2005b).

Lévi-Strauss characterized the arrangement of mending and making bricolages as ‘in French “des bribes et des morceaux,” or odds and ends in English,’ in order to describe the broken word-signs as ‘fossilized evidence of the history of an individual or a society’ (1966: 22).


Nessun bisogno di progetti elaborati: annotando, a pranzo, un numero di telefono su un tovagliolo di carta o usando, sulla propria scrivania, un vasetto di yogurt come portapenne si è già vicini al bricolage. In realtà, consapevoli o no, per gusto o per forza, con più o meno successo, volenti o nolenti siamo tutti bricoleur e quindi partecipiamo tutti al pensiero selvaggio […] (Dumont 1985: 29-30).

La «scienza del concreto» addomesticata (Lévi-Strauss 1968: 16) può diventare un meccanismo complesso che nel suo campo d’azione risponde ai compiti di un giardiniere, di un decoratore d’interni, di un cantastorie, di uno scultore, o di un cuoco, liberandoli dalla loro funzione attuale di fabbricare segni culturali nuovi e un inaspettati, creativi e nuovi ma sempre «ricchi di contingenze storiche» (Dumont 1985: 31) (si veda l’abbozzo incompleto di Peirce in MS 1135: 144, [1895]1896, esso stesso un bricolage). È possibile fare anche qualche esempio intellettuale o scientifico (un ingegnere o un giudice), così da interfacciare le percezioni provvisorie e strettamente ad hoc di Peirce con risposte logiche e razionali (Colapietro 1993: 56, Gorlée 2005b).

Lévi-Strauss ha definito la pratica del rammendare e fare bricolage come «in francese “des bribes et des morceaux”, o “odds and ends” in inglese, così da descrivere le parole-segno frammentate come evidenza fossilizzata della storia di un individuo o di una società» (1968: 22).


A bricolage is a mix of bits and pieces, yet inspired by the desire to compose an ideological bric-à-brac impression of the whole, where ‘the signified changes into the signifying and vice versa’ (Lévi-Strauss 1966: 21). This creative event is, in Peirce’s terminology, a discovery (research) of the first element in search of the discovery of the categorical ‘ideas, lying upon the beach of the mysterious ocean’ (MS 439: 9, 1898). Bricolages are compared to a few shells on the beach; in the discoverer’s view they are simple building bricks (Peirce’s sign-ideas) in order to mend or arrange for a new sign construction. The discovery ‘between design and anecdote’ (Lévi-Strauss 1966: 25) includes transmogrifying the keys, flexibility and function, see Peirce’s observation and performance of the original sign. Both ‘being’ and ‘becoming’ (Lévi-Strauss 1966: 25) are conjoined by trained skill. The surprise is ruled by the spontaneity of chance and probability, treating imaginary and correct quantities in utter random order. No definite conclusion can exist in the improvised fabric of bricolages.

Translation is, equally, a creative ‘construction [which] begins with a destruction’ (Dumont 1985: 41). The fabric woven of translation is also an indirect transformation of previous signs to create something new. The ‘black box’ transforming the translator’s mind seems to work on a text-sign in a system of ideas ‘on the lookout for that other message’ (Lévi-Strauss 1966: 20, his emphasis).

Un bricolage è un mix di pezzi e bocconi, tuttavia ispirati dal desiderio di comporre un’impressione ideologica bric-à-brac del tutto, in cui «il signifié cambia nel signifiant e viceversa» (Lévi-Strauss 1968: 21). Questo evento creativo nella terminologia di Peirce è una scoperta (ricerca) del primo elemento in cerca della scoperta delle categoriche «idee, che giacciono sulla spiaggia dell’oceano misterioso» (MS 439: 9, 1898). I bricolage sono paragonati a qualche conchiglia sulla spiaggia; dal punto di vista dello scopritore sono semplici mattoni da costruzione (i segni-idea di Peirce) così da aggiustare e sistemare una nuova costruzione segnica. La scoperta «tra progetto e aneddoto» (Lévi-Strauss 1968: 25) comprende il convertire le chiavi, flessibilità e funzione; si veda l’osservazione e la performance sul segno originale di Peirce. Sia «essere» che «divenire» (Lévi-Strauss 1968: 25) hanno in comune abilità esercitate. La sorpresa sta nella spontaneità della fortuna e della probabilità, trattando le quantità immaginarie e corrette in ordine completamente casuale. Non esiste una conclusione definita nella struttura improvvisata dei bricolage. La traduzione è, allo stesso tempo, una creativa «costruzione [che] comincia con una distruzione» (Dumont 1985: 41). Il tessuto di una traduzione è anche una trasformazione indiretta di segni preliminari per creare qualcosa di nuovo. La “scatola nera” che trasforma la mente del traduttore sembra lavorare a un testo-segno in un sistema di idee «pronte a captare that other message» (Lévi-Strauss 1966: 20, corsivo suo).

The code is a ready-made linguistic code, which is in itself a rule but still creative cryptotext. The bricoleur is the intuitive, technical and cultural text-operator who interprets and translates, guided by his or her own flexibility and function. The bricolages are the new life as effects of the bold experiments in the composition of reconverted signs. The translational strategy generates new but equivalent signs in the new cryptotext. The interpretable and translatable signs are analyzed by the translator as integrating Peirce’s triadic categories:

… be it of the nature of a significant quality, or something that once uttered is gone forever, or an enduring pattern, like our sole definite article; whether it professes to stand for a possibility, for a single thing or [happening] event, or for a type of things or of truths; whether it is connected with the thing, be it truth or fiction, that it represents, by imitating it, or by living an effect of its object, or by a convention or habit; whether it appeals merely to feeling, like a tone of voice, or to action, or to thought; whether it makes it appeal by sympathy, by emphasis, or by familiarity; whether it is a single word, or a sentence, or is Gibbon’s Decline and Fall; whether it is of the nature of a jest [scrawled on an old enveloppe], or is sealed and attested, or relies upon artistic force; and I do not stop here because the varieties of signs are by any means exhausted. Such is the definition which I seek to fit with a rational, comprehensive, scientific, structural definition, – such as one might give of ‘loom,’ ‘marriage,’ ‘musical cadence;’ aiming, however, let me repeat, less

Il codice è un codice linguistico bell’e pronto, che è in sé stesso una regola ma anche un criptotesto creativo. Il bricoleur è l’operatore testuale intuitivo, tecnico e culturale che interpreta e traduce, guidato dalla sua propria flessibilità e funzione. I bricolage sono la nuova vita in qualità di effetti degli esperimenti audaci nella composizione dei segni riconvertiti. La strategia traduttiva genera segni nuovi ma equivalenti nel nuovo criptotesto. I segni interpretabili e traducibili sono analizzati dal traduttore come integranti le categorie triadiche di Peirce:

[…] che sia della natura di una qualità significativa, o qualcosa che una volta pronunciato e andato per sempre, o uno schema ricorrente, come il nostro articolo determinativo; che professi di stare per una possibilità, per una cosa singola o per un evento [che succede], o per un tipo di cosa o di verità; che sia connesso con la cosa, che sia verità o funzione, che rapapresenti, per imitazione, o vivendo un effetto del suo oggetto, o per convenzione o abitudine; che faccia appello solo alla percezione, come un tono di voce, o all’azione, o al pensiero; che vi faccia appello per simpatia, per enfasi o per familiarità; che sia una singola parola, o una frase, o Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon; che sia della natura dell’annotazione scherzosa [scarabocchiata su una vecchia busta], o che sia sigillata e attestata, o si basi sulla forza artistica; e non mi fermo qui perché le varietà dei segni siano esaurite, affatto. Tale è la definizione che io cerco di adattare a una definizione razionale, comprensiva, scientifica, strutturale, come la si potrebbe dare di «loom», «marriage», «musical cadence»; avendo tuttavia come scopo, lasciatemelo ripetere, meno di quanto convenzionalmente significhi un definitum, che quanto nell’ipotesi ottimale ragionevolmente deve significare (MS 318: 52-54, 1907, le prime versioni e quelle cancellate di Peirce del manoscritto tra parentesi [mia traduzione]).

at what the definitum conventionally does mean, than at what it were best, in reason, that it should mean. (MS 318: 52-54, 1907, Peirce’s earlier and deleted versions of this manuscript placed in brackets)

The new meanings in the translatable fragment-signs and text-signs exist really and pragmatically in the translator’s mind, a mysterious way to explain a polyphonic structure of iconic-indexical forms of language which is produced and then interpreted, concentrating on the material for the next discovery of ‘symbols, like words’ (CP: 6.340, c.1909), the habitat or home of translatable and translated text-signs or thought-signs: Consequently, all thinking is conducted in signs that are mainly of the same structure as words; those which are not so, being of the nature of those signs of which we have need now and in our converse with one another to eke out the defects of words, or symbols. These non-symbolic thought-signs are of two classes. …The Icons chiefly illustrate the significations of predicate-thoughts, the Indices the denotations of subject-thoughts. (CP: 6.338 = MS 200: 43-44, c.1909, Peirce’s emphasis) The vocabulary, that is only the fragment of irreducible words by themselves, sticks to the bricolage-like images and meaning-pictures of loose words, unrestrained at first by concerns for logic and accuracy. The simple feeling of the function of word-signs, such as the possible functions imposed on the words such as ‘seeing,’ ‘simple,’ ‘with,’ ‘bank,’ ‘hi,’ ‘last,’ ‘heaven’ are a false guess, relatively easy to interpret and translate. The guesses spring from the human awareness of the existence of the terms, but their meaning is only a simple speculation ‘unattached to any subject, which is merely an atmospheric possibility, a possibility floating in vacuo, not rational yet capable of rationalization’ (CP: 6.342, c.1909. Peirce’s emphasis).

I nuovi significati nei frammenti-segni traducibili e nei testi-segni esistono realmente e pragmaticamente nella mente del traduttore, un modo misterioso per spiegare una struttura polifonica di forme iconiche-indicali di linguaggio che viene prodotto e poi interpretato, concentrandosi sul materiale per la successiva scoperta di «simboli, come parole» (CP: 6.340, c.1909), l’habitat o la casa dei testi-segni o dei pensieri-segni traducibili e tradotti: Di conseguenza, tutto il pensiero è condotto in segni che perlopiù sono della stessa struttura delle parole; quelli che non lo sono, essendo della natura di quei segni di cui abbiamo bisogno ora e nella nostra relazione reciproca per superare i difetti delle parole, o simboli. Questi pensieri-segni non simbolici sono di due classi […]. Le icone perlopù illustrano i significati dei pensieri-predicati, gli indici le denotazioni del pensieri-soggetti. (CP: 6.338 = MS 200: 43-44, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]). Il vocabolario, che è solo il frammento di parole in sé irriducibili, aderisce alle immagini-bricolage e ai significati-immagine delle parole staccate, libere al principio da preoccupazioni per la logica e per l’esattezza. La semplice percezione della funzione delle parole-segno, così come le funzioni possibili imposte a parole come «vedendo», «semplice», «con», «banca», «ciao», «ultimo», «paradiso» sono false

Good examples of such ‘diagrams or other fabricated instances’ (MS 200: 43, 1907) are given in Peirce’s own titles – ‘The Third Curiosity” (MS 199, 1907), “The Fourth Curiosity” (MS 200, 1907), “Some Amazements of Mathematics’ (MS 202: c.1908) (see Robin 1967: 21-22). The titles include separate and unrestrained words, such as ‘some,’ ‘amazements,’ ‘mazes,’ ‘fourth,’ and ‘curiosity.’ Peirce argues that the words

 

… involve the calling up of an image … as ordinary common nouns and verbs do; or it may require its interpretation to refer to the actual surrounding circumstances of the occasion of its embodiment, like such words as that, this, I, you, which, here, now, yonder, etc.’ (CP: 4.447, c.1903, Peirce’s emphasis).

 

Peirce clearly states that ‘verbs or portions of verbs, such as adjectives, common nouns, etc.’ (CP: 4.157, 1897), including the use of quotation marks, are the (ab)use of separate interjections and exclamations provided with unclear meanings. Meaningfully, all words remain as loose ‘phrase[s] like most of the terminology of grammar’ (CP: 3.458, 1897).


supposizioni, relativamente facili da interpretare e tradurre. Le supposizioni nascono dalla consapevolezza umana dell’esistenza dei termini, ma il loro significato è solo una semplice speculazione «non collegata ad alcun soggetto, che è mera possibilità atmosferica, possibilità fluttuante in vacuo, non razionale né capace di razionalizzazione» (CP: 6.342, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]).

Buoni esempi di tali «diagrammi o altri esempi inventati» (MS 200: 43, 1907) sono presenti nei titoli stessi di Peirce «The Third Curiosity» (MS 199, 1907), «The Fourth Curiosity» (MS 200, 1907), «Some Amazements of Mathematics» (MS 202: circa 1908) (si veda Robin 1967: 21-22). I titoli comprendono parole separate e libere, come «some», «amazements», «mazes», «fourth», e «curiosity». Peirce argomenta che le parole

[…] comprendono il richiamo di un’immagine […] come fanno i nomi comuni ordinari e i verbi; o può richiedere che la sua interpretazione si riferisca alle effettive circostanze dell’occasione della sua incorporazione, come in parole quali quello, questo, io, tu, quale, qui, ora, là, eccetera (CP: 4.447, c.1903, corsivo di Peirce).

Peirce afferma chiaramente che «verbi o parti dei verbi, come aggettivi, nomi comuni, eccetera» (CP: 4.157, 1897), compreso l’uso di virgolette, sono l’(ab)uso di interiezioni ed esclamazioni distinte dotate di significati poco chiari. Significativamente, tutte le parole restano come
Characterized as soft, bricolage-like instances with no perfect equivalence of meaning, the translation of words deals with ‘the problem (at times a pseudo-problem) of how certain frequently twinned parts of speech – noun and verbs – ‘ (Sebeok 1986: 7, see also ff.) as well as the syllables used, negative pronouns, personal pronouns, conjunctions, and category terms for past and present participles, indefinite articles, attributive pronouns, genitive cases, adverbial adjuncts, and punctuation symbols seem to function in isolation as ‘indecomposable’ signs (CP: 1.562, c.1905) emphasized in linguistic form, structure, and matter (see CP: 1.288f., c.1908).

In a text-sign, a bricolage-like sign is a zero element, a ‘negative of quantity … and in a sense as itself a special grade of quantity’ although ‘[t]his is no violation of the principle of contradiction: it is merely regarding the negative from another point of view’ (MS 283: 109, 1905-1906) (developed by Jakobson 1971a and 1971b; see Lange-Seidl 1986, Kevelson 1998, Kurzon 1997 and others, generally Rotman 1987, part. 97 ff.). The zero sign is a sign of emptiness, but it points in some discontinuous direction. Bricolage is both unrestrained and restrained. Nothingness will stay muted in reasoning until ‘existing.’ Secondness will be added to the ‘imagined’ Firstness (CP: 8.357, 1908; see Peirce’s ‘imaginable or imageable’ relation [PW: 70, 1908], Peirce’s emphasis).


sciolte «frasi come la maggior parte della terminologia della grammatica» (CP: 3.458, 1897). Definita come casi precari di bricolage senza nessuna equivalenza perfetta di significato, la traduzione di parole ha a che fare con «il problema (a volte uno pseudoproblema) di come alcune parti del discorso frequentemente abbinate – nomi e verbi –» (Sebeok 1986: 7, si vedano anche le pagine seguenti) così come le sillabe usate, i pronomi negativi, i pronomi personali, le congiunzioni, e i termini di categoria per i participi passati e presenti, articoli indefiniti, pronomi attributivi, casi genitivi, attributi, e la punteggiatura sembrano funzionare isolati come segni «indecomponibili» (CP: 1.562, c.1905) enfatizzati nella forma linguistica, nella struttura e nel contenuto (si veda CP: 1.288 e seguenti, circa 1908).

In un testo-segno, un segno bricolage è un elemento zero, un «negativo di quantità […] e in un certo senso in quanto esso stesso un grado speciale di quantità» sebbene «non si tratti di violazione del principio di contraddizione: riguarda solo del negativo da un altro punto di vista» (MS 283: 109, 1905-1906 [mia traduzione]) (approfondito da Jakobson 1971a e 1971b; si veda Lange-Seidl 1986, Kevelson 1998, Kurzon 1997 e altri, generally Rotman 1987, in particolare 97 e seguenti). Il segno «zero» è un segno di vuoto, ma punta in direzioni discontinue. Il bricolage è sia limitato che illimitato. Il nulla resterà muto nel ragionamento finché «esistente». La Secondness verrà aggiunta alla «imagined» Firstness (CP: 8.357, 1908; si veda la relazione «imaginable o imageable» di Peirce [PW: 70, 1908], corsivo di Peirce).

Pure Firstness ‘signifies a mere dream, an imagination unattached to any particular occasion’ (CP: 3.459, 1897), whereas practical Secondness serves to ‘denominate things, which things he identifies by the clustering of reactions, and such words are proper names, and words which signify, or mean, qualities’ (CP: 4.157, 1897, Peirce’s emphasis). The repeated meaning of the simple lexical form, Peirce’s iconic replica, tends to harden the soft and controversial separation and connection, difference and sameness, while accomodating to the jointure of one category to another (see the items mentioned for vocabulary in OED as well as their common and technical uses, their Firstness and Secondness decided to join brick and mortar). With Peirce’s architectural framework, the logical meaning of vocabulary depends on its practical use to enlighten the specific pragmatic contextualization. Then, within the real context, the simple unit would become an actual ‘building’ message.

The upgrading ‘grounding’ sign-shades of qualisign, sinsign, or legisign (CP: 2.243f., also called tone, token, or type) includes ‘a mere idea or quality of feeling,’ an ‘individual existent’ until a ‘general type … to which existents may conform’ (MS 914: 3, c.1904) in accordance with the order of the three categories. Tone (qualisign) is the mere sign itself, token (sinsign) is the object-oriented sign, and type (legisign) is the law-like sign (see Savan 1987-1988: 19-24, Gorlée 1994: 51-53).
La Firstness pura «significa una mera fantasticheria, una rappresentazione non collegata ad alcuna particolare circostanza» (CP: 3.459, 1897), mentre la Secondness pratica serve a «denominare le cose, cose che identifica attraverso il raggruppamento di reazioni, e tali parole sono nomi propri, e parole che vogliono dire, o significare, qualità» (CP: 4.157, 1897, corsivo di Peirce). Il significato ripetuto della semplice forma lessicale, riproduzione iconica di Peirce, tende a indurire la separazione e la connessione, la differenza e la somiglianza controverse e labili, mentre si adatta alla giuntura di una categoria con un’altra (si vedano gli esempi citati come vocabolario nell’OED e i loro usi comuni e tecnici, la loro Firstness e Secondness, «to join brick and mortar»[1]). Con la struttura architettonica di Peirce, il significato logico del vocabolario dipende dal suo uso pratico per chiarire la contestualizzazione specifica, pragmatica. Poi, all’interno del contesto reale, l’unità semplice diventerebbe un messaggio «costruttivo» vero e proprio. I segni-ombra «grounding» che aggiornano, del qualisegno, sinsegno o legisegno (CP: 2.243 e seguenti, anche chiamati tone, token, o type) comprendono «una mera idea o qualità di percezione», un «singolo esistente» fino ad arrivare a un «modello generale […] a cui gli esistenti si possono conformare» (MS 914: 3, circa 1904) in armonia con l’ordine delle tre categorie. Il tone (qualisegno) è il
Scattered throughout Peirce’s works are numerous references to and discussions of discourse in the form of written ‘simple’ signs of all kinds, from isolated word-signs to complex verbal structures. For instance, the words ‘witch’ (MS 634: 7, 1909), ‘Hi!’ (MS 1135: 10, [1895]1896), ‘runs’ (MS 318: 72, 1907) and ‘whatever’ (CP: 8.350, 1908) are for Peirce bricolage-like signs. Peirce considered as a semiotic sign ‘[a]ny ordinary word, as “give,” “bird,” “marriage”‘ (CP: 2.298, 1893) and combinations of words, such as the upgraded forms ‘all but one, one or two, a few, nearly all, every other one, etc.’ (CP: 2.289-2.290, c.1893); so is the tone-token ‘the word “man” [which] as printed, has three letters; these letters have certain shapes, and are black’ (W: 3: 62, 1873; cf. MS 9: 2, 1904). Thereby we leave the ‘clusters of acts’ (CP: 4.159, 1897) immediately experienced by reading individual fragments, with the specific wish to achieve the more sophisticated ‘cluster or habit of reactions’ or an expressive ‘centre of forces’ (CP: 4.157, 1897).

This paraphrastic experiment brings together a group of words, connecting the two categories that were originally separated and brought together in the first bricolages. A paraphrase is still a fragmentary unit, but is like a bounded line of bricolages, and represents a meaningful phraseological unit meant ‘to stimulate the person addressed to perform an act of observation’ (CP: 4.158, 1897).


mero segno stesso, il token (simsegno) è il segno orientato all’oggetto, e il type (legisegno) è il segno regolativo (si veda Savan 1987-1988: 19-24, Gorlée 1994: 51-53).

Sparsi in tutte le opere di Peirce sono vari riferimenti a, e discussioni di, discorso sotto forma di segni scritti «semplici» di tutti i tipi, dalle parole-segno isolate a strutture verbali complesse. Per esempio le parole: «strega» (MS 634: 7, 1909), «Ciao» (MS 1135: 10, [1895]1896), «corse» (MS 318: 72, 1907) e «qualunque» (CP: 8.350, 1908) sono per Peirce segni-bricolage. Peirce considerava un segno semiotico bricolage– «Ogni parola ordinaria, come «dare», «uccello», «matrimonio» (CP: 2.298, 1893) e le combinazioni di parole come le forme aggiornate «tutti tranne uno, uno o due, pochi, quasi tutti, ogni altro, eccetera» (CP: 2.289-2.290, c.1893); così è la tono-token «la parola “man” [che] stampata, ha tre lettere; queste lettere hanno certe forme, e sono nere» (W: 3: 62, 1873; cf. MS 9: 2, 1904). Quindi lasciamo i «clusters of acts» (CP: 4.159, 1897) esperiti immediatamente, leggendo frammenti singoli, con il desiderio preciso di conseguire i più sofisticati «cluster or habit of reactions» oppure un «centro di forze» espressivo (CP: 4.157, 1897).

Questo esperimento parafrastico mette insieme un gruppo di parole, connettendo le due categorie che originariamente erano separate e messe insieme nei primi bricolage. Una parafrasi è ancora un’unità frammentaria, ma è come una linea connessa di bricolage, e rappresenta
A bricolage would mediate between images and concepts and would, as Milton wrote, become a ‘sad task and hard, for how shall I relate to human sense the invisible exploits of warring spirits’ (Paradise Lost, Book 5, lines 563-565, quoted from Milton 1975: 82). Milton continued: ‘I shall delineate so, by likening spiritual to human forms, as may express them best’ (Paradise Lost, Book 5, lines 572-574, quoted from Milton 1975: 83). The primary images, ‘which is sometimes in my thought, sometimes in yours, and which has no identity than the agreement between its several manifestations’ (CP: 3.460, 1897) belong to the individual idea of isolated Firstness. The specific concepts refer to the common ground in Secondness to empower a sign, simple and complex, so that it ‘can be a sign in representing its object in its intellectual character as informing the sign’ (MS 1334: 60, 1905). The outward index, Peirce held, ‘may require its interpretation to refer to the actual circumstances of the occasion of its embodiment’ (CP: 4.447, c.1903). The universe of indexical discourse is the center of the internal world of icons, and there seems to be no sharp line between outward cause and immediate image. They hold together in the semiotic sign, as occurred in Robinson Crusoe’s strange footprint in the sand. See Peirce’s common word ‘love’ which is gradually transmogrified through the connectives ‘self-love,’ ‘no love,’ ‘love of mankind,’ and ‘creative love’ into Peirce’s own kind, ‘evolutionary love’ (CP: 6.287, 1893 and following paragraphs) with its specific meaning.


un’unità fraseologica significativa che intende «stimolare la persona a cui ci si rivolge a compiere un atto di osservazione» (CP: 4.158, 1897).

Un bricolage medierebbe tra immagini e concetti e diventerebbe, come scriveva Milton «ardua, trista è l’impresa; or come io posso raccontar degli eserciti celesti le invisibile prove al vostro senso» (Paradiso Perduto, Libro 5, versi 563-565, citato da Milton 1863: 172). Milton continuava: «e misurando le corporee forme colle spirtale, a quanto i sensi eccede» (Paradiso Perduto, Libro 5, versi 572-574, citato da Milton 1863: 172-173). Le immagini primarie «che è talora nella mia mente talora nella vostra, e che non ha altra identità che l’accordo fra le sue differenti manifestazioni» (CP: 3.460, 1897) appartengono all’idea individuale di Firstness isolata. I concetti specifici si riferiscono al terreno comune nella Secondness per rafforzare il segno, semplice e complesso, così che «possa essere un segno perché rappresenta il suo oggetto nel suo carattere intellettuale perché informa il segno» (MS 1334: 60, 1905 [mia traduzione]). L’indice esterno, Peirce pensava, «può richiedere che la sua interpretazione si riferisca alle effettive circostanze dell’occasione della sua incorporazione» (CP: 4.447, circa 1903). L’universo del discorso indicale è il centro del mondo interno delle icone, e sembra non esserci nessun confine netto tra causa esterna e immagine immediata. Queste rimangono insieme nel segno semiotico, come succede con la strana impronta nella sabbia di Robinson Crusoe. Si veda la parola comune di Peirce «amore» che magicamente viene trasformata per gradi attraverso i connettivi «amor proprio», «non amore», «amore
The OED teaches that ‘paraphrase’ tends to ‘express the meaning of a word, phrase, passage, or work in other words, usually with the object of fuller and clearer exposition’ (OED 1989: 11: 204). Paraphrase was a term for the socalled free translation (Gorlée 2005a: 31ff, 90f). Historically (for a survey of historical interpretation, see Robinson 1998a), this term was originally a linguistic term arising from classical rhetorical style and borrowed in modern semiolinguistics. The information given by paraphrase became popular in the tradition of Chomsky’s generative grammar as the transformation of syntactic rules from surface sentence as extended paraphrase of the deep sentence with the basic meaning (Harris), as well as in the formalizations of text linguistics and pragmalinguistics (Petöfi, van Dijk, and others) (criticized in Gorlée 2001). Beyond grammar in applied translation studies, the semantics of paragraphs includes the information conveyed by the sentence as a communicative combination of words (Nolan 1970, Fuchs 1982, and others). The meaning relations, conveyed by structuralist semioticians, possess individual meanings involving problems concerning sameness of shapes and forms (synonymy, contradictoriness, anomaly, tautology) to give meaning to the ambiguous combination of their semantic features in sentence meaning outside the original remnants of fossilized vocabulary (Hendricks 1973: 11-47).


dell’umanità», e «amore creativo» nella categoria personale di Peirce, «amore evolutivo» (CP: 6.287, 1893 e i paragrafi successivi) con il suo significato specifico.

L’OED insegna che la «parafrasi» tende a «esprimere il significato di una parola, frase, passo, o opera in altre parole, di solito allo scopo della più completa e più chiara esposizione» (OED 1989: 11: 204). «Parafrasi» era un termine per la cosiddetta traduzione libera (Gorlée 2005a: 31 e seguenti, 90 e seguenti). Storicamente (per una ricerca di interpretazione storica si veda Robinson 1998a), questo termine originariamente era un termine linguistico che deriva dallo stile retorico classico ed è stato preso in prestito dalla semiolinguistica moderna. L’informazione data dalla parafrasi divenne popolare nella tradizione della grammatica generativa di Chomsky come trasformazione di regole sintattiche dalla frase superficiale come parafrasi estese della frase profonda con il significato di base (Harris) così come nella formalizzazione della linguistica e della pragmalinguistica del testo (Petöfi, van Dijk, e altri) (presi in esame in Gorlée 2001). Oltre alla grammatica negli studi traduttivi applicati, la semantica dei paragrafi comprende l’informazione trasmessa dalla frase come combinazione comunicativa di parole (Nolan 1970, Fuchs 1982, e altri). Le relazioni di significato, trasmesse dai semiotici strutturalisti, possiedono significati individuali che implicano problemi che riguardano la somiglianza di forme e strutture (sinonimo, contraddittorietà, anomalia, tautologia) per dare significato alla combinazione ambigua delle loro
In general translation studies and particularly its source, Biblical translation studies, linguistic terms discussed the keyword of sameness of equivalence, in Umkodierung and Neukodierung, to refer to the replacement of the paraphrases and their diagnostic components from the canonical notations (Nida 1975: 65. n. 17) in sacred writings transposed to other genres.

These bridges tend to overcome the linear order of grammar of words and parts of words, which were discussed as linguistic twists or cultural turns (Robinson 1991) and transferred into semiotic (that is, a Peircean) terminology:

 

The sign-interpretant series is not a simple linear chain. It is rather to be thought of as a complex of initially independent sequences which join with one another, branch, join with still others, branch, and so on, such that by the end of the process all have ultimately contributed (like contributing rivers) to a final resultant interpretant. (Ransdell 1980: 175)

The semiosis of interpreting and translating signs generates a flow which goes back to the changing river statements by Heraclitus and used in semiotic theory as well as translation theory (see Sebeok’s discussion of semiosis as the ‘serendipitous yet comfortable confluence of sundry rivulets’ [1986: xii]).

caratteristiche semantiche nel significato della frase al di fuori dei residui originari del vocabolario fossilizzato (Hendricks 1973: 11-47).

Negli studi traduttologici generali e particolarmente nella loro fonte, gli studi traduttologici della Bibbia, i termini linguistici trattavano la parola chiave di «sameness of equivalence», in Umkodierung e Neukodierung, per riferirsi alla sostituzione delle parafrasi e dei loro componenti diagnostici dalle notazioni canoniche (Nida 1975: 65, nota 17) negli scritti sacri trasposti in altri generi.

Questi ponti tendono a superare l’ordine lineare della grammatica delle parole e delle parti delle parole, che sono state trattate come variazioni linguistiche o cambiamenti culturali (Robinson 1991) e trasferite nella terminologia semiotica (ossia peirciana):

La serie segno-interpretante non è una semplice catena lineare. Va semmai pensata come complesso di sequenze inizialmente indipendenti che si uniscono, si ramificano, si uniscono con altre ancora, si ramificano e così via, di modo che alla fine del processo tutte hanno dato un contributo definitivo (come i fiumi immissari) all’interpretante finale che ne risulta (Ransdell 1980: 175).

 

La semiotica dei segni interpretanti e traducenti genera un flusso che risale alle affermazioni di Eraclito sul fiume che cambia e usate nella teoria The semiotic sign is recodified as having an object which can be commented on, reworked or enlarged into a different-but-equivalent language. This translational use (abuse, disuse, reuse) of the linguistic, paralinguistic and non-linguistic functions of signs connects the paraphrase to Peirce’s use of interpretants as ‘the capacity of the system to specify any part of the system in a more analytic fashion’ (Nida 1975: 65), that is the temporary varieties at sentence level, beyond the limits of paraphrastic translation. Ransdell stated that in the three-way ‘branching and joining aspects’ of verbal elements, ‘Signs are not “logical atoms,” that is, ultimate units of analysis, and there are no absolutely “simple” signs; hence, what counts as a constituent sign is a matter of what it is profitable to regard as such, given one’s particular analytic aims (e.g., a word, a phrase, a sentence, a paragraph, or whatever)’ (1980: 176).

Pieces of discursive writing — that is, sentences — are complex signs. They may be exemplified by the syllogism, a constantly used example in Peirce’s writings. A syllogism is a compound sign that is built up, logically as well as linguistically, of three subsigns, which are in turn divisible, and which lead to a conclusion: ‘All conquerors are But­chers / Napoleon is a conqueror / Napoleon is a butcher’ (W: 1: 164, 1865), ‘It neither rains or it doesn’t rain / Now it rains/ It doesn’t rain’ (PW: 82, 1908) and many other syllogisms.


semiotica così come nella teoria traduttologica (si veda la discussione di Sebeok sulla semiotica come la «fortuita eppure comoda confluenza di diversi fiumicelli» [1986: xii]).

Il segno semiotico viene ricodificato come avente un oggetto che può essere commentato, rilavorato o esteso in un linguaggio diverso-ma-equivalente. Questo uso (abuso, disuso, riuso) traduttivo delle funzioni linguistiche, paralinguistiche e non linguistiche dei segni connette la parafrasi all’uso peirciano degli interpretanti come «la capacità del sistema di specificare ogni parte del sistema in modo più analitico» (Nida 1975: 65), ossia le varietà provvisorie a livello della frase, oltre i limiti della traduzione parafrastica. Ransdell ha affermato che negli «aspetti che diramano e riuniscono» triadici degli elementi verbali, «i Segni non sono “atomi logici”, ossia, unità sostanziale di analisi, e non c’è assolutamente nessun segno “semplice”; perciò quello che conta come segno costituente è un problema di cosa sia utile considerare tale, dati gli obiettivi analitici di ciascuno (per esempio, una parola, una locuzione, una frase, un paragrafo, o altro)» (1980: 176).

Le parti di scritti discorsivi – vale a dire, le frasi – sono segni complessi. Possono essere esemplificati dal sillogismo, un esempio costantemente usato negli scritti di Peirce. Un sillogismo è un segno composto che è formato, logicamente e linguisticamente, da tre sottosegni, che sono a loro volta divisibili, e che portano a una

The theater directory and the weather forecast published in the newspaper are, to Peirce, predictive signs (MS 634: 23, 1909); so are ‘the books of a bank’ (MS 318: 58, 1907) and ‘an old MS. letter … which gives some details about … the great fire of London’ (MS 318: 65, 1907). As a further verbal text-sign, Peirce even mentions ‘Goethe’s book on the Theory of Colors … made up of letters, words, sentences, paragraphs, etc.’ (MS 7: 18, 1904). In his writings, Peirce moreover presented and analyzed many sentence-signs, both grammatically complete or elliptic, such as Peirce’s favorite fragment about the pragmatic effects of the ‘blocking the road of inquiry’ (CP: 6.273, c.1893, CP: 6.64, 1892, CP: 1.153, 1.156, 1.170, 1.175, 1893). Other examples mentioned: ‘Napoleon was a liar’ (MS 229C: 505, 1905), ‘King Edward is ill’ (MS 800: 5, [1903?]), ‘Fine day!’ (MS 318: 69, 1907) (including the bricolage-like meaning of the exclamation point), ‘Let Kax denote a gas furnace’ (CP: 7.590 = W: 1: 497, 1866, with Peirce’s emphasis), ‘Any man will die’ (MS 318: 74, 1907), and ‘Burnt child shuns fire’ (CP: 5.473 = MS 318: 154-155, 1907). By the same token, Peirce wrote that ‘among linguistic signs, as ‘“If — then — ,” “— is — ,” “— causes —,” “— would be —,”— is relative to — for —,” “Whatever” etc.’” (CP: 8.350, 1908, see PW: 71, 1908) they contain a few blanks (bricolages) to be filled. Blanks are ‘among linguistic signs’ (CP: 8.350, 1908, see PW: 71, 1908) but are also silent messages without reference (Jakobson 1963: 159).

 

conclusione: «Tutti i conquistatori sono Macellai / Napoleone è un conquistatore / Napoleone è un macellaio» (W: 1: 164, 1865), «Né piove, né non piove, Ora piove, Non piove» (PW: 82, 1908) e molti altri sillogismi.

L’elenco dei cinema e le previsioni meteo pubblicate sul giornale sono, secondo Peirce, segni predittivi (MS 634: 23, 1909); così sono «i registri di una banca» (MS 318: 58, 1907) e «una vecchia lettera manoscritta […] che dà alcuni dettagli riguardo […] al grande incendio di Londra» (MS 318: 65, 1907). Peirce cita come ulteriore testo-segno verbale: «il libro di Goethe sulla Teoria dei Colori […] fatta di lettere, parole, frasi, paragrafi, eccetera» (MS 7: 18, 1904). Nei suoi scritti, Peirce inoltre presentava e analizzava molte frasi-segno, sia complete grammaticalmente sia ellittiche, quali il frammento preferito di Peirce riguardo agli effetti pragmatici dell’«ostacolare la strada della ricerca» (CP: 6.273, circa 1893, CP: 6.64, 1892, CP: 1.153, 1.156, 1.170, 1.175, 1893). Altri esempi: «Napoleone era un bugiardo» (MS 229C: 505, 1905), «Re Edoardo è malato» (MS 800: 5, [1903?]), «Bella giornata!» (MS 318: 69, 1907) (compreso il significato bricolage del punto esclamativo ), «Poniamo che Kax sia una fornace a gas» (CP: 7.590 = W: 1: 497, 1866, con corsivo di Peirce), «Qualsiasi uomo morirà» (MS 318: 74, 1907), e «Il bambino scottato evita il fuoco» (CP: 5.473 = MS 318: 154-155, 1907). Dallo stesso simbolo, Peirce scrisse che «tra i segni linguistici, quali: ”Se — allora — ,” “— è — ,” “— causa —,” “— sarebbe —,”— è relativo a — per —,”

Peirce’s favorite examples of sentence-signs were perhaps, chronologi­cally, ‘This stove is black’ (CP: 1.548, 1,551, 1867), ‘There is a [great] fire’ (CP: 8.112, c.1900, 2.305, 1901, 2.357, 1902), the mili­tary command ‘Ground arms!’ (e.g., CP: 5.473, 5.475, 1907, MS 318: 37, 175, 214, 244, 1907, CP: 8.176, 8.315, 1909) (with exclamation mark, terminating the emphasis) and ‘Cain killed Abel’ (CP: 1.365 = W: 6: 177, 1887-1888, CP: 2.230, c.1897, CP: 2.316, c.1902, PW: 70f., 1908, NEM: 3: 839, 1909, CP: 2.230, 1910). All of these sentences — Seconds including their First punctuation — were repeatedly used over the years to serve as illustrative examples in Peirce’s scholarly writings and their replications as practical examples in his correspondence. Their meaningful aspect of such replicas is particularly highlighted in Peirce’s figurative language and, paradoxically, the replicas integrated within his semio-logical writings. See the fragmentary but meaningful replicas concerning ‘Truth, crushed to earth, shall rise again’ (CP: 5.408 = W: 3: 274, 1878, CP: 1.217, 1902, MS: L75D: 234, 1902), Ralph Waldo Emerson’s verse ‘Of thine eyes I am eyebeam’ taken from his poem ‘The Sphinx’ (CP: 7.591 = W: 1: 498, 1866, CP: 7.425, c.1893, CP: 2.302, c.1895, CP: 1.310, 1907). The quoted effusions are poeticisms mentioned by Peirce, in fictional quoting: namely, without naming Shakespeare as their actual source, and at times without placing quotation marks to enclose the direct words or phrases ‘secretly’ borrowed.


“Qualsiasi cosa” eccetera» (CP: 8.350, 1908, si veda PW: 71, 1908) contengono alcuni spazi vuoti (bricolage) che devono essere riempiti. Gli spazi vuoti sono «tra i segni linguistici» (CP: 8.350, 1908, si veda PW: 71, 1908) ma sono anche messaggi silenziosi senza relazione (Jakobson 1963: 159).

Gli esempi preferiti di Peirce di frasi-segno forse erano, cronologicamente, «Questa stufa è nera» (CP: 1.548, 1,551, 1867), «è un [grande] fuoco» (CP: 8.112, circa 1900, 2.305, 1901, 2.357, 1902), il comando militare «Armi a terra!» (e.g., CP: 5.473, 5.475, 1907, MS 318: 37, 175, 214, 244, 1907, CP: 8.176, 8.315, 1909) (con tanto di punto esclamativo) e «Caino uccise Abele» (CP: 1.365 = W: 6: 177, 1887-1888, CP: 2.230, circa 1897, CP: 2.316, circa 1902, PW: 70 e seguenti , 1908, NEM: 3: 839, 1909, CP: 2.230, 1910). Tutte queste frasi — i Second che comprendono la punteggiatura dei First — venivano usate ripetutamente nel corso degli anni e servivano da esempi illustrativi negli scritti accademici di Peirce e le loro repliche come esempi pratici nella sua corrispondenza. L’aspetto significativo di tali repliche è particolarmente evidenziato nel linguaggio figurativo di Peirce e, paradossalmente, le repliche erano incorporate nei suoi scritti semio-logici. Si vedano le repliche frammentarie ma significative che riguardano «La verità, prostrata a terra, risorgerà ancora» (CP: 5.408 = W: 3: 274, 1878, CP: 1.217, 1902, MS: L75D: 234, 1902), il verso di Ralph Waldo Emerson «Dell’occhio tuo io sono il raggio» tratto dalla sua poesia «The Sphinx» (CP: 7.591 = W: 1: 498, 1866, CP: 7.425,

The paraphrase provides ‘a local habitation and a name’ (CP: 3.459, 1897, CP: 6.455, 1908) and is an indirect quotation from a passage in The Midsummer Night’s Dream; see the ubiquitous phrase in Peirce’s discourse about man’s ‘glassy essence’ (CP: 7.580 = W: 1: 491, CP: 7.585 = W: 1: 495, 1866, CP: 5.317 = W: 1: 242, 1868, CP: 6.238-6.271 title, 1892, CP: 6.301, 1893, CP: 8.311, 1897, CP: 5.519, c.1905) taken from Measure for Measure (Gorlée 2004a: 231f., 2005b: 266). All of these poetical lines, fictive and real, are meant as monitory illustrations, meant to enlighten the readers to the puzzlements in Peirce’s logico-semiotic terminology. These ‘grammatical emphatics’ (Weiss 2000: 3-5) add different ‘translatants’ to Peirce’s philosophical speech (Savan 1987-1988: 41, Gorlée 1994: 120) and provide the readers/interpreters with a balanced whole consisting of dramatic — lyric, factual, and logical — interpretants.The interpreted-translated meaning of groups of words is meaningful in the context of human reality, even taking into account the external and internals worlds in all of the proverbially thousand tongues.


circa 1893, CP: 2.302, circa 1895, CP: 1.310, 1907). Questi passi ripetuti sono poeticismi menzionati da Peirce nelle citazioni finzionali, vale a dire, senza nominare Shakespeare come la loro vera fonte, e a volte senza mettere le virgolette per racchiudere le parole o le frasi testuali «segretamente» prese in prestito.

La parafrasi fornisce «un’abitazione locale e un nome» (CP: 3.459, 1897, CP: 6.455, 1908) ed è una citazione indiretta da un passo in The Midsummer Night’s Dream; si veda la frase onnipresente nel discorso di Peirce sulla «vitrea essenza» dell’uomo (CP: 7.580 = W: 1: 491, CP: 7.585 = W: 1: 495, 1866, CP: 5.317 = W: 1: 242, 1868, CP: 6.238-6.271 titolo, 1892, CP: 6.301, 1893, CP: 8.311, 1897, CP: 5.519, circa 1905) presa da Measure for Measure (Gorlée 2004a: 231 e seguenti, 2005b: 266). Tutte queste linee poetiche, fittizie o reali, sono intese come illustrazioni ammonitrici, che vogliono illuminare i lettori sulle perplessità della terminologia logico-semiotica di Peirce. Queste «grammatical emphatics» (Weiss 2000: 3-5) aggiungono diversi «translatant» al discorso filosofico di Peirce (Savan 1987-1988: 41, Gorlée 1994: 120) e offrono ai lettori/interpreti un tutto bilanciato e formato da interpretanti drammatici, lirici, fattuali e logici. Il significato interpretato-tradotto dei gruppi di parole è significativo nel contesto della realtà umana, anche prendendo in esame i mondi interni ed esterni in tutte le proverbiali mille lingue[2].


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2. Analisi traduttologica


2.1 Dinda Gorlée studiosa di Peirce

L’autrice di questo saggio, Dinda L. Gorlée, è una studiosa olandese di linguistica e semiotica. Tra le sue numerose pubblicazioni figurano: Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Rodopi, 1994), Grieg’s Swan Songs (in Semiotica 142 1/4:153-210, 2002), On Translating signs: Exploring text and Semio-Translation (Rodopi, Amsterdam-New York 2004).

La Gorlée ha fondato la Norwegian Association for Semiotic Studies; è inoltre membro del comitato esecutivo all’interno della IASS (International Associaton for Semiotic Studies) in rappresentanza dei Paesi Bassi.

Ha collaborato come ricercatrice presso numerose università, tra cui l’Indiana University, le università di Amsterdam, Vienna e Ouagadougou (Burkina Faso). Si interessa di traduzione biblica e legale (la sua agenzia a L’Aia si occupa proprio di traduzione giuridica).

2.2 Broken Signs

Questo testo in particolare è dedicato ai frammenti di Peirce, il frammento è una «porzione ancora esistente di un testo o di una composizione il cui tutto è andato perso» (OED 1989: 6: 137), vale a dire alle parti dei suoi scritti che non sono state pubblicate nelle raccolte delle sue opere, e anche quelle che vi figurano, in quanto la loro compilazione è necessariamente arbitraria.

Esiste in particolare una raccolta “ufficiale” dei suoi scritti, ma questa è frammentata e risulta molto complicato consultarla. Il saggio è suddiviso in capitoli, la mia traduzione ha riguardato i primi tre capitoli: Inganni e verità nei labirinti di Peirce, I frammenti e il tutto e Bricolage, parafrasi e manoscritto.

L’intento dell’autrice è quello di dimostrare che la raccolta degli scritti di Peirce è frammentata a causa della realizzazione a più mani dell’edizione di tutto ciò che il semiotico ha scritto nell’arco della sua vita. Come ci dice la Gorlée, non si possono considerare le opere pubblicate di Peirce come qualcosa di finito. L’autrice sostiene che i curatori e traduttori della raccolta abbiano ignorato determinate alternative che gli scritti di Peirce contemplavano. Gli stessi primi curatori dei Collected Papers, Charles Harsthorne e Paul Weiss, affermano che sembra quasi che lo stesso Peirce fosse incapace di scegliere una forma finale per i suoi scritti i quali, molto spesso, erano senza data e titolo. La massima del filosofo a proposito dei suoi scritti era proprio questa:

Tutto ciò che si può trovare stampato del mio lavoro sulla logica sono semplicemente affioramenti sparsi qua e là di una vena ricca che resta inedita. Penso che perlopiù sia stata scritta; ma nessun essere umano potrebbe mai mettere insieme i frammenti. Non ci sono riuscito nemmeno io (epigramma CP: 2.xii, 1903 [mia traduzione]).

Si ha dunque la riprova di quanto complesso sia stato e sia ancora il lavoro per i curatori: «poiché le dottrine che presentano sono troppo importanti per essere omesse, gli scritti e i frammenti spesso vanno inclusi sebbene si sia certi che l’autore nella loro presente condizione non li avrebbe dati alle stampe».

 

2.3 Charles Sanders Peirce

Peirce, nonostante sia uno dei più grandi filosofi americani, in vita non pubblicò neanche un libro, tutti i suoi scritti sono apparsi su giornali e riviste; moltissimi sono rimasti inediti. Proprio per questo motivo la diffusione del suo pensiero ne viene ostacolata. I Collected Papers sono la prima raccolta dei suoi scritti e vennero pubblicati dalla Harvard University tra il 1931 e il 1958. Charles Sanders Peirce (1839-1914) è stato un importante studioso e padre della moderna semiotica (o teoria del segno, inteso come atto che consenta la possibilità di una comunicazione). Negli ultimi decenni il suo pensiero è stato fortemente rivalutato fino a porlo tra i principali innovatori in molti campi, specialmente nella metodologia della ricerca e nella filosofia della scienza.

Ma Peirce è anche il fondatore del «pragmatismo», a cui cambierà poi il nome in «pragmaticismo» per differenziarsi dall’amico William James, importante psicologo. Infatti Peirce rimproverava a James di aver impoverito il pragmatismo attraverso l’esclusione del suo fondamento logico-semiotico, che per Peirce è parte integrante di una teoria della conoscenza. Secondo Peirce, nella concezione semiotica, i segni sono le parole ma sono anche tutti gli oggetti che vengano percepiti come segni. Da qui, ogni processo semiotico ha tre punti focali: un oggetto (segno), un pensiero o idea che fa da tramite (interpretante) e il significato del primo segno (oggetto) a cui si arriva tramite il processo sopraccitato. (Osimo, 2002: 65-66)

 

2.4 La traduzione saggistica

La traduzione di questo saggio ha presentato alcune criticità a causa della lingua, l’autrice è infatti di madrelingua olandese ma il testo è stato redatto in inglese.

Tuttavia, questo aspetto è uno tra i più marginali; le difficoltà vere e proprie sono sorte a causa della terminologia specifica a cui è stato necessario fare riferimento. Trattandosi di un saggio scientifico non divulgativo ma destinato a un pubblico specializzato, è stato necessario usare termini tipici delle semiotica. All’interno di questa disciplina – come peraltro accade in pressoché tutte le discipline – esistono poi sottocodici che rappresentano la visione concettuale condivisa soltanto da alcuni ricercatori. In questo caso, si notano come minimo due sottocodici: quello della semiotica peirciana e quello tipico proprio dell’autrice del saggio stesso.

Riuscire, però, a stabilire una giusta definizione di «testo tecnico» e «testo narrativo» è un compito decisamente arduo, soprattutto perché il testo saggistico condivide alcune caratteristiche sia con l’una, sia con l’altra categoria. Per spiegare questa suddivisione riporto la tabella di Osimo (2006: 26), precisando che con «scientifico» si indicano anche i testi “tecnici”.

 

poetico narrativo teatrale filmico saggistico scientifico
finzionalità non fiction
eleganza formale non eleganza formale
assenza di tecnicismi tecnicismi
uso libero della parola uso non libero della parola
non terminologia terminologia
tono non necessariamente serio (es. ironia) serietà del tono
obiettivo non necessariamente serio serietà dell’obiettivo

 

Dalla tabella si evince che il testo saggistico rappresenta un vero territorio di frontiera: il testo saggistico divulgativo ha uno stile diretto di modo che possa essere accessibile a un pubblico vasto, il testo saggistico scientifico si rivolge a un pubblico più specializzato e, per farlo, usa molti termini tecnici, tipici di un certo settore. Per «termine» intendiamo:

[…] una parola utilizzata in un contesto tecnico-settoriale con un significato preciso. Esistono contesti simili in tutti gli àmbiti specifici, specialistici. La straordinaria libertà di linguaggio che caratterizza l’espressione normale qui è assente. Nel contesto specialistico, la dominante del discorso è sempre la precisione di riferimento. Dato che il linguaggio naturale è per sua natura impreciso e polisemico e connotativo, e si presta a molteplici interpretazioni, negli àmbiti settoriali quest’ampiezza espressiva viene fortemente limitata in modo artificiale. Si stabilisce – spesso in contesti tecnici, con incontri internazionali tra tecnici di un determinato settore – la terminologia settoriale, dalla quale chiunque voglia farsi intendere con precisione non deve mai discostarsi (Osimo 2004: 83).

2.5 Tradurre Peirce in italiano

Nel testo ricorrono molto spesso i termini «Firstness», «Secondness» e «Thirdness» e derivati. Questi tre lemmi sono stati coniati da Peirce che li definisce così:

Firstness is the mode of being of that which is such as it is, positively and without reference to anything else. Secondness is the mode of being of that which is such as it is, with respect to a second but regardless of any third. Thirdness is the mode of being of that which is such as it is, in bringing a second and third into relation to each other (A Letter to Lady Welby, CP 8.328, 1904).

 

La ricerca di traducenti in italiano non sarebbe complessa, ma si è scelto di lasciare il termine in inglese, scelta peraltro condivisa anche da alcune pubblicazioni e tesi dottorali:

 

Il segno peirciano riceve una tale importanza da determinare sia lo statuto delle nostre idee («anche le idee sono segni») che il valore conoscitivo degli oggetti. Con la sua divisione basale (firstness, secondness e thirdness) riesce a gerarchizzare i segni, per esempio, a seconda delle loro determinazioni oggettive (il «simbolo» è un segno della thirdness, in cui sono inscatolate la firstness e la secondness). Dopo Peirce, nessuno può ancora negare la pertinenza filosofica del segno (Verdru 1987).

 

Massimo Bonfantini nelle Opere ha deciso di proporre una traduzione: «Primità», «Secondità», «Terzità», ho scelto però di mantenere i termini in inglese perché questi termini sono usati esclusivamente nell’ambito della semiotica peirciana, i cui specialisti sono necessariamente in grado di capire i tre termini tanto in inglese quanto in italiano. Ho inoltre preferito creare un metatesto che fosse adeguato e non accettabile.

Lo scienziato della traduzione Toury ha ben distinto questi due aspetti della traduzione. Una traduzione adeguata è una traduzione che mantiene le caratteristiche culturali del prototesto, il traduttore è un mediatore che aiuta il lettore ad avvicinarsi al prototesto, senza però modificarlo cercando di far passare il metatesto per un originale. Per illustrare meglio la differenza riporto le tabelle di Osimo (2001: 80):

 

Prototesto Cultura altrui  
Distanza cronotopica <—————– <—Senso della mediazione
Metatesto Cultura altrui nella propria

 

Una traduzione accettabile è una traduzione che adatta il prototesto alla cultura ricevente, “normalizzando” gli aspetti culturali estranei, i realia vengono o sostituiti con realia della cultura ricevente, oppure standardizzati (Osimo 2001:82).

 

Prototesto (autore) Cultura altrui  
Distanza cronotopica —————–> <—–Senso della mediazione
Metatesto (lettore) Appropriazione della cultura altrui

 

 

 2.6 Musement e amusement

L’autrice, nel testo, “gioca” con la definizione di musements di Peirce, accostandola all’idea di amusements sebbene specifichi che:

 

Mostrare l’interazione dinamica del truismo triadico di Peirce, vale a dire l’amusement (che non è l’opposto del musement)…

 

Peirce chiama il gioco delle libere associazioni mentali play of musement e lo considera un’attività disinteressata che «non richiede alcuno scopo eccetto quello di mettere da parte ogni scopo serio». Il pensiero, liberatosi da ogni compito specifico, può vagare indisturbato da interpretante a interpretante. Il musement non ha un vero e proprio scopo, però può rivelarsi molto utile ai fini della riflessione scientifica. L’interprete può quindi sentirsi libero di abbandonare i sentieri interpretativi, relativamente più sicuri, per percorrere e scoprire piste più insolite, per formulare concetti inconsueti, ipotesi improbabili, supposizioni azzardate. Solitamente, quando si mettono a confronto con l’evidenza empirica tutte queste meditazioni incontrollate, esse vengono falsificate. «Ma può anche capitare che, a forza di intrecciare segni senza un ordine preciso, ci si imbatta in un’abduzione creativa la quale, successivamente, rivelerà tutto il proprio valore euristico».

«La funzione del musement è di porre l’interprete in stato di massima apertura nella fase di ideazione delle ipotesi». Ma, come osserva Bonfantini:

 

questa procedura per l’ideazione poteva essere raccomandata, anziché giudicata eccessivamente rischiosa e dispendiosa, solo sulla base dell’assunto che fra tutte le ipotesi così liberamente prospettate se ne offrissero un buon numero di approssimativamente vere. Ora a Peirce sembrava che in questo inventivo “tirare a indovinare” spesso fosse effettivamente capitato all’uomo di indovinare giusto (Bonfantini, 1987: 72).

 

L’amusement è:

amusement

noun

1 [U] the feeling of being entertained or made to laugh:

She looked at him with amusement.

I looked on in amusement as they started to argue.

Carl came last in the race, (much) to my amusement.

I play the piano just for my own amusement (= to entertain myself not other people).

 

2 [C] an activity that you can take part in for entertainment:

There was a range of fairground amusements, including rides, stalls and competitions.

 

Per Peirce, come dice la Gorlée, l’amusement è «un’occupazione che attiva la mente per raggiungere l’eccitamento» e «non è necessariamente divertente e ilare; e nonostante sia piacevole, non è l’essenza del piacere. La sua vera ragione è l’impulso a vivere attivamente» (MS 1135: 118, [1895]1896).

 

Nella traduzione ho, quindi, scelto di mantenere il gioco di parole, tradurre amusement con: «divertimento», «passatempo», non avrebbe permesso al lettore italiano di percepire l’intento dell’autrice nel prototesto.

 

2.7 Le citazioni

L’autrice nel suo saggio fa ricorso a numerose citazioni sia da Peirce, sia da altri autori. La maggior parte dei libri da cui sono tratte non sono stati tradotti in italiano; ho quindi deciso di proporre una mia traduzione. Per quanto riguarda le citazioni da Peirce, il discorso si fa leggermente più complesso, l’unica opera in italiano sul semiotico statunitense è: Opere, a cura di M. A. Bonfantini, che raccoglie parte degli scritti di Peirce usciti come Collected Papers; poiché si tratta di una raccolta “frammentata” – nella scelta di questo aggettivo mi ispiro all’autrice del saggio che ho tradotto – non è possibile riuscire a trovare tutte le citazioni e anche in questo caso ho proposto una mia traduzione, segnalandolo, però, all’interno del testo.

Nel caso specifico della traduzione della citazione dal Paradise Lost di John Milton, a pagina 20, ho deciso di proporre una mia traduzione sebbene esista una traduzione italiana “ufficiale”.

 

‘providence, foreknowledge, will, and fate’ of the discussions are characterized by ‘fixed date, free will, foreknowledge absolute … [which] found no end in wandering mazes lost’ (Milton’s Paradise Lost, Book 2, lines 558-561, quoted from Milton 1972: 103).

“la provvidenza, la prescienza, la volontà e il fato” delle discussioni sono caratterizzate da “date fissi, libero arbitrio, prescienza assoluta … [la quale] non ha fine interrogandosi sulla perdita dei labirinti’ (Paradise Lost, di Milton, Libro 2, versi 558-561, citazione da Milton 1972: 103).

 

La parola chiave in questo testo è appunto «mazes», che è presente anche in Peirce: «Some amazing mazes» (title of CP: 4.585 and note, 1908) che si è scelto di tradurre:  «alcuni labirinti sorprendenti» (titolo di CP: 4.585 e nota, 1908); il concetto espresso dalla Gorlée è proprio quello della difficoltà di relazione tra il tutto e le parti, presenti nelle opere di Peirce. Nella traduzione italiana esistente in commercio non compare la traduzione di «mazes» come «labirinti», quindi, per non creare un residuo, la scelta è stata di privilegiare il messaggio veicolato dal prototesto.

Per quanto riguarda le citazioni di Milton presenti a pagina 92, si è scelto di mantenere la traduzione italiana esistente, in quanto non c’era nessuna “parola chiave” che fosse necessario preservare per salvaguardare il rimando intratestuale.

 

Nell’ultima frase del testo l’autrice parla di «proverbially thousand tongues»; a un primo approccio alla traduzione non mi era molto chiaro cosa intendesse nello specifico, e darne una semplice traduzione letterale non avrebbe reso comprensibile il testo. Dopo una ricerca su internet, ho scoperto che è una citazione tratta da un inno sacro scritto da Charles Wesley, un pastore metodista vissuto nel Settecento in Inghilterra, il quale durante la sua vita ha scritto più di seimila inni sacri. Con il fratello John fondarono il movimento dei Metodisti. I suoi inni sono stati spesso utilizzati negli incontri di dialogo tra chiesa romana e chiese metodiste, soprattutto per quel che riguarda i concetti teologici dell’universalità della chiesa, della vita sacramentale e della santificazione. Il verso è tratto da un suo inno apparso in Hymns and Sac­red Po­ems, raccolta di inni sacri pubblicata nel 1740:

 

O for a thousand tongues to sing My great Redeemer’s praise, The glories of my God and King, The triumphs of His grace!

 

Per il lettore italiano la citazione non è per nulla ovvia, quindi senza questa mia spiegazione metatestuale si creerebbe un residuo comunicativo, in particolare una certa perplessità davanti all’aggettivo «proverbiale». Al contrario, per il lettore anglosassone c’è meno difficoltà a capire il riferimento poiché Charles Wesley è molto noto, e da qui il significato dell’aggettivo.

 

A pagina 90 della traduzione è stato necessario aggiungere una nota che spiegasse al lettore italiano l’espressione «to join brick and mortar», quest’espressione è stata coniata dall’autrice del saggio ed è ispirata al filosofo viennese Wittgenstein, letteralmente significa: «unire mattoni e cemento». La Gorlée ne fa un uso metaforico, per brick intende il segno in quanto tale, invece il mortar è l’oggetto a esso unito.

 

 

2.8 Conclusione

Questo lavoro, per la sua complessità, ha costituito per me una vera e propria sfida. Sono state messe alla prova non solo le mie abilità traduttive in senso strettamente interlinguistico, ma anche quelle di trasposizione interculturale (tipiche soprattutto delle versioni narrative) e quelle terminologiche (tipiche soprattutto delle versioni settoriali). L’aspetto più gratificante e emozionante è stato, però, tradurre le parole di Peirce, le citazioni per cui ho proposto una mia traduzione poiché in Opere non comparivano.


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[1] Rimando a un’espressione del filosofo austriaco Wittgenstein (1889-1951), rielaborata da Dinda Gorlée, per la quale «brick»: (mattone) è il segno in quanto tale, e «mortar» (cemento) è l’oggetto, in quanto miscuglio di cemento per unire i mattoni [NdT].

[2] Citazione di un inno sacro di Charles Wesley, pastore metodista vissuto in Inghilterra, nel Settecento. [NdT]

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess Ksenia Elisseeva

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots

Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess

Ksenia Elisseeva

Université Marc Bloch
Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales Scuole Civiche di Milano
Corso di Specializzazione in Traduzione

primo supervisore: professor Bruno OSIMO
secondo supervisore: professoressa Antonella RICCIARDI

Master: Langages, Cultures et Sociétés
Mention: Langues et Interculturalité
Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence Parcours: Traduction littéraire
estate 2008

© The Johns Hopkins University Press 1977
© Ksenia Elisseeva per l’edizione italiana 2008

2

Abstract

This thesis proposes a translation of two articles by two famous Soviet semioticians, Boris Egorov and Isaak Revzin. The scientific article by Egorov regards the cartomantic reading of a person’s life as the creation of a plot in literature. Egorov’s goal is to use the cartomantic system as a rudimentary model for the analysis of literary plots. The article by Revzin pursues Saussure’s analogy between language and chess. By comparing language and chess, he seeks to show that the human intellect uses similar constructions, elements, relations of elements and rules to solve the various tasks of processing information. The second part of this thesis provides a commentary on the translation, the strategy used and the main translational problems.

3

Sommario

Abstract………………………………………………………………………………………. 3 Sommario …………………………………………………………………………………… 4 Traduzione con testo a fronte ………………………………………………………… 5

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots……………… 6 Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci……………………… 7 Language as a Sign System and the Game of Chess…………………… 34 La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi……………….. 35

References ……………………………………………………………………………….. 50 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 51 Analisi traduttologica…………………………………………………………………… 54

Fonte, autori, argomento. …………………………………………………………. 55 Egorov Boris Fedorovič ………………………………………………………… 56 Revzin Isaak Iosifovič …………………………………………………………… 57

Analisi traduttologica ……………………………………………………………….. 58 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 62

4

Traduzione con testo a fronte

5

Chapter 6

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots1.

B. F. Egorov

The exceptionally stormy development of semiotics has naturally brought with it study of the most diverse sign systems, and even cartomancy, fortune- telling with playing cards, has proven to be an object of research. M. L Lekomceva and B. A. Uspenskij’s innovative and intelligent essay has provided us with many valuable and interesting formulations (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). However, the present study does not in fact accept one of their essay’s main theses, that the system of fortune-telling «contains the potential for several interpretations» and the fortune-teller «always possesses several degrees of freedom».

In the essay mentioned, emphasis is put on studying the pragmatics of the “game” for the fortune-teller and for the person having his fortune told. “Professional” fortune-telling is definitely presupposed, in which a fortune-teller conducts a game of divining past and present with his naive victim. But in such a “game”, particularly when the victim does not look at the cards or understands nothing about them, one can speak not of several but of infinite degrees of freedom. For the “professional” fortune-teller, the cards are a pure fiction, and information is received not from the cards but from the external and internal appearance of the person having his fortune told and from his reaction to the fortune-teller’s words. Even the prediction of the future is usually not obtained from the cards: a future is constructed for the victim that is capable of achieving the most “mercenary” effect, and it is based on a study of his character.

1 This article appeared also in Russian as «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

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Capitolo 6

Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci1.

B. F. Egorov

Lo sviluppo eccezionalmente rapido della semiotica ha naturalmente favorito lo studio dei diversi sistemi segnici, e anche la cartomanzia, divinazione mediante le carte da gioco, è diventata oggetto di studio. L’articolo innovativo e brillante di M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij ci ha fornito una serie di formulazioni valide e interessanti (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). Tuttavia nel presente saggio una delle più importanti tesi espresse dagli studiosi, secondo i quali il sistema della cartomanzia «è un terreno soggetto a varie interpretazioni» e il cartomante «ha sempre parecchi gradi di libertà», viene respinta.

Gli autori dell’articolo pongono l’accento sullo studio della pragmatica del “gioco” della cartomante e di chi vi si rivolge. Viene utilizzato il metodo “professionale” di divinazione, in cui la cartomante conduce con la sua ingenua vittima il gioco volto a indovinare il passato e il futuro. Trattandosi di un “gioco”, soprattutto quando la vittima non guarda le carte o non ne capisce molto, si può dire che i gradi di libertà sono, più che parecchi, infiniti. Per la cartomante “professionale”, le carte sono oggetto di pura finzione, e le informazioni non vengono apprese dalle carte stesse ma dall’apparenza esterna e interna del cliente e dalla sua reazione alle parole della cartomante. Nemmeno la predizione del futuro avviene tramite la lettura delle carte: il futuro della vittima viene rappresentato in modo tale da poter ottenere il massimo effetto “mercenario” ed è basato sullo studio del carattere della persona interessata.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

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Such a method of fortune-telling does not belong in general to scientific study as a sign system because it is susceptible to an infinite number of degrees of freedom and accordingly to infinite probable outcomes. However, it can be of great interest for game theory and for psychologists.

On the contrary, “honest” fortune-telling, which is most prevalent inside a circle of acquaintances and in telling one’s own fortune, is as a rule a rigid system almost devoid of freedom of choice. In this system, each card has one unique meaning that can vary only in strictly stipulated, isolated instances; various nuances of meaning are created only in the context of the entire distribution of cards, as is discussed below. Obviously such a system is elaborated during a centuries-long developmental process in which the most significant and diverse actions and consequences are selected, and in this form it attracts our attention as a system of plots.

I shall take as my example one of the systems of fortune-telling which is widespread in Petersburg-Leningrad1. This system is only one variant of Russian methods of fortune-telling; of course fortune-telling as a “serious” attribute of everyday Iife is now almost extinct in our country, and has been preserved mainly as an amusement.

Depending on the person whose fortune is being told, an appropriate face card is chosen from among the cards; in this system, kings and queens are the only face cards used. In personal, direct fortune-telling, the queen of spades naturally loses validity for ethical reasons, but in indirect, impersonal fortune- telling, it is theoretically possible to utilize the queen of spades, especially if the fortune-teller has grounds for thinking that a woman is a “villainess”.

1 There are a great many systems of cartomancy, and the literature describing the various methods is extremely extensive. We shall mention only a few books in the Russian language: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Moscow, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Moscow, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

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Tale metodo di divinazione non può essere considerato un sistema segnico e di conseguenza un oggetto di studio scientifico poiché suscettibile a un numero infinito di gradi di libertà e quindi di esiti possibili, ma può essere interessante per la teoria del gioco e la psicologia.

Al contrario, la cartomanzia “onesta”, quella praticata tra persone che si conoscono, e l’auto-cartomanzia, di norma costituiscono un sistema rigido, quasi privo di ogni libertà di scelta. In questo sistema, ogni carta ha un unico significato che può variare solo in casi isolati, rigorosamente specificati; le varie sfumature di significato sono create nel contesto della completa distribuzione delle carte. Questo caso verrà esaminato successivamente. Questo sistema ha evidentemente subìto nei secoli un lungo processo evolutivo nel quale sono state selezionate diverse azioni e conseguenze significative. Concentreremo la nostra attenzione su questa forma del sistema in quanto sistema di intrecci.

In qualità di esempio analizzerò uno dei sistemi di divinazione diffuso a Pietroburgo-Leningrado1, uno dei tanti metodi di cartomanzia usati in Russia. La cartomanzia, intesa come attributo “serio” della vita di ogni giorno, nel nostro paese si è quasi estinta; è sopravvissuta intesa meramente come gioco.

A seconda dell’oggetto di divinazione [di cui viene predetto il futuro; N.d.T.] dalle carte figure ne viene scelta una appropriata; nel sistema in questione vengono usate solo le figure del re [K] e della donna [Q]. Nella divinazione personale, diretta, la donna di picche [Q♠] viene esclusa per motivi etici; mentre nella divinazione indiretta, impersonale, soprattutto se il soggetto di divinazione [la persona che interessa all’oggetto o, nel caso dell’autocartomanzia, la persona che la cartomante ha in mente; N.d.T.] è una donna considerata “malvagia”, può essere scelta la donna di picche.

1 Vi sono svariati sistemi cartomantici e la letteratura che descrive i vari metodi è estremamente vasta. Accenniamo solo ad alcuni dei libri in lingua russa sull’argomento: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Mosca, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Mosca, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

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The following table lists the meanings of the face cards and of the predicate cards that denote a state or action. A deck of thirty-six cards is used in the fortune-telling.

10

Nella tabella riportata di séguito vengono elencati i significati delle carte figure e delle carte predicato, cioè quelle di stato e di azione. [Nella tabella e in tutto il saggio i nomi delle carte verranno abbreviati secondo il sistema usuale: A♣ – asso di fiori, K♠ – re di picche, Q♥ – donna di cuori, J♦ – fante di quadri, 10♣ – 10 di fiori e così via; N.d.T.]. In questo sistema di divinazione si usa il mazzo contenente trentasei carte.

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Suit Denomination

Clubs ♣

Spades ♠

Hearts ♥

Diamonds ♦

Ace (A)

bank (+ K♣ + Q♣ – their house)

blow (+ K♠ + Q♠ – their house)

family house (+ K♥ + Q♥ – their house)

receipt of a letter

King (K)

“financial” (employee, elderly man or widower)

soldier

married man, not old

unmarried person

Queen (Q)

elderly lady or widow (+ K♣ – his lady)

villainess (+ K♠ – his lady)

married woman, not old (+ K♥ – his lady)

girl

Jack (J)

troubles in connection with the bank (+ K♣ + Q♣ – their troubles)

unpleasant, unjust troubles (+ K♠ – his troubles)

domestic troubles (+ K♥ + Q♥ – their troubles)

pleasant, amusing troubles

10

great change

unpleasantness, illness (+ K♠ – interest toward the person)

domestic card

large amount of money

9

change (+ 10♣ – very great change; + K♣ + Q♣ – affectionate attitude toward the person)

unpleasantness, illness (+ 10♠ – very bad; + K♠ + Q♠ – affectionate attitude towards the person; + Q♠ – villainous intent)

domestic love (+ K♥ + Q♥ – their love for someone)

small amount of money (+ 10♦ – very large amount of money)

8

financial conversation

unpleasant conversation (+ K♠ – conversation with him)

domestic conversation

cheerful conversation

7

financial meeting

late meeting (+ K♠ – meeting with him)

quick meeting

cheerful meeting

6

financial journey

long journey

short journey

early, pleasant journey

12

Seme Valore

Fiori ♣

Picche ♠

Cuori ♥

Quadri ♦

Asso (A)

edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro casa)

colpo (+ K♠ e Q♠ – loro casa)

casa (+ K♥ e Q♥ – loro casa)

recapito di una lettera

Re (K)

uomo (impiegato) “pubblico”, anziano o vedovo

soldato

uomo sposato, non anziano

uomo celibe

Donna (Q)

donna anziana o vedova (+ K♣ – sua donna)

donna malvagia (+ K♠ – sua donna)

donna sposata, non anziana (+ K♥ – sua donna)

donna nubile

Fante (J)

faccende legate a un edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro faccende private)

faccende inutili (spiacevoli) (+ K♠ – sue faccende private)

faccende famigliari (+ K♥ e Q♥ – loro faccende private)

faccende divertenti

10

grande cambiamento

dispiacere, malattia (+ K♠ – interesse per il soggetto)

carta di famiglia

molto denaro

9

cambiamento (+ 10♣ – grande cambiamento; + K♣ e Q♣ – relazione sentimentale con il soggetto)

dispiacere, malattia (+ 10♠ – molto grave; + K♠ e Q♠ – relazione sentimentale con il soggetto; + Q♠ – cattive intenzioni)

affetto tra membri della famiglia (+ K♥ e Q♥ – loro amore per qualcuno)

poco denaro (+ 10♦ – moltissimo denaro)

8

conversazione formale

conversazione spiacevole (+ K♠ – conversazione con lui)

conversazione in famiglia

conversazione divertente

7

incontro formale

incontro successivo (+ K♠ – appuntamento con lui)

incontro imminente

incontro divertente

6

viaggio per scopi non personali

viaggio lontano

viaggio non lontano

viaggio di piacere a breve

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It is evident that as a rule the majority of cards have a single meaning. Only in particular cases do some cards acquire special meanings or nuances, and here context begins to play an essential role.

Cartomancy proceeds in the following manner. Pairs of cards are drawn consecutively from the deck until the card appears that is the basis for the fortune-telling and constitutes the person’s card. The card paired to it is “next to” and “close to” the person. The person’s card (1) is placed in the center, the rest of the cards are gathered into the deck again and reshuffled, and then the cards are laid down. We shall omit the details of laying out the cards as essentially unimportant and shall describe only the result of the distribution. Two cards (2, 3), and then four more (4-7), are placed on the person’s card; they are what the person has “on his heart”. The other cards are arranged in eight groups around the center in the following way:

16, 17 1 18, 19

Nine cards obviously remain outside the distribution; they are discarded and do not take part in the fortune-telling. Cards 8-15 describe the person’s past (“what was”), cards 16-19 describe the present (“what is”), and cards 20-27 describe the future (“what will be”).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

14

13, 14 15

È evidente che di norma la maggioranza delle carte ha un solo significato. Solo in casi particolari alcune carte acquisiscono un significato o una sfumatura speciale e il contesto comincia a esercitare un ruolo fondamentale.

La cartomanzia avviene nel modo seguente. Coppie di carte vengono consecutivamente estratte dal mazzo fino quando esce la carta che rappresenta l’oggetto di divinazione. La carta-compagna indica quello che è «accanto» o «vicino» alla persona. La carta dell’oggetto (1) vene collocata al centro, le carte rimanenti vengono di nuovo raccolte nel mazzo, mescolate e distribuite. Ometteremo i dettagli della distribuzione in quanto privi d’importanza essenziale e descriveremo solo i risultati. Due carte (2, 3) e dopo altre quattro (4-7) vengono collocate sopra la carta dell’oggetto e rappresentano quello che l’oggetto «ha nel cuore». Le altre carte vengono collocate in otto gruppi attorno alla carta centrale come segue:

16, 17 1 18, 19

È evidente che nove carte restano escluse dalla distribuzione; queste carte vengono scartate e non partecipano alla divinazione. Le carte 8-15 caratterizzano il passato dell’oggetto («quel che c’era»), le carte 16-19 – il presente («quel che c’è»), le 20-27 – il futuro («quel che ci sarà»).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

15

13, 14 15

“Reading” the cards takes place in this sequence: initially the cards that the person has “on his heart” are read (at first 2-3, then 4-7), then come “what was”, “what is”, and “what will be”. The order of the cards within a group can be significant for all groups except the center. The positions of the cards in relation to the center, the person, are important because reading takes place from the center to the periphery in a sequence such as 1-17-16 or 1-(13, 14)-15. The person “acquires” the last card by and through the intermediate card or cards. For example, if card 16 stands for the journey and card 17 is an individual, then the person whose fortune is being told turns out to be on a journey because of this individual; if, on the contrary, 16 is an individual and 17 is the journey, then this individual will come on a journey to the person whose fortune is being told. Clearly the sentences, “a meeting due to money” and “money due to a meeting”, have different meanings. In short, the syntax in reading all eight peripheral groups requires a “direct” order of words from the center to the last card and does not permit inversion. The order of the cards is neutral only in isolated cases; for example, 9♣ + K♣ + Q♣ signify an affectionate attitude toward the person whether they are in extreme or middle position. As a result, a structure is created in which the sum, so to speak, of simple elements generates a complex whole whose overall meaning is changed substantially by varying correlations of elements.

After the reading of the entire distribution of cards comes the divination of “what remains to the person”, what the final result of this or another period of the person’s life will be. It is also possible to make subsequent distributions of the cards on themes such as “what will soothe”, “for you”, “for the home”, and “for the heart”. Only very primitive sentences are created by these divinations, which are limited in number to between three and nine cards, together with the predivination that determines the person’s card by the paired card “next to” it. Therefore we can omit them from consideration without detriment, and henceforth shall only consider the basic distribution of cards.

Reading this distribution generates an entire “history” of the person’s life and thus creates a plot. There are an extraordinarily great, though finite, number of plots.

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La “lettura” delle carte avviene come segue: prima di tutto si leggono le carte «nel cuore» dell’oggetto (prima le 2-3, dopo le 4-7), poi «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà». L’ordine delle carte all’interno di ogni raggruppamento può essere significativo per tutti i gruppi a accezione di quello centrale. È fondamentale il posizionamento delle carte rispetto al centro, l’oggetto; la lettura avviene partendo dal centro verso la periferia, cioè in questo ordine: 1→17→16 oppure 1→(13, 14)→15. L’oggetto “acquisisce” la carta esterna tramite la/e carta/e intermedia/e e grazie a esse. Se, per esempio, la carta 16 significa «viaggio» mentre la 17 è una figura, l’oggetto farà a breve un viaggio grazie all’individuo rappresentato dalla figura 17; se invece 16 sta per un individuo e 17 è un viaggio, l’individuo 16 sta per arrivare da lontano verso l’oggetto. È chiara la differenza tra le affermazioni «incontro a causa di denaro» e «denaro a causa di incontro». In breve, la sintassi nella lettura di tutti gli otto gruppi periferici richiede l’ordine “diretto” delle parole, dal centro alla carta esterna, e non ammette inversioni. L’ordine delle carte è neutro solo in casi isolati; per esempio, 9♣ accanto a K♣ e Q♣ sia nella posizione laterale che in quella centrale significa «relazione sentimentale con il soggetto». In séguito si crea una struttura nella quale la somma degli elementi, supponiamo, semplici genera un insieme complesso il cui senso generale cambia notevolmente variando le correlazioni tra gli elementi.

Alla lettura dell’intera distribuzione delle carte segue la divinazione di «quel che resta» all’oggetto, di quale risultato finale del periodo di vita attuale o immaginato lo attende. Sono inoltre possibili le successive distribuzioni delle carte sul tema «quel che conforterà», «per te» [per l’oggetto], «per la casa» [per la famiglia], «per il cuore». Siccome in questi tipi di divinazione, e anche nella fase iniziale in cui dalla carta-compagna della carta dell’oggetto si predice «quel che è accanto», si usa un numero limitato di carte (da 3 a 9) e vengono generate delle frasi primitive, le si può considerare meno rilevanti per la nostra ricerca, quindi ci occuperemo prevalentemente della distribuzione principale.

La lettura di questa distribuzione ci porta a conoscere l’intera “storia” dell’oggetto creando un intreccio. Il numero degli intrecci è estremamente alto, ma finito.

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Even if we disregard the variants generated by the order of the cards within the group and consider only the possibility that cards in the deck have of being the person’s card, or of being in groups like “on the heart”, “what was”, “what is”, or “what will be”, then according to the formula of combinations the number of plots will be equal to 12•1022. Taking into account all the variants arising from diverse arrangements or permutations of cards within each of the peripheral groups, this number must be multiplied yet another one hundred times and becomes twelve septillions or 12•1024. If the three billion inhabitants of the terrestrial globe were each to make a new distribution of cards every minute, they would exhaust all the variants after ten billion years of uninterrupted labor; but it is calculated that the solar system will only last approximately another eight billion years, and certainly people will find themselves more interesting and important pursuits during this period.

Moreover, the enormous number of plots are created by thirty-six cards, a very limited set of signs. Hence arises one of the cardinal questions of the theory of plots, that of the “primary element”. On the basis of the material of folklore and of ancient and medieval literature, the academician A. N. Veselovskij suggested that the primary plot element is the motif, «the simplest narrative unit which responds figuratively to the diverse inquiries of the primitive mind or of everyday observation» (Veselovskij 1940: 500). An eclipse of the sun and abduction of a girl are typical motifs. V. Â. Propp later set himself the goal of creating a complete list of motifs of fairy tales by analyzing one hundred plots from Afanas’ev’s collection of tales. He defined his primary elements more exactly as functions and obtained thirty-one such functions, including “a member of the family leaves home”, “a ban is imposed on the hero”, “a ban is broken”, and so on (Propp, 1968: 25-65). It seems that functions can be divided into even smaller units such as “hero”, “departure”, “ban”, “antagonist”, “deception”, and “struggle”, which would turn out to be at least half as few functions as thirty-one. But the fact remains that such units do not aid us at all in understanding the essence of the fairy tale, for they cannot be freely correlated with each other: to wit,

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Anche se ignoriamo le varianti originate dall’ordine delle carte all’interno del gruppo e consideriamo solo la possibilità che ogni carta del mazzo ha di diventare la carta dell’oggetto, la carta del gruppo «nel cuore», «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà», secondo il calcolo combinatorio il numero degli intrecci è approssimativamente pari a 12•1022. Calcolando tutte le varianti derivanti dalla diversa disposizione o permutazione degli elementi all’interno di ogni gruppo periferico, questo numero va ulteriormente moltiplicato per 100 e diventa dodici settime potenze di un milione, cioè 12•1024. Se ognuno dei tre miliardi di abitanti del globo terrestre facesse una nuova distribuzione ogni minuto, si esaurirebbero tutte le varianti in dieci miliardi di anni di lavoro ininterrotto; è stato calcolato però che il sistema solare durerà solo altri otto miliardi di anni e le persone, sicuramente, nel frattempo troveranno di meglio da fare.

Inoltre, questo grande numero di intrecci è creato da sole trentasei carte, un numero molto limitato di segni. Da qui deriva una delle questioni cardinali dell’intrecciologia, quella dell’“elemento primario”. Sulla base del materiale folcloristico e della letteratura antica e medievale, l’accademico A. N. Veselovskij ha supposto che l’elemento primario dell’intreccio sia il motivo, «la più elementare unità narrativa che risponde figurativamente a diverse indagini della mente primitiva o delle osservazioni quotidiane» (Veselovskij 1940: 500). Alcuni dei motivi tipici sono l’eclissi solare e il rapimento della fanciulla. Successivamente V. Â. Propp si era posto l’obiettivo di completare un elenco dei motivi della fiaba attraverso l’analisi di cento intrecci dalla raccolta di fiabe di Afanas’ev. Per essere precisi, ha definito i suoi elementi primari come «funzioni» e ne ha individuate trentuno tra cui: «un membro della famiglia va via di casa», «all’eroe viene posto un divieto», «un divieto viene violato» e così via (Propp, 1968: 25-65). Le funzioni potrebbero essere suddivise ulteriormente in unità ancora più piccole, come «eroe», «partenza», «divieto», «antagonista», «inganno», «lotta» e diventare perciò la metà del numero proposto da Afanas’ev, ma queste unità non facilitano affatto la comprensione dell’essenza della fiaba poiché non possono essere liberamente correlate tra loro, vale a dire:

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the ban is imposed on the hero, and not on the antagonist or donor; the antagonist is precisely the one who is properly punished (the thirtieth function) and not the hero or his helper. Syncretic thought operated by using integral segments that themselves represented short plots and that passed undivided from tale to tale, and therefore further differentiation of Propp’s functions would be senseless.

The increasing complication of life and the emergence of an elemental dialectics in thought led to a more flexible and free correlation in the artist’s consciousness between the separate elements of a function, as well as to the appearance of many completely new elements and functions. It would be very valuable to analyze the process of disassociation of motif-functions into more minute units and the emergence of new motif-functions as it takes place over the course of many centuries; for instance, the plot of Puškin’s Ruslan i Lûdmila could be compared, by using Propp’s method, with traditional fairy tale plots. A characteristic feature of modern literature is the disassociation of motifs into their component parts or submotifs, which enter into free interactions with each other as subjects and predicates. Growth in the number of elements increases proportionally to the number of ties between them, which in turn complicates the structure as a whole. Therefore, attempts to reduce all the diversity of world dramaturgy to three dozen or so plots are naïve (see Polty 1895).

Although the origin of cartomancy dates from extreme antiquity, contemporary cartomantic systems are the fruit of a new era. In them, each card is not a motif or “little plot”, but an element that only generates a plot in conjunction with other elements. In turn, each element or card cannot be divided further, and all thirty-six cards are indivisible elements. It is very difficult to classify these elements without taking into consideration the common division into subjects (face cards) and predicates (actions or states). No hierarchy based on suit or denomination, aesthetic or ethical categories, can be observed in our system. The feebly outlined opposition in face cards between the sexes, and the contrast in suits between old and young, married and unmarried, is entirely absent in predicates. Predicates can be conventionally grouped in twelve categories,

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il divieto è posto all’eroe e non all’antagonista o al donatore; è l’antagonista che viene punito a dovere (la trentesima funzione), non l’eroe o il suo aiutante. Il pensiero sincretico ha agito attraverso segmenti interi che di per sé rappresentavano intrecci brevi che passavano intatti di fiaba in fiaba; di conseguenza un’ulteriore suddivisione delle funzioni di Propp non avrebbe senso.

Le condizioni di vita in peggioramento e la nascita della dialettica spontanea nel pensiero hanno portato a una correlazione più flessibile e libera nella coscienza dell’artista tra i vari elementi di una funzione e inoltre hanno portato alla comparsa di molti elementi e funzioni completamente nuovi. Sarebbe molto utile analizzare il processo di disintegrazione di motivi-funzioni in unità più piccole e la comparsa di elementi nuovi che avviene nel corso di molti secoli; per esempio l’intreccio di Ruslan i Lûdmila di Puškin può essere paragonato, secondo il metodo di Propp, agli intrecci tradizionali della fiaba. Un aspetto caratteristico della letteratura moderna è la disintegrazione dei motivi nelle parti integranti, sottomotivi o soggetti e predicati che entrano in relazioni libere tra loro. La crescita del numero degli elementi aumenta proporzionalmente al numero dei legami tra loro, e questo a sua volta complica la struttura in generale. Sono perciò ingenui i tentativi di limitare tutta la diversità della drammaturgia mondiale a una trentina di intrecci (si veda Polty 1895).

Nonostante le origini della cartomanzia risalgano alla più remota antichità, i sistemi cartomantici contemporanei sono frutto di una nuova epoca. Ogni carta qui non è un motivo o un “piccolo intreccio”, ma un elemento che genera un intreccio se collegato ad altri elementi. Ogni elemento o carta a sua volta non può essere divisa ulteriormente; tutte le trentasei carte sono perciò elementi indivisibili. È molto difficile classificare questi elementi senza prendere in considerazione la suddivisione comune in soggetti (carte figure) e predicati (azioni o stati). Nel nostro sistema è assente ogni suddivisione in base a semi e valori, categorie etiche ed estetiche. La contraddizione poco evidente, nelle carte figure, tra sessi, e il contrasto nei semi tra anziano e giovane, sposato e non sposato è del tutto assente nei predicati. I predicati possono essere formalmente raggruppati in dodici categorie

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and many denominations have a common type of meaning for all or some suits:

1. change;
2. troubles;
3. illness;
4. receiptofmoney; 5. love;

6. family;
7. conversation;
8. meeting;
9. journey;
10. blow;
11.receipt of a letter; 12.sojourn in some house.

These twelve groups of predicates acquire a more specific meaning in context; some groups, at least two, seven, eight, and nine, are four variants of the same meaning. Almost all meanings in group classification are ethically and aesthetically neutral. Figure cards remain neutral as a rule even in the substitution of suits; Q♠ is an exception, but only in the absence of her cavalier, since the auxiliary status of K♠ frees Q♠ from any condemnation or even ethical suspicion. The groups of predicates one, two, six, seven, eight, nine, eleven, and twelve are neutral in themselves. Only four and five convey a clearly positive meaning, while three and ten are negative; due to their uniqueness, as a rule these groups include only one card, or more rarely two cards. Predicates of the majority of groups are evaluated only when their suit and value are specified, as in unpleasant troubles (J♠), amusing troubles (J♦), unpleasant conversation (8♠), cheerful conversation (8♦). It turns out that the second part of a card’s conventional meaning, its value or denomination, designates, as it were, the state or action itself, while the first part, its suit, introduces something qualitative, evaluative, or attributive.

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e molti valori hanno lo stesso significato per tutti i semi o per alcuni:

1. cambiamento,
2. faccende,
3. malattia,
4. riscossionedidenaro, 5. amore,

6. famiglia,
7. conversazione,
8. incontro,
9. viaggio,
10. colpo,
11.recapito di una lettera, 12.permanenza in un edificio.

Questi dodici gruppi di predicati acquisiscono un significato più specifico nel contesto; alcuni gruppi – il secondo, il settimo, l’ottavo e il nono – sono le quattro varianti dello stesso significato. Quasi tutti i significati nella classificazione di gruppo sono eticamente ed esteticamente neutrali. Normalmente le carte figure restano neutrali nonostante il significato generale del seme: la donna di picche ne è l’eccezione solo quando il suo “cavaliere” è assente dato che la posizione “ufficiale” di K♠ libera Q♠ da qualsiasi condanna o sospetto di carattere etico. I gruppi dei predicati uno, due, sei, sette, otto, nove, undici e dodici sono neutri. Soltanto il quattro e il cinque esprimono un significato chiaramente positivo, mentre il tre e il dieci sono negativi; e proprio grazie alla loro unicità questi gruppi comprendono di solito solo una o al massimo due carte. I predicati della maggioranza dei gruppi diventano positivi o negativi a seconda del seme e del valore: faccende spiacevoli (J♠), faccende divertenti (J♦), conversazione spiacevole (8♠), conversazione divertente (8♦). Risulta che la prima parte della denominazione convenzionale della carta – il suo valore – significa lo stato, l’azione, invece la seconda parte – il seme – introduce una caratteristica qualitativa, valutativa o attributiva.

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However, it is significant that a number of predicates do not specify a precise meaning even with substitution of suit and value; a long journey or financial meeting tell us nothing or almost nothing by themselves. This pertains particularly to 10♣ and 9♣, which constitute group one of predicates. “Change” is such a broad term that in fact it embraces all the other groups of predicates, any of which introduces change into the person’s life. It would surely be tempting to adopt an order of reading that passes from the less informative to the more informative cards, for instance from 10♣ to A♠ or 9♦1, but in our system the amount of information conveyed by a card does not influence the order of reading. Possibly, therefore, “change” should not be considered as including all the other signs of the system, but rather all the rest of the possible predicates not contained in the table of meanings. Strictly speaking, it is impossible to measure abstractly a relative amount of information or even to establish a hierarchical scale, since the informational meaning of a card can increase considerably in any specific context; and moreover, the person whose fortune is being told, whether a listener or viewer of the process of distribution and reading, could experience various subjective reactions to any card. For a certain person, a card that in context is more informative may prove to be far less quantitatively and qualitatively informative than a supposedly rather uninformative card, and vice versa. As in perceiving a work of art, subjective associations cannot be avoided, and therefore several, if not an infinitely great number, of referential variants can correspond to the sign’s meaning. But also as in art, there exists none the less an objective system of rudimentary symbols that can be transcribed by “formulae” (the cards’ conventional signs), by distribution in a quadrant, or more conveniently,

1 For example, this is how M. I. Lekomceva and B. A. Uspenskij describe the system known to them, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

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Tuttavia è significativo che alcuni predicati non specifichino né generalizzino il significato neanche nel caso della sostituzione del seme o del valore; un viaggio lontano o un incontro formale di per sé non ci dicono niente o quasi niente. Questo riguarda in particolar modo 10♣ e 9♣, facenti parte del primo gruppo di predicati. «Cambiamento» è un termine talmente vasto che in effetti comprende tutti gli altri gruppi di predicati, ognuno dei quali introduce un cambiamento nella vita dell’oggetto. Sarebbe sicuramente stato allettante adottare un ordine di lettura tale da analizzare le carte meno informative prima di quelle più informative, partendo per esempio da 10♣ per arrivare a A♠ o 9♦1, ma nel nostro sistema di divinazione la quantità d’informazioni contenute in una carta non influisce sull’ordine di lettura. È probabilmente per questo motivo che la categoria «cambiamento» non va considerata un contenitore di tutti gli altri segni del sistema, ma piuttosto tutti gli altri possibili predicati vanno esclusi dalla tabella dei significati. A rigor di termini, è impossibile misurare in modo astratto una quantità relativa di informazioni o anche stabilire una scala gerarchica, poiché il significato informativo di una carta può diventare considerevolmente più intenso in un contesto specifico; e inoltre l’oggetto di divinazione, essendo un ascoltatore o uno spettatore del processo di distribuzione e di lettura, può sperimentare diverse reazioni soggettive a qualunque carta. Una carta più informativa nel contesto può risultare per una persona quantitativamente e qualitativamente molto meno informativa di quanto non lo sia una carta presumibilmente poco informativa e viceversa. Così come nella percezione di un’opera d’arte una persona non può evitare associazioni soggettive, così al significato di un segno possono corrispondere diversi, se non innumerevoli, varianti referenziali. Tuttavia, esattamente come nell’arte, esiste un sistema oggettivo di simboli univoci che può essere trascritto da “formule” (denominazioni convenzionali delle carte) o attraverso la distribuzione in un quadrante o, più comodamente,

1 Per esempio, è così che M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij descrivono un sistema che gli è noto, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

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by an “unraveled” line that retains the order of reading cards by groups and arranges the cards within each group in the order in which they should be read. Here, for example, is the transcription of a distribution, showing the card of the person whose fortune is being told (Q♥) and separating the groups within each temporal stratum with semicolons: Q♥, on her heart 7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦, what was K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣, what is A♣, K♦; 9♥, K♥, what will be 7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠.

Thus we can describe the plot of cartomancy conventionally and unambiguously, as with a game of chess, so that any reader can interpret its factual and emotional details. It is far more difficult to analyze the plots of works of art. A writer writes down a complete text by drawing upon the enormous reservoir of poetic vocabulary and saturates it with his ideas, emotions, and associations. The subsequent inclusion of the reader’s subjectivity is wholly natural and analogous, though also more complex, to reading the distribution of the cards. Here “formulization” does not entail a simple ruling of a table into four suits by nine denominations, with inscription of the corresponding meanings of the cards, but rather an extremely difficult examination of how to elaborate the very principles of classification. Some principles will be needed by the researcher interested in plot syntax, plot grammar, and the dialectics of correlating plot elements; other principles will be needed by the historian of plots. Special scales must be created in each instance, and we literary scholars unfortunately do not yet possess a “Mendeleev’s table” of plots. The necessity of creating such tables during the next few years hardly needs to be demonstrated1.

1 True, there are still opponents of typology in literary scholarship in general who say that it destroys the specificity and unique individuality of artwork and writer. For some reason they do not protest against the classification, let us say, of characters in psychology or of types in anthropology. In those cases, systematics obviously does not suppress the distinctiveness of individuals. But why then is it contraindicated in literary scholarship?

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in forma “dettagliata”, in una linea che mantiene l’ordine di lettura delle carte per gruppi e dispone le carte all’interno di ogni gruppo secondo l’ordine in cui vanno lette. Qui di seguito, per esempio, è riportata la trascrizione di una distribuzione in cui gli strati temporali vengono contrassegnati e divisi da parentesi di diversa forma: «nel cuore» – {}, «quel che c’era» – <>, «quel che c’è» – [], «quel che ci sarà» – (). I gruppi all’interno di ogni stato possono essere separati da punto e virgola. La carta dell’oggetto verrà contrassegnata dal corsivo. La trascrizione risulta quindi: Q♥ {7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦}, <K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣>, [A♣, K♦; 9♥, K♥], (7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠).

È quindi possibile descrivere l’intreccio della cartomanzia in modo convenzionale e univoco, come nel gioco degli scacchi, in modo che ogni lettore possa interpretare i suoi dettagli fattuali ed emotivi. È molto più difficile invece analizzare gli intrecci di un’opera letteraria. Il processo di stesura dell’opera richiede l’uso del vasto vocabolario poetico e contiene idee, emozioni e associazioni dell’autore. Vi si aggiunge naturalmente l’interpretazione soggettiva del lettore, in un modo analogo alla lettura delle carte, ma assai più complesso. Qui la “formulizzazione” non si limita a tracciare una tabella con quattro colonne per i semi e nove per i valori e a compilarla con i corrispettivi significati delle carte, ma consiste piuttosto in uno studio estremamente difficile per elaborare i princìpi stessi di classificazione. Un ricercatore interessato alla sintassi, alla grammatica dell’intreccio, alla dialettica delle relazioni tra gli elementi dell’intreccio, usa princìpi diversi da quelli applicati da, supponiamo, uno storico dell’intrecciologia. In ogni caso sarà necessario creare una tabella diversa. Noi studiosi di narratologia purtroppo non disponiamo ancora di una “tavola periodica di Mendeleev” degli intrecci. Il fatto che simili tabelle dovranno essere create nei prossimi anni è indubbio1.

1 È vero che esistono ancora critici di tipologia generale nella narratologia secondo i quali la tipologia distrugge la specificità e l’individualità irripetibile di un’opera d’arte o di uno scrittore. Per una strana ragione non protestano contro la classificazione, diciamo, di caratteri in psicologia o di tipi in antropologia. In quei casi la sistematica, evidentemente, non reprime la particolarità degli individui. Ma per quale ragione allora è controindicata per la narratologia?

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Comparative study of literatures, epochs, writers, and schools is greatly impeded by the lag in plot analysis, and plot theory remains in a petrified state although there is more than sufficient preliminary material. Researchers of literary plots could already be profiting from the services of contemporary computers1, but they cannot do so until a rigorous and exact system of classification is elaborated.

Plot analysts can be aided by plot systems already in existence, such as the cartomantic system that we have examined. Except for simple systems like the detective story (see Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), the literary scholar does not treat two or three dimensions like the fortune-teller’s suit, denomination, and time group, and thus we must create multidimensional tables. But the main dimensions of the cartomantic system enter into literary scholarship as a particular case. Denomination, conventionally speaking, remains a principal dimension for the literary scholar and fabulist, and includes persons, actions, and states as well as the grouping of topics and concepts. Suit is analogous to a plot-table of distinctive traits and evaluations that are ethical-aesthetic and qualitative. This series is particularly important so that we can transmit in our formulae evaluations by the author of the events and characters he has depicted. Scales of time and space are also possible. In the cartomantic system, the majority of “circumstantial” categories of place, cause, and effect, are expressed by the predicates themselves; in literary scholarship, they can be included in the scales of actions and states, or of topics and concepts, by adding categories such as time and purpose.

To be sure, a limited set of signs threatens to impoverish the diversity of plot connections and meanings, and hence our task is to discover units that would reflect in totality all the essential features necessary for this research. Even the most detailed plot formula

1 The broad dissemination of teaching and examining machines during the next few years will render the problem of the “formulization” of plots even more acutely urgent.

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Lo studio comparato di letterature, epoche, scrittori e correnti è fortemente ostacolato dall’arretratezza dell’intrecciologia; la teoria dell’intreccio si trova in uno stato pietrificato nonostante il materiale preliminare sia più che sufficiente. Gli studiosi degli intrecci narrativi avrebbero già potuto servirsi dei computer contemporanei1, ma questo non sarà possibile finché non sarà elaborato un sistema rigido ed esatto di classificazione.

D’aiuto agli intrecciologi può essere il sistema degli intrecci esistente, in particolar modo il sistema di cartomanzia che abbiamo analizzato nel presente saggio. A eccezione dei sistemi semplici, come quello di un giallo (si veda Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), il narratologo non si accontenta di due o tre dimensioni come il seme, il valore, e il gruppo temporale nel presente sistema di divinazione, ma necessita di una tabella pluridimensionale. Ma le principali dimensioni del sistema cartomantico fanno parte di questa tabella come caso particolare. Il valore resta la dimensione principale per il narratologo-fiabista e comprende oltre alle figure e alle azioni-stati la categoria di cose e concetti-idee. Nella tabella degli intrecci, al posto della categoria dei semi, compare la categoria del tratto distintivo e della valutazione, ossia la categoria etico-estetica e qualitativa. Questi criteri sono fondamentali soprattutto per trasmettere con le nostre formule la valutazione che l’autore dell’opera attribuisce agli eventi e ai personaggi. Sono possibili anche i criteri del tempo e dello spazio. Nel sistema della cartomanzia la maggior parte delle categorie “circostanziali” di luogo, causa ed effetto sono espresse dai predicati stessi; e possono far parte delle categorie di stati-azioni o cose-concetti insieme alle categorie di tempo e scopo.

È chiaro che una sequenza limitata di segni rischia di impoverire la diversità dei legami e dei significati dell’intreccio, ed è proprio questa la difficoltà: trovare unità capaci di riflettere nella sua totalità tutti gli aspetti essenziali per questo studio. Persino la formula dell’intreccio più dettagliata non

1 La grande diffusione di macchine-insegnanti e macchine-esaminatori dei prossimi anni renderà ancora più attuale il problema della “formulizzazione” degli intrecci.

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can certainly never take the place of the text itself in its entirety as a work of art, just as no opus of literary scholarship can become a substitute for the object being examined. When the necessary methods of “segmentation” have been elaborated, a reliable system of classification will be created rapidly by means of dichotomies and antinomies.

Twentieth-century literature, which is exceptionally allusive, associative, and often both metaphorical and metonymical, makes ciphering very complex. Metaphors and metonyms do not in themselves create insuperable difficulties, for what is implied can be given in brackets or as a denominator or denominators. It is immeasurably more difficult to show with formulae the meaning of an entire, complex system in which the terms receive a somewhat or totally new meaning not according to the ordinary rules known to the reader (as when Q♠ acquires various meanings in different contexts) but according to some utterly peculiar movements of authorial thought. The new meaning in such a system does not arise automatically from the context, but requires special designation and can consist either of an addition to the sum of existing terms or of a partial or total replacement of existing terms by something new. The problem of how complex structures arise from simple elements is of special interest to the analyst of plot grammar, who must create special signs to describe the different modes of interrelation between the elements, by using L. Hjelmslev’s linguistic “algebra”, for instance (Hjelmslev 1960: 264-389).

Many questions remain to be resolved. The researcher encounters extraordinary difficulty in attempting to reflect extratextual connections with the text in formulization of poetic plots. The problem of the detail and criteria of proportion for ciphering the plot in each specific research method must be considered attentively, along with a dozen great and small problems that are the urgent tasks of the immediate future. In conclusion, we must point out to those who would discredit our approach that formalization in general, the mathematization of literary processes for the purpose of more exact, conclusive analysis, has nothing in common with

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potrà mai sostituire il testo nel complesso in quanto opera d’arte, così come nessuna opera letteraria potrà sostituire l’oggetto dello studio. Nel momento in cui verranno elaborati i necessari metodi di “segmentazione”, verrà creato rapidamente un sistema compatto di classificazione tramite dicotomia e antinomia.

La letteratura del Novecento, straordinariamente allusiva, associativa e spesso sia metaforica che metonimica, rende la cifratura molto complessa. Metafore e metonimie di per sé non creano difficoltà irrisolvibili poiché le informazioni sottointese possono essere rese tra parentesi o sotto forma di denominatore/i. Il compito di gran lunga più difficile è esprimere il senso di un sistema intero, complesso, nel quale i componenti acquisiscono qualcosa di nuovo, un significato completamente diverso e non secondo le regole usuali che il lettore conosce (ne è un esempio Q♠, che acquisisce significati diversi nei contesti diversi), ma secondo un ordine particolare del pensiero dell’autore. Il significato nuovo in tale sistema non deriva automaticamente dal contesto, ma richiede una designazione speciale e può consistere sia nell’aggiunta alla somma dei termini esistenti sia nella sostituzione totale o parziale di termini esistenti con qualcosa di nuovo. Il problema dell’origine di strutture complesse da elementi semplici interessa in modo particolare lo studioso nel campo della grammatica dell’intreccio il quale deve creare segni speciali per descrivere diversi metodi di interrelazione tra gli elementi, con l’aiuto, per esempio, dell’“algebra” linguistica di L. Hjelmslev (1960: 264-389).

Vi sono ancora tanti problemi da risolvere. Lo studioso il cui cómpito sarà quello di raffigurare i legami extratestuali con il testo e di “formulizzare” gli intrecci poetici, si troverà di fronte a un’enorme difficoltà. Sarà necessario valutare attentamente il problema del dettaglio e dei criteri di proporzione per cifrare l’intreccio per ogni metodo di ricerca. Nel prossimo futuro dovranno essere risolte questa e altre decine di difficoltà maggiori o minori. Per concludere, facciamo notare ai possibili critici del nostro approccio che la formalizzazione in generale e la matematizzazione di processi letterari allo scopo di un’analisi più esatta, conclusiva, non ha niente in comune con il

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formalism. The scholar will not operate according to our method by using “naked form”, but by employing the elements that are most rich in content, whether it is a matter of analyzing plot, style, or any other category or aspect. This mathematization should aid literary scholarship by opposing scientific analysis to the unsubstantiated talk of subjectivists of all kinds. «Thought, in rising from the concrete to the abstract, does not deviate from the truth if it is correct … but approaches it. … all scientific (correct, serious, nonabsurd) abstractions reflect nature more profoundly, truthfully, completely» (Lenin 1936: 166).

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formalismo. Lo studioso non dovrà applicare il nostro metodo usando la “nuda forma”, ma gli elementi ricchi di contenuto, che si tratti di analisi dell’intreccio, dello stile o di qualunque altra categoria o aspetto. Questa matematizzazione deve contrapporre l’analisi scientifica precisa alle chiacchiere non comprovate dei soggettivisti. «Il pensiero che parte dal concreto per arrivare all’astratto non si discosta, se è corretto […], dalla verità, ma ci si avvicina […]. Tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) riflettono la natura in modo più profondo, realistico e completo» (Lenin 1936: 166).

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Chapter 7

Language as a Sign System and the Game of Chess1.

I. I. Revzin

Language is a system that has its own arrangement. Comparison with chess will bring out the point. In chess, what is external can be separated relatively easily from what is internal. The fact that the game passed from Persia to Europe is external; against that, everything having to do with its system and rules is internal. If I use ivory chessmen instead of wooden ones, the change has no effect on the system; but if I decrease or increase the number of chessmen, this change has a profound effect on the “grammar” of the game.

F. de Saussure 1.1 It will be beneficial for the development of semiotic theory to pursue Saussure’s analogy (Saussure 1933: 45). This is all the more timely because cybernetic model-building has encountered fundamental difficulties in relation not only to the game of chess but to linguistic tasks such as machine translation, apparently for similar reasons: in both cases man essentially uses his intuition, while model-building in terms of complete mastery has been

unsuited to solving such problems.

1.2. We have proposed the following comparisons on the basis of structural, not external, traits. It would have been possible in particular to regard the chess match as a dialogue or even an argument, in which each pair of sentences is linked by an adversary relationship, but we do not do this.

1 This article also appeared in Russian as «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

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Capitolo 7

La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi1.

I. I. Revzin

La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio. Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tale caso è relativamente facile distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno, ed è interno, al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se sostituisco dei pezzi in legno con dei pezzi in avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se diminuisce o aumenta il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la “grammatica” del gioco.

F. de Saussure 1.1 Per lo sviluppo della teoria semiotica sarebbe utile continuare l’analogia di Saussure. È attuale tanto più che la modellizzazione computerizzata non solo del gioco degli scacchi ma anche di processi linguistici, la traduzione automatica per esempio, ha riscontrato alcune fondamentali difficoltà per ragioni evidentemente simili: in entrambi i casi l’uomo usa molto la propria intuizione, mentre la modellizzazione con il calcolo

completo delle mosse possibili è inadatta per risolvere queste difficoltà.

1.2 I raffronti riportati in seguito sono basati su fattori strutturali, non esterni. In particolare si sarebbe potuto considerare la partita a scacchi un dialogo o una discussione in cui in ogni coppia di proposizioni c’è un nesso di carattere avversativo, ma non lo facciamo.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

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If the 2.12. move in the chess match is compared below with the lexical morpheme, the smallest significant unit in the sentence, this is not done in order for a sentence to be considered as a gradual, “move by move”, accumulation of morphemes either clarifying or negating the meaning of the preceding sentence (Hockett 1961: 220-236) – this is a very common notion – but in order for these elements to occupy a similar position in the structure of the whole.

1.3. Comparing a chess match with dialogue is only useful when we are involved in both cases with two participants who are alternately active and passive and who pursue a definite goal: winning at chess or achieving understanding in the act of communication. Achieving understanding is considered somehow self-evident, but in fact the participants have to overcome a substantial amount of “noise” having to do with nonconvergence of their semantics and nonconvergence of their grammar and phonology, which is also theoretically possible1. Moreover, situations are possible in which the speaker deliberately tries to conceal his meaning. This stance brings him closer to the position of the chess player, who as a rule tries to hide the meaning of a move, although in chess as well there are quite a few moves whose meaning is obvious to the other participant. Thus we are concerned with goal-directed activity in both objects of study; let us now examine the means of achieving the goal.

2.0. We shall consider both objects of study as structures, collections of elements with fixed relations between them.

1 See following pages.

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Se la mossa 2.12. nella partita a scacchi è paragonata a un morfema lessicale, unità minima della proposizione significativa, lo si fa non perché una proposizione sia considerata un accumulo graduale, “mossa per mossa”, di morfemi che chiarificano o cancellano il senso della proposizione precedente (Hockett 1961: 220-236) – un’opinione molto diffusa – ma perché questi elementi occupano posizioni vicine nella struttura dell’insieme.

1.3. Il confronto di una partita di scacchi con il dialogo è utile solo se disponiamo in entrambi i casi di due partecipanti passivi e attivi a rotazione e che perseguono uno scopo preciso: vincere nel gioco e farsi comprendere nell’atto di comunicazione. Farsi comprendere è considerato un fattore evidente; in realtà i partecipanti devono superare una considerevole quantità di “rumore” causato dalla divergenza tra le loro abitudini semantiche e, teoricamente è possibile, grammaticali e fonologiche1. Inoltre, possono esservi casi in cui un parlante nasconda di proposito le proprie intenzioni. Tale atteggiamento si avvicina a quello dello scacchista che cerca di solito di mascherare il senso di una mossa, nonostante negli scacchi vi siano molte mosse il cui significato è ovvio all’altro giocatore. In entrambi gli oggetti di studio dunque siamo di fronte a un’attività finalizzata; cerchiamo ora di esaminarne gli strumenti per raggiungere lo scopo.

2.0. Prenderemo in considerazione entrambi gli oggetti di studio come strutture, insiemi di elementi con interrelazioni fisse.

1 Si veda le pagine successive.

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2.1 Elements.

Chess

Language

2.1. The square.

2.1. Some nonsign background.

2.1.1. A very small set of pieces, sixteen in all, of which six are different. The first significant elements are

2.1.1. A very small set of auxiliary morphemes: affixes, inflections, grammatical prepositions, and in generaI “empty words”.

2.1.2. a finite number, however large, of moves, i.e., of three elements: initial position, new position, chess piece. The move has a very broad meaning which is realized differently each time in

2.1.2. The first significant element is the lexical morpheme; there is a finite number, however large, of morphemes. It is still a potential meaning which is realized in the elements of

2.1.3. a finite number of configurations of pieces, each of which is characterized by its own traits: pawn chain, center, copula, weak point, squares of a given color, opposition, check, zugzwang, etc. The number of such traits is finite; from these configurations is formed

2.1.3. a finite set of words, each of which is characterized by a finite set of traits (Revzin 1969: 63-74): the word’s differential traits, semes, and semantic valences. From these words is formed

2.1.4. an infinite set of positions: the arrangement of all the pieces on the chessboard at a given moment of time t. The positions can be divided into correct and incorrect positions; it is impossible to arrive at an incorrect position by a correct play from initial position. There is an intermediate class of positions that can only be arrived at by completely ignoring the game’s principles and that are meaningless from the standpoint of the player’s practice but not from that of the theoretician.

2.1.4. an infinite set of sentences, which can be subdivided into sentences that are correct, incorrect, and an intermediate class.

2.1.5. Match

2.1.5. Text

2.1.6. Outcome: winning, draw, losing

2.1.6. Understanding, incomplete understanding, lack of understanding

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2.1. Elementi.

Scacchi

Lingua

2.1.0. Scacchiera

2.1.0. Un contesto non semiotizzato

2.1.1. Un numero molto piccolo di pezzi, sedici in tutto, ma solo sei tipi diversi. I primi elementi significativi sono:

2.1.1. Un numero molto piccolo di morfemi ausiliari: affissi, flessioni, preposizioni grammaticali e “parole vuote” in generale.

2.1.2. un numero finito, ma grande, di mosse, cioè di tre elementi: posizione iniziale, nuova posizione, pezzo. La mossa ha un significato molto generale che si attualizza ogni volta in modo diverso con

2.1.2. La prima unità significativa è il morfema lessicale; vi è un numero finito, ma grande, di morfemi. È anche il significato potenziale attualizzato negli elementi

2.1.3. un numero finito di configurazioni di pezzi, ognuna di quali è caratterizzata dai tratti particolari: catena di pedoni, centro, copula, punto debole, case di un certo colore, opposizione, scacco, zugzwang ecc. Il numero di questi tratti è finito: da queste configurazioni si formano

2.1.3. della quantità finita di parole, ognuna caratterizzata da una quantità finita di tratti (Revzin 1969: 63-74): tratti differenziali di parole, semi e valenze semantiche. Da queste parole si forma

2.1.4. innumerevoli posizioni (la disposizione di tutti i pezzi sulla scacchiera in un tempo t). Le posizioni possono essere suddivise in posizioni corrette e scorrette; è impossibile giungere a una posizione scorretta con un gioco corretto dalla posizione iniziale. Esiste una classe intermedia di posizioni alle quali si può arrivare ignorando completamente i princìpi di gioco, ma le quali sono prive di significato, secondo il punto di vista dello scacchista ma non del ricercatore.

2.1.4. un’infinita quantità di proposizioni, che possono essere suddivise in corrette, scorrette e di una classe intermedia.

2.1.5. Partita

2.1.5 Testo

2.1.6. Risultato: vincita, patta, perdita

2.1.6. Comprensione, comprensione incompleta, incomprensione

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2.2. Relations.

Chess

Language

2.2.1. The interaction between the pieces: the correlation between the strength and number of attacking and defending pieces, “the coefficient of tension” in the main zones of play, the saturation of valence1

2.2.1. Syntagmatics: valent connections between words

2.2.2. Recollection of previous moves, for instance in connection with the rule about threefold repetition of a position, and especially of possible future positions. The question is not so much that of the positions themselves as of their configurational traits. (See 2.1.3.)

2.2.2. Paradigmatics: recollection of connections between words and sentences not present in the text

2.2.3. A specific instance of the preceding is the relation between abridging the position and isolating support configurations: the pawn backbone, open lines, pawn superiority on the flank, bishops of opposite colors, etc. Ability to abridge the position makes it possible to foresee the situation for many moves in advance, which is not possible with a full set of pieces.

2.2.3. Abridging sentences to initial words, usually to the predicate, is a special type of relation in a sentence, as is abridging each dependent cluster to a single word, usually a pronoun. This abridgment makes it possible to reduce all the diverse formations of the sentence to a finite number of equivalent classes, and thus, according to Donald Michael’s theorem, to conceive of language as the product of a finite automaton.

2.3. Operations.

Applying the relations mentioned in 2.2. and other possible relations in order to achieve an objective makes it possible to speak of combinations of relations.

1 The valence of a chess piece means the number of squares that it can attack; the valence is saturated if sufficiently valuable pieces of the opponent stand on these squares. From our viewpoint, it was precisely valences that were formalized in previously proposed models of the game of chess.

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2.2. Relazioni.

Scacchi

Lingua

2.2.1. Interazione tra pezzi: correlazione tra potenza e numero di pezzi che attaccano e/o si difendono, “coefficiente di tensione” nelle principali aree di gioco, saturazione della valenza1.

2.2.1. Sintagmatica, ossia legami valenti tra le parole

2.2.2. Memoria delle mosse precedenti, in relazione alla regola della triplice ricorrenza della posizione, e soprattutto delle possibili posizioni future. Non si tratta tanto delle posizioni stesse quanto delle loro caratteristiche configurazionali (si veda 2.1.2.).

2.2.2. Paradigmatica, ossia la memoria dei legami assenti nel testo tra parole e proposizioni.

2.2.3. Il caso specifico dell’affermazione precedente è la relazione tra la circoscrizione della posizione e l’individuazione delle configurazioni d’appoggio: catene di pedoni, posizioni aperte, superiorità dei pedoni sul fianco, alfieri di colore contrario, ecc. La capacità di circoscrivere la posizione permette di prevedere la situazione per molte mosse future, ciò che è impossibile fare attraverso il calcolo completo delle mosse possibili.

2.2.3. Un tipo specifico delle relazioni nella proposizione è la relazione tra la circoscrizione della proposizione alle parole iniziali, solitamente in funzione di predicato, e nel contempo la circoscrizione di ogni gruppo dipendente a una singola parola, solitamente al pronome. Questo permette di limitare la moltitudine di componenti di una proposizione a un numero finito di classi equivalenti e di conseguenza, in base al teorema di Colin Mayhill, di concepire il linguaggio come generato da un meccanismo finito.

2.3. Operazioni.

L’applicazione delle relazioni menzionate nel 2.2 (e non solo) per raggiungere l’obiettivo permette di parlare dell’insieme di operazioni.

1 Per «valenza» di un pezzo si intende il numero delle case che essa può attaccare; la valenza è saturata se su quelle case sono esposti pezzi importanti dell’avversario. Dal nostro punto di vista sono proprio le valenze a essere state formalizzate nei modelli precedenti del gioco degli scacchi.

41

Chess

Language

2.3.1. “Tactics”: making a decision on the basis of logical reasoning, (“calculation”, as chess players say) or on the basis of traits of type 2.1.3.

2.3.1. Ascertaining meaning by means of transformational analysis = logical deduction, or with the support of the differential traits of words.

2.3.2. “Strategy”: ascertaining a position’s strong elements by means of mental abridgment (See 2.2.3).

2.3.2. Ascertaining the phrase’s structural skeleton by means of abridgment (See 2.2.3).

Note. At this point it can be shown that the comparison works precisely the other way around, for while in chess “strategy” is most important, in linguistic analysis preference is given to the equivalent of “tactics”, as in the characteristic distinction between “deep” and “surface” structure. However, it appears that both types of operations are equally important in their respective instances.

3. Let us now analyze the types of rules applied to our objects of comparison.

3.1. First and foremost, there are rules that constitute the system itself; it is precisely these that Saussure had in mind, at least as applied to chess.

Chess

Language

Rules determining the possible moves for each piece in certain configurations

Rules determining the use of auxiliary morphemes given the sentence’s structural meaning

Forbidden

Permitted

Forbidden

Permitted

It is prohibited, for example, to pIace the king on a threatened square.

All the remaining rules

Violation of certain types of grammatical agreement

Usually a rule has this form: to express such – and- such a meaning it is permitted to use one or another format.

42

Scacchi

Lingua

2.3.1 “Tattica”: arrivare a una decisione basandosi sul ragionamento logico (o «calcolo» come dicono gli scacchisti) oppure sui tratti del tipo 2.13.

2.3.1. Accertamento del senso attraverso l’analisi trasformazionale (inferenza logica) o l’appoggio sui tratti distintivi di parole.

2.3.2. “Strategia”: accertamento degli elementi fondamentali della posizione attraverso la circoscrizione dei pensieri (si veda 2.2.3).

2.3.2. Accertamento della struttura della frase attraverso la circoscrizione (si veda 2.2.3).

Nota. A questo punto è possibile dimostrare che il raffronto si verifica esattamente “al contrario” dato che nel gioco degli scacchi la “strategia” è più importante, mentre nell’analisi linguistica la preferenza viene attribuita alla “tattica” (per esempio nella distinzione tipica tra struttura “profonda” e “superficiale”). Nonostante ciò entrambi i tipi di operazioni sono importanti per entrambi gli oggetti in questione.

3. Passiamo all’analisi dei tipi di regole applicabili agli oggetti confrontati.

3.1. Innanzitutto, esistono regole che costituiscono il sistema stesso; è proprio queste regole che intendeva Saussure, se dovessimo applicarle al gioco degli scacchi.

Scacchi

Lingua

regole che determinano le possibili mosse per ogni pezzo in date configurazioni

regole che determinano l’utilizzo dei morfemi ausiliari avvalendosi del significato strutturale prestabilito della proposizione.

Proibito

Permesso

Proibito

Permesso

è proibito per esempio posizionare il re sulla casa a rischio

tutte le altre regole

violare certi tipi di concordanze

solitamente la regola ha la seguente forma: per esprimere un certo significato è permesso usare un certo formante

43

Note. “Agreement” means a rule for connecting auxiliary morphemes. The regimen governing the connection between the auxiliary morphemes of one word and the lexical morphemes of another generally does not possess a very high degree of interdiction.

3.2. Another type of rule is aimed at achieving the maximum effect within a given system. These rules can be divided into two groups.

3.2.1. Rules of a general nature, i.e., general organizational principles for the text or match.

Chess

Language

Principles for the development of pieces, i.e., “one piece is not moved twice in the opening”; for capturing the center in the opening; or for the movement of pawns opposite which there are no hostile pieces in the endgame.

Ivanov’s postuIate (Ivanov 1963: 156-178) about the inadmissibility of different objects’ having an identical meaning within a single situation; the principle of the availability of common semes, “supplementary valence”; in words which are directly linked syntactically or in a more general form, the principle of redundant encoding.

3.2.2. Rules based on knowledge of a specific precedent.

Chess

Language

Recommendations for openings; for example, “how Botvinnik pIayed against …“; reference to basic endgame schemes, and in the middle game even to individual matches, i.e., “a construction similar in many ways to the well-known match between Braunschweig, Duke of Morfì, and Count Isoire”1.

Orientation on the basis of a set of model sentences (Revzin 1966: 3- 15).

1 This report was written under the strong influence of D. Bronstejn’s commentaries on the matches at the Zurich tournament of aspirants, from which this phrase is taken.

44

Nota. Per «concordanza» s’intende una regola di accordo morfologico tra i morfemi ausiliari. Le reggenze, che determinano l’accordo tra i morfemi ausiliari di una parola e i morfemi lessicali dell’altra, normalmente non possiedono un alto grado di proibizione.

3.2. Un altro genere di regole riguarda il raggiungimento del massimo effetto all’interno di un certo sistema. Queste regole possono essere suddivise in due gruppi.

3.2.1. Regole di carattere generale (princìpi generali di organizzazione del testo e, di conseguenza, della partita).

Scacchi

Lingua

Princìpi di sviluppo dei pezzi («un pezzo non viene mai mosso due volte nella fase d’apertura del gioco»), occupare il centro nella fase d’apertura oppure promuovere il pedone che non ha un pedone avversario nella fase finale.

Il postulato del linguista russo Ivanov (Ivanov 1963: 156-178) secondo il quale è inammissibile che gli oggetti differenti vengano denotati in modo identico in una stessa situazione; il principio di esistenza dei semi generali o “valenza supplementare” nelle parole collegate tra loro sintatticamente o più generalmente il principio di codificazione ridondante.

3.2.2. Regole basate sul rimando a un precedente specifico.

Scacchi

Lingua

Consigli per la fase d’apertura, (per esempio: «in questo modo Botvinnik ha sfidato …»), rimandi agli schemi usuali di fase finale, mentre nel mediogioco si può ricorrere ai rimandi alle partite famose («situazione, molto simile alla nota sfida Paul Morphy vs Duca Von Braunschweig e Conte Isouard»)1.

Orientamento su proposizioni-modello (Revzin 1966: 3-15).

1 Questo articolo è stato fortemente influenzato dai commenti di D. Bronštejn sulle partite al torneo degli aspiranti giocatori di Zurigo. Questa frase è presa da quel contesto.

45

3.3. Finally, there are rules that pertain to the system’s external use.

4. There are completely different violations for each of the types of rules cited, which witnesses indirectly to the differences between them.

4.1. Rules of the 3.1. kind generally cannot be violated, for their violation results in violation of the system. It is true, as pointed out in the note to 3.1., that there are intermediate cases in language, such as grammatical government, whose violation brings us to 3.2.

4.2.1. Rules of the 3.2.1. kind can of course be violated, most of all because, generally speaking, it is possible for the different participants to make use of them to a different extent. However, violation of these rules does not necessarily lead to reduced effectiveness. On the contrary, in chess, as in language, the creative but by no means unpremeditated violation of the 3.2.1. rules can exert a very powerful effect, as happened with hypermodernism in chess of the 1920s.

4.2.2. Violation of the 3.2.2. rules is involved where orientation on the basis of mode1s plays a different role according to various inclinations2.

4.3. Violation of the 3.3. rules can go unpunished if it is not noticed by the other participant and does not affect achievement of the goal set by the speaker or player; let us note that in the case of language the goal here is precisely to deceive the hearer; see 1.3.

1 From our viewpoint, such rules do not pertain to the postulates of language but rather to the postulates of good sense; see Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. For another viewpoint, see Wheatley 1970: 34, according to which language contains a semantic rule of the type, “A says: I promise X, entails: A intends X”.

2 The author has devoted a special study to this question.

Chess

Language

The rule “remove a piece after capturing it”; the time-limit, etc.

The requirement that the speaker really believe what he says1.

46

3.3. Infine, esistono regole riguardanti l’aspetto puramente esterno del gioco.

4. Per ognuno di questi tipi di regole ci sono diversi tipi di violazioni, una testimonianza indiretta della loro differenza.

4.1. Le regole del tipo 3.1. non possono essere violate poiché la loro violazione comporta la violazione dell’intero sistema. Anche se nella lingua, come precisato nella nota in 3.1., vi sono regole intermedie (è il caso delle reggenze) la violazione delle quali ci porta a 3.2.

4.2.1. Le regole del tipo 3.2.1., s’intende, possono essere violate soprattutto perché i giocatori possono applicarle in misura diversa. Tuttavia la loro violazione non necessariamente porta all’abbassamento dell’efficacia che si può ottenere. Al contrario, sia negli scacchi sia nella lingua la violazione artistica (non quella calcolata) delle regole 3.2.1. può avere una forte influenza sull’esito (si veda l’ipermodernismo negli scacchi negli anni Venti).

4.2.2. Lo stesso avviene per le regole del tipo 3.2.2., dove l’orientamento verso i modelli nelle correnti diverse svolge un ruolo differente2.

4.3. La violazione delle regole 3.3. può rimanere impunita nel caso il giocatore avversario non dovesse notarlo e non incidere sul raggiungimento dello scopo posto dal parlante (o giocatore). Bisogna precisare che nel caso della lingua lo scopo è proprio quello di ingannare l’ascoltatore (si veda 1.3.).

1 Dal nostro punto di vista, tali regole non riguardano i postulati della lingua, ma i postulati del buon senso; si veda Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. Per un altro punto di vista, si veda Wheatley 1970: 34, secondo cui nella lingua opera la regola semantica del tipo: “A dice: prometto X, comporta: A intende X”.

2 L’autore ha dedicato un studio speciale a questo argomento.

Scacchi

Lingua

la regola «se tocchi un pezzo con la mano devi eseguire la mossa con quel pezzo», i limiti temporali e così via.

il parlante deve intendere quello che dice1

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If the violation is noticed, this disclosure obviously leads to punishment in the case of chess; punishment is not always obvious in the case of language, although the violation affects the hearer’s notion of the speaker’s morals.

5.1. The goal of this report has been to show that the human intellect seems to make use of similar constructions to solve different tasks pertaining to the processing of information, and therefore it is advisable to describe them in a single system.

5.2. Also, examining possible systems and types of rules is useful in considering any modeling systems having to do with rules and norms.

48

Se, invece, la violazione viene rilevata, si ricorre alla punizione – ovvia nel caso degli scacchi e non altrettanto ovvia nella lingua (la violazione incide sull’opinione che l’ascoltatore ha della morale del parlante).

5.1. Lo scopo di questa comunicazione è dimostrare che l’intelletto umano, evidentemente, usa costrutti simili per la soluzione di problemi diversi che riguardano l’elaborazione delle informazioni e che è quindi opportuno descriverli in un unico sistema.

5.2. D’altra parte lo studio dei sistemi e dei tipi di regole possibili è utile per lo studio di qualsiasi sistema modellizzante che abbia a che fare con regole e norme.

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References
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Karpinskaâ, O. G., Revzin, I. I., «Semiotičeskij analiz rannih p”es Ionesko» in Tezisy dokladov vo vtoroj letnej škole po vtoričnym medeliruûŝim sistemam: 16-26 avgusta 1966, 1966, Tartu, 34-36

Lekomceva, M. I., Usplenskij, B. A., «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», in: Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov, Moskva, 1962, 84-86.

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Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

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Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

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Analisi traduttologica

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Dedicherò questa parte della mia tesi all’analisi degli articoli la cui traduzione è riportata sopra. L’argomentazione si strutturerà secondo lo schema classico dell’analisi traduttologica con l’individuazione del lettore modello e delle dominanti. Inoltre, illustrerò brevemente in un capitolo a parte la strategia traduttiva e i problemi di traduzione.

Ma prima di cominciare l’analisi vorrei concentrare la mia attenzione sugli autori degli articoli in questione e sugli articoli stessi.

Fonte, autori, argomento.

«The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» e «Language as a Sign System and the Game of Chess» sono due articoli tratti dal volume Soviet Semiotics a cura di Daniel Peri Lucid (The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1977). Nel libro sono raccolti numerosi saggi scientifici di autori appartenenti alla scuola sovietica di semiotica, come Boris Uspenskij e Ûrij Lotman.

La semiotica è la scienza dei segni linguistici e non linguistici, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto simbolico. Una semiotica moderna si profila già con Peirce, che pone le basi di una teoria filosofica in cui hanno forte rilievo, tra l’altro, la nozione di «semiosi illimitata» e la suddivisione di tre tipi diversi di segni, ossia icone, indici e simboli, a seconda che il rapporto con il referente sia di similarità, come nelle icone, di contiguità o convenzionale. Ma è soprattutto con Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev che si afferma la teoria semiotica moderna. È chiarito lo statuto formativo del significante e del significato; è proposta la nozione di «funzione segnica» e altre nozioni ancora hanno validità generale e appaiono di straordinaria importanza per lo sviluppo della semiotica, come quelle di codice e di commutazione, di rapporti sintagmatici e di rapporti associativi, di sincronia e di diacronia, di sistema come meccanismo produttivo di segni, di unità minime differenziali dal significante, di senso e di atto semico. Su queste basi la semiotica, insieme con la linguistica e

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l’estetica, ha conosciuto un vasto sviluppo al quale hanno contribuito a vario titolo e con diverse prospettive teoriche – non sempre coincidenti con quelle di Saussure e Hjelmslev – Tynânov, Âkobson, Lotman e Uspenskij. Lotman e Uspenskij appartengono alla scuola sovietica di semiotica e sono stati i primi a teorizzare l’analisi dei «sistemi modellizzanti secondari», cioè di tutti quei sistemi semiotici, diversi dalle lingue, in cui si esprimono specifici modelli di concezione del mondo e di elaborazione umana della realtà (dai miti al folclore, dalle religioni all’arte).

Egorov Boris Fedorovič (nato nel 1926), narratologo russo, ricercatore in scienze filologiche (1967), docente universitario (dal 1978 presso l’Università della storia russa; RAN). Argomenti di cui Egorov si occupa sono: tratti peculiari della critica russa dell’Ottocento e il posto che occupano nella letteratura e nella cultura nazionali, slavofilismo, social-utopisti, critica estetica. Ha pubblicato: O masterstve literaturnoj kritiki (1980), Bor’ba èstetičeskih idej v Rossii serediny XIX veka (1982, 1991), Očerki po istorii russkoj kul’tury XIX veka (1996). Dal 1978 al 1991 – vicepresidente e dal 1991 presidente del comitato di redazione dell’accademia russa delle scienze «Literaturnye pamâtniki».

Nel suo articolo «The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» Egorov argomenta contro Lekomceva e Uspenskij per aver dato troppa importanza alla pragmatica del gioco nel quale una cartomante professionale dispone di una libertà illimitata nella lettura delle carte. Egorov insiste sull’oggettività della descrizione semiotica e paragona la lettura da parte della cartomante della vita di una persona alla creazione di un intreccio, in una maniera prestabilita, variando solo la posizione del segno all’interno di un gruppo limitato di segni, le carte nel mazzo. Lo scopo dello studioso è usare il sistema di divinazione mediante le carte da gioco come modello primitivo per l’analisi dell’intreccio letterario (oggetto della narratologia). Sia il sistema cartomantico che quello degli intrecci è basato su una serie di elementi primari e su dati metodi di distribuzione. Egorov mette in evidenza il fatto che il sistema semiotico della letteratura abbia una sintassi che potrebbe essere classificata in

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un’eventuale «tavola periodica di Mendeleev» degl’intrecci. Dall’interrelazione di elementi semplici nascono strutture testuali complesse.

Revzin Isaak Iosifovič (1923—1974), linguista, ricercatore in scienze filologiche (1964), membro dell’Istituto di lingue straniere. Pubblicazioni nel campo di linguistica strutturale (teoria generale della modellizzazione, fonologia, grammatica), di semiotica e di poetica. Revzin ha creato, con Rozencvejg, un modello dei tipi di traduzione in Linguistica strutturale contemporanea. Problemi e metodi, del 1977. Ha definito cinque tipi di traduzione: interlineare o parola per parola, letterale, semplificante, precisa e adeguata.

L’articolo «Language as a Sign System and the Game of Chess» di Revzin approfondisce l’analogia di Saussure tra la lingua e il gioco degli scacchi. Mettendo a confronto il sistema linguistico e il sistema di gioco il linguista russo cerca di dimostrare che l’intelletto umano usa nel processo di elaborazione delle informazioni costruzioni simili a quelle di un programma computerizzato che fa la previsione delle mosse possibili nel gioco. In entrambi i sistemi Revzin segnala un numero limitato di elementi – pezzi negli scacchi e morfemi nella lingua – che generano numerose posizioni nel primo caso e vocaboli e proposizioni nel secondo. A livello di relazioni tra componenti, le connessioni tra parole assomigliano alle relazioni tra pezzi sulla scacchiera. Tattica e strategia del gioco vengono paragonate alla struttura superficiale e profonda della lingua. Inoltre, entrambi i sistemi sono costruiti con quelle regole che costituiscono il sistema stesso e altre che mirano a un effetto massimo all’interno del sistema. Il gioco degli scacchi sembra un sistema molto meno complesso di quello della lingua, ma l’approccio di Revzin consistente nel trovare similitudini tra questi sistemi completamente diversi permette il tentativo di creare un unico modello generale.

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Analisi traduttologica

Entrambi gli articoli di cui ho proposto una traduzione sono testi prevalentemente argomentativi, destinati non solo a un pubblico colto e già esperto in materia, ma anche a un appassionato di semiotica e di linguistica (lettore modello). Sono due testi dal taglio piuttosto professionale, ma non eccessivamente accademico, e neanche di saggistica divulgativa, con l’utilizzo di una terminologia settoriale (a volte spiegata nelle note e nel corpo del testo) e numerosi rimandi a testi e saggi delle varie discipline. Lo stile degli autori è abbastanza lineare, piano, sobrio, spesso difficile non perché la sintassi sia contorta, ma per la complessità dei concetti espressi. Inoltre, sono presenti alcune caratteristiche proprie dei testi scientifici, quali l’uso del passivo e dello universal we.

Dal punto di vista traduttologico la dominante di entrambi i testi è quella informativa per cui ho prestato molta attenzione al lessico adeguato e pregnante, all’esattezza terminologica che mi ha portato a un lavoro preliminare di ricerca, sicuramente più tramite il web che su testi cartacei, per familiarizzarmi con concetti e termini chiave. Oltre che dei concetti semiotici e linguistici gli articoli si avvalgono di una terminologia specifica del gioco degli scacchi in Revzin e della cartomanzia in Egorov. Ho consultato, come accennato prima, dizionari, testi paralleli di riferimento, internet affinché la traduzione fosse il più aderente possibile al testo. Ho ritenuto corretto verificare su fonti elencate nei riferimenti bibliografici informazioni, date, nomi contenuti nei testi. Questa è stata la mia strategia traduttiva.

Per la traslitterazione dei nomi scritti in cirillico mi sono servita delle norme ISO 9 del 1995 in cui ad ogni simbolo cirillico corrisponde un solo simbolo latino. La tabella riportata in seguito rappresenta il metodo di traslitterazione attualmente in uso e uno di quelli precedenti in cui a un carattere cirillico possono corrispondere più caratteri latini, come nel caso delle lettere Ч, Ш, Ц ecc.

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Russo

GOST 7

ISO 9

А, а

A, a

A, a

Б, б

B, b

B, b

В, в

V, v

V, v

Г, г

G, g

G, g

Д, д

D, d

D, d

Е, е

JE, je

E, e

Ё, ё

JO, jo

Ë, ë

Ж, ж

ZH, zh

Ž, ž

З, з

Z, z

Z, z

И, и

I, i

I, i

Й, й

J, j

J, j

К, к

K, k

K, k

Л, л

L, l

L, l

М, м

M, m

M, m

Н, н

N, n

N, n

О, о

O, o

O, o

П, п

P, p

P, p

Р, р

R, r

R, r

С, с

S, s

S, s

Т, т

T, t

T, t

У, у

U, u

U, u

Ф, ф

F, f

F, f

Х, х

KH, kh

H, h

Ц, ц

CZ, cz

C, c

59

Ч, ч

CH, ch

Č, č

Ш, ш

SH, sh

Š, š

Щ, щ

SHH, shh

Ŝ, ŝ

Ъ, ъ

Ы, ы

Y’, y’

Y, y

Ь, ь

Э, э

È, è

È, è

Ю, ю

JU, ju

Û, û

Я, я

JA, ja

Â, â

La maggiore difficoltà traduttiva dei due saggi è stata quella terminologica: trovare il corrispondente giusto, verificare che il contesto in cui lo trovavo fosse affidabile. Analizzerò ora con un esempio la strategia traduttiva che ho usato per risolvere questa difficoltà:

− traduzione di «language» nell’articolo di Revzin: lingua versus linguaggio.

Il vocabolario Traccani definisce in questo modo la parola «lingua» (ometto significati impertinenti):

lingua s. f. [lat. lĭngua (con i sign. 1 e 2), lat. Ant. dingua]. […]. 4 a Sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfeme), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione o lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche […]. b. Usato assol., con riferimento generico: la grammatica, la sintassi, il lessico o vocabolario d’una l.; il carattere (e ormai ant. l’indole, il genio) d’una l.; la storia, l’evoluzione della l. […].

Ecco invece come viene definita la parola «linguaggio» nello stesso vocabolario:

60

linguaggio s. m. [der. di lingua]. – 1. Nell’uso ant. o letter., e talora anche nell’uso com. odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità […]. 2. a In senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli essere umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di inforrmare altri essere sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di una sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingua storicamente determinate). […]. b. estens. Facoltà di esprimeresi attraverso altri segni, sia gesti, sia simboli. In partic., l’insieme dei mezzi espressivi e stilistici, diversi dalla parola, che sono peculiare della varie arti. […]

Analizzando bene le definizioni mi sono resa conto che il loro campo semantico è molto simile, ma che la parola «lingua» è più adatta per il saggio in questione perché è quella usata da Saussure (l’argomento del saggio di Revzin approfondisce l’analogia tra la lingua e gli scacchi tracciata da Saussure) e dai linguisti in generale. Per verificare quest’ultima affermazione ho inserito nel motore di ricerca il nome del linguista svizzero accanto alla parola «lingua» e successivamente accanto a «linguaggio» e ho notato che nel caso della prima combinazione di parole vi sono molte più occorrenze nei siti affidabili di linguistica e scienza della traduzione.

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Riferimenti bibliografici
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Lucid, D. P., Soviet Semiotics, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1977.

Osimo, B., La traduzione saggistica dall’inglese: guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2007

Osimo, B., Manuale del traduttore: Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2004

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Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick NADIA QUARTINI

Un viaggio nelle dinamiche di coppia: la trasposizione cinematografica da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

NADIA QUARTINI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 3 novembre 2005

ABSTRACT IN ITALIANO

Il presente lavoro intende mostrare ed approfondire alcuni problemi e riflessioni di carattere traduttologico inerenti all’analisi del processo della trasposizione cinematografica, divenuto da tempo nuovo oggetto di studio.

Poiché il processo della trasposizione cinematografica, in quanto esempio di traduzione intersemiotica, avviene coinvolgendo un altro sistema di segni, nel quale il prototesto è costituito da segni verbali laddove il metatesto è composto da segni non soltanto verbali – come immagini e suoni –, la strategia traduttiva dovrà partire dalla scomposizione ed analisi degli elementi del prototesto per approdare in seguito alla ricerca di elementi di nuova sintesi e di mezzi espressivi attraverso i quali tali elementi possono essere raffigurati all’interno del metatesto.

Sulla base di tali osservazioni e prendendo spunto dalle valutazioni fino ad ora condotte da alcuni studiosi appartenenti a differenti scuole di pensiero, si è cercato di ricavare un metodo generalmente valido che possa essere applicato nel modo più ampio possibile.

A tal scopo, è stato preso ad esempio, scomposto ed esaminato un caso concreto di trasposizione cinematografica – ovvero la trasposizione cinematografica di Doppio Sogno di Arthur Schnitzler in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick – con particolare attenzione all’analisi del tema dominante della vicenda narrata: il ruolo delle dinamiche di coppia e la loro rappresentazione all’interno di entrambe le opere.

Il primo capitolo si propone di analizzare il prototesto nei suoi tratti caratteristici e distintivi, ovvero fabula e intreccio, personaggi, temi principali, tempo e spazio; vengono inoltre delineate le dominanti che costituiranno l’asse portante del metatesto.

Il secondo capitolo affronta la vera e propria analisi traduttologica della

2

trasposizione cinematografica dal romanzo al film e presenta un esame dettagliato sia della riproduzione e rappresentazione dei temi del prototesto all’interno del metatesto sia dei fondamentali tagli e cambi operati alla vicenda stessa.

Il terzo capitolo, infine, si propone di approfondire l’analisi di una sola sequenza, rappresentativa del tema dominante di entrambe le opere, attraverso un accurato raffronto fra le pagine contenute all’interno del racconto e la loro rappresentazione nel film: il confronto iniziale fra i due protagonisti, grazie al quale si apre la vicenda stessa, nel quale al meglio vengono delineate le contraddittorietà che caratterizzano il rapporto di coppia.

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ABSTRACT IN ENGLISH

The aim and purpose of this thesis is to discuss a special type of translation: the intersemiotic, extratextual translation.

When we think about translation we generally think about the translation of a verbal text into another language. But the phenomenon of verbal textual translation is more complex because translation covers a much wider and more varied range of texts.

Semiology has made the concept of text wider and more comprehensive. In fact, the notion of language has been extended to non-verbal languages as well. As a result the notion of text implies a coherent system of utterances in every language. In light of this new, expanded definition, films and advertisments can also be considered texts and the transferring of literature into film or theatre can be treated as an act of translation. In translating text into visual performance, the prototext – source text – is a verbal text and the metatext – target text – is a non-verbal text, made up of visual images. Conversion from the prototext into the metatext involves two different sign systems. This type of translation is called intersemiotic extratextual translation.

When a translator works on the dramatization of a novel, he first tries to take the prototext apart in its elements and then chooses an appropriate translation strategy, based on the search for charcateristics existing in common between the two texts. He keeps these aspects and develops a technique aimed at transferring the other aspects.

The analysis of Arthur Schnitzler’s novel and Stanley Kubrick’s masterpiece leads to the conclusion that novel and film are not two completely different, parallel texts. Although there are some essential differences between the two works – such as in time and space –, the dominant messages and themes of the novel have been maintained and very well represented in the film.

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The paper is divided into three main chapters.

The first chapter deals with the analysis of Schnitzler’s novel. Particular attention is given to the main components of the plot, including the novel’s themes and characters as well as its particular use of space and time.

The second chapter focuses on the comparison between the text of the novel and the filmic text. Particular attention is given to the dominant messages and themes of the two texts, as well as to cuts and changes to Schnitzler’s novel.

The third and last chapter concentrates on a special aspect of the filmic text: the representation of the relationship between the two main characters. Attention is focused on an important scene that is compared with the corresponding pages of the book.

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ABSTRACT AUF DEUTSCH

Ziel dieser Diplomarbeit ist es, die intersemiotische extratextuelle Übertragung von einem Buch in einen Film zu zeigen.

Wir unterscheiden drei Arten der Wiedergabe eines sprachlichen Zeichens: die innensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen mittels anderer Zeichen derselben Sprache, die zwischensprachliche Übersetzung ist eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch eine andere Sprache, während die intersemiotsche Übersetzung eine Wiedergabe sprachlicher Zeichen durch Zeichen nicht-sprachlicher Zeichensysteme ist.

Die extratextuelle Übersetzung fällt in die Sphäre der intersemiotischen Übersetzung und die Verfilmung eines Buches ist ein Beispiel von der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung. In diesem Fall bestehen der Prototext – d.h. der Ausgangtext – aus verbalen Zeichen und der Metatext – d.h. der Zieltext – aus nicht-verbalen Zeichen.

Der Übersetzungsprozess betrifft zwei verschiedene Zeichensysteme. Der Übersetzer führt eine Textanalyse durch und untersucht den Prototext in bezug auf die darin enthaltenen dominierenden Merkmale; er muss demnach die richtige Strategie anwenden, um die dominierenden Elemente und die Ausdrucksmittel des Prototextes in einem anderen Zeichensystem wiederzugeben und miteinander zu kombinieren. Im Film liegt es auch sehr an der Kreativität des Filmmachers, aus den unterschiedlichen, ihm zur Verfügung stehenden Ausdrucksformen jene auszuwählen, die sich mit dem nicht- sprachlichen Zeichensystem am besten kombinieren.

In dieser Diplomarbeit geht es um die Analyse der intersemiotischen extratextuellen Übersetzung von dem Buch Traumnovelle von Arthur Schnitzler in dem Film Eyes Wide Shut von Stanley Kubrick. Obwohl beide Werke wichtige Unterschiede zeigen – z.B. im raumzeitlichen Chronotops –, werden

6

die dominierenden Elemente und Themen der Novelle im Film bewahrt und sehr gut ausgedrückt.

Die Diplomarbeit ist in drei Kapitel unterteilt.

Das erste Kapitel handelt von der Analyse der Traumnovelle. Eine wichtige Rolle spielt die Analyse der bedeutsamsten Elemente der Geschichte, bzw. Zeit, Raum, Gestalten und Themen.

Im zweiten Kapitel geht es um die intersemiotische extratextuelle Übersetzung und den Vergleich zwischen dem Text des Buches und dem Text des Filmes. Eine wichtige Rolle spielen dabei sowohl die dominierenden Motive beider Texte als auch die im Film, im Vergleich zum Buch, enthaltenen Streichungen und Veränderungen.

Im dritten Kapitel wird eine einzige Szene analysiert, die eine entscheidende Rolle sowohl im Buch als auch im Film spielt, welche ein sehr wichtiges Thema in beiden Werken darstellt, bzw. die Dualität und die Widersprüche in der Partnerbeziehung.

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SOMMARIO

1.

1.1.

Abstract in Italiano 2 Abstract in English 4 Abstract auf Deutsch 6

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA 10

DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE 17

Doppio Sogno di Arthur Schnitzler 17

  1. 1.1.1.  Breve sintesi 18
  2. 1.1.2.  Analisi dell’opera 20

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick 26

  1. 1.2.1.  Temi del cinema di Kubrick 27
  2. 1.2.2.  Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick 28

2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA 30

  1. 2.1.  Due trame a confronto 30
  2. 2.2.  Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca 37

8

  1. 2.3.  Temi a confronto 40
  2. 2.4.  Strutture a confronto 48
    1. 2.4.1.  Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina 48
    2. 2.4.2.  Figura della geminazione simmetrica 55
    3. 2.4.3.  Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del

3. 3.1.

personaggio 62

ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT 68 Analisi della traduzione intersemiotica 70

CONCLUSIONI

Riferimenti Bibliografici Bibliografia

84

91 93

9

INTRODUZIONE: RUOLO E SIGNIFICATO DELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA

Quando si riflette sul significato di «traduzione», normalmente si pensa ad un processo di ricodifica e riespressione di un testo scritto in una lingua, ovvero un codice naturale, differente da quella del testo originario: questo tipo di traduzione viene denominata «traduzione interlinguistica»1; il testo d’origine viene chiamato «prototesto» e il testo d’arrivo viene chiamato «metatesto». Per «testo» si intende comunemente un insieme di parole con una forma grafica, dotato di una struttura interna che lo rende coerente e coeso2.

Tuttavia, se scindiamo il concetto di «testo» dalla sua accezione più comune ed intendiamo con esso semplicemente un sistema di segni qualsiasi, dotato di una struttura interna coerente e coesa, e diamo credito all’estensione del concetto di «lingua» in semiotica a tutti i tipi di linguaggio extraverbale – come la musica, le arti figurative, il cinema o la pubblicità –, se ne evince che il concetto di «traduzione» può essere esteso ad un campo decisamente più ampio rispetto a quello della sola traduzione interlinguistica ed assume il significato di un processo che implica la presenza di un testo inteso come insieme coerente degli enunciati di qualsiasi linguaggio.

Così, il racconto di un sogno, la trasposizione cinematografica di un romanzo, la lettura di un testo o anche la scrittura sono esempi di traduzione, nei quali il processo di trasferimento dal prototesto al metatesto avviene coinvolgendo un sistema di segni diversi, di linguaggi diversi: essi sono tutti esempi di «traduzione intersemiotica»3. In particolare, la traduzione extratestuale riguarda i casi di traduzione intersemiotica nei quali il prototesto è generalmente un

1 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000 2 B. Osimo, 2001
3 R. Jakobson, On linguistic Aspects of Translation (1959), citato in B. Osimo, 2000

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testo scritto e quindi verbale, mentre il metatesto appartiene ad un codice non verbale, ad esempio un’immagine. Dunque, la trasposizione cinematografica di un romanzo costituisce un caso di traduzione intersemiotica extratestuale.

Per quanto la letteratura venga tradotta in film da moltissimo tempo, il processo della trasposizione cinematografica è stato paragonato al processo della traduzione interlinguistica relativamente da poco tempo, ed in questo senso è divenuto nuovo oggetto di studio. Di conseguenza, mentre nel campo della traduzione interlinguistica molti studiosi si sono espressi nel tentativo più o meno riuscito di apportare il loro contributo allo sviluppo di un metodo scientifico dei principali cambiamenti traduttivi secondo criteri condivisibili ed applicabili nel modo più ampio possibile, il campo della traduzione filmica resta tuttora costellato di numerosi quesiti senza risposta e di numerose insufficienze nell’analisi del suo linguaggio.

A ciò va aggiunta, a mio avviso, un’altra fondamentale considerazione: mentre la traduzione interlinguistica viene solitamente affrontata da traduttori professionali, che sono ben consci del loro ruolo di mediatore linguistico e culturale e dei problemi inerenti all’analisi traduttologica e all’individuazione di una strategia traduttiva da adottare per ogni singolo caso, la traduzione cinematografica viene affrontata da persone – sceneggiatori e registi – che sono da considerarsi innanzitutto artisti – come gli scrittori – e non certo traduttori: essi compiranno certamente la loro traduzione filmica in base a dei criteri razionali, ma, più sovente, saranno soggetti alle loro ispirazioni o saranno influenzati dal loro personale estro artistico.

Dunque, la vera e propria analisi traduttologica nel predetto campo viene svolta per lo più a posteriori, da studiosi della materia che tentano di ricavare una teoria dal caso concreto, ovvero un metodo scientifico valido nel modo più ampio possibile al fine di catalogare i fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella trasposizione dal romanzo scritto al film.

Così, ad esempio, lo studioso di semiotica all’università di Tartu Peeter Torop

11

ha riconosciuto che nella trasposizione cinematografica di un testo il punto di partenza va ricercato nella scomposizione del testo stesso in parti4. In questo modo, il traduttore dovrà razionalmente intraprendere un processo di scomposizione e di analisi dei singoli elementi che compongono il prototesto, oltre che di ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi che condurranno alla creazione del metatesto, nel caso in oggetto rappresentato dal film.

Ma, poiché nella traduzione intersemiotica extratestuale il tipo di codice del prototesto è differente rispetto a quello del metatesto, il traduttore sarà costretto a scomporre il prototesto – ovvero il romanzo – nei suoi elementi costituivi e a convertire tali elementi nel tipo di codice del quale è composto il metatesto – ovvero il film. Infatti, mentre il romanzo viene fissato sotto forma di parola scritta, il film è costituito dall’immagine, sostenuta dal suono sotto forma di parole o di musica5. Inoltre, a causa delle proprietà intrinseche delle quali è formato il testo filmico, la quantità di sistemi segnici esistenti in un film è davvero notevole. Di conseguenza, l’analisi traduttologica sarà ancora più complessa ed irta di ostacoli.

Dunque, il romanzo è composto da elementi verbali, sintagmatici, paradigmatici, prospettici, ed è inoltre caratterizzato dalla creazione e descrizione di personaggi e temi che si esplicano attraverso fabula, intreccio e spazio, raffigurati però mediante le parole in forma scritta, mentre il film è costituito sì da elementi verbali e dalla ricreazione dei temi, del tempo, dello spazio e dei personaggi con la loro psicologia, i quali però non vengono descritti bensì rappresentati in modo visibile e dunque iconico, ma è anche costituito dall’immagine, che si esplica nelle inquadrature, nei movimenti di macchina – le carrellate –, negli effetti speciali – come la dissolvenza incrociata –, nella fotografia – luci e colori – e poi dal suono sotto forma di dialogo o musica o rumore, ed ancora dal montaggio, col quale viene operata una

4 P. Torop, 2000 5 P. Torop, 2000

12

selezione e combinazione degli elementi filmici in relazione allo spazio e alla durata del tempo della vicenda narrata, ed ancora da elementi scenografici e recitativi6. Infine, così come il romanzo è scritto sulla base dello stile e del pensiero dell’autore, il film viene costruito in base allo stile ed al pensiero del regista che, in tal senso, non è un traduttore ma un vero e proprio artista, ovvero uno scrittore e creatore di testi.

Tutti questi elementi possono essere in altre parole e più brevemente espressi, unificati e spiegati, secondo Torop, nei tre tipi di cronotopo sui quali si fonda e si concretizza l’analisi traduttologica del film: il cronotopo topografico, ovvero le coordinate spazio-temporali all’interno delle quali si muovono sia la storia sia i personaggi, il cronotopo psicologico, che include sia la psicologia dei personaggi sia la psicologia di gruppo, e, infine, il cronotopo metafisico, che corrisponde alla poetica autoriale7.

Da tutto ciò si evince quanto sia difficile, ancor più che in qualsiasi altro tipo di traduzione, creare un metodo scientifico di analisi della traduzione intersemiotica coeso e coerente ed applicabile nel modo più ampio possibile.

Di volta in volta ed a seconda dei singoli casi, nella trasposizione cinematografica il traduttore analizza e scompone il prototesto nei suoi elementi costitutivi e in quelli potenziali, decidendo poi per ognuno se sopprimerlo o se e come mantenerlo, ridurlo, modificarlo, amplificarlo o se aggiungere degli elementi nuovi all’interno del nuovo testo8. Si tratta di una vera e propria opera creativa, nella quale è difficile stabilire a priori che cosa corrisponda a che cosa.

Ogni elemento del prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, ma secondo modalità diverse per ogni film e per ogni regista, il quale, come già detto, sceglierà le caratteristiche dominanti da conservare –

6 A. Costa, 1985 7 P. Torop, 2000

13

magari anche modificandole – nel suo metatesto.

Nella seguente tabella mi sono proposta di riassumere, in modo schematico e stilizzato, le fondamentali tecniche cinematografiche ed i principali elementi che intervengono alla raffigurazione e realizzazione dei cronotopi, individuati da Torop, all’interno dell’opera filmica:

CRONOTOPO

SCELTA DOMINANTI

MEZZO ESPRESSIVO

1) Topografico

Soppressione Conservazione Aggiunta Storicizzazione Modernizzazione Riduzione Amplificazione Teatralizzazione

tempo

fabula

trama, ambientazione

intreccio

flashback, flashforward, dissolvenze, didascalie, salti, blocchi, montaggio

spazio

ambientazione

scenografia, paesaggio, inquadrature, movimenti di macchina, fotografia, suoni, montaggio, colori

2) Psicologico

psicologia personaggio

attore, mimica, gestualità, recitazione, abbigliamento, dialogo, voce, inquadrature soggettive-oggettive, voce over, linguaggio e campi espressivi, colori

psicologia gruppo

ambientazione, linguaggio, realia, intertesti, posizione e valori sociali, campi espressivi, colori

temi

gli altri cronotopi

3) Metafisico

poetica autoriale

interpretazione, stile e concezione cinematografica del regista

8 B. Osimo, 2001

14

Certamente, tale tabella non ha alcuna pretesa di esaustività, semplicemente si propone come schema di orientamento all’interno del “viaggio” che mi accingo ad intraprendere con questo mio lavoro. D’altronde, come accennato precedentemente, la quantità di sistemi segnici in un film è davvero notevole e, di conseguenza, difficilmente può essere ridotta a tabella. Nel caso della traduzione filmica, è arduo prendere in considerazione anche la ritraduzione nella lingua dell’originale9.

Il presente lavoro si propone di analizzare la trasposizione cinematografica dalla famosa novella Doppio Sogno dello scrittore viennese di inizio Novecento Arthur Schnitzler nell’altrettanto celebre e controverso film Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick.

Sulla base delle precedenti osservazioni, nella mia analisi traduttologica ho preso in considerazione innanzitutto il prototesto, che ho analizzato cercando di cogliere le sue dominanti all’interno dei cronotopi rilevati da Torop, per poi focalizzare la mia attenzione sul metatesto ed il modo in cui le predette dominanti ed i cronotopi sono stati ricreati e rappresentati nel metatesto stesso. Inoltre, ho deciso di concentrare e far quindi ruotare la mia analisi principalmente sul tema dominante della novella, ovvero la rappresentazione dei temi dell’opera e delle dinamiche di coppia che caratterizzano i due protagonisti.

Nel primo capitolo, dunque, ho esaminato ed approfondito maggiormente Doppio Sogno di Arthur Schnitzler sia dal punto di vista della trama – fabula e intreccio – sia dal punto di vista delle sue tematiche, cercando di individuare il tema dominante, sul quale anche il regista Kubrick ha basato la sua trasposizione cinematografica. Ho poi brevemente presentato la concezione cinematografica e le tematiche predilette da Kubrick nell’arco della sua carriera

9 P. Torop, 2000

15

di regista filmico, nonché Eyes Wide Shut unicamente considerando la sua valenza filmica.

Nel secondo capitolo mi sono concentrata sulla vera e propria analisi traduttologica dell’intera opera, prendendo in considerazione il modo in cui gli elementi caratteristici dei quali era composto il prototesto – ovvero la trama, i temi, l’ambientazione, i personaggi principali, il tempo e lo spazio – sono stati trasferiti e riprodotti nel metatesto. In particolare, ho prestato attenzione alla riproduzione del tema principale del racconto di Schnitzler, con le sue problematiche.

Nel terzo ed ultimo capitolo ho approfondito l’analisi traduttologica di una sola sequenza del film, ossia quella che, a mio avviso, raffigura e tratteggia con maggiore lucidità il tema dominante sia dell’opera stessa sia del mio lavoro: si tratta della scena del confronto iniziale fra i due protagonisti in seguito al veglione mascherato – una festa natalizia nel film; tale sequenza rappresenta nella novella la vera e propria apertura della vicenda, nella quale si delineano con chiarezza sia le dinamiche che scandiscono, muovono e caratterizzano la coppia dei due personaggi sia il tema che funge da asse portante dell’intero racconto, ovvero la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplicherà in un continuo ritorno di doppi ed alternanze, oltre che nel diagramma dei turbamenti paralleli vissuti dai protagonisti dell’opera. Ho cercato, in particolar modo, di sottolineare le differenze con le quali la sequenza è stata descritta nel racconto ed invece rappresentata nel film.

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1. DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK: PRESENTAZIONE DELLE DUE OPERE

Doppio Sogno costituisce un soggetto ideale per il cinema: Schnitzler stesso nel 1930 ne abbozzò una sceneggiatura di trenta pagine, compiendo interventi di sviluppo e semplificazione del racconto.

Stanley Kubrick, senza successo, cercava di realizzare questo progetto sin dai primi Anni Settanta; vi riuscì soltanto nel 1999, a distanza di un quarto di secolo, dopo quasi due anni impiegati a scrivere la sceneggiatura, dopo 19 mesi di riprese, dopo più di un anno nel quale curò personalmente le fasi di montaggio e di postproduzione.

1.1. Doppio Sogno di Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, studioso della psicoanalisi e soprattutto scrittore, vissuto a cavallo tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo, contemporaneo a Sigmund Freud, pubblicò opere caratterizzate da un’analisi profonda e spietata delle motivazioni all’origine della azioni umane, distintive di un’incomparabile capacità di lettura psicologica della natura umana. I temi principali riguardano i rapporti sentimentali, le complicazioni della vita erotica e la paura della morte.

Il suo confronto con la psicoanalisi si è articolato attraverso una ricerca squisitamente artistica che, mediante l’assorbimento e l’elaborazione degli studi di Freud e della neonata psicoanalisi, ha ipotizzato l’esistenza del medioconscio (Mittelbewusstsein), una specie di territorio intermedio fluttuante fra la superficie del conscio e la profondità dell’inconscio, territorio in direzione del quale si attua il processo di rimozione degli elementi nella loro ascesa verso il

17

conscio o discesa verso l’inconscio10.

Traumnovelle, nella versione italiana Doppio Sogno, è un’opera in bilico fra sogno e realtà. Fu scritta fra il 1921 e il 1925 e si articola in sette parti che scandiscono le alterne e tormentate fasi della crisi di una giovane coppia viennese: in particolare, l’autore si concentra sul problema di incomunicabilità che, innescato da un qualsiasi motivo occasionale, viene improvvisamente a turbare e a minare l’equilibrio del rapporto tra l’uomo e la donna, descrivendo così lo sgomento dell’individuo di fronte alla enigmatica ed instabile realtà dell’esistenza. Mentre però nelle novelle precedenti Schnitzler tendeva ad evidenziare la conflittualità di uno solo dei due partner, in quest’opera la crisi appartiene ad entrambi e si sviluppa in modo parallelo, tanto che inizialmente il titolo pensato per la novella era Doppelnovelle (Doppia novella)11.

1.1.1. Breve sintesi

Il racconto di Schnitzler è incentrato in soli due giorni della vita di una giovane coppia viennese e si apre con il dialogo nella loro camera da letto, dove, a seguito di un ballo in maschera svoltosi la sera precedente nel corso del quale ad entrambi sono state rivolte profferte amorose, i due protagonisti si scambiano reciprocamente le proprie impressioni, le proprie incertezze, finendo però con lo svelare e confessarsi vicendevolmente i desideri e le angosce della loro vita più intima, in particolar modo un tradimento mai consumato da parte di entrambi durante una passata vacanza estiva in Danimarca, e col minare la stabilità del loro rapporto.

Inizia così il viaggio parallelo onirico-reale-surreale dei due: quello fisico di Fridolin tra assassini, prostitute e orge e quello mentale di Albertine tra sogni, incubi e preoccupazioni.

10 A. Schnitzler, 2001 11 G. Farese, 1977

18

Al termine delle reciproche rivelazioni, Fridolin viene chiamato al capezzale di un paziente, che però trova già morto. Lì incontra la figlia Marianne, la quale, pur essendo in procinto di nozze, gli confessa di averlo sempre amato. In strada, turbato dall’inaspettata rivelazione, Fridolin decide di accettare l’invito di una giovane prostituta, tuttavia, entrato in casa di lei, parlano soltanto, a lungo. Ormai è notte fonda e Fridolin decide di non rientrare a casa ed entra in un locale dove incontra un suo vecchio compagno di università che lavora come pianista. Da lui apprende l’esistenza di una strana setta che si riunisce in luoghi sempre differenti, dove avvengono raffinatissime e sontuose orge in maschera. Incuriosito, eccitato ed allo stesso tempo sconvolto dagli accadimenti della giornata, Fridolin, dopo essersi procurato un travestimento da monaco nel negozio dell’ambiguo mascheraio Gibiser, si fa dare dall’amico l’indirizzo e la parola d’ordine, che è Danimarca, e si intrufola, senza invito, nella villa della festa mascherata. Si ritrova così fra uomini e donne di grande bellezza che sembrano riconoscersi l’un l’altro il diritto di essere presenti. Solo una magnifica donna dal corpo fiorente e profumato sembra intuire che Fridolin è un intruso e più volte gli intima di fuggire prima che sia troppo tardi. Tuttavia, Fridolin viene scoperto dalla setta e catturato: solo l’intervento ed il sacrificio della misteriosa donna che in precedenza lo aveva supplicato di andarsene gli regalano la libertà e, forse, gli salvano la vita. Confuso ed esausto, rientra a casa dalla moglie, che in quel momento si sta svegliando da un lungo ed inquietante sogno, che si rivela speculare rispetto alle avventure notturne di Fridolin: infatti, in sogno Albertine si concede prima al giovane danese e subito dopo a molti altri uomini mentre assiste, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta il sacrificio pur di restarle fedele. L’infedeltà e l’indifferenza sognate da Albertine generano in Fridolin un moto di indignazione, che diviene il pretesto ed un’autogiustificazione a ritrovare la bella sconosciuta che si è offerta di essere punita o uccisa al suo posto.

Da questo momento, secondo un diagramma speculare e simmetrico rispetto a quanto accaduto prima del racconto del sogno da parte di Albertine, Fridolin

19

rincontra le stesse persone e rivive le stesse situazioni, o meglio tenta di rincontrare le stesse persone e tenta di rivivere le stesse situazioni, del giorno precedente. Così, cerca di rimettersi in contatto con l’amico pianista senza tuttavia riuscirci, va a trovare la figlia del paziente morto la quale, però, si mostra poco disponibile e si reca dalla giovane prostituta senza però trovarla in casa.

Poi, dopo avere letto su un giornale della tragica morte per avvelenamento di una giovane donna dalla straordinaria bellezza, Fridolin, sconvolto ed insospettito, si reca all’obitorio dove esamina il corpo della donna, senza tuttavia raggiungere la certezza che si tratti della sconosciuta che si è sacrificata per lui.

Tornato a casa, Fridolin trova con orrore sul suo cuscino, accanto alla moglie addormentata, la maschera che ha indossato durante la festa la notte precedente. Racconta allora ad Albertine la sua esperienza-incubo, come se fosse l’unico modo per salvare il loro matrimonio.

1.1.2. Analisi dell’opera

L’immediatezza con la quale Schnitzler presenta, con pochi tratti essenziali, situazioni e personaggi è caratteristica dello scrittore viennese e tocca ancora una volta in Doppio Sogno il culmine della maestria narrativa. Quella della tranquilla famiglia borghese è solo una maschera, una facciata illusoria che cela un groviglio di dubbi, di angosce, di aggressività, di desideri repressi che, una volta svelati e liberati, coinvolgeranno i personaggi in una ridda di avventure reali e sognate, costringendoli a percorrere le stazioni della loro crisi alla ricerca di una verità che non esiste se non nel tentativo della reciproca comprensione. Nessuna delle avventure erotico-surreali di Fridolin giungerà a compimento e l’orgia di piacere e di libidine incontrollata di Albertine è solo un sogno, così come il tradimento dei due coniugi, motivo scatenante dei turbamenti paralleli dei protagonisti, è solo frutto di una fantasia erotica.

20

La trama della novella si struttura e si dipana secondo il filo dell’alienazione e della vicendevole estraniazione dei due personaggi principali. Il simbolo di tale alienazione è la maschera ed il mistero che ad essa si accompagna: la storia si apre con il racconto delle vicende della festa mascherata della sera precedente, preludio di quello che accadrà in seguito. Ed infatti, è soprattutto la partecipazione notturna di Fridolin alla festa orgiastica mascherata, caratterizzata dall’assoluta assenza di volti e quindi di identità, e conclusasi con l’allucinante confronto con il corpo della donna morta nella sala anatomica, a segnare e a simboleggiare la perdita di identità che connota la crisi dei due personaggi.

Doppio Sogno, quindi, rappresenta la storia del progressivo allontanarsi affettivo e del progressivo ricongiungersi di Albertine e di Fridolin. La loro condizione psicologica lascia pensare a quella specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio che Schnitzler definiva «medioconscio», e che consente di inquadrare in una nuova prospettiva il turbamento interiore dei due personaggi, sospesi in bilico fra comprensione ed incomprensione12. Infatti, se è vero che il medioconscio costituisce «il campo più vasto della vita psichica e spirituale, [e da esso] gli elementi emergono incessantemente al conscio o precipitano nell’inconscio»13, allora anche la ritrovata intesa finale di Fridolin e Albertine dopo la turbinosa notte dei desideri inappagati rappresenta una sorta di ascesa al conscio, un ritorno alla normalità, dove però nulla sarà più come prima.

Il medioconscio dunque è la grande regione nella quale si muovono le ricognizioni analitiche di Schnitzler – basti pensare alle riflessioni ed ai monologhi interiori dei suoi personaggi –, una sorta di regno delle percezioni e dei ricordi che sfugge al dominio della razionalità e che tuttavia non è riconducibile all’inconscio. «Il medioconscio è la zona della psiche dove appare visibile la fragilità della condizione umana, l’autoillusione dell’individuo che si

12 S. Ciaruffoli, 2003
13 A. Schnitzler, 2001, p. 18

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sottrae alla propria responsabilità etica, il carattere di maschera dei ruoli sociali»14.

L’accenno di Albertine al destino nel colloquio finale con il marito è un richiamo a quello iniziale dei due coniugi, ovvero il primo momento di dubbio ed incertezza reciproci e preludio al successivo sbandamento affettivo. In questo primo colloquio Schnitzler fissa e sintetizza la tematica della novella, preannunciandone allo stesso tempo lo sviluppo narrativo:

Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino.15

Schnitzler delinea subito la possibilità e l’intento di utilizzare il sogno come regione dell’anima nella quale è possibile la realizzazione dei desideri repressi; e sarà proprio Albertine ad intraprendere un viaggio liberatorio all’interno degli abissi della coscienza. Il suo sogno, però, non rappresenta unicamente la soddisfazione di un desiderio represso e non ha un contenuto latente, non ha bisogno di essere decodificato. È vero che il materiale onirico è costituito dai resti diurni e dal ricordo della conversazione con Fridolin in camera da letto – in sogno appaiono gli schiavi mori della fiaba raccontata alla figlioletta, il giovane ufficiale danese che aveva ammaliato Albertine durante la vacanza in Danimarca, la bella fanciulla che aveva avvinto Fridolin nella stessa occasione – ma l’azione onirica, così come descritta da Schnitzler attraverso le parole di Albertine, ha una funzione ben precisa ed ha carattere speculare rispetto alle fantastiche avventure reali di Fridolin: infatti, mentre Fridolin non riuscirà a

14 L. Reitani, 2001, p.119
15 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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possedere la bella sconosciuta durante la festa in maschera e, una volta scoperto, riuscirà a sfuggire ad una dura punizione, e forse alla morte, soltanto grazie al sacrificio della donna misteriosa, Albertine si concederà al giovane danese e assisterà poi, ridendo, alla crocifissione del marito che accetta di morire pur di restarle fedele.

Nelle sue stesse trascrizioni ed osservazioni riguardanti i propri sogni16 Schnitzler non appare interessato ad una analisi del fenomeno onirico. Per quanto riveli una assimilazione di alcuni concetti fondamentali del pensiero freudiano – come il valore dei resti diurni o la nozione di «spostamento» – egli rimane ancorato al contenuto onirico manifesto, affascinato dalla simbologia dei sogni, dagli spazi e dalle dimensioni che in essi si aprono, dalla stessa ricorrenza di temi chiaramente ossessivi – come l’idea della morte legata al sogno, che richiama alla mente l’immagine dell’obitorio in Doppio Sogno. È dunque all’individuo ed alla sua crisi psicologica ed esistenziale che Schnitzler presta la sua attenzione, e non alla psiche in quanto tale17.

La risata sinistra e al contempo isterica con la quale Albertine si desta dall’inquietante sogno e l’orrore di Fridolin di fronte al volto estraneo della moglie che lo guarda terrorizzata segnano il culmine della loro estraniazione e del loro allontanamento affettivo. Mentre la fine del racconto del sogno da parte di Albertine costituisce il primo momento del loro successivo riavvicinamento18. Infatti, se da un lato il sogno ha assorbito tutti gli impulsi aggressivi di Albertine ed ha permesso il soddisfacimento di un inconscio desiderio di vendetta per l’incomprensione del marito, dall’altro ha costretto Fridolin, sgomento per l’infedeltà sognata dalla moglie e per la straordinaria coincidenza di fantasmi onirici e realtà da lui vissuta, a riflettere, seppure

16 È possibile prendere visione delle trascrizioni e valutazioni dei suoi stessi sogni in A. Schnitzler, 2001, p. 35-58
17 L. Reitani, 2001
18 G. Farese, 1977

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inconsciamente, sulla sua stessa infedeltà, che solo per un singolare gioco del destino non si è mai tramutata in realtà. È da questo momento che Fridolin intraprenderà il viaggio che lo riporterà dagli abissi della sua stessa anima verso la superficie, ossia la normalità.

L’attenzione di Schnitzler è rivolta principalmente alla figura del protagonista maschile, Fridolin, il cui viaggio interiore alla ricerca di una soluzione al proprio smarrimento esistenziale è più lungo, complesso e travagliato rispetto a quello della moglie, che, sotto questo aspetto, diviene un personaggio secondario sebbene di fondamentale importanza per lo sviluppo della trama e del parallelismo delle vicende oniriche e reali della novella.

Anche la dicotomia fedeltà-tradimento, che costituisce l’asse portante della storia, si esplica maggiormente nelle contraddittorietà del personaggio maschile, ben rappresentate a partire dalla reazione di Fridolin alla reciproca confessione, in camera da letto, dei pericoli cui entrambi i partner sono sfuggiti durante la vacanza estiva in Danimarca19. All’affermazione di Fridolin: «in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te» Albertine replica: «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?». Emblematica è la reazione immediata di Fridolin: «Fridolin abbandonò le sue mani quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva»20. Alla base della debolezza e dell’indecisione di Fridolin vi è dunque l’ipocrita ed assurdo pregiudizio borghese che concede agli uomini il diritto ad una morale e relega la donna in una degradante posizione subalterna21. Diviso fra la morale borghese e l’amore per Albertine, incapace di risolvere razionalmente le proprie contraddizioni, Fridolin intraprende il proprio viaggio all’insegna dell’evasione erotica e di un illusorio senso di liberazione dalle proprie responsabilità, oltre che del desiderio di vendicarsi della moglie, che si rivela però vano tanto quanto il tentativo di

19 G. Farese, 1977
20 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 21 G. Farese, 1977

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liberarsi dalla presenza stessa della moglie. Infatti, sebbene Fridolin sia fisicamente presente in tutti e sette i capitoli e il narratore lo segua passo passo nei suoi spostamenti, mentre Albertine sia realmente presente soltanto in quattro capitoli, di fatto la sua presenza viene percepita in ogni capitolo e la sua immagine, apparentemente rimossa, non ha mai abbandonato Fridolin. Egli se ne accorge proprio quando, nel tentativo disperato di svelare il mistero e dare un volto alla bella sconosciuta che si è sacrificata per lui, si reca all’obitorio:

[…] che cercava? Conosceva solo il suo corpo, il viso non l’aveva mai visto, ne aveva avuto solo un’immagine fugace la notte scorsa nell’attimo in cui aveva lasciato la sala da ballo o, per meglio dire, quando ne era stato cacciato. Eppure il non avere fino ad allora considerato quella circostanza derivava dal fatto che per tutto il tempo trascorso dal momento in cui aveva letto quella notizia sul giornale si era rappresentata la suicida, il cui volto gli era sconosciuto, con i lineamenti di Albertine e che, come si accorse solo ora rabbrividendo, aveva continuamente avuto davanti agli occhi l’immagine della moglie, identificandola con colei che cercava.22

Da un lato, dunque, l’immagine di Albertine non ha mai abbandonato Fridolin nella sua disperata ed assurda corsa verso l’evasione erotica, dall’altro quest’improvvisa rivelazione potrebbe essere interpretata come un nuovo segno di parallelismo e capovolgimento della situazione fra il sogno di Albertine e l’avventura di Fridolin: se si è sempre figurato il volto della suicida coi lineamenti della moglie, anche Fridolin si è in qualche modo vendicato dell’infedeltà e dell’incomprensione di Albertine facendo sì che, almeno nella sua immaginazione, Albertine stessa si sia sacrificata per lui e per la sua salvezza. La discesa agli inferi, nelle profondità dell’inconscio, è terminata e a chiunque appartenga quel corpo enigmatico di donna che lo ha magicamente attratto, esso non rappresenta oramai altro che «il cadavere pallido della notte

22 A. Schnitzler, 1977, p. 104

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passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione»23.

Il ritorno a casa e la vista della maschera che ha indossato durante la festa nella misteriosa villa e che, trovata da Alberatine, è stata significativamente posta sul cuscino del marito, come a rappresentare la perdita di identità, lo straniamento e lo smarrimento del personaggio, è sufficiente a causare il crollo di Fridolin: caduta la maschera dietro la quale aveva creduto di poter celare le proprie contraddizioni, riaffiora in lui la coscienza del proprio rapporto con Albertine, e si profila la possibilità di una ripresa sulla base della reciproca comprensione24. Se, da un lato, l’affermazione conclusiva di Albertine, che sentenzia: «Non si può ipotecare il futuro»25 è indicativa del determinismo e dello scetticismo che caratterizza il pensiero di Schnitzler e che ha orientato anche l’amara tematica di Doppio Sogno, dall’altro i riferimenti al vittorioso raggio di luce che annuncia il nuovo giorno e il riso della bambina che si avverte dalla stanza accanto lasciano presagire una rinnovata speranza in un mondo in declino.

1.2. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

Stanley Kubrick è stato definito un regista eccentrico, un genio, un maestro, un autore fortemente concettuale; certamente, non è un regista di immediata comprensione. Ma, in qualsiasi modo lo si voglia considerare, non si può non riconoscere l’importanza della sua arte, uno sguardo sul mondo e sull’uomo.

Nato a New York, ha vissuto per anni lontano dal mondo del cinema, isolato nella sua casa in Inghilterra, producendo capolavori ad intervalli di tempo sempre maggiori; ossessionato dal bisogno di esercitare un controllo assoluto su tutti gli aspetti del proprio lavoro, curava personalmente il montaggio e la

23 A. Schnitzler, 1977, p. 111 24 G. Farese, 1977
25 A. Schnitzler, 1977, p. 114

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postproduzione, nonché i sottotitoli ed il doppiaggio per ogni edizione originale e straniera dei propri film.

1.2.1. Temi del cinema di Kubrick

Le sue opere raccolgono storie riconducibili ad un unico nucleo tematico, costituito dalla «rappresentazione della crisi del modello della ragione occidentale»26, tema affrontato da Kubrick mediante mezzi esclusivamente cinematografici, basandosi sulla forza delle immagini e dei suoni. Egli rappresenta tale crisi attraverso la crisi del controllo sulle azioni e sulle identità dei singoli soggetti, mediante un uso distorto dello spazio e del tempo e, infine, rappresentando la crisi del sistema sociale.

I personaggi di Kubrick si muovono in un universo che sfugge alla loro comprensione, in un mondo fatto di menzogne, di inganni e di false rappresentazioni. Questa perdita di controllo e di comprensione da parte dei singoli personaggi si riflette da un lato nella crisi dell’uso del linguaggio, che regredisce fino a divenire quasi grottesco nella sua povertà ed inadeguatezza, dall’altro nella progressiva spersonalizzazione dei personaggi, che divengono soggetti privi di un’identità salda, sicura, completa. Spesso i personaggi kubrickiani sono portatori di identità differenti ed inconciliabili fra di loro. L’uso insistito dei primi o primissimi piani delinea non tanto la volontà di esplorare reazioni psicologiche o di fissare stati d’animo soggettivi, quanto quella di indagare l’animo umano nella sua perdita e scissione di identità, attraverso la presentazione di smorfie grottesche, maschere distorte dei volti27. A tale proposito, la maschera è anch’essa un tema ricorrente nel cinema di Kubrick, così come la sua ossessione per il tema del doppio. In un quadro più ampio, la crisi dell’individuo si presenta come lo specchio di una più vasta crisi sociale. Altri espedienti per la rappresentazione della crisi della ragione sono un

26 R. Eugeni, 1995, p. 135 27 R. Eugeni, 1995

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uso distorto dello spazio e del tempo, che perdono la loro neutralità per divenire espressioni della soggettività ed emotività dei personaggi. Ad esempio, l’uso del labirinto e dei corridoi indica uno svuotamento dello spazio e la mancanza di punti di riferimento, così come l’utilizzo dei carrelli in avanti o all’indietro che accompagnano il personaggio in una sorta di corridoio-tunnel assumono il significato di una realtà che risucchia i protagonisti, senza dar loro la possibilità di prevedere quale possa essere il punto d’arrivo. Alla crisi dello spazio di solito si accompagna la crisi del tempo, che perde la sua linearità per assumere fattezze soggettive, caratterizzate dalla presenza di ciclicità e ritorni, simmetrie inquietanti di eventi che si riproducono con ossessiva similitudine e che costringono i personaggi ad una coazione a ripetere, proiettando le loro azioni in un non-divenire.

1.2.2. Eyes Wide Shut: il testamento di Stanley Kubrick

Nel dicembre 1995 viene ufficialmente annunciato che il nuovo film di Stanley Kubrick sia chiamerà Eyes Wide Shut, e che avrà come protagonisti Tom Cruise e Nicole Kidman. Il film, sceneggiato dallo stesso Kubrick assieme a Frederic Raphael, affermato intellettuale, scrittore, saggista nonché sceneggiatore, è tratto dal racconto Doppio Sogno di Arthur Schnitzler. Le riprese iniziano nell’estate del 1996 e si svolgono nella massima segretezza: gli attori e i tecnici sono tenuti per contratto a non far trapelare il minimo particolare della vicenda e della lavorazione. Le riprese si protraggono ben oltre il previsto, anche a causa dell’ormai leggendaria meticolosità del regista che ripete la stessa scena anche fino a settanta volte, e si concludono ufficialmente il 31 gennaio 1998. Kubrick comincia a curare il montaggio e la fase di postproduzione del film. Il 5 marzo 1999 invia una copia di Eyes Wide Shut, finito di montare e sonorizzare il giorno prima, ai responsabili della Warner Bros. di New York, che ne effettuano una proiezione riservatissima. Alle prime ore del 7 marzo Kubrick muore nel sonno nella sua casa presso Londra, aprendo laceranti dubbi sulla completezza dell’ultima sua opera, nella quale molti hanno ravvisato

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imprecisioni ed imperfezioni, soprattutto, per l’appunto, a livello di montaggio.

Il montaggio che possediamo, tuttavia, è l’ultimo sul quale ha lavorato Kubrick: i suoi collaboratori hanno preferito non intervenire per rispetto nei confronti del maestro. E se a molti può apparire incompiuto da un punto di vista produttivo, l’ultimo film di Kubrick appare a me invece come un’opera pienamente kubrickiana, caratterizzata da una forte coesione interna ed esplicativa dei motivi narrativi, tematici e stilistici che hanno contraddistinto tutto il cinema di Kubrick.

A tal proposito, Eyes Wide Shut diviene il testamento involontario di Stanley Kubrick sotto due aspetti: da un lato riprende quasi in forma di ricapitolazione i nuclei tematici ed i procedimenti stilistici del suo cinema, dall’altro sembra condensare in sé la filosofia cinematografica di Kubrick, nella quale il cinema diviene alter-ego del sogno ed il suo linguaggio, come quello dell’inconscio, diviene uno sguardo sulla realtà.

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2. DA DOPPIO SOGNO A EYES WIDE SHUT: ASPETTI DI UNA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA

Alla luce dei temi prediletti di Kubrick e ricorrenti, seppure in modi e misure differenti, in pressoché tutti i suoi capolavori, credo giunga immediata una constatazione della simmetria perfetta fra il pensiero cinematografico del noto regista e la filosofia che ha orientato l’opera di Schnitzler. A questo punto, non solo Doppio Sogno si presenta come un soggetto ideale per il cinema, come sopraccitato, ma diviene anche e soprattutto un soggetto ideale per il cinema di Kubrick nello specifico.

2.1. Due trame a confronto

Sebbene Stanley Kubrick rimanga sostanzialmente fedele alla lettura di Doppio Sogno, nel film vi sono alcune importanti differenze narrative.

Innanzitutto, la storia è incentrata in quattro giorni della vita della giovane coppia anziché due ed è proiettata nella New York odierna durante il periodo natalizio. I protagonisti sono il medico Bill Harford e la bella moglie Alice in luogo del medico Fridolin e della moglie Albertine.

Il film si apre con la scena in cui i due coniugi si recano, come ogni anno, ad una sontuosa festa natalizia a casa del loro amico Victor Ziegler.

A tal proposito, vorrei sottolineare che questa festa, che nel racconto di Schnitzler rappresenta non più di una fuggevole parentesi unicamente funzionale allo sviluppo della storia stessa, occupa invece nel film una buona parte della scena ed assume una notevole importanza nel delineare sia lo sviluppo della vicenda sia alcuni dei temi fondamentali della storia

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rappresentata da Kubrick. Inoltre, la sostanziale quanto implicita differenza strutturale tra un’opera letteraria, che viene fissata sotto forma di parola scritta, ed un film, che viene invece sostenuto dall’immagine, dalla parola sotto forma di dialogo o voce over, nonché dal suono, rende necessario mostrare attraverso l’immagine, appunto, ciò che nel libro ci viene invece solo riferito28. Oltre a ciò, è necessario aggiungere che, a differenza di molti altri suoi prodotti cinematografici, in Eyes Wide Shut Kubrick ha preferito lasciar scorrere le immagini e non affidarsi, ad esempio, alla voce fuori campo per descrivere determinate scene o situazioni, onde evitare di sovraccaricare troppo l’ambientazione onirico-reale-surreale della vicenda: anche questo spiega la necessità e la decisione di dar vita, nel film, alla festa soltanto accennata da Schnitzler mediante lunghe sequenze di musica e di immagini.

Anche il personaggio di Victor Ziegler rappresenta una novità rispetto al racconto di Schnitzler e costituisce una sorta di deus ex machina; in un confronto finale fra il protagonista Bill e Ziegler, Kubrick ha l’occasione di inserire una riflessione su due diversi tipi di morale: quella accomodante e superficiale di Ziegler e quella più problematica ma anche più consapevole di Bill. Inoltre, se da un lato l’introduzione di questo personaggio è stata una scelta in un certo senso obbligata, in quanto è colui che invita Bill e Alice alla festa di Natale, dall’altro il suo ritorno nel dialogo con Bill in merito all’altra festa, quella mascherata e segreta, è un espediente prima voluto dallo sceneggiatore Raphael e poi approvato ed utilizzato da Kubrick per conferire al film un maggiore senso di realtà, poiché «se non c’è realtà non c’è film»29.

Tornando alla trama del film, durante la festa a casa Ziegler, Alice viene corteggiata da un attempato ma seducente ungherese, Sandor Szavost, mentre Bill ritrova un vecchio compagno di università, che lavora ora come pianista e che lo invita, più tardi, a raggiungerlo in un locale nel quale si dovrà esibire.

28 P. Torop, 2000
29 F. Raphael, 1999, p. 40

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Kubrick anticipa l’incontro fra il protagonista maschile e il vecchio amico rispetto a Schnitzler, eliminando quindi da un lato la casualità del successivo e determinante incontro fra i due personaggi e dall’altro, secondo una mia impressione, quell’immagine di predeterminazione che assume il viaggio di Fridolin in Doppio Sogno, quasi preannunciato ed evocato dal narratore quando fa riferimento all’«inafferrabile vento del destino»30.

Tornando alla trama, mentre anche Bill flirta con due modelle, il padrone di casa richiede il suo intervento: Mandy, una giovane modella con la quale Ziegler si era appartato nel bagno di casa, ha avuto una crisi di overdose. Bill salva la ragazza. Una volta a casa, Bill e Alice fanno l’amore.

La giornata successiva si svolge all’insegna della normalità.

A questo punto Kubrick riprende nel film la scena di apertura di Doppio Sogno.

La sera Bill e Alice fumano assieme della marijuana: resa eccitata ed aggressiva dalla droga, Alice dà il via ad un gioco della verità che la porta a confessare a Bill di avere provato tempo prima una forte ed irresistibile attrazione per un giovane ufficiale di marina durante una vacanza trascorsa a Cape Cod. Una telefonata interrompe il dialogo: il medico è chiamato al capezzale di un cliente appena deceduto.

Interessante e non comprensibile in questa scena è la decisione, da parte dello sceneggiatore Raphael e dello stesso Kubrick, di eliminare la reciprocità della confessione del mancato tradimento: nel racconto di Schnitzler, infatti, i due coniugi si erano trovati entrambi coinvolti da una forte attrazione per un’altra persona durante la vacanza; in tal modo, nel film si verifica uno sbilanciamento rispetto alla struttura originaria dell’opera, che perde sia parte della sua doppiezza, sia efficacia nel mostrare il parallelismo dei turbamenti dei due protagonisti, creando così un notevole residuo traduttivo. Oserei dire che, se Schnitzler concentra la propria attenzione prevalentemente sull’analisi del

30 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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personaggio maschile, nel quale si esplicano con maggiore forza le contraddittorietà dell’animo umano, Kubrick fa dell’emblematicità dello stesso l’asse portante della vicenda.

Da notare, inoltre, che la scelta di cambiare il luogo nel quale si è svolta la vacanza dei due protagonisti comporterà poi anche la modifica della parola d’ordine per accedere alla festa mascherata: infatti, non avrebbe avuto senso mantenere la parola Danimarca nel film, poiché nel racconto essa aveva una chiara funzione evocativa, che accentuava il carattere onirico-surreale del viaggio di Fridolin.

Uscito di casa, ha inizio l’odissea notturna di Bill, ossessionato dall’idea del tradimento non consumato della moglie con l’ufficiale.

A casa del defunto, la figlia di questi, Marion, nonostante sia in procinto di nozze, in un momento di intimità gli confessa il suo amore per lui. Sconvolto dall’inaspettata rivelazione, una volta in strada Bill decide di accettare l’invito di una giovane prostituta a seguirla nel suo appartamento, ma una telefonata di Alice gli impedisce di consumare il rapporto con la ragazza.

Nel racconto di Schnitzler, la presenza di Albertine viene percepita anche nei capitoli in cui non compare fisicamente, grazie al pensiero di Fridolin, spesso rivolto nei suoi confronti, sia quando pensa a lei teneramente sia quando rivive il mancato tradimento ed è mosso da moti di indignazione. Data la naturale differenza strutturale fra racconto scritto e film, che non può avvalersi della parola per indagare e descrivere il pensiero o la psicologia dei personaggi, e data la scelta da parte del regista di rinunciare all’utilizzo della voce fuori campo, Kubrick ha probabilmente deciso di rivelare la suddetta presenza della moglie attraverso altri espedienti, come la tecnologia, ovvero una telefonata che interrompe il flusso delle azioni e dei pensieri del medico. Anche il turbamento interiore di Bill viene mostrato, e non riferito come nel libro, oltre che mediante la gestualità e la mimica facciale, anche attraverso l’uso di immagini accompagnate da una inquietante musica di sottofondo che, simili a

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fotogrammi che si inseriscono improvvisamente nel naturale svolgimento della storia, raffigurano la moglie assieme all’ufficiale di marina, così come avviene nei pensieri di Bill.

Nuovamente in strada, Bill si reca nel locale in cui si esibisce il vecchio compagno di università incontrato a casa di Ziegler. Intrattenendosi con l’amico, il medico viene a sapere dell’esistenza di una setta misteriosa, popolata da bellissime donne, che si riunisce in luoghi sempre differenti e dove avvengono sontuose orge. Incuriosito, Bill si fa dare l’indirizzo e la parola d’ordine, che è non più Danimarca bensì Fidelio, per accedere alla festa, e si reca poi dall’ambiguo mascheraio Milich per procurarsi un adeguato travestimento. Mentre si trova ancora nel negozio, Bill ed il proprietario scoprono la figlia di quest’ultimo in compagnia di due giapponesi seminudi e travestiti.

Un lungo ed imprecisato viaggio in taxi conduce Bill a Somerton, la villa in cui si svolge la festa mascherata. Tra una folla di individui incappucciati e protetti da maschere grottesche, prende avvio una sontuosa orgia. Bill viene avvicinato da una donna, anch’ella mascherata, che gli intima più volte di fuggire, pena un terribile castigo. Bill rifiuta e viene scoperto, sottoposto ad un processo, minacciato e costretto a confessare la sua intrusione. Improvvisamente, tuttavia, interviene la misteriosa donna mascherata che aveva cercato di avvertirlo poco prima, la quale si offre di sacrificarsi al suo posto. Bill viene liberato.

Tornato a casa, sente Alice che ride sfrenatamente nel sonno. Svegliatasi, la moglie gli racconta angosciata un sogno nel quale si concede prima all’ufficiale di marina e poi ad una grande moltitudine di uomini all’interno di un’orgia.

Così come nella confessione iniziale fra i due coniugi, anche nel racconto del sogno da parte della protagonista femminile Kubrick elimina una parte importante della storia originale: infatti, nella novella di Schnitzler Albertine, dopo essersi concessa al giovane ufficiale, assiste, ridendo, alla crocifissione del

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marito, che accetta il sacrificio pur di rimanerle fedele. In effetti, la scelta da parte di Kubrick di eliminare, nella confessione del reciproco tradimento non consumato, la parte che vedeva coinvolto il protagonista maschile giustifica pienamente la decisione di eliminare anche questa parte del racconto. Nella novella di Schnitzler la reciproca confessione di un tradimento non consumato da parte dei due protagonisti è la causa dello smarrimento, dell’alienazione e anche del desiderio di vendetta di entrambi i partner: questo desiderio verrà soddisfatto da Albertine attraverso la crocifissione del marito mentre lei si concede ad altri uomini, e da Fridolin nell’abbandono all’evasione erotica. Poiché nel film manca la confessione del tradimento non consumato da parte di Bill, non avrebbe probabilmente avuto senso la rappresentazione del desiderio di vendetta da parte di Alice in sogno. In tal modo, il sogno di Alice perde del tutto la connotazione freudiana di soddisfacimento di un desiderio represso per svolgere unicamente una funzione simmetrica e speculare rispetto all’avventura notturna di Bill.

Come nel racconto di Schnitzler, anche nel film prodotto da Kubrick la confessione del sogno di Alice segna l’inizio di un nuovo viaggio, intrapreso da Bill, che si rivelerà speculare rispetto a quanto accaduto nella notte precedente.

Il mattino, prima di andare al lavoro, Bill tenta di mettersi in contatto con l’amico pianista, ma questi è scomparso in circostanze ambigue. Si reca quindi da Milich: i due giapponesi appaiono ora distintamente vestiti e salutano affabilmente il proprietario, col quale hanno raggiunto un “accordo”.

Bill si accorge di avere perduto la maschera che indossava alla festa notturna.

Mentre in Doppio Sogno non viene fatto cenno alcuno ad un eventuale smarrimento della maschera e non viene spiegato in maniera esplicita come, al termine del racconto, essa appaia sorprendentemente sul cuscino di Fridolin, lasciando così aperta l’interpretazione secondo cui la maschera non sia stata trovata e posta significativamente sul cuscino da Albertine, ma semplicemente sia riapparsa, quasi per magia – e, forse, viene vista e percepita soltanto da

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Fridolin –, a significare, da un lato, la perdita di identità da parte del medico e, dall’altro, il superamento del confine fra sogno e realtà, in Eyes Wide Shut Kubrick si premura di fornire – o cercare di fornire – un senso ed una possibile spiegazione al ritrovamento della maschera al termine della storia, alla luce della sua volontà di impregnare la vicenda di un maggiore realismo.

Incapace di lavorare, Bill annulla tutti gli appuntamenti e si reca nuovamente alla villa, dove però gli viene consegnato un biglietto che gli intima di desistere da ogni ulteriore indagine. La sera esce e tenta di mettersi in contatto prima con Marion, poi con la prostituta della sera precedente, ma senza riuscirvi. Per strada Bill si accorge di essere pedinato; compra un giornale e si introduce in un caffè, dove legge della morte per overdose di una ex reginetta di bellezza, Amanda Curran, la stessa ragazza che aveva salvato nel bagno di casa Ziegler. Insospettito dalla coincidenza della morte di Amanda e della misteriosa donna mascherata durante da festa, Bill si reca all’obitorio dove fissa a lungo il corpo della ragazza. Una telefonata lo distoglie dai suoi pensieri e lo chiama a casa di Victor Ziegler, dove lo attendono alcune spiegazioni.

Anche il ricco cliente di Bill era all’orgia in maschera, destinata ad ospitare un gruppo selezionato di potentissimi personaggi. Il pianista è stato semplicemente allontanato. Amanda, anch’ella presente alla festa notturna, è morta poco dopo per la droga assunta volontariamente: non c’è stato nessun omicidio e il processo era solo una messa in scena per spaventare Bill.

All’uscita del film nelle sale cinematografiche, furono in molti quelli che trovarono nell’introduzione di questa scena, assolutamente innovativa rispetto al racconto di Schnitzler, nella quale Kubrick sembra insolitamente concedersi alla spiegazione, un motivo di critica: infatti, in nessuno dei suoi precedenti film il regista aveva mai ceduto ad un commento esplicativo, anzi, semmai aveva sempre cercato di oscurare anche il minimamente percettibile31. In verità,

31 S. Ciaruffoli, 2003

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questa scena, voluta in origine principalmente dallo sceneggiatore Frederic Raphael, che sentiva la necessità di conferire alla storia una struttura narrativa concreta e il più possibile reale, e solo in extremis approvata e adottata da Kubrick, non solo non chiarisce nulla, ma, come avrò modo di spiegare più avanti, ad una più accurata analisi colpisce per il senso di teatralità che riesce a trasmettere e, di conseguenza, di falsità.

Tornato a casa, esausto e sconvolto per le rivelazioni della giornata e per gli accadimenti delle due giornate trascorse, il medico trova la maschera che aveva smarrito adagiata sul suo cuscino a fianco di Alice. La sola vista della maschera è sufficiente per provocare il crollo di Bill. Travolto da un incontenibile pianto liberatorio, egli decide di raccontare alla moglie quanto accaduto.

Il mattino dopo trova i coniugi Harford reduci da un lungo e sofferto racconto. Poi, i due si recano con la figlioletta Helena ad acquistare dei giocattoli. Nel negozio ha luogo un breve ma intenso dialogo conclusivo.

2.2. Ambientazione di Eyes Wide Shut: echi di un’altra epoca

Stanley Kubrick, come attestato anche dalla testimonianza dello sceneggiatore Frederic Raphael32, desiderava rimanere il più possibile fedele al canovaccio di Doppio Sogno. Ed infatti, sebbene vi siano alcune sostanziali differenze fra la trama del film e quella del racconto, che lascerebbero supporre un totale stravolgimento da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad una più accurata analisi è possibile notare come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga rivestita e travestita dalla storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento sia sufficientemente sottile affinché la trama originale continui ad affiorare. Tutta l’ambientazione è volutamente ambigua sotto questo punto

32 F. Raphael, 1999

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di vista.

Alla Vienna di inizio Novecento viene sostituta la New York odierna durante il periodo natalizio: tuttavia, «la New York descritta da Kubrick è uno strano ibrido tra la Grande Mela della fine del XX secolo e la Vienna di inizio ‘900 in cui è ambientato il racconto di Schnitzler»33. Per quanto si svolga in una città tanto multietnica e moderna, Eyes Wide Shut è costellato di personaggi e nomi europei centro-orientali: il seduttore ungherese Sandor Szavost; il signor Milich, proprietario del negozio di costumi, di provenienza balcanica; lo stesso Ziegler, il quale ha un cognome di chiara origine tedesca. Oppure, appaiono ambienti come il caffè Sharky’s, nel quale Bill si rifugia nel tentativo di sfuggire al misterioso pedinatore, intonato ad un clima tardo romantico e nel quale risuona il brano Rex Tremendae dal Requiem K. 626 di Mozart. Altre scelte musicali alludono alla cultura mitteleuropea: il valzer di Šostakovič che accompagna i titoli di testa e l’inizio del film, o i brani di Liszt e di Ligeti34. O, ancora, alcuni particolari come la carrozzina antiquata che la piccola Helena indica ai genitori nella scena finale. Infine, l’abbondanza di valletti, servitori, maggiordomi sia alla festa in casa Ziegler sia alla festa mascherata, o anche la figura del portiere dell’albergo, tutti personaggi compresi nel loro ruolo di subalterni in una società dominata da rigidi rapporti gerarchici, rimandano più alla civiltà aristocratica dell’Europa precedente la Prima Guerra Mondiale che a una moderna metropoli americana.

Tuttavia, la storia originale di Schnitzler non è la sola che si sente riecheggiare nella vicenda di Bill e Alice. Il film è dominato da una forte atmosfera fiabesca.

All’inizio del film Helena è vestita come la protagonista dello Schiaccianoci e chiede ai genitori il permesso di vedere la fiaba in televisione: alla fine del film, la stessa Helena richiama l’attenzione dei genitori su una versione della Barbie ricalcata sul modello dello stessimo personaggio. Lo Schiaccianoci, un balletto del

33 G. Alonge, 2002, p. 20 34 F. Ulivieri, 2001

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1892 di Čajkovskij della favola Lo schiaccianoci e il re dei topi di E. T. Hoffmann, è una favola natalizia nella quale si narra di viaggi fantastici, di giocattoli meccanici simili a soggetti umani e di desideri sessuali di una bambina trasfigurati in sogno35. E’ piuttosto evidente il parallelismo fra la storia della fiaba e la storia del film. Anche i riferimenti all’arcobaleno contenuti nel dialogo fra Bill e le due modelle e poi nel nome del negozio di Milich – nella sceneggiatura originaria anche la parola d’ordine della festa orgiastica doveva essere «Fidelio rainbow» – rimandano alla storia del Mago di Oz, la favola di una viaggio fantastico di una ragazzina verso un paese incantato36. Infine, la sequenza iniziale del film, nella quale Bill cerca il portafoglio smarrito prima di recarsi alla festa di Ziegler, può essere paragonata alla scena iniziale di Peter Pan, così come rappresentata dalla versione disneyana del 1952, nella quale i signori Darling si preparano per andare ad una festa ed il padrone di casa reclamerà affinché qualcuno gli cerchi i gemelli che ha smarrito e coi quali deve completare il suo abbigliamento. La figura di Peter Pan raffigura nella riflessione psicoanalitica l’istanza dell’irrazionale, del sognante che si fa tentare dall’immaginazione e che non teme il paradosso, non si sottrae agli impulsi37.

Ma oltre ai rimandi di precise storie di viaggi e di sogni, la gamma di riferimenti culturali disseminati in Eyes Wide Shut è estremamente ampia a complessa. In particolar modo, vorrei sottolineare che mentre la parola d’ordine per accedere alla festa segreta in Doppio Sogno è Danimarca, con una chiara allusione ed un rimando alla confessione del mancato tradimento da parte di Albertine con il giovane ufficiale intravisto durante la vacanza estiva, nel film la stessa è Fidelio, titolo dell’opera di Beethoven che si conclude con un inno all’amore coniugale dopo avere esaltato l’idea di libertà38.

35 R. Eugeni, 1995
36 R. Eugeni, 1995
37 G. P. Caprettini, 2002 38 G. Alonge, 2002

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2.3. Temi a confronto

Nelle sue opere precedenti Doppio Sogno, Schnitzler aveva già affrontato il tema della coppia e dei turbamenti che possono scuotere e minare un felice ed apparentemente tranquillo rapporto, tuttavia analizzando il punto di vista di un solo partner. Allo stesso modo, anche Kubrick, in alcuni suoi film precedenti Eyes Wide Shut, aveva già rappresentato questo tema: si trattava però di coppie anomale, come quella di Humbert e Lolita in Lolita, oppure il motivo apparteneva ad un più ampio affresco e riguardava coppie già in crisi, come in Barry Lindon o in Shining. Con Eyes Wide Shut, invece, il regista pone al centro del racconto l’esplorazione, da parte di una coppia adulta che vive in una sfera di normalità, quella di una tranquilla famiglia borghese, entro i gorghi della psiche, laddove il confine fra realtà materiale e realtà psichica, fra vero e falso, è costantemente rimesso in discussione, e la notte e il giorno si incontrano di continuo, «facendo del viaggio “reale” del marito un’esperienza più onirica e incompiuta del sogno della moglie»39.

L’aspetto saliente della coppia di Bill e Alice, dunque, è la dualità fra aspetto diurno e aspetto notturno, l’apparente normalità di una relazione felice e l’effettivo gorgo di desideri, di gelosie, di ossessioni che essa nasconde e che vengono richiamati alla superficie e liberati solo grazie ad un evento qualunque – la discussione dei due protagonisti in camera da letto, caratterizzata dalla reciproca incomprensione –, come meglio rappresentato nel racconto di Schnitzler. Ma, come sempre avviene nei film di Kubrick, i due aspetti sono separati solo all’inizio della rappresentazione e tendono poi a sovrapporsi. Sintomatico è il rientro di Bill a casa nel corso della terza giornata: un carrello in avanti accompagna il protagonista verso il tinello nel quale si svolge una pacata scena di vita famigliare: Helena sta facendo i compiti con la mamma. Ma quando Bill si reca in cucina e guarda Alice assistiamo al sovrapporsi di due

39 R. De Gaetano, 2002, p. 65

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soggettive del medico: quella visiva ci mostra, con uno zoom in avanti, la donna tranquilla che sorride al marito, quella sonora ci fa ascoltare la voce sconvolta di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno.

Così, gli elementi inquietanti, perturbanti ed inattesi affiorano all’interno della vita domestica, rivelando il fondo oscuro, orrendo e crudele della quotidianità: «la persona che si credeva ben conosciuta diventa inquietante e ignota, il consueto si rivela misterioso»40. Kubrick mostra l’ambiente domestico come un luogo caldo, accogliente, piacevole, conferendogli la stessa atmosfera ovattata e rassicurante con la quale Schnitzler ha aperto il racconto in Doppio Sogno:

[…] La piccola aveva letto [la fiaba] fin lì ad alta voce; ora, quasi all’improvviso, le si chiusero gli occhi. I genitori si guardarono sorridendo, Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che si trovava sulla tavola non ancora sparecchiata. La bambina lo guardò come sorpresa.

«Sono le nove», disse il padre «è ora di andare a letto». E poiché anche Albertine si era accostata alla bambina, le mani dei genitori si incontrarono sulla fronte amata mentre i loro sguardi si scambiavano un tenero sorriso, che non era più rivolto solo alla bambina.41

Nella maggior parte delle sequenze, ambientate di sera e di notte, l’interno domestico viene posto in netto contrasto visivo con l’esterno mediante una scelta cromatica precisa: le stanze sono illuminate da una luce rossastra e contengono molti elementi scenografici rossi, come tende, tappeti, tovaglie, copriletti o divani, mentre dalle finestre entra una luce bluastra che contrasta sensibilmente con l’altra. Le tonalità rosse denotano un luogo caldo ed accogliente, ma allo stesso tempo rappresentano la tentazione ed il desiderio e indicano una situazione esistenziale in cui è presente il perturbante, il demoniaco, il misterioso. Le tonalità bluastre, oltre a raffigurare il buio della

40 F. Prono, 2002, p. 58

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notte e a conferire al film un’atmosfera onirica, conferiscono una sensazione di pericolo proveniente dal mondo esterno, dall’ignoto. Secondo i diversi momenti della vicenda, queste due dominanti cromatiche si fronteggiano e coesistono l’una accanto all’altra in modo equilibrato, oppure una delle due prevale fino ad annullare l’altra. Ad esempio, nella sequenza in cui Bill, rientrato in casa dopo avere assistito all’orgia notturna, nasconde in un armadietto l’abito noleggiato, oppure in quella in cui il medico trova sul letto la maschera misteriosamente perduta, la semioscurità affogata nel blu segnala l’invasione del mondo esterno dentro il mondo domestico42.

Nel racconto di Schnitzler non vi sono indicazioni né descrizioni dettagliate che prendano in considerazione l’ambientazione, i colori o la fisionomia dei personaggi, o, ancora, che rendano concreto l’aspetto ambivalente della coppia di Fridolin e Albertine. L’intero racconto è permeato da un’atmosfera onirico- surreale che lascia ampio spazio all’immaginazione: ciò che più conta in Schnitzler, suppongo, sono le parole che vengono utilizzate per penetrare la mente, le sensazioni ed i sentimenti più intimi dei protagonisti. Nella mente del lettore che scorre le pagine si cela la costante ed insidiosa domanda sulla veridicità di quanto si sta leggendo: forse, l’intera storia è un sogno. Tale scarsità di particolari ha permesso, a maggior ragione ad un regista tanto eccentrico, indipendente ed innovativo quale è stato Kubrick, da un lato di aderire alla trama e alle tematiche di Doppio Sogno, facendo in modo che la storia originale emergesse costantemente, dall’altro di marchiare il film con la propria inconfondibile firma e con le proprie preferenze stilistiche, senza stravolgere il senso della vicenda.

Dunque, non è soltanto l’ambiente domestico nel quale vivono i due protagonisti e dal quale prendono avvio sia la storia in generale sia, nello specifico, la storia del doppio viaggio di Bill e Alice ad essere caratterizzato

41 A. Schnitzler, 1977, p. 11 42 F. Prono, 2002

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dalla dualità del giorno e della notte, dell’istinto e della ragione, dell’amore e delle pulsioni sessuali. Sul piano cromatico tutto il film è giocato sul contrasto fra questi due colori, il rosso e il blu, costantemente giustapposti: Alice in vestaglia blu mentre pettina la figlia vestita di rosso, la tenda rossa contro la luce azzurra della finestra nella scena del litigio tra i due coniugi, la luce blu e i drappi rossi nel negozio di Milich, i due giapponesi che indossano rispettivamente una camicia blu ed una rossa, e via dicendo. Il contrasto cromatico è inoltre evidente nell’alloggio della prostituta, nel Sonata Cafe, dove Bill incontra l’amico pianista che gli fornisce poi l’indirizzo e la parola d’ordine per accedere all’orgia, nella sala da biliardo di Ziegler, nel palazzo della festa mascherata: in questi luoghi il rosso perde ogni connotato caldo, mantenendo solamente quello che suggerisce un senso di inquietudine e di morte. Un presentimento negativo, infatti, emerge dal rosso intenso di vari oggetti: la pedana sulla quale l’amico suona il pianoforte nell’abitazione di Ziegler, la poltrona sulla quale è distesa Mandy mentre si sente male, le pareti del Sonata Cafe e del bar dove Bill legge il giornale, il portone d’ingresso della casa della prostituta, le tende ed i tappeti della villa nella quale ha luogo l’orgia, così come il mantello rosso che indossa l’officiante, il panno del biliardo di Ziegler, ed anche le pareti e gli scaffali nel negozio di giocattoli, o la maglia con cui è vestito Bill nel finale, vari oggetti e decorazioni che alludono al Natale. La festività natalizia, in effetti, non mostra alcun aspetto autenticamente gioioso e positivo, ma sembra in qualche modo il raddoppiamento dell’orgia – caratterizzata da movimenti altamente coreografici ed impostati, sincopati, per nulla naturali –, un rito sociale e famigliare che a quella corrisponde43.

A questo proposito, la coppia di Bill e Alice appare come frammento e specchio del più ampio sistema sociale in cui è inserita. Anche la società nel suo complesso vive sul filo che separa due dimensioni, l’una diurna e l’altra notturna, sempre pronte a richiamarsi fra di loro e a sovrapporsi. Rivelatore di

43 F. Prono, 2002

43

questo aspetto è il ruolo espressivo e narrativo che rivestono all’interno del film le due feste in cui è coinvolto il protagonista: la festa iniziale a casa di Ziegler, caratterizzata dalla presenza di una luminosità diffusa e insistente, e quella notturna nella villa isolata, festa di ombra ammantata dal mistero44. Le sequenze di entrambe le feste durano esattamente diciassette minuti ed appaiono l’una come l’inverso ma anche il completamento dell’altra. La festa di Ziegler presenta un affiorare del desiderio nelle situazioni di corteggiamento in cui vengono coinvolti sia Bill sia Alice, entrambi si sentono sfiorati da «un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo»45 che li spingerà poi verso quel territorio nascosto, fluttuante e misterioso della parte più intima della loro anima: il medioconscio. Questa festa prevede inoltre un “fuori scena” – il bagno in cui Ziegler stava consumando il suo rapporto sessuale con la giovane modella prima che quest’ultima si sentisse male –, apparentemente immotivato, e che invece prepara narrativamente all’altra festa. Sintomatico è il codice vestiario: all’inappuntabile smoking di Ziegler fa riscontro la sua seminudità nella sequenza del bagno. In merito a tale sequenza, vorrei aggiungere l’acuta osservazione di Prono:

Nel Dottor Stranamore come in Shining e in Full Metal Jacket vediamo che il corpo umano da un lato soffre del mascheramento, dell’annullamento prodotti su di lui dalla civiltà, dalla razionalità, dalla macchina; dall’altro rivela a tratti la propria debolezza organica e la grande vulnerabilità, mostra il bisogno di consumare cibo e di ottemperare a tutte le necessità fisiologiche.46

Questo spiega il fatto che svariate sequenze nei film di Kubrick siano ambientate in cucine e in stanze da bagno, dove spesso vengono rappresentati con efficacia la malattia, la follia o la morte, come nel caso preso in esame in

44 R. Eugeni, 2002
45 A. Schnitzler, 1977, p. 14 46 F. Prono, 2002, p. 48

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Eyes Wide Shut.

La festa a casa Ziegler, così luminosa, caratterizzata da un ambiente nel quale le persone vestono abiti elegantissimi e stupendi e chiacchierano secondo le convenzioni della morale borghese, dove nulla viene lasciato al caso o dichiarato in modo esplicito – le due modelle che corteggiano Bill utilizzano numerosi doppi sensi e non sono mai chiare: ad esempio, il significato del loro invito, rivolto a Bill, a seguirle «là dove finisce l’arcobaleno»47 è lasciato in sospeso e l’allusione alla successiva festa può essere colta dallo spettatore solo molto più avanti –, dunque, è la riproduzione ed anticipazione della successiva festa, l’orgia notturna e segreta, stilizzata e regolata come un balletto, nel quale i corpi si muovono quasi come manichini secondo la reiterazione esasperata dell’atto sessuale. La ritualità funeraria dell’orgia è possibile, peraltro, soltanto sotto una stretta copertura di segretezza e dissimulazione che comporta l’utilizzo di maschere e di mantelli sul corpo48.

Ancora una volta, la scena sociale appare in Kubrick come un luogo di rappresentazione e di travestimento. Tutte le persone che si muovono nell’ambiente benestante in cui vive Bill si coprono con le maschere delle convenzioni sociali, sono esse stesse maschere che celano la loro vera identità. Illuminante a questo proposito è la battuta con cui Bill, dopo che ha cominciato a ballare con Alice in casa di Ziegler, rispondendo alla domanda della moglie: «Non c’è nessuno che conosci qui?» le dice: «No, neanche un’anima»49. Nel film, infatti, vengono continuamente mostrati corpi, nudi o semi-svestiti, ma non si discute mai dell’interiorità delle persone. E più esplicito nell’annunciare il tema del travestimento e dell’ipocrisia borghese è il racconto di Schnitzler, poiché già la prima festa si presenta in forma mascherale – la vicenda di Doppio Sogno, in effetti, si svolge nella Vienna di inizio Novecento

47 S. Kubrick, 1999 48 F. Prono, 2002 49 S. Kubrick, 1999

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proprio durante il periodo carnevalesco: «Quanto a Fridolin, appena entrato in sala era stato salutato come un amico atteso con impazienza da due maschere in domino rosso che non era riuscito a identificare […]»50. Inoltre, questo è l’unico momento della storia in cui Schnitzler nomina il colore rosso, che raffigura in questo caso la tentazione cui viene sottoposto Fridolin e l’affiorare del desiderio, e che è stato poi riproposto e raffigurato in modo più esteso da Kubrick nella sua personale rappresentazione della dualità fra notte e giorno in Eyes Wide Shut.

Centrale, quindi, sia nel racconto sia nel film, è il motivo della maschera: le maschere grottesche e deformate dei partecipanti dell’orgia notturna non sono altro che l’estrinsecazione di un più generale principio di mascheramento sociale. Per sua natura, la maschera si adopera in due sensi complementari e distinti:

Espropria l’individualità di chi la indossa ed al contempo gliene garantisce due ben distinte: una allegorica, che è raffigurata dalla maschera stessa, e l’altra puramente proiettiva, ideata da chi questa maschera la osserva e nell’impossibilità di scorgere il volto nascosto ne immagina uno a suo discernimento. Sta qui l’eyeswideshut kubrickiano, l’inintelligibilità di un volto, di uno sguardo, di un’espressione nascosti dietro l’infinita gamma di maschere tutte diverse per se stesse ma tutte drammaticamente uguali per chi le guarda.51

Esemplare sotto questo aspetto è il lavoro compiuto da Kubrick con il volto e gli stili mimici di Tom Cruise. Le espressioni tipiche dell’attore – il sorriso seducente, lo sguardo brillante ed allusivo, un certo sollevare le sopracciglia per sottolineare i buoni intendimenti e la sincerità – vengono fissate e serializzate in una piccola galleria di smorfie ricorrenti, buone per ogni occasione ed al

50 A. Schnitzler, 1977, p. 12 51 S. Ciaruffoli, 2003, p. 93

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tempo stesso suscettibili di improvvisi svuotamenti52. Un esempio è la sequenza nella quale Bill si reca nuovamente a casa della prostituta, dove però trova la coinquilina che gli parla della malattia dell’amica: il volto inespressivo ed impassibile, il sorriso seducente e al contempo imbarazzato, i movimenti legnosi del corpo mirano a mascherare in modo ridicolo la sua incapacità di rispondere in modo adeguato alle sorprese che la vita gli riserva, nascoste oltre la superficie dei riti sociali quotidiani.

I suoi rapporti col mondo circostante si rifugiano continuamente in un cerimoniale meccanico e perbenista, che riduce la comunicazione a puro esercizio fatico: all’inizio del film, quando i due coniugi si stanno preparando per recarsi alla festa di Ziegler e lui dice alla moglie che è bellissima, lei protesta che in realtà non l’ha nemmeno guardata. E della comunicazione fatica fanno parte anche le sue abitudini di ripetere sempre, in forma di domanda, l’ultima parte del precedente discorso dell’interlocutore53.

D’altro canto, il principio del mascheramento è pervasivo e coinvolge gli stessi ambienti: questi sono tutti decorati con le stesse luci natalizie, ora bianche – nella casa di Ziegler e successivamente in una parte del negozio di Milich – ora colorate – nell’abitazione di Bill e Alice, nel negozio di giocattoli, nella casa della prostituta –, come se una seconda pelle uniformante si stendesse sugli ambienti più diversi. Occorre attendere l’orgia mascherata della villa per scoprire, finalmente, uno spazio spoglio di questa patina colorata e luminescente e tale dunque da rivelare la verità delle proprie superfici, laddove la società si mostra per quella che è: una messinscena nella quale le identità sono andate perdute.

Di fondamentale importanza, sia nel racconto di Schnitzler sia nel film di Kubrick, è la scena nella quale il protagonista, rientrando a casa, trova la maschera sul suo cuscino accanto alla moglie addormentata. La maschera,

52 R. Eugeni, 1995 53 F. Prono, 2002

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situata nel luogo occupato durante il sonno – il sogno – del/dal medico, lo raffigura e lo sdoppia, risvegliandolo dal suo torpore e ponendolo di fronte al suo Es onirico. Al contempo, la stessa è la prova che gli avvenimenti vissuti hanno in qualche modo valicato il confine fra sogno e realtà, guadagnandosi una forma concreta. Diviene la prova tangibile del mondo immaginario del protagonista maschile: in questo frangente il fantastico risale «la gora dell’irreale su fino alla luce e assurge il simbolo dello smascheramento della messinscena»54.

Come spiega anche Eugeni55, poi, il gioco della rappresentazione sociale appare nel suo complesso tenue, fragile, sempre pronto a rivelare le sue trame e la sua artificiosità; e finisce così per affiorare il principio che muove effettivamente le azioni e le scelte dei soggetti: il principio del desiderio e la ricerca della verità, il cui statuto rimane incerto e sfuggente. La storia di Bill, dunque, consiste in un continuo rinvio non solo nel possedere una donna, ma anche e soprattutto nel possedere in forma definitiva una verità. Significative sono allora le parole di Alice nelle battute finali: il fatto che la coppia sia uscita indenne dalle avventure della notte viene legato alla possibilità che la realtà di tali esperienze corrisponda ad una verità.

2.4. Strutture a confronto

2.4.1. Rappresentazione dello spazio e movimenti di macchina

Dal punto di vista dei procedimenti di scrittura cinematografica Eyes Wide Shut conferma l’attrazione di Kubrick per un utilizzo insistito dei movimenti di

54 S. Ciaruffoli, 2003, p. 107 55 R. Eugeni, 1995

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macchina. Carrelli e steady cam sono presenti per tutto il film. Più in particolare, lo spazio viene rappresentato secondo due modalità. Alcuni spazi sono resi dinamici grazie all’uso di carrelli all’indietro – a casa di Ziegler o nel negozio di giocattoli –, o in avanti – nel negozio di costumi o nei ritorni di Bill a casa –, o laterali – nelle scene in strada –, oppure mediante movimenti più complessi ed elaborati, di andamento circolare – durante il ballo alla festa di Ziegler o all’ingresso nella villa dell’orgia. Altri spazi, invece, sono resi statici da inquadrature fisse, che insistono spesso sui primi o primissimi piani dei soggetti lasciando fuori fuoco il resto dello spazio: in questo caso viene utilizzato lo zoom, che sottolinea la volontà di indagare da vicino i volti: ad esempio, nella scena del bagno in casa Ziegler, nell’abitazione della prostituta, o, ancora, nella camera da letto dei coniugi durante il litigio, all’interno del taxi che conduce Bill alla villa dell’orgia, nel caffè dove Bill legge il giornale e nell’obitorio56.

In particolare, però, è la figura della carrellata, e nello specifico quella all’indietro, a dominare il dipanarsi della vicenda in Eyes Wide Shut.

Come Schnitzler nella sua novella Doppio Sogno, anche Kubrick preferisce entrare subito nel vivo della vicenda, presentando con pochi tratti essenziali situazioni e personaggi. Dunque, sia nel romanzo sia nel film si avverte sin dalle prime battute un sensibile sbilanciamento verso la parte centrale del racconto, ovvero verso il culmine del viaggio onirico-surreale dei due protagonisti, in particolare quello del medico, che rappresenta sia per lo scrittore viennese sia per il regista il vero protagonista della vicenda. La stessa forza che richiama Bill in avanti verso la profondità dell’immagine – e quindi verso la macchina da presa che simultaneamente carrella all’indietro – è sia una sorta di coazione narrativa che accompagna il suo percorso verso il centro della storia sia la cifra stilistica che permette allo spettatore di avvertire lo stesso

56 R. Eugeni, 1995

49

senso di smarrimento che permea il personaggio interpretato da Cruise57.

Ecco l’elenco dei movimenti di macchina al seguito di Bill Harford contenuti nel film.

Carrellate all’indietro:

  1. IconiugiHarfordesconodallacameradalettoesalutanolafigliaprima di recarsi al ricevimento della famiglia Ziegler.
  2. Giunti alla festa, percorrono il corridoio che li conduce alla scalinata illuminata di fronte alla quale li attendono i coniugi Ziegler.
  3. Bill, sempre al ricevimento, intrattiene un dialogo con l’amico pianista.
  4. Bill passeggia a braccetto con le due modelle.
  5. Victor Ziegler e Bill si accingono ad uscire dal bagno dopo che quest’ultimo ha prestato le sue cure a Mandy.
  6. Bill passeggia in strada dopo avere lasciato il paziente deceduto e prima di incontrare la prostituta.
  7. Bill scende le scale del Sonata Cafe.
  8. Assieme a Milich percorre il corridoio del negozio Rainbow Fashion.
  9. Nella villa passeggia a braccetto della donna misteriosa mentre questa lo avverte di abbandonare la festa.
  10. Bill sfila osservando le scene dell’orgia.
  11. Lo stesso viene accompagnato di fronte all’officiante.
  12. Bill entra nell’albergo per cercare l’amico pianista.
  13. Torna per la seconda volta al negozio di costumi.
  14. Torna in automobile alla villa dell’orgia.

57 S. Ciaruffoli, 2003

50

15. Rientra a casa mentre la figlia sta facendo i compiti assieme ad Alice. 16. Si ripresenta a casa della prostituta.
17. Bill, accortosi di esser pedinato, entra nel caffè Sharky’s.
18. Percorre il corridoio che lo conduce all’obitorio.

19. Esce dall’obitorio.
20. Torna per la seconda volta a casa di Ziegler.
21. Nella sala del biliardo Bill sia allontana da esso per sedersi sul divano. 22. Rientra a casa, dove ritrova la maschera sul cuscino.
23. Bill passeggia assieme ad Alice nel negozio di giocattoli.

Carrellate in avanti:

  1. Bill, entrato nell’abitazione del paziente defunto, si dirige verso la camera da letto.
  2. Uscito dalla predetta abitazione viene importunato da un gruppo di facinorosi.
  3. Rientra a casa nel cuore della notte dopo essere stato alla villa della festa mascherata.

Carrellate laterali:

  1. Bill passeggia per strada prima di essere importunato dai facinorosi.
  2. Si dirige verso l’abitazione della prostituta.

3. SiavvicinaalSonataCafe.

È evidente la prevalenza numerica dei movimenti di macchina rivolti verso la profondità della scena piuttosto che quelli laterali.

Il regista, infatti, non ha bisogno di rappresentare la discesa verso l’inconscio da parte del protagonista attraverso l’utilizzo degli espedienti formali più classici del cinema: l’arretramento della macchina da presa assieme all’avanzare

51

pletorico di Bill diviene anche e soprattutto architettura e territorio dell’inconscio58.

Questo movimento di macchina è quello che più si avvicina al tipo di osservazione e di indagine da parte del protagonista. Con la carrellata all’indietro ci situiamo al vertice del punto di fuga dello sguardo di Bill: siamo qualche istante prima di lui nel luogo del suo percepito, tuttavia percependolo qualche istante dopo. Con la carrellata in avanti, invece, scorgiamo simultaneamente il dipanarsi della visione del protagonista, tuttavia raggiungendo brevemente in ritardo la sua prospettiva59. In entrambi i casi noi spettatori siamo con Bill e siamo in grado di seguire il flusso della narrazione grazie all’estensione del suo sguardo. Questo tipo di narrazione viene denominato «a focalizzazione interna» ed è lo stesso espediente narrativo utilizzato da Schnitzler, che ci consente di leggere il racconto Doppio Sogno dal punto di vista di Fridolin, attraverso i suoi pensieri, senza tuttavia utilizzare il flusso di coscienza. In altri film, come in Full Metal Jacket e in Arancia Meccanica, era compito del voce over, appartenente in entrambi i casi al protagonista, guidare lo spettatore all’interno della vicenda; in Eyes Wide Shut, invece, la parola è soppressa a favore dell’immagine: essendo la storia densa di ingerenze oniriche, la fluidità del racconto unita alla struttura particolare dei sogni sarebbe risultata sovraccaricata se fosse stata molestata da un’oratoria extra- filmica.

Il film ospita soltanto due momenti che rifuggono l’espediente della focalizzazione interna a favore del punto di vista della macchina da presa e del regista, che finalmente annuncia la sua presenza e pone la sua firma: la scena dell’obitorio e quella nella sala da biliardo a casa di Ziegler.

Nella prima sequenza, Bill, entrato in obitorio, si appresta a distinguere – o a tentare di distinguere – in Amanda Curran la donna misteriosa che si è

58 S. Ciaruffoli, 2003 59 S. Ciaruffoli, 2003

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sacrificata per lui durante la festa mascherata. Ma, appena estratto il lettino dalla cella, avviene un cambio brutale di prospettiva: una plongée sul corpo della donna ci scosta da Bill confinandolo al margine dell’inquadratura. Ora ci troviamo nel punto di vista della macchina da presa, che ci regala un ampliamento del nostro orizzonte interpretativo: Mandy non è la donna misteriosa. Ella, infatti, ha gli occhi aperti – solo per lo spettatore – e ci è dato conoscere il suo aspetto grazie alla plongée adottata. Nell’inquadratura successiva, nuovamente secondo il punto di vista di Bill ed il suo mondo, la donna ha le palpebre abbassate: così, egli non riesce a raggiungere la certezza che Amanda possa essere la donna misteriosa o che, viceversa, non lo sia. Per un solo istante, dunque, il viaggio dello spettatore si è congiunto a quello del regista e si è separato da quello del personaggio e, proprio come recita il titolo, anche lo sguardo si è scisso in due: occhi aperti per lo spettatore, serrati per Bill60.

Nella seconda sequenza presa in esame, Bill, uscito dall’obitorio e ancora immerso nei suoi pensieri, viene interrotto da una telefonata e chiamato a casa di Ziegler, dove sembra lo attendano alcune spiegazioni: si tratta della famosa scena nella sala del biliardo, da molti criticata e contestata, che denota la massima riconoscibilità nell’impostazione simmetrica, frontale, e nell’impronta teatrale tipiche del cinema di Kubrick.

L’avvenimento narrato in questa sequenza, così come la sua struttura simmetrica, inoltre, sembrano rifarsi ad una scena di un celebre film di Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte (titolo originale: Vertigo), nella quale Tom Helmor si confida con James Stewart sulle stranezze della moglie pregandolo, in qualità di ex compagno di scuola ed ex poliziotto, di pedinarla61. In verità, lo spettatore intuisce che la confessione di Helmor è pura invenzione, uno stratagemma per impossessarsi e godere indisturbato i soldi dell’eredità della

60 S. Ciaruffoli, 2003 61 S. Ciaruffoli, 2003

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moglie: Hitchcock non lo nasconde del tutto e l’evoluzione della scena non fa altro che svelarlo attraverso un uso teatrale dello spazio. Così, Helmor diviene attore della rappresentazione nella rappresentazione. Al momento della confessione menzognera, infatti, l’impresario Helmor va a porsi su un piano rialzato della stanza e al contempo Stewart si distacca da esso andando a sedersi in una poltrona. Magistralmente Hitchcock riproduce la situazione teatrale che vede lo spettatore seduto in platea e l’attore sul palco.

Col medesimo procedimento Kubrick ritrae il suo protagonista, Bill, in un ambiente teatrale che si rifà a quello falso di La donna che visse due volte, denunciando a maggior ragione la finzione nell’interazione fra i due personaggi. Così, non è solamente la sua impostazione teatrale – l’aumento spropositato della profondità di campo, Bill che si rivolge allo spettatore di un’ipotetica platea dando le spalle a Ziegler, la comunione dei punti di fuga della stanza con quello dello schermo – a ricordare la stanza del predetto film, ma soprattutto il suo arredamento. Rifacendosi in maniera indubitabile alla sequenza ed alla stanza del film di Hitchcock, Kubrick pone immediatamente in discussione e rende ambiguo il recitato di Bill e Ziegler. Inoltre, tale sequenza è ambientata attorno ad un biliardo ricoperto di un panno rosso, che ricorda e rinnova quello sul quale si svolge la cerimonia, il rito di iniziazione delle ancelle mascherate durante l’orgia nella villa segreta. Inoltre, il biliardo è la traslazione di un gioco che alla sua nascita si svolgeva all’aperto, o comunque su di un ampio spazio calpestato fisicamente dai suoi partecipanti – e di quello spazio rimane infatti il verde che richiama il colore del prato. Nelle due sequenze dell’orgia e del biliardo il colore protagonista non è il verde bensì il rosso ed il rito, con le sue regole, viene disciplinato rispettivamente dall’officiante vestito anch’egli di rosso e da Victor Ziegler, i quali divengono registi dell’artificio ludico62. Emblematico, poi, è il momento in cui Bill, esausto, mostra a Ziegler il ritaglio di giornale, domandandogli se la Amanda

62 S. Ciaruffoli, 2003

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dell’articolo corrisponda alla donna misteriosa che si è sacrificata per lui. Ziegler, che in questo momento è vicino a Bill, si allontana per recarsi di fianco al biliardo, lo tocca e solo dopo risponde, con spudorata falsità evidenziata da uno stacco che ci mostra un suo primo piano illuminato dalle lampade: «Era lei»63. Ma è una menzogna. Amanda è sì la ragazza morta per overdose dell’articolo di giornale, ma non è la donna misteriosa: basta guardare i titoli di coda. I due personaggi sono stati recitati da due attrici diverse. Inoltre, Ziegler confessa a Bill, ancora a ridosso del biliardo, che Amanda non sarebbe stata uccisa durante l’orgia, bensì sarebbe stata accompagnata a casa da due partecipanti alla festa notturna: questo dettaglio non coincide con quanto scritto nell’articolo di giornale, secondo il quale la ragazza sarebbe stata accompagnata sì da due signori, ma in un albergo64. Dunque, la spiegazione offerta nella scena della sala del biliardo è falsa e la storia rimane enigmatica e senza soluzione.

2.4.2. Figura della geminazione simmetrica

Eyes Wide Shut si configura dunque come una sorta di lungo, ininterrotto viaggio che passa attraverso strade, stanze, corridoi per arrestarsi solo provvisoriamente in alcuni luoghi, dove pure continua una sorta di avanzamento all’interno degli individui – mediante l’utilizzo dello zoom.

A prima vista, questo viaggio sembra possedere un andamento continuo ed una perfetta forma circolare: esso parte da casa Harford e lì è destinato a terminare dopo avere toccato nuovamente, nella seconda parte, tutte le tappe della prima.

Effettivamente, il racconto di Schnitzler regala con maggior forza questa impressione di complessiva coerenza ed è strutturato secondo un andamento

63 S. Kubrick, 1999
64 È possibile prendere visione dell’articolo di giornale scritto in inglese e della sua traduzione in italiano in F. Ulivieri, 2001

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circolare, diviso al suo interno in due parti disposte simmetricamente fra di loro. Le peregrinazioni di Fridolin sono strutturate secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Strada: facinoro si

Casa prostitui ta

Caffè del pianista

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Giorno 2

Casa Fridolin e Albertin e

Caffè del pianista e albergo

Negozio costumi

Villa dell’orgi a

Sera 2

Casa Fridolin e Albertin e

Casa paziente defunto

Casa prostitut a

Caffè del giornale e obitorio

Casa Fridolin e Albertin e

Come si può notare, l’abitazione di Fridolin e di Albertine rappresenta il punto di partenza e di arrivo di ciascun segmento narrativo. Viceversa, la villa dove si svolge l’orgia mascherata rappresenta il punto di massima lontananza prima del ritorno a casa da parte di Fridolin. Inoltre, la sequenza percorsa dal medico durante la notte del primo giorno viene ripercorsa dallo stesso il secondo giorno, ma in un ordine differente: di giorno Fridolin ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre di sera ripercorre le tappe iniziali, secondo una struttura simmetrica A-B-B-A. Il racconto termina nuovamente nell’abitazione dei due protagonisti, laddove era iniziato.

Al contrario, un’analisi più attenta della struttura del film rivela che il viaggio

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del medico qui rappresentato è tutt’altro che circolare, coerente e continuo.

In primo luogo, la forma delle sue peregrinazioni non è affatto circolare, ma è caratterizzata da una struttura più complessa che si dipana secondo il seguente schema:

Sera 1

Casa Harford

Casa Ziegler

Sera 2

Casa Harford

Casa paziente defunto

Strada: facinorosi

Casa prostituta

Sonata Cafe

Rainbow Fashion

Somerton

Giorno 3

Casa Harford

Sonata Cafe e albergo

Rainbow Fashion

Somerton

Sera 3

Casa Harford

Ambulat orio: telefonata a Marion

Casa prostituta

Strada: pediname nto

Sharky’s e obitorio

Casa Ziegler

Giorno 4

Casa Harford

Negozio giocattoli

Come nel racconto di Schnitzler, l’abitazione dei due protagonisti rappresenta anche nel film il punto di partenza e di arrivo di ciascuno dei segmenti narrativi, mentre il punto di massima lontananza raggiunto prima del ritorno è qui rappresentato dalla casa di Ziegler e dalla villa a Somerton, in una disposizione a geminazione simmetrica A-B-B-A. Questo mostra una piccola

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variazione rispetto alla struttura del libro. Anche nel film, poi, la sequenza percorsa la notte del secondo giorno – la storia del film è incentrata in quattro giorni anziché due – viene ripercorsa il terzo giorno in un ordine particolare: di giorno Bill ripercorre le tappe finali del viaggio della notte precedente, mentre durante la sera torna sui luoghi della prima parte, con alcune modifiche. La struttura A-B-B-A appare quindi anche nell’alternanza dei posti toccati da Bill tra il secondo ed il terzo giorno.

A guidare gli spostamenti di Bill, dunque, non è una figura circolare, bensì la figura della geminazione simmetrica, rafforzata nel film dai cambiamenti alla trama apportati da Raphael e Kubrick, la quale possiede una logica speculare: essa presenta della seconda parte – B-A – il riflesso speculare della prima – A- B. Il percorso nel negozio di giocattoli è l’unico momento del film a uscire da tale logica, quasi ad evidenziare il fatto che i protagonisti sono usciti dal sistema spaziale che li aveva fin qui tenuti avvinti65.

Questa logica della specularità, d’altra parte, assieme all’iterazione di elementi identici o simili che mette in crisi il meccanismo della progressione lineare, attraversa per intero sia il racconto di Schnitzler sia, in maniera più evidente e con un impatto molto più forte anche grazie alle proprietà intrinseche delle immagini che mostrano ciò che le parole scritte possono solo riferire ed evocare, il film di Kubrick, costituendo effetti di eco e di corrispondenza fra le parti che li compongono.

Doppio Sogno è caratterizzato dalla figura del doppio, che si presenta sia in motivi figurativi come le «due maschere in domino rosso»66 conosciute da Fridolin durante la festa iniziale, i due uomini coi quali viene scoperta la figlia del mascheraio nel negozio di costumi, i due uomini che prelevano l’amico pianista dal suo albergo durante la notte o le due prostitute con le quali il medico si intrattiene prima e dopo gli avvenimenti del suo viaggio notturno, sia

65 R. Eugeni, 1995
66 A. Schnitzler, 1977, p. 12

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in una fitta serie di richiami fra momenti differenti dell’opera: la confessione di Albertine in merito alla sua attrazione per il giovane ufficiale di marina viene richiamata da quella di Marianne, che confessa il suo amore represso a Fridolin accanto al padre deceduto; la scena nell’orgia notturna viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Albertine al ritorno a casa del marito, così come l’intero sogno rappresenta la reiterazione del viaggio compiuto da Fridolin durante la notte, sebbene di segno opposto. Come già accennato, il racconto stesso è costituito da due parti speculari, dove la seconda parte rappresenta la ripetizione della prima, ma di carattere opposto.

I temi del doppio e della reiterazione di elementi e di avvenimenti identici o simili fra di loro, così come la logica della specularità che attraversa e permea l’intera storia, sono stati ripresi e riproposti da Kubrick in modo quasi ossessivo e sanciscono la struttura labirintica, inestricabile e misteriosamente sempre uguale a se stessa che è propria della vita umana, per cui sia i desideri di fuga sia la ricerca della novità e del cambiamento sono puramente illusori. I raddoppiamenti continui, inoltre, raffigurano i diversi aspetti e le diverse facce delle persone che popolano la trama del libro e del film67.

Dunque, i motivi figurativi del doppio tornano insistentemente: le due modelle che accompagnano Bill durante la festa a casa Ziegler, i due giapponesi nel negozio di costumi, le due prostitute, le quali vivono in un appartamento la cui porta d’ingresso combacia con una porta gemella – tant’è che quando Bill torna per la seconda volta a casa della prostituta, inizialmente non sa a quale porta bussare –, le due donne misteriose alla festa orgiastica, delle quali una cerca di avvertire Bill del pericolo cui si sta sottoponendo restando lì, mentre l’altra cerca di coinvolgere e trattenere Bill alla festa. Il doppio viene rappresentato nel film anche grazie all’utilizzo di specchi presenti in numerosi contesti: ad esempio, il film si apre proprio con l’immagine di Alice di fronte ad uno specchio; e quando, al ritorno a casa dopo la festa di Ziegler, i due

67 F. Prono, 2002

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protagonisti si accingono a fare l’amore di fronte allo specchio, la macchina da presa stringe su quest’ultimo, escludendo dal campo i corpi reali a favore del loro simulacro riflesso nel vetro. Vi sono poi elementi iconografici identici: l’immagine dell’arcobaleno chiamata in causa dalle due modelle alla festa di Ziegler viene successivamente incarnata dal nome del negozio di Milich. Ma in Eyes Wide Shut spesso le coppie non sono formate da elementi identici. Nella prima inquadratura, mentre ancora scorrono i titoli di testa, Alice viene ripresa di fronte allo specchio mentre si lascia cadere il vestito e rimane completamente nuda; poi, dopo un inserto che mostra una strada cittadina percorsa da uno scarso traffico notturno, appare Bill perfettamente vestito in smoking di fronte allo stesso specchio. Lo spazio è il medesimo, però ha subito alcune modifiche: nell’inquadratura con Bill è comparso un tappeto ed è scomparsa la lampada nell’angolo della stanza. Inoltre all’inappuntabile smoking del medico fa riscontro la nudità intergale di Alice nella scena precedente. Come in Doppio Sogno, poi, rimane nel film una fitta serie di richiami tra scene differenti: la confessione di Alice circa la sua attrazione per l’ufficiale di marina viene richiamata dalla scena nella quale la figlia del paziente deceduto confessa il suo amore represso a Bill; la telefonata che interrompe il dialogo fra Bill e Alice durante il litigio in camera da letto ritorna a interrompere Bill e la prostituta e nel sottofinale richiama Bill a casa di Ziegler. La scena dell’orgia a Somerton viene riecheggiata nella narrazione del sogno da parte di Alice a Bill al suo rientro. Vi sono, inoltre, inquadrature simili o identiche che appaiono nel corso del film: ad esempio, l’inserto che mostra la strada di fronte all’abitazione dei due protagonisti appare sia all’inizio del film, durante lo scorrimento dei titoli di testa, sia, identica, prima del rientro a casa di Bill subito dopo il dialogo nella sala del biliardo con Ziegler. Anche alcune espressioni verbali tornano in situazioni differenti della vicenda: per esempio, la frase «devo proprio essere sincero»68 (nell’originale «to be perfectly honest»)

68 S. Kubrick, 1999

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viene pronunciata per tre volte: prima da Bill, mentre parla con la cameriera del bar di fianco al Sonata Cafe, poi dal concierge dell’albergo quando Bill tenta di ritrovare l’amico pianista, infine dalla coinquilina della prostituta quando questa rivela al medico la malattia dell’amica. Tale frase viene riecheggiata anche nel «devo proprio essere sincero» (nell’originale «I have to be completely frank») pronunciato da Ziegler nella scena della sala del biliardo. Come già detto, sul piano cromatico l’intero film è caratterizzato dalla presenza dei colori rosso e blu costantemente giustapposti. Infine, vi sono alcuni ambienti che si richiamano: in particolare, negli esterni la strada che si innesta a T sull’altra strada e presenta in fondo una vetrina aggettante – di volta in volta un locale anonimo, il Rainbow Fashion o lo Sharky’s – sembra tornare identica in situazioni e punti differenti del film: nella scena dell’aggressione da parte dei facinorosi, in quella del pedinamento, e via dicendo. A tale proposito, sottolineerei un ulteriore fatto: le strade dispiegate di fronte agli occhi di Bill non appartengono alla vera New York, ma appartengono in realtà a set ricostruiti negli studi Pinewood a Londra. Giacché «Ricostruire un ambiente in studio determina così la possibilità di modificarne degli aspetti per rendere più espressivo e funzionale il contributo significante dell’ambiente stesso all’opera come intero»69. Ed infatti, la permanente impronta di artificiosità delle strade è costantemente messa in ostentazione da Kubrick, che conduce il suo protagonista in un viaggio della mente, in una New York labirintica che rappresenta la proiezione della stessa da parte della mente di Bill nel suo viaggio all’interno dei meandri dell’inconscio70, esattamente come Schnitzler in Doppio Sogno insiste nel descrivere la spettralità dell’ambiente circostante Fridolin, improvvisamente a lui ignoto, così come l’ingannevole ed artificiosa vicinanza della primavera che viene ad un tratto ad interrompere il freddo della bianca notte invernale:

69 G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film, citato in S. Ciaruffoli, 2003, p. 66 70 S. Ciaruffoli, 2003

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In strada dovette aprire la pelliccia. Era cominciato improvvisamente il disgelo, la neve sul marciapiede si era quasi sciolta e spirava un venticello che annunziava la primavera.71

Ed ancora:

Ad un tratto, superata ormai la sua meta, si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute a caccia notturna di uomini. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia, che ora immaginò tenersi per mano attorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca – persino la bambina, che a quell’ora dormiva raggomitolata nel lettino bianco, e la governante dalle guance rubiconde con la voglia sulla tempia sinistra – tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali.72

Il progressivo distaccarsi dalla quotidianità del suo viver borghese e la proiezione, inconscia, del proprio stato d’animo sul mondo esterno fa apparire a Fridolin ogni cosa avvolta in un’atmosfera spettrale, assolvendolo da ogni responsabilità e conducendolo poi nel viaggio di illusoria liberazione all’interno della propria anima e del proprio medioconscio:

[…] dopo la conversazione serale con Albertine si stava allontanando sempre più dalla normale sfera della sua esistenza, addentrandosi in un altro mondo, lontano ed estraneo.73

2.4.3. Rappresentazione del tempo: lo smarrimento interiore del personaggio

71 A. Schnitzler, 1977, p. 21 72 A. Schnitzler, 1977, p. 33

62

La logica che domina il viaggio di Bill – e prima di lui quello di Fridolin –, dunque, è una molteplice specularità caratterizzata da una serie di ripetizioni e da un’ambientazione surreale che indeboliscono la coerenza e la continuità del viaggio stesso del protagonista, producendo inoltre un’inquietante sensazione di déja-vu e dunque un senso di costante smarrimento. Lo spettatore è portato a dubitare dello statuto di realtà di quanto sta guardando e ascoltando, così come, nel caso del racconto di Schnitzler, il lettore è portato a fare lo stesso nei confronti di quanto sta leggendo. Il viaggio di Bill è reale o è un suo sogno ad occhi aperti?

Ritengo molto importante ricordare e rilevare, a questo proposito, l’utilizzo che Kubrick fa nel film delle inquadrature soggettive. Eyes Wide Shut è costantemente punteggiato da inquadrature che riferiscono le percezioni di Bill: oltre alle numerose soggettive visive, che si esplicano nell’utilizzo insistito delle carrellate all’indietro e che ho approfondito in precedenza, si presentano anche soggettive allucinatorie – i cinque flash che ritraggono Alice con l’ufficiale di marina – e sonore – della voce di Alice che racconta la parte più scabrosa del sogno notturno nella quiete casalinga; e della donna misteriosa che durante la festa mascherata lo avvisa del pericolo imminente, nell’obitorio mentre fissa il corpo di Amanda. In alcune occasioni il regista ricorre poi ad un procedimento caratteristico: un’inquadratura apparentemente oggettiva si rivela a posteriori una soggettiva di Bill. Ad esempio, nella festa iniziale a casa di Victor Ziegler vediamo per la prima volta l’amico pianista mentre sta suonando sul palco e l’inquadratura successiva mostra Bill intento ad osservare questa scena. L’intero percorso che compiamo assieme al medico e attraverso i suoi sguardi durante il film si rivela un percorso labirintico: al di là di un apparente ordine, esso conduce in una rete di ricorrenze nelle quali non è più possibile orientarsi ad un certo punto e l’intero film viene permeato da una sensazione di perplessità e

73 A. Schnitzler, 1977, p. 37

63

di incertezza che si riflettono negli occhi dello spettatore74.

Questa sensazione è rafforzata da un altro procedimento: il particolare uso della dissolvenza incrociata. Nel linguaggio cinematografico classico la dissolvenza incrociata, nata come trucco di trasformazione – ovvero come procedimento ottico utilizzato per ottenere straordinarie metamorfosi di personaggi – è andata poi codificandosi come procedimento enunciativo usato per contrassegnare un mutamento spaziale e temporale: essa indica una transizione fra due sequenze e dunque un’ellissi temporale e spaziale; tale ellissi, tuttavia, non è quella istantanea e trascurabile dello stacco netto, né quella consistente della dissolvenza in nero. Si tratta piuttosto di un’ellissi temporale- spaziale dalla durata indefinita75. In Eyes Wide Shut Kubrick utilizza la dissolvenza incrociata in alcuni passaggi nei quali sarebbe sembrato più opportuno uno stacco netto oppure un’inquadratura di raccordo: ad esempio, il viaggio, relativamente breve, di Bill dal negozio di costumi fino alla villa nella quale si svolge l’orgia è marcato da ben quattro dissolvenze incrociate. Oppure, nella scena in cui Bill rientra a casa dopo il colloquio con Ziegler, una dissolvenza segna il suo passaggio dalla cucina dove beve una birra alla camera da letto dove Alice sta dormendo. Si tratta in entrambi i casi di una scelta anomala, perché l’ellissi che divide le azioni è minima. E la natura perturbante di quest’ultima dissolvenza nello specifico è tanto più forte quanto il salto temporale – dalla notte al giorno – immediatamente successivo, ovvero lo iato fra l’inizio e la fine della confessione da parte di Bill che racconta ad Alice tutte le sue avventure, segnato unicamente da uno stacco, sul primo piano di Nicole Kidman che, accovacciata sul divano, fuma con gli occhi gonfi di lacrime. Un uso reiterato ed incongruente della dissolvenza finisce col privare questa figura del montaggio cinematografico del suo significato canonico, contribuendo così al prevalere del tempo non-lineare della coscienza su quello vettoriale della

74 R. Eugeni, 1995 75 A. Costa, 1985

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cronologia oggettiva76. Ne deriva un’incertezza che coinvolge al tempo stesso l’effettiva durata dello svolgimento temporale di tali segmenti della vicenda e le connessioni spaziali coinvolte: all’interno del film, dunque, la dissolvenza incrociata viene utilizzata anche per destabilizzare la continuità temporale- spaziale e per rafforzare la continua sensazione del passaggio dalla sfera della realtà a quella del sogno.

In Eyes Wide Shut, dunque, troviamo un tempo che si disgrega, un tempo interno alla mente del protagonista. Questo vanificarsi della cognizione del tempo e il cupio dissolvi che ne segue scandiscono con spietata crudeltà anche lo smarrimento del personaggio di Doppio Sogno:

Ma che fare ora? Andare a casa? E dove se no! Oggi non poteva ormai fare più nulla. E domani? Cosa? E come? Si sentiva impacciato, incerto, ogni cosa gli si vanificava tra le mani; tutto diventava irreale, persino la casa, sua moglie, la sua bambina, la sua professione, sì, persino lui stesso, mentre continuava a camminare meccanicamente nella sera coi suoi pensieri senza meta.

L’orologio della torre del municipio scoccò le sette e mezzo. D’altronde non importava che ora fosse; il tempo gli era completamente indifferente. Non provava interesse per nulla e per nessuno. Sentì una leggera compassione per se stesso. Molto fuggevolmente, non proprio come un proposito, gli venne l’idea di recarsi a una qualsiasi stazione, partire, non importava per dove, sparire per tutti coloro che lo avevano conosciuto, ricomparire in qualche luogo all’estero e incominciare una nuova vita, sotto spoglie diverse.77

C’è un altro aspetto, infine, che rivela l’incoerenza e la discontinuità della rappresentazione in Eyes Wide Shut. Kubrick adotta nel film uno stile modellato sul regime cinematografico classico, che fa della continuità e della coerenza il

76 G. Alonge, 2002
77 A. Schnitzler, 1977, p. 95-96

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suo punto di forza. Tuttavia, in alcuni punti il regista fa inceppare questo meccanismo fluido e scorrevole. Questo avviene mediante tre espedienti78.

In primo luogo Kubrick viola deliberatamente alcune regole del montaggio classico. Durante il primo incontro fra Bill e l’amico pianista alla festa di Ziegler ed il primo colloquio fra il medico e Milich nel negozio di costumi viene attuato quello che tecnicamente si chiama uno scavalcamento dell’asse, per cui uno stacco di montaggio collega due punti di vista specularmente opposti: in entrambe le sequenze vediamo i personaggi inquadrati prima da una prospettiva, poi da quella diametralmente opposta, in modo che lo spazio si apra alla sua metà nascosta, proibita, con un effetto fortemente straniante per lo spettatore79. Infatti, questi raccordi “sbagliati” procurano a chi guarda una lieve ma insistente idea di salto nella linea di continuità della rappresentazione classica per il resto seguita.

Il secondo espediente consiste nell’introduzione di un numero molto alto di ripetizioni verbali. Queste possono avere luogo all’interno della battuta di un solo personaggio: nella sequenza del bagno a casa di Ziegler, Bill ripete a Mandy ben sei volte la parola «guardami» mentre cerca di rianimarla; l’amico pianista ripete «io suono» due volte, e via dicendo fino al «ti racconterò tutto»80 finale di Bill ad Alice, anch’esso ripetuto due volte. Le ripetizioni hanno luogo altrettanto spesso nei dialoghi fra due soggetti, uno dei quali ripete testualmente la battuta finale dell’altro come per un generale senso di perplessità e di incomprensione, riducendo la comunicazione a puro esercizio fatico: in particolare, questo si verifica nel protagonista, che ripete di volta in volta le battute della prostituta, dell’amico pianista o della moglie; ma avviene anche per altri personaggi, ad esempio nel negozio di costumi il mascheraio Milich ripete le battute di Bill. Ne risulta l’impressione che la macchina

78 R. Eugeni, 1995
79 G. Carluccio, 2002 80 S. Kubrick, 1999

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rappresentativa si incanti, come un disco rotto che non sappia più rispondere ai comandi.

Il terzo ed ultimo espediente è l’uso dell’interruzione: in alcuni casi le immagini del film vengono bruscamente interrotte e sottratte allo sguardo dello spettatore. Fin dall’inizio il corpo nudo di Nicole Kidman è presentato per essere immediatamente riconsegnato al fondo nero dei titoli di testa. La scena del processo alla festa notturna a Somerton viene interrotta bruscamente con uno stacco sul ritorno di Bill a casa. Ed anche la conclusione del film, con la battuta finale di Alice sulla necessità per la coppia di «scopare»81, fa appena in tempo ad essere pronunciata che i titoli di coda interrompono bruscamente la scena del negozio di giocattoli.

Dunque, attraverso salti, ripetizioni e blocchi improvvisi la continuità della rappresentazione classica non viene esplicitamente distrutta, bensì sottilmente minata, sottoposta a piccole crisi locali e perdite di controllo infinitesimali, ma pure sensibilmente presenti.

81 S. Kubrick, 1999

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3. ANALISI DI UNA SEQUENZA DI EYES WIDE SHUT

Trovare il centro di un film quale Eyes Wide Shut e, ancor prima di esso, di un racconto della portata di Doppio Sogno non è semplice. Molte analisi, fra le quali la presente, hanno rivelato numerose simmetrie, ritorni di scene analoghe, spazi e personaggi che si ripresentano puntuali nel tessuto narrativo: entrambe le opere si porgono come un gioco di specchi e di rimandi potenzialmente infinito, un labirinto del senso che può essere percorso e ripercorso ma difficilmente dominato e posseduto.

Sono parecchi, sia nel racconto sia, in special modo, del film gli elementi, i temi ed i passi che meriterebbero un’attenzione tale da renderli, in qualche modo, il fulcro attorno al quale ruota l’intera storia: così, sono importanti i temi della coppia, dell’incomunicabilità, del tradimento, della maschera, dell’ipocrisia borghese, dello smarrimento esistenziale, nonché del sogno e del viaggio onirico-reale-surreale vissuto dai due protagonisti. Altrettanto importanti sono diversi passi, sia nel film sia nel libro, che raffigurano e sottolineano di volta in volta un tema piuttosto che un altro: così, diventano particolarmente significative le scene delle due feste – l’una l’opposto eppure anche il completamento dell’altra –, la scena del primo confronto fra i due coniugi, la scena del racconto del sogno da parte di Albertine/Alice al marito, il dialogo finale fra i due protagonisti ed infine, solo nel film, la scena del dialogo fra Bill e Ziegler nella sala del biliardo.

La maggior parte dei critici ha ravvisato nella scena dell’orgia notturna il perno e la parte centrale della storia82: essa non solo rappresenta sia il momento culminante della vicenda, nella quale si delinea con assoluta chiarezza

82 F. Villa, 2002

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l’alienazione che connota la crisi e la perdita d’identità da parte del protagonista maschile, sia il momento nel quale quest’ultimo discende e, finalmente, giunge nella parte più nascosta ed intima di se stesso, il medioconscio, ma rappresenta anche, a livello narrativo, il vero e proprio centro della storia, che separa il “prima” e il “dopo”.

Tuttavia, a mio avviso, l’asse portante dell’intera vicenda, come detto in precedenza, è la dicotomia fedeltà-tradimento, che si esplica sia nella conflittualità dei due protagonisti, causata da una situazione di incomunicabilità innescata da un motivo occasionale, che li porterà a vivere una crisi strutturata secondo un diagramma di turbamenti paralleli, sia, più esplicitamente, nelle contraddittorietà del personaggio maschile, la cui fragilità psicologica e i cui pregiudizi derivanti dalla morale borghese nei quali è imprigionato lo condurranno verso uno smarrimento esistenziale molto più complesso e travagliato rispetto a quello vissuto dalla moglie.

Partendo da questo presupposto, dunque, ritengo che il centro non tanto del testo in quanto tale, quanto dell’opera complessiva di Doppio Sogno e di Eyes Wide Shut, sia la lunga sequenza del confronto iniziale fra i due protagonisti83, nella quale meglio vengono raffigurati e rappresentati i problemi che muovono e scandiscono le dinamiche di coppia, e grazie alla quale prende avvio la vicenda stessa. Inoltre, questo è uno di quei passi contenuti nel racconto di Schnitzler in cui lo sceneggiatore Raphael ed il regista Kubrick hanno operato un vero e proprio lavoro di trasposizione e rielaborazione cinematografica, compiendo tagli significativi ed apportando numerose modifiche, pur mantenendo, nel complesso, il senso globale di ciò che lo scrittore viennese ha voluto trasmettere all’interno dello stesso passo nel suo libro.

Mi accingo ora ad analizzare tale sequenza dal punto di vista della sua trasposizione cinematografica dal racconto di Schnitzler al film di Kubrick:

83 Nel racconto di Schnitzler a partire da p. 13, nel film di Kubrick a partire dal minuto 22

69

approfondirò quindi l’analisi della traduzione intersemiotica di tale sequenza.

3.1. Analisi della traduzione intersemiotica

All’interno di Doppio Sogno la sequenza della lunga e reciproca confessione di Albertine e Fridolin in merito ai pericoli cui sono sfuggiti durante una passata vacanza estiva in Danimarca, nella quale entrambi hanno provato una forte ed irresistibile attrazione verso due sconosciuti – rispettivamente nei confronti di un giovane ufficiale di marina visto in albergo e di una giovanissima fanciulla su di una spiaggia –, prende avvio in seguito ad uno scambio, apparentemente innocente e quasi disinteressato all’inizio, di impressioni sul veglione mascherato al quale i due coniugi hanno partecipato la notte precedente:

[…] e quegli avvenimenti irrilevanti furono ad un tratto magicamente e penosamente avvolti dall’ingannevole parvenza di occasioni perdute. Si scambiarono domande ingenue eppure insidiose e risposte maliziose e ambigue; a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era in fondo sincero e si sentirono, così, inclini a una moderata vendetta.84

Ben presto la gelosia prende il sopravvento e dalle conversazione sulle futili avventure della notte precedente i due protagonisti cominciano a discutere di quei desideri nascosti ed intimi, talvolta appena presentiti e per lo più sconosciuti, insiti nel profondo dell’animo umano, che, se riconosciuti, svelati e liberati, sono in grado di generare pericolosi vortici e scuotere e minare anche il rapporto più maturo e sincero:

Sebbene la loro unione si fondasse su una perfetta compenetrazione di sentimenti e di idee, sapevano tuttavia che ieri li aveva sfiorati, e non per la prima volta, un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo; trepidamente, tormentandosi, cercarono con sleale curiosità di carpirsi confessioni e, concentrandosi con angoscia sulla loro vita intima, ognuno

84 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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ricercò in sé qualche fatto anche insignificante, qualche avvenimento anche inconsistente, che potesse esprimere l’ineffabile e la cui sincera confessione riuscisse a liberarli da una tensione e da una diffidenza che cominciavano a diventare a poco a poco insopportabili.85

Segue la confessione da parte di Albertine al marito, la prima fra i due che, per ingenuità, indulgenza o forse anche coraggio e necessità di chiarezza, mette in gioco se stessa.

In Eyes Wide Shut la stessa sequenza si apre con l’immagine di Alice, riflessa nello specchio del bagno, che si accinge a prelevare da un armadietto posto sopra il lavandino un contenitore con della marijuana al suo interno e, di seguito, un primo piano sulle sue mani mostra la protagonista mentre arrotola la sigaretta.

Rilevante, in quest’apertura di sequenza, è la presenza ed il ruolo nuovamente giocato dallo specchio: simbolo del doppio e di ciò che si cela oltre la facciata illusoria della realtà, lo specchio mostra il riflesso e quindi la parte nascosta e speculare di chi gli si pone di fronte e gli dà la possibilità di studiare e comprendere se stesso. Questo specchio nasconde al suo interno ed oltre la sua superficie riflettente la sostanza, e di conseguenza il mezzo kubrickiano, che «per la prima volta libera la parola dal suo statuto […] di inanità e di indeterminatezza»86 e la presenta come raggiungimento di un fine e di uno snodo narrativo.

La marijuana posta a questo punto del film dà inizio ad uno stato alterato di coscienza: attraverso di essa, infatti, si attua un processo di iperstimolazione sensoriale, sancendo così un allontanamento dalla consueta capacità di percezione, che rappresenta il preludio alla successiva fase onirica ed alterazione che permea l’intero film. La marijuana, triplamente protetta – dalla

85 A. Schnitzler, 1977, p. 13-14 86 S. Ciaruffoli, 2003, p. 59

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bustina di plastica, dalla scatola di cerotti e dall’armadietto – e dunque segno e simbolo di una difficoltà a raggiungere una meta – del resto, come già detto, l’intera vicenda, soprattutto di Bill, che prende avvio da questa sequenza consiste nel continuo rinvio nel possedere in forma definitiva e stabile una verità – viene usata da Alice per preparare uno spinello. A questo proposito, è curiosa e interessante l’inquadratura con la quale Kubrick segue la prima inalazione di Alice: mentre la donna aspira la sua boccata di fumo, lo spettatore è portato, metaforicamente parlando, a fare simultaneamente lo stesso. Con un’armoniosa zoomata all’indietro, infatti, Kubrick unisce specularmente lo spettatore con il suo personaggio e con il suo tiro di spinello. Questo espediente è molto interessante, perché per la prima volta il regista sottolinea con una sorta di rituale arcaico la comunione dello spettatore con il film e lo stato di alterazione che ne seguirà87.

Come i due protagonisti di Doppio Sogno, anche Bill e Alice si scambiano le proprie impressioni e si pongono domande insidiose sulla festa natalizia alla quale hanno partecipato la notte precedente. Tuttavia, mentre nel racconto di Schnitzler la gelosia ed il turbamento che accompagnano il dialogo fra i due coniugi sono vicendevoli sin dall’inizio, tant’è che condurranno alla reciproca confessione dei due tradimenti non consumati, in Eyes Wide Shut si avverte, fin dalle prime battute, come i moti di gelosia, di irritazione e di incomprensione che generano il litigio ed il successivo allontanamento emotivo dei due personaggi siano concentrati principalmente nella figura femminile, alla quale è riservato il ruolo di protagonista assoluta in questa scena, assieme alla confessione univoca del tradimento non consumato. Il protagonista maschile si fa qui spettatore dello “spettacolo” messo in atto dalla moglie, la quale, grazie all’aiuto della marijuana, nonché spinta dall’insensibilità e dalla mancanza di comprensione del marito, decide di togliersi la maschera delle buone convenzioni borghesi e di rivelare il suo contraddittorio, ambiguo e misterioso

87 S. Ciaruffoli, 2003

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mondo interiore.

Nella sua novella, Schnitzler non fornisce alcuna indicazione sulle movenze o sullo spazio occupato dai personaggi all’interno di questa sequenza, per cui Kubrick ha avuto modo di realizzare la sua personale rielaborazione di tale sequenza in piena libertà, costruendo un ambiente a lui congeniale al fine di sottolineare l’ambiguità e la dualità fra ragione e istinto, fra l’aspetto diurno, solare, di ciò che appare normale e l’aspetto notturno, che racchiude in sé quei «desideri nascosti»88 ai quali accenna Schnitzler nel suo racconto.

L’estensione di questa sequenza in Eyes Wide Shut è di quattordici minuti e si apre, come già detto, con un prologo risolto in due inquadrature che mostrano Alice mentre preleva e poi prepara la marijuana, seguito da una lunga scena, ambientata interamente nella camera da letto dei due coniugi, nella quale marito e moglie discutono prima della festa natalizia a casa Ziegler e finiscono poi per litigare, fino alla rivelazione del mancato tradimento da parte di Alice. Questa scena può essere suddivisa in cinque segmenti narrativi89.

Primo segmento: dal primo piano di Alice che compie la prima inalazione di marijuana la macchina da presa allarga fino ad inquadrare la coppia sdraiata sul letto, lui alle spalle di lei. Lo sguardo di Bill è rivolto al corpo della moglie, mentre lei guarda fuori campo in direzione della macchina da presa. Le inquadrature risultano qui sostanzialmente oggettive, anche se il punto di vista varia sensibilmente, riprendendo ora un solo elemento ora entrambi gli elementi della coppia, e restando ancorato ad uno spazio posto al di qua del letto matrimoniale. In questa situazione visiva i due coniugi si perdono, assecondando i poteri del fumo, nel ricordo della festa a casa Ziegler avvenuta la sera precedente e rimproverandosi i reciproci corteggiatori.

Da notare che in questo frangente appare per la prima volta il colore blu,

88 A. Schnitzler, 1977, p. 13 89 F. Villa, 2002

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trattenuto entro il vano della finestra del bagno di fronte al quale i due coniugi si stanno fronteggiando. Oltre a farsi sfondo di un personaggio nei momenti cruciali e più dissoluti, questo colore dona al film una tinta palesemente onirica e surreale, sottolineando così maggiormente l’architettura filmica imprigionata entro i confini della psiche. Inoltre, come riferito in precedenza, il dipanarsi della vicenda all’interno di un bagno o nelle sue immediate vicinanze assume nei film di Kubrick una forte valenza simbolica, in quanto rivela una manifestazione peggiorativa dell’attività umana: spesso il regista, nelle sue opere, ha rappresentato il bagno come luogo nel quale vengono inscenate la malattia, la morte, la follia e la crisi d’identità, l’alterità dell’animo umano90. Di conseguenza, lo stesso colore blu, ospite emblematico di questo ambiente, si connota d’ora in avanti nella medesima valenza negativa: raffigura il pericolo del mondo esterno che penetra nella sicurezza ovattata dell’ambiente domestico, la notte oscura che, con i suoi segreti ed i suoi misteri, si insidia nella luce del giorno e, con le parole di Schnitzler nel suo Doppio Sogno, viene a rappresentare «quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura»91.

Secondo segmento: Alice, profondamente irritata dalla leggerezza con la quale Bill dichiara di non meravigliarsi di fronte all’esistenza di un potenziale corteggiatore della moglie, si alza di scatto dal letto, indietreggia, ed arriva sulla soglia della porta del bagno contiguo alla stanza. Il corpo della donna risulta così incorniciato dagli stipiti. La macchina da presa abbandona il punto di vista per lo più oggettivo del segmento narrativo precedente, avanza lentamente fino a scavalcare il corpo di Bill e a posizionarsi di fronte a lui per contemplare appieno Alice. Dallo sguardo oggettivo si passa così ad una plausibile soggettiva del marito sulla moglie, enfatizzata dal doppio ritaglio del quadro della porta. Il dialogo, sempre più incalzante sulle eventuali differenze che

90 F. Prono, 2002
91 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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esistono fra uomo e donna e il corteggiamento dell’uomo rispetto a quello della donna, si scioglie in un’alternanza di inquadrature che vedono da una parte Alice in figura intera ripresa frontalmente, dall’altra Bill seduto staticamente sul letto come dall’inizio della scena, ripreso lateralmente.

In questa sequenza la figura di Alice, inquadrata dagli stipiti della porta della camera da letto, viene ad essere posizionata, per un gioco di raffinata prospettiva, al centro della porta del bagno che sta alle sue spalle ma anche al centro della finestra del bagno sullo sfondo. Inoltre, la luce bluastra proveniente dall’esterno, infiltrandosi tra le veneziane della finestra, viene ad incorniciare anche cromaticamente il corpo di Alice. «Così facendo il regista sottolinea la proprietà di un attimo e la sua riproduzione-rappresentazione in quadri che simboleggiano momenti e luoghi dissimili»92. In tutti i passi successivi Alice si troverà sempre inquadrata da una finestra posizionata sullo sfondo, dalla quale entra una luce bluastra, e le tende rosse, raccolte agli stipiti delle finestre, funzioneranno da sipario tirato per la recita che si consuma al proscenio. Inoltre, come detto in precedenza, il contrasto cromatico del blu e del rosso rappresenta anche il conflitto fra il mondo domestico – caldo ed accogliente, apparentemente sicuro – ed il mondo esterno – pieno di pericoli e contrassegnato dall’ignoto. Il rosso rappresenta anche il desiderio, la tentazione. Invece, Bill rimarrà seduto sul letto per l’intera sequenza, variando solo minimamente la propria posizione ed assumendo così il ruolo di spettatore dello spettacolo messo in scena dalla moglie. La sua staticità, posta in paragone alla dinamicità di Alice che al contrario sembra cercare ad ogni costo l’azione, assieme all’inespressività assunta dal suo viso che non lascia trapelare quasi la minima emozione se non un lieve imbarazzo e una leggera irritazione, assieme alla caratteristica abitudine di ripetere in forma di domanda l’ultima parte del precedente discorso della moglie, denotano con grande chiarezza la sua totale incapacità di affrontare la situazione e la sorpresa di fronte alla nuova

92 S. Ciaruffoli, 2003, p. 63

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immagine della moglie, tanto sincera e diretta senza la propria maschera. Il letto diviene un palchetto d’onore dove Bill rimane pressoché immobile dinnanzi all’esibizione della moglie, che si muove, si agita, impadronendosi di tutto lo spazio possibile e soprattutto andando ad inquadrarsi da sola tra stipiti, specchi e finestre93.

Terzo segmento: Alice, sempre più infastidita dalle semplificazioni del marito, lascia nuovamente la postazione guadagnata e si dirige verso la toilette davanti al letto, posizionata a sinistra. Dopo avere speso qualche battuta sull’esposizione del marito, in quanto medico, alle eventuali lusinghe delle pazienti, crolla seduta sullo sgabello per poi alzarsi di nuovo. La macchina da presa resta sempre incollata a lei ed ai suoi movimenti, la segue di volta in volta inquadrata nella sua nuova posizione, in un costante campo/controcampo di Bill e del corpo di Alice.

Quarto segmento: il discorso sulla gelosia di coppia stringe attorno ai due protagonisti e Alice comincia a provocare il marito irridendone la sicurezza in merito alla fedeltà coniugale. La donna si sposta di nuovo, attraversa la stanza, passa ai piedi del letto, arrivando davanti ad una finestra. Di nuovo incorniciata, Alice, in figura intera, si agita cercando di spiegare le proprie ragioni, mentre Bill, sempre seduto sul letto ripreso frontalmente, sembra a tratti essere colto da afasia.

Quinto segmento: Alice attraversa nuovamente la stanza, passa per la seconda volta ai piedi del letto, si arresta in prossimità di un’altra finestra e viene inquadrata ancora una volta in figura intera. La macchina da presa non la lascia un istante in questo suo peregrinare nella stanza, al punto che quando la donna, in preda ad una risata isterica, barcolla fino ad accasciarsi a terra, lo sguardo su di lei si fa estremamente mobile, liberandosi in una macchina a mano, ed assecondando i sussulti del suo corpo, sempre secondo la soggettiva di Bill. A

93 F. Villa, 2002

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questo punto appare un’inedita visione: la donna viene improvvisamente ripresa in primo piano e lateralmente da quel fuori campo iniziale, nello spazio al di qua della camera matrimoniale, dove la macchina da presa era posizionata all’avvio della lunga scena. Quest’ultimo segmento arriva al cuore della confessione di Alice, ripresa in primo piano di lato dall’inizio fino al termine del suo lungo monologo.

Le ultime tre sequenze prese in esame ritraggono il tentativo disperato da parte di Alice di ridestare il marito dal torpore che lo avvinghia e di risvegliare in lui la comprensione ed il desiderio che probabilmente un tempo li aveva accomunati. Ma egli risponde alle provocazioni della moglie con enorme insensibilità:

Alice: «E posso sapere perché non sei mai stato geloso di me?».

Bill: «Oh, questo non lo so Alice. Probabilmente perché sei mia moglie, può darsi perché sei la madre di mia figlia, forse perché penso che tu non mi tradiresti mai».

Alice: «Tu sei un uomo molto, molto sicuro di se stesso, vero?».

Bill: «No, sono sicuro di te».94

Dare per scontata la fedeltà della propria compagna significa essere convinto di possederla totalmente, senza riconoscerle autonomia e capacità di scelta, significa considerarla un oggetto la cui proprietà non può essere messa in discussione. Quando nascono dissidi all’interno della coppia e il clima diventa astioso e tagliente, possono generarsi all’improvviso le emozioni più imprevedibili ed intense; possono sprigionarsi anche dell’odio e dell’ostilità molto profondi che prendono il sopravvento sulle circostanze. Ecco allora screzi e dissapori, continui scontri verbali che feriscono l’anima come spade

94 S. Kubrick, 1999

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taglienti95.

Incompresa ed insultata in questo modo, Alice cerca di sottrarsi a quella degradante posizione subalterna nella quale l’ha relegata il marito confessando e svelando ciò che si nasconde nel proprio animo: infatti, non appena Bill dichiara la propria sicurezza, una macchina a mano traballante segue la donna che scoppia a ridere e, dalla posizione eretta nella quale si trova, si abbassa progressivamente fino a sedersi sul pavimento. Analizzando unicamente lo stile, Alice si abbassa sia fisicamente sia metaforicamente e l’inquadratura traballa, ovvero la sua immagine si abbassa moralmente agli occhi del marito, il quale vede andare in frantumi le proprie certezze96.

La lunga scena della confessione viene chiusa dalla telefonata che Bill riceve da parte di Marion: il padre della ragazza è deceduto ed il medico trova così una via di fuga.

Nicole Kidman interpreta il ruolo di protagonista femminile con grande tensione emotiva e sensibilità, conferendo al personaggio profonda verità. Ella ottiene questo risultato con notevole economia di mezzi, modulando in modo raffinato le espressioni del volto, ma soprattutto movendo il proprio corpo con spontaneità e insieme con grande sapienza interpretativa, proponendolo splendidamente come strumento di comunicazione. In tal modo crea un personaggio credibile e stilizzato, inquietante ed affascinante insieme, i cui sogni e fantasie assumono connotati estremamente concreti ed emotivamente coinvolgenti.

In Doppio Sogno la confessione di Albertine non viene bruscamente interrotta da una telefonata e Fridolin non fugge. Alla confessione della moglie, il medico risponde con la sua personalissima confessione, aggiungendo tradimento a tradimento. E la donna, pur restando la prima a dichiarare segni di illecita

95 A. Carotenuto, 2003 96 F. Prono, 2002

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passione, cede il passo al racconto dei desideri, ancor più proibiti, del marito, senza reclamare la scena. Fridolin diviene allora il protagonista del segmento narrativo, segnato dal suo improvviso dinamismo nei confronti della moglie, ora statica:

«[…] Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità. E poi anche tu hai avuto qualche avventura su quella spiaggia – lo so».

Fridolin si alzò, si mise a camminare avanti e indietro per la stanza, poi disse: «Hai ragione». Stava presso la finestra, il viso in ombra.97

Alla confessione del tradimento non consumato da parte di Fridolin, che lo vede attratto da una giovanissima fanciulla su di una spiaggia dove era solito passeggiare ogni mattino durante la vacanza danese, segue un intenso dialogo fra i due protagonisti, nel quale riemergono i fantasmi delle avventure giovanili del medico nonché il ricordo del loro primo incontro, al quale seguì il fidanzamento dei due protagonisti. Ed è solo in quest’ultimo scambio di battute che emerge, nel racconto di Schnitzler, tutta la problematica del personaggio maschile, nel quale, come già detto, si riflettono con maggiore limpidezza la debolezza e la fragilità dell’animo umano oltre che le contraddittorietà dettate dalla natura umana e dal pregiudizio borghese che, da sempre, relega la donna ad una degradante posizione subalterna mentre concede all’uomo il diritto ad una morale:

«In ogni donna – credimi, anche se può sembrare una facile affermazione – in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te; ne sono convinto più di quanto tu possa capire, Albertine».

Ella sorrise triste. «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?» disse, e il suo sguardo si trasformò e divenne freddo e impenetrabile. Fridolin abbandonò le sue mani, quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva; ma lei continuò: «Ah, se solo

97 A. Schnitzler, 1977, p. 15-16

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sapeste!» e tacque di nuovo.98

La stessa contraddittorietà e lo stesso ipocrita pregiudizio borghese che contraddistinguono l’uomo sono rilevabili nel dialogo fra Bill e Alice prima che quest’ultima confessi al marito il suo mancato tradimento:

Bill: «Che cosa fa? Ah, ma io non lo so Alice … Che cosa fa? Ah, guarda: le donne non … non sono così, non ci pensano nemmeno a queste cose».

Alice: «Milioni di anni di evoluzione! Vero? Vero? Mentre gli uomini si preoccupano di infilarlo dovunque possono, le donne devono solo pensare alla stabilità della famiglia, alla fedeltà coniugale e a chissà quali altre cazzate!».

Bill: «Un concetto un po’ troppo semplificato, Alice. Ma di sicuro è qualcosa del genere».

Alice: «Se invece voi uomini solo sapeste …».99

Sebbene Kubrick anticipi questo momento, rendendo poi il dialogo fra i due personaggi più semplificato, molto meno verboso, meno articolato e conferendogli una modernità espressiva che naturalmente non si addirebbe allo stile di Schnitzler, e depenni la confessione del medico, eliminando in tal modo anche la duplicità e la forza della rivelazione che condurrà poi i due personaggi a vivere separatamente, seppure parallelamente, il loro viaggio onirico-reale- surreale, riesce comunque a mantenere intatte le dinamiche principali che muovono la coppia dei due protagonisti nel film: l’ipocrisia, la gelosia, le ossessioni e i turbamenti insiti nel profondo dell’anima sono ben presenti.

In Doppio Sogno, però, la gelosia che muove Fridolin viene espressa ed esternata in modo più articolato e con maggiore maestria narrativa rispetto a quanto non

98 A. Schnitzler, 1977, p. 18-19 99 S. Kubrick, 1999

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abbia saputo fare Kubrick nel film, a causa dell’imponente taglio operato a questa sequenza all’interno della novella:

«Non riesco a capire» disse Fridolin. «Avevi appena diciassette anni quando ci fidanzammo». «Sedici passati, Fridolin. Eppure …» lo guardò francamente negli occhi «Non dipese da me se divenni tua moglie ancora vergine».

«Albertine …».

Ed ella raccontò:

«Fu sul Wörthersee, poco prima del nostro fidanzamento, Fridolin; una splendida sera d’estate un bellissimo giovane si fermò davanti alla finestra che guardava sull’ampia distesa del prato, ci mettemmo a parlare e durante quella conversazione pensai […]: che ragazzo simpatico e affascinante, – se dicesse ora una sola parola, quella giusta naturalmente, […] stanotte potrebbe avere da me tutto quello che vuole. […] Ma l’incantevole giovane non pronunciò quella parola; mi baciò delicatamente la mano, – e il mattino successivo mi chiese se volevo diventare sua moglie. E io dissi di sì».

Fridolin lasciò andare seccato la mano della moglie, poi disse: «E se quella sera ci fosse stato per caso un altro davanti alla tua finestra e gli fosse venuta in mente la parola giusta, per esempio …» pensò a quale nome dovesse dire […].100

È soprattutto a questo punto che Fridolin esterna la propria gelosia, quasi indifferente al fatto che il giovane indicato dalla moglie era lui. Egli, oramai confuso ed infastidito, toccato nel profondo e senza più alcuna certezza, associa la figura dell’ufficiale di marina, che l’estate precedente aveva avvinto la moglie, con quella di se stesso ventenne: in entrambi i casi, infatti, la donna è stata magicamente attratta con un semplice sguardo da un giovane, senza alcun

100 A. Schnitzler, 1977, p. 19-20

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contenuto intimo del guardato. E scoprire, tutto d’un tratto, una parte che non conosceva, i torbidi meccanismi mentali che non credeva potessero appartenere alla figura femminile della propria moglie e madre della propria figlia, mette in discussione i meccanismi stessi e le sicurezze dell’esistenza di Fridolin. La frase «pensò a quale nome dovesse dire» lasciata così, senza soluzione, rivela come ciò che non sapeva in passato rimanga a lui ignoto anche nel presente. Egli è quel giovane che non conosceva, e non conosce tuttora, la parola magica che gli avrebbe permesso di possedere Albertine prima del matrimonio e di penetrare la sfera intima della sua compagna. Quella parola è rimasta nella mente della moglie senza che lui ne venisse a conoscenza. Questo è soltanto un indizio della separazione comunicativa che connota la crisi dei due personaggi e la considerazione iniziale della scena lo rende ancora più significativo: infatti, i due protagonisti erano rimasti soli per comunicarsi l’uno con l’altro le proprie impressioni e le proprie fantasie suscitate dall’esperienza vissuta al veglione mascherato della sera precedente, con la speranza che una sincera confessione fosse in grado di liberarli da un senso di oppressione e di incomunicabilità che cominciava a divenire insopportabile. Ma dalla successiva conversazione risulta che entrambi hanno vissuto separatamente quei momenti. Una volta rivelati mettono in crisi le certezze del medico; e poiché la sicurezza in se stesso è uno dei capisaldi sui quali si fonda l’amor proprio di Fridolin, egli sente la necessità di riscattarsi della delusione subita mediante le parole di Albertine.

Ecco, dunque, che nel film è stata notevolmente ridotta e sfilacciata una parte fondamentale del racconto di Schnitzler, cosicché la sua resa all’interno del film ne è risultata alquanto compromessa, determinando inoltre un consistente residuo traduttivo. Infatti, sebbene Kubrick riesca con notevole maestria e sapienza cinematografica, sfruttando al meglio le tecniche cinematografiche ed i mezzi espressivi caratteristici del cinema, a riprendere e a raffigurare i temi dominanti di tale sequenza e dell’intera opera sia nella riproduzione, seppure ridotta, di tale sequenza sia nella riproduzione dell’intera vicenda, la

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soppressione di una parte tanto importante quale il racconto del tradimento non consumato da parte del protagonista maschile, contenuto nel racconto di Schnitzler, non può non determinare una sorta di sbilanciamento all’interno del film: qui in effetti, come già detto, il viaggio onirico-reale-surreale appartiene principalmente al medico, che in tal senso subisce passivamente la rivelazione della moglie; e la donna, grazie alla quale pur tuttavia prende avvio la vicenda stessa vissuta dal protagonista maschile, in seguito al racconto dei propri desideri di illecita passione, viene relegata ad una posizione subalterna di co- protagonista.

Inoltre, il momento centrale della confessione, in Doppio Sogno vera e propria apertura del racconto, viene proposto da un impeccabile narratore onnisciente ed il punto di vista sulle cose e sui personaggi resta “oggettivo”.

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CONCLUSIONI

Riprendendo quanto affermato e considerato nell’Introduzione in merito alle valutazioni ed alle ricerche sinora condotte dagli studiosi di semiotica – ed in particolare da Torop, al quale maggiormente mi sono rifatta nella mia analisi della trasposizione cinematografica di Doppio Sogno in Eyes Wide Shut – in merito ai problemi inerenti all’analisi traduttologica del prototesto in vista della traduzione filmica e alla possibilità concreta di sviluppare un metodo scientifico per l’analisi dei fondamentali cambiamenti traduttivi che avvengono nella traduzione filmica, e ripercorrendo, a posteriori, l’intero lavoro di scomposizione ed analisi da me proposto e condotto su un caso concreto di trasposizione cinematografica, mi appare doveroso annotare alcune osservazioni finali, che si propongono come estrema sintesi di un intero percorso.

Ho già notato e segnalato quali siano le differenze intrinseche e fondamentali che intercorrono fra romanzo e film, prodotti appartenenti a due diversi sistemi segnici. Ed ho visto come l’analisi traduttologica del prototesto sia legata ad un processo di indagine e di scomposizione nei suoi elementi costitutivi e potenziali, per i quali verrà attuata una ricerca di strategie traduttive e di nuova sintesi al fine di trasformare – attraverso la scelta delle dominanti contenute nel prototesto – e rappresentare tali elementi mediante i mezzi espressivi caratteristici del cinema, fino alla creazione del metatesto, ovvero il testo filmico.

L’analisi e la scomposizione del prototesto nei suoi elementi costitutivi – e dei quali è formato anche il metatesto – è riconducibile all’individuazione dei tre tipi di cronotopo riconosciuti da Torop: a qualunque genere di sistema segnico appartenga, un testo è composto dal cronotopo topografico, dal cronotopo psicologico e dal cronotopo metafisico. A seconda che il testo appartenga ad un sistema di segni verbale – come il romanzo – o non soltanto verbale – come

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il film – i tre tipi di cronotopo si esplicheranno in modi e mediante mezzi espressivi diversi. Inoltre, il dominio di un cronotopo sull’altro o, diversamente, la loro fusione armoniosa, determinerà un diverso approccio all’analisi traduttologica ed una differente rilevazione delle dominanti presenti nel testo stesso – sia nel prototesto sia nel metatesto.

Infine, ho osservato come la traduzione filmica sia una vera e propria opera creativa, in quanto non esiste ancora un metodo scientifico che stabilisca in che modo ogni traduzione deve essere condotta, semplicemente esistono delle concordanze di segni, per cui ogni elemento appartenente al prototesto trova un suo corrispettivo traducente nel metatesto, seppure secondo modalità diverse per ogni singolo romanzo e per ogni singolo film.

Per quanto concerne il caso preso in esame è possibile riscontrare, in fase di analisi, come il regista si sia sostanzialmente concentrato sulla lettura ed in particolare sui temi del romanzo. Infatti, sebbene vi siano delle notevoli differenze fra le due opere, che lascerebbero supporre uno stravolgimento totale da parte di Kubrick del racconto di Schnitzler, ad un esame più accurato è possibile notare, invece, come la storia del medico Fridolin e della moglie Albertine venga semplicemente rivestita della storia di Bill e Alice, e come tale rivestimento lasci continuamente affiorare l’intreccio, i temi e gli elementi costitutivi originali del prototesto.

Il viaggio onirico-reale-surreale viene proposto e ricreato sia mediante l’utilizzo di un contrasto cromatico – rosso e blu – che delinea il conflitto fra realtà psichica e realtà materiale, fra il giorno e la notte, fra il rassicurante e noto mondo domestico e il misterioso, ignoto e dunque perturbante mondo esterno – che si insinua del mondo interno –, sia mediante l’utilizzo di movimenti di macchina che sembrano inghiottire, avviluppare e condurre il protagonista maschile verso un “laddove” proibito, una discesa entro i gorghi della sua stessa psiche – in quel territorio intermedio e fluttuante che si cela fra conscio e inconscio e che Schnitzler definiva «medioconscio» –, sia mediante la

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ricostruzione in studio di una New York quasi irreale e labirintica, che viene percorsa e ripercorsa sino allo sfinimento, con la costante impressione da parte dello spettatore di trovarsi, invece, sempre nello stesso punto.

La dualità della coppia di protagonisti viene rappresentata, ancora, dal contrasto cromatico, dalla contrapposizione fra il calore dell’ambiente domestico e la freddezza del mondo esterno, dall’impiego di luci soffuse in opposizione a luci diffuse, dall’ampio utilizzo di inquadrature soggettive che si sovrappongono, in taluni casi, a quelle sonore, fornendo così ulteriormente un’impressione di scissione fra ciò che viene visto – la realtà materiale – e ciò che, al contrario, viene percepito – la realtà psichica.

Il tema del doppio, più in generale, viene ricostruito attraverso l’uso di specchi – simboli del doppio per eccellenza –, di luoghi, elementi e personaggi identici o analoghi, di situazioni simili fra loro oppure di carattere opposto, e di una struttura filmica caratterizzata dalla specularità.

Lo smarrimento interiore del personaggio, in special modo di quello maschile, viene raffigurato da una mimica facciale e da una recitazione volutamente goffe e ricercate, talvolta artificiose, che tendono a evidenziare le insicurezze e tutta l’inadeguatezza, da parte protagonista, nell’affrontare situazioni nuove ed impreviste, nonché dalla rappresentazione di un tempo – interno alla mente del protagonista – che si disgrega, grazie all’uso di numerose soggettive, di ripetizioni, di blocchi e di un insolito impiego della dissolvenza incrociata.

Il mascheramento sociale e l’ipocrisia della morale borghese affiorano continuamente durante la rappresentazione e sono evidenziare sia dai dialoghi sia dai comportamenti perbenisti e allo stesso tempo vuoti, meccanici, fatici, dei personaggi – inclusi i due protagonisti – sia dal raffronto di alcune scene e situazioni apparentemente opposte eppure complementari fra loro, come le due feste, o, ancora, dall’uso delle luci, dei colori, nonché, in modo molto più esplicito, dall’utilizzo delle stesse maschere. La famiglia, l’istituzione rappresenta una facciata illusoria dietro la quale si nasconde un groviglio di

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dubbi, di angosce e di desideri repressi, diviene il luogo nel quale con maggiore lucidità si insidia e si sprigiona d’improvviso, travolgendo ogni certezza, il perturbante.

Tale lettura filologica, rivista in chiave moderna dovuta alla trasposizione cronotopica della storia di Doppio Sogno in una New York contemporanea, è stata possibile anche grazie alla comunione dei temi prediletti dal regista e quelli affrontati dallo scrittore viennese sia nel romanzo in oggetto sia nel corso della carriera artistica di entrambi gli autori. Questa similarità fra Schnitzler e Kubrick ha fatto sì che la novella schnitzleriana figurasse come un soggetto ideale per il regista statunitense.

Le principali differenze traduttive apportate da Kubrick alla novella di Schnitzler riguardano in special modo la scelta dell’ambientazione e alcune scelte in merito all’intreccio.

Per quanto riguarda l’ambientazione, mentre la storia di Doppio Sogno si svolge nella Vienna di inizio Novecento, quella di Eyes Wide Shut si svolge nella New York contemporanea; di conseguenza, la storia intera è stata completamente trasposta e modernizzata, con una conseguente modernizzazione anche dei realia e di alcuni motivi appartenenti alla cultura e all’epoca nella quale ha luogo la vicenda del prototesto – ad esempio, nel romanzo il protagonista maschile esprime il timore di contrarre una malattia venerea laddove nel film lo stesso timore viene espresso nei confronti dell’Aids; o, ancora, se il mezzo di trasporto utilizzato nel romanzo è la carrozza, nel film viene utilizzata l’automobile. Tuttavia, la New York descritta e rappresentata da Kubrick si discosta di gran lunga da quella vera: infatti, essa appare quasi un ibrido fra la reale città odierna e la Vienna di inizio Novecento, poiché costellata di nomi, personaggi, luoghi nonché musiche che si ricollegano al mondo mitteleuropeo e ricordano e regalano un clima tardo romantico.

Per quanto riguarda l’intreccio, nella storia di Eyes Wide Shut si possono rilevare numerose differenze narrative rispetto a quella originale: sia perché presenta

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una dilatazione temporale – la vicenda di Doppio Sogno si svolge in due giorni mentre quella del film in quattro giorni – sia perché la storia stessa, come appena descritto, è stata ambientata in uno spazio ed in un’epoca differenti, sia e soprattutto perché alla trama nel film sono state apportate svariate modifiche, riguardanti vari fattori: in primo luogo la scelta di nomi di luoghi, personaggi, nonché della parola d’ordine per accedere alla festa orgiastica diversi rispetto al romanzo; in secondo luogo la modifica e l’amplificazione di alcune scene – in particolare, mi riferisco alla scena della prima festa alla quale partecipano entrambi i protagonisti: mentre nel racconto di Schnitzler questi impiega soltanto poche righe per descriverla, nel film viene dato ampio spazio alla rappresentazione della stessa sequenza –, che determinano anche l’assegnazione di un diverso peso delle stesse situazioni nel film rispetto al romanzo; in terzo luogo l’aggiunta ex novo di alcune sequenze e personaggi – ovvero l’introduzione del personaggio di Victor Ziegler nonché, nel sottofinale, il confronto fra quest’ultimo e il protagonista maschile nella sala del biliardo –; in quarto ed ultimo luogo, la soppressione di alcune scene, a mio avviso molto importanti, contenute invece nel romanzo – la reciproca confessione del tradimento non consumato da parte di entrambi i coniugi viene ridotta alla confessione di un desiderio di illecita passione unicamente da parte della protagonista femminile, cosicché la confessione del medico viene interamente depennata; allo stesso modo, il racconto del sogno da parte della donna, al rientro in casa del medico in seguito alle sue avventure notturne, viene notevolmente ridotto e alcuni suoi aspetti non vengono del tutto menzionati –, che determinano dunque, all’interno del film, un sensibile sbilanciamento di un tema fondamentale del romanzo di Schnitzler: la rappresentazione del doppio, nonché la doppia valenza del viaggio onirico-reale-surreale vissuto da entrambi i protagonisti.

Tale sbilanciamento si esplica più precisamente nel cosiddetto «residuo

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traduttivo»101. Ogni tipo di traduzione – interlinguistica, intralinguistica e dunque anche quella intersemiotica extratestuale – comporta un residuo traduttivo, ossia un insieme di elementi che, in base alla strategia traduttiva adottata, non vengono trasferiti nel metatesto, poiché sono difficilmente riproducibili o perché non costituiscono una dominante del prototesto e vengono di conseguenza ignorati oppure spiegati in altro modo – ad esempio, nella traduzione metatestuale attraverso l’impiego di note.

Nel caso specifico, ovvero nella trasposizione cinematografica presa in esame, la scelta di depennare nel metatesto due sequenze tanto importanti – che contribuiscono alla costituzione di una dominante del prototesto, ovvero la dualità della coppia e la dicotomia fedeltà-tradimento – risulta difficilmente condivisibile e comprensibile e non appare dovuta né ad una possibile difficoltà di rappresentazione da parte del regista mediante le tecniche cinematografiche né, tanto meno, alla scarsa significatività delle due sequenze stesse. Purtroppo, la morte prematura e repentina di Kubrick ha lasciato un alone di mistero attorno all’ideazione del film e, soprattutto, alla sua effettiva rappresentazione. Infatti, sebbene determinate scelte siano state ampiamente commentate – da critici e studiosi, nonché dagli stessi attori e aiutanti del regista e, in ultimo, dallo sceneggiatore – nel vano tentativo di fornire delle spiegazioni esaustive e interpretazioni su di esse, tale tentativo si perde in una girandola di delucidazioni e dichiarazioni che altro non sono che ipotesi.

Dunque, non resta altro che questo: formulare congetture.

Anche in Doppio Sogno i temi dominanti si sviluppano maggiormente nella figura del medico, nella quale meglio si esplicano le contraddittorietà racchiuse nell’animo umano. Nel film, tuttavia, viene totalmente privilegiata la raffigurazione dello smarrimento interiore e del viaggio vissuto dal personaggio maschile a discapito di quello femminile. Inoltre, mentre nel romanzo la parola

101 B. Osimo, 2001

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scritta consente allo scrittore di descrivere – e al lettore di penetrare – con più acume le profondità del pensiero e della psiche dell’uomo, nel film l’assoluta quanto naturale mancanza della parola scritta priva la storia di tanta interiorità e profondità. Kubrick cerca di ovviare sia alla soppressione da lui apportata alla vicenda sia all’impossibilità di utilizzare la parola scritta per raffigurare il tema della dualità e del parallelismo attraverso l’uso insistito di elementi iconici che rinviano lo spettatore all’immagine del doppio: ad esempio, viene fatto ampio uso di specchi o di figure identiche o simili; inoltre, il film ha una struttura più marcatamente simmetrica rispetto al romanzo e la dualità del viaggio, fra conscio e inconscio, viene rappresentata mediante diversi espedienti, come il contrasto cromatico.

Quel che è certo, però, è che Eyes Wide Shut si presenta come un capolavoro, l’ennesima, oltre che ultima, odissea kubrickiana che abbatte ogni confine fra realtà e sogno, e penetra in profondità nell’animo umano, rivelando, con la freddezza cinematografica che ha contraddistinto tutto il cinema di Kubrick, le più inconfessate debolezze e le più intime pulsioni dell’uomo.

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FEDERICA FRIGERIO M. Lekomceva, B. Uspenskij: Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

M. Lekomceva, B. Uspenskij:

Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

 

 

 

 

 

FEDERICA FRIGERIO

 

 

Scuole Civiche di Milano

Fondazione di partecipazione

Dipartimento Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

 

 

 Relatore: professor Bruno OSIMO

 

Diploma in Scienze della mediazione linguistica

marzo 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Lekomceva-Uspenskij 1965

© Federica Frigerio per l’edizione italiana 2008


Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

Describing a semiotic system with a simple syntax

M. Lekomceva, B. Uspenskij

 

ABSTRACT IN ITALIANO

Nonostante la riflessione sul segno abbia una lunga tradizione che percorre la storia della filosofia occidentale a partire dal periodo greco, la nascita della semiotica vera e propria risale agli inizi del Novecento e si identifica inizialmente in due diverse prospettive, una di origine statunitense e una europea. Negli anni Sessanta nasce la scuola semiotica di Tartu-Mosca, che si distingue per lo spirito innovativo dei suoi ricercatori. Animati da spirito di sperimentazione, essi realizzano una serie di lavori sui fenomeni comunicativi più disparati, inquadrandoli in un progetto globale di modellizzazione della comunicazione umana, compresa quella non verbale. Attraverso la semiotica, cercano di applicare il metodo scientifico alla descrizione di fenomeni umani che scientifici non sono, per esempio alla cartomanzia. Il linguaggio di quest’ultima viene descritto in termini sintattici, semantici e pragmatici al fine di ottenere una formalizzazione dei passaggi logici che intervengono durante una seduta di predizione del futuro. Qui si propone una traduzione del lavoro di M. Lekomceva e B. Uspenskij con testo a fronte.

 

ENGLISH ABSTRACT

Although the debate on sign has a long tradition throughout the history of Western philosophy starting from the Greek period, the real semiotic discipline dates back to the beginning of the 20th century. Initially it was identified in two different perspectives, an American and a European perspective. The Tartu-Moscow semiotic school started in the sixties and distinguished itself thanks to the innovative spirit of its researchers. Driven by a spirit of experimentation, they carried out research on the most varied communicative phenomena and documented the results in a global project of modelization of human communication, including non-verbal communication. Through semiotics they tried to apply the scientifc method to the description of non-scientific human phenomena, for example cartomancy. The language of cartomancy was described in syntactic, semantic and pragmatic terms, in order to obtain a formalization of the logical steps that characterize a fortune-telling session. The Italian translation of M. Lekomceva and B. Uspenskij’s work is here proposed.

 

RÉSUMÉ EN FRANÇAIS

Bien que la réflexion sur le signe ait, depuis la période grecque, une longue tradition qui parcourt l’histoire de la philosophie occidentale, la naissance d’une véritable discipline sémiotique remonte au début du XXe siècle. Elle se manifeste initialement suivant deux perspectives, l’une américaine, l’autre européenne. Puis, l’école sémiotique de Tartu-Moscou voit le jour au cours des années soixante, se distinguant par l’esprit innovateur de ses chercheurs. Animés d’un esprit d’expérimentation, ceux-ci réalisent une série de travaux sur les phénomènes de communication les plus divers qu’ils encadrent dans un projet global de modélisation de la communication humaine, y compris la communication non verbale. À travers la sémiotique, ils cherchent à appliquer la méthode scientifique à des phénomènes humains qui ne sont pas scientifiques, par exemple à la cartomancie. Le langage de cette dernière est décrit en termes syntaxiques, sémantiques et pragmatiques afin d’obtenir une formalisation des passages logiques qui interviennent durant une séance de prédiction de l’avenir. On propose ici la traduction en italien du travail de M. Lekomceva et B. Uspenskij avec le texte original en regard.


Sommario

 

 

1. Prefazione……………………………………………………………………………3

 

1.1 La semiotica……………………………………………………………..…3

 

1.2 I contesti storici principali………………………………………….………4

 

1.3 Ferdinand de Saussure….………………………………………………..7

 

1.4 Charles Sanders Peirce………………………………………………..…8

 

1.5 Ûrij Lotman e la scuola di Tartu.……………………………………..…10

 

1.6 La cartomanzia come sistema semiotico….…………………………..12

1.7 Riferimenti bibliografici……    ………………………………………….16

 

 

2. Traduzione con testo a fronte……………………………………………………18

 

 

 

 

 

 

 


1. Prefazione

 

 

1.1 La semiotica

«Non è possibile non comunicare». Questo semplice principio è il primo dei cinque assiomi fondamentali della comunicazione definiti dallo psicologo di origine austriaca Paul Watzlawick[1] ed è anche il punto di partenza della semiotica: ogni persona, oggetto, elemento naturale o artificiale comunica continuamente. Tutto ciò che è comunicazione è segno: si comunica quando si parla, si canta, si scrive, ci si veste, ci si gratta il naso, ci si muove. Sono comunicazione i libri, giornali, i gesti del corpo, i cartelli stradali e quelli pubblicitari, i film, le foto, i numeri, i suoni, le parole e così via. Molti segni presuppongono un’intenzione di comunicare, un’azione volontaria. In realtà esistono anche i segni non volontari: una rondine ci dice che è arrivata la primavera, il fumo ci dice che c’è fuoco, forse un incendio, le nuvole grigie ci dicono che arriverà un temporale, la sensazione di nausea ci dice che non abbiamo digerito… Anche senza la volontà di comunicare, tutti i segni comunicano; l’importante è che ci sia qualcuno che li recepisca.

Ma che cos’è un segno? Nella definizione classica, risalente al periodo greco, un segno è aliquid pro aliquo, qualcosa che è riconosciuto da qualcuno come indicazione di qualcos’altro. In altre parole, qualcosa che non rimanda solo a sé stessa, ma ad altro; ad esempio, il fumo citato sopra ci rimanda al fuoco.

Tutti i segni volontari e non, il loro uso, il loro funzionamento, il loro valore nella comunicazione, costituiscono l’oggetto di studio della semiotica.

Si tratta di una disciplina relativamente giovane, a fatica le si può dare un secolo di vita, ma in realtà, forse senza saperlo, i primi semiotici esistevano già duemila anni fa. La stessa parola «semiotica» deriva dal greco semeion (segno) e può essere definita «la scienza dei segni». Essa studia, sotto ogni aspetto, i segni che gli esseri umani utilizzano per comunicare, dai più evidenti – come le parole o i suoni – ai più nascosti – come gli ornamenti del corpo o i colori.

Si può affermare che la semiotica “non consapevole” esiste da quando l’uomo ha cominciato a riflettere sulla comunicazione e su ciò che la rende possibile, ovvero l’interpretazione dei segni.

 

1.2 I contesti storici principali

Ecco quindi una panoramica dei contesti principali in cui è nato il concetto semiotico più importante, il segno.

Il termine «segno» è rintracciabile già in Omero e in Esiodo, dove sta a indicare il segno naturale (le nuvole per la pioggia), il segno divino (il prodigio che rinvia alla volontà del cielo) e il segno convenzionale (il segno di riconoscimento delle truppe). Per Platone (429-347 a.C.), i segni sono strumenti per rappresentare delle cose che rimandano ai loro referenti metafisici, le Idee.

Aristotele (384-322 a.C.), il vero fondatore della logica, dà un grande contributo allo studio del linguaggio, dedicandogli un’intera opera, il De Interpretatione. Per la prima volta, Aristotele utilizza la parola «segno» nel senso moderno del termine, vale a dire, come qualcosa che rinvia a qualcos’altro. Sono tuttavia gli Stoici a dare, per primi, una chiara definizione di segno, cioè «ciò che è indicativo di una cosa oscura» (Calabrese: 26), di una cosa che non è presente al momento della comunicazione.

Dal punto di vista del pensiero cristiano, con Sant’Agostino (354-430 d.C.) si fa un passo avanti verso la modernità, in quanto si mettono insieme la teoria del segno e quella del linguaggio verbale, cioè la parola o il segno verbale viene collocato all’interno di una più generale teoria del segno. Nella sua opera De doctrina christiana, Agostino definisce il segno come «una cosa che, più che l’impressione che essa produce sui sensi, fa venire di per sé alla mente qualche altra cosa» (Calabrese: 46). In Sant’Agostino si può anche ritrovare una certa consapevolezza del carattere sociale dei segni, in quanto, sempre nella stessa opera, egli sottolinea che «perché una cosa funzioni come segno, bisogna che l’interprete sappia che essa è un segno», ovvero i due attori della comunicazione devono riconoscere il segno in quanto tale (Calabrese: 46).

Nel medioevo, la dottrina dei segni riguarda maggiormente l’interpretazione delle Scritture e il segno è interpretato con precise finalità religiose.

Tommaso d’Aquino (1225-1274), nella sua Summa theologiae, sostiene che il segno delle Scritture non è un segno equivoco e non va quindi interpretato in senso allegorico; al contrario, è qualcosa di rigorosamente unico e referenziale.

Con l’umanesimo si afferma la visione di un mondo come una specie di testo prodotto da un’entità superiore con una sua logica interna; ogni oggetto del mondo è correlato al sistema e ne costituisce un segno, identificabile dall’intelletto umano. L’autore che meglio definisce questo concetto di “semiotica del mondo naturale” è Pico della Mirandola.

Con l’empirismo inglese del 1600 inizia una vera e propria rimeditazione dei problemi linguistici, scaturita da un rinnovato interesse dei filosofi-scienziati per la scienza in tutte le sue branche, che porta alla vera e propria definizione della semiotica con John Locke (1632-1704). Appartiene a quest’ultimo, infatti, il testo più ampio e consapevole dedicato alla teoria dei segni. L’autore dà una definizione di semiotica all’interno del quarto e ultimo libro del suo Saggio sull’intelligenza umana, del 1690:

 

[…] Il terzo ramo può essere chiamato dottrina dei segni; e poiché la parte più consueta di essa è rappresentata dalle parole, assai acconciamente essa viene anche chiamata logica. Il suo compito è di considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose, o per trasmettere ad altri la sua conoscenza. Poiché le cose che la mente contempla non essendo mai, tranne la mente stessa, presenti all’intelletto, è necessario che qualcos’altro, come un segno o una rappresentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spirito, e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all’immediata visione di un altro, né essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comunicare ad altri i nostri pensieri, nonché per registrarli a uso nostro, sono altresì necessari dei segni delle nostre idee, e quelli che gli uomini hanno trovato più convenienti a tale scopo, e di cui perciò fanno uso generalmente, sono i suoni articolati. Perciò la considerazione delle idee e delle parole, in quanto grandi strumenti della conoscenza di chi voglia esaminare la conoscenza umana in tutta l’estensione sua (Calabrese: 79).

 

Il Saggio sull’intelligenza umana è un vero e proprio trattato di semiotica, poiché l’indagine sulla conoscenza umana parte dal presupposto che essa formi un sistema di segni, così come le parole sono segni rispetto alle idee.

Nonostante si sia occupato in modo marginale del linguaggio, anche Cartesio (1596-1650) offre il suo contributo, proponendo nel Mondo, una struttura triadica del segno, costituita da una parte materiale (i suoni delle parole), un aspetto mentale a loro collegato (il significato) e i fenomeni della realtà che le parole rappresentano. Il linguaggio, che per Cartesio è arbitrario (cioè non vi è relazione diretta fra parole e cose), comprende anche fenomeni non verbali, come la luce, il ridere, il piangere o i gesti dei sordomuti, quando sono usati come segni. Per finire, Hegel (1770-1831), che invece ha dato molta importanza al segno e alla significazione. La rappresentazione dello spirito si realizza sensibilmente attraverso i segni ed è soggettiva, arbitraria. Secondo il filosofo il segno è «una certa intuizione immediata che rappresenta un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé» (Calabrese: 133). Il luogo vero del segno è l’intelligenza, che svolge la sua attività creatrice di rappresentazione.

 

La semiotica vera e propria, tuttavia, è una scienza relativamente giovane, che si identifica nelle riflessioni di due figure fondamentali, il filosofo statunitense Charles Sanders Peirce e il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, i quali, tra Ottocento e Novecento e in modo indipendente, gettano le basi della disciplina. Per questo motivo nella semiotica convivono fin dal principio due differenti prospettive: una più ampia legata alle teorie di Peirce e una più strettamente linguistica derivata da Saussure. Inizialmente il termine «semiotics» (semiotica) si rifaceva alla prospettiva peirciana, mentre il termine «sémiologie» indicava la prospettiva saussuriana, proprio perché fu lo stesso linguista a coniare il termine. Nell’uso successivo il termine «semiotica» è passato a identificare le riflessioni generali teoriche e di metodo sulla disciplina (quella che Umberto Eco definisce «semiotica generale»), mentre per «semiologia» si intendono le diverse applicazioni del metodo semiotico a particolari contesti saussuriani o oggetti di ricerca perlopiù di area francofona. Peirce e Saussure propongono sostanzialmente due concezioni del segno, o meglio, del rapporto di significazione, abbastanza differenti.

 

1.3 Ferdinand de Saussure

Nasce a Ginevra nel 1857 da una coltissima famiglia di scienziati. Compie gli studi in questa città e nelle università di Berlino, Parigi e Lipsia: qui si laurea nel 1880. Insegna dal 1881 al 1901 presso l’Università di Parigi, e dal 1901 a Ginevra, dove viene creata per lui la cattedra di linguistica generale. La sua fama è dovuta all’opera Cours de linguistique générale, una raccolta di appunti dei corsi di linguistica generale da lui tenuti, pubblicata postuma da Charles Bally e Albert Séchehaye, due dei suoi allievi.

Saussure affronta il problema del segno secondo modalità tipiche di un’impostazione linguistica. Secondo Saussure il segno è costituito da un signifiant, cioè il suono emesso da un parlante per indicare qualcosa, e da un signifié, cioè il concetto a cui tale signifiant rimanda; il segno è quindi diadico, poiché mette in gioco due elementi. La relazione tra questi due elementi, chiamata «significazione» (signification), è arbitraria (dove «arbitrario» non sta per soggettivo, libero, ma per «immotivato», cioè non necessario in rapporto al significato che viene espresso) ed è stabilita sulla base di un sistema di regole astratto, la langue, che nasce dal consenso collettivo. Ciò presuppone che tutti i parlanti di una lingua attribuiscano un identico valore comune ai segni. In questo senso la lingua viene concepita come un codice, un sistema di corrispondenze regolari fra signifiant e signifié. La caratteristica di arbitrarietà fa si che le lingue (i codici naturali) siano diverse fra loro, fa sì che l’italiano cane diventi chien in francese o dog in inglese; se la relazione non fosse arbitraria esisterebbe un unico linguaggio universale. La teoria di Saussure è quindi fondata sui codici naturali; anche se la lingua è solo uno dei tanti sistemi di segni presi in considerazione dalla semiologia, essa è considerata il sistema di riferimento per tutti gli altri. La lingua è infatti comparabile ad altri sistemi di segni, tra i quali il linguista annovera ad esempio la scrittura, l’alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, i segnali militari (Caprettini: 43). Roman Jackobson spiegherà poi che la maggior parte delle “scoperte” di Saussure risale in realtà in parte alla filosofia classica greca e in parte ai linguisti della scuola di Kazan.

 

1.4 Charles Sanders Peirce

Nato nel 1839 a Cambridge, Massachusetts, Peirce è una sorta di bambino prodigio. A dodici anni rimane affascinato dal libro Elements of Logic di Richard Whatley e a quattordici studia con passione chimica, matematica, filosofia e logica. Si laurea alla Harvard University e nel 1861 ottiene un incarico presso l’agenzia United States Coast Survey (il servizio costiero degli Stati Uniti) della quale suo padre è sovrintendente. Qui elabora diversi lavori scientifici di risonanza internazionale. Nel 1879 insegna logica alla Harvard, ma per vicende private legate al suo divorzio, perde il posto dopo cinque anni e da quel momento nessuna università vuole mai più conferirgli un incarico. Nel 1887 Peirce si ritira a vita privata e trascorre in isolamento e povertà gli ultimi anni della sua vita; riesce ad andare avanti solo grazie all’aiuto degli amici, tra i quali il notissimo psicologo William James. Peirce ha scritto migliaia e migliaia di pagine; ciononostante ha pubblicato solo una serie di articoli che, mentre era in vita, non hanno mai avuto grande risonanza. Il filosofo statunitense muore lasciando un gran numero di scritti, che poi la moglie venderà alla Harvard. Le sue opere sono state pubblicate solo a partire dagli anni Trenta e per questo il suo pensiero è ancora in parte da scoprire.

 

In un frammento risalente al 1897, Peirce scriveva:

 

A sign or representamen is something which stands to somebody for something in some respect or capacity

 

Il segno è qualsiasi cosa percettibile, senza la quale è impossibile conoscere l’oggetto. L’oggetto è ciò a cui rimanda il segno, determina il segno stesso ed esiste a prescindere dal segno. L’interpretante è un segno, un pensiero che interpreta un segno precedente. Esiste perciò una triade segno-oggetto-interpretante. In altre parole, perché un segno potenziale funga effettivamente da segno, deve entrare in relazione con un oggetto, essere interpretato e produrre nella mente del soggetto un interpretante. Questo processo è chiamato «semiosi». Per ciascuno di noi la relazione tra un segno e un oggetto ha un preciso senso, legato a esperienze e ricordi personali, perciò la semiosi in Peirce è soggettiva, e non arbitraria come in Saussure. L’interpretante, a sua volta, è un segno e, a sua volta, può generare altri oggetti e altri interpretanti: da qui parte quindi un processo che viene chiamato da Peirce «semiosi illimitata».

 

Al di là delle due grandi figure che hanno gettato le basi della semiotica, altri grandi studiosi si sono occupati della disciplina, apportando diversi contributi. È doveroso citarne almeno alcuni: Charles Morris, che nella sua opera Foundations of the Theory of Signs del 1938 ha definito la semiotica come l’insieme della triade sintassi-semantica-pragmatica; Louis Trolle Hjemslev, che nella sua opera Prolegomena: A Theory of Language ha approfondito in particolare il concetto di «glossematica», la teoria secondo la quale ogni sistema linguistico è basato sulla relazione fra un numero finito di unità varianti, i glossemi; Umberto Eco, che ha portato avanti – e continua a farlo – il problema dell’interpretazione testuale e del significato; Algirdas Julien Greimas, che ha sviluppato il concetto di semiotica generativa, cercando di spostare l’attenzione della disciplina dal segno al sistema di significazione; Ûrij Lotman, che ha sviluppato un approccio semiotico allo studio della cultura e fondato la scuola di Tartu.

Molti altri studiosi si occupano tuttora di semiotica, dal momento che la riflessione semiotica sta diventando sempre più importante in diverse aree di ricerca e sviluppo. Negli ultimi anni la disciplina si è occupata sempre più di analizzare diversi tipi di discorso (giornalistico, scientifico, pubblicitario, religioso, economico ecc…) che possono essere riuniti perlopiù nel grande insieme della sociosemiotica.

 

 

 

1.5 Ûrij Lotman e la scuola di Tartu

Per capire quale eredità culturale e quale ammirazione Ûrij Mihajlovič Lotman abbia lasciato nei suoi allievi, e negli allievi dei suoi allievi, basta citare una speciale maglietta celebrativa stampata dagli studenti di semiotica dell’università di Tartu, in Estonia, in occasione di una conferenza dedicata a questo studioso, tenutasi dal 25 febbraio al 2 marzo del 2002. Sulla maglietta compaiono due figure, poste una fianco all’altra per indicare il paragone: da un lato Einstein, inventore della teoria della relatività, dall’altro Lotman, inventore della semiotica della cultura e fondatore della scuola semiotica di Tartu. La somiglianza è innegabile: folti capelli disposti a raggiera intorno a una fronte spaziosa, grandi baffi, sguardo vivo. Sul retro di questa maglietta appare una frase in lingua estone: «Koik mu ümber märgiks muutub, mida näen vòi mida puutum», che significa «Tutto ciò che osservo, tutto ciò che tocco, si trasforma in un segno» (Leone: 2002). La conferenza del 2002 a lui dedicata ha tentato di precisare le linee generali dei lavori e delle ricerche di questo semiotico e storico della cultura, grazie agli interventi di studiosi provenienti da tutto il mondo.

 

Ûrij Lotman nasce a Pietrogrado nel 1922. Si iscrive all’Università statale di Leningrado nel 1939, dove studia filologia e riceve gli insegnamenti di molti protagonisti del formalismo e dello strutturalismo del ventennio precedente (Propp, Tolstoj…). Dopo la parentesi della Seconda guerra mondiale, durante la quale viene arruolato, Lotman si laurea in lettere a pieni voti. Non riuscendo a trovare alcun posto di lavoro a causa della politica antisemita in atto (Lotman era ebreo), si trasferisce in Estonia nel 1950, dove le autorità erano troppo impegnate a combattere la resistenza della popolazione ostile al regime sovietico e non avevano risorse per attuare una politica antisemita.

È proprio in Estonia che Lotman inizia la sua carriera, diventando docente alla prestigiosa università di Tartu, fondata nel 1632. Lotman si concentra in particolare sui metodi di analisi del testo poetico e sulle ricerche di modelli ideologici della cultura.

Quello di Tartu è uno dei due grandi centri per la semiotica nati negli anni Sessanta, assieme a quello di Mosca. Proprio il gruppo di Mosca, formato da studiosi quali Uspenskij, Toporov, Ivanov, Segal, Revzin, organizza nel 1962 un simposio sullo studio strutturale dei sistemi dei segni, dove vengono presentate delle relazioni di semiotica della lingua, ma anche di semiotica logica, traduzione automatica, semiotica dell’arte, mitologia, descrizione del linguaggio dei sistemi di comunicazione non verbale (segnali stradali, linguaggio della cartomanzia…), semiotica della comunicazione coi sordomuti e semiotica del rituale. Ma l’innovazione non è vista di buon occhio e così le autorità censurano questo nuovo tipo di ricerca. Gli studiosi moscoviti accettano di conseguenza la proposta di Ûrij Lotman: dare vita alla prima scuola di semiotica all’università di Tartu, che verrà chiamata «scuola semiotica di Tartu-Mosca».

Nel 1964 si tiene la prima grande conferenza della nuova scuola e nasce la rivista sulla quale vengono pubblicate le ricerche dei semiotici moscoviti. La rivista, chiamata Trudy po znakovym sistemam, esiste tuttora ed è un punto di riferimento importante per la semiotica mondiale. Viene pubblicata semestralmente e ha un titolo in altre tre lingue: «Sign System Studies» in inglese, «Töid märgisüsteemide alalt» in estone e «Semeiotikè» in greco. La scuola di Tartu-Mosca comprende studiosi che rappresentano due tradizioni culturali. I moscoviti sono in maggior parte linguisti, dalla linguistica sono approdati alla semiotica, mentre i componenti del gruppo di Tartu sono studiosi di letteratura che in qualche modo si sono occupati di semiotica. Questo diverso sfondo culturale si è rivelato fruttuoso, perché i due gruppi si sono arricchiti reciprocamente: l’incontro con la letteratura ha determinato l’interesse dei moscoviti linguisti per il testo e il contesto culturale, mentre l’incontro con i linguisti ha orientato gli studiosi di letteratura verso la lingua, verso la sua capacità di generare e produrre testi.

Grazie a Lotman, nella biblioteca dell’università di Tartu si è andato formando un gran numero di testi di teoria semiotica e letteratura, meticolosamente curati e analizzati dalla nuova generazione di semiotici estoni, guidati da Peeter Torop, principale allievo di Lotman e attuale responsabile della cattedra di semiotica, e da Mihhail, figlio dello stesso Ûrij.

Basandosi sui risultati della cibernetica, della teoria dell’informazione, della linguistica strutturale, gli esponenti di questa nuova scuola semiotica realizzano ricerche brillanti e minuziose sui fenomeni comunicativi più disparati, come il linguaggio gestuale, la segnaletica stradale, il sistema della notazione musicale, la tipologia delle culture, il mito, l’etichetta, la struttura familiare, la cartomanzia… Tutte queste ricerche, tuttavia, sono inquadrate in un progetto globale di modellizzazione della comunicazione umana e propongono un nuovo ruolo della scienza semiotica nell’indagine scientifica dell’uomo e della società: una scienza che offra la possibilità di studiare tutti quei fenomeni da un unico punto di vista, che proponga l’elaborazione di modelli per rappresentare la realtà e evidenziarne gli aspetti strutturali più significativi, dando vita a un nuovo «umanesimo scientifico» (Eco, Faccani: 35). Con l’obiettivo di descrivere quei fenomeni che non hanno ancora ricevuto una spiegazione scientifica, alle ricerche vengono spesso applicati gli strumenti di statistica, le strategie della teoria dei giochi, della matematica, della logica e così via. Pian piano si profila l’idea di una semiotica come scienza generale dei segni che aspira a una matematizzazione, a una formalizzazione del proprio sapere.

 

1.6 La cartomanzia come sistema semiotico

Tra le relazioni presentate al simposio del 1962 figura anche quella di Uspenskij  e Lekomceva, di cui più avanti è proposta una traduzione con testo a fronte. La prima versione del lavoro, pubblicata nel 1962 nelle Tesi del simposio, porta il titolo Gadanie na igral´nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema; quella qui proposta è invece una seconda versione dell’articolo, dove gli autori hanno sostanzialmente rielaborato e sviluppato le stesse idee. Opisanie odnoj sistemy s prostym sintaksisom, questo il titolo, viene pubblicato nel 1965 nella già citata Trudy po znakovym sistemam.

 

Com’è stato detto finora, i concetti principali della semiotica sono il segno e il processo di significazione; tuttavia la semiotica, proprio perché studia ogni fenomeno di comunicazione, si è trovata ad affrontare un oggetto di analisi più complesso del singolo segno, cioè il testo. Il concetto di «testo» in semiotica si identifica in «qualsiasi oggetto dotato di una particolare struttura e mirato a ottenere un certo scopo comunicativo» (Caprettini: 33). In questo caso gli autori analizzano il testo di una situazione di predizione del futuro e cercano di proporre una descrizione formale del fenomeno nei tre aspetti del sistema segnico (sintassi, semantica e pragmatica), per arrivare a una formalizzazione dei passaggi logici del processo di divinazione.

La lettura dei tarocchi (o delle semplici carte da gioco) possiede caratteristiche interessanti dal punto di vista semiotico. Come si è detto sopra, si tratta in primo luogo di un testo: lo scopo comunicativo è chiaramente quello di dare delle informazioni, a chi si rivolge al cartomante, riguardo all’amore, ai soldi, alla salute o altro. Alla funzione pragmatica del linguaggio, cioè al modo in cui la lingua funziona a livello pratico, all’effetto che i segni hanno sul comportamento degli interlocutori, è dedicato molto spazio nell’articolo: attraverso la lettura delle carte, il cartomante deve proporre un certo tipo di comportamento al consultante, influenzarlo e indicargli una direzione da seguire. I due autori dell’articolo fanno notare quanto un cartomante si concentri molto di più sul passato e sul presente piuttosto che sul futuro, poiché il passato e il presente offrono diversi spunti per la conversazione e le reazioni del consultante servono poi al cartomante come punto di partenza per poter parlare del futuro. A questo proposito Egorov, in un altro lavoro pubblicato nella rivista Trudy po znakovym sistemam del 1965, afferma che

 

Per il cartomante professionale le carte sono pura finzione, in quanto l’informazione non è ottenuta dalle carte, ma dall’aspetto esterno (e interiore) del soggetto, dalle sue reazioni, ecc; anche la predizione del futuro, per lo più non è ricavata dalle carte: sulla base dello studio del carattere della vittima viene costruito il futuro capace di sortire l’effetto più interessato (Eco, Faccani: 249).

 

In una situazione di predizione del futuro, quindi, entrano in gioco anche le capacità psicologiche del cartomante, che deve riuscire a estrapolare più informazioni possibili dal consultante e influenzare il suo stato emotivo.

In secondo luogo, attraverso le carte si costruisce un processo di significazione che vede coinvolti il cartomante e il consultante: secondo la terminologia peirciana si parte da un segno (le carte), che, attraverso le parole del cartomante, rimanda a un oggetto (per esempio il re di quadri rimanda a un uomo biondo[2]), il quale, nella mente del consultante, crea un interpretante (l’uomo biondo viene riferito a una persona che il consultante conosce).

Il processo di significazione viene completato solo se il consultante sostituisce il significante variabile con un significato specifico riferito alla sua situazione personale. La semiosi, infatti, è un qualcosa di soggettivo e il consultante fa riferimento a suoi ricordi, alle sue esperienze, ai suoi segni mentali che sono diversi da quelli di chiunque altro. È a questo punto che il segno, una volta interpretato, diventa effettivamente tale.

Per quanto riguarda il significato

 

va ricordato che di solito a ogni carta si assegna un solo significato, quello che meglio si adatta al quesito posto e alla natura del problema, tenendo conto della posizione che occupa nello schema, della vicinanza di altre carte e di varie considerazioni complementari (Sciuto: 11).

 

Allo stesso modo, nel linguaggio verbale, quando si parla o si scrive, si verifica un processo di questo tipo; è necessario scegliere le parole che meglio si adattano al tipo di messaggio che si vuole trasmettere. Le parole possono avere più significati, ma quello che si assegna in quella specifica situazione dipende dal contesto, cioè dall’ambito culturale di un enunciato (il background creato durante la consultazione) e dal co-testo, il contesto linguistico (le carte che vengono prima e dopo).

Solitamente le carte vengono interpretate in relazione ad alcuni piani fondamentali, che sono il piano amoroso (matrimonio, fidanzamento, rottura…) e il piano economico (perdite, guadagni, aumenti…).

Il significato delle carte determina anche la sintassi, cioè l’ordine di lettura delle carte: quelle che contengono meno informazioni, infatti, sono quelle che vengono lette per prime, perché permettono al cartomante di prendere tempo e constatare le reazioni del consultante. La sintassi è quindi molto libera, in quanto gli elementi che costituiscono il vocabolario sono limitati e perciò più facili da gestire.

 

Come la lettura di un libro, di un giornale, di un manuale, anche la lettura delle carte è un atto semiotico. In questo caso il lettore è il cartomante, che ricava significati dalle carte e in più deve trasmetterli al consultante.

Come afferma Osimo, nel suo Corso di traduzione,

 

ogni volta che il lettore si trova di fronte a un segno, deve affrontare un processo decisionale che porta con sé conseguenze a catena sull’interpretazione dei segni successivi e del testo nell’insieme.

 

Questo è più o meno quello che succede al cartomante: egli deve prendere decisioni a partire da quello che dicono la carte, ma deve anche – e soprattutto – tener conto delle informazioni che fino a quel momento ha raccolto e del racconto che fino a quel momento ha costruito. Chiaramente il rischio che il cartomante corre è di distruggere il rapporto fiduciario che era nato nel momento della richiesta di consultazione.

In quest’ottica, la lettura come atto semiotico, compresa la lettura delle carte, ha qualcosa in comune con i giochi di abilità o di strategia: esiste un insieme di regole da rispettare (le carte e i loro significati), ma esiste anche un certo grado di creatività che il cartomante deve saper gestire (creatività che, tra l’altro, diminuisce man mano che la divinazione procede), nonché un certo grado di rischio (di cui si è accennato sopra). Alla fine di questo processo, come ricorda ancora Osimo, «la lettura esercita una certa influenza sulla visione del mondo del lettore». Visto che finora il lettore è stato associato al cartomante, è possibile ipotizzare che stia al cartomante, attraverso le sua abilità pragmatiche di cui si è discusso prima, portare il consultante a modellizzare il suo mondo, a seguire la direzione da lui indicatagli.

 

Sempre in riferimento al nuovo «umanesimo scientifico» e per mantenere un approccio scientifico nei confronti di una pratica che di scientifico ha ben poco, gli autori dell’articolo fanno riferimento a due concetti matematici e li applicano alla cartomanzia: la teoria dei giochi e il gioco a informazione completa. La teoria dei giochi è definita come

 

la scienza matematica che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni tramite dei modelli, ovvero uno studio delle decisioni individuali in situazioni in cui vi sono interazioni tra diversi soggetti, tali per cui le decisioni di un soggetto possono influire sui risultati conseguibili da parte di un rivale (Morgenstern: 78).

 

In effetti può succedere che cartomante e consultante siano rivali: la situazione conflittuale nasce, infatti, nel momento in cui entrambi conoscono le regole del gioco, cioè i significati delle carte: a quel punto per il cartomante è più difficile vincere, qualsiasi decisione prenda. La teoria dei giochi in questo caso servirebbe ad analizzare quali decisioni il cartomante prende e per quali motivi. Quando, in un gioco che vede minimo due avversari, ogni giocatore è a conoscenza del contesto, delle regole, ma non delle azioni degli altri giocatori – come succede nel gioco degli scacchi o della dama – si parla di «gioco a informazione completa». Il gioco a informazione completa ricorda quei sistemi di divinazione in cui vengono distribuite tutte le carte (per esempio in quella romanì) e di conseguenza non viene lasciato spazio all’elemento del caso.

 

1.7 Riferimenti bibliografici

 

 

CALABRESE, OMAR, Breve storia della semiotica, Milano, Feltrinelli, 2001.

 

CAPRETTINI, GIAN PAOLO, Aspetti della semiotica, Torino, Einaudi, 1980.

 

ECO, UMBERTO, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975.

 

ECO, UMBERTO e FACCANI, REMO, I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, Milano, Bompiani, 1969.

 

EGOROV, BORIS FËDOROVIČ., «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Eco 1969: 249-260.

 

LEONE, MASSIMO, «Un genio tra le nevi», in Golem l’indispensabile, 2002, disponibile in internet all’indirizzo http://www.golemindispensabile.ilsole24ore.com/index.php?_idnodo=8699 consultato nel dicembre 2007.

 

LOTMAN, JURIJ e USPENSKIJ, BORIS, Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’URSS, a cura di Clara Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1973.

 

MORGENSTERN, OSKAR, Teoria dei giochi, Torino, Boringhieri, 1969.

 

OSIMO, BRUNO, Corso di traduzione, Modena, Logos, 2000-2004, disponibile in internet all’indirizzo http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_15?lang=it consultato nel dicembre 2007.

 

SCIUTO, GIOVANNI, ABC della cartomanzia, Firenze, Salani, 1989.

 

VOLLI, UGO, Manuale di semiotica, Bari, Laterza, 2005.

 

WATZLAWICK, PAUL e BEAVIN, JANET, HELMICK e JACKSON, DON D., Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971.

 

 

 

Traduzione con testo a fronte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Describing a semiotic system with a simple syntax

M.I. LEKOMCEVA AND B.A. USPENSKIJ

 

Cartomancy, fortune-telling with playing cards, is a relatively simple semiotic system that can be of interest for general semiotics – for instance, in elaborating methods of descriptive semiotics – and also for general linguistics, since it is necessary to compare language with other semiotic systems in order to define it1.For this semiotic comparison, it is necessary to elaborate a semiotic typology, which can only be accomplished through uniform description of diverse semiotic systems. We can conjecture that describing simple semiotic systems is just as important for the construction of a general theory of semiotics as describing simple games like roulette, dice, and hide-and-seek is for the construction of a mathematical theory of conflict situations.

We shall describe cartomancy through two terminological systems: first the field data of cartomancy will be set forth in the metalanguage of linguistic terminology (part 1); then basic inferences will be described in terms of the Peirce-Morris logical classification of semiotic phenomena (part 2).2 In conclusion, systems of cartomancy will be compared with natural languages (part 3).

 

1. Field data of cartomancy described in the metalanguage of linguistic terminology

 

Linguistic terminology is suitable for describing semiotic systems because linguistics has obviously been more fully elaborated than other semiotic disciplines. Let us note that in practice, linguistic terminology constitutes the metalanguage of semiotics. Some examples: the term “language” is now used in science to designate any sign system that functions as a program, in expressions such as “language of biology”, “language of mathematics”; the term “word” in mathematical texts; the linguistic terminology of contemporary molecular biology, and so on.

Therefore we shall describe cartomancy in linguistic terminology.
Descrivere un sistema semiotico dalla sintassi semplice

M.I. LEKOMCEVA E B.A. USPENSKIJ

 

La cartomanzia, la predizione del futuro per mezzo di carte da gioco, è un sistema semiotico relativamente semplice che può essere interessante sia per la semiotica generale, per esempio nell’elaborazione di metodi di semiotica descrittiva, sia per la linguistica generale, poiché per poter definire un linguaggio è necessario metterlo a confronto con altri sistemi semiotici1. Per fare questo paragone semiotico è necessario elaborare una tipologia semiotica, che può essere realizzata solo attraverso una descrizione uniforme di sistemi semiotici diversi. Possiamo pensare che la descrizione di sistemi semiotici semplici sia importante per la formulazione di una teoria generale della semiotica, tanto quanto la descrizione di semplici giochi come la roulette, i dadi o tris lo è per la formulazione di una teoria matematica delle situazioni conflittuali.

Descriveremo la cartomanzia attraverso due sistemi terminologici: in primo luogo verranno presentati i dati empirici della cartomanzia nel metalinguaggio della terminologia linguistica (parte 1); poi verranno espressi dei primi risultati nei termini della classificazione logica dei fenomeni semiotici secondo Peirce-Morris (parte 2) 2. Infine, verranno paragonati i sistemi di cartomanzia ai linguaggi naturali (parte 3).

 

1. Dati empirici della cartomanzia descritti nel metalinguaggio della terminologia linguistica

 

La terminologia linguistica si presta alla descrizione di sistemi semiotici, perché la linguistica è stata ovviamente analizzata in modo più completo rispetto ad altre discipline semiotiche. Osserviamo che, in pratica, la terminologia linguistica costituisce il metalinguaggio della semiotica. Alcuni esempi: il termine «linguaggio» oggi è utilizzato nelle scienze per indicare qualsiasi sistema di segni che funga da programma, in espressioni come «linguaggio della biologia», «linguaggio della matematica»; il termine «parola» nei testi matematici; la terminologia linguistica della biologia molecolare attuale e così via.

Descriveremo perciò la cartomanzia utilizzando una terminologia linguistica.


1.1 Cartomancy as a language

Cartomancy is a language. In Chomsky’s terms, it can be defined as «a language with a finite number of states”.»3

 

1.2 Elements of cartomancy

Any system of cartomancy is characterized by the following components:

a) Distribution, a mechanism for generating sentences.

b) Vocabulary, which explains the cards’ meanings. There are cases where several cards form a new meaning not deducible from their original significance; for example, K♠ + 10♠ = “success in business”, 3 X 9 (three nines) = “surprise”. Such sequences are regarded as idioms and are analogous in function to individual cards (words).

 

1.2.1 Distribution

A distributive mechanism for generating sentences is given. A key semantic indicator is attributed to each sentence so that it can be read as, for instance, “what happened”, “what will happen”, “what will soothe.” In this description of fortune-telling with a pack of thirty-six cards, the cards are laid out in the following manner.

First distribution. A face card or “one’s heart” is chosen as the basis for the fortune-telling. A card (no. 1) is drawn at random and placed face up on this face card, thus expressing “what is in one’s heart”. The pack is laid out in four piles in the order indicated by figure 1.

 

 Figure 1

1.1 La cartomanzia come linguaggio

La cartomanzia è un linguaggio. In termini chomskiani può essere definita «un linguaggio con un numero finito di stati»3.

 

1.2 Elementi del sistema cartomantico

Ogni sistema di cartomanzia è caratterizzato dai seguenti elementi:

a) distribuzione, un meccanismo per generare le frasi;

b) vocabolario, per spiegare il significato delle carte. Ci sono casi in cui più carte formano un nuovo significato che non è deducibile dal loro significato originale; per esempio, K♠ + 10♠ = «successo negli affari», 3 X 9 (tre nove) = «sorpresa». Tali sequenze sono considerate espressioni idiomatiche e hanno una funzione analoga a quella delle singole carte (parole).

 

1.2.1 Distribuzione

Il meccanismo di distribuzione per generare le frasi è stabilito. A ogni frase viene attribuito un indicatore semantico specifico, che permette di leggere la frase stessa come, per esempio, «cos’è successo», «cosa succederà», «cosa tranquillizzerà». In questa descrizione di predizione della fortuna con trentasei carte, le carte vengono disposte nel modo seguente.

Prima distribuzione. Come base per la predizione viene scelta una figura [carta illustrata, N.d.T.], «il cuore». Una carta (numero 1) viene pescata a caso dal mazzo e messa scoperta sopra questa figura, esprimendo così «quello che uno ha nel cuore». Le carte sono divise in quattro mazzi nell’ordine indicato dalla figura 1.

Figura 1

Then cards 2 and 3 are laid down from pile one, 4 and 5 form pile two, 6 and 7 from pile three, 8 and 9 from pile four, and 10 through 17 consecutively from the remaining deck. Then three cards are discarded and number 18 is laid down; another three cards are discarded and number 19 is laid down; three more discards, and number 20 is laid down; three more discards, and number 21 is laid down (see figure 2).

 

Figure 2

The cards held in one’s hand, number 1 and numbers 18-21, play a fundamental role for the person by showing “what is happening in one’s heart” (the first sentence). Cards 2, 3, 10, 14, 12, and 16 are “nearby thoughts and events” now taking place (the second sentence). Cards 4, 5, 13, 17, 11 and 15 are “more distant thoughts and events” (the third sentence).

Second distribution. Cards of the same denomination are discarded by pairs, first those having the same color, then those of different colors; the discarded cards no longer take part in the fortune-telling. The remaining deck is shuffled, and cards are drawn from it one at time until the total number of cards reaches sixteen.


Successivamente si dispongono le carte 2 e 3 del primo mazzo, la 4 e la 5 del secondo mazzo, la 6 e la 7 del terzo mazzo, la 8 e la 9 del quarto mazzo, e dalla decima alla diciassettesima del mazzo rimanente. Poi si scartano tre carte e si dispone la numero 18; si scartano ancora tre carte e si dispone la numero 19; tre scarti ancora e si dispone la numero 20; tre scarti ancora e si dispone la numero 21 (figura 2).

 

Figura 2

 

Un ruolo fondamentale è svolto dalle carte numero 1 e 18-21 (che si tengono in mano), perché mostrano che cosa a una certa persona «succede nel cuore» (la prima frase). Le carte 2, 3, 10, 14, 12 e 16 sono «pensieri ed eventi vicini» che si stanno verificando ora (la seconda frase). Le carte 4, 5, 13, 17, 11 e 15 sono «pensieri ed eventi più lontani» (la terza frase).

Seconda distribuzione. Le carte dello stesso valore vengono scartate a coppie, prima quelle dello stesso colore, poi quelle di colore diverso; le carte scartate non saranno più utilizzate per la predizione. Le carte che rimangono nel mazzo vengono mescolate e prese una a una fino a che il numero totale non raggiunge sedici carte.


These sixteen cards are shuffled and laid out in six small groups in the order depicted in the illustration (see figure 3). The meanings of the groups are: I, “for you”; II, “for thought”; III, “for one’s heart”; IV, “what will happen”; V, “what you do not expect”; and VI, “what will soothe you” (sentences 4 – 9).

 

 

Figure 3

 

 

1.2.2 Vocabulary

The cards have the following meanings in the system being described (see table 1).4


Queste sedici carte vengono mescolate e distribuite in sei piccoli gruppi nell’ordine indicato dalla figura (figura 3). I significati dei gruppi sono: I, «per te»; II, «per il pensiero»; III, «per il cuore»; IV, «cosa succederà»; V, «cosa non ti aspetti»; e VI, «cosa ti tranquillizzerà» (frasi 4-9).

 

 

Figura 3

1.2.2 Vocabolario

Nel sistema che stiamo descrivendo, le carte hanno i seguenti significati (tabella 1)4.


Table 1

Denomination

Spades

Clubs

Diamonds

Hearts

Ace

Great unexpected trouble

(+ 10♠ = death)

(+ K♠ = bank)

(+ K♠ + A♣ = bank note)

A letter

(+ K♣ o Q♣ = house of clubs)

Great interest

(+ A♣ = interesting letter)

(+ K♦ o Q♦ = house of diamonds)

House of hearts

(+ A♣ = affectionate message)

                                                                                                   4 × A = fulfilment of wishes

                                                                                                        3 × A = change in hopes and undertakings

King

Important person

Dark-haired man

Fair-haired man

Brown-haired man

K + Q of the same suit = family man

Presence of Q of the same suit as the K whose fortune is being told increases the probability of the events indicated by the cards surrounding the Q

4 × K o 3 × K = large or small male society

Queen

Boredom

Brunette

Blonde

Brown-haired woman

Q♣ + Q♦ + Q♥ = female society

4 × Q = gossips

Presence of K of the same suit as the Q whose fortune is being told increases the probability of the events indicated by cards surrounding the K

Every Q in the presence of Q♠ signifies a sly woman

Jack

Troublesome  cares

(+ K♠ = troubles in work or in business in general)

Troubles of the suit to which J belongs

4 × J = great troubles

10

Unpleasantness

(+ K♠ = success in business or work)

Change in life

(+ 9♣ = complete change in life)

Money

(+ A♦ = a great deal of money)

Wedding

(+ 9♥ = perfect wedding)

                                                                                                                                         3 × 10 = change in life

       4 × 10 = change in circumstances for the better

9

Losses

(+ Q♠ = boredom at heart)

Betrothal

                                                                                                            9 + K o Q of the same suit = disposition at heart

8

Illness

(+ K♠ = meeting with K♠)

Tears

Belongings

8 + K o Q of the same suit = a meeting

                                                                    4 × 8 = amorous rendez-vous

7

Quarrel

(+ K♠ = conversation with K♠)

Conversation

                                                               4 × 7 = idle conversations

6

Unpleasant journey

(+ K♠ = long journey)

Journey to the corresponding suit


Tabella 1

Denominazione

Picche

Fiori

Quadri

Cuori

Asso

Grande problema inaspettato

(+ 10♠ = morte)

(+ K♠ = banca)

(+ K♠ + A♣ = banconota)

Lettera

(+ K♣ o Q♣ = casa dei fiori)

Grande interesse

(+ A♣ = lettera interessante)

(+ K♦ o Q♦ = casa dei quadri)

Casa dei cuori

(+ A♣ = messaggio d’amore)

                                                                                                   4 × A = realizzazione di desideri

                                                                                                        3 × A = cambiamento delle speranze e delle iniziative

Re

Persona importante

Uomo bruno

Uomo biondo

Uomo biondo scuro

K + Q dello stesso seme = uomo di famiglia

La presenza di Q dello stesso seme di K della persona a cui è letta la fortuna aumenta la probabilità degli eventi indicati dalle carte che circondano Q

4 × K o 3 × K = compagnia maschile grande o piccola

Donna

Noia

Bruna

Bionda

Bionda scura

Q♣ + Q♦ + Q♥ = compagnia femminile

4 × Q = pettegolezzi

La presenza di K dello stesso seme di Q della persona a cui è letta la fortuna aumenta la probabilità degli eventi indicati dalle carte attorno a K

Qualsiasi Q in presenza di Q♠ significa donna astuta

Fante

Preoccupazioni spiacevoli

(+ K♠ = problemi di lavoro o di affari in generale)

Preoccupazioni del seme a cui appartiene J

4 × J = grandi preoccupazioni

10

Seccatura

(+ K♠ = successo negli affari o nel lavoro)

Cambiamento nella vita

(+ 9♣ = completo cambiamento nella vita)

Soldi

(+ A♦ = grande quantità di soldi)

Matrimonio

(+ 9♥ = matrimonio perfetto)

                                                                                                                                         3 × 10 = cambiamento nella vita

  4 × 10 = cambiamento in positivo delle circostanze

9

Perdite

(+ Q♠ = malinconia)

Fidanzamento

                                                                                                            9 + K o Q dello stesso seme = disposizione cordiale

8

Malattia

(+ K♠ = appuntamento con K♠)

Lacrime

Cose

8 + K o Q dello stesso seme = appuntamento

                                                                    4 ×8 = appuntamento amoroso

7

Lite

(+ K♠ = conversazione con K♠)

Conversazione

                                                               4 × 7 = discorsi inutili

6

Viaggio sgradito

(+ K♠ = lunga strada)

Viaggio verso il seme corrispondente

 


2. SEMIOTIC DESCRIPTION OF CARTOMANCY

 

The system of fortune-telling will be described in terms of the logical classification of semiotic phenomena.

 

2.1 Pragmatics

The system of fortune-telling, as a simple semiotic system with a small vocabulary, always contains the potential for several interpretations. The fortune-teller, whom we shall designate as A, always possesses several degrees of freedom, although the amount of freedom decreases from the beginning of divination to its end. The choice of a particular interpretation is wholly determined by pragmatics.

 

2.1.1 Fortune-telling’s specific character and pragmatic tasks

People usually resort to fortune-telling in order to obtain certitude about some behavioral program by learning “what destiny will say”. A, the fortune-teller, proceeds from this fact. A has primarily psychological tasks: he must exert a strong influence on the person whose fortune is being told, whom we shall designate as B, and must bring him to some extreme psychological state, whether one of calm or agitation. B does not simply seek advice or sympathy, but objective information pertaining to the future; A reputedly has the mystical capacity to furnish such information. A’s other task is to furnish a behavioral program. The vocabulary is the means of objectification in fortune-telling. The vocabulary consists of invariable elements accepted as being basic and sufficient to describe all possible events. The vocabulary is determined by those basic situations encountered in a specific ethnic collective. It is significant in this respect to compare Gypsy and French fortune-telling: the king of spades in French divination is “doctor”, in Gypsy, “bailiff,” and in Russian, “bureaucrat”; the French meaning, “a change in life,” is made specific in Gypsy divination as “risk in gambling or business”. Domestic and business matters, “marriage” and “finance” are the situations usually modeled in fortune-telling.


2. Descrizione semiotica della cartomanzia

 

Il sistema di predizione del futuro sarà descritto nei termini della classificazione logica dei fenomeni semiotici.

 

2.1 Pragmatica

Il sistema di predizione del futuro, essendo un sistema semiotico semplice con un vocabolario limitato, contiene sempre il potenziale per interpretazioni diverse. Il cartomante, che chiameremo A, possiede sempre diversi gradi di libertà, anche se la libertà diminuisce man mano che si arriva al termine della predizione. La scelta di una certa interpretazione ha una determinazione del tutto pragmatica.

 

2.1.1 Il ruolo specifico della cartomanzia e i suoi compiti pragmatici

In genere una persona ricorre alla predizione del futuro per avere certezze su alcuni programmi comportamentali apprendendo «quello che dirà il destino». A, il cartomante, parte da questo punto. A, prima di tutto, ha dei compiti psicologici: deve esercitare una forte influenza sulla persona alla quale sta leggendo il futuro, che chiameremo B, e deve portarla a una sorta di stato psicologico estremo, sia questo di calma o di agitazione. B non cerca semplicemente un consiglio o comprensione, ma delle informazioni oggettive riguardanti il futuro; presumibilmente A ha una capacità mistica di fornire tali informazioni. L’altro compito di A è di proporre un programma di comportamento. Il vocabolario è il mezzo di oggettivazione nella predizione del futuro. Il vocabolario è costituito da elementi invariabili accettati in quanto fondamentali e sufficienti a descrivere tutti gli eventi possibili. Il vocabolario è determinato da quelle situazioni di base incontrate in una certa collettività etnica. A questo proposito è interessante confrontare la predizione del futuro romanì con quella francese: in quella francese il re di picche significa «medico», in quella romanì «balivo» e in quella russa «plenipotenziario»; il significato francese di «un cambiamento nella vita» diventa più specifico presso i rom, cioè «rischio nel gioco d’azzardo o negli affari». Le questioni familiari ed economiche, il «matrimonio» e «le finanze» sono le situazioni che solitamente vengono modellizzate nella predizione del futuro.


The cards receive concrete meanings on these planes.

The meanings of the cards are known to A and B. While these meanings function as signifiers on the plane of expression, what is signified may be only known by B, who substitutes specific meanings from his situation for the variable signifiers; for instance, he may interpret the words “a benevolent dark-haired man” as referring to a person he knows. If a meaning is not substituted, the sentence is naturally forgotten or omitted. A and B use the same system of divination, the same language, but do so in different ways: the elements of the system function for B mainly as a code pertaining to a message, that is, as c/m, but for A as a code pertaining to a code, as proper names function; in this resides the substantial originality of the semiotics of cartomancy.5 In terms of G. Frege’s triangle of sign-meaning-referent, we can say that A only uses meanings and signs in the strict sense of the word, while B substitutes referents to complete the triangle; thus the triangle only functions in the act of communication between A and B. This is also a characteristic feature of other programming systems.

 

2.1.2 Fortune-telling’s modeling function in interpreting the present and the past

For fortune-telling to be convincing, A must not only imagine the future but also set forth B’s present and past, a topic in which B can control A. A conflict situation arises in which both A and B know the rules of the meanings of the cards, but only B knows his own present and past, and he does not communicate them to A. The situation with regard to the present and past can be described as a game for two with a passive opponent, in which personal moves are made and the element of chance is introduced because not all the cards take part in the distribution of some systems. All the cards participate in Gypsy fortune-telling, and in this sense it corresponds to a game with complete information, such as chess.6

A’s move consists of making a statement that interprets some of the cards; B’s move is to react to this. Before the interpretations, if possible, or else during them, A must collect as much information as he can about B.

 


Le carte acquistano significati concreti su questi piani.

A e B conoscono i significati delle carte. Mentre questi significati fungono da significanti sul piano dell’espressione, ciò che è significato può essere noto solo a B, che sostituisce ai significanti variabili significati specifici della sua situazione; per esempio, potrebbe interpretare le parole «un uomo bruno gentile» come riferito a una persona che conosce. Se un significato non viene sostituito, la frase viene naturalmente dimenticata od omessa. A e B utilizzano lo stesso sistema di divinazione, lo stesso linguaggio, ma lo fanno in modi diversi: gli elementi del sistema fungono per B principalmente da codice relativo a un messaggio, cioè da c/m, ma per A da codice relativo a un codice, cioè, c/c, come succede per i nomi propri; in questo risiede la sostanziale originalità della semiotica della cartomanzia5. Nei termini della triade segno-senso-riferimento di G. Frege, possiamo dire che A utilizza solo il senso e il segno nel senso stretto delle parole, mentre B sostituisce i riferimenti per completare la triade; perciò la triade funziona solo nell’atto di comunicazione tra A e B. Questa è anche una caratteristica tipica di altri sistemi di programmazione.

 

2.1.2 La funzione modellizzante della predizione del futuro nell’interpretare il presente e il passato

Perché la predizione del futuro sia convincente, A non solo deve immaginare il futuro, ma deve anche riferire il presente e il passato di B, campo in cui B può controllare A. Una situazione conflittuale nasce nel momento in cui sia A sia B conoscono le regole dei significati delle carte, ma solo B conosce il proprio presente e passato e non li riferisce ad A. La situazione del presente e del passato può essere descritta come un gioco a due con un avversario passivo, un gioco in cui si fanno le proprie mosse personali e s’introduce l’elemento del caso, perché in alcuni sistemi non tutte le carte vengono distribuite. Nella predizione del futuro romanì, invece, si utilizzano tutte le carte, e in questo senso essa corrisponde a un gioco a informazione completa, come gli scacchi6.

La mossa di A consiste nel costruire una frase che interpreti alcune carte; la mossa di B è reagire. Possibilmente prima delle interpretazioni, o anche durante, A deve raccogliere più informazioni possibili riguardo a B.


It is significant that a Gypsy camp, in leaving a village, leaves behind coded information about the inhabitants and imminent events in an agreed place; professional urban fortune-tellers may have a special information service, a kind of investigative section. Some quantity of information accumulates during the course of the fortune-telling in connection with the reactions of response; those features that most agitate B during the course of the divinatory process are picked out and special attention is focused on them. Hypotheses are consecutively constructed and verified on the basis of this material and information gathered before-hand. What B says conditions the order in which the cards are read. The least informative cards, such as “change”, are read first, and the fortune-teller passes from them to cards that convey an ever greater amount of information. Consecutive distributions of the cards are significant, for in this way the cards receive a more definite meaning.

Divination of past and present is a game: if it succeeds, A wins B’s confidence; if it fails and the game is lost, A usually refuses to continue with the divination, since the “card did not turn up.” As a result of successful divination, B’s internal and external world is modeled, and he ascertains conventional ties between A’s terms and his own concrete substitutions.

 

2.1.3 Fortune-telling’s programming function in interpreting the future

A then proceeds to foretell B’s future, which is a programming rather than a modeling function. A situation has already taken shape, and much is determined by the system itself, so that A now has far less freedom. The whole divination in its entirety can thus be defined as a self-generating system. The outcome of divination can create a certain state of mind in B that influences his subsequent behavior voluntarily or involuntarily and inclines him in the direction of the predicted behavior. In this sense we can speak of the reality of prognostications of the future. The fortune-teller’s parapsychological abilities can also be used in the pragmatics of fortune-telling.


È significativo che un accampamento rom, allontanandosi da un paese, lascia in un luogo convenuto informazioni in codice sugli abitanti e sugli eventi imminenti; certi cartomanti urbani professionali hanno un servizio speciale di informazione, una sorta di sezione investigativa. Alcune informazioni vengono accumulate nel corso della predizione in base alle reazioni; si individuano gli elementi che più agitano B durante il processo divinatorio e a questi si presta un’attenzione speciale. Le ipotesi sono costruite e verificate una dopo l’altra, in base a questo materiale e alle informazioni raccolte precedentemente. Quello che dice B condiziona l’ordine in cui vengono lette le carte. Le carte meno informative, come «cambiamento», vengono lette per prime; il cartomante passa poi alle carte che trasmettono una quantità maggiore di informazioni. Le successive distribuzioni di carte sono importanti, perché in questo modo le carte acquistano un significato più definito.

La divinazione del passato e del presente è un gioco: se riesce, A si guadagna la fiducia di B; se fallisce e il gioco è perso, A in genere si rifiuta di continuare con la predizione perché le carte «non sono venute». Se la divinazione ha successo, il mondo interno ed esterno di B viene modellizzato ed egli può verificare i legami convenzionali tra le parole di A e le sue sostituzioni concrete.

 

2.1.3 La funzione di programmazione della predizione nell’interpretare il futuro

A continua poi a predire il futuro di B; questa è una funzione di programmazione piuttosto che di modellizzazione. Una situazione ha già preso forma, e il grosso è determinato dal sistema stesso così che, ora, A ha molta meno libertà. L’intera divinazione, nella sua globalità, può essere perciò definita come sistema autogenerante. L’esito della divinazione può creare un determinato stato d’animo in B, che influenza volontariamente o involontariamente il suo successivo comportamento e lo porta nella direzione del comportamento predetto. In questo senso possiamo parlare di realtà della predizione del futuro. Le capacità parapsicologiche del cartomante possono anche essere utilizzate nella pragmatica della predizione del futuro.

 


2.2 Semantics

2.2.1 Subject and predicate in fortune-telling

Cards belong according to their meanings either to the class of persons, subjects, or to the class of predicates. The most important indicator is B, the person whose fortune is being told.

 

2.2.2 Key planes in fortune telling

As we said concerning pragmatics, meanings can be interpreted concretely according to the general plane on which the situation manifests itself, usually the marital or financial plane; and also according to particular planes such as “for one’s heart,” “for thought,” “what will happen,” or “what will soothe,” as in a musical key or mathematical quantum. The general plane pertains to all the sentences of fortune-telling, to the entire “text”, while the particular planes define the separate sentences. Meanings are actually composed of the totality of these general and particular planes along with the basic meanings of the cards.

 

2.2.3 Description of the basic meanings of the cards

We can describe the semantics of the system of fortune-telling by means of a table of semantic factors (see table 2). The table is relatively simple, and the overwhelming majority of meanings are described by pairs of semantic factors. Let us note that the number of factors can be reduced, but that the table then becomes more complicated and less obvious with the appearance of polynomial meanings7, for whose graphic representation a multidimensional space is required. It is surmised further that the proposed semantic factors are real not only for the system being described here, but for the majority of cartomantic systems. A polynomial meaning such as “unpleasant troubles” – “unpleasantness, conversations, business,” where the left factor defines the right, can be described either through binomials, or else as “unpleasant business” + “conversational business”, regarding each attribute as directly defining the factor which is furthest to the right
2.2 Semantica

2.2.1 Soggetto e predicato nella predizione del futuro

A seconda dei loro significati, le carte appartengono o alla classe delle persone, i soggetti, o alla classe dei predicati. L’indicatore più importante è B, la persona a cui viene letta la fortuna.

 

2.2.2 Piani fondamentali nella predizione del futuro

Come è stato detto riguardo alla pragmatica, i significati possono essere interpretati concretamente a seconda del piano generale sul quale la situazione si manifesta, solitamente il piano matrimoniale o finanziario, e anche a seconda di piani particolari come «quello che uno ha nel cuore», «il pensiero», «cosa succederà» o «cosa tranquillizzerà», come in una chiave musicale o un quanto matematico. Il piano generale è relativo a tutte le frasi della predizione, al testo intero, mentre i piani particolari definiscono le singole frasi. I significati sono in realtà composti dall’insieme del piano generale, del piano particolare e dai significati base delle carte.

 

2.2.3 Descrizione dei significati base delle carte

Possiamo descrivere la semantica del sistema di predizione del futuro attraverso una tabella di fattori semantici (vedi tabella 2). La tabella è relativamente semplice e la schiacciante maggioranza dei significati è descritta con delle coppie di fattori semantici. Notiamo che il numero dei fattori può essere ridotto, ma che la tabella, con la comparsa di significati polinomiali per la cui rappresentazione grafica è necessario uno spazio pluridimensionale, diventa poi più complicata e meno chiara. Si suppone, in seguito, che i fattori semantici proposti siano reali non solo per il sistema che stiamo descrivendo, ma per la maggior parte dei sistemi di cartomanzia. Un significato polinomiale come «preoccupazioni seccanti» – «seccatura, discorsi, affari», dove il fattore di sinistra definisce quello di destra, può essere descritto sia attraverso dei binomi, cioè come «affari seccanti» + «affari discorsivi», considerando che ogni attributo definisce direttamente il fattore che sta più a destra,


or as “unpleasant conversations” + “conversational business,” regarding each factor as defining the factor which follows to the right.

In a table of the type being proposed, it is more convenient to choose the latter method.

 

2.3 Syntax

The order in which the cards are read is determined by their semantics. Face cards, the subjects, come first. The remaining cards, the predicates, can be assessed for significance by the determining force of the reading order; a card’s force in inversely proportional to the quantity of information contained in its meaning, as discussed above regarding pragmatics. The syntax of the cartomantic system is very simple, and there is great freedom in the order of reading its elements, as should be expected from a simple language with a limited vocabulary, for instance the language of naval signals.


sia come “discorsi seccanti” + “affari discorsivi” considerando che ogni fattore definisce il fattore che segue a destra.

Nel tipo di tabella che stiamo proponendo è più comodo scegliere il secondo metodo.

 

2.3 Sintassi

L’ordine in cui vengono lette le carte è determinato dalla semantica delle carte stesse. Le figure (i soggetti) vengono per prime. Delle carte rimanenti, i predicati, è possibile valutare la significatività a seconda della forza determinante dell’ordine di lettura; la forza di una carta è inversamente proporzionale alla quantità di informazioni contenute nel suo significato, come si è detto prima per la pragmatica. La sintassi del sistema della cartomanzia è molto semplice e c’è grande libertà nell’ordine di lettura dei suoi elementi, come ci si dovrebbe aspettare da un linguaggio semplice con un vocabolario limitato, per esempio il linguaggio dei segnali navali.


3. THE SYSTEM OF CARTOMANCY COMPARED TO NATURAL LANGUAGES

The system of cartomancy is a language with a finite number of states, limited semantics, and very simple syntax. The reading order in cartomancy is not determined by the sequence of cards, but by their semantics, in a manner similar to certain artificial languages with a limited semantics.

From a typological standpoint, the language of cartomancy should be related to the number of isolating elements. In some systems, the meanings of the cards vary regularly according to the position in which the cards lie, which can be determined either by particular features of distribution, or by the substance of the material; for example, some cartomantic systems are designed with asymmetrical cards that have a top and bottom. This phenomenon is formally analogous to the paradigm of words in natural languages; but it is distinguished in content by the fact that the paradigm’s meanings are not relational but specifying, as particularly in the paradigm of word-building in isolating languages.

 

Different readings of the cards’ meanings, which depend on the initially given situation, are analogous to variations of meaning depending on context in natural languages. The same holds true for the Aranda language, in which a meaningful text cannot be perceived without a preliminary artificial recreation of the situation by means of dramatic enactment,8 since in practice any segment of the text is so polysemantic that it has no meaning outside the situation. As in natural languages, preceding words influence following words, and preceding sentences influence following sentences. Like natural languages, cartomantic systems are socially and ethnically conditioned. Some cartomantic relations possess a certain secrecy, and in this respect fortune-telling resembles the secret argot of closed societies.


3. Il sistema della cartomanzia comparato ai linguaggi naturali

Il sistema della cartomanzia è un linguaggio con un numero finito di stati, una semantica limitata e una sintassi molto semplice. La sequenza di lettura nella cartomanzia non è determinata dalla sequenza delle carte, ma dalla loro semantica, come in alcuni linguaggi artificiali a semantica limitata.

Dal punto di vista tipologico, il linguaggio della cartomanzia va messo in relazione con il numero di elementi isolanti. In alcuni sistemi, i significati delle carte variano regolarmente a seconda della posizione nella quale si trovano le carte, che può essere determinata da caratteristiche particolari di distribuzione o dal contenuto del materiale; per esempio, alcuni sistemi di cartomanzia sono disegnati con carte asimmetriche che hanno una parte alta e una bassa. Formalmente questo fenomeno è analogo al paradigma delle parole nei linguaggi naturali; ma si distingue nel contenuto per il fatto che i significati dei paradigmi non sono relazionali ma specifici, in particolare come nel paradigma di costruzione delle parole nei linguaggi isolanti.

 

Le diverse letture dei significati delle carte, che dipendono dalla situazione iniziale data, sono analoghe alle variazioni di significato che nei linguaggi naturali dipendono dal contesto. Lo stesso vale per la lingua aranda, in cui un testo significativo non può essere percepito senza una preliminare ri-creazione artificiale della situazione attraverso una rappresentazione teatrale8, poiché in pratica ogni frammento del testo è talmente polisemantico da non avere significato al di fuori di quella situazione. Come nei linguaggi naturali, le parole precedenti influenzano quelle successive, e le frasi precedenti influenzano quelle successive. Come i linguaggi naturali, i sistemi di cartomanzia sono etnicamente e socialmente condizionati. Alcune relazioni nella cartomanzia hanno una certa segretezza, e a questo proposito la predizione del futuro ricorda il gergo in codice delle società segrete.


Table 2

Defined Factors  1. News 2. House 3. Unpleasant 4. Pleasant 5. Journey 6. Conversation 7. Belongings 8. Interest (feeling) 9. Marriage 10. Change 11. Business (financial) 12. Man 13. Woman 14. Fair-haired 15. Dark-haired 16. Brown-haired
Defining Factors
1. News A♣
2. House Q♠
3. Unpleasant A♠10♠ 6♠ 7♠3J♠ 19♠ 8♣ 8♠ Q+Q♠
4. Pleasant A♥+
A♣
9+Q,9+K 4 X 10
5. Journey
6. Conversation 7♣,
7♦,
7♥,
8 + K,
8 + Q
J,4 X J,

J♠3,

(J♠

+

K♠)4

7. Belongings 10♦,10♦,

+ A♦

8♦ 9♠1,(A♠

+

10♠)2

8. Interest (feeling) A♦ +

A♣

4 X A 4 X Q A♦ 3 X A
9. Marriage 9♥ 4 X 8 10♥,10♥ +

9♥

10. Change 10♣,10♦ +

10♥ +

10♣

11.Business (financial) A♠ +K♠ +

A♣

A♠ +K♠ 10♣ +K♠ 4(J♠+ K♠) K♠
12. Man
2
(A♠ 
13. Woman 10♠) 4 X 7
14. Fair-haired A♦ +

K♦,

A♦ +

Q♦

6♦ K♦ Q♦
15. Dark-haired A♣ +K♣,

A♣ +

Q♣

6♣ K♣ Q♣
16. Brown-haired A♥ 6♥ K♥ Q♥

 

NOTE. The following signs are used in the table: the sign “,” means “or”; the sign “+” means “and”. Sequences consisting only of the designations of denominations rather than suits, such as 8 + K, mean that any cards with these denomination can be used provided that they come from the same suit. Small Arabic numerals placed as indices slightly above the designations of the cards, as in 19 and 91, are applied to the numerous meanings that are brought together as binomials. These indices are written to the left above defining meanings and are written to the right above the designations of defined meanings. There are an equal number of binomial defining and defined meanings, which together correspond to a single polynomial meaning. For example, the meaning of “loss” is formed by adding together the meanings of quadrants 3.7 and 7.10. It is apparent from the index written to the right above the name of the card in quadrant 7.10. that it needs a definition with an index number corresponding to the index number of what is being defined. We find such a definition in quadrant 3.7.

 

Tabella 2

Fattori definiti  1. Notizia 2. Casa 3. Seccante 4. Gradevole 5. Strada 6. Conversazione 7. Cose 8. Interesse (sentimento) 9. Matrimonio 10. Cambiamento 11. Affari (finanziari) 12. Uomo 13. Donna 14. Biondo 15. Bruno 16. Biondo scuro
Fattori definitori
1. Notizia A♣
2. Casa Q♠
3. Seccante A♠10♠ 6♠ 7♠3J♠ 19♠ 8♣ 8♠ Q+Q♠
4. Gradevole A♥+
A♣
9+Q,9+K 4 X 10
5. Strada
6. Conversazione 7♣,
7♦,
7♥,
8 + K,
8 + Q
J,4 X J,

J♠3,

(J♠

+

K♠)4

7. Cose 10♦,10♦,

+ A♦

8♦ 9♠1,(A♠

+

10♠)2

8. Interesse (sentimento) A♦ +

A♣

4 X A 4 X Q A♦ 3 X A
9. Matrimonio 9♥ 4 X 8 10♥,10♥ +

9♥

10. Cambiamento 10♣,10♦ +

10♥ +

10♣

11. Affari (finanziari) A♠ +K♠ +

A♣

A♠ +K♠ 10♣ +K♠ 4(J♠+ K♠) K♠
12. Uomo
2
(A♠ 
13. Donna 10♠) 4 X 7
14. Biondo A♦ +

K♦,

A♦ +

Q♦

6♦ K♦ Q♦
15. Bruno A♣ +K♣,

A♣ +

Q♣

6♣ K♣ Q♣
16. Biondo scuro A♥ 6♥ K♥ Q♥

 

NOTA. I segni seguenti sono utilizzati nella tabella: il segno «,» significa «oppure»; il segno «+» significa «e». Le sequenze formate solo da valori e non da semi, come 8 + K, significano che possono essere utilizzate tutte le carte con quei valori, purché appartengano allo stesso seme. I numeri collocati in apice ad alcune carte, come 19 e 91, sono applicati ai numerosi significati che vengono uniti in quanto binomi. Questi numeri sono messi in alto a sinistra ai significati definitori e in alto a destra ai significati definiti. Esiste un numero uguale di binomi definitori e significati definiti, che insieme corrispondono a un unico significato polinomiale. Per esempio, il significato di «perdita» viene formato unendo i significati dei quadranti 3.7 e 7.10. Dal numero messo in alto a destra al nome della carta nel quadrante 7.10, si capisce che il significato ha bisogno di una definizione con un numero che corrisponde al numero di ciò che viene definito. Troviamo tale definizione nel quadrante 3.7.

 

NOTES

 

 

  1. See F. de Saussure, Cours de linguistique générale (Paris, 1960), p. 32-35 ; L. Hjelmslev, “Prolegomeny k teorii âzyka” [Prolegomena to a theory of language], in sb. Novoe v lingvistike [the anthology, Current linguistics] (Moskow: Izd-vo inostrannoj literatury, 1960), p. 21.

(Hjelmslev’s book is available in English as Prolegomena to a Theory of Language, trans. F. J. Whitfield, 2d rev. ed. [Madison: University of Winsconsin Press, 1961]–Trans.)

 

  1. C. Morris, Foundations of the Theory of Signs (Chicago: University of Chicago Press, 1938).

 

  1. N. Chomsky, “Tri modeli opisanija jazyka” [Three models for the description of language], in Kibernetičeskij sbornink [Cybernetic anthology] (Moskow, 1961), p. 241.

(Chomsky’s 1956 article, “Three Models for the Description of  Language”, has been anthologized in Readings in Mathematical Psychology, ed. R. Duncan Luce et al. [New York: John Wiley e Sons, 1965], vol. 2, pp. 105-24–Trans.)

 

  1. The face card that is the basis for the fortune-telling does not enter into idiomatic constructions except in the case of combinations between kings and queens.

 

  1. This sentence is taken from the first published version of this essay “Gadanie na igral’nyh kartax kak semiotičeskaja sistema» [Fortune-telling with playing cards as a semiotic system], which appeared in Simpozium po strukturnomu izučenijû znakovyx sistem: Tezisy dokladov [Symposium on the Structural Study of Sign Systems: theses of the reports] (Moscow: AN SSSR, 1962), p. 84–Trans.

 

 

NOTE

 

 

  1. Si veda F. de Saussure, Cours de linguistique générale (Parigi, 1960), 32-35; L. Hjelmslev, «Prolegomeny k teorii âzyka» [Prolegomena to a theory of language], in Novoe v lingvistike (Moskvà: Izdatel´stvo inostrannoj literatury, 1960), 21.

(Il libro di Hjelmslev è disponibile in inglese come Prolegomena to a Theory of Language, trad. F. J. Whitfield, seconda edizione riveduta [Madison: University of Winsconsin Press, 1961].

 

  1. C. Morris, Foundations of the Theory of Signs (Chicago: University of Chicago Press, 1938).

 

  1. N. Chomsky, «Tri modeli opisaniâ âzyka» in Kibernetičeskij sbornink (Moskvà, 1961), 241.

(L’articolo di Chomsky del 1956, «Three models for the Description of Language», è stato pubblicato in Readings in Mathematical Psychology, a cura di R. Duncan Luce e al. [New York: John Wiley e Sons, 1965], vol. 2, 105-24).

 

  1. La figura, che è la base della predizione del futuro, non rientra nei costrutti idiomatici tranne in caso di combinazioni tra re e regine.

 

  1. Questa frase è stata presa dalla prima versione pubblicata di questo saggio, «Gadanie na igral´nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema» apparsa in Simpozium po strukturnomu izučeniû znakovyh sistem: Tezisy dokladov (Moskvà: AN SSSR, 1962), 84.

 

 

 

 

 

  1. See R. Duncan Luce and Howard Raiffa, Igri i rešeniâ [Games and decisions] (Moscow, 1961).

(Luce and Raiffa’s Games and Decisions was originally published in  New York by John Wiley and Sons in 1957–Trans).

 

  1. Polynomial meanings are those meanings that can only be described by using more than two semantic factors.

 

  1. See A. Sommerfelt, La langue et la société (Oslo, 1938), p. 124. See also S .D. Kacnel’son, “Jazyk poèzii i pervobytnaja obraznaja reč” [The language of poetry and primitive figurative speech], Izvestija OLJa AN SSSR [Proceedings of the Department of Literature and Language of the Academy of Sciences, USSR] 6, no. 4 (1947).

 

  1. Si veda R. Duncan Luce e Howard Raiffa, Igry i rešeniâ (Moskvà, 1961).

(Games and Decisions di Luce e Raiffa fu originariamente pubblicato a New York da John Wiley e Sons nel 1957).

 

  1. I significati polinomiali sono quei significati che possono essere descritti usando più di due fattori semantici.

 

  1. Si veda A. Sommerfelt, La langue et la société (Oslo, 1938), 124. Si veda anche S .D. Kacnel´son, «Âzyk poeziû i pervobytnaâ obraznaâ reč», Izvestiâ OLÂ AN SSSR 6, n. 4 (1947).

 

 

 



[1] Con J.H. Beavin e D.D. Jackson in Pragmatica della comunicazione umana.

[2] Per i significati delle carte si veda la tabella 1.

ELISA ONGARO Savory: traduzione filologica e traduzione leggibile Savory: philological and readable translation

Savory: traduzione filologica e traduzione

leggibile
Savory: philological and readable translation

ELISA ONGARO

Scuole civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 Milano

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Marzo 2008

© Theodore Horace Savory, London, 1957 © Elisa Ongaro per l’edizione italiana 2008

Savory: traduzione filologica e traduzione leggibile Savory: philological and readable translation

ABSTRACT IN ITALIANO
Il tema della cosiddetta “fedeltà” al testo, o più precisamente la scelta tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile, ha sempre costituito materia di dibattito tra gli studiosi di traduzione. La traduzione filologica risulta dettata da un orientamento di conservazione del prototesto come espressione della cultura emittente, producendo una traduzione «source- oriented». Al contrario, la scelta di avvicinare il testo al lettore, esaltando la leggibilità nella cultura ricevente, porta ad una traduzione «target- oriented». Vengono sintetizzate teorie di alcuni studiosi ed è stata proposta la traduzione di un capitolo del libro The Art of Translation di Savory, seguendo quanto più possibile l’approccio filologico sostenuto dall’autore. L’analisi ha portato alla definizione del testo come principalmente aperto, mentre la dominante risiede nel suo carattere informativo, rivolto a studiosi e studenti della traduzione come lettori modello.

ENGLISH ABSTRACT
The subject of so-called “faithfulness” to a text, or more precisely the choice between a philological translation and a readable one, has always been a topic for discussion among translation experts. A philological translation aims to maintain as much of the prototext as possible as expression of the source culture; the result is a “source-oriented” translation. On the contrary, the decision to bring the text nearer to the reader, favouring readability by readers of the target culture, leads to a “target-oriented” translation. Theories of different experts are summarized. A translation of a chapter of The Art of Translation by Savory is given, and as far as possible the philological approach followed is that suggested by the author. The analysis allows the text to be defined as an open text, whereas the dominant is its informative character and the model readers identified are scholars and students of translation.

DEUTSCHES ABSTRACT
Das Thema der so genannten “Texttreue“ oder genauer die Wahl zwischen philologischer Übersetzung und lesbarer Übersetzung hat unter den Übersetzungswissenschaftlern immer Anlass zur Diskussion gegeben. Die philologische Übersetzung hängt mit der Absicht zusammen, den Prototext als Ausdruck der Ausgangskultur möglichst getreu zu bewahren und führt zur Produktion einer ausgangsorientierten Übersetzung. Die Entscheidung, den Text dem Leser näher zu bringen und die Lesbarkeit in der Zielkultur in den Mittelpunkt zu stellen, führen dagegen zu einer zielorientierten Übersetzung. In dieser Diplomarbeit wurden die Theorien von verschiedenen Experten kurz vorgestellt. Sie enthält auch die Übersetzung eines Kapitels von Savorys Werk The Art of Translation, wobei der vom Autor empfohlene philologische Ansatz bestmöglich befolgt wurde. Die Analyse konnte den Text als hauptsächlich offen definieren. Die Modell- Leser sind Übersetzungswissenschaftler und Studenten und die Dominante des Textes liegt in seinem informativen Charakter.

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SOMMARIO
I – TRADUZIONE FILOLOGICA E TRADUZIONE LEGGIBILE………………………………………. 5

1.1 INTRODUZIONE………………………………………………………………………………………………………………… 6 1.2 GIDEON TOURY ……………………………………………………………………………………………………………….. 6 1.3 VLADÌMIR NABÓKOV ……………………………………………………………………………………………………….. 9 1.4 UMBERTO ECO ………………………………………………………………………………………………………………. 10 1.5 JACQUES DERRIDA…………………………………………………………………………………………………………. 14 1.6 GEORGE STEINER ………………………………………………………………………………………………………….. 15 1.7 WALTER BENJAMIN ……………………………………………………………………………………………………….. 16 1.8 EUGENE A. NIDA ……………………………………………………………………………………………………………. 17 1.9 THEODORE SAVORY……………………………………………………………………………………………………….. 18

II – THEODORE SAVORY: ANALISI DEL TESTO DA TRADURRE……………………………….. 21

2.1 FATTORI EXTRATESTUALI ………………………………………………………………………………………………. 22 2.1.1. Funzione del testo ………………………………………………………………………………………………………. 22 2.1.2. Autore empirico e autore modello ………………………………………………………………………………… 24 2.1.3. Lettore modello del prototesto ……………………………………………………………………………………… 24 2.1.4. Lettore modello del metatesto ………………………………………………………………………………………. 25 2.1.5. Canale del messaggio …………………………………………………………………………………………………. 26 2.2 ELEMENTI INTERNI AL TESTO………………………………………………………………………………………….. 26 2.2.1. Lessico ………………………………………………………………………………………………………………………. 26 2.2.2 Sintassi ………………………………………………………………………………………………………………………. 27 2.2.3 Registro ……………………………………………………………………………………………………………………… 27 2.2.4 Dominante del prototesto e dominante del metatesto ………………………………………………………. 28 2.3 Strategia traduttiva ………………………………………………………………………………………………………… 28 2.4 Difficoltà e residuo traduttivo………………………………………………………………………………………….. 30

III – TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE ………………………………………………………………….. 33 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI …………………………………………………………………………………….. 54 RINGRAZIAMENTI …………………………………………………………………………………………………………. 56

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I

TRADUZIONE FILOLOGICA E TRADUZIONE LEGGIBILE

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1.1 Introduzione
Numerosi autori, allo scopo di sviluppare e proporre teorie della traduzione, hanno analizzato la problematica della cosiddetta “fedeltà” al testo, o più precisamente il dilemma tra la produzione di una traduzione filologica o leggibile. Le diversità di opinioni scaturiscono dal diverso approccio verso la traduzione, ovvero dalla scelta di porre in primo piano la cultura emittente piuttosto che la cultura ricevente. Le diverse teorie riguardo alle strategie e alle scelte traduttive dipendono quindi da questa differenza. Una strategia orientata verso la cultura emittente porterà quindi alla produzione di una traduzione filologica, mentre al contrario un orientamento verso la cultura ricevente favorirà una traduzione leggibile.
L’analisi da me svolta prende in considerazione le teorie esposte da numerosi autori, tra cui teorici della traduzione, traduttori, scrittori e semiotici. Numerosi studiosi e teorici della traduzione si sono poi concentrati in modo particolare sulla traducibilità della poesia, questione strettamente legata alla tematica da me considerata. Tuttavia ho scelto di trattare il problema dell’individuazione di una strategia traduttiva tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile secondo gli aspetti generali e considerando in modo più ampio tutti i generi e i tipi di testo. Numerosi infatti sono gli scrittori e gli studiosi che hanno affrontato il problema della traducibilità della poesia, alcuni dei quali vengono citati anche in questa analisi, come per esempio Umberto Eco. Nonostante ciò questa tematica, per quanto molto interessante, non verrà trattata direttamente nella mia analisi.

1.2 Gideon Toury
Gideon Toury (1942- testologo israeliano) ascrive le traduzioni, considerandole in termini di processi semiotici, all’interno di due sistemi differenti e interrelati: il sistema ricevente e il sistema emittente. Secondo Toury questi sistemi si trovano in una posizione gerarchica l’uno rispetto all’altro in termini di importanza, in quanto la caratteristica di una traduzione di far parte del sistema ricevente prevale rispetto alla funzione di rappresentare il sistema emittente. In altre parole una traduzione viene definita ed inquadrata secondo il sistema ricevente, che contribuisce in

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misura maggiore alla sua formazione. Si preferisce quindi una traduzione leggibile per la cultura di destinazione, ponendo in secondo piano l’aspetto filologico della traduzione. Vediamo ora come Toury sviluppa le proprie teorie verso questa caratterizzazione. Toury definisce il processo di traduzione come un «trasferimento (transfer)», attraverso il quale una singola entità semiotica appartenente ad un sistema emittente viene trasferito in una nuova entità semiotica all’interno di un sistema differente. Ne consegue che l’entità risultante presenterà un’ambiguità evidente:

a) come qualsiasi altra entità semiotica sarà parte integrante del sistema cui appartiene (vale a dire del sistema di arrivo);
b) a differenza di entità semiotiche ordinarie (cioè primarie e non derivate), sarà anche la rappresentazione (più o meno parziale) di un’altra entità appartenente a un diverso sistema, in funzione di un fattore costante comune a entrambe le entità. (Toury 1979: 106)

La conseguenza logica di questa ambiguità, derivante dal fatto che le due entità semiotiche considerate fanno parte di due sistemi distinti, è la creazione di tre tipi di relazione intercorrenti tra di loro. La prima è la relazione esistente tra le due stesse entità semiotiche, ognuna considerata all’interno del proprio sistema di appartenenza. Da questo scaturisce il concetto di «accettabilità» di ognuna di esse secondo i criteri del proprio sistema. La seconda relazione è quella che intercorre tra le due entità, considerate secondo una costante pertinente al tipo di trasferimento apportato, definita generalmente con «adeguatezza». Il terzo e ultimo tipo di relazione è quella esistente tra i due sistemi ai quali le entità semiotiche appartengono, ovvero i codici soggiacenti. Secondo Toury è proprio quest’ultima relazione a rappresentare il criterio più importante per determinare e descrivere i diversi tipi di trasferimento. La predeterminazione del tipo di relazione esistente tra i codici è fondamentale per l’operazione di traduzione:

Conseguenza della predefinizione del tipo di relazione instaurata tra i codici è la possibilità di gestire i trasferimenti fra le entità codificate in maniera altamente economica, cioè di potere trasferire un predefinito ‘nucleo’ costante in maniera ottimale (quindi con un alto valore di corrispondenza tra le due entità), ottenendo

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allo stesso tempo il massimo grado di adeguatezza dell’entità risultante al sistema ricevente (varrebbe a dire un alto tasso di accettabilità). (Toury 1979: 106)

Secondo Toury, nell’operazione di trasferimento qui descritta e quindi nella formazione di una traduzione, il fatto di essere ascritta al contesto ricevente, sia in termini linguistici che in termini culturali, è fondamentale. Egli definisce infatti il sistema ricevente come un «sistema di innesco (initiating system)» che porta ad una scomposizione e all’analisi anche del testo di partenza per poi procedere all’operazione di trasferimento da lui descritta. Le teorie di Toury quindi si indirizzano al riconoscimento e all’enfatizzazione della caratteristica della traduzione di essere finalizzata ad uno scopo, ovvero di essere «target-oriented» (o «goal-oriented»). A essere poste in rilievo sono quindi le necessità che devono essere soddisfatte nella cultura e nella lingua ricevente, le quali influenzano poi in modo notevole le scelte e le strategie adottate durante il processo traduttivo. Viene quindi sviluppata una teoria contrastante rispetto alle teorie da lui considerate tradizionali che suggeriscono invece una traduzione «source-oriented», più materiale e maggiormente concentrata sulla produzione. In breve, Toury sostiene che:

Per uno studio della traduzione non risulta essere solo ingenuo, ma anche inutile e fuorviante, muovere dall’assunto che il tradurre consista nel semplice tentativo di ricostruire il testo originale o alcuni suoi aspetti rilevanti, o nel salvare predefinite strutture originarie di un certo sistema di segni incondizionatamente considerate come costanti, dal punto di vista del sistema di partenza. (Toury 1979: 116)

I traduttori devono quindi procedere verso il processo traduttivo tenendo presente che si trovano ad operare per la cultura ricevente, mettendo quindi in secondo piano la cultura del testo originario. Bisogna quindi partire dal presupposto che «le traduzioni siano fatti appartenenti a un solo sistema: il sistema di arrivo (target system)» (Toury: 186). Ne deriva che qualsiasi tentativo di giungere alla formulazione di teorie della traduzione e perciò qualsiasi analisi dei processi coinvolti nella traduzione debba di fatto partire dalle realtà osservabili, ovvero dagli enunciati tradotti, per poi procedere a

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ritroso verso il testo originale. È necessario pertanto partire esclusivamente dall’analisi dei testi tradotti dal punto di vista della loro accettabilità all’interno del sistema ricevente di appartenenza. Dopodiché si passa a esaminare i loro corrispondenti nel testo di origine, quindi all’interno del sistema emittente, descrivendo poi le relazioni che intercorrono tra i sistemi. Solo allora sarà possibile procedere nell’analisi del processo traduttivo, quindi delle decisioni e delle scelte del traduttore e dei limiti da lui incontrati. Viene quindi ripreso il concetto di accettabilità già menzionato in precedenza, in quanto ogni testo che si presenti come una traduzione, o che si presume lo sia, dovrà essere analizzato esclusivamente secondo i termini dell’accettabilità nel sistema ricevente, cioè «nei termini della sua sottomissione alle norme dominanti in quello specifico sistema» (Toury: 194). Solo in seguito si potrà passare ad un’analisi comparativa dei due testi.

1.3 Vladìmir Nabókov
Vladìmir Nabókov (1899-1977) è stato uno scrittore di romanzi, racconti e poesie in lingua russa e successivamente in inglese e francese. È un artista che si è interessato profondamente alla traduzione, in quanto fu costretto a constatare come le traduzioni delle sue opere sfigurassero totalmente il genio in esse espresso e dovette far fronte ad uno scarso successo di pubblico nel suo paese natio. Si sentì così costretto ad abbandonare la scrittura in russo e a passare alla lingua inglese, occupandosi anche della traduzione di diverse opere del periodo russo. Nabókov patì profondamente di questa scelta e visse questo cambiamento come una costrizione. La sua concezione della letteratura, così come della traduzione, si è sempre basata su un culto quasi ossessivo verso il dettaglio, concezione che lo ha indotto a esprimere forti critiche verso traduttori a lui contemporanei, che hanno portato i poeti russi ad essere «martirizzati a opera di qualcuno dei miei famosi contemporanei» (Nabókov: 81). Basandosi su queste sue visioni piuttosto pessimistiche della traduzione, Nabókov riconosce l’utilità del tradurre solo se ci si basa sulla più precisa traduzione letterale possibile.

L’unico oggetto e l’unica giustificazione della traduzione è veicolare le informazioni più esatte possibili e ciò può essere ottenuto soltanto con una traduzione letterale, con note. (Nabókov: 81)

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Le sue teorie si basano quindi su una traduzione precisa e filologica, che ponga in secondo piano la leggibilità del testo nella cultura ricevente, in modo da invogliare i lettori a leggere direttamente il testo originale. Ammette quindi l’esistenza esclusivamente della traduzione letterale, in quanto qualsiasi altra forma non sarebbe una traduzione, bensì un’imitazione o una parodia. Per Nabókov la leggibilità del testo non è da considerare, al contrario risulta strettamente necessario abbandonare definitivamente l’idea tradizionale secondo la quale una traduzione debba essere scorrevole e non debba sembrare una traduzione, tentando di farla passare per l’originale. Infatti, una traduzione di questo tipo sarebbe inesatta, in quanto la scorrevolezza della lettura dipende dall’originale non dalla traduzione. Nabókov riconosce che l’unico pregio della traduzione è quello di essere fedele e completa, attenta ai dettagli e precisa. Fa affidamento al lettore e alle sue capacità di discernere un riferimento implicito o esplicito che non faccia parte della sua cultura, bensì della cultura originaria e l’unico modo per poter andare incontro ai lettori è quello di utilizzare l’apparato metatestuale, quali le note a piè di pagina:

Voglio traduzioni con note a piè di pagina copiose, note a piè di pagina che salgano come grattacieli fino in cima a questa o quella pagina in modo da lasciare unicamente il barlume di una sola riga di testo tra commentario ed eternità. (Nabókov 1955: 512)

Viene espressa inoltre una dura critica verso la tendenza di alcuni traduttori a correggere le imprecisioni degli autori del testo originario. Secondo Nabókov di fatti il traduttore deve sacrificare il suo desiderio di correttezza alla necessità di essere quanto più fedele e preciso verso il testo originario. In conclusione, quella sostenuta dal Nabókov è una traduzione totalmente filologica a forte discapito della leggibilità del testo nella cultura ricevente, che non solo è messa in secondo piano, ma anzi viene duramente criticata.

1.4 Umberto Eco
Nettamente differenti risultano essere le teorie di Umberto Eco al riguardo. Nello sviluppo delle sue teorie, Eco parte anche dal punto di vista dello stesso scrittore che si trova a seguire la traduzione del proprio testo, dando

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consigli e indicazioni ai traduttori e contribuendo in questo modo all’adeguatezza della traduzione. Si parte dal presupposto che qualsiasi autore desidererebbe che fosse rispettata la «fedeltà» al proprio testo. Al contrario di altri teorici, alcuni considerati anche in questa analisi, che si concentrano principalmente sul risultato nella lingua e nel sistema ricevente, Eco sostiene che la fedeltà al testo in questo senso sia da considerare un aspetto importante. La traduzione è descritta come una forma di interpretazione, quale il riassunto o la parafrasi, e di conseguenza dovrebbe sempre cercare di ritrovare se non l’intenzione dell’autore, per lo meno l’intenzione del testo, tenendo sempre presente la cultura ricevente. È fondamentale quindi capire quello che il testo esprime in relazione alla propria lingua e alla cultura dalla quale si sviluppa. Eco quindi considera la traduzione come un fenomeno che va ben oltre al sistema linguistico, tesi ulteriormente supportata dall’ormai dimostrata inesistenza della sinonimia. Secondo Eco, la fedeltà al testo

è sempre fedeltà-a-qualcuno, ovvero fedeltà di qualcuno rispetto a qualcosa d’altro al servizio di qualcun altro ancora. (Eco 1995: 124)

Durante le sue esperienze come traduttore delle sue stesse opere, Eco avvertì il problema di creare una traduzione che fosse fedele a quelle che erano state le sue intenzioni come autore, ma al contempo sentì di apprezzare con entusiasmo le nuove e diverse possibilità interpretative che il testo tradotto poteva scatenare, possibilità interpretative talvolta non previste dall’autore. Secondo Eco, queste nuove potenzialità di interpretazione potevano addirittura portare ad un miglioramento del testo. Da qui la necessità di trovare un equilibrio creativo tra una traduzione che rispetti l’universo semiotico dell’originale, ma che parimenti riesca a trasformare «l’originale adattandolo all’universo semiotico del lettore» (Eco 1995: 125). Le sue esperienze e considerazioni lo portano a sviluppare una teoria che esprime il bisogno di questo equilibrio:

Di fronte alla domanda se una traduzione debba essere source o target oriented, ritengo che non si possa elaborare una regola, ma usare i due criteri

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alternativamente, in modo molto flessibile, a seconda dei problemi posti dal testo a cui ci si trova di fronte. (Eco 1995: 125)

Eco propone numerosi esempi del tutto efficaci tratti da traduzioni sia dei propri romanzi sia di altri testi letterari. Vorrei riproporne due che ritengo possano essere esemplificativi di questa necessità di utilizzare i due criteri in modo alternato a seconda del testo e del contesto. Come esempio di traduzione «target-oriented» Eco cita la traduzione del suo Pendolo di Foucault. I personaggi di quest’opera pronunciano molto spesso numerose citazioni letterarie, la cui funzione è quella di mostrare al lettore come i personaggi osservino il mondo solo attraverso citazioni e riferimenti ad opere letterarie. Riporto ora una parte del testo in italiano del capitolo 57, nel quale viene descritto un viaggio in macchina sulle colline:

[…] man mano che procedevamo, l’orizzonte si faceva più vasto, benché a ogni curva aumentassero i picchi, su cui si arroccava qualche villaggio. Ma tra picco e picco si aprivano orizzonti interminati – al di là della siepe, come osservava Diotallevi […]

Nel far pronunciare a Diotallevi l’espressione «al di là della siepe» Eco intendeva rinviare all’Infinito di Leopardi. Eco racconta quindi di aver ritenuto utile dare come indicazione ai traduttori del testo che non era importante il riferimento alla siepe in sé, ma piuttosto era necessario mantenere un rimando letterario. Per questo motivo i traduttori hanno inserito un rimando ad un’opera letteraria presente nella propria letteratura, in modo che questa implicazione fosse percepibile chiaramente anche ai lettori delle culture riceventi. Quello appena proposto è un esempio di traduzione «target-oriented», mentre come esempio di traduzione «source- oriented» Eco propone un dilemma traduttivo che ci si potrebbe porre riguardo alla traduzione di Guerra e Pace di Tolstoj, che inizia con un capitolo interamente in francese. Lo scopo di questo capitolo è quello di presentare i costumi della società aristocratica russa del periodo napoleonico, così distanti dalla vita nazionale russa da parlare la lingua francese, considerata al tempo la lingua della letteratura e della raffinatezza. Il dilemma sorge nel caso della traduzione di quest’opera in francese. Ci si potrebbe domandare se sia opportuno tradurre questo capitolo iniziale in

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un’altra lingua, per esempio l’inglese, allo scopo di rendere evidente anche ai lettori francesi che la lingua utilizzata è diversa rispetto al russo e quindi di adattare il testo alla cultura ricevente. In questo modo però si altererebbe l’intenzione del testo, in quanto gli aristocratici russi parlavano francese, non inglese, particolare non di secondaria importanza se si considera l’opera nel suo insieme, che narra del conflitto tra russi e francesi. Si opta quindi per il mantenimento del primo capitolo in lingua francese, esplicitando questa importante caratteristica con l’apparato metatestuale, per esempio con una nota. In questo caso quindi si preferisce una traduzione filologica rispetto ad una leggibile che porterebbe ad un’alterazione delle intenzioni dell’opera.

Eco prende poi in considerazione una questione spesso controversa tra gli studiosi, ovvero la presunta esistenza di una lingua pura a cui si debba fare riferimento nelle scelte prese durante il processo traduttivo, in modo da riuscire a riprodurre il senso della lingua d’origine in una lingua di destinazione. Si presentano quindi tre possibilità. La prima è che esista una lingua perfetta, intesa come una lingua convergente fra tutte le lingue, un’espressione in linguaggio formalizzato, una sorta di linguaggio neutro rispetto alle lingue naturali a confronto. Questa lingua pura rinvia alle lingue sante, alla lingua di Dio e ha a che fare con il tentativo di recuperare una lingua Adamica originaria, ovvero quella parlata prima della formazione delle diverse lingue, nella situazione pre-babelica. La necessità di attingere da questa lingua perfetta per la traduzione fu ipotizzata da Walter Benjamin (1892-1940, filosofo e scrittore tedesco). La seconda possibilità è che sia possibile individuare e creare una lingua razionale che sia in grado di dare espressione a tutte le idee, i concetti astratti, gli oggetti, le emozioni proprie di una cultura o una lingua del pensiero espressa in un linguaggio formalizzato. L’ultima possibilità riguarda il desiderio, molto ambito dai sostenitori della traduzione automatica, di fare riferimento ad un «tertium comparationis», permettendo di riprodurre la lingua di partenza in una lingua di destinazione passando per una lingua terza, nella quale le due espressioni si trovano ad essere equivalenti in una proposizione di quest’ultimo codice, indipendentemente da come trovavano espressione nelle due diverse lingue. Eco esclude la possibilità che esista una lingua

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perfetta, o una lingua del pensiero e tanto meno un «tertium comparationis». Tradurre significa infatti riuscire a comprendere il genio espresso dall’autore in una cultura e in una lingua emittente ed essere in grado di riprodurre tale genio, avvalendosi della lingua ricevente e all’interno di una differente cultura. Ricorda che la traduzione è un’interpretazione e in questo senso è necessario “scommettere”, come in una roulette.

Il senso che il traduttore deve trovare, e tradurre, non è depositato in alcuna pura lingua. È soltanto il risultato di una congettura interpretativa. Il senso non si trova in una no language’s land: è il risultato di una scommessa (Eco 1995: 138).

Secondo Eco una traduzione può dirsi soddisfacente se è in grado di rendere «e cioè di conservare abbastanza immutato, ed eventualmente ampliare senza contraddire» (Eco 1995: 138) il senso del testo originario. In conclusione, Eco non ritiene che esista una regola che stabilisca come una traduzione dovrebbe essere fedele e per quale motivo, ma tuttavia sostiene che per valutare una traduzione è necessario basarsi sull’assunto che una traduzione dev’essere fedele.

I criteri di fedeltà possono mutare, ma (i) debbono essere contrattati all’interno di una certa cultura e (ii) debbono mantenersi coerenti nell’ambito del testo tradotto. (Eco 1995: 139)

1.5 Jacques Derrida
Nella sua opera Des Tours de Babel, Jacques Derrida (1930-2004, filosofo francese) esprime le sue teorie riguardo al compito del traduttore. Si chiede se il traduttore debba sentirsi sottomesso alla resa del testo originale e giunge alla conclusione che il suo compito è tutt’altro che questo. Presenta quattro princìpi sui quali fonda la sua teoria della libertà assoluta del traduttore. Il primo principio è quello secondo il quale il «compito del traduttore non si rivela da una ricezione» (Derrida: 386). Benché la teoria della traduzione possa essere supportata dalla ricezione, non è questo lo scopo dell’atto traduttivo. Il secondo principio esposto stabilisce che la traduzione non ha come «fine essenziale» quello di «comunicare» (Derrida: 386). Questa tesi si fonda sulla negazione dell’ipotesi secondo la quale esiste una distinzione tra il contenuto comunicabile e l’atto linguistico della

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comunicazione. Secondo il terzo principio, la traduzione non è un atto «rappresentativo o riproduttivo. La traduzione non è né un’immagine né una copia» (Derrida: 387). Allo scopo di enunciare il suo quarto e ultimo principio, Derrida descrive l’esistenza di un contratto tra le varie lingue, che renderà poi possibile una traduzione e autorizzerà la libera espressione nell’altra lingua. In sostanza la traduzione non ha come obbiettivo quello di trasporre dei contenuti o dei carichi di senso, ma bensì quello di «far rimarcare l’affinità tra le lingue, di esibire la sua propria possibilità». È in questo senso che Derrida intende liberare la traduzione dal debito all’originale come viene tradizionalmente inteso. La conclusione a cui si arriva è la totale libertà di espressione lasciata al traduttore, allo scopo di esibire le possibilità che la propria lingua offre. Lo scopo della traduzione in questo senso è quello di liberare, trasformare, estendere e far crescere il linguaggio, eventualmente trasgredendo i limiti posti dalla lingua. Esalta quindi una sorta di ignoranza dell’originale, verso un narcisismo egoistico nei confronti della propria lingua. I contenuti e le parole dell’originale non hanno nessuna importanza rispetto al riflesso che producono sul traduttore, liberando la sua espressione, senza fedeltà ai contenuti. È questo per Derrida l’atto traduttivo.

1.6 George Steiner
Steiner (1929- saggista e scrittore) è stato uno dei maggiori studiosi della traduzione. Per esporre la propria teoria riguardo alla fedeltà nella traduzione, Steiner parte dal contesto associativo, ovvero da tutte quelle libere associazioni che scaturiscono nella mente del singolo individuo partendo da una parola, associazioni che non possono che essere soggettive e diverse per ognuno di noi. In questo senso, la fedeltà e la vicinanza al testo, così come i concetti di letteralità e libertà, risultano essenzialmente soggettivi e individuali, concetti intangibili, impossibili da teorizzare e descrivere in modo preciso e perciò del tutto inutili per lo sviluppo di teorie della traduzione. Tuttavia Steiner individua una necessaria fedeltà al testo a livello etico, nello sforzo che il traduttore deve compiere nel tentare di ricostruire il testo che durante il processo individuale di interpretazione era

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andato scomponendosi, ridonandogli una nuova espressione e una nuova vita:

Il traduttore, l’esegeta, il lettore è fedele al proprio testo, rende responsabile la propria risposta, solo quando si sforza di ripristinare l’equilibrio di forze, di presenza integrale, che la sua comprensione appropriativa ha infranto. (Steiner: 318)

1.7 Walter Benjamin
Benjamin (1892-1940, filosofo e scrittore tedesco) scrisse «Il compito del traduttore», saggio in cui viene trattato il tema della traduzione, che assume un significato e un’importanza quasi mistica e metafisica. La traduzione infatti è considerata un mezzo per elevare l’uomo verso il supremo, verso Dio, così come ogni azione dell’uomo ha la stessa direzione. Facendo riferimento al rapporto tra da un lato il contenuto delle parole e la lingua nella cultura emittente e dall’altro lo stesso rapporto nella cultura ricevente, Benjamin propone una metafora molto espressiva, nella quale se da una parte il rapporto tra il contenuto e la lingua va a formare un frutto e la sua scorza, la traduzione invece ricopre il suo contenuto «come un mantello regale in ampie pieghe» (Benjamin: 46). Alla luce di questa concezione, assumendo che il modo in cui un oggetto viene interpretato dipende dalle differenze tra le varie lingue, Benjamin sostiene che è impossibile riprodurre il pieno senso dell’originale solo attraverso la fedeltà nella traduzione delle singole parole, che non si esauriscono nell’interpretazione data, ma hanno valore in relazione al modo di essere intese nella cultura originaria. Il traduttore deve quindi fare un’opera di ricostruzione, nel tentativo di riformare un vaso andato in frantumi. In questa opera di ricostruzione, il traduttore deve riunire e ricomporre in modo estremamente minuzioso i vari frammenti, in modo da creare anche nella cultura ricevente lo stesso modo di intendere la parola della lingua originaria. Secondo Benjamin però, le fessure che necessariamente si ritrovano tra un pezzo e l’altro non devono essere celate e il vaso non deve più sembrare come era originariamente. Riapplicando la metafora alla traduzione, il testo tradotto non deve sembrare e non deve essere letto come l’originale.

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La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua. (Benjamin 1962)

Ecco inoltre come ritorna nuovamente ciò a cui abbiamo già accennato, ovvero l’esistenza di una lingua pura, commistione di tutte le lingue, alla quale il traduttore attinge nel suo atto traduttivo.

1.8 Eugene A. Nida
Eugene A. Nida (1914- ) è uno dei maggiori esperti di traduzione dei testi sacri del mondo cristiano. I suoi studi e le sue teorie si concentrano quindi sui problemi e le strategie traduttive nell’ambito dei testi sacri, testi di natura estremamente particolare, diversi sotto numerosi aspetti da tutti gli altri tipi di testo. Nella Bibbia infatti è facilmente individuabile una forte dominante ideologica, dettata dal fatto che lo scopo di questi scritti è la diffusione dell’ideologia cristiana. Non si tratta quindi della diffusione di un testo caratterizzato da diverse interpretazioni, né della produzione di una traduzione strettamente filologica al testo originario. Secondo Nida infatti «uno dei compiti essenziali del traduttore della Bibbia è ricostruire il processo comunicativo come testimoniato nel testo scritto della Bibbia» (Nida: 15). È alla luce di queste considerazioni che Nida si concentra in modo particolare sulle differenze culturali tra le diverse culture, differenze che porterebbero a produrre nelle culture riceventi un’idea deformata dei contenuti espressi dal testo. L’unico modo per mantenere la dominate ideologica dei testi sacri è quindi quello di modificare il contenuto semantico del testo, allo scopo di trasmettere al lettore ignorante della fede cristiana lo stesso significato e gli stessi messaggi.

La traduzione consiste nel produrre nella lingua ricevente il più prossimo equivalente naturale del messaggio della lingua emittente, prima nel significato e secondariamente nello stile. […] Ossia, una buona traduzione non deve rivelare la propria origine non indigena. (Nida: 19)

Ecco quindi espressa la conclusione delle teorie di Nida, ovvero la preferenza verso una traduzione falsificante, una traduzione che abbia lo scopo di passare per un’originale. Viene quindi favorita una cosiddetta

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«“equivalenza” naturale», intesa come un omologo che culturalmente possa esprimere lo stesso significato, a discapito della traduzione prettamente filologica. Secondo Nida, lo scopo è sempre quello di avvicinare il testo al lettore e mai il contrario.

1.9 Theodore Savory
Theodore Savory, autore del testo da cui ho tratto il brano da me tradotto, presenta alcune teorie riguardo alla scelta tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile. Secondo Savory risulta vano qualsiasi tentativo di sviluppare teorie della traduzione in forma succinta, impossibilità generata anche dall’enorme mole confusa di indicazioni, tesi e princìpi proposti nel tempo dagli stessi traduttori. Queste indicazioni, spesso chiaramente in contraddizione l’una con l’altra, possono essere enunciate come segue:

1. Una traduzione deve rendere le parole dell’originale.
2. Una traduzione deve rendere i concetti dell’originale.
3. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare un testo originale.
4. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare una traduzione.
5. Una traduzione dovrebbe riflettere lo stile dell’originale.
6. Una traduzione dovrebbe possedere lo stile del traduttore.
7. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca dell’originale.
8. Una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca del traduttore.
9. Una traduzione può aggiungere né omettere elementi rispetto all’originale.
10. Una traduzione non deve mai aggiungere o omettere elementi rispetto all’originale.
11. Una traduzione di versi dovrebbe essere in prosa.
12. Una traduzione di versi dovrebbe essere in versi.

Molte di queste indicazioni hanno a che fare con il controverso tema della cosiddetta “fedeltà” al testo. Le tesi presentate da Savory sono a favore di una traduzione “fedele”, in quanto questo risulta il compito principale di un traduttore. Una traduzione “fedele” però

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non significa una traduzione letterale, parola per parola, in quanto quest’ultima costituisce la forma più primitiva di traduzione, adatta solo alle situazioni più banali e prosaiche.

Questa ipotesi viene scartata anche in nome del fatto che non esistono “equivalenti” a cui attingere tra le lingue. Il traduttore deve riconoscere di non essere l’autore del testo e il suo compito è quello di essere un interprete, di «agire da ponte» e di «permettere che Roma o Berlino parlino direttamente con Londra o Parigi». Viene tuttavia riconosciuta la difficoltà di mettere in pratica questo presupposto, ovvero la difficoltà di aderire con “fedeltà” al testo, difficoltà che induce i traduttori ad optare per la “libertà”. Tuttavia questa scelta viene criticata da Savory, secondo il quale in questo modo il traduttore «ha eluso la fatica di aderire strettamente alle parole e alle frasi originali», nel tentativo di appellarsi a un «principio» per poter giustificare le proprie scelte verso la libertà traduttiva e «tacitando la propria coscienza». Una traduzione di questo tipo, ovvero una traduzione che si “distacchi” dal testo e si avvalga di una maggiore “libertà”, può essere sostenuta da tre considerazioni, che Savory tuttavia smentisce. La prima è che se un’originale alla lettura appare come un originale, anche la sua traduzione dovrebbe sembrarlo. Secondo Savory tuttavia questa constatazione logica è strettamente dipendente dal lettore che fruisce della traduzione, concetto ripreso anche in seguito nell’analisi. In secondo luogo, se il traduttore ha un debito nei confronti dell’autore del testo, si potrebbe considerare altrettanto vero che anche l’autore sia in debito con il traduttore, che si trova ad essere il solo vero autore del testo che sta scrivendo. Questo potrebbe indurre i traduttori a concedersi una maggiore estensione di libertà, che però deve mantenersi entro dei limiti: essa può esprimere con esattezza la correttezza e la bellezza della lingua del traduttore, ma non deve essere più di questo. In terzo luogo, si potrebbe considerare il fatto che un traduttore spesso si trova ed essere l’ultimo di una lunga serie di altri traduttori che lo hanno preceduto, fatto che lo porterebbe a ricercare soluzioni sempre diverse, per non dover cadere nel confronto con altri traduttori. Savory smentisce anche questa ultima considerazione,

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sottolineando che questa propensione verso un’alternativa sempre diversa è insensata:

Quest’ultima prescrizione, se applicata in modo rigoroso, non ha senso. Virgilio scrisse, all’inizio della seconda parte dell’Eneide, «Conticuere omnes», che qualcuno ha tradotto con «tutti sono stati zittiti» e qualcun altro con «tutti erano in silenzio». Cosa può suggerire un nuovo traduttore? «Tutti tennero la lingua a freno».

È ingiustificabile inoltre sostenere a priori che il principale requisito di una traduzione sia quello di sembrare un’originale, in modo da poter essere letta con piacere. Savory sostiene che la caratteristica di sembrare alla lettura un testo originale dipende dal tipo di lettore e dalle sue ragioni per leggere quel determinato testo. Savory distingue quattro gruppi di ipotetici lettori: il lettore che ignora completamente la lingua d’origine, che legge per curiosità o interesse un testo tradotto; lo studente che sta imparando la lingua, avvalendosi dell’aiuto di una traduzione di un testo; il lettore che in passato conosceva la lingua, ma l’ha dimenticata; il lettore che conosce ancora la lingua. Dato che ognuno di questi lettori ha ragioni differenti per leggere una traduzione, risulta impossibile proporre una versione di traduzione che sia adatta a tutti. È necessario che la proposta di traduzione cambi sulla base del tipo di lettore: il lettore che non conosce la lingua è soddisfatto da una traduzione libera, lo studente è meglio aiutato da una traduzione letterale, il terzo preferisce una traduzione che sembri una traduzione per riportargli alla mente le conoscenze passate e il quarto può meglio divertirsi a valutare una traduzione più libera.

Per concludere, in linea di principio Savory è in favore di una traduzione filologica, che rispetti l’originale e vi aderisca. Sottolinea tuttavia che «una resa troppo letterale è sbagliata» e perfino

la sintassi dell’autore può aver bisogno di essere modificata per trasferire il suo effetto in un’altra lingua […]È un fatto ineluttabile, che i sostenitori di una traduzione precisa, accurata e letterale non possono negare.

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II

THEODORE SAVORY

ANALISI DEL TESTO DA TRADURRE

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Nell’analisi del testo da tradurre è importante prendere in considerazione numerosi aspetti che possono contribuire a facilitare il successivo processo traduttivo e soprattutto a rendere la traduzione del testo più adeguata possibile. Una traduzione viene definita adeguata quando conserva il prototesto come espressione di una cultura diversa, aiutando il lettore ad avvicinarsi all’originale e quindi alla cultura emittente.

È necessario quindi ricercare nel prototesto tutte quelle informazioni che ci possano essere d’aiuto. Queste informazioni possono essere suddivise in due categorie. La prima è quella dei fattori extratestuali, ovvero fattori esterni al testo linguistico e inerenti al contesto, quali la funzione del testo; l’autore empirico e l’autore modello; il lettore modello del prototesto e il lettore modello del metatesto; le coordinate spaziotemporali; il canale del messaggio. La seconda categoria è quella degli elementi interni al testo e comprende: il lessico, la sintassi, il registro e le marche per ognuna di queste categorie. Un ultimo ambito importante da prendere in considerazione nell’atto di analisi del testo da tradurre è quello della dominante, sia del prototesto, sia del metatesto.

2.1 Fattori extratestuali

2.1.1. Funzione del testo
La funzione del testo è un elemento fondamentale nell’individuare le strategie traduttive più adeguate. Seppur di regola sia necessario distinguere tra la funzione del prototesto nella sua cultura e la funzione del metatesto nella cultura ricevente, questa distinzione non risulta strettamente necessaria nel caso specifico del testo che ho tradotto, in quanto nell’atto traduttivo la funzione viene mantenuta identica anche per la cultura ricevente. La principale e fondamentale distinzione da fare riguardo alla funzione di un testo consiste nel determinare se si tratti di un testo chiuso o di un testo aperto, o cosa più probabile, se si collochi in una posizione intermedia tra questi due tipi estremi di testi. Un testo chiuso è un testo che si apre ad una sola interpretazione univoca, convogliando informazioni precise ad un genere di lettore altrettanto consapevole e preciso. Il libretto di istruzioni di un elettrodomestico costituisce un evidente esempio di testo chiuso, come

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anche un orario del treno o un elenco del telefono. Un testo aperto è invece un testo che si presta ad una molteplicità di interpretazioni, portando alla continua formulazione di ipotesi interpretative da parte del lettore, che verranno poi confermate o al contrario smentite andando avanti nella lettura. Questo atto di inferenze da parte del lettore e la loro smentita o conferma viene definito «circolo ermeneutico». L’esempio più evidente, per quanto estremo, di testo aperto è quello di una poesia.

Il prototesto da me preso in considerazione può essere definito come un testo principalmente aperto o espressivo. L’autore presenta la tematica da lui affrontata proponendo le proprie opinioni e i propri giudizi, producendo un testo in alcuni ambiti critico. È caratterizzato da molti degli elementi costitutivi di un testo aperto, come per esempio la presenza di rimandi intertestuali e un particolare stile marcato, con l’utilizzo talvolta di registri leggermente differenti a seconda del messaggio che intende trasmettere. In alcuni casi la decodifica del testo può essere molteplice e le asserzioni presentate dall’autore possono essere condivisibili o non condivisibili. Queste caratteristiche sono mantenute il più possibile anche nella traduzione.

Proviamo ad esemplificare queste caratteristiche prendendo in considerazione un passo del testo di Savory:

If, therefore, the proposition that translation is an art may be assumed in our opening chapters to have been established, translators must expect themselves to be subject to instruction, advice, correction and comment from all the three classes of persons who delight in offering these things – the informed, the uninformed, and the misinformed. Yet none of these three types of persons, not even the last and most dangerous, can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all unless they hold certain illuminating principles, in the light of which they speak. These principles now invite our attention. (Savory: 49)

In questo passo del testo l’autore introduce il tema fondamentale che verrà poi trattato in seguito, ovvero il bisogno di ricercare dei princìpi della traduzione che possano essere una guida sia per il traduttore principiante nell’avvio della sua professione, sia per coloro che svolgono attività di critica delle traduzioni, a partire dai critici professionali fino agli stessi

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lettori, i quali si trovano ad essere i primi veri fruitori di una traduzione e che sviluppano necessariamente propri giudizi riguardo alla traduzione che hanno davanti. Per quanto la funzione del passo citato sia quella appena esposta, il brano risulta avere diversi significati e implicazioni laterali, non espressamente indicati. Può essere infatti interpretato anche come una sorta di critica nei confronti di coloro che espongono le proprie valutazioni e i propri giudizi senza basarsi però su princìpi illuminanti che possano giustificare le loro esternazioni, critica ancor più evidente nell’uso di espressioni quali «[…] Yet none of these three types of persons […] can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all […]». Siamo quindi di fronte ad un testo principalmente aperto, come viene dimostrato, anche in questo esempio, dall’ambiguità nelle intenzioni dell’autore e quindi dalla decodifica molteplice del testo.

2.1.2. Autore empirico e autore modello
Di norma non è detto che l’autore modello (o autore implicito) coincida necessariamente con l’autore empirico, ovvero lo scrittore materiale del testo. In modo esplicito o implicito, quest’ultimo presenta al lettore modello una descrizione dell’autore, che talvolta può portare alla creazione di un autore implicito che non corrisponde alla persona che materialmente si trova ad essere l’autore del testo. Nel testo da me tradotto invece l’autore si presenta come se stesso, ovvero come Theodore Savory, rivolgendosi al lettore in prima persona. In questo brano quindi autore empirico e autore modello si trovano a coincidere.

2.1.3. Lettore modello del prototesto
Il lettore modello al quale il prototesto si rivolge è individuato nella figura di uno studente di traduzione o uno studioso che si avvicini alla pratica della traduzione. Indipendentemente dall’età, dal sesso o dall’origine geografica, l’autore si rivolge ad un gruppo specifico di studiosi o studenti che desiderano apprendere le nozioni principali della pratica della traduzione, ma anche ad un pubblico più ampio costituito da chiunque si interessi dell’argomento per motivazioni personali. Tuttavia ritengo che l’autore

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abbia anche avuto l’obbiettivo di rivolgersi a quei traduttori già affermati che si avvalgono di teorie e strategie traduttive differenti da quelle sostenute e praticate dall’autore, con lo scopo di sostenere le proprie tesi anche su una base critica nei confronti dei colleghi. Potremmo considerare l’apprendista traduttore come il lettore modello esplicito scelto dall’autore, mentre il traduttore già affermato a cui l’autore rivolge i propri giudizi come il lettore modello implicito.

2.1.4. Lettore modello del metatesto
Nell’analisi del testo da tradurre è importante considerare che il lettore modello del metatesto potrebbe non coincidere con il lettore modello del prototesto per diverse ragioni. I due testi presi in considerazione infatti nascono e vengono prodotti in due culture differenti e i lettori a cui si riferiscono provengono da due culture diverse. Inoltre bisogna considerare anche un terzo polo costituito dal traduttore e dalla sua cultura. È possibile che un testo sia perfettamente comprensibile dai lettori del prototesto in quanto facente perfettamente parte della loro cultura, ma non lo sia per i lettori del metatesto. Le funzioni dei due testi saranno di conseguenza diverse e così lo saranno anche i lettori modello. È quindi necessario prendere attentamente in considerazione le cosiddette coordinate cronotopiche, attraverso le quali si tiene conto di tutte le differenze tra le diverse culture, sia in termini cronologici che in termini spaziali. Fatta questa premessa, possiamo considerare il testo che ho deciso di tradurre. È stato scritto negli anni ‘50 in Inghilterra, mentre la mia proposta di traduzione è stata prodotta nel 2008 in Italia. C’è quindi una certa distanza cronotopica tra il testo originale e la mia versione e questo si evince particolarmente dallo stile e dal lessico dell’autore, che verrà esaminato in seguito. Tuttavia, la funzione del testo e di conseguenza il lettore modello rimangono invariati nonostante questa distanza, se si considera inoltre la particolare natura dell’argomento trattato, che prende in considerazione la difficoltà di trovare princìpi della traduzione universalmente riconoscibili, tentando però di fornire alcune indicazioni utili a coloro che si propongono di imparare a tradurre in modo adeguato. Allora come oggi il testo si rivolge agli apprendisti traduttori e le teorie presentate sono tuttora valide. Il lettore

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modello del metatesto quindi coincide con il lettore modello del prototesto e si è tenuto costantemente conto di questo elemento nella traduzione del testo da me proposta.

2.1.5. Canale del messaggio
Il canale del messaggio è un ulteriore elemento fondamentale da considerare nell’analisi traduttologica del testo da tradurre. Per canale si intende il mezzo, il medium attraverso il quale la comunicazione si svolge, fattore molto importante in quanto ci fornisce delle indicazioni indispensabili sulle modalità di trasmissione, la quantità delle informazioni convogliate e le modalità di ricezione del messaggio. Quello che ho tradotto è un testo scritto e il tipo di medium è quello di un libro, o più specificatamente un saggio. È importante inoltre considerare anche le dimensioni del medium, ovvero la quantità di lettori a cui il testo è rivolto. In questo ambito è necessario fare alcune considerazioni. Il testo è rivolto ad una quantità ipoteticamente ampia di lettori, non essendo un testo particolarmente scientifico o settoriale. È però da notare che il numero di lettori è ristretto a coloro che si interessano in maniera specifica della materia della traduzione. È inoltre necessario accennare alla difficile reperibilità del testo originale in Italia, il che costituisce un ulteriore limite al numero di lettori che potrebbero essere a conoscenza di questo testo.

2.2 Elementi interni al testo

2.2.1. Lessico
Benché la funzione del testo sia prettamente informativa, allo scopo di fornire suggerimenti e critiche per quanto riguarda lo sviluppo di teorie della traduzione, il lessico dell’autore, in alcuni casi caratteristico della ricerca traduttologica, non risulta essere particolarmente settoriale. I termini più tipici del settore sono infatti generici, mentre non vengono utilizzati termini settoriali e più scientifici. Alcuni esempi possono essere i termini «faithful» e «faithfulness», già di per sé generici e astratti anche nell’ambito delle teorie della traduzione. Anche le espressioni «literal» o «word-for-word translation» non risultano essere intese come espressioni peculiari nel

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contesto specifico e settoriale della scienza della traduzione. Il lessico dell’autore quindi è particolarmente semplice e non costituisce una difficoltà o un ostacolo alla lettura e alla comprensione del testo, quanto invece potrebbe costituirne al contrario la sintassi.

2.2.2 Sintassi
Il testo da me preso in considerazione presenta una struttura ben articolata in paratassi e ipotassi. In questo contesto risulta importante notare la presenza di periodi particolarmente lunghi. Questa lunghezza è data anche dalla frequenza di frasi subordinate, benché la caratteristica principale della sintassi del testo sia invece da ricercare nella prevalenza di frasi coordinate, con l’affiancamento di diverse proposizioni semplici, o nei frequenti elenchi. Si considerino i seguenti passi del prototesto:

The answer to this question is that a statement of the principles of translation in succinct form is impossible, and that a statement in any form is more difficult than might be imagined; and further that this difficulty has arisen from the writings of the translators themselves. (Savory: 49)

In consequence we are told, often enough, that it is entirely legitimate to include in a translation any idiomatic expression that the original may seem to suggest, or that first requisite of an English translation is that it shall be English, or that a translation should be able to pass itself off as an original and show all the freshness of original composition. (Savory: 52)

In questi paragrafi si può notare la struttura a elenco della periodo, secondo la costruzione «that…and that…and further that…» per il primo passo e «that…that…or that…or that…and…» per il secondo. Una struttura di questo genere contribuisce anche a rendere il ritmo del testo più rapido.

2.2.3 Registro
Il registro utilizzato dall’autore non risulta essere particolarmente alto. Il testo è infatti caratterizzato da uno stile prettamente discorsivo, in alcuni casi quasi colloquiale, allo scopo di avvicinarsi il più possibile al lettore. Questo obbiettivo è realizzato anche attraverso l’uso di espedienti particolari per coinvolgere il lettore in quello che si trova a leggere. Sono proposti

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numerosi esempi e alcuni racconti di episodi della vita dell’autore che hanno chiaramente lo scopo di coinvolgere e attrarre il lettore nella lettura. A questo scopo l’autore si rivolge in prima persona ai propri lettori, talvolta comprendendosi nell’esposizione di alcuni concetti, ponendosi allo stesso loro livello:

A reading of this paragraph would leave most of us in no doubt that a literal translation is too difficult a task, and would make us turn at once into the easier paths of freedom. (Savory: 52)

In consequence, we are told, often enough, that […] (Savory: 52)

Si può quindi dire che il registro utilizzato dall’autore è un registro standard, ma molto colto e raffinato, pervaso da una sottile ironia che lo rende molto godibile e lo stile del testo risulta essere discorsivo.

2.2.4 Dominante del prototesto e dominante del metatesto
La dominante del testo considerato viene individuata nello scopo di questa pubblicazione di esporre le teorie dell’autore riguardo al complesso ambito della traduzione, fornendo indicazioni e suggerimenti utili a chiunque si avvicini alla traduzione per interesse, studio o motivazioni personali. La dominante coincide, quindi, con la funzione informativa del testo, attraverso lo sviluppo di tesi e teorie e l’individuazione di limiti e difficoltà.
Oltre alla dominante del testo appena esposta, è possibile rintracciare una sottodominante: il testo esprime, in modo talvolta esplicito, numerose critiche ad altri traduttori e studiosi di traduzione. L’esposizione delle proprie tesi non risulta scevra di valutazioni e giudizi personali, presentati anche a sostegno delle teorie esposte. Per quanto riguarda la cultura ricevente, la dominante e le sottodominanti del prototesto rimangono tali anche nel metatesto, come rimangono tali anche molti altri fattori, quali il lettore modello e la funzione del testo.

2.3 Strategia traduttiva
Come è stato possibile constatare dall’analisi di alcuni autori e traduttori che si sono occupati durante la loro esperienza di teorie della traduzione e in modo più specifico, della contrapposizione tra traduzione filologica e

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traduzione leggibile, non è possibile arrivare alla creazione di una traduzione corretta in termini assoluti e universalmente riconosciuta. Durante il processo traduttivo, il traduttore si trova a fare una lunga serie di scelte interpretative e di associazioni, che necessariamente non possono che essere intese come personali e soggettive e che lo porteranno poi ad ulteriori e conseguenti scelte nell’atto traduttivo. Inoltre bisogna considerare le analoghe scelte adottate soggettivamente dall’autore del testo, che possono talvolta non essere riconosciute in modo esatto dal traduttore e che possono quindi andare a costituire un residuo. Il traduttore è quindi investito dell’arduo compito di trasferire un testo appartenente ad una cultura emittente, regolato dalle proprie regole, caratterizzato dalla proprie associazioni, interpretazioni e intenzioni, in un diverso testo appartenente ad una cultura ricevente, cultura che sarà dominata necessariamente da diverse regole e da diverse possibilità di interpretazione. Nell’atto di tradurre bisogna quindi assumersi la responsabilità di prendere numerose decisioni riguardo alle strategie traduttive, alcune delle quali possono modificare in modo cospicuo il risultato.

Per quanto concerne la strategia traduttiva da me seguita nella traduzione del testo di Savory, mi sono orientata verso una traduzione adeguata del testo. Alla luce dell’approfondimento teorico da me svolto, ritengo infatti che la scelta più giusta nell’ambito della strategia traduttiva sia quella di mantenere il prototesto come espressione della cultura in cui nasce, invogliando il lettore a coprire la distanza cronotopica tra i due testi e le due culture, piuttosto che avvicinare il prototesto ai lettori, appellandosi quindi al principio dell’accettabilità. Per quanto sia possibile che producendo un testo secondo il criterio dell’adeguatezza si vada ad offrire al lettore un testo probabilmente più difficile da seguire e di non facile comprensione immediata, non ritengo che questo sia il caso della mia proposta di traduzione, date alcune caratteristiche del testo originale, quali il lessico semplice e lo stile discorsivo, che hanno contribuito a produrre anche nella nostra metacultura un testo altrettanto semplice e scorrevole. Durante la traduzione ho sempre tenuto conto inoltre di tutti gli elementi costitutivi del testo, sia extratestuali che interni al testo. Ho quindi mantenuto inalterato il lettore modello e la funzione del testo, tenendo sempre presente la

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dominante del testo. Infine, ove possibile, la sintassi è stata riprodotta in modo simile anche nel metatesto.

2.4 Difficoltà e residuo traduttivo
Nella comunicazione interlinguistica, così come in ogni altro tipo di comunicazione, viene inevitabilmente a costituirsi un residuo. L’emittente riformula il proprio materiale psichico in un messaggio verbale, compiendo quindi un’operazione di codifica, che però avrà già di per sé un determinato residuo, costituito da tutto ciò che l’emittente si era riproposto di comunicare, ma che non è stato comunicato. Dopodiché avviene l’enunciazione verbale, durante la quale si possono verificare delle interferenze, risultanti in un nuovo residuo. Il traduttore poi dovrà compiere un ulteriore atto di codifica, producendo un nuovo residuo ogniqualvolta non comprendesse interamente il messaggio. Dovrà poi compiere nuovamente tutte le operazioni in precedenza svolte dall’autore del testo, che porteranno al formarsi di ulteriori residui, fino alla ricezione del messaggio da parte del lettore. È quindi fondamentale considerare che dalle intenzioni dell’autore del testo da me tradotto e il lettore della mia proposta di traduzione possono essersi verificati numerosi residui, ragione per la quale risulta necessario adottare tutte le misure possibili atte a limitarli. Nella traduzione del testo di Savory ho incontrato alcune difficoltà traduttive, soprattutto inerenti alla diversa ampiezza dei campi semantici tra le parole inglesi e quelle italiane. Si consideri per esempio la seguente frase:

A translation should read like an original work. (Savory: 50)

La forma verbale «to read like» ricorre in diversi punti del testo e fa sorgere alcune difficoltà traduttive, se si considera che in italiano non esiste un’analoga forma verbale che esprima il senso della frase. In italiano è quindi necessario riformulare il periodo per riuscire a trasmettere lo stesso significato semantico. Nella traduzione del testo, la soluzione da me proposta è stata:

Alla lettura la traduzione dovrebbe sembrare un testo originale.

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Mi sono perciò avvalsa di una forma verbale più generica, ovvero il verbo «sembrare», integrandola con l’espressione «alla lettura» per poter rendere il significato del verbo inglese «to read like».
Similmente, nel testo originale viene utilizzato il sostantivo «contemporary» nella seguente frase:

A translation should read as a contemporary of the original. (Savory: 50)

Anche in questo caso in italiano risulta necessario riformulare il periodo per riuscire a convogliare lo stesso significato semantico della frase originale. Ho deciso di risolvere questo problema utilizzando la seguente espressione: «la traduzione deve sembrare della stessa epoca dell’originale». Una difficoltà analoga è insorta nella traduzione del termine «“average borrower”», impossibile da esprimere in un’unica parola nella nostra lingua. È stata perciò necessaria una riformulazione della frase come segue: «“utente medio” che prende in prestito un libro».

Nella traduzione del testo ho inoltre incontrato alcune difficoltà derivanti dal frequente utilizzo nella lingua inglese di termini piuttosto generici che in italiano potrebbero essere resi avvalendosi di un ampio spettro di traducenti. Si prenda l’esempio del termine «business», causa di non pochi problemi in qualsiasi ambito lo si incontri. In alcuni casi può essere mantenuta la parola originale inglese anche in italiano, alla luce del sempre più frequente uso di inglesismi e americanismi nella nostra lingua. Tuttavia non è il caso del testo da me tradotto, nel quale questo termine si trova all’interno della seguente frase:

The very fact of their existence is in itself a real phenomenon for which an explanation must be sought; if it can be found it is likely to shed some light on the business of translation in general. (Savory: 50)

Lo spettro semantico di questo termine risulta essere piuttosto ampio e le possibilità di traduzione in italiano sono molteplici. Alcune proposte potrebbero essere: «azienda», «impresa», «affare», «attività», «faccenda», «questione», «compito», «lavoro». In questo caso ho deciso di cercare una soluzione individuando con esattezza quale fosse l’informazione che

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l’autore intendeva convogliare attraverso l’uso di questa espressione, distaccandomi dal significato del termine considerato al di fuori di un contesto. A questo scopo, ho perciò scelto di tradurre «business» con «processo», intendendo quindi il processo traduttivo, come segue:

Proprio il fatto stesso della loro esistenza costituisce di per sé un vero fenomeno, del quale va ricercata una spiegazione. Questa spiegazione, se trovata, potrebbe fare luce sul processo della traduzione in generale.

Infine, ho incontrato alcune difficoltà nella traduzione della frase: «Many must surely have shared this experience, which I have met in my own Common Room […]». Questo rappresenta un evidente esempio di come le differenze culturali possano portare il traduttore a dover fare delle precise scelte traduttive. In questo caso avrei potuto optare per un avvicinamento del prototesto al lettore, ovvero avrei potuto ricercare un termine nella nostra lingua che potesse riprodurre grosso modo il significato del termine inglese. Tuttavia ho ritenuto ancora una volta che la scelta migliore fosse quella di avvicinare il lettore alla cultura emittente. Il termine «Common Room» indica infatti un concetto ben preciso nella cultura anglosassone. Si tratta di fatti di un salottino presente nei college britannici, che difficilmente potrà essere tradotto in alcun modo nella nostra lingua, non esistendo una struttura analoga nelle nostre università. Mi sono quindi avvalsa dell’apparato metatestuale, spiegando in una nota il significato di questo termine così caratteristico della cultura emittente.

In conclusione, ho tentato di affrontare le diverse difficoltà di traduzione incontrate durante il lavoro, così come i residui traduttivi, mantenendo una strategia basata sul principio dell’adeguatezza, allo scopo di mantenere la massima espressione della cultura emittente nella cultura ricevente italiana.

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III

TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

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THE PRINCIPLES OF TRANSLATION

True translation is a metempsychosis. WILAMOWITZ

The artist, practise what he may, is never without his mentors, who are anxious to tell him what he ought to do, or his critics, who are as ready to tell him how he has done it. If, therefore, the proposition that translation is an art may be assumed in our opening chapters to have been established, translators must expect themselves to be subject to instruction, advice, correction and comment from all the three classes of persons who delight in offering these things – the informed, the uninformed, and the misinformed. Yet none of these three types of persons, not even the last and most dangerous, can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all unless they hold certain illuminating principles, in the light of which they speak. These principles now invite our attention. Can they, from the mass of words they have provoked, be disinterred, recognizably enunciated, and justified?

The answer to this question is that a statement of the principles of translation in succinct form is impossible, and that a statement in any form is more difficult than might be imagined; and further that this difficulty has arisen from the writings of the translators themselves. The truth is that there are no universally accepted principles of translation, because the only people who are qualified to formulate them have never agreed among themselves, but have so often and for so long contradicted each other that they have bequeathed to us a volume of confused thought which must be hard to parallel in other fields of literature.

To make plain the nature of the instructions which would-be translators have received, a convenient method is to state them shortly in contrasting pairs, as follows:

  1. A translation must give the words of the original.
  2. A translation must give the ideas of the original.
  3. A translation should read like an original work.
  4. A translation should read like a translation.

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I PRINCÌPI DELLA TRADUZIONE

La vera traduzione è una metempsicosi, WILAMOWITZ

L’artista, quale che sia la sua attività, non è mai senza i suoi mentori, sempre ansiosi di dirgli quello che deve fare, o i suoi critici, ugualmente pronti a dirgli come l’ha fatto. Pertanto se dai nostri capitoli iniziali possiamo presupporre fondata l’affermazione che la traduzione è un’arte, i traduttori devono aspettarsi di essere soggetti a insegnamenti, consigli, correzioni e commenti da parte di tutte e tre le categorie di persone che più si dilettano a offrirli: gli informati, i non informati e disinformati. Eppure nessuno di questi tre tipi di persone, neppure l’ultimo e il più pericoloso, può continuare ad alzare la voce con quella sostenuta fiducia in sé stesso che li caratterizza tutti, quando non ha alcuni princìpi illuminanti, alla luce dei quali parlare. Sono questi princìpi ad attirare ora la nostra attenzione. Possono essere dissotterrati dalla massa di parole che hanno provocato, enunciati in modo riconoscibile e giustificati?

La risposta a questa domanda è che risulta impossibile affermare i princìpi della traduzione in forma succinta e che affermarli in qualsiasi forma è più difficile di quanto si potrebbe immaginare; e inoltre che questa difficoltà è emersa dagli scritti dei traduttori stessi. La verità è che non esistono princìpi della traduzione universalmente accettati, in quanto le sole persone qualificate per la loro formulazione non sono mai giunte a un accordo, ma si sono così spesso e così a lungo contraddette a vicenda da tramandarci una massa di pensieri confusi che non ha uguali in altri campi del sapere.

Per spiegare la natura delle indicazioni che un aspirante traduttore riceve, un buon metodo è quello di enunciarle sinteticamente in coppie contrapposte come segue:

1. Una traduzione deve rendere le parole dell’originale.
2. Una traduzione deve rendere i concetti dell’originale.
3. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare un testo originale. 4. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare una traduzione.

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  1. A translation should reflect the style of the original.
  2. A translation should possess the style of the translator.
  3. A translation should read as a contemporary of the original.
  4. A translation should read as a contemporary of the translator.
  5. A translation may add to or omit from the original.
  6. A translation may never add to or omit from the original.
  7. A translation of verse should be in prose.
  8. A translation of verse should be in verse.

While some of these are clearly modifications or subdivisions of others, there is nevertheless a sufficient richness of choice to give the would-be translator a cause for embarrassment and bewilderment. The last two pairs of alternatives will be reserved for consideration in Chapter VI, after some attempt has been made to understand the existence of the rest. The very fact of their existence is in itself a real phenomenon for which an explanation must be sought; if it can be found it is likely to shed some light on the business of translation in general.

The pair of alternatives at the head of the list given above can be easily recognized as giving one form of expression to the distinction between the literal or faithful translation and the idiomatic or free translation. There has always been support for the translation which is as literal as it can well be made, support based on the conception that it is the duty of a translator to be faithful to his original. A translator, no less than any other writer, would not wish to incur the charge of being unfaithful; but before he can be certain of escaping this, he must have clearly in mind what faithfulness implies and in what faithfulness consists. It does not mean a literal, a word-for-word translation, for this is the most primitive type of translating, fit only for the most mundane and prosaic of matters; and even if faithfulness could be taken to mean this, there would remain the unavoidable fact that any one word in any language cannot invariably be translated by the same word in any other language.

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5. Una traduzione dovrebbe riflettere lo stile dell’originale.
6. Una traduzione dovrebbe possedere lo stile del traduttore.
7. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca dell’originale.
8. Una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca del traduttore.
9. Una traduzione può aggiungere né omettere elementi rispetto all’originale.
10. Una traduzione non deve mai aggiungere o omettere elementi rispetto all’originale.
11. Una traduzione di versi dovrebbe essere in prosa.
12. Una traduzione di versi dovrebbe essere in versi.

Mentre alcuni di questi princìpi sono chiaramente modifiche o suddivisioni di altri, c’è tuttavia una scelta tanto ricca da dare all’aspirante traduttore motivo di confusione e disorientamento. Le ultime due coppie di alternative verranno prese in considerazione nel sesto capitolo, dopo che saranno stati compiuti diversi tentativi per capire l’esistenza delle altre. Proprio il fatto stesso della loro esistenza costituisce di per sé un vero fenomeno, del quale va ricercata una spiegazione. Questa spiegazione, se trovata, potrebbe fare luce sul processo della traduzione in generale.

Si può facilmente riconoscere come le prime due alternative della lista sopra delineata esprimano la distinzione tra la traduzione letterale o fedele e la traduzione idiomatica o libera. Che la traduzione debba essere più letterale possibile ha sempre trovato appoggio, un appoggio basato sulla concezione che sia obbligo del traduttore essere fedele all’originale. Un traduttore, non meno di qualsiasi altro scrittore, non vorrebbe mai incorrere nell’accusa di essere infedele; ma prima di essere certo di sfuggire a questa accusa, deve tenere ben in mente che cosa implichi la fedeltà e in che cosa consista. Non significa una traduzione letterale, parola per parola, in quanto quest’ultima costituisce la forma più primitiva di traduzione, adatta solo alle situazioni più banali e prosaiche; e anche se si intendesse questo per «fedeltà», rimarrebbe il fatto ineluttabile che una parola in una determinata lingua non può essere tradotta invariabilmente con la stessa parola in ogni altra lingua.

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Most of us have read something of a man who was always described as pius Aeneas, and while we were quite sure that the adjective could not be translated by `pious’, we were equally sure that no one English word could properly be offered as its equivalent in every context.

One reason for the advocacy of faithfulness is that the translator has never allowed himself to forget that he is a translator. He is not, he recognizes, the original author, and the work in hand was never his own; he is an interpreter, one whose duty is to act as a bridge or channel between the mind of the author and the minds of his readers. He must efface himself and allow Rome or Berlin to speak directly to London or Paris. If he feels that he has done this, he may well be proud of his achievement. `My chief boast,’ said William Cowper, in writing of his Homer, `is that I have adhered closely to the original.’

But the translator who attempts to follow this principle soon runs into difficulties, which have never been better described than in the words of Rossetti.

The work of the translator (and with all humility be it spoken) is one of some self-denial. Often he would avail himself of any special grace of his own idiom and epoch, if only his will belonged to him; often would some cadence serve him but for his author’s structure – some structure but for his author’s cadence… Now he would slight the matter for the music, and now the music for the matter, but no, he must deal with each alike. Sometimes too a flaw in the work galls him, and he would fain remove it, doing for the poet that which his age denied him; but no, it is not in the bond.

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La maggior parte di noi ha letto qualcosa riguardo a un uomo che è stato sempre descritto come «pius Aeneas», e anche se eravamo tutti convinti che l’aggettivo non potesse essere tradotto con l’inglese «pious», eravamo altrettanto certi che nessuna parola inglese potesse essere offerta in modo appropriato come suo equivalente in qualsiasi contesto.

Una ragione per sostenere la fedeltà è che il traduttore non deve mai permettersi di dimenticare di essere un traduttore. Lui non è l’autore originale, lo ammette, e il lavoro che fa non sarà mai il suo; è un interprete, è colui il cui dovere è quello di agire da ponte o canale tra la mente dell’autore e la mente dei suoi lettori. Deve cancellare sé stesso e permettere che Roma o Berlino parlino direttamente con Londra o Parigi. Se riconosce di esserci riuscito, può essere fiero del suo risultato. «Il mio vanto maggiore» disse William Cowper durante la stesura del suo Homer, «è che sono stato molto aderente all’originale».

Ma il traduttore che tenti di seguire questo principio incontra presto delle difficoltà che non sono mai state descritte meglio che dalle parole di Rossetti:

Il lavoro del traduttore (sia detto con tutta l’umiltà possibile) è una sorta di abnegazione. Si avvarrebbe spesso di qualche grazia speciale del suo idioma e della sua epoca, se soltanto il suo arbitrio appartenesse a lui; spesso una certa cadenza farebbe proprio al caso suo, se non fosse per la struttura del suo autore o una certa struttura, se non fosse per la cadenza del suo autore… Ora preferirebbe la musicalità rispetto al contenuto e ora il contenuto rispetto alla musicalità, invece no, deve occuparsi allo stesso modo di entrambi. Qualche volta un’imperfezione nel lavoro lo infastidisce e la rimuoverebbe di buon grado, facendo per il poeta ciò che la sua epoca gli ha negato; e invece no, questo non è negli accordi.

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A reading of this paragraph would leave most of us in no doubt that a literal translation is too difficult a task, and would make us turn at once into the easier paths of freedom. This is why Postgate was moved to say that the principle of faithfulness was set up as a merit of true translation `by general consent, though not by universal practice’. Much that has been written in support of freedom in translation gives just this impression: the translator has shirked the labour of making a close approach to the original words and phrases, and lacks the discipline of self-denial described by Rossetti; whereupon he seeks to discover or to invent a `principle’ to which he can appeal, justifying his own actions and salving his own conscience.

In consequence we are told, often enough, that it is entirely legitimate to include in a translation any idiomatic expression that the original may seem to suggest, or that the first requisite of an English translation is that it shall be English, or that a translation should be able to pass itself off as an original and show all the freshness of original composition. These instructions all add up to a general implication that a translation must be such as may be read with ease and pleasure, coupled with the suggestion that if it is not easy and pleasant it will never be read and might as well never have been made.

The risks lie in the extent of the latitude which the translator permits himself. The limit is found, perhaps, in the casual words of our linguistic friends when we appeal to one of them for help with an almost illegible postcard just received from a foreign correspondent. Amused, they scan the document with an air of superior wisdom, and say `I can’t make it out, exactly, but roughly speaking what it means is … ‘ Many must surely have shared this experience, which I have met in my own Common Room, and they will agree that the only thing to do is to examine the card with a magnifying glass and decipher it word by word with a dictionary. Our friend’s free translation is too often quite valueless.

A more careful discussion of the characteristics of a translation which is both free and acceptable will bring to light three important points.

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La lettura di questo paragrafo non farebbe dubitare alla maggior parte di noi che la traduzione letterale sia un compito troppo arduo e ci farebbe prendere subito i sentieri più semplici della libertà. Questa è la ragione per la quale Postgate fu mosso a dire che il principio di fedeltà era riconosciuto come punto di merito della vera traduzione «per consenso generale, ma non pratica universale». Molto di ciò che è stato scritto a sostegno della libertà nella traduzione dà proprio questa impressione: il traduttore ha eluso la fatica di aderire strettamente alle parole e alle frasi originali e difetta di quella disciplina di abnegazione descritta da Rossetti; al che cerca di scoprire o di inventare un «principio» al quale appellarsi, giustificando le proprie azioni e tacitando la propria coscienza.

Di conseguenza ci sentiamo dire, abbastanza spesso, che è completamente legittimo inserire in una traduzione qualsiasi espressione idiomatica che l’originale sembra suggerire o che il primo requisito di una traduzione in inglese è che sia in inglese o che una traduzione riesca a passare per un originale e mostrare tutta la freschezza della composizione originale. Tutte queste istruzioni in genere implicano che una traduzione debba poter essere letta con facilità e piacere, insieme all’idea che se non è facile e piacevole non verrà mai letta e potrebbe anche non essere mai stata fatta.

I rischi stanno nella misura della libertà d’azione che il traduttore si concede. Il limite forse è da ricercare nelle parole un po’ casuali dei nostri amici linguisti quando ci rivolgiamo a uno di loro per farci aiutare con una cartolina quasi indecifrabile che abbiamo appena ricevuto da un corrispondente straniero. Divertiti, scrutano il documento con aria di saggezza superiore, e dicono: «Non riesco a decifrarla con esattezza, ma grosso modo il significato è…». Molti hanno sicuramente fatto questa esperienza che a me è capitata nella Common Room1 e concorderanno che l’unica cosa da fare è esaminare la cartolina con una lente di ingrandimento e decifrarla parola per parola con un dizionario. La traduzione libera del nostro amico è troppe volte quasi priva di valore.

Una discussione più approfondita delle caratteristiche di una traduzione che sia al contempo libera e accettabile porterà alla luce tre importanti punti.

1 Salottino presente nei college britannici.

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First, the too brief and dogmatic statement that a translation must read like an original may be supported by a show of reason. The original reads like an original: hence a translation of it should do so too. Common sense suggests that this is so; and the logical development of the notion is that from the translation alone the reader should not be able to determine whether it had been translated from French or Greek, from Arabic or Russian. Whether this is important or not seems to depend solely on the reader and on his reasons for using the translation. To this point we shall return.

Secondly, while there is admittedly a distinction between the original author and his translator, who must constantly remember his debt to the former, a translation is equally the result of original thought and considerable work by the translator. The author has an equivalent debt to his translator, who is in an undeniable degree the proprietor of the translation as such. This proprietorship may be assumed to permit, without further questioning, the introduction of departures from the precise phrasing of the original; and the only doubt remaining is the extent of the departure. This doubt is resolved not by the wishes of the translator, but by the nature of his language. The latitude may be sufficient to make of the translation an example of the translator’s language correct in idiom, expression and structure, but it should not be more than this.

Thirdly, there is the fact that, unlike the author, the translator is often one of a number, perhaps a large number, of writers who have preceded him at his task, and a translator of Goethe or Maupassant works with the knowledge that he is the latest of a series of writers who in the past have tried to find the best solutions to the many problems that now face him. This raises a question of some delicacy. If he has conceived a phrase which, he believes, exactly expresses the author’s meaning, and if he then finds that one or more of his predecessors have used it already, what should he do? Authority has spoken, not for the first time, with divided opinions.

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Innanzitutto, l’affermazione troppo concisa e dogmatica che la traduzione alla lettura debba sembrare un originale potrebbe essere sostenuta da una constatazione logica. Alla lettura l’originale sembra un originale, quindi anche una sua traduzione dovrebbe sembrarlo. Il senso comune suggerisce che sia così e lo sviluppo logico del concetto è che dalla sola traduzione il lettore non dovrebbe essere in grado di stabilire se sia stata tradotta dal francese o dal greco, dall’arabo o dal russo. Se questo sia importante o no sembra dipendere esclusivamente dal lettore e dalle ragioni per cui ricorre a una traduzione. Torneremo su questo punto in séguito.

In secondo luogo, se per ammissione generale esiste una distinzione tra l’autore originale e il suo traduttore, che deve costantemente ricordarsi del suo debito nei confronti del primo, una traduzione è comunque il risultato di riflessioni originali e di un considerevole lavoro da parte del traduttore. L’autore ha un equivalente debito nei confronti del traduttore il quale è innegabilmente il proprietario della traduzione in quanto tale. Si può presumere che questo diritto di proprietà permetta, senza ulteriori interrogativi, di distaccarsi dalla precisa formulazione dell’originale e l’unico dubbio che rimane è la misura di questo distacco. Questo dubbio viene risolto non dalla volontà del traduttore, ma dalla natura della sua lingua. In certi casi la libertà d’azione è sufficiente a fare della traduzione un esempio della lingua del traduttore corretta per idioma, espressione e struttura, ma non dovrebbe essere più di questo.

In terzo luogo, c’è il fatto che, diversamente dall’autore, il traduttore è spesso uno di un certo numero, magari un gran numero, di scrittori che lo hanno preceduto nel suo compito, e il traduttore di Goethe o Maupassant lavora con la consapevolezza di essere l’ultimo di una serie di scrittori che nel passato hanno cercato di trovare le migliori soluzioni ai molti problemi che ora sta affrontando lui. Questa affermazione solleva una questione di una certa delicatezza. Se crede di aver elaborato una frase che esprime esattamente il senso dell’autore e poi scopre che uno o più dei suoi predecessori l’avevano già utilizzata, cosa deve fare? Le autorità si sono espresse, non una sola volta, con opinioni contrastanti.

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There have been those who have said that a translation, when once made, must not be improved by comparison with its forerunners; and those who have gone further and asserted that such a comparison must be made for the purpose of removing any `fortuitous coincidences’. This, if strictly applied, is nonsense. Virgil wrote, at the beginning of the Second Aeneid, `Conticuere omnes’, which one has translated `All were hushed’ and another as `All were silent’. What can a new translator suggest? `They all held their tongues.’

A more acceptable point of view, put forward by Professor Postgate, gives a diametrically opposite opinion. If a translator who has done his best finds that some of his phrases have been used by others before him, he should in no way feel obliged to alter them. On the contrary, he has `one more reason for their retention’.

A translation may include any of the idiomatic expressions that are peculiar to its language and which the translator sees fit to adopt; but it need not, because of this, possess the style which every reader may expect. Style is the essential characteristic of every piece of writing, the outcome of the writer’s personality and his emotions at the moment, and no single paragraph can be put together without revealing in some degree the nature of its author. What is true of the author is true also of the translator. The author’s style, natural or adopted, determines his choice of a word, and, as has been seen, the translator is often compelled to make a choice between alternatives. The choice he makes cannot but be influenced by his own personality, cannot but reflect, though dimly, his own style. What does the reader expect; what does the critic demand?

One of the reasons for a preference for a literal translation is that it ought to come nearer to the style of the original. It ought to be more accurate; and any copy, whether of a picture or a poem, is likely to be judged by its accuracy.

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Ci sono stati quelli che hanno detto che una traduzione, una volta fatta, non deve essere migliorata attraverso il confronto con i suoi precursori e altri che sono andati oltre e hanno asserito che un tale confronto va fatto allo scopo di rimuovere qualsiasi “coincidenza fortuita”. Quest’ultima prescrizione, se applicata in modo rigoroso, non ha senso. Virgilio scrisse, all’inizio della seconda parte dell’Eneide, «Conticuere omnes», che qualcuno ha tradotto con «tutti sono stati zittiti» e qualcun altro con «tutti erano in silenzio». Cosa può suggerire un nuovo traduttore? «Tutti tennero la lingua a freno».

Un punto di vista più accettabile, presentato dal professor Postgate, dà un’opinione diametralmente opposta. Se un traduttore che ha fatto del suo meglio scopre che qualcuna delle sue espressioni è stata usata da altri prima di lui, non si deve assolutamente sentire obbligato a modificarla. Al contrario, ha un’ulteriore ragione per mantenerla.

Una traduzione può contenere qualunque di quelle espressioni idiomatiche caratteristiche della sua lingua e che il traduttore ritiene opportuno adottare; ma non deve per questo possedere lo stile che ogni lettore si aspetti. Lo stile è la caratteristica essenziale di ogni scritto, il risultato della personalità dell’autore e delle sue emozioni in quel momento, e nemmeno un paragrafo può essere composto senza rivelare in una certa misura la natura del suo autore. Quello che è vero per l’autore è vero anche per il traduttore. Lo stile dell’autore, naturale o adottato, determina la sua scelta di una parola e, come è stato visto, il traduttore è spesso obbligato a fare una scelta tra diverse alternative. La sua scelta non può che essere influenzata dalla sua personalità e non può che riflettere, anche se vagamente, il suo stile. Cosa si aspetta il lettore? Cosa pretende il critico?

Una delle ragioni per preferire una traduzione letterale è che deve avvicinarsi allo stile dell’originale. Deve essere più accurata e ogni copia, che sia di un dipinto o di una poesia, è probabile che venga giudicata sulla base della sua accuratezza.

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Yet the fact is that in making an attempt to reproduce the effect of the original, too literal a rendering is a mistake, and even the construction of the author’s sentences may need alteration in order to transfer their effects to another tongue. As Dr E. V. Rieu says, in introducing his translation of the Odyssey, `In Homer, as in all great writers, matter and manner are inseparably blended … and if we put Homer straight into English words neither meaning nor manner survives.’

This is the inescapable fact, which advocates of precise, accurate and literal translation cannot gainsay. The ideal that a translator may set before himself has been so admirably described by Ritchie and Moore1 that their words must be quoted:

Suppose that we have succeeded in writing a faithful translation of a characteristic page of Ruskin, and that we submit it for criticism to two well-educated French friends, one of whom has but little acquaintance with English, while the other has an intimate knowledge of our language. If the first were to say `A fine description! Who is the author?’ and the second ‘Surely that is Ruskin, though I do not remember the passage,’ then we might be confident that in respect of style our translation did not fall too far short of our ideal. We should have written French that was French, while it still kept the flavour of the original.

Here is a striking paragraph. One may feel that the situation envisaged is likely to occur but seldom, and yet as a touchstone of success it is invaluable.
Style is influenced not only by the personality of the writer but also by the period of history in which he lives; and translation includes the bridging of time as well as the bridging of space. Chaucer is usually said to have written English, yet many a reader of The Canterbury Tales finds them to be difficult to understand, and is glad to read them in a `translation’ or a version in contemporary English.

1 R. L. G. Ritchie and J. M. Moore, Translation from French (C.U.P., 1918). 46

Tuttavia il fatto è che nel tentativo di riprodurre l’effetto dell’originale, una resa troppo letterale è sbagliata e persino la sintassi dell’autore può aver bisogno di essere modificata per trasferire il suo effetto in un’altra lingua. Come dice il professor E. V. Rieu nell’introduzione alla sua traduzione dell’Odissea: «In Omero, così come in tutti i grandi scrittori, contenuto e stile sono fusi in modo inseparabile […] e se mettiamo Omero direttamente in parole inglesi, non sopravvive né il contenuto né lo stile».

È un fatto ineluttabile, che i sostenitori di una traduzione precisa, accurata e letterale non possono negare. L’ideale che un traduttore deve porsi è stato descritto in maniera così ammirevole da Ritchie e Moore1 che non si può non citare le loro parole:

Supponiamo di essere riusciti a scrivere una traduzione fedele di una pagina caratteristica di Ruskin e di sottoporla al giudizio di due cólti amici francesi, il primo con solo una limitata conoscenza dell’inglese, mentre il secondo con una conoscenza approfondita della nostra lingua. Se il primo dicesse: «Un’eccellente descrizione! Chi è l’autore?» e il secondo: «È sicuramente Ruskin, anche se non ricordo questo passo», potremmo essere sicuri che riguardo allo stile la nostra traduzione non si è allontanata troppo dal nostro ideale. Avremmo scritto in un francese che era francese, mantenendo l’essenza dell’originale.

Si tratta di un paragrafo sorprendente. Per quanto si possa pensare che la situazione immaginata accada solo raramente, è senza dubbio un’inestimabile pietra di paragone del successo.
Lo stile è influenzato non solo dalla personalità dell’autore, ma anche dal periodo storico nel quale vive, e la traduzione implica un ponte nel tempo così come un ponte nello spazio. Si dice solitamente che Chaucer abbia scritto in inglese, tuttavia molti lettori dei The Canterbury Tales li trovano difficili da comprendere e preferiscono leggerli in “traduzione”, in una versione in inglese contemporaneo.

1 R.L.G. Ritchie e J.M.Moore, Translation from French (Cambridge University Press, 1918). 47

Later than Chaucer, Archbishop Cranmer wrote in the Book of Common Prayer some of the loveliest English in existence, and yet there are clergymen today who think it desirable to change his words, and to read to their congregations such improvements as `truly and impartially administer justice’, lest our magistrates be thought to be administering an `indifferent’ system of law.

With regard to translation in general, the problem may be put thus. Cervantes published Don Quixote in 1605; should that story be translated into contemporary English, such as he would have used at that time had he been an Englishman, or into the English of today? There can be, as a rule, very little doubt as to the answer, for in most cases a reader is justified in expecting to find the kind of English that he is accustomed to use. If a function of translation is to produce in the minds of its readers the same emotions as those produced by the original in the minds of its readers, the answer is clear. Yet there is need to notice in passing the possibility of exceptions whenever the original author is read more for his manner than his matter. We may read the speeches of Cicero, for example, chiefly that we may have an opportunity to appreciate his eloquence. Of recent years the most eloquent speaker of English has been Sir Winston Churchill, and Churchill’s style was not Cicero’s style. Should a speech by Cicero be so translated as to sound as if it had been delivered by Churchill? No.

We return to the statement made above that the existence of so wide a divergence of opinions among the experts is in itself a phenomenon that calls for explanation.
Part of the explanation is no doubt to be found in the normal variability of the human mind, and this alone is enough to account for a preference by some readers for a literal translation and a preference by others for a free one; for a preference by some for continual reminders that they are reading a translation, and a preference by others for no such thing. But this is not enough to account for the whole of the diversity.

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Successivamente a Chaucer, l’arcivescovo Cranmer scrisse il Book of Common Prayer in un inglese tra i più amabili che esistano, e tuttavia vi sono ancora ecclesiastici che ritengono auspicabile cambiare le sue parole, e leggere alle loro congregazioni varianti come: «truly and impartially administer justice», per paura che si pensi che i nostri magistrati amministrino un sistema di legge “indifferente”.

Per quanto riguarda la traduzione in generale, la questione si può porre come segue. Cervantes pubblicò il suo Don Quijote nel 1605; quell’opera va tradotta in un inglese seicentesco, come quello che avrebbe usato a quel tempo Cervantes se fosse stato inglese, o in inglese odierno? Di regola ci possono essere ben pochi dubbi riguardo alla risposta, in quanto nella maggior parte dei casi è giustificabile che un lettore si aspetti di trovare il tipo di inglese che è abituato a usare. Se una funzione della traduzione è quella di produrre nella mente dei lettori le stesse emozioni prodotte dall’originale nella mente dei lettori, la risposta è chiara. Tuttavia incidentalmente è necessario considerare la possibilità di eccezioni ogni volta che l’autore originale viene letto più per il suo stile che per i contenuti. Potremmo leggere i discorsi di Cicerone, per esempio, principalmente per poter avere la possibilità di apprezzare la sua eloquenza. Negli ultimi anni l’oratore inglese più eloquente è stato Winston Churchill, e lo stile di Churchill non era lo stile di Cicerone. Un discorso di Cicerone va tradotto in modo da sembrare pronunciato da Churchill? No.

Torniamo all’affermazione fatta in precedenza che l’esistenza di una così ampia divergenza di opinioni tra gli esperti è di per sé un fenomeno che richiede una spiegazione.
Parte della spiegazione è indubbiamente da ricercare nella normale variabilità della mente umana e già questo è sufficiente a giustificare la preferenza di alcuni lettori per una traduzione letterale e la preferenza di altri per una libera; che alcuni lettori preferiscano avere sempre presente che stanno leggendo una traduzione e che altri preferiscano ignorarlo. Ma questo non è sufficiente a giustificare tanta diversità di strategie.

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The most probable reason is neglect by the critic of the reader’s point of view. Readers of translations do not differ only in their personal preferences, they differ also, and most significantly, in the reasons for which they are reading a translation at all. The primitive function of translation, let it be repeated, is the utilitarian one of overcoming ignorance of the language of the original; but many translations are read by those who know the original language quite as well as does the translator, and who, when they see fit to criticize, cannot rid their minds of this fact. They seem to forget that to the reader who is completely ignorant of the original language, and likely to remain so, their criticisms may seem to be quite pointless, and that such a reader may have found the translation to be pleasing and satisfying. He may even be led to study the original language.

For whom, then, are translations intended? At least four groups can be distinguished.
The first is the reader who knows nothing at all of the original language; who reads either from curiosity or from a genuine interest in a literature of which he will never be able to read one sentence in its original form. The second is the student, who is learning the language of the original, and does so in part by reading its literature with the help of a translation. The third is the reader who knew the language in the past, but who, because of other duties and occupations, has now forgotten almost the whole of his early knowledge. The fourth is the scholar who knows it still.

These four types of readers are obviously using translations for recognizably different purposes, and it must follow from this that, since different purposes are usually achieved by different methods and with the help of different tools, the same translation cannot be equally suited to them all. In other words, this concept of reader-analysis will demonstrate that each form of translation has its own function, which it adequately fulfils when used by the type of reader for whom it was intended.

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La ragione più probabile è il disinteresse della critica per il punto di vista dei lettori. I lettori delle traduzioni non differiscono solo per le preferenze personali, differiscono anche, e in maniera più significativa, proprio per le ragioni per cui leggono una traduzione. La funzione primigenia della traduzione, ripetiamolo, è quella utilitaria di superare l’ignoranza della lingua dell’originale; ma molte traduzioni sono lette da persone che conoscono la lingua d’origine quasi come il traduttore e che, quando pensano che sia il caso di criticare, non riescono a dimenticarsi di questo fatto. Sembrano dimenticare che al lettore completamente ignorante della lingua d’origine, e che probabilmente lo rimarrà, le loro critiche possono sembrare poco pertinenti, e che questo stesso lettore potrebbe aver trovato la traduzione piacevole e soddisfacente. Potrebbe anche essere invogliato a studiare la lingua d’origine.

Per chi, quindi, sono concepite le traduzioni? Si possono distinguere almeno quattro gruppi.
Il primo è il lettore che non sa nulla della lingua d’origine, che legge o per curiosità o per un interesse autentico per una letteratura della quale non sarà mai in grado di leggere nemmeno una frase nella sua forma originale. Il secondo è lo studente che sta imparando la lingua dell’originale, e lo fa in parte leggendo la letteratura con l’aiuto di una traduzione. Il terzo è il lettore che conosceva la lingua in passato, ma che, a causa di altri compiti e occupazioni, ha ora dimenticato quasi tutto ciò che sapeva in precedenza. Il quarto è lo studioso che la conosce ancora.

Questi quattro tipi di lettori ovviamente usano una traduzione per scopi evidentemente differenti, e da questo consegue che, dato che scopi differenti si raggiungono generalmente attraverso metodi differenti e con l’ausilio di strumenti differenti, la stessa traduzione non può essere parimenti adatta a tutti loro. In altre parole, questa concezione di analisi del lettore dimostrerà che ogni forma di traduzione ha la propria funzione che adempie in modo adeguato quando viene utilizzata dal tipo di lettore per il quale era stata concepita.

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Let this be amplified. One can so easily imagine the words that form themselves on the lips of readers as they pick up a new volume in translation. The first says to himself, `What is this book about? Why do I hear other people mention it so often? What of interest has the writer got to say?’ The second says, `This will help me more quickly to understand what the writer had to say about his subject; by quicker reading I shall get a better grasp of his ideas.’ The third says, ,Only to think that once, and not so long ago, I was able to read this book properly for myself. How the translation brings it all back: those were the days!’ And the fourth says, `Let me see what poor old So-and-so has made of this. I love it myself; I hope he has not ruined its beauty.’

To these four kinds of readers our four alternative kinds of translations fit themselves naturally and completely.
The ignoramus is happy with the free translation; it satisfies his curiosity, and he reads it easily without the pains of thought. The student is best helped by the most literal translation that can be made in readable English: it helps him to grasp the implications of the different constructions of the language he is studying, and points out the correct usage of the more unfamiliar words. The third prefers the translation that sounds like a translation; it brings back more keenly the memories of his early scholarship and gives him a subconscious impression that he is almost reading the original language. And the fourth, who knows both the matter and style of the original, may find pleasure in occasional touches of scholarship or may, perhaps, enjoy making comments that are more caustic and critical.

Readers of all these kinds abound. Anyone who, like the present writer, has served for nearly twenty years on a Public Library Committee, knows that the `average borrower’ is a fictitious personage who is not to be found among the rate-payers of his district; and that of any work of great reputation every translation that is put on the library shelves will have its own share of admirers. Further than this, many a borrower may consult more than one translation. Two translations are four times as good as one, and in the broad span of literary adventure there is a welcome place for them all.

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Si sviluppi ora questo concetto. Ci si può facilmente immaginare le parole che si delineano sulle labbra dei lettori quando prendono in mano un nuovo volume tradotto. Il primo si chiede: «Di cosa tratta questo libro? Perché ne sento parlare così spesso dalla gente? Cosa ha da dire di interessante l’autore?». Il secondo dice: «Questo mi aiuterà a capire più velocemente quello che l’autore aveva da dire su questo argomento; con una lettura più veloce afferrerò meglio le sue idee». Il terzo dice: «E pensare che una volta, e non molto tempo fa, ero in grado di leggere questo libro correttamente da solo! La traduzione mi fa rivivere tutto quanto: quelli erano giorni!». E il quarto dice: «Vediamo cosa ne ha fatto il povero vecchio Tizio. Io lo trovo molto bello; speriamo che non l’abbia rovinato».

A questi quattro tipi di lettore le nostre quattro traduzioni alternative si addicono in modo naturale e completo.
L’ignorante si trova bene con la traduzione libera; la sua curiosità è soddisfatta, e la legge con facilità senza darsi pena di pensare. Lo studente è aiutato nel migliore dei modi dalla traduzione più letterale che si possa fare in un inglese leggibile: lo aiuta ad afferrare le implicazioni delle diverse costruzioni della lingua che sta studiando e indica l’uso corretto delle parole meno familiari. Il terzo preferisce una traduzione che sembri una traduzione: gli riporta alla mente in modo più vivido i ricordi della conoscenza di un tempo e gli dà l’impressione inconscia di leggere quasi la lingua originale. E il quarto, che conosce sia il contenuto che lo stile dell’originale, può trovare piacevoli gli occasionali tocchi di erudizione o forse può divertirsi a fare commenti più caustici e critici.

Abbondano lettori di tutti questi tipi. Chiunque, come il sottoscritto, sia stato al servizio per quasi vent’anni nella commissione di una biblioteca pubblica, sa che l’“utente medio” che prende in prestito un libro è un personaggio finzionale che non si concretizza in nessuno degli utenti del distretto; e sa che, per ogni opera che gode di una buona reputazione, qualsiasi traduzione posta sugli scaffali della biblioteca avrà la sua porzione di ammiratori. Inoltre, molti utenti della biblioteca potrebbero consultare più di una traduzione. Due traduzioni sono quattro volte meglio di una, e nell’ampio arco dell’avventura letteraria c’è posto per dare il benvenuto a tutte.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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RINGRAZIAMENTI

Innanzitutto, un ringraziamento particolare va al mio relatore, il professor Osimo, per aver accettato anche all’ultimo momento e già sovraccarico di impegni di seguirmi in questo lavoro e per avermi pazientemente aiutata con i suoi consigli e le sue indispensabili indicazioni durante tutto il percorso.

Un grazie sentito alla professoressa Colosio per avermi dato un aiuto nell’analisi traduttologica che è andato ben oltre le mie aspettative. I suoi suggerimenti e le sue correzioni sono stati fondamentali.

Vorrei infine ringraziare il professor Ross e la professoressa Aichner per essere stati così gentili da correggere i miei abstract in inglese e in tedesco in così poco tempo.

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SARA CARLA LAMPERTI Zelig di Woody Allen Analisi comparativa dei sottotitoli

Zelig
Analisi comparativa dei sottotitoli

SARA CARLA LAMPERTI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Aprile 2007

© 1983 Woody Allen, Zelig, Metro-Goldwin-Mayer Pictures Inc. © 2007 Sara Carla Lamperti per la tesi

ABSTRACT IN ITALIANO

In questo elaborato è stata effettuata l’analisi comparativa tra la versione in inglese e la versione in italiano di una parte dei sottotitoli di film del celebre regista americano Woody Allen. Il film in questione è Zelig (1983), un finto documentario di cui è protagonista il curioso Leonard Zelig, che sconvolge l’America degli anni ’20 e ’30 con la sua capacità di trasformarsi in chiunque gli stia accanto. Per eseguire il confronto tra prototesto (in inglese) e metatesto (in italiano) si è fatto ricorso ad un metodo di sintesi tra due differenti approcci: uno è il modello di Leuven-Zwart, che prima analizza i cambiamenti a prescindere dal contesto testuale specifico, per poi trarre conclusioni sul testo nell’insieme; l’altro è il modello cronotopico di Torop, che prima analizza il testo specifico e poi controlla quali sono i cambiamenti effettuati sulla poetica del testo stesso.

ENGLISH ABSTRACT
In this thesis a comparative analysis of a part of the English and the Italian subtitles of a film by the famous American director Woody Allen was carried out. The film is Zelig (1983), a mockumentary whose main character is Leonard Zelig. He is a curious man who has the ability to change his appearance to that of the people he is surrounded by and stirs American people with his story during the ‘20s and ‘30s. In order to make the comparison between the source and the target text (respectively, the English and the Italian version), a method that summarizes two different approaches was employed: one is the Leuven-Zwart model, which firstly analyses the changes leaving aside the specific textual context and then draws conclusions about the text as a whole; the other one is the chronotopic model by Torop, which firstly analyses the specific text and then controls the changes implemented on the text’s poetics.

ABSTRACT EN ESPAÑOL
En esta tesina llevamos a cabo el análisis comparativo entre la versión en inglés y la versión en italiano de una parte de los subtítulos de una película. La película en cuestión es Zelig (1983), del célebre director estadounidense Woody Allen. Se trata de un falso documental, cuyo protagonista es el curioso Leonard Zelig, un hombre que tiene la capacidad de convertirse en quienquiera se encuentre a su lado y que trastorna con su historia la sociedad estadounidense de los años 20 y 30. A fin de comparar el prototexto (en inglés) y el metatexto (en italiano), recurrimos a dos planteamientos distintos: uno es el modelo de Leuven-Zwart, que en primer lugar examina los cambios prescindiendo del contexto textual específico y luego saca conclusiones sobre el texto en su totalidad; el segundo es el modelo cronotópico de Torop, que en primer lugar estudia el texto específico y luego controla los cambios aportados en la poética del texto.

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Sommario

Abstract…………………………………………………………………………………………………………….. 3

Sommario …………………………………………………………………………………………………………. 4

Primo capitolo – Introduzione ……………………………………………………………………………… 5 1.1 Breve storia della nascita e dell’evoluzione del sottotitolaggio ……………………….. 5 1.1.1 L’avvento del DVD …………………………………………………………………………….. 6 1.2 I sottotitoli e la traduzione audiovisiva…………………………………………………………. 9 1.3 Tipi di sottotitoli ……………………………………………………………………………………….. 9 1.4 Il film …………………………………………………………………………………………………….. 11 1.4.1 Il DVD di Zelig ………………………………………………………………………………… 14 1.5 Il regista …………………………………………………………………………………………………. 15

Capitolo secondo – Metodologia del raffronto tra due testi ……………………………………. 18 2.1 Introduzione all’analisi comparativa ………………………………………………………….. 18 2.2 Il raffronto tra i due testi: un modello di sintesi …………………………………………… 22

Capitolo terzo – Analisi di una parte di Zelig ………………………………………………………. 24 3.1 Presentazione del materiale empirico …………………………………………………………. 24 3.2 Analisi comparativa vera e propria…………………………………………………………….. 24 3.3 Conclusioni…………………………………………………………………………………………….. 40

Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………. 42 Ringraziamenti ………………………………………………………………………………………………… 45

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Primo capitolo – Introduzione
1.1 Breve storia della nascita e dell’evoluzione del sottotitolaggio

Al momento della sua nascita, nel 1895, il cinema era muto. L’immagine, quindi, fu l’elemento preponderante delle prime produzioni cinematografiche. Alla fine degli anni ’20 però venne inventato il sonoro e la realtà cinematografica si ritrovò immersa nella dicotomia audiovisiva.

Tuttavia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro non avvenne in modo brusco: infatti, tra il 1919 e il 1930, il divenire argomentale dei film smise gradualmente di basarsi solo sull’immagine e iniziò a fare ricorso alla parola scritta per facilitare la comprensione. Tale materiale discorsivo era conosciuto con il nome di «intertitolo» (o «didascalia»), diretto precursore del sottotitolo. Si trattava di brevi sequenze di commenti descrittivo-esplicativi o di brevi dialoghi proiettati tra le scene di un film.

Il passaggio dagli intertitoli ai sottotitoli come li conosciamo oggi fu rapido: già dal 1917 gli intertitoli vennero spesso sovrapposti – e non più interposti – alle immagini, e nel 1927 sparirono definitivamente lasciando spazio al vero e proprio sottotitolo.

Sin dalla nascita, il processo di sottotitolaggio ha subìto molte trasformazioni, si è evoluto, è migliorato e si è affinato grazie all’ammodernamento delle tecniche coinvolte. Sull’evoluzione dei sottotitoli hanno avuto grande influenza anche i media: inizialmente ideati per il cinema, sono poi stati usati anche per la televisione. In breve tempo però ci si è resi conto che, a causa delle notevoli differenze tra i due mezzi, i sottotitoli preparati per il cinema non sono adatti per essere mandati in onda in televisione.

Nemmeno la ricezione del pubblico è la medesima: è stato infatti dimostrato che la velocità di lettura degli spettatori dipende anche dal mezzo che trasmette i sottotitoli (per leggere i sottotitoli al cinema si necessita il 30% di tempo in meno rispetto al tempo necessario per leggere gli stessi sottotitoli sul piccolo schermo).

È quindi chiaro che non esiste un sottotitolo universale, adatto a tutti i contesti: il sottotitolo deve essere costruito diversamente in base al media specifico per cui viene preparato. E infatti il sottotitolaggio di un prodotto audiovisivo per la televisione, quello

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per il cosiddetto home entertainment – che comprende le ormai obsolete videocassette e gli innovativi DVD – e quello per il cinema si avvalgono di strumenti e processi tecnici differenti.

1.1.1 L’avvento del DVD

Sin dalla nascita del sottotitolaggio, il modo in cui i sottotitoli sono stati creati e presentati sullo schermo ha subito molti cambiamenti, dettati soprattutto dagli sviluppi nella tecnologia. A metà degli anni ’80 l’uso dei computer ha rivoluzionato il processo di sottotitolaggio, ma è stata la comparsa del formato digitale a provocare la vera rivoluzione nella produzione dei sottotitoli – soprattutto per quanto riguarda quelli di tipo interlinguistico – in quanto ha portato con sé la possibilità di realizzare e inserire in un DVD sottotitoli in più lingue.

Un DVD (acronimo di Digital Versatile Disk), infatti, arriva a contenere fino a 17 gigabyte di informazioni e può proporre sottotitoli in un numero notevole di lingue diverse, fino ad un massimo di 32. Proprio la grande possibilità offerta da questa nuova tecnologia ha spinto le più grandi case di produzione hollywoodiane a fare richieste sempre crescenti all’industria del sottotitolaggio, che nello scorso decennio ha finito per rendere la propria produzione – sino ad allora realizzata a livello locale – sempre più centralizzata e globalizzata.

Anche la questione dei costi ha influenzato fortemente il modo in cui il lavoro viene svolto: la produzione centralizzata dei DVD in opposizione a quella realizzata a livello locale (cioè direttamente nei paesi in cui i DVD vengono venduti) è decisamente meno costosa per le case di produzione.

I principali centri di distribuzione per le case di produzione di Hollywood si trovano a Los Angeles e a Londra e proprio dalle maggiori agenzie di sottotitolaggio che sono situate in queste due città è giunta la risposta alle necessità del mercato. Le agenzie hanno tratto vantaggio dalla disponibilità di traduttori professionali che operavano in quelle due città e si sono specializzate nel sottotitolaggio interlinguistico.

Tre sono i problemi principali che queste agenzie hanno dovuto affrontare:

– trovare un modo per produrre i sottotitoli in tutte le lingue richieste, nel minor tempo possibile, con costi ridotti;

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  • –  trovare un modo per gestire e controllare i sottotitoli in modo centralizzato, senza bisogno di avere all’interno dell’agenzia tutti i traduttori delle lingue in cui i sottotitoli vengono preparati;
  • –  trovare tutti i sottotitolatori necessari per produrre i sottotitoli in tutte le lingue desiderate.La soluzione a tutti questi problemi è arrivata con i template, file di base che

vengono utilizzati come modello per creare altri documenti, ossia una sorta di prodotto preconfezionato pronto per essere personalizzato. Questi template non sono altro che file contenenti i sottotitoli in inglese di un dato prodotto audiovisivo: da tali file si parte per realizzare i sottotitoli in tutte le altre lingue. In questo modo il processo di sottotitolaggio viene suddiviso in due fasi: il timing (tramite il quale si stabiliscono l’inizio, la durata e l’articolazione dei sottotitoli) e la traduzione. Il timing è un aspetto tecnico del processo di sottotitolaggio e viene realizzato da parlanti madrelingua inglese, i quali producono il file di sottotitoli che verrà utilizzato durante la seconda fase, ossia quella della traduzione dei sottotitoli nelle altre lingue.

L’uso dei template file si è diffuso sempre più e ora essi vengono accompagnati anche da altri tipi di file, volti ad aiutare chi esegue la traduzione. Tra questi file, per esempio, vi è quello delle note traduttive, che offre delucidazioni sullo slang, sulle espressioni culturospecifiche o comunque su tutto ciò che un parlante inglese non madrelingua potrebbe ritenere poco chiaro. Lo scopo delle note è quello di aiutare i traduttori a superare qualsiasi problema di comprensione del prototesto e guidarli così alla realizzazione di un metatesto più accurato. Un altro tipo di file che accompagna i template può essere quello in cui il committente dà istruzioni specifiche sullo stile da mantenere, sul trattamento delle canzoni, e/o su elementi prettamente tecnici, come l’allineamento dei sottotitoli, il ricorso a certi caratteri, ecc.

L’uso di questi file base in inglese, che stabiliscono tempi fissi e un numero fisso di sottotitoli, ha dimostrato di essere necessario al fine di rispondere alle richieste sempre più esigenti. Ecco quali sono i vantaggi che comporta il ricorso ai template:

– gli errori dovuti alla mancata comprensione dell’audio originale – generalmente in inglese – si riducono al minimo perché, come già detto, i template file sono prodotti da parlanti madrelingua inglese. In parlanti non madrelingua potrebbero infatti incontrare serie difficoltà, soprattutto nel caso

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dei materiali cosiddetti “extra”, quali il commento audio, i making of e le scene eliminate. Ciò è dovuto al fatto che quasi sempre tali extra non sono accompagnati da un copione e sono di scarsa qualità dal punto di vista acustico;

  • –  i tempi di produzione si riducono;
  • –  i costi si riducono a loro volta perché i film – o comunque le opere audiovisive– vengono sottoposte al timing una sola volta, nella versione in inglese; anche il costo del lavoro subisce un abbassamento, in quanto i traduttori non devono più compiere mansioni di tipo tecnico, ma devono solo occuparsi della traduzione;
  • –  per le agenzie di sottotitolaggio che si occupano di sottotitoli multilingui si risolvono i problemi di reperimento di professionisti: non è più necessario reclutare sottotitolatori in tutte le lingue coinvolte in un progetto. Infatti, anche traduttori che non hanno alcuna esperienza o preparazione nel campo del sottotitolaggio possono cimentarsi in questo tipo di lavoro, visto che non si devono occupare degli aspetti tecnici ma solo della traduzione.Questo metodo di lavoro ha suscitato molti dubbi riguardo la qualità dei sottotitoli prodotti. Ovviamente nessuno può assicurare che durante tale processo non vengano commessi errori, soprattutto perché molto dipende dalla cura e dall’impegno con cui si creano i template. La qualità del prodotto finito dipende dall’esperienza e dalla professionalità dello staff coinvolto nel processo e questo vale per l’industria del sottotitolaggio per i DVD come per l’industria della traduzione in generale.Tuttavia va sottolineato che con questo metodo vengono tutelati i tre “ritmi” che caratterizzano un buon sottotitolaggio (Mary Carrol, 2004):
  • –  il ritmo visivo del film come definito dai tagli del regista;
  • –  il ritmo del discorso degli attori;
  • –  il ritmo di lettura del pubblico,dato che il materiale di partenza, e quindi i punti in cui gli attori aprono e chiudono la bocca per pronunciare i dialoghi, resta lo stesso.

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1.2 I sottotitoli e la traduzione audiovisiva

«Traduzione audiovisiva» è l’espressione oggi utilizzata per fare riferimento alla dimensione multisemiotica di tutte le opere cinematografiche e televisive i cui dialoghi subiscono una traduzione. Il testo audiovisivo rappresenta un tipo testuale a sé e nasce dalla combinazione di diverse componenti semiotiche. Nel testo audiovisivo la sfera visiva e quella sonora, che comprende non solo i dialoghi ma anche suoni e rumori (la cosiddetta «colonna sonora»), si combinano e danno vita ad un testo complesso e multicodice, la cui traduzione può essere problematica.

Il sottotitolaggio è uno dei numerosi metodi di trasferimento e adattamento linguistico in cui si esplicita la traduzione audiovisiva. In virtù del fatto che comporta il trasferimento dalla lingua orale a quella scritta, questo metodo si contrappone agli altri – tra cui vi sono anche il famoso doppiaggio e il meno noto voice-over – che sono essenzialmente orali. Per questo motivo, il sottotitolaggio risulta la forma di trasferimento e adattamento più complessa e più interessante.

A livello tecnico, i sottotitoli devono rispettare regole e restrizioni fisiche imprescindibili. Essi, infatti, sottostanno innanzitutto a restrizioni di natura formale o quantitativa che riguardano la loro disposizione sullo schermo, lo spazio e il tempo di esposizione che possono occupare su di esso, la lunghezza delle battute degli attori; tutto questo influenza, e a volte determina, le scelte traduttive.

1.3 Tipi di sottotitoli

Díaz Cintas (2001: 25) ed Elisa Perego (2005: 60), affermano che, in base a criteri di carattere linguistico, si distinguono due tipi di sottotitolaggio: quello intralinguistico e quello interlinguistico.

Il sottotitolaggio intralinguistico consiste nella trascrizione totale o parziale dei dialoghi nella stessa lingua della colonna sonora originale del film ed è rivolto a due tipi di destinatari, con esigenze differenti. Si tratta di soggetti sordi o che hanno problemi di udito a diversi livelli, nonché di coloro che intendono apprendere una lingua straniera. Per i primi, a cui generalmente sono rivolti sottotitoli intralinguistici ridotti, la lettura del sottotitolo è il mezzo principale o ausiliario per accedere alle informazioni veicolate dal prodotto audiovisivo. Per i secondi, invece, a cui di solito sono rivolti sottotitoli

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intralinguistici integrali, il sottotitolo è un supporto didattico che educa all’ascolto e favorisce al contempo la comprensione e l’apprendimento naturale e involontario della lingua oggetto di studio.

I sottotitoli interlinguistici, invece, sono sottotitoli in una lingua diversa da quella del prodotto originale e per questo coinvolgono e sintetizzano due lingue e due culture. Anche questo tipo di sottotitoli può favorire l’apprendimento della lingua straniera dei dialoghi in originale, in quanto essi contribuiscono alla comprensione del testo in lingua straniera.

Anche secondo Osimo (2000-2004), esistono fondamentalmente due tipi di sottotitolaggio, ma qui si fonda la distinzione su criteri differenti, ossia sull’utilità dei sottotitoli. In base a tali criteri esistono quindi i sottotitoli che fungono da ausilio fisico (per soggetti con deficit dell’udito di diverso grado) e quelli che fungono da ausilio linguistico (per chi non ha molta dimestichezza con la lingua parlata nel testo audiovisivo). Spesso tale distinzione viene assimilata a quella tra sottotitolaggio intralinguistico e interlinguistico, ma in realtà i due fenomeni non sempre coincidono. Questo perché si stanno diffondendo sempre di più i sottotitoli come ausilio nella traduzione intralinguistica: per coloro che conoscono la lingua che viene parlata nel testo audiovisivo, ma non che ancora non sono in grado di decifrare con facilità il medesimo testo nel parlato, il testo scritto aiuta per esempio a collegare la pronuncia alla forma grafica.

Sulle base di quanto appena detto, si possono quindi individuare ben quattro tipi di sottotitolaggio:

  • –  intralinguistico come ausilio fisico,
  • –  intralinguistico come ausilio linguistico,
  • –  interlinguistico come ausilio linguistico,
  • –  interlinguistico come ausilio fisico.Nei tipi di sottotitolaggio come ausilio linguistico, i tratti soprasegmentali – l’intonazione, la pronuncia, l’inflessione, il tono, il timbro e tutte le altre caratteristiche del parlato – del protesto arrivano al fruitore in modo diretto perché la colonna sonora originale resta intatta.

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Nei tipi di sottotitolaggio come ausilio fisico, invece, si hanno una traduzione verbale (interlinguistica o intralinguistica) e una traduzione intersemiotica in cui si cerca di sintetizzare verbalmente un messaggio che altrimenti andrebbe perso: sono i casi in cui il sottotitolo contiene espressioni come «musica di sottofondo», «rumore di passi», ecc.

1.4 Il film

Zelig è un divertente mockumentary – ossia una finto documentario – il cui protagonista è un personaggio curioso, il camaleontico Leonard Zelig (interpretato dallo stesso Woody Allen). Attraverso il documentario viene raccontata la storia di questo uomo che sorprende la società americana degli anni ’20 e ’30 del 1900 con la sua capacità di trasformarsi in qualunque persona gli stia accanto. Zelig, infatti, è un insicuro cronico che, pur di essere accettato e benvoluto da tutti, si trasforma in un camaleonte umano. A seconda della situazione in cui si trova e delle persone con cui interagisce, Leonard cambia il proprio comportamento, il proprio modo di parlare e persino l’aspetto fisico.

A causa della disfunzione che lo affligge, diventa presto famoso e tutti lo chiamano “l’uomo camaleonte” (the human chameleon). Tutto inizia con brevi trafiletti sui quotidiani, che poi si trasformano in articoli sempre più lunghi, fino a conquistare le prime pagine. Subentrano poi le radio, i cinegiornali, chi scrive canzoni su di lui, chi produce gadget a lui ispirati. Ma anche i medici contribuiscono fortemente alla sua celebrità: nel corso di varie conferenze stampa, in presenza di giornalisti e telecamere, essi formulano ipotesi, del tutto assurde e infondate, sulle cause della sua malattia. E

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così, di fronte all’opinione pubblica, lo trasformano in un vero e proprio caso clinico. Mentre questi “luminari della medicina” si ostinano ad attribuire il problema di Zelig a cause fisiologiche, la giovane psichiatra Eudora Fletcher – interpretata dall’attrice Mia Farrow – sostiene la natura psicologica della malattia e chiede di potersi occupare personalmente del caso. Tuttavia, la donna non viene ascoltata e i medici continuano a curare Zelig basandosi su teorie totalmente errate.

Quando la sorella alcolista di Leonard, Ruth, si rende conto che sfruttando la notorietà del fratello potrebbe guadagnare ingenti somme di denaro e a sua volta raggiungere la fama, non esita a sottrarlo alle cure – seppur inadeguate – del Manhattan Hospital. Leonard, ormai in balia della sorella e dell’amante di lei, diventa un fenomeno da baraccone: è costretto ad esibirsi in autentici spettacoli, e la gente accorre da ogni parte dell’America per assistere alle sue trasformazioni. Zelig è cercato, è ammirato e ciò può indurre a credere che abbia finalmente ottenuto ciò che voleva, ma in realtà è fondamentalmente solo e senza qualcuno che gli voglia bene.

Quando la storia d’amore tra Ruth e il suo amante si conclude tragicamente (questi, infatti, la uccide dopo averla scoperta con un altro uomo), Zelig rimane solo e a quel punto la dottoressa Fletcher, figura che si rivelerà fondamentale nella guarigione di Leonard, torna nuovamente a chiedere, e finalmente ottiene, di potersi occupare del caso.

La dottoressa Fletcher ritiene che la soluzione migliore per curare il suo paziente sia quella di allontanarlo dal caos della città, nonché dalle assillanti e controproducenti attenzioni di pubblico e media. Decide così di portarlo nella sua casa di campagna, dove potrà occuparsi di lui e curarlo lontano da occhi indiscreti; in una fase iniziale l’impresa di rivela molto complessa, a causa dell’identificazione di Zelig con la figura del medico.

Superate le difficoltà iniziali, la dottoressa Fletcher sottopone Leonard a sedute di ipnosi, grazie alle quali, finalmente, affiorano le reali cause della malattia. Durante le sedute, infatti, Zelig rivela il suo bisogno di essere apprezzato (I want to be liked) e le vessazioni subite sin dall’infanzia sia in ambito familiare sia in quanto appartenente a una minoranza (la famiglia di Leonard è ebrea).

Le cure della dottoressa si articolano in due fasi, quella incosciente – tramite l’ipnosi, appunto – e quella cosciente: al di fuori delle sedute di psichiatria, parla con lui, gli dedica il suo tempo e le sue attenzioni, gli dà l’affetto e la fiducia che lui non ha

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mai conosciuto. Grazie a tutto questo, poco alla volta Leonard inizia a riacquistare un’identità, non ancora equilibrata, ma almeno abbozzata.

Il tempo passa e le condizioni dell’ormai ex uomo camaleonte migliorano di giorno in giorno, mentre Eudora e Leonard costruiscono qualcosa che va ben oltre il rapporto medico-paziente. Quando i media vengono a conoscenza del sentimento che unisce i due protagonisti, tornano a intromettersi nella loro vita e a parlare di loro, riportandoli al centro di un’ossessiva attenzione. Tutto ciò causa una ricaduta di Zelig, la cui personalità è ancora molto fragile, e lo porta alla fuga.

Nessuno sa dove sia andato, ma Eudora non si dà per vinta e lo ritrova in Germania, nelle file del partito nazista, poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale. Finalmente riuniti, i due fuggono dall’Europa inseguiti dai nazisti e fortunatamente riescono a rientrare sani e salvi negli Stati Uniti. Lì vengono accolti da eroi e coronano il loro amore con il matrimonio; Zelig, ormai guarito, può finalmente cominciare a condurre una vita normale.

La dottoressa Fletcher è un personaggio chiave nella storia: è la persona che, più con il suo amore che con le cure mediche, riesce a salvare Zelig comprendendone il vero bisogno primario e fondamentale: il suo bisogno di conformismo, di mimetizzarsi nel gruppo, di non risaltare nella massa, di passare inosservato, anonimo, addirittura insignificante.

Il film di Allen è una riflessione sull’ipocrisia della società di massa, sulla difficoltà di integrazione del singolo nella società moderna, soprattutto se appartenente a una minoranza; ed è anche una critica all’abitudine di innalzare a “idolo” chiunque riesca a brillare anche solo per un momento, per poi rigettarlo nella polvere.

Dal punto di vista formale, il film alterna scene in bianco e nero e parti a colori: le prime sono quelle che fanno parte del finto documentario e che sono ambientate negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso; le seconde, invece, sono ambientate negli anni ’80 e sono quelle in cui alcuni personaggi (tra cui quello di Eudora Fletcher ormai anziana e alcuni giornalisti e scrittori realmente esistiti che interpretano se stessi) raccontano e commentano la vita di Leonard Zelig. Per creare questo mockumentary, Allen ha utilizzato autentiche sequenze filmate degli anni ’20 e ’30, utilizzate per i cinegiornali del tempo, e ha inserito se stesso e altri attori in tali sequenze tramite la tecnologia

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bluescreen1. Proprio grazie a questa tecnologia, nel film sono presenti scene in cui Woody Allen/Leonard Zelig interagisce con personaggi come Al Capone, Herbert Hoover e Adolf Hitler.

1.4.1 Il DVD di Zelig

Come anticipato nel paragrafo 1.1.1, l’avvento del DVD ha portato numerosi ed evidenti cambiamenti nel sottotitolaggio dei film destinati alla visione privata, “casalinga”: un DVD, infatti, può proporre sottotitoli in moltissime lingue diverse, fino ad un massimo di 32. Nel caso del DVD del film Zelig in mio possesso, prodotto nel 2002 dalla MGM Home Entertainment Inc., i sottotitoli disponibili sono in inglese, italiano, tedesco, francese, spagnolo e neerlandese. Per quanto riguarda l’inglese e il tedesco, i sottotitoli sono rivolti a coloro che hanno problemi di udito (for the hard of hearing) e sono quindi, rispettivamente, sottotitoli intralinguistici come ausilio fisico e sottotitoli interlinguistici come ausilio fisico. Nel caso delle altre quattro lingue, si tratta invece di sottotitoli interlinguistici come ausilio linguistico.

Nei capitoli a seguire, lo scopo è stato quello di mettere a confronto i sottotitoli in lingua inglese e quelli in italiano per valutare quali siano le differenze tra le due versioni – delle quali quella in inglese è il “modello” da cui si è partiti per realizzare i sottotitoli nelle altre lingue – e capire quali conseguenze abbia sulla qualità dei sottotitoli questo metodo, nato per soddisfare le necessità e le richieste di un mercato sempre più esigente e globalizzato.

La prima evidente differenza da segnalare tra le due versioni, prima di passare all’analisi dei cambiamenti traduttivi, consiste – come già accennato – nel pubblico a cui sono rivolte: infatti, mentre quelli in lingua inglese sono destinati ai sordi, quelli italiani sono indirizzati a un pubblico che non presenta deficit dell’udito. Abbiamo quindi sottotitoli intralinguistici come ausilio fisico versus sottotitoli interlinguistici come ausilio linguistico; ecco come si concretizza la differenza: per esempio, nel trattamento della colonna sonora. In inglese vengono riportati i titoli delle canzoni in

1 Tecnica che permette il montaggio di immagini su sfondi girati separatamente o creati da zero con la computer graphic; il soggetto viene ripreso su di uno sfondo tutto blu o verde; il forte contrasto che si crea permette al computer di scontornare l’immagine per inserirla su di uno sfondo girato separatamente.

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sottofondo, preceduti dal simbolo della nota musicale (♪); inoltre, viene riprodotto l’intero testo delle canzoni, se queste ne sono dotate. In italiano non avviene né una cosa, né l’altra. Un altro esempio concreto è quello delle scene di dialogo in cui non è possibile vedere chi sta parlando: in quei casi, in inglese viene inserito tra parentesi il nome della persona o delle persone che pronunciano la battuta, mentre in italiano ciò non accade. Dopo queste precisazioni, si può passare all’analisi comparativa vera e propria, quella dal punto di vista traduttivo.

1.5 Il regista

Woody Allen, al secolo Alan Stewart Königsberg, è nato a New York nel 1935. È un artista camaleontico: è regista, sceneggiatore e attore con oltre 40 film all’attivo, nonché comico, autore teatrale e clarinettista jazz.

Inizia a dedicarsi al cinema negli anni ’60 e tutti i suoi primi film sono commedie pure, caratterizzate da una comicità semplice e fisica, da battute fulminee e gag visive. Tra questi, Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run, 1969), Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (Everything You Always Wanted to Know About Sex But Were Afraid to Ask, 1972).

Il periodo di maggiori successi, sia di pubblico sia di critica, inizia nel 1977 con l’uscita nelle sale di Io e Annie (Annie Hall), che gli vale ben 4 Oscar e 1 Golden Globe. Quello è il punto di svolta, il passaggio a una comicità più sofisticata, che combina aspetti comici e drammatici; ma il film diviene anche un nuovo modello per il genere

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della commedia romantica. Nel 1978 realizza il suo primo film drammatico, Interiors, e nel 1979 Manhattan, il film dedicato alla sua amata New York.

Negli anni ’80 Allen comincia ad inserire nei suoi film riferimenti filosofici; ormai non si tratta più di semplici commedie, ma di pellicole influenzate dalla psicanalisi e con una componente riflessiva più marcata. La trama, prima aspetto non fondamentale, ora assume un ruolo centrale. Nel 1983 Allen scrive e dirige Zelig, una parodia tragicomica di un documentario degli anni ’20-’30. Tra gli altri grandi film di questo decennio vi sono Broadway Danny Rose (1984), La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985) e Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters, 1986)

Verso la metà degli anni ’90 le produzioni tornano ad assumere toni più leggeri, pur mantenendo uno stile ricercato e intelligente. Sono di questi anni pellicole come La dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995) e Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997).

Nel 2000 realizza il suo primo film con lo studio di produzione Dreamworks SKG, Criminali da strapazzo (Small Time Crooks). La pellicola si rivela un discreto successo in patria, ma i quattro film successivi, diretti tra il 2001 e il 2004, sono un flop al botteghino; in Europa, invece, vengono maggiormente apprezzati (è lo stesso Allen a dichiarare di sopravvivere solo grazie al mercato europeo).

Quando ormai in molti lo considerano un regista finito, Allen torna alla ribalta con il film presentato al Festival di Cannes del 2005, Match Point. È punto di svolta rispetto al passato: i toni della commedia vengono accantonati in favore di atmosfere da dramma/thriller; l’amata New York, che fino a quel momento è stata l’ambientazione di tutte le pellicole, viene sostituita dalla capitale britannica; la musica jazz, che da sempre è la colonna sonora prediletta, cede il posto alla musica lirica.

L’ultimo film di Woody Allen è Scoop (2006), una commedia nuovamente ambientata nella capitale britannica.

Sin dai tempi del cabaret, esperienza precedente all’inizio della carriera nell’ambito cinematografico, Woody Allen ha sempre puntato molto sulla propria figura e si è plasmato addosso un personaggio su misura per il suo stile, che con il trascorrere degli anni è divenuto l’immagine classica percepita dal pubblico: un uomo nevrotico, paranoico, impacciato e sfortunato con le donne. Un uomo che per molti aspetti è

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identico allo stesso Woody Allen, che in più di un’occasione ha dichiarato di essere stato in analisi per oltre 30 anni.

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Capitolo secondo – Metodologia del raffronto tra due testi 2.1 Introduzione all’analisi comparativa

Per realizzare l’analisi comparativa tra la versione inglese e la versione italiana dei sottotitoli mi baserò su un modello di sintesi – messo a punto da Osimo (2004) – tra i due approcci che si sono diffusi negli ultimi decenni e che sono appunto volti ad analizzare le differenze esistenti tra prototesto e metatesto. Entrambi gli approcci hanno dei vantaggi: ricorrendo al primo si possono prendere in esame anche quelle modifiche del testo che non hanno importanza strategica; facendo ricorso al secondo, invece, si stabilisce immediatamente quali sono gli elementi fondamentali, distinguendoli da quelli secondari.

Il primo dei due approcci è stato approntato dalla studiosa neerlandese Van Leuven-Zwart, la quale si è posta concretamente il problema dell’analisi comparativa degli elementi di due testi in generale, e di prototesto e metatesto in particolare. Il secondo approccio, invece, è quello cronotopico di Peeter Torop, studioso di fama mondiale che si occupa di semiotica applicata alla traduttologia.

Il modello Leuven-Zwart analizza i cambiamenti microstrutturali (quelli che riguardano piccole unità di testo, per esempio parole) a prescindere dal contesto testuale specifico e solo in seguito trae conclusioni sul testo nell’insieme. Scopo di tale approccio è descrivere i cambiamenti apportati a livello semantico, sintattico e pragmatico, che possono derivare da una scelta conscia o inconscia del traduttore. Conclusa l’analisi tramite l’applicazione del modello, entra in gioco un altro tipo di analisi, cioè quella degli effetti dei cambiamenti microstrutturali sulla macrostruttura. In un primo tempo, quindi, vengono prese in esame le caratteristiche dei cambiamenti del testo a priori e, in un secondo tempo, vengono individuate le conseguenze globali. Questo modello è definito top-down, in quanto procede dall’alto verso il basso e non prevede un’analisi preventiva della poetica del testo da cui vengono ricavate le categorie da analizzare.

In base ad esso, si distinguono tre diversi tipi di relazione2:

2 Nella terminologia di Leuven-Zwart, per relazione si intendono i rapporti di somiglianza o dissomiglianza tra due entità e, nel caso specifico, tra i transemi (= unità testuale comprensibile, che può contenere o no un predicato) di un testo e transemi del testo che vi viene raffrontato.

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relazione di contrasto, nel caso in cui un elemento del testo venga modificato al punto da diventare irriconoscibile. Il contrasto può concretizzarsi come omissione, aggiunta o cambiamento radicale di senso [un esempio: PT → Alice dormiva, MT → Alice leggeva];

relazione di modulazione (l’unica binaria fra le tre), nel caso in cui il cambiamento tra un elemento del prototesto e uno del metatesto segua la logica della dicotomia, lungo il continuum generalizzazione versus specificazione oppure lungo un altro continuum bipolare [un esempio: PT → Andrea guardava, MT → Andrea osservava {= guardare con attenzione} è una specificazione];

relazione di cambiamento non binario, nel caso in cui un elemento del prototesto e uno del metatesto vi sia una differenza non assimilabile ad alcuna dicotomia. In tal caso, quindi, il cambiamento riguarda un elemento di testo al quale non vi è una sola alternativa, bensì svariate. [un esempio: PT → ieri, MT → oggi. Si tratta di un cambiamento non binario perché le alternative possibili a «ieri» sull’asse paradigmatico sono molteplici, per esempio «domani», «un giorno», ecc.]

Questo tipo di cambiamento interessa anche le categorie – morfologia, grammatica e sintassi – che non possono caratterizzare una modulazione binaria: tempo verbale, numero grammaticale, modo verbale, persona grammaticale, forma verbale (attiva/passiva), aspetto verbale (perfettivo/imperfettivo), inversione dell’ordine di elementi dell’enunciato, esplicitazione/implicitazione (numero di elementi informativi), deissi/anafora (rimandi intra ed extratestuali), assonanza-allitterazione-rima.

Il modello cronotopico di Torop, al contrario del modello appena descritto, parte dall’analisi traduttologica del testo specifico per individuarne le caratteristiche salienti e poi passa al controllo delle alterazioni della poetica del testo introdotte dai cambiamenti. Viene definito modello bottom-up perché va dal basso verso l’alto e analizza i dettagli solo dopo averne individuata l’importanza sul sistema nel complesso. In questo secondo modello le categorie di cambiamento non sono assolute come nel caso del primo, ma specifiche, relative al contesto poetologico e culturologico del testo in questione e derivanti direttamente dalla sua analisi traduttologica. Quando si fa ricorso all’analisi

19

cronotopica, una delle principali difficoltà consiste nell’individuare un collegamento preciso tra gli elementi linguistici e le conseguenze strutturali; è perciò necessario che l’analisi traduttologica individui la dominante e le sottodominanti del testo specifico.

Le cinque categorie fondamentali sono:

  •  parole concettuali. Attraverso il loro significato esprimono direttamente dei concetti che sono importanti per il contenuto espressivo del testo. La manipolazione di queste parole si ripercuote sul contenuto del testo [un esempio: in un testo sulla pittura, sono parole concettuali «pennello», «tela», «acquerello», «tempera».].
  •  parole/espressioni funzionali. In sé per sé sono parole secondarie, ma vengono disseminate nel testo in modo strategico per creare ponti tra zone di testo fisicamente distanti e creare tra queste delle affinità che fungono da rimandi intratestuali. La manipolazione di tali espressioni si ripercuote sulla struttura del testo.
  •  campi espressivi. Si tratta della ripetizione di parole, modi di dire, frasi, forme grammaticali o sintattiche che caratterizzano lo stile e l’espressività di un testo. La manipolazione di queste espressioni si ripercuote sulla poetica del testo.
  •  deittici. Sono elementi dell’enunciazione (pronomi personali, aggettivi dimostrativi, avverbi di luogo e di tempo, articoli) che fanno riferimento in modo implicito alle coordinate spazio-temporali della stessa e la cui alterazione ha ripercussioni sulla psicologia individuale del personaggio o dell’autore.
  •  intertestualità e realia: i riferimenti intertestuali e i realia, ossia le parole che denotano cose materiali specifiche di una cultura, sono elementi che caratterizzano le relazioni di un testo e di una cultura con altre culture. Proprio per questo, la manipolazione di tali espressioni si ripercuote sulla relazione tra sistemi culturali, quindi sulla psicologia di gruppo di elementi della cultura del testo.Tutte queste categorie possono essere collocate lungo il continuum proprio versus altrui, dove per «proprio» si intende «proprio del prototesto, della cultura emittente», mentre per «altrui» si intende «proprio del metatesto, della cultura ricevente». Ed è la

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collocabilità di queste cinque categorie lungo tale asse a dimostrare che esse sono cronotopiche, ossia che fanno parte dell’analisi specifica del testo. Lo stesso non vale invece per le categorie del modello Leuven-Zwart.

La dicotomia generalizzazione/specificazione e quella proprio/altrui, sono complementari l’una all’altra. Mentre la seconda riguarda la relazione tra culture, la prima può riguardare tanto elementi propri quanto altrui. Secondo Osimo, nei casi in cui le modifiche di un testo possano essere collocate lungo un continuum, è utile usare entrambe le categorie sovrapponendole. Nell’opposizione tra proprio e altrui aggiunge anche una terza direzione, che è quella della standardizzazione, la quale consiste nel modificare un elemento nella direzione di una cultura terza – quindi né quella emittente, né quella ricevente – che sia generica, prevalente sulle specifiche culture in questione e che sia da entrambe considerata standard. Anche nella dicotomia generalizzazione versus specificazione Osimo considera una terza possibilità, ossia il trattamento neutro dell’elemento testuale, che quindi non viene reso né in maniera specificante, né generalizzante.

Per riassumere quanto detto finora sui cambiamenti modulativi, una modifica traduttiva può quindi essere considerata:

  • –  appropriante e generalizzante, o
  • –  appropriante e specificante, o
  • –  appropriante e neutra, o
  • –  riconoscente3 e generalizzante, o
  • –  riconoscente e specificante, o
  • –  riconoscente e neutra, o
  • –  standardizzante e generalizzante, o
  • –  standardizzante e specificante, o
  • –  standardizzante e neutra.3 Per «riconoscente» si intende una strategia traduttiva che implichi il riconoscimento dell’elemento altrui.

21

2.2 Il raffronto tra i due testi: un modello di sintesi

Ecco quali sono, in sintesi, gli elementi da considerare per affrontare l’analisi comparativa tra due testi:

  • –  i cambiamenti modulativi elencati nella parte conclusiva del paragrafo precedente,
  • –  le cinque categorie dell’analisi cronotopica e parametrica del modello di Torop.A questi, secondo Osimo (2004: 96) vanno aggiunte altre categorie:
  • –  il lessico generico, la sintassi e la versificazione, che non rientrano nell’analisi cronotopica ma che sono comunque soggette ad appropriazione/riconoscimento/standardizzazione e a specificazione/generalizzazione/resa neutra,
  • –  la categoria degli elementi che si modificano senza seguire né l’uno né l’altro continuum:- le modifiche di contrasto del modello Leuven-Zwart (omissioni, aggiunte e cambiamenti radicali di senso),- tutte le modifiche che non sono né binarie né ternarie, per esempio quelle grammaticali.

    Questo è il modello di sintesi approntato da Osimo, che può essere riassunto nella tabella della pagina seguente.

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TABELLA RIASSUNTIVA DEI CAMBIAMENTI TRADUTTIVI

N

MODIFICA CULTURA PROPRIA / ALTRUI

MODIFICA NON CULTURO- SPECIFICA

RIGUARDANTE

DOWN TOP /
TOP DOWN

9

APPROPRIAZIONE
/ RICONOSCIMENTO
/ STANDARDIZZAZIONE

SPECIFICAZIONE
/ GENERALIZZAZIONE /
RESA NEUTRA

DEITTICI

ANALISI CRONOTOPICA

8

REALIA, INTERTESTI

7

PAROLE CONCETTUALI

6

CAMPI ESPRESSIVI

5

PAROLE FUNZIONALI

4

LESSICO GENERICO

PARAMETRI GENERICI

3

SINTASSI

2

VERSIFICAZIONE

1

LESSICO GENERICO:
OMISSIONI, AGGIUNTE, CAMBIAMENTI RADICALI DI SENSO, CAMBIAMENTI DI CATEGORIA GRAMMATICALE.

23

Capitolo terzo – Analisi di una parte di Zelig 3.1 Presentazione del materiale empirico

La parte di film i cui sottotitoli sono sottoposti ad analisi appartiene alle scene iniziali. Chi si è occupato dei sottotitoli del film (Yasmeen Khan per la versione in inglese e Adriana Tortoriello per quella italiana), ha scelto di mettere in corsivo quelli che riportano la voce fuori campo che parla mentre sullo schermo si susseguono le scene in bianco e nero, ambientate negli anni ’20 e ’30. Negli altri casi, a parlare sono vari personaggi (Susan Sontag, Irving Howe, Saul Bellow – personaggi reali che interpretano se stessi – e il cameriere Calvin Turner – interpretato dall’attore Marshall Coles, Sr.) tutti chiamati a commentare la bizzarra storia di Leonard Zelig nelle scene a colori, ambientate negli anni ‘80.

3.2 Analisi comparativa vera e propria

SOTTOTITOLI IN INGLESE

SOTTOTITOLI IN ITALIANO

He was the1 phenomenon of the ‘20s.

Era il fenomeno degli anni ’20.

When you think, at the time,2 he was as well-known as Lindbergh, it’s astonishing.

Se si pensa che all’epoca era famoso quanto Lindbergh, è sorprendente.

1 Nella versione inglese l’articolo the viene enfatizzato tramite l’uso del corsivo, mentre in italiano ciò non avviene. Ne consegue un cambiamento di ritmo: in inglese ci si sofferma brevemente sull’articolo, in italiano la lettura risulta più scorrevole e veloce. Si tratta quindi di un cambiamento generalizzante.

2 L’espressione at the time, racchiusa tra virgole, viene resa con l’espressione «all’epoca», la quale non viene accompagnata da segni di punteggiatura. Anche in questo secondo caso ci troviamo di fronte a un cambiamento di ritmo: la lettura della versione inglese prevede un rallentamento, dovuto proprio alla presenza di at the time tra le virgole; in italiano, invece, la lettura risulta nuovamente più fluida e scorrevole, senza pause.

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His story reflected
the nature of our civilization,

La sua storia rifletteva
la natura della nostra civiltà,

the character of our times,

le caratteristiche3 dei nostri tempi,

yet it was also one man’s story.

eppure era anche la storia di un individuo.

All the themes of our culture were there.

Vi erano racchiusi4
tutti i temi della nostra cultura.

But when you look back on it, it was very strange.

Ma a ripensarci ora, era tutto molto strano.

Well,5 it is ironic to see
how quickly he has faded from memory,

È assurdo6 che sia scomparso dalla memoria tanto rapidamente,

considering7 what
an astounding record he made.

visto l’incredibile impatto che aveva avuto8.

3 La resa di character come caratteristiche è una modifica di lessico generico ed è specificante: character infatti significa «indole, carattere», che è un termine meno specifico rispetto alle caratteristiche.

4 There were viene reso come «vi erano racchiusi»: si tratta di una modifica specificante del lessico generico; ma abbiamo anche una modifica del registro, che in italiano è più formale e più preciso.

5 L’interiezione well, seguita dalla virgola e utilizzata in inglese per iniziare la frase, non è stata riportata in italiano. Ciò rappresenta un’omissione, ma anche un cambiamento di ritmo, il quale rende il sottotitolo italiano privo della pausa, che invece in inglese è determinata proprio da well seguito dalla virgola.

6 It is ironic viene reso come «è assurdo», quindi si ha un cambiamento radicale di senso.

7 Qui il cambiamento interessa la sintassi: in inglese la struttura della subordinata è verbale, in italiano nominale.

8 In italiano è stato cambiato il tempo del verbo rispetto all’inglese: si passa infatti dal simple past al trapassato prossimo.

25

He was, of course,9 very amusing, but at the same time touched a nerve in people,

Era senz’altro molto divertente, ma allo

stesso10 tempo riusciva11 a toccare dei tasti12

perhaps in a way in which13
they would prefer not to be touched.

che la gente preferiva14 non venissero toccati.

It certainly is a very bizarre story.

È decisamente una storia molto strana.

The year is 1928.

Corre l’anno 1928.15

America, enjoying a decade
of unequalled16 prosperity, has gone wild.

L’America, che sta attraversando
un decennio di prosperità, è impazzita.

9 Of course viene reso con la locuzione avverbiale «senz’altro», che ha un significato più attenuato, quindi abbiamo una generalizzazione. Inoltre, mentre of course è racchiuso tra virgole e implica una pausa, nella versione italiana la situazione è differente: «senz’altro» infatti si inserisce in modo fluido nella frase senza rallentarne la lettura. Si tratta di una modifica del ritmo, resa in modo neutro.

10 «Allo stesso tempo» è un calco di at the same time. L’espressione corretta in italiano è nello stesso tempo.

11 «Riusciva» è un’aggiunta, quindi una specificazione.

12 La resa di nerve come «tasti» è un cambiamento lessicale generalizzante poiché attenua il significato del prototesto: nerve, infatti, si riferisce più precisamente alla sensibilità delle persone.

13 In italiano non è stata tradotta una parte del sottotitolo in inglese (perhaps in a way in which, peraltro preceduta dalla virgola): si tratta di una omissione, probabilmente legata alla scelta di tradurre nerve con tasti, fatto che ha portato al cambiamento dell’intero enunciato.

14 In questo caso si ha il cambiamento del tempo verbale: dal condizionale passato in inglese all’indicativo imperfetto in italiano.

15 The year is diventa «corre l’anno»: la versione italiana è di registro più alto; ma ci troviamo anche di fronte a una modifica specificante di lessico.

26

The Jazz Age, it is called. The rhythms are syncopated

La chiamano l’età del jazz.17 Il ritmo è18 sincopato,

the morals19 are looser20, the liquor is cheaper – when you can get it.

la morale è rilassata21,
l’alcol22, quando lo si trova, costa meno.23

16 Unequalled, che significa «senza pari, ineguagliata», scompare nella versione italiana: si tratta di una omissione, quindi di una generalizzazione. Nella versione inglese, infatti, unequalled serve a sottolineare che la prosperità degli anni ’20 non si è più ripetuta, mentre in italiano questa idea scompare.

17 Qui la modifica interessa la sintassi: la versione italiana, in cui non sono presenti virgole, è invertita rispetto a quella in inglese. In italiano, inoltre, è presente una dislocazione a destra.

18 Mentre in inglese il sostantivo è al plurale, in italiano è al singolare; di conseguenza, anche il verbo passa dal plurale al singolare.

19 The morals diventa «la morale», ma in realtà significa «i costumi»: si tratta di una modifica generalizzante del lessico.

20 Looser diventa «rilassata», scelta che attenua decisamente il significato del prototesto (loose, infatti, significa «dissoluto»). Anche in questo caso il cambiamento riguarda il lessico ed è generalizzante.

21 La versione italiana risulta attenuata rispetto al prototesto: una traduzione più adeguata dell’espressione inglese sarebbe «i costumi sono dissoluti».

22 The liquor diventa «l’alcol»: si tratta di un cambiamento lessicale generalizzante perché in realtà liquor si riferisce a superalcolici come gin, vodka e rum.

23 The liquor is cheaper – when you can get it, diventa «l’alcol, quando lo si trova, costa meno»: si ha una modifica sintattica generalizzante. Infatti in italiano l’attenzione viene spostata rispetto alla versione inglese, nella quale si vuole sottolineare la difficoltà nel procurarsi gli alcolici, piuttosto che il fatto che essi costino meno.

27

It is a time of diverse heroes and madcap stunts,

È un periodo di grandi eroismi24 e di folli25 prodezze26

of speakeasies and flamboyant parties.

di nightclub27 e feste sfarzose.

One typical party28 occurs29 at the Long Island estate

Una di queste feste viene data alla villa di Long Island

of Mr and Mrs Henry Porter Sutton,

di Mr Henry Porter Sutton e signora,

socialites, patrons30 of the arts.

persone di mondo, protettori delle arti.

24 Diverse heroes viene reso come «grandi eroismi», invece di «eroi di vario genere»: si tratta di una modifica del lessico e di una resa neutra.

25 Madcap diventa «folli»: si ha un innalzamento del registro, in quanto folli è meno informale rispetto a madcap, che equivale a «scervellato».

26 Stunts viene reso come «prodezze»: stunt viene normalmente utilizzato in ambito colloquiale per fare riferimento a una bravata, a un’azione sconsiderata che può rivelarsi pericolosa; si tratta quindi di un termine diverso da «prodezza», che si riferisce prevalentemente a un atto di grande coraggio e valore (in taluni casi anche per riferirsi in modo antifrastico ad atti vili e prepotenti o in modo ironico a difficoltà solo apparenti). Abbiamo quindi una modifica del lessico e una modifica del registro, che risulta innalzato.

27 Speakeasies – realia che identifica gli spacci di alcolici tipici del proibizionismo statunitense degli anni ’20 – diventa «nightclub»: si tratta di una modifica generalizzante e standardizzante.

28 One typical party diventa «una di queste feste»: si tratta di una modifica del deittico, che determina una generalizzazione.

29 Occurs diventa «viene data»: c’è il passaggio dalla forma attiva dell’inglese a quella passiva dell’italiano.

30 Patrons, in questo contesto utilizzato per riferirsi a patroni/mecenati delle arti, viene reso come «protettori», termine più generico: si tratta di una modifica generalizzante a livello lessicale.

28

Politicians and poets rub elbows with the cream of high society.

Politici e poeti incontrano31 la crema dell’alta società,

Present at the party is Scott Fitzgerald,

Alla festa è presente Scott Fitzgerald,

who32 is the cast perspective on the ‘20s for all future generations.

i cui scritti avrebbero illuminato
le generazioni a venire sugli anni ’20.

He33 writes in his notebook34 about35 a curious36

little man named Leon Selwyn or Zelman,

Fitzgerald lascia un appunto su un omino di nome Leon Selwyn,37 o Zelman,

who seemed clearly to be an aristocrat,

che sembrava
decisamente un aristocratico

and extolled the very rich

e che incensava38 i ricchi

31 La resa di rub elbows with come «incontrare» è una generalizzazione, in quanto l’espressione in lingua inglese contiene non solo l’idea dell’incontro ma anche quella di entrare in confidenza con qualcuno.

32 La differenza fondamentale tra il sottotitolo in inglese e quello in italiano sta nella sintassi, la cui modifica determina anche gli altri cambiamenti presenti nell’enunciato.

33 Il deittico della versione inglese viene sostituito in italiano dal nome proprio (o meglio, il cognome) a cui esso si riferisce.

34 Qui abbiamo una omissione, quella della parola «taccuino» (= notebook).

35 (He) writes in his notebook about diventa «lascia un appunto su»: nella versione italiana si ha una generalizzazione rispetto a quella inglese, nella quale si specifica dove scrive Fitzgerald.

36 Curious, riferito a little man, viene omesso nel sottotitolo italiano.
37 In questo caso abbiamo un cambiamento di ritmo, dovuto all’aggiunta della virgola

nella versione italiana, non presente nel sottotitolo in inglese.

38 Il verbo utilizzato nella versione italiana ha una connotazione più negativa rispetto a quello usato in inglese: mentre extol significa semplicemente «lodare, elogiare», incensare significa «adulare, lodare in modo eccessivo e interessato».

29

as he chatted with socialites.

Mentre conversava con il bel mondo.

He spoke adoringly of Coolidge and the Republican party,

Parlava con adorazione di Coolidge e dei repubblicani,

all in an upper-class Boston accent.

in un raffinato39 accento bostoniano.

“An hour later,” writes Fitzgerald,

“Un’ora dopo”, scrive Fitzgerald,

“I was stunned to see the same man speaking with the kitchen help.”

“notai con sommo stupore40 che
lo stesso uomo parlava con lo sguattero”,

“Now41 he claimed to be a Democrat and his accent seemed to be coarse,

“Sosteneva di essere un democratico e il suo accento sembrava volgare,

as if he were one of the crowd”.

come fosse uno del popolino42.”

It is the first small notice taken of Leonard Zelig.

È la prima breve menzione di Leonard Zelig.

Florida, one year later.

Florida, un anno dopo.

An odd incident occurs

Durante un allenamento43 dei New York

39 Upper-class viene reso come «raffinato»: si tratta di modifica generalizzante di lessico.

40 I was stunned diventa «notai con sommo stupore»: si verifica un evidente innalzamento del registro, in quanto l’espressione in inglese significa «rimanere di stucco/sbalordito».

41 Nella versione italiana scompare il deittico now, presente invece in inglese.

42 The crowd viene reso come «popolino»: la versione italiana è specificante rispetto a quella inglese (the crowd infatti può essere utilizzato in senso spregiativo per riferirsi a persone comuni, non speciali, mentre popolino si riferisce in modo specifico allo strato della popolazione più arretrato culturalmente e socialmente) ed è anche appropriante.

43 Mentre in inglese viene semplicemente detto che accade un fatto strano sul campo dove si allenano gli Yankees, in italiano si spiega più precisamente che il fatto strano accade durante un allenamento della squadra: abbiamo quindi una modifica specificante.

30

at the New York Yankees training camp.

Yankees accade un fatto strano.44

Journalists, anxious to immortalise
the exploits of the great home-run hitters,

I giornalisti, ansiosi di immortalare le gesta45 dei grandi battitori46,

notice a strange new player waiting his turn at bat after Babe Ruth.

Notano uno strano nuovo giocatore,
il cui turno di battuta è dopo Babe Ruth47.

He is listed on the roster as Lou Zelig,

Sulla lista48 dei battitori figura come Lou Zelig,

but no one on the team has heard of him.

ma nessun altro49 giocatore ne ha mai sentito parlare.

44 Qui avviene un cambiamento a livello sintattico che coinvolge tutto il sottotitolo: in italiano, infatti, gli elementi che compongono la frase sono disposti in modo diverso rispetto alla versione in inglese.

45 In italiano si è scelto il termine «gesta», che normalmente non viene utilizzato in ambito sportivo ma per riferirsi a imprese eroiche, gloriose, memorabili (in taluni casi anche ironicamente). Invece non è stato possibile comprendere se in inglese expoits venga utilizzato in ambito sportivo, ma risulta comunque essere un termine meno specifico rispetto a «gesta». Può infatti essere riferito non solo ad azioni eroiche ma anche ad azioni coraggiose, curiose, degne di nota, divertenti. Abbiamo quindi una modifica del lessico, ma anche una modifica che innalza il registro della versione italiana rispetto a quello delle versione in inglese.

46 In italiano abbiamo una generalizzazione del lessico, in quanto gli home-run hitters sono più specificamente quei battitori che mettono a segno colpi che consentono loro di coprire tutte le basi e tornare alla casa base.

47 In questo caso si ha un cambiamento sintattico: mentre in inglese si hanno due frasi coordinate, in italiano sono legate da un vincolo di subordinazione, molto più tipico dello scritto che del parlato.

48 «Sulla lista» è un calco; in italiano l’espressione più corretta è «nell’elenco». 49 «Altro», che non è presente nella versione in inglese, è un’aggiunta.

31

Security guards are called,
and he is escorted50 from the premises51.

Vengono chiamati gli addetti alla sicurezza, che lo accompagnano fuori.52

It appears as a small item
In the next day’s newspaper.

Il giorno dopo la stampa53
pubblica un articoletto sull’accaduto.54

Chicago, Illinois, that55 same year.

Chicago, Illinois, stesso anno.

There is a private party

C’è una festa privata

50 Qui avviene un cambiamento nella forma del verbo: in inglese la forma è passiva, in italiano diventa attiva. È una modifica specificante, perché in inglese si dice genericamente che Zelig viene accompagnato fuori (resta sottinteso che siano gli addetti alla sicurezza ad accompagnarlo), mentre in italiano si specifica che ad accompagnarlo sono gli addetti alla sicurezza.

51 In italiano è stato omessa la traduzione di from the premises (che però è una informazione sottintesa).

52 In questo caso il cambiamento riguarda la sintassi: in inglese vi sono due frasi coordinate, mentre in italiano vi sono una principale e una relativa.

53 In italiano newspaper diventa «stampa» e abbiamo quindi una generalizzazione del lessico, dato che newspaper si riferisce ad un quotidiano in particolare. La scelta di utilizzare il termine stampa, e di utilizzarlo come soggetto, ha evidentemente influenzato altre scelte compiute per questo sottotitolo, per esempio quella di non utilizzare la traduzione del verbo to appear (ossia «apparire, comparire»), ma il verbo pubblicare.

54 Nel passaggio dalla versione inglese a quella italiana, la struttura sintattica è stata profondamente cambiata: per esempio, il soggetto nel sottotitolo in inglese è it (riferito a «l’accaduto», che resta sottinteso), mentre in italiano è la stampa; in inglese next day è riferito a newspaper, mentre in italiano rappresenta il complemento di tempo. Il registro del sottotitolo in generale risulta più alto nella versione italiana.

55 In inglese è presente il deittico, che in italiano viene invece omesso causando un innalzamento del registro («quello stesso anno», sarebbe stata una soluzione più colloquiale).

32

at a speakeasy on the south side.

in un locale56 del south side57.

People from the most respectable

walks of life58 dance and drink bathtub59 gin.

Anche60 i personaggi più rispettabili ballano e bevono gin illegale.

Present that evening
was Calvin Turner, a waiter.

Calvin Turner, un cameriere, era presente quella sera.61

A lotta62 customers,

Arrivarono63 molti clienti,

56 In questo caso il realia speakeasy diventa «locale» e ancora una volta si tratta di una modifica generalizzante e standardizzante.

57 Qui in realtà non è avvenuto alcun cambiamento, in quanto south side viene mantenuto così com’è anche in italiano: bisogna quindi precisare che in questo caso la scelta traduttiva è stata neutra e riconoscente, nel senso che ha inserito l’elemento appartenente alla cultura altrui senza modificarlo.

58 In inglese the most respectable è riferito a walks of life, che in italiano significa «classi sociali»; nella versione italiana, però, tale espressione viene omessa e the most respectable passa a essere riferito direttamente a personaggi.

59 Bathtub gin è un realia, un elemento tipico della cultura statunitense degli anni del proibizionismo: si tratta di gin fatto in casa, spesso preparato proprio nelle vasche da bagno, in cui ad alcol di scarsissima qualità venivano aggiunte bacche di ginepro. Ovviamente, nel periodo in questione, tale prodotto era illegale. Si tratta di una resa generalizzante e standardizzante.

60 Nella versione italiana c’è l’aggiunta di «anche».

61 Nel passaggio dall’inglese all’italiano la struttura sintattica è stata invertita. La struttura del sottotitolo inglese è utile a introdurre il personaggio di Calvin Turner, che nel sottotitolo successivo prende la parola; la scelta compiuta per la versione italiana, invece, è meno funzionale a tale scopo.

62 A lotta diventa «molti»: si tratta di un innalzamento di registro, perché in inglese il registro è decisamente colloquiale; una traduzione più adeguata, infatti, sarebbe stata «un sacco di».

33

a lotta gangsters came in.

molti gangster.

They good tippers
and take good care of us,

Davano grosse mance e ci trattavano bene,

and we tried to64 take care of our customers.

e noi trattavamo bene i nostri clienti.

But on this65 particular66 night, I looked over

and here’s67 a strange guy comin’ in.

Ma quella sera mi accorsi68
che era arrivato69 un tipo strano.70

I’d never seen him before71,

Non l’avevo mai visto,

63 Si ha una generalizzazione: il verbo utilizzato in inglese è «entrare», mentre quello usato in italiano è “arrivare”. Dal punto di vista del tempo verbale, nella versione italiana è stato utilizzato il verbo al passato remoto, ma qui ci troviamo in un dialogo, e nella maggior parte dei casi in italiano si usa il passato prossimo. Il remoto suona come un innalzamento di registro, verso il “letterario”.

64 L’idea del «tentare, provare», espressa nella versione inglese dalla forma verbale (we) tried to, non è stata riportata in italiano.

65 In questa occasione si ha una trasformazione della deissi: this diventa «quella».
66 Nella versione italiana, particular – che attribuisce maggior enfasi al deittico this –

non viene tradotto: si tratta di una omissione.

67 Il deittico here’s scompare nella versione italiana.

68 Il verbo look over, che significa «guardare», viene reso come «accorgersi»: abbiamo quindi una modifica specificante del lessico. Per quanto riguarda il tempo del verbo, vale la stessa considerazione fatta nella nota numero 63.

69 «Era arrivato» rappresenta un cambiamento del tempo verbale, ma anche la scelta di tradurre il verbo in maniera differente rispetto all’inglese, “riassumendo” il concetto espresso da here’s a strange guy comin’ in.

70 La costruzione della frase italiana non corrisponde a quella inglese: tale cambiamento della sintassi innalza il registro.

34

So I asked one of the others,

così chiesi72 a uno degli altri:

“John, you know this73 guy74? Ever seen him?”

“John, lo conosci quello?75 L’hai mai visto?”

So76 he looks.
“No, I ain’t never seen him before.”

Lui guarda.
“No, non l’ho mai visto prima.”

“I don’t know who he is, but I know he is a tough-looking hombre77.”

“Non so chi sia78, ma so
che ha proprio79 l’aria da duro.”

71 In italiano si è scelto di omettere «prima», traducente di before, ma in realtà tale scelta non ha grandi ripercussioni sul sottotitolo.

72 Qui il cambiamento interessa il tempo del verbo. Vale quanto detto nella nota numero 63.

73 In questo caso si ha nuovamente un cambiamento del deittico, che in inglese è this e in italiano «quello».

74 Nella versione italiana si omette la traduzione di guy.

75 Per la frase in italiano si è scelta la dislocazione a destra, probabilmente per mantenere il registro su un livello fortemente colloquiale, come accade anche nel sottotitolo in inglese.

76 So è un elemento molto utilizzato nel parlato e serve a ricollegarsi a quanto detto precedentemente, al fine di mantenere la coesione del testo. La versione italiana viene invece depurata da tale elemento e resa più schematica, quasi a celare il fatto che si tratti di parole pronunciate.

77 In inglese viene utilizzato il termine hombre, che appartiene alla lingua spagnola, mentre in italiano esso scompare.

78 In italiano si è scelto di ricorrere al congiuntivo, che è certamente la soluzione più corretta a livello grammaticale. Tuttavia bisogna considerare che, per mantenere lo stesso registro scelto in inglese – il cameriere è evidentemente poco colto e il suo modo di parlare è estremamente colloquiale – si sarebbe forse dovuta scegliere una soluzione meno corretta dal punto di vista grammaticale, ma più adeguata dal punto di vista traduttivo.

35

So80 I looked over81, and next thing,82 the guy had disappeared.

Lo83 guardo di nuovo84, e il tipo è scomparso85.

I don’t know where he went to, but about86

this87 time, the music usually gets started.88

Non so dove fosse andato89. Era l’ora
in cui di solito cominciava90 la musica.91

79 In italiano c’è l’aggiunta dell’avverbio proprio, che funge da rafforzativo.

80 Per quanto riguarda so, la considerazione è la stessa fatta nella nota numero 76.

81 La forma verbale (I) looked over viene nuovamente resa come «guardo»: abbiamo una modifica specificante del lessico e anche un cambiamento del tempo verbale, che è passato in inglese e presente in italiano.

82 And next thing, seguito dalla virgola, scompare nella versione italiana. Si tratta quindi di un’omissione, ma anche di un cambiamento di ritmo (più veloce e fluido in italiano).

83 Nella versione italiana c’è un’aggiunta, quindi una specificazione, rappresentata dal complemento oggetto lo.

84 In italiano abbiamo un’altra aggiunta, rappresentata da «di nuovo».

85 In questo caso si ha il cambiamento del tempo verbale: nella versione inglese viene usato il passato, in quella italiana il presente.

86 About, che trasmette l’idea di approssimazione, viene omesso nel sottotitolo in italiano.

87 Il deittico this non viene riportato nella versione italiana. This time, infatti, diventa «era l’ora».

88 Si ha un evidente cambiamento a livello sintattico: mentre il sottotitolo inglese è costituito da un unico enunciato, quello italiano è formato da due frasi distinte.

89 In questa occasione vale il discorso fatto nella nota numero 78: la scelta del tempo del verbo nella versione italiana è corretta dal punto di vista grammaticale, ma meno adeguata dal punto di vista traduttivo perché innalza il registro rispetto alla versione in inglese.

36

And92 the band93 started playin’, and I looked,

L’orchestra attacca94, io li95 guardo96,

and here’s97 a coloured guy,
a coloured boy98 playin’ a trumpet.

e vedo un tipo di colore che suona la tromba.

Man, he was playin’ back.

Cavolo99, se suonava100.

90 Gets started diventa «cominciava»: abbiamo una modifica del tempo verbale, che in inglese è presente, mentre in italiano è passato.

91 Una considerazione sul sottotitolo nel complesso: nella versione italiana si ha un evidente innalzamento del registro.

92 And è un elemento che fa parte del parlato e che ha la stessa funzione del già citato so: collega il sottotitolo in questione a quello precedente, rendendo l’idea che si tratti di un discorso e creando coesione. Nella versione italiana and viene soppresso e il sottotitolo assume una struttura più schematica.

93 In questo caso il cambiamento è specificante e interessa il lessico: nella versione italiana viene usato il termine «orchestra», che in genere rimanda principalmente alla musica classica o da camera, mentre il gruppo di musicisti in questione suona musica jazz. Forse in questo contesto si sarebbe potuto mantenere il termine band o ricorrere a «complesso» o «gruppo».

94 Started playin’ viene reso come «attacca»: il tempo viene cambiato, passa infatti dal passato al presente. Dal punto di vista del registro, in italiano si ha un abbassamento.

95 «Li», complemento oggetto presente nella versione italiana, è un’aggiunta (rispetto all’inglese viene specificato cosa sta guardando il cameriere).

96 In questa occasione si verifica un altro cambiamento del tempo verbale: in inglese il verbo è al passato, in italiano al presente.

97 Il deittico here scompare nel passaggio dalla versione in inglese a quella in italiano, dove infatti abbiamo «vedo» a sostituirlo.

98 In italiano non è stata riportata la ripetizione che invece è presente nella versione in inglese (a coloured guy, a coloured boy).

37

I looked at the guy
and said “My goodness.”

Lo101 guardo102 e faccio103: “Accidenti104!”

“He looks just like the gangster, but
the gangster was white and he is black.”

“È identico al gangster di prima105, ma il

gangster era bianco e questo qua106 è nero.”

So107 I don’t know what’s…108

Non capisco cosa sta succedendo.

99 L’interiezione man viene resa con l’interiezione italiana «cavolo»: si tratta di una resa appropriante e neutra (sono entrambe espressioni colloquiali ed esprimono sorpresa).

100 Non è stato riscontrato un uso del verbo play back in inglese come è stato effettivamente tradotto in italiano: lo definirei quindi di un cambiamento radicale di senso.

101 In italiano il complemento oggetto è rappresentato dal pronome personale di terza persona singolare, mentre in inglese da at the guy.

102 Qui si è verificato un cambiamento del tempo verbale, che è al passato nella versione in inglese e al presente in italiano.

103 Innanzitutto anche qui so verifica un cambiamento del tempo verbale, dal passato dell’inglese al presente dell’italiano; in secondo luogo bisogna segnalare che la versione italiana è di registro decisamente colloquiale e che rispecchia il registro mantenuto finora in inglese: di tratta di una resa appropriante («fare» utilizzato per introdurre il discorso diretto è tipico delle regioni settentrionali).

104 «My goodness» diventa «accidenti» – a cui cui peraltro viene aggiunto il punto esclamativo per una maggiore enfasi – che è un’espressione di registro più basso.

105 Il «di prima» della versione italiana è un’aggiunta.

106 In italiano si verifica un abbassamento del registro, che in questo caso risulta più colloquiale rispetto a quello del sottotitolo in inglese. Si tratta inoltre di una modifica appropriante (ancora una volta l’espressione è tipica delle regioni settentrionali) e specificante (identifica in modo più preciso la persona a cui si fa riferimento).

107 Vale anche questa volta – come nel caso della nota numero 80 – la considerazione fatta nella nota numero 76.

38

what’s happening.

108 Nella versione italiana non viene riportata l’indecisione del parlato, ben rappresentata in inglese dal primo what’s seguito dai tre puntini di sospensione.

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3.3 Conclusioni

I cambiamenti effettuati sulla versione italiana riguardano in particolar modo il registro, il lessico generico, a volte la sintassi e il ritmo e, soprattutto nella parte finale in cui parla il cameriere Calvin Turner, la deissi e i tempi verbali. Ma andiamo con ordine: il registro è tra gli aspetti che ha subito il numero maggiore di modifiche e nella stragrande maggioranza dei casi è stato innalzato.

Per quanto riguarda il lessico generico, anch’esso è stato spesso modicato, in gran parte dei casi in maniera generalizzante, in pochi casi specificante. Spesso sono proprio state le scelte lessicali a determinare l’innalzamento del registro.

Anche la sintassi è stata a volte modificata, soprattutto in modo da contribuire a sua volta all’innalzamento del registro.

Il ritmo è stato a volte cambiato nella versione italiana, soprattutto tramite l’eliminazione di alcune virgole, e in quelle occasioni è divenuto più fluente rispetto a quello della versione inglese. Un cambiamento che spesso ha influenzato non solo il ritmo, ma anche il registro, è stato quello di omettere in italiano tutti gli elementi tipici del parlato: interiezioni, ripetizioni, indecisioni. Ciò ha portato la versione italiana a essere spesso più schematica e poco rispondente alla colloquialità della versione inglese.

Per quanto riguarda la deissi, a volte essa è stata omessa, altre cambiata: per esempio, «questo/a» in inglese diventa «quello/a» in italiano e here’s scompare in favore di altre soluzioni. Tale strategia, spesso adottata in modo inconsapevole, è un fenomeno abbastanza diffuso in traduzione e comporta un lettore modello che non sia in grado di districarsi nelle relazioni implicate dalla presenza dei deittici.

Anche i tempi verbali hanno diffusamente subito cambiamenti nel passaggio all’italiano. In alcuni casi viene usato il presente storico per dare l’idea dell’immediatezza del discorso orale, immediatezza che spesso viene meno a causa dell’innalzamento del registro. In altri casi l’uso del passato al posto del presente serve come un deittico a estraniare il punto di vista del personaggio rispetto all’azione che sta rievocando.

La versione italiana è spesso caratterizzata da omissioni e, in qualche caso, da aggiunte. Questi due tipi di cambiamento mi sembrano interessanti perché, a mio parere, si trovano ai poli del continuum generalizzazione/specificazione: durante l’analisi comparativa ho infatti potuto notare che ogni qualvolta si è verificata una omissione, la

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versione italiana ha necessariamente subito una generalizzazione e che, al contrario, quando si è optato per un’aggiunta, il sottotitolo in italiano ha subito una specificazione. Una considerazione che riguarda in generale la traduzione in italiano è che le

modifiche hanno interessato un po’ tutti quei parametri che sono considerati generici (ossia quelli presi in esame dal modello Leuven-Zwart), mentre tra gli aspetti cronotopici modificati vi sono i deittici, i campi espressivi (cambiamenti di registro) e, solo in due o tre casi, i realia.

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Ringraziamenti

Sono molte le persone a cui voglio dire grazie.

Innanzitutto ai miei genitori e a mia sorella Floriana che, durante il lungo percorso da studentessa, mi hanno sempre incoraggiata e sostenuta.

Al mio amore, Achille, che ormai mi “sopporta” da 7 anni. Lui in particolare ha saputo capirmi e aiutarmi a superare i momenti difficili in cui sono spesso incorsa durante i tre anni di lezioni e di esami, ma anche durante la preparazione di questa tesi.

Alla mia nonna, Francesca, che con la sua stima mi aiuta ad avere più fiducia in me stessa.

Alla mia stupenda amica Silvia, che gioisce con me nei momenti belli e mi è accanto in quelli brutti, sempre pronta a consolarmi e incoraggiarmi.

Agli altri amici, quelli veri (loro sanno chi sono!), che per me sono fondamentali e che mi hanno capita quando – prima per lo studio, poi per la tesi – li ho dovuti trascurare un po’.

Alle mie compagne di corso, quelle che negli anni sono diventate vere amiche. Con loro ho condiviso gli sforzi, i sacrifici, le delusioni, ma anche i momenti belli, che il nostro percorso di studi ci ha riservato.

Al mio relatore, il professor Osimo, che mi ha aiutata nell’ideazione e nella stesura di questa tesi con tanta pazienza e disponibilità. Le sue idee, le sue correzioni e i suoi consigli sono stati preziosissimi.

L’ultimo ringraziamento va a me stessa, perché con la mia tenacia e il mio impegno sono finalmente riuscita a raggiungere la meta tanto agognata.

GRAZIE!

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GIOVANNA CARENZIO Segno, Interpretante, Oggetto: la triade di Peirce e la sua attualità per la Scienza della Traduzione Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Segno, Interpretante, Oggetto: la triade di Peirce e la sua attualità per la Scienza della Traduzione

GIOVANNA CARENZIO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Autunno 2006

© Giovanna Carenzio 2006

II

Abstract

This thesis is made up of three parts: after a general synthesis of the discipline, the candidate analyses the core of Peirce’s thought applied to Translation Studies.
The first chapter is a short overview of the different contributions given by some famous philosophers to Semiotics (spanning from Ancient Greece to the 19th century). The second chapter presents the life of Charles Sanders Peirce (1839- 1914), one of the founders of American Pragmatism. The third chapter is dedicated to his Theory of Signs, or “Peircean Triad” (sign-interpretant-object), that sheds light on the mechanisms of the different phases of the translation process. The importance of Peirce’s theory for Translation Studies is analysed through the words of major scholars in the field of semiotics.

L’architettura del contributo prevede una triplice articolazione nell’ottica della specificazione dell’oggetto – la semiotica come campo di studio che interessa la scienza della traduzione – a partire da una sintesi generale sulla disciplina per giungere al nucleo fondatore del pensiero di Peirce.

Nel primo capitolo viene presentato un breve panorama dei contributi che alcuni grandi filosofi hanno dato alla semiotica (in un periodo di tempo che va dal pensiero greco al 1800). Nel secondo capitolo si introduce la figura del grande pensatore Charles Sanders Peirce (1839-1914), figura di spicco del pragmatismo americano. Il terzo capitolo è dedicato alla teoria del segno, o «triade di Peirce» (segno-interpertante-oggetto), alla luce della quale vengono riscoperti e illuminati i meccanismi posti in essere nelle diverse fasi del processo traduttivo. Nelle osservazioni conclusive, infine, vengono analizzati alcuni interventi di studiosi che hanno colto e valorizzato l’attualità del contributo che Peirce ha consegnato alla scienza della traduzione.

L’architecture de la contribution prévoit une triple articulation dans l’optique de la spécification de l’objet – la sémiotique en tant que terrain d’étude relative à la science de la traduction – en partant d’une synthèse générale de cette discipline pour arriver au noyau fondateur de la pensée de Peirce.

Dans le premier chapitre, est présenté un bref panorama des contributions que quelques grands philosophes ont apportées à la sémiotique (durant une période allant de la pensée grecque jusqu’au 19ème siècle). Dans le second chapitre, est introduite la figure du grand penseur Charles Sanders Peirce (1839-1914), figure de proue du pragmatisme américain. Le troisième chapitre est dédié à la théorie du signe ou «triade de Peirce» (signe-interpretant-objet), à la lumière de laquelle sont redécouverts et illuminés les mécanismes mis en évidence dans les différentes phases du processus de traduction. Dans les observations conclusives, enfin, sont analysées quelques interventions de savants qui ont saisi et valorisé l’actualité de la contribution que Peirce a livrée à la science de la traduction.

III

La libertà gioca se stessa in quell’area di gioco che si chiama segno, in quanto il segno è avvenimento da interpretare. La libertà si gioca nell’interpretazione del segno. LUIGI GIUSSANI

IV

0. Premessa

  1. 0.1  Descrizione del materiale
  2. 0.2  Premessa metodologica
  1. Premesse storiche
  2. C.S. Peirce: cenni biografici
  3. La teoria del segno
  1. 3.1  Sign
  2. 3.2  Interpretant
  3. 3.3  Object

4. Riferimenti bibliografici 5. Bibliografia

……………………………….. 2 ……………………………….. 2 ……………………………….. 2

……………………………….. 3

……………………………….. 23

……………………………….. 28 ……………………………….. 29 ……………………………….. 34 ……………………………….. 39

……………………………….. 45 ……………………………….. 48

Sommario

1

0. Premessa

0.1 Descrizione del materiale

Nel primo capitolo faccio esplicito riferimento alle notazioni sviluppate da Omar Calabrese nel suo saggio Breve storia della semiotica (Milano, Feltrinelli, 2001).

Nel secondo capitolo ho selezionato alcuni brani dei Collected Papers of Charles Sanders Peirce (Edited by Charles Hartshorne and Paul Weiss, Harvard University Press, The Murray Printing Company, Cambridge, Massachusetts, 1931-1958).

0.2 Premessa metodologica

Le citazioni dai Collected Papers sono in inglese: la traduzione in italiano sarebbe una complicazione inutile per i lettori. Il testo originale permette infatti una interpretazione diretta del pensiero di Peirce senza manipolazioni e interferenze. Il commentario è di conseguenza discutibile con una maggiore trasparenza.

1. Premesse storiche

Seguendo il percorso proposto da Omar Calabrese, è interessante rintracciare i fatti semiotici presenti nel pensiero precedente i fondatori della semiotica (dai Presocratici a Hegel), per constatarne l’evoluzione e l’interpretazione verificatasi nel corso dei secoli. Le pagine che seguono si propongono come sintesi estrema delle prospettive più significative – dai Presocratici a Hegel – funzionando da cornice in chiave evolutiva.

I presocratici

Fin dagli inizi della sua storia, il pensiero greco ha avuto a che fare con il problema dei segni. Il segno è qualcosa che rinvia a qualcos’altro, o naturalmente o convenzionalmente: il termine è già individuabile in Omero e in Esiodo, in cui sta a indicare tanto il segno naturale, quanto il segno divino, quanto il segno convenzionale.

La filosofia greca antica si pone già dei problemi per larga parte semiotici quando tratta della questione filosofica dell’aderenza del linguaggio alla realtà. Negli Eleati, in particolare, troviamo per la prima volta la concezione della convenzionalità del segno linguistico. Secondo Parmenide, dal momento che l’Essere è inesprimibile e l’esperienza del reale è illusoria, il linguaggio consiste nell’applicare etichette alle cose illusorie. Dalla parte opposta si colloca invece Eraclito, che sembra essere il primo a proclamare la dottrina secondo cui il linguaggio esiste “per natura”. Solo i sensi ci mostrano il reale, il molteplice, e il linguaggio serve appunto a nominare tale molteplicità: sono le cose, gli oggetti, a determinarla.

Su questa opposizione fra convenzionalità e naturalità si basa tutto il dibattito sul linguaggio nel pensiero presocratico.

Ippocrate (V-IV a.C.)

Molto opportunamente, Calabrese include tra i filosofi “semiotici” Ippocrate, il fondatore della medicina, che è considerata la “scienza delle cose nascoste” ed è da lui affrontata con il metodo razionale: per capire i

3

segni occorreva ricorrere all’uso dei cinque sensi, più che a riti magici. I medici greci, infatti, costruiscono un sistema prognostico (come analizzare la malattia e le sue conseguenze) fondato non più sull’analogia ma sulla fenomenologia, sui dati della realtà come appare. In una visione fenomenologica si mantiene l’idea di una doppia struttura del mondo, l’apparenza e la sostanza che vi è nascosta, ma la capacità di giungere alla seconda dipende dal metodo causale con il quale si riconducono certi fenomeni ad altri che ne sono la matrice. I dati sensoriali della realtà vengono interpretati come segni, ovverosia come sintomi. Questo accade solo a patto che quei dati si ripetano, mostrino una certa regolarità. In questo senso il ragionamento necessario è ipotetico (abduttivo). I sintomi hanno un carattere di polisemia e polifunzionalità che li rende davvero simili a un linguaggio. Il medico è inteso come un interprete. La semiosi viene definita come un processo di significazione, in cui un segno rinvia a qualcos’altro, ma solo rispetto a un punto di vista e a qualcuno che lo esprime.

Platone (429-347 a.C.)

Tutta la teoria platonica può essere interpretata come una dottrina dei segni e dei loro referenti metafisici, le Idee. I segni sono strumenti per rappresentare delle cose che, a loro volta, non sono altro che ombre agli occhi dell’uomo prigioniero della caverna. Il rapporto fra nomi e Idee è mediato, i nomi riflettendo solo alcune particolarità delle Idee. Se così non fosse, sottolinea Platone, nome e Idea coinciderebbero. La concezione platonica del processo segnico coinvolge tre termini:

OMBRA (REFERENZA)

NOME (SEGNO) IDEA (REFERENTE METAFISICO)
Platone confuta la tesi della convenzionalità assoluta, intesa come completa

arbitrarietà del segno linguistico: se tutte le azioni hanno una realtà

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oggettiva e stabile, e il dare nomi è un’azione, allora anche il denominare non dipende dall’uomo soltanto ma dal modo in cui la natura vuole che le cose siano denominate, attraverso uno strumento, il segno linguistico.
Ma Platone confuta, nel medesimo tempo, anche la tesi della naturalità, asserendo che, se fra nome e cosa vi è rapporto di naturalità, l’adeguazione del nome alla cosa avviene pur sempre in virtù di una legge, cioè di un accordo. Questa risiede nella mimesi, nell’atto imitativo che risiede nell’attività segnica. Se le cose si rispecchiassero nei nomi, non vi sarebbe imitazione, ma copia. Pertanto, i nomi hanno sempre un valore segnico, più o meno grande a seconda del grado di iconicità ricercato o raggiunto.

Aristotele (384-322 a.C.)

Il pensiero aristotelico segna una svolta decisiva per la storia della semiotica. Aristotele è il vero fondatore della logica. Nel De interpretatione definisce il segno nel senso moderno del termine, cioè rinvio a qualcos’altro.

Le cose che sono, che si verificano nella voce, sono simboli delle affezioni dell’anima, e gli scritti sono simboli delle cose che sono nella voce; e come i segni grafici non sono gli stessi per tutti, neppure le singole forme foniche sono le stesse; alcune di queste ultime sono tuttavia fondamentalmente segni, le stesse per tutti sono le affezioni dell’anima, e le cose, di cui queste affezioni sono immagini similari, altresì sono le stesse per tutti. (Aristotele: 16a, 2-8)

Il linguaggio è lo strumento per conoscere la realtà, psichica o materiale. Anche Aristotele disegna implicitamente un triangolo semiotico, con le seguenti posizioni:

AFFETTI E CONCETTI

CONVENZIONE MOTIVAZIONE

SUONI COSE

5

Il tipo di funzionamento del linguaggio dipende dal fatto che le affezioni dell’anima e le cose da esse rappresentate sono uguali per tutti i parlanti, anche se i segni invece non lo sono. I segni sono le cose che implicano altre cose, a priori o a posteriori.

Gli Stoici (IV-III a.C.)

Gli stoici danno per primi una chiara definizione del segno, che per essi è «ciò che è indicativo di una cosa oscura», dove per «oscuro» intendono ciò che non è presente nel momento della comunicazione. Ne consegue che il segno si definisce come un renvoi a una cosa che non è necessariamente attuale, e che non è neppure necessariamente esistente. Per la prima volta si parla di segno non in termini puramente linguistici. Ne vengono indicate due specie: il segno rammemorativo e il segno indicativo. Il triangolo semiotico da essi proposto ha come vertici il significante, il significato (o “detto”, che può essere incompleto – nome – o completo – giudizio) e l’oggetto reale di riferimento.

Gli Scettici (IV-II a.C.)

Sesto Empirico (filosofo e medico) polemizza ampiamente contro la dottrina del segno degli Stoici. Il segno e la cosa significata stanno in un rapporto di relazione, e dunque devono essere appresi insieme, ma se il segno indicativo si riferisce a ciò che è non-evidente-per-natura, questo è assurdo. Sesto nega il valore conoscitivo della parola.

Per natura essa non esprime nessun significato per il semplice fatto che non tutti sono in grado di capire quello che tutti gli altri dicono. […] Se invece la parola esprime un significato per convenzione, è ovvio che soltanto quelli che precedentemente abbiano appreso gli oggetti ai quali sono convenzionalmente applicate le espressioni verbali apprenderanno anche queste ultime. (Sesto Empirico: I, 36- 38)

Epicuro (341-270 a.C.)

Epicuro sostiene che unica fonte della conoscenza è la sensazione, che rispecchia fedelmente la realtà, e che provoca l’affezione, ovvero una

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reazione del soggetto rispetto alle cose reali. Una ripetizione stabile delle sensazioni fa nascere in noi l’anticipazione, la quale è vera poiché viene confermata dall’esperienza.
Egli propende per l’antica ipotesi naturalista sull’origine del linguaggio, ma non può eliminare neppure la nozione di accordo sociale:

Neppure l’origine del linguaggio derivò da convenzione, ma gli uomini stessi naturalmente, a seconda delle singole stirpi, provando proprie affezioni e ricevendo speciali percezioni, emettevano l’aria in diverso modo conformata per l’impulso delle singole affezioni e percezioni, e a tal differenza contribuiva quella diversità delle stirpi ch’è prodotta dai vari luoghi abitati da esse. Più tardi, poi, di comune accordo, le singole genti determinarono per convenzione le espressioni proprie, per potersi fare intendere con minore ambiguità e più concisamente. E quando alcuno che n’era esperto introduceva la nozione di cose non note, dava loro determinati nomi. (Epicuro: IX, 75-76)

Agostino (354-430)

Con Agostino si fa un passo avanti decisivo verso la modernità: per la prima vota si mettono insieme la teoria del segno e quella del linguaggio verbale, in un processo di definitiva unificazione.
Nel De Trinitate Agostino tratta del verbum, distinguendo tre livelli di analisi: la sostanza vocale dimostra che il verbum è segno di qualcos’altro; la sua sostanza razionale permette di definirlo ed “estrarlo dalla memoria”; infine, il verbum permette di giungere alla verità grazie alla sua funzione mediatrice. Il secondo livello di analisi, quello del senso, mostra la sua origine stoica: il verbum non è la cosa significata, perché è assimilato allo stesso pensiero, che si realizza nel discorso (locutio); è un aspetto interiore connaturato all’uomo, e non ha nulla a che vedere con le singole lingue. Lo stesso aspetto fonico (vox verbi) altrimenti “si consumerebbe”.

Il pensiero formato dalle cose che conosciamo è una parola che non è né greca, né latina, né di alcuna altra lingua. Ma, come è necessario trasmetterla alla conoscenza di coloro ai quali parliamo, si adotta un segno attraverso il quale essa è significata. La parola che si intende dal di

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fuori è un segno della parola che dà la luce interiore, e il nome di verbum è più adeguato al secondo; perciò, ciò che è pronunciato dalla bocca è il suono della parola (vox verbi) […], il nostro verbum diviene un suono articolato per impronta, non consumandosi nell’essere mutato in suono. (Agostino: 1932, 15, §§ 10-11)

Il segno è definito come:

una cosa che, più che l’impressione che essa produce sui sensi, fa venire di per sé alla mente qualche altra cosa. (Agostino: 2000, I, 1)

Agostino suddivide i segni in due grandi categorie: i segni naturali e i segni convenzionali.

Fra i segni, alcuni sono naturali, altri convenzionali. I segni naturali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fanno conoscere di per sé qualcos’altro di più di ciò che essi sono. È così che il fumo significa il fuoco, perché lo fa senza volere, ma noi sappiamo per esperienza, osservando e notando le cose, che, anche se il fumo apparisse da solo, vi sarebbe sotto del fuoco. La traccia di un animale che passa appartiene pure a questo genere di segni. Quanto all’espressione di un uomo irritato o triste, essa traduce il sentimento del suo animo, per quanto egli non abbia affatto volontà di esprimere la sua irritazione o la sua gioia. Lo stesso accade per ogni altro moto dell’animo. […] I segni convenzionali sono quelli che tutti gli esseri viventi fanno gli uni agli altri per mostrare reciprocamente, per quanto possono, i moti del loro animo, cioè tutto ciò che sentono e tutto ciò che pensano. La nostra sola ragione di significare, cioè di produrre segni, è quella di rendere chiari e di trasferire nello spirito altrui ciò che porta nel proprio spirito chi produce il segno. (Agostino: 2000, II, 1, 2-3, neretto aggiunto).

Il segno ha una ragion d’essere puramente funzionale: quella di significare un oggetto. Però non lo significa come tale, e neppure significa un nozione in sé, ma l’idea che noi ci facciamo dell’oggetto.

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Anselmo (1033-1109)

Al principio dell’XI secolo hanno inizio la vera e propria logica e la semantica medievali. Anselmo d’Aosta elabora una dottrina della verità finalizzata alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. Nel De Veritate sviluppa la dicotomia fra segno e referente, distinguendo fra verità della significazione e verità della proposizione. Le cose determinano la verità della proposizione, ma non costituiscono la sua verità ontologica.

Tutte le parole con l’aiuto delle quali noi diciamo mentalmente le cose, cioè di cui ci serviamo per pensarle, sono rassomiglianze o immagini delle cose di cui esse sono parole; ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. (Anselmo d’Aosta: 29-31)

Ruggero Bacone (1214-1292)

Nel De signis e nel Compendium studii tehologiæ, Bacone sostiene che la significazione può essere intesa in due modi: come rapporto fra il segno e l’interprete del segno, e fra il segno e l’oggetto di riferimento. Dal primo punto di vista si deve dedurre che la stabilità del significato dei segni è temporanea. Il linguaggio è un sistema aperto all’infinito, poiché chiunque ha la possibilità di creare termini nuovi per imposizione. In pratica, questa apertura è limitata da schemi e strutture che devono essere rispettati nel lavoro di imposizione linguistica. Resta, in ogni caso, il principio che la significazione dipende più che altro dai parlanti, e non da caratteri intrinseci ai segni.

In qualche caso, tuttavia, i segni “motivati” esistono: i segni naturali (inferenze o somiglianze) e i segni dati (volontari o involontari).

Tommaso d’Aquino (1225-1274)

Il massimo esponente dell’aristotelismo cristiano è Tommaso d’Aquino.
Il problema del segno è interpretato con riferimento alla lettura delle Scritture. I segni delle Scritture non sono equivoci, cioè da interpretare in senso allegorico, ma rigorosamente univoci, referenziali. I segni che vi sono presenti rinviano ad altri segni, gli eventi, che hanno sempre Dio

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come punto di riferimento. Un segno particolare per Tommaso è quello del sacramento, o segno efficace, che testimonia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare.
I segni sono per lui legati convenzionalmente ai concetti, e questi sono invece correlati per similitudine alle cose.

William of Ockham (1290-1349)

William of Ockham cambia sostanzialmente i termini del dibattito logico intorno al segno. Il segno è per lui

Tutto ciò che, una volta appreso, fa venire a conoscere qualche altra cosa, sebbene non dia una conoscenza primaria di questa cosa ma una conoscenza attuale e susseguente a una conoscenza abituale della stessa cosa. (William of Ockham: I, 4)

Ockham distingue fra segno naturale, che è il concetto e che è prodotto dalle cose stesse, e segno convenzionale, istituito ad arbitrio a significare più cose, cioè la parola. Il significato di un termine parlato o scritto può essere mutato liberamente, mentre il termine mentale non muta il suo significato ad arbitrio di nessuno. Sono tre i sistemi segnici da lui riconosciuti: un tipo mentale (rapporto tra intelletto e realtà), e due tipi convenzionali che si identificano nel linguaggio verbale e scritto. Egli fa una distinzione tra le parole (nomina relativa) e i termini (nomina absoluta): le parole possono avere significati anche connotativi, mentre i termini sono specifici e hanno valore assoluto. (Osimo 2002: 20)

Umanesimo e Rinascimento in Italia

Con l’Umanesimo si afferma una concezione radicalmente diversa della conoscenza, fondata sulla centralità dell’individuo-uomo rispetto all’universo e sulla sua capacità di sviluppare nuovi sistemi del sapere. Questa vera e propria “rivoluzione” avviene con la riscoperta dei classici antichi e col conseguente abbandono dell’aristotelismo, in favore delle tendenze platoniche e neoplatoniche.

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Il mondo è una specie di testo prodotto da una entità superiore con una sua logica interna. Ogni parte, ogni oggetto del mondo è dunque correlato al sistema e ne costituisce un segno, identificabile dall’intelletto umano ancorché esso sia segreto. Sono fondamentalmente due gli autori che meglio definiscono tale “semiotica del mondo naturale”: Nicola Cusano e Pico della Mirandola. Nicola Cusano elabora l’idea della “dotta ignoranza”, ovvero della debolezza intellettuale umana dinanzi alla perfezione del mondo, che può tradursi in sapienza se si pone con atteggiamento umile al lavoro di decrittazione dei segni del sistema-mondo.

Pico della Mirandola sviluppa il concetto di magia naturalis, che corrisponde alla visione di un mondo creato come una vera e propria “semiosfera” nel quale ciascun elemento rinvia a qualche misterioso significato.

L’idea di un sistema-mondo produce, come si è detto, una concezione parimenti sistemica della conoscenza attraverso “segni”, che dal primo derivano e che vengono raccolti e memorizzati attraverso un metodo mnemotecnico. Ne fanno fede gli innumerevoli trattati riguardanti singole arti, che assumono la fisionomia di codici specifici o di codificazione del comportamento, di trattati sulle arti e sulla pittura, arti che si riconoscono parte di un sistema di reciproche corrispondenze.

L’empirismo inglese
Francis Bacon (1561-1626)
Le motivazioni delle analisi semiotiche dell’empirismo (sviluppate poi in quasi tutto il Seicento inglese) nascono da un rinnovato interesse per la scienza in tutte le sue branche. I filosofi-scienziati sviluppano una riflessione sul modo di funzionamento – sulla base dell’osservazione – del fatto linguistico. Bacon differenzia i segni puramente arbitrari, come le parole, dai segni analogici:

Ora, i sistemi di notazione che, senza il soccorso o l’intromissione delle parole, riescono a significare le cose, sono di due tipi, l’uno dei quali è fondato sull’analogia, l’altro è puramente arbitrario. Del primo tipo sono i geroglifici e i gesti; del secondo tipo sono i caratteri reali […]. Bisogna

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che i geroglifici e i gesti abbiano sempre qualche somiglianza con la cosa che vogliono rappresentare, e siano così dei simboli, e per questa ragione noi li abbiamo chiamati notazioni per analogia. Invece i caratteri reali non hanno nulla di simbolico e sono del tutto irrappresentativi, come le lettere dell’alfabeto; e sono stati costituiti ad arbitrio e sono entrati poi nell’uso per abitudine e quasi per un tacito accordo. (Bacon: IV, 286)

La tradizionale querelle tra natura e convenzione si concretizza a proposito di due questioni: l’origine del linguaggio e il rapporto fra nomi e cose. Bacon conferma la sua posizione di convenzionalista, dimostrandosi scettico a proposito della ricostruzione della lingua originaria, e fermandosi quindi alle lingue come sono. La congruità dei segni alle cose dipende soltanto dalla loro funzione di strumento atto a distinguere le cose.

Bacon diventa il propugnatore di una metodologia della scienza fondata sul ragionamento induttivo, prevedendo anche le forme di errore e individuandone le cause in specifiche tipologie di attitudini soggettive degli individui e dei gruppi etnici e sociali.

Thomas Hobbes (1588-1679)

Nella dottrina materialista di Hobbes il problema del segno linguistico è assai importante, a cominciare dalla sua funzione:

La più nobile e utile invenzione fu quella del linguaggio, consistente in nomi e appellativi e nella loro connessione, onde gli uomini esprimono i loro pensieri, li rievocano quando sono passati, e se li scambiano tra loro per mutua utilità e conversazione. Senza di esso tra gli uomini non ci sarebbe stato governo, società, contratto, pace più di quanto non ve ne sia tra i leoni, gli orsi e i lupi. L’uso generale del linguaggio è di trasferire il nostro discorso in discorso verbale, o la serie dei pensieri in una serie di parole; e questo per due comodità. La prima è di notare le conseguenze dei nostri pensieri, i quali, potendo sfuggire dalla memoria e costringerci a un nuovo lavoro, possono di nuovo essere richiamati alla mente per mezzo delle parole che li esprimono; sicché il primo uso dei nomi è quelli di designazioni o note mnemoniche. L’altra comodità è che molti usano le stesse parole per comunicarsi l’un l’altro, con la loro connessione e col loro ordinamento, quel che essi concepiscono o pensano su ciascuna materia, o

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anche il desiderio, o il timore, o qualunque altro sentimento. Per tale uso le parole sono chiamate signa. (Hobbes: 22-24)

Per quanto riguarda i segni, Hobbes li considera inferenze che traiamo a partire dai dati dell’esperienza. Un segno, infatti, è qualcosa che deve essere osservato anticipare o seguire la cosa significata (conseguente dall’antecedente, antecedente dal conseguente). La tipologia da lui ipotizzata prevede i segni naturali (indipendenti dalla volontà umana) e i segni arbitrari (stabiliti dagli uomini a loro piacere e per esplicito o tacito accordo).

John Locke (1632-1704)

A conclusione del suo Essay Concerning Human Understanding, Locke ci lascia una definizione della semiotica:

Tutto ciò che può entrare nella sfera dell’interesse umano essendo, in primo luogo, la natura delle cose quali sono in se stesse, i loro rapporti, e il modo della loro operazione; o, in secondo luogo, ciò che l’uomo stesso ha il dovere di fare, come agente razionale e volontario, per il raggiungimento di un qualunque fine, e specialmente della felicità; o, in terzo luogo, i modi e i mezzi coi quali viene raggiunta e comunicata la conoscenza di questi due ordini di cose; ritengo che la scienza possa venir propriamente divisa in queste tre specie […]. Il terzo ramo può essere chiamato dottrina dei segni; e poiché la parte più consueta di essa è rappresentata dalle parole, assai acconciamente essa viene anche chiamata logica. Il suo compito è di considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose, o per trasmettere ad altri la sua conoscenza. Poiché le cose che la mente contempla non essendo mai, tranne la mente stessa, presenti all’intelletto, è necessario che qualcos’altro, come un segno o una rappresentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spirito, e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all’immediata visione di un altro, né essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comunicare ad altri i nostri pensieri, nonché per registrarli a uso nostro, sono altresì necessari dei segni delle nostre idee, e quelli che gli uomini hanno trovato più convenienti a tale

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scopo, e di cui perciò fanno uso generalmente, sono i suoni articolati. (Locke: IV, XXI, 1, 4)

Il linguaggio è inteso da un lato come istituzione sociale, e dall’altro come strumento creativo del soggetto.

Ma che esse soltanto significhino le peculiari idee degli uomini, e le rappresentino per un’imposizione perfettamente arbitraria, è cosa evidente, in quanto spesso esse non riescono a suscitare in altri (anche tra coloro che usano lo stesso linguaggio) le stesse idee di cui assumiamo che esse siano il segno; e ogni uomo ha una così inviolabile libertà di far sì che le parole stanno per le idee che a lui piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nella mente le stesse idee che ha lui, quando pur usino le stesse parole che egli usa. (Locke: IV, II, 11)

Il razionalismo francese
Cartesio (1596-1650)
Le teorie cartesiane sul segno compaiono per la prima vota ne Il Mondo. Cartesio pensa a una struttura triadica del segno, costituita da un aspetto materiale (i suoni delle parole), un aspetto mentale che è loro direttamente collegato (il significato) e i fenomeni della realtà, che le parole rappresentano. Tuttavia, non vi è relazione diretta fra parole e cose, e il linguaggio, essendo considerato un’istituzione, è arbitrario. Cartesio include a volte nella categoria di linguaggio anche fenomeni non verbali, come la luce, il riso, il pianto, quando sono usati come segni. Nel Discorso sul metodo arriverà a indicare anche i gesti dei sordomuti e i segni naturali che esprimono le passioni.
L’idea di Cartesio è che la natura del linguaggio corrisponda alla divisione fra corpo e mente, corpo e anima. Non a caso, infatti, l’aspetto materiale del linguaggio è variabile, ma la struttura del pensiero rimane la stessa, e ha carattere universale. Cartesio distingue fra parole che esprimono concetti e altri segni che esprimono sentimenti. Nel primo caso siamo di fronte a una attività spirituale e razionale, nel secondo a una attività animale. Tuttavia, possono esistere alcuni casi in cui i segni naturali provocano pensieri, e altri in cui le parole provocano sentimenti e passioni.

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Port-Royal (XVII secolo)

Né Cartesio né i primi cartesiani hanno elaborato una teoria linguistico- semiotica degna di nota. Occorre attendere la Grammatica e la Logica, o l’arte di pensare di Arnauld (1612-1694), Lancelot (1615 ca-1695) e Nicole (1625-1695), appartenenti alla setta giansenista del convento di Port-Royal. L’importanza di questa opera per gli sviluppi che essa ha portato nel pensiero contemporaneo è stata messa in luce da Noam Chomsky e da molti altri dopo di lui. Il punto di partenza della Grammatica è che essa può cogliere i tratti universali dell’attività linguistica umana, che sono uguali per tutti, perché questa è soltanto la manifestazione materiale e convenzionale dell’attività del pensiero. Il linguaggio come sistema di segni rappresenterebbe la struttura superficiale, il pensiero invece sarebbe la struttura profonda.

Tra le riflessioni semiotiche del gruppo di Port-Royal contenute nella Logica, due sono assai rimarchevoli. Il pensiero non può essere raggiunto che tramite ciò che lo significa, i segni; ma poiché questi non sono congrui al pensiero, occorre stabilire le condizioni generali per servirsi di qualcosa come segno.

Quando si considera un oggetto in se stesso e nel suo proprio essere, senza spingere lo sguardo dello spirito a ciò che esso può rappresentare, l’idea che se ne ha è un’idea di cosa, come l’idea della Terra, del Sole. Ma quando si considera un certo oggetto come rappresentante di un altro, l’idea che se ne ha è un’idea di segno, e quel primo oggetto si dice segno. In questo modo consideriamo solitamente le mappe e i quadri. Il segno quindi racchiude due idee, l’idea del segno e quella della cosa che rappresenta; e la sua natura consiste nel suscitare la seconda mediante la prima. (Arnauld e Nicole: I, IV)

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Il razionalismo tedesco
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)
Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, Leibniz si pone la questione di definire il segno, e lo intende come «qualcosa che percepiamo in un dato momento, e che poi consideriamo come connesso a qualcos’altro, in virtù dell’esperienza precedente, nostra o di altri». Leibniz propende per una tripartizione dei segni a seconda della loro relazione di motivazione con i loro significati. I nessi segnici possono essere determinati da scelta (e, quindi, arbitrarietà), da caso (e, quindi, arbitrarietà inconsapevole, accordo tacito) e da natura (motivazione). Egli fa una distinzione funzionale dei sistemi di segni, che possono avere funzione cognitiva (dare coerenza ai modi di conoscere) oppure comunicativa (consentire l’espressione fra uomini).

Christian F. von Wolff (1679-1754)

Seguace di Leibniz, Wolff tenta di dare una sistemazione organica a tutti i campi teorici analizzati dal maestro. Wolff dichiara che ogni procedimento conoscitivo può essere considerato processo segnico, e qualifica il segno come «ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza passata o futura di un altro ente» (Wolff: 952). Egli classifica i segni secondo la seguente tipologia: «il segno dimostrativo indica un designato presente, quello prognostico indica un designato futuro, quello memoriale indica un designato passato» (Wolff: 953).

Il secondo empirismo inglese
George Berkeley (1685-1753)
La concezione della semiotica di Berkeley è assai vasta. Tutto l’universo è inteso come un sistema simbolico, comprese le nostre percezioni che costituiscono un linguaggio per mezzo del quale Dio (l’«Autore della Natura») ci presenta il mondo.
I tipi di significazione identificati da Berkeley sono tre: 1) significazione operata all’interno dello stesso senso, che avviene dentro le categorie, e che è resa possibile per somiglianza qualitativa; 2) significazione che attraversa

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sensi diversi, e che si svolge attraverso le categorie, senza somiglianza qualitativa, ma solo per associazione spaziotemporale; 3) volontà attiva, ovvero significazione che congiunge idee e cause, e che risiede nella Mente dell’«Autore della Natura» che la distribuisce alle menti finite degli uomini.

David Hume (1711-1776)

Hume approfondisce la teoria del segno come rappresentante di idee particolari.

Quando abbiamo trovato una somiglianza fra diversi oggetti che ci capitano spesso innanzi, diamo a tutti lo stesso nome, qualunque siano le differenze che possiamo osservare nei gradi della loro quantità e qualità, e qualunque altra differenza possa apparire fra loro. Acquistata questa abitudine, nell’udire quel nome l’idea di uno di quegli oggetti si risveglia, e fa sì che l’immaginazione la concepisca in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni. […] La parola ci sveglia un’idea individuale, e insieme con essa una certa abitudine; e quest’abitudine produce ogni altra idea individuale, secondo che l’occasione richiede. Ma, poiché la produzione di tutte le idee, alle quali il nome può essere applicato, è cosa impossibile nella maggior parte dei casi, noi abbreviamo questo lavoro limitandolo a una considerazione più ristretta, senza che sorgano da questa abbreviazione troppi inconvenienti per i nostri ragionamenti. (Hume: VII)

Una causa non è il criterio per determinare l’esistenza delle cose, ma è solo uno strumento intellettuale per conoscerle. In questo senso, una causa è esattamente uguale al segno indicativo naturale, dal momento che gli elementi caratteristici delle cause sono la contiguità spaziotemporale, la successione temporale, la congiunzione costante. La riprova è che l’inferenza causale è un’inferenza per mezzo di segni, ovvero un’inferenza debole, senza dimostrazione necessaria ma solo probabile. L’unica forma di certezza è la credenza nel fatto che certi fenomeni si ripeteranno a partire dalla loro notazione passata.

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Gli enciclopedisti
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
Il linguaggio articolato è per Rousseau una evoluzione in senso degenerativo del genere umano. L’ipotesi sull’origine funzionale delle lingue è da lui dimostrata attraverso il collegamento fra linguaggio umano e musica.

I suoni di una melodia non ci colpiscono semplicemente come suoni, ma come segni delle nostre affezioni dell’anima, dei nostri sentimenti. È per questa ragione che eccitano in noi le emozioni che essa esprime, e la cui immagine noi vi riconosciamo. (Rousseau: Introduzione)

Questa relazione esiste anche nel discorso in atto, fissato da un contratto implicito fra gli uomini per regolare la loro esistenza obbligata alla collettività, che si evolve verso una sempre maggiore necessità di esplicitazione, e perciò si razionalizza, con la progressiva soppressione della comunicazione emotiva.

Denis Diderot (1713-1784)

Nell’Encyclopédie Diderot elabora un sistema classificatorio della conoscenza umana nel quale la comunicazione e la significazione giocano un ruolo decisivo proprio dal punto di vista cognitivo. Nella Grammatica Generale ritroviamo dei sottosistemi che sono tutti di natura semiotica: i segni (gesti e caratteri), i tratti prosodici (segmentali e sovrasegmentali), i costrutti (figure dello stile), la sintassi (ordine del discorso e usi linguistici) e infine gli aspetti metalinguistici (filologia, critica, pedagogia, ovvero le discipline che parlano dei vari linguaggi). Nella sua analisi Diderot prende in esame non solo le parole, ma anche i segni visivi, auditivi e tattili. Le parole denotano solo approssimativamente la realtà, pertanto la loro vera natura è quella di servire da strumento non tanto di conoscenza, quanto di decodifica del reale in un quadro di intersoggettività fra individui intesa nella sua natura inventiva e dinamica.

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Il sistema semantico non cambia col mutare delle culture, ma le culture differiscono per il diverso uso dei significanti, del sistema dell’espressione e della memorizzazione delle sensazioni.

Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780)

Nel linguaggio Condillac vede un metodo per spiegare la conoscenza, ed è dunque fondamentale conoscere l’origine dei segni per determinarne la struttura. Le idee sono connesse con i segni, e soltanto per questo mezzo si connettono tra loro.

Condillac riconosce tre tipi di segni:

1) i segni accidentali, o gli oggetti che certe circostanze particolari hanno legato con qualcuna delle nostre idee, cosicché sono propri a risvegliarle; 2) i segni naturali, o i gridi che la natura ha stabilito per i sentimenti di gioia, d’odio, di dolore eccetera; 3) i segni istituzionali, o quelli che noi stessi abbiamo scelto, e che non hanno che un rapporto con le nostre idee. (Condillac: II, 19)

Immanuel Kant (1724-1804)

Kant, pur con la sua monumentale opera, è il pensatore che nella storia del pensiero filosofico si è forse occupato meno del linguaggio. Nella Critica della ragion pura, egli elabora il principio dello schematismo dell’intelletto, grazie al quale si designano i concetti generali degli oggetti.

Alla base dei nostri concetti sensibili puri non ci sono immagini di oggetti, ma schemi. Nessuna immagine di triangolo potrebbe mai essere adeguata al concetto di triangolo in generale. Essa infatti non adeguerebbe il concetto in quella sua generalità per cui vale tanto per il triangolo rettangolo quanto per l’isoscele eccetera, ma resterebbe limitata soltanto a una parte di questo ambito. Lo schema del triangolo non può esistere altrove che nel pensiero, e significa una regola della sintesi della immaginazione rispetto a figure pure nello spazio. Molto meno ancora un oggetto dell’esperienza o una sua immagine adeguano il concetto empirico; ma questo si riferisce sempre immediatamente a uno schema dell’immaginazione, che è la regola della determinazione della nostra intuizione conforme a un determinato concetto generale. Il concetto del cane designa una regola secondo cui la mia immaginazione può descrivere

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la figura di un quadrupede in generale senza limitarla a una forma in particolare che mi offra l’esperienza o a ciascuna immagine possibile, che io possa concretamente rappresentarmi. Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro forma immediata, è una tecnica celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi. (Kant 1985: 165-166)

Nella Critica del giudizio Kant afferma che parole e segni visibili (algebrici, numerici) sono tutti espressione dei concetti, ovvero «caratteri sensibili che designano concetti e servono come strumenti soggettivi di riproduzione».

A torto, e con uno stravolgimento di senso, i logici moderni accolgono l’uso della parola “simbolico” per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni, non sono “caratteristi”, cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo una legge dell’associazione immaginativa […]; tali sono, in quanto semplici espressioni dei concetti, le parole oppure i segni visivi. Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde analogicamente. (Kant 1997: 218)

La filosofia di Kant è tutta tesa a stabilire le precondizioni logiche dell’attività conoscitiva; i concetti sono dei regolatori della comprensione, funzionano per trasformare rappresentazioni differenti in una rappresentazione comune. In questo senso è chiara la loro presupposizione semantica.

Il romanticismo tedesco

Le teorie del linguaggio sviluppatesi in questo ambito possono essere riassunte in quattro categorie: 1) la discussione sulla natura arbitraria, convenzionale o motivata dei segni; 2) la teoria del segno come dialettica

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fra rappresentazione e presentazione; 3) l’idea del linguaggio come totalità superiore alle sue parti; 4) l’identità fra linguaggio e sistema della cultura, in una prospettiva antropologica.
I romantici tedeschi negano in maniera più o meno assoluta la natura arbitraria e/o convenzionale del linguaggio. Fiche, ad esempio, parla dell’origine del linguaggio come necessità, derivante dal desiderio degli uomini di sottomettere la natura non ragionevole alla ragionevolezza umana. Questo tentativo passa attraverso l’uso di tutti i sensi, e di sistemi di segni dotati di diversi piani dell’espressione, con l’unico scopo di designare gli oggetti sensibili per imitazione con l’unica volontà di comunicare.

I segni sono una mediazione, rivestita di forma sensibile, della rappresentazione concettuale del mondo da parte dello spirito umano. Le parole sono presentazioni di rappresentazioni dei referenti. Tale presentazione può essere anche molto aderente alle cose, ma può indebolirsi per inadeguatezza o per oblio della propria natura originaria laddove si perda il senso della relazione imitativa, allora i segni sono arbitrari, e il nesso con i designata è frutto di immaginazione.

A Schelling si deve la teorizzazione dell’organismo linguistico come totalità da cui dipende ogni singolo elemento, che non può essere afferrato senza il ricorso al tutto.
Wolhelm von Humboldt, infine, sviluppa l’interessante concetto di correlazione fra lingua e popolo: la lingua, pur essendo un organismo e una totalità, non manifesta direttamente il pensiero: è piuttosto un «intramondo», mediatore fra pensiero e realtà attraverso caratteristiche proprie del sistema linguistico, che si sviluppano nel corso del tempo in modo dinamico e incessante. Culture diverse possono dare vita a filosofie diverse.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

Omar Calabrese conclude il suo percorso sulla storia della semiotica con Hegel, il grande metafisico di questo periodo, che si è occupato maggiormente di altri del segno e della significazione del linguaggio. La filosofia dello spirito soggettivo implica una conoscenza intuitiva legata alla

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sensazione e all’affetto, ma la rappresentazione fa accedere alla concettualizzazione. La rappresentazione si realizza sensibilmente attraverso i segni, ma è “soggettiva”, cioè arbitraria. La rappresentazione diviene un sistema di relazioni, una semiotica.

Secondo Hegel, “il segno è una certa intuizione immediata che rappresenta un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé. Il segno è diverso dal simbolo, la cui determinazione propria è più o meno il contenuto che essa esprime come simbolo”.

Il luogo vero del segno è l’intelligenza, che svolge la sua attività creatrice di rappresentazione, tra cui il linguaggio, che può essere fonico, scritto, per geroglifici o per scrittura alfabetica.
Nella Propedeutica filosofica, Hegel tratta del problema della significazione, e in particolare dell’arbitrarietà del segno:

Una realtà esteriore presente diviene segno quando è arbitrariamente associata a una rappresentazione che non le corrisponde e che se ne distingue parimenti attraverso il suo contenuto, in modo tale che questa realtà deve esserne la rappresentazione o significazione. (Hegel: II, 1, 155) Per quanto concerne l’invenzione di segni determinati, è naturale che, per i fenomeni sonori (rumori, fremiti, fracassi), si siano scelti dei segni verbali che ne sono le imitazioni immediate, per altri oggetti o modificazioni sensibili, il segno è, assolutamente parlando, arbitrario, per mezzo della designazione dei rapporti e delle determinazioni astratte, la simbolizzazione gioca un ruolo essenziale e la formazione ulteriore dei linguaggi appartiene alla facoltà dell’universale, cioè dell’intendimento. (Hegel: II, 1, 160)

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2. Charles Sanders Peirce: cenni biografici

Charles Sanders Peirce nacque a Cambridge, nel Massachussets, nel 1839, figlio di Sarah Hunt Mills e di Benjamin Peirce, insigne matematico, docente alla Harvard University. Questi si occupò personalmente dell’educazione del figlio, fanciullo prodigio. All’età di dodici anni lesse il libro Elements of Logic di Richard Whately, trovato per caso tra i libri di studio del fratello maggiore, e ne rimase affascinato. A quattordici anni era già notevolmente competente in chimica, studiava logica, era versato in matematica e filosofia.

Questo giovane brillante fece inizialmente una discreta carriera: una volta laureatosi alla Harvard ottenne subito un incarico procuratogli dal padre presso l’agenzia United States Coast Survey1 (1859-1891), dove lavorò molti anni ed elaborò una serie di lavori scientifici che ebbero notevole risonanza internazionale. Dal 1869 al 1872 fu osservatore presso l’Harvard’s Astronomical Observatory e assistente di questo Osservatorio; compì ricerche di notevole successo, che si raccolsero nell’unico volumetto che egli riuscì a pubblicare nel corso della vita, riguardante le ricerche fotometriche.

Questi inizi promettenti non trovarono successivamente conferma nella carriera di Peirce. Nel 1879 insegnò logica alla Johns Hopkins University; per cinque anni ebbe un incarico alla Harvard. Inspiegabilmente lo perse e in seguito nessuna università volle più conferirgli un incarico, forse a causa della sua difficile personalità, o, più probabilmente, a causa dell’opinione sfavorevole che di lui aveva Charles William Eliot, uno dei suoi professori, che fu presidente della Harvard University dal 1869 al 1909.

Nel 1887 Peirce si ritirò a vita privata vicino a Milford, in Pennsylvania e, negli ultimi anni della sua vita, stentò letteralmente a sopravvivere; riuscì ad andare avanti solo con l’aiuto dei suoi amici, tra i quali William James.

1 In seguito denominata National Geodetic Survey, della quale è stato sovrintendente Benjamin Peirce dal 1867 al 1874.

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Nel corso della vita Peirce non pubblicò nessun libro, ma una serie di articoli, che però non ebbero la risonanza che potevano meritare. Non trovò mai un editore disposto a pubblicare quella che egli chiamava «la grande Logica».

Morì nel 1914 lasciando una quantità incredibile di carte scritte, più di ottantamila fogli che la moglie vendette alla Harvard University. Soltanto a partire dagli anni Trenta la sua fama cominciò a diffondersi nel mondo grazie ad alcune raccolte sia dei saggi che aveva pubblicato, che di questi straordinari manoscritti.

Chiunque studi Peirce si immette in un oceano di problemi più che di soluzioni, di domande più che di risposte. La filosofia era effettivamente per Peirce una ricerca incessante, un’incessante messa in pratica della «massima pragmatica», cioè un incessante interpretare, in una scommessa della ragione che ha il suo compimento nell’apertura all’infinito. Come egli stesso ha scritto: «Do not block the way of inquiry».

Figura di spicco del pragmatismo americano, insieme a Charles Morris e William James, Peirce non è soltanto un genio singolare ma sicuramente uno dei filosofi più importanti della nostra epoca.
Il pragmatismo si configura come il contributo più significativo degli Stati Uniti alla filosofia occidentale. Ebbe grande successo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma nella versione elaborata da James, che tuttavia ammise sempre onestamente e lealmente che le idee di partenza erano di Peirce e non sue. La distinzione tra «pragmatismo» e «pragmaticismo» introdotta da Peirce intendeva, dunque, precisare così la netta differenza tra la sua posizione e quella dei suoi colleghi.

Come già anticipato, l’opera di Peirce è molto vasta, e implica per lo studioso una necessaria procedura di selezione.
Prendendo spunto da un’intervista a Carlo Sini (Rai, 6.02.92) accennerò brevemente ad alcuni principi fondamentali dell’analisi filosofica di Peirce:

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il principio della «massima pragmatica», il principio del «fallibilismo» del metodo scientifico, il «metodo per fissare le convinzioni» e l’«abduzione».

La «massima pragmatica»

Alla base del pragmaticismo sta la «massima pragmatica». Essa stabilisce che le nostre opinioni, le nostre idee, hanno il loro luogo di rivelazione nell’agire, nella pratica, nel comportamento. Al primo posto si colloca, dunque, l’azione. James interpretava questo motto dando rilievo al carattere irrazionale dell’azione, mentre Peirce non intendeva assolutamente porre l’azione al posto della ragione o della logica, ma intendeva trovare un nuovo terreno sulla base del quale analizzare i problemi della verità e della logica. Per Peirce il mondo stesso è in evoluzione attraverso le nostre opinioni: la realtà è coinvolta nelle nostre azioni-inferenze.

Il «fallibilismo» del metodo scientifico

Per Peirce il motore della ricerca è rappresentato da un «dubbio reale e vivente». È il «dubbio reale e vivente» che conduce l’uomo a formarsi determinate convinzioni. Esso consiste in uno stato mentale di insoddisfazione e di frustrazione che l’uomo tende a trasformare in stato d’animo calmo e certo con l’introduzione di nuove convinzioni. L’ammettere l’esistenza di una convinzione iniziale non verificata riconduce la riflessione di Peirce a riconoscere il «fallibilismo» del metodo scientifico, anticipando così i concetti cardine sviluppati da Popper. Questo «fallibilismo» non è solo della mente e del comportamento umano, ma è dell’universo intero, che nasce da una caoticità e procede verso un ordine.

Il «metodo per fissare le convinzioni»

Peirce osserva che gli uomini hanno differenti metodi per fissare le loro convinzioni; egli enunciava quattro metodi principali: la tenacia, l’autorità, il metodo metafisico, e il metodo scientifico. La tenacia è quell’atteggiamento per cui un uomo nutre nei confronti delle proprie convinzioni la tenace volontà di perseguirle contro tutto e contro tutti. Il metodo dell’autorità è a sua volta un metodo tenace, ma non si appella tanto

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alle convinzioni del singolo, quanto a quelle di un’istituzione, fissate dall’autorità, dallo Stato, ecc. Ma questi due modi – dice Peirce – non riescono a stabilire credenze durevoli nel tempo. Il terzo metodo, quello metafisico, non si appella alla tenacia ma al dubbio, al confronto, al dialogo, e ha come meta quella di pervenire a una credenza razionale. Questo metodo, più nobile degli altri, ha dato risultati meno apprezzabili di quanto si poteva sperare, perché i filosofi non si sono intesi sull’idea di ragione. Resta il quarto metodo, che Peirce segue tutta la vita: il metodo scientifico. Il metodo scientifico è quel procedimento secondo il quale gli uomini non soltanto elaborano le loro convinzioni in dialogo con altri uomini, ma le affidano al riscontro della prova pratica. La pratica alla quale viene affidato il compito di rivelare il significato logico è sempre un’interpretazione della realtà.

L’«abduzione»

Il vero problema era quello che già poneva Kant: come sono possibili giudizi sintetici a priori? Ossia come posso inferire cose che non osservo da quello che osservo e avere successo in questa inferenza? Peirce sostenne con molta coerenza che l’uomo ragiona avanzando ipotesi plausibili, e tali inferenze, o pensieri-segni, riflettono i diversi modi in cui noi diamo un senso ai fenomeni che osserviamo.

Il vero ragionamento fondamentale è quello che Peirce chiama «abduttivo».

Abduction is the process of forming an explanatory hypothesis. It is the only logical operation which introduces any new idea; for induction does nothing but determine a value, and deduction merely evolves the necessary consequences of a pure hypothesis.

Deduction proves that something must be; Induction shows that something actually is operative; Abduction merely suggests that something may be.
Its only justification is that from its suggestion deduction can draw a prediction which can be tested by induction, and that, if we are ever to learn anything or to understand phenomena at all, it must be by abduction that this is to be brought about.

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No reason whatsoever can be given for it, as far as I can discover; and it needs no reason, since it merely offers suggestions.
C.P.5, Pragmatism and Pragmaticism, Book 1: Lectures on Pragmatism, Chapter 4, Instinct and Abduction, n. 171

Peirce spiega il principio della logica abduttiva con l’esempio, diventato celebre, dei fagioli.

ABDUZIONE

(ragionamento sintetico ipotetico)

a)

regola

tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi

costante nota

b)

risultato

questi fagioli sono bianchi

constatazione di un fenomeno non facilmente prevedibile

quindi forse:

c)

caso

questi fagioli vengono da questo sacco

antecedente, spiega il rapporto esistente
tra risultato
e regola

L’abduzione è un ragionamento sintetico ipotetico: se è vero che le probabilità che tale inferenza sia corretta sono più basse che nella deduzione e nell’induzione, è anche vero che la verifica di tale inferenza nella realtà è sempre possibile. L’abduzione si basa sull’ipotesi di un caso, e la verifica dell’ipotesi consiste nella costruzione del rapporto tra una regola e un risultato: si basa su una considerazione nota per giungere a una nuova convinzione. Il valore creativo dell’abduzione è dunque superiore a quello dell’induzione e della deduzione, e ha una forza creativa che permette l’introduzione di idee nuove e originali.

In virtù di questa ricostruzione a ritroso il ragionamento prende anche il nome di «retroduzione». La semiosi, la significazione, la comprensione di un testo non segue un ragionamento deduttivo o induttivo […] ma abduttivo, che si limita a suggerire che qualcosa può essere. (Osimo 2002: 72-73)

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3. La teoria del segno

Peirce ha dato un contributo fondamentale alla scienza della traduzione moderna, che fortunatamente ha superato l’artificiosa distinzione tra una “teoria” e una “pratica” della traduzione. L’approccio semiotico alla traduzione permette di addentrarsi in modo corretto in un’attività razionale basata su elementi certi, non più basati su un istinto ma su un metodo. Vediamo, pur in estrema sintesi, la teoria del segno, meglio conosciuta come «Triade di Peirce».

In ogni situazione pratica di vita, dunque, agiscono sempre tre elementi, che fondano la teoria dei segni secondo Peirce: segno, interpretante e oggetto. «La semiosi è un’azione, o influenza, che è, o comporta, una collaborazione di tre soggetti, come un segno, il suo oggetto e il suo interpretante, senza che questa influenza tri-relativa sia in alcun modo risolvibile in azione tra coppie». (Osimo 2002: 66)

Now the relation of every sign to its object and interpretant is plainly a triad. A triad might be built up of pentads or of any higher perissad elements in many ways. But it can be proved – and really with extreme simplicity, though the statement of the general proof is confusing – that no element can have a higher valency than three.

C. P. 1, Principles of Philosophy, Book 3: Phenomenology, Chapter 1, Introduction, n. 292

Una cosa (segno) sta per un’altra (oggetto) passando da un segno mentale (interpretante).

INTERPRETANTE

(entità mentale evocata dal segno)

SEGNO OGGETTO

(parola, frase, testo di qualsiasi genere) (qualsiasi significato astratto o concreto collegato al segno)

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Tra le tante definizioni della triade fornite nei Colleted Papers, riporto quella ritenuta più canonica:

A representation is that character of a thing by virtue of which, for the production of a certain mental effect, it may stand in place of another thing. The thing having this character I term a representamen, the mental effect, or thought, its interpretant, the thing for which it stands, its object.

C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 6, On a new list of categories, n. 564

Utilizzo l’esempio fatto da Osimo: «Se vedo un albero spezzato in due, molte foglie verdi per terra e il terreno bagnato, questi sono segni che – verosimilmente – un temporale e un fulmine si sono abbattuti da poco in questa zona. In questo caso l’albero (segno) produce nella mia mente un pensiero (interpretante) che mi rimanda al temporale (oggetto)». (2002: 66)

Analizzo di seguito i tre vertici della Triade.

3.1 Sign

Il segno viene definito come «qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa in qualche aspetto o capacità». Si rivolge a qualcuno, ossia, crea nella mente di quella persona un segno equivalente, un segno «più sviluppato». Quel segno che crea lo chiama interpretante del primo segno. Il segno, denominato anche representamen, sta per qualcosa: il suo oggetto.

A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something in some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. That sign which it creates I call the interpretant of the first sign. The sign stands for something, its object. It stands for that object, not in all respects, but in reference to a sort of idea, which I have sometimes I called the ground of the representamen.

C.P. 2, Elements of Logic, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 228

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La traduzione è un anello fondamentale della concatenazione semiotica, dal momento che il fine ultimo della traduzione è rivelare il significato ultimo del segno. Questo svelamento è frutto di un processo traduttivo che si ambienta nella mente del traduttore.

Applicandolo alla parola scritta, tale processo avviene attraverso una parola (il segno) che porta a un significato (oggetto) passando dalla mente del traduttore, dove al segno corrisponde un’entità precisa (interpretante) che, sulla base dell’esperienza individuale relativa a quel segno, rimanda a una gamma di significati (oggetti), variabile nel tempo e necessariamente soggettiva. Il significato ultimo è inteso nella contingenza di un momento, soggetto a un ulteriore atto di traduzione/interpretazione/lettura. La «semiosi illimitata» è una serie infinita di rappresentazioni, ognuna rappresentante quel che le sta dietro, in una concatenazione di pensieri (traduzioni) che non ha mai fine, in quanto è sempre possibile arricchire un’interpretazione di nuovi elementi.

Per sgombrare il campo da possibili equivoci, vale la pena soffermarsi sull’espressione di Peirce sopra riportata «equivalent sign» con le parole di Osimo:

Per Peirce l’equivalenza è qualcosa di soggettivo («si rivolge a qualcuno»), è valida soltanto «sotto qualche aspetto» o «in qualche capacità». L’equivalenza non ha valore assoluto ma relativo, effimero. L’interpretante non è proprio un equivalente ma «un segno più sviluppato». La parola «equivalente» non è usata in senso stretto come «di pari valore», ma in senso molto più ampio. (2002: 70)

Peirce usa una metafora singolare, quella dello spogliarello in cui il “corpo” del segno non è mai del tutto svelato.

The easiest of those which are of philosophical interest is the idea of a sign, or representation. A sign stands for something to the idea which it produces, or modifies. Or, it is a vehicle conveying into the mind something from without. That for which it stands is called its object; that which it conveys, its meaning; and the idea to which it gives rise, its

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interpretant. The object of representation can be nothing but a representation of which the first representation is the interpretant. But an endless series of representations, each representing the one behind it, may be conceived to have an absolute object at its limit. The meaning of a representation can be nothing but a representation. In fact, it is nothing but the representation itself conceived as stripped of irrelevant clothing. But this clothing never can be completely stripped off; it is only changed for something more diaphanous. So there is an infinite regression here. Finally, the interpretant is nothing but another representation to which the torch of truth is handed along; and as representation, it has its interpretant again. Lo, another infinite series.

C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 2, The Categories in Detail, n. 339

Seguendo gli spunti estremamente originali di Peirce, il pensiero deve esistere e crescere in incessanti “traduzioni” nuove e più alte, altrimenti mostra di non essere vero pensiero. Se la serie di successivi interpretanti giunge a un termine, il segno è in tal modo reso imperfetto. Un segno, quindi, non è un segno se non si traduce in un interpretante, che diventa a sua volta un nuovo segno più sviluppato del primo.

Anything which determines something else (its interpretant) to refer to an object to which itself refers (its object) in the same way, the interpretant becoming in turn a sign, and so on ad infinitum.
No doubt, intelligent consciousness must enter into the series. If the series of successive interpretants comes to an end, the sign is thereby rendered imperfect, at least. If, an interpretant idea having been determined in an individual consciousness, it determines no outward sign, but that consciousness becomes annihilated, or otherwise loses all memory or other significant effect of the sign, it becomes absolutely undiscoverable that there ever was such an idea in that consciousness; and in that case it is difficult to see how it could have any meaning to say that that consciousness ever had the idea, since the saying so would be an interpretant of that idea.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 3, The Icon, Index and Symbol, n. 303

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Il rapporto tra segno e oggetto non è sempre dello stesso tipo e il vincolo tra essi non ha la stessa intensità: tale relazione può essere motivata da una ragione, da una somiglianza fisica, oppure può essere legata a un’associazione mentale.

Peirce individua tre gradi di arbitrarietà nel rapporto tra segno e oggetto, tutti indispensabili nel pensiero, che danno vita a tre fondamentali tipi di segno: l’icona, l’indice e il simbolo.

One very important triad is this: it has been found that there are three kinds of signs which are all indispensable in all reasoning; the first is the diagrammatic sign or icon, which exhibits a similarity or analogy to the subject of discourse; the second is the index, which like a pronoun demonstrative or relative, forces the attention to the particular object intended without describing it; the third [or symbol] is the general name or description which signifies its object by means of an association of ideas or habitual connection between the name and the character signified.

C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 3, A Guess at the Riddle, n. 369

La prima classe di segni, l’icona, è una rappresentazione poco arbitraria dell’oggetto. Non ha una connessione dinamica con l’oggetto che rappresenta, ma le sue qualità assomigliano a quelle dell’oggetto, e possono quindi rimandare ad esso pur non essendovi direttamente collegate.

An Icon is a sign which refers to the Object that it denotes merely by virtue of characters of its own, and which it possesses, just the same, whether any such Object actually exists or not. It is true that unless there really is such an Object, the Icon does not act as a sign; but this has nothing to do with its character as a sign. Anything whatever, be it quality, existent individual, or law, is an Icon of anything, in so far as it is like that thing and used as a sign of it.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 247

L’indice, seconda classe di segni, è influenzato dall’oggetto, ha necessariamente alcune qualità in comune con l’oggetto, e la mente interpretante può semplicemente constatarlo.

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An Index is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of being really affected by that Object. […] In so far as the Index is affected by the Object, it necessarily has some Quality in common with the Object, and it is in respect to these that it refers to the Object. It does, therefore, involve a sort of Icon, although an Icon of a peculiar kind; and it is not the mere resemblance of its Object, even in these respects which makes it a sign, but it is the actual modification of it by the Object.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 248

Il simbolo, terza classe di segni, è fisicamente legato all’oggetto in virtù di una legge, di una convenzione condivisa, di un’associazione mentale riconosciuta.

A Symbol is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of a law, usually an association of general ideas, which operates to cause the Symbol to be interpreted as referring to that Object. […] Not only is it general itself, but the Object to which it refers is of a general nature. Now that which is general has its being in the instances which it will determine. There must, therefore, be existent instances of what the Symbol denotes, although we must here understand by “existent,” existent in the possibly imaginary universe to which the Symbol refers. The Symbol will indirectly, through the association or other law, be affected by those instances; and thus the Symbol will involve a sort of Index, although an Index of a peculiar kind. It will not, however, be by any means true that the slight effect upon the Symbol of those instances accounts for the significant character of the Symbol.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 249

Il pensiero si sviluppa attraverso i segni, che cambiano nel tempo, trasformandosi incessantemente in pensieri più sviluppati. Un simbolo, in particolare, una volta in essere, si diffonde tra i popoli e col tempo porta in sé nuove significazioni:

Symbols grow. They come into being by development out of other signs, particularly from icons, or from mixed signs partaking of the nature of icons and symbols. We think only in signs. These mental signs are of mixed nature; the symbol-parts of them are called concepts. If a man makes a new symbol, it is by thoughts involving concepts. So it is only out of symbols

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that a new symbol can grow. A symbol, once in being, spreads among the peoples. In use and in experience, its meaning grows. Such words as force, law, wealth, marriage, bear for us very different meanings from those they bore to our barbarous ancestors.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 3, The Icon, index and symbol, n. 302

All’interno delle argomentazioni su icona, simbolo e indice, Peirce colloca i segni linguistici nel tipo intermedio: essi sono simboli, ed esplicano tale funzione solo se sono interpretati come segni.

3.2 Interpretant

Il termine «interpretante», o «segno interpretante» è stato coniato da Peirce per designare quel segno mentale, quel pensiero, quella rappresentazione, che funge da mediazione soggettiva tra segno e oggetto. Il segno è tradotto in un oggetto (concreto o astratto) per mezzo di un passaggio mentale, frutto dell’esperienza individuale, chiamato appunto «interpretante», inteso come segno prodotto dalla nostra mente in reazione alla percezione del primo segno. Ogni atto di lettura si configura come processo traduttivo intersemiotico.

Un segno deve avere un’interpretazione o significazione o, come lo chiamo io, un interpretante. Questo interpretante, questa significazione è semplicemente una metempsicosi in un altro corpo; una traduzione in un altro linguaggio. Questa nuova versione del pensiero ha ricevuto a sua volta un’interpretazione, e il suo interpretante viene interpretato, e così via, finché non compare un interpretante che non ha più la natura del segno. (Peirce, in Gorlée: 126)

L’interpretante può essere un segno mentale di un’altra classe.

In consequence of every sign determining an Interpretant, which is itself a sign, we have sign overlying sign. The consequence of this, in its turn, is that

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a sign may, in its immediate exterior, be of one of the three classes, but may at once determine a sign of another class.
C.P. 2, Book 1, Chapter 2, Partial Synopsis of a Proposed Work in Logic, n. 94

La semiosi dei tre tipi di segni descritti poco sopra – indice, icona, simbolo – dà luogo a sua volta a tre tipi di interpretanti. L’interpretante di un segno iconico è emozionale (emotional); quello di un segno indessicale è energetico (energetic); l’interpretante legato al simbolo può essere intellettuale (intellectual) o logico (logical). (John Dewey, Peirce Theory of Linguistic Signs, Thought, and Meaning, in The Journal of Philosophy, Volume XLIII, No. 4, February 14, 1946).

All’interno del processo traduttivo, il collegamento tra segno e interpretante è uno degli aspetti più interessanti da indagare.

Nella mente del traduttore avviene il collegamento tra una parola (in qualsiasi lingua nota) e un significato (nel linguaggio mentale – non verbale – del traduttore). Tale collegamento non è arbitrario (come invece è in Saussure), ma soggettivamente necessario; necessità che scaturisce dalla precisione della percezione soggettiva. Laddove in Saussure la relazione tra signifiant e signifié è arbitraria, in Peirce la relazione tra segno (parola) e oggetto (significato) è mediata dall’interpretante, entità mentale che, all’interno di uno stesso soggetto, non risulta affatto arbitraria ma esperienziale. Il risultato di questa percezione del testo (nel caso del traduttore, del prototesto) è una concezione mentale, un pensiero o una serie di pensieri che, per il traduttore, stanno per il testo percepito. In altre parole, è l’idea che il traduttore si è fatto del testo letto. Partendo da questa idea, avviene la riformulazione del messaggio nella cultura ricevente, tenendo conto di residuo culturale2 e ridondanza3. (Osimo 2006: 7, neretto aggiunto)

2 «Nella teoria matematica della comunicazione, elemento del messaggio che non giunge a destinazione. Elemento della traduzione che, dopo avere elaborato la propria strategia, il traduttore decide di non tradurre all’interno del testo nella cultura ricevente perché risulta una delle sottodominanti meno prioritarie o risulta difficile o apparentemente impossibile da tradurre. Il residuo viene generalmente tradotto nel metatesto inteso come apparato paratestuale» (Osimo 2004: 222).

3 «Nella teoria della comunicazione, surplus di informazione inviato allo scopo di garantire l’arrivo a destinazione del messaggio nella sua interezza» (Osimo 2004: 223).

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L’interpretante è soggettivo perché soggettiva è l’esperienza di ciascuno di noi, come riconosce con estrema efficacia George Steiner.

Non ci sono due esseri umani che condividano un contesto associativo identico. Poiché tale contesto è formato dalla totalità dell’esistenza dell’individuo, poiché comprende non solo la somma della memoria e dell’esperienza personale, ma anche il bacino di quell’inconscio particolare, varia da persona a persona. Non esistono facsimili della sensibilità, né psichi gemelle. Tutte le forme e le notazioni del discorso, perciò, comportano un elemento latente o realizzato di specificità individuale. Sono, in parte, un idioletto. (Steiner: 178-179)

Cosa intende Peirce per «esperienza»? Peirce colloca l’esperienza nell’ambito del processo di acquisizione della conoscenza, che può essere costituito da tre differenti dinamiche.
La prima dinamica è l’istinto, che può presentare a sua volta tre caratteri distintivi: è conscia, è determinata verso un quasi-scopo, e sotto certi aspetti sfugge a qualsiasi controllo.

Descriptive Definition of a Human Instinct, as the term will here be used. An animal instinct is a natural disposition, or inborn determination of the individual’s Nature (his ‘nature’ being that within him which causes his behaviour to be such as it is), manifested by a certain unity of quasi- purpose in his behaviour. In man, at least, this behaviour is always conscious, and not purely spasmodic. More than that, unless he is under some extraordinary stress, the behaviour is always partially controlled by the deliberate exercise of imagination and reflexion; so much so that to the man himself his action appears to be entirely rational, so far is it from being merely sensori-motor. General analogy and many special phenomena warrant the presumption that the same thing is true of the lower animals, though they are undoubtedly far less reflective than men. Yet the adaptation of the behaviour to its quasi-purpose in some definite part overleaps all control … So then the three essential characters of instinctive conduct are that it is conscious, is determined to a quasi-purpose, and that in definite respects it escapes all control. C.P. 7, Science and Philosophy, Note n. 19.

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La seconda dinamica, plasmata dall’istinto, è – appunto – l’esperienza, luogo in cui le nuove conoscenze sono memorizzate dall’individuo in una sorta di memoria storica, che sta alla base della capacità di rischiare inferenze. Come si forma precisamente l’esperienza? Attraverso una serie di sorprese, di imprevisti nei quali un individuo si imbatte all’interno della realtà, che sono all’origine di ogni scoperta.

But precisely how does this action of experience take place? It takes place by a series of surprises. There is no need of going into details. At one time a ship is sailing along in the trades over a smooth sea, the navigator having no more positive expectation than that of the usual monotony of such a voyage, when suddenly she strikes upon a rock. The majority of discoveries, however, have been the result of experimentation. […] It is by surprises that experience teaches all she deigns to teach us.

C.P. 5, Book 1, Lectures on Pragmatism, n. 51

L’abitudine, terza e ultima dinamica del processo di acquisizione della conoscenza, è il luogo di deposito delle esperienze a partire dalle quali l’uomo è in grado di individuare una verità nuova. All’interno dell’abitudine, è possibile individuare diversi gradi di «forza», che variano dalla dissociazione completa all’associazione inseparabile, dalla prontezza all’azione all’eccitabilità, e presentano una diversa durata.

Habits have grades of strength varying from complete dissociation to inseparable association. These grades are mixtures of promptitude of action, say excitability and other ingredients not calling for separate examination here. The habit-change often consists in raising or lowering the strength of a habit. Habits also differ in their endurance (which is likewise a composite quality). But generally speaking, it may be said that the effects of habit- change last until time or some more definite cause produces new habit- changes. It naturally follows that repetitions of the actions that produce the changes increase the changes. […] There are, of course, other means than repetition of intensifying habit-changes. In particular, there is a peculiar kind of effort, which may be likened to an imperative command addressed to the future self. I suppose the psychologists would call it an act of auto- suggestion.

C.P. 5, Book 3, Chapter 1, A Survey of Pragmaticism, n. 477

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La triade periceiana dell’acquisizione della conoscenza trova una diretta applicazione al processo della lettura. Così la presenta Osimo:

Scopo istintivo della lettura è trovare il significato del testo. L’intuizione, che in questo processo è fondamentale, è quel quid che fa la differenza tra deduzione e abduzione. Permette di fare inferenze, congetture (provvisorie) che introducono conoscenze (ipotetiche) nuove, e costringe a controllarle. L’esperienza individuale, con il suo bagaglio di percezioni, anche se non sempre a livello del tutto consapevole, serve ad affrontare la decodifica, le inferenze sono basate sulla creatività, ma anche sulle esperienze acquisite. E il realismo delle ipotesi creative è tutto affidato all’esperienza. Quando un’inferenza si dimostra utile e produttiva, dà luogo a ripetizioni, che col tempo formano l’abitudine, generalizzazione dell’esperienza che agisce sinteticamente individuando regolarità e reagendovi in modo omogeneo. L’abitudine interpretativa guida il lettore che procede veloce finché non incontra uno scoglio, un fenomeno anomalo, un testo marcato, che attiva la modalità di decodifica lenta, analitica. Quando l’applicazione di un’abitudine interpretativa si rivela fallace, entra in gioco il terzo lato del “triangolo”, e l’esperienza nuova produce modifiche nell’abitudine acquisita. Ciò a sua volta ha effetto sulla percezione futura, e così via all’infinito.

Il traduttore si inserisce nel ragionamento, anche in questo caso, con un ruolo di primo piano. La sua esperienza di “leggente” e di “scrivente” è estesa perché è necessario – per ragioni anche di natura economica – che la lettura/scrittura possa procedere veloce e, nel contempo, arrestarsi o rallentare al momento giusto. (2004 a : 52-53)

Il processo traduttivo si conclude quindi nel rischio della scelta, compiuta sulla base di un’abduzione, ossia – come già detto – di un’inferenza logica che, sulla base di un evento, risale alla regola generale che spiega in modo verosimile tale evento.

Eco ci aiuta a chiarire questa dinamica:

Interpretare qualcosa come se fosse in un certo modo significa avanzare una ipotesi, perché il giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data […]. E deve essere un tipo di ipotesi molto avventuroso, perché dal particolare (da un Risultato) occorre inferire una

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Regola che non conosce ancora; e per trovare da qualche parte quella Regola occorre ipotizzare che quel Risultato sia un Caso di quella Regola da costruire. Kant non si è espresso in questi termini, certo, ma lo ha fatto il kantiano Peirce: è chiaro che il giudizio riflettente altro non è che un’abduzione. (Eco 1997: 74)

La scelta operata dal traduttore porta all’individuazione di un significato «primario».

But of this endless series of equivalent propositions there is one which my situation in time makes to be the practical one for me, and that one becomes for me the primary meaning.
C.P. 8, Reviews, Correspondence and Bibliography, Book 1, Reviews, Chapter 13, On Pragmatism, from a review of a book on cosmology, n. 195

Il significato «primario» non ha nulla a che vedere con la verità, ha a che vedere con la realtà. Nel corso di una traduzione il significato primario è quello che scelgo di attualizzare nel mio metatesto. Lo chiamiamo «primario» nel senso di «primario tra i diversi significati possibili», attualizzato in quel preciso momento e contesto contingente e soggetto a una ulteriore traduzione/interpretazione/ lettura. (Osimo 2002: 71)

3.3. Object

Concludo il percorso di definizione con il terzo vertice della triade: l’oggetto. L’oggetto, denominato da alcuni studiosi anche «referente» o denotatum (Jakobson), è l’elemento della realtà a cui rimanda il segno. L’oggetto può esistere a prescindere dal segno, attraverso il quale soltanto è conoscibile.

Come spiega Rivoltella, il concetto di oggetto è complesso: Peirce vi distingue due dimensioni che definisce «oggetto immediato» e «oggetto

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dinamico». L’oggetto dinamico è la «descrizione operativa di una classe di possibili esperienze» (Eco: 29): quando il comandante dice ai suoi soldati «Ri-poso!» – l’esempio è di Peirce – l’oggetto dinamico di quest’ordine comprende sia il desiderio del comandante che i suoi uomini assumano la posizione di riposo, sia l’azione dei soldati che obbedendo all’ordine si mettono in posizione di riposo. Più che una realtà «in carne e ossa» l’oggetto dinamico è dunque per Peirce «un’istruzione semantica» (Eco) che vincola il segno alla sua rappresentazione: l’oggetto dinamico evoca, cioè, un insieme di esperienze possibili in un determinato contesto culturale e sociale. Rispetto a questo primo tipo di oggetto, l’oggetto immediato è, invece, l’oggetto così come il segno lo rappresenta, cioè il «modo in cui l’oggetto dinamico è focalizzato» (Eco). La modalità di questa focalizzazione viene definita da Peirce ground: questo è ciò che può venire compreso e trasmesso di un dato oggetto sotto un certo profilo, ciò che dell’oggetto il segno seleziona. Dunque, l’oggetto immediato è il risultato della selezione che il segno compie all’interno dell’oggetto dinamico. (Rivoltella: 90)

In sintesi, l’oggetto immediato è l’idea su cui si è costruito il segno, ed è soggetto a cambiamenti. L’oggetto dinamico è il concetto reale a cui il segno rimanda.

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Osservazioni conclusive

Tento di analizzare alcuni dei numerosissimi aspetti dell’applicazione della teoria peirciana alla traduzione.
Il processo di significazione, la progressiva approssimazione che da un segno conduce a un significato passando da un interpretante (filtrato dalla mente del traduttore), è illuminante se applicato alla triade cultura emittente-cultura traducente-cultura ricevente del processo traduttivo.

Il processo mentale che da un testo nella cultura emittente producesse un testo nella cultura ricevente, senza attraversare una fase intermedia di trasformazione in materiale mentale poi riconvertito e riverbalizzato, non sarebbe traduzione testuale, ma creerebbe un prodotto di scarto di cui a volte si percepiscono le tracce in quello che viene chiamato «traduttese». (Osimo 2004 a : 95)

Riporto di seguito una tabella che dettaglia le fasi di tale processo:

Percezione

Una parola (segno) viene letta

Correlazione

Nella mente si sviluppa un interpretante che mette in relazione quel segno con un oggetto

Interpretazione

L’interpretante è una rappresentazione psichica che implica un’interpretazione, spesso aconscia, della relazione tra segno e oggetto

Inferenza

L’interpretazione aconscia è ipotetica e provvisoria (abduttiva)

Percezione

La lettura continua: altri segni

Evoluzione dell’interpretazione

Alla luce dell’interpretazione dei nuovi segni si evolvono gli interpretanti, e si modifica la prima interpretazione del primo segno, che non sarà mai stabile, ma sempre in evoluzione, alla luce delle nuove percezioni (esperienze)

(Osimo 2004 c : 34)

La semiosi illimitata è la dinamica più adeguata a spiegare l’atto traduttivo: una traduzione non può mai considerarsi finita, ma provvisoria e passibile di miglioramento (Osimo: 2000-2004).

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Il concetto di traducibilità, nell’ottica perceiana, assume una luce assai originale, dal momento che il senso di un atto di traduzione varia nel tempo, ed è condizionato dal contesto linguistico, culturale e storico in cui viene accolto. Dinda Gorlée si è occupata approfonditamente di questo aspetto, ponendosi domande che identificano vere e proprie sfide per il “mestiere” del traduttore: una traduzione ha una scadenza? come si determina la traducibilità di un testo? hanno senso parole come «fedele/infedele» riferite a una traduzione? Ecco le sue risposte:

Nulla è per sempre: tutti i segni e i sistemi segnici procedono da uno stato più caotico, sorprendente, paradossale ecc. e passano attraverso la traduzione verso uno stato più ordinato, prevedibile, razionalizzato […] Le opere originali sono, e spesso col tempo restano, autentiche, autonome, uniche, e quindi entità sostanzialmente insostituibili. Una traduzione, tuttavia non ha la stabilità di un’opera originale e diventa ossificata come testo-segno datato. […] Non si può sottolineare abbastanza che le traduzioni diventano obsolete perché il contesto culturale generale e specifico cambia continuamente, mettendo in discussione questioni come traducibilità versus intraducibilità, e fedeltà versus infedeltà, rendendole del tutto ridondanti. (Gorlée: 2000, 126)

Prima di lei, Anton Popovič, teorico slovacco della letteratura e della traduzione di fama mondiale, ha esortato ad abbandonare la visione impressionistica della traduzione, e afferma con chiarezza che «la contrapposizione empiricamente riconoscibile tra le cosiddette traduzioni “fedele” e “libera” non spiega le operazioni traduttive dal punto di vista funzionale, pertanto è inaccettabile». (2006: 22)

A conferma della natura semiotica dell’atto traduttivo, lo scienziato bulgaro Aleksandr Lûdskanov ha dato un contributo importante in un articolo dal titolo A semiotic approach to the theory of translation, pubblicato nel 1975 nella rivista Language Sciences. Negli anni ’70, a seguito della crescita esponenziale dell’attività traduttiva a livello mondiale, Lûdskanov, che

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lavorava presso l’Accademia di Scienze, viene incaricato di realizzare il “sogno” della traduzione automatica.
Dalla sua profonda riflessione emergono domande cruciali e più che mai attuali: la scienza della traduzione è possibile? Quale oggetto di studio ha? In quale area si colloca? Le sue risposte sono altrettanto perentorie:

Una scienza della traduzione è possibile. Questa scienza deve essere una teoria generale delle trasformazioni semiotiche. Il suo posto è nella semiotica, non nella linguistica, nella letteratura ecc. […] Le trasformazioni semiotiche sono sostituzioni dei segni che codificano un messaggio mediante segni di un altro codice, conservando (per quanto possibile data l’entropia) informazioni invarianti in relazione a un determinato sistema di riferimento. (Lûdskanov 1975: 7)

Popovič ha ripreso il pensiero di Lûdskanov confermando la necessità della definizione di una concezione generale del processo traduttivo, che vada al di là delle caratteristiche stilistiche delle diverse tipologie di testo e dei loro obiettivi:

Lûdskanov parla di una concezione unica per i diversi tipi di traduzione. Si riferisce alla traduzione di un qualsiasi messaggio da un codice a un altro, mentre i singoli tipi (“generi”, nella sua terminologia) di traduzione – testo sociopolitico, scientifico-tecnico, artistico – vengono considerati casi particolari del concetto generale di traduzione. (Popovič: 10)

Nelle ultime parole del suo articolo, Lûdskanov conferma che «qualsiasi traduzione richiede scelta e la libera scelta è creatività» (1975: 8). E aggiungo che la traduzione è sempre un’attività razionale anche quando ha come oggetto testi creativi.

Un’adeguata presa di coscienza di tutte le fasi del processo delle trasformazioni semiotiche renderebbe più consapevole e responsabile il lavoro del traduttore dalla fase iniziale – la percezione – fino all’ultima fase, quella che si può definire «critica della traduzione». Desidero accennare a questa disciplina – tanto interessante da meritare un

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approfondimento più adeguato in altra sede – in quanto essa è parte integrante dell’attività del traduttore, come spiega Osimo.

Le applicazioni del concetto di abduzione di Peirce alla critica della traduzione possono essere viste in questi termini: esiste un primo grado della ricostruzione abduttiva, la retroduzione, applicato alla critica letteraria (l’abduzione sull’autore, i tentativi di inferire la strategia narrativa sulla base del risultato, che è poi il testo letterario stesso); un secondo grado di abduzione è rappresentato dalla traduzione, operazione nella quale è necessario effettuare congetture tanto sull’autore (vedi il primo grado) quanto sul lettore del metatesto, per elaborare una strategia traduttiva che si sovrappone (e in taluni casi sostituisce) alla strategia narrativa del prototesto; il terzo grado o livello dell’abduzione applicata alla letteratura si vede all’opera nel caso della critica della traduzione, dove sulla base di un risultato di secondo grado (la traduzione di un ipotetico, ipotizzato prototesto) le congetture si spingono oltre che sull’autore (primo grado) e sul metatesto (secondo grado), anche sul traduttore e sulla sua strategia traduttiva (terzo grado). (Osimo 2004 b : 39-40)

A conclusione di queste brevi annotazioni, riporto un’affermazione di Popovič, già citato nel corso del contributo, che conferma la necessità di approfondire queste riflessioni: «La teoria difende il traduttore dal praticismo, dalle abitudini, dagli stereotipi creativi, dalle convenzioni. La riflessione teorica è d’impulso per chi ha smesso di crescere e si è fossilizzato» (2006: XXVIII).

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ILARIA GIANETTO Pensiero e linguaggio in Vygotskij Un glossario

Pensiero e linguaggio in Vygotskij Un glossario

ILARIA GIANETTO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica marzo 2006

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© Lev Semënovič Vygotskij 1934
© Ilaria Gianetto per l’edizione italiana 2006

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ABSTRACT IN ITALIANO

La candidata presenta un glossario sul lessico vygotskijano tratto dall’opera dello psicolinguista russo intitolata Pensiero e linguaggio; in essa Vygotskij propone un’indagine sul fenomeno da lui denominato «pensiero verbale», riferendosi con questo termine al prodotto della relazione esistente tra pensiero e linguaggio, due facoltà precedentemente considerate l’una indipendente dall’altra o la prima come sottoprodotto della seconda. Vygotskij sviluppa inoltre un nuovo metodo per studiare tale fenomeno; si tratta di un metodo che scompone il pensiero verbale nelle sue unità componenti, ovvero nei prodotti dell’analisi di tale unità globale che ne conservano le proprietà fondamentali. Vygotskij identifica questa unità non decomponibile ulteriormente nel significato della parola, espressione sia della sfera del pensiero sia di quella del linguaggio. Il grande merito dello studioso sta a questo punto nell’aver rivisto le teorie esistenti sul cosiddetto «linguaggio interno» o «endofasia», scoprendone le particolari caratteristiche e regole di funzionamento e studiandone il ruolo di mediatore tra il pensiero e il linguaggio, intuendo cioè che attraverso di esso il pensiero si materializza nella parola e la parola si volatilizza nel pensiero. In ultimo, Vygotskij introduce il concetto di «zona di sviluppo prossimo» per indicare l’area in cui si realizza lo sviluppo potenziale del bambino mediante la collaborazione con un adulto.

Parole chiave: Endofasia, Linguaggio egocentrico, Linguaggio esterno, Linguaggio interno, Linguaggio scritto, Pensiero verbale, Significato, Unità componente, Volatilizzazione, Zona di sviluppo prossimo.

ENGLISH ABSTRACT

The candidate presents a glossary of Vygotsky’s terminology taken from his work Thought and Language. In this work, the Russian psycholinguist analyzes what he calls “verbal thought”, in other words the product of the relationship between thought and language. These two skills were previously considered either as independent one from the other, or the first as a subproduct of the latter. Moreover, Vygotsky develops a new method to study this phenomenon; his method decomposes the verbal thought into component units, into products of the analysis of the global whole, while maintaining its fundamental features. Vygotsky identifies this unit that cannot be further split as the meaning of the word, which involves both the thought area and the language area. The psycholinguist deserves particular praise for having reassessed existing theories on so- called “inner speech” or “endophasy”, discovering its particular features and working out rules and studying its role as mediator between thought and language. Indeed, he realizes that through it, thought materializes into words and words turn into inward thought. Lastly, Vygotsky develops the concept of “zone of proximal development”, meaning the area in which a child’s potential development takes place by means of the collaboration of an adult.

Key words: Endophasy, Egocentric speech, External speech, Inner speech, Written speech, Verbal thought, Meaning, Component unit, Turning of speech into inward thought, Zone of proximal development.

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ABSTRACT EN ESPAÑOL

La candidata presenta un glosario sobre el léxico de Vygotsky en la obra del psicolingüista ruso titulada Pensamiento y lenguaje; en esa Vygotsky efectúa un estudio sobre el fenómeno che él denomina «pensamiento verbal», haciendo referencia con este término al producto de la relación existente entre pensamiento y lenguaje, dos facultades que antes se consideraban independientes una de otra o la primera como subproducto de la segunda. Además, Vygotsky desarrolla un método nuevo para estudiar este fenómeno; se trata de un método que descompone el pensamiento verbal en sus unidades componentes, o sea, en los productos del análisis de esta unidad global que conservan su propiedades fundamentales. Vygotsky identifica esta unidad no descomponible ulteriormente en el significado de la palabra, expresión tanto de la esfera del pensamiento como de la del lenguaje. El gran mérito del estudioso está, llegados a este punto, en haber revisado las teorías existentes sobre el llamado «lenguaje interior» o «endofasia», al haber descubierto sus particulares características y reglas de funcionamiento y haber estudiado su papel de mediador entre pensamiento y lenguaje, es decir, haber entendido que a través del mismo, el pensamiento se materializa en la palabra y la palabra se volatiliza en el pensamiento. Por último, Vygotsky intoduce el concepto de «zona de desarrollo próximo» para referirse al área en la que se realiza el desarrollo potencial del niño gracias a la colaboración con un adulto.

Palabras clave: Endofasia, Lenguaje egocéntrico, Lenguaje exterior, Lenguaje interior, Lenguaje escrito, Pensamiento verbal, Significado, Unidad componente, Volatilización, Zona de desarrollo próximo.

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SOMMARIO

ABSTRACT IN ITALIANO………………………………………………………. 3

ENGLISH ABSTRACT …………………………………………………………….. 3

ABSTRACT EN ESPAÑOL ………………………………………………………. 4

SOMMARIO…………………………………………………………………………….. 5

PREFAZIONE – CRITERI DI REDAZIONE ……………………………. 7

GLOSSARIO ……………………………………………………………………………. 9

AGGLUTINAZIONE ………………………………………………………………………………………………….. 9 APPRENDIMENTO ……………………………………………………………………………………………………. 9 ATTIVITÀ VERBALE……………………………………………………………………………………………….11 ASTRAZIONE ………………………………………………………………………………………………………….11 COMPLESSO …………………………………………………………………………………………………………… 12 COMPLESSO ASSOCIATIVO …………………………………………………………………………………..14 COMPLESSO A CATENA…………………………………………………………………………………………15 COMPLESSO COLLEZIONE ……………………………………………………………………………………. 15 COMPLESSO DIFFUSO ……………………………………………………………………………………………16 CONCETTO …………………………………………………………………………………………………………….. 17 CONCETTO POTENZIALE……………………………………………………………………………………….17 CONCETTO QUOTIDIANO………………………………………………………………………………………18 CONCETTO SCIENTIFICO……………………………………………………………………………………….19 CONCETTO SPONTANEO………………………………………………………………………………………..20 CONDENSAZIONE ………………………………………………………………………………………………….. 20 ENDOFASIA ……………………………………………………………………………………………………………. 20 EQUIVALENZA DEI CONCETTI………………………………………………………………………………20 FASE AFFETTIVO-VOLITIVA………………………………………………………………………………….20 FASE EMOZIONALE………………………………………………………………………………………………..20 FASE PRE-INTELLETTIVA………………………………………………………………………………………21 FUSIONE CONCRETA ……………………………………………………………………………………………..21 GENERALITÀ …………………………………………………………………………………………………………. 21 GENERALIZZAZIONE …………………………………………………………………………………………….. 22 IDIOMATICITÀ………………………………………………………………………………………………………..23 INFLUENZA DEL SENSO…………………………………………………………………………………………23 INTROSPEZIONE …………………………………………………………………………………………………….23 LEGAME ASSOCIATIVO …………………………………………………………………………………………23 LINGUA ………………………………………………………………………………………………………………….. 23 LINGUA MATERNA…………………………………………………………………………………………………25 LINGUA STRANIERA………………………………………………………………………………………………25 LINGUAGGIO …………………………………………………………………………………………………………. 26 LINGUAGGIO AFASICO …………………………………………………………………………………………. 27 LINGUAGGIO EGOCENTRICO ……………………………………………………………………………….. 28 LINGUAGGIO ESTERNO ………………………………………………………………………………………… 29

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LINGUAGGIO FASICO…………………………………………………………………………………………….30 LINGUAGGIO INTELLETTIVO………………………………………………………………………………..30 LINGUAGGIO INTERNO………………………………………………………………………………………….31 LINGUAGGIO ORALE……………………………………………………………………………………………..33 LINGUAGGIO SCRITTO…………………………………………………………………………………………..33 PAROLA…………………………………………………………………………………………………………………..34 PARTECIPAZIONE…………………………………………………………………………………………………..34 PENSIERO ARTIFICIALE…………………………………………………………………………………………34 PENSIERO ASTRATTO…………………………………………………………………………………………….34 PENSIERO CONCRETO……………………………………………………………………………………………35 PENSIERO PER COMPLESSI …………………………………………………………………………………… 35 PENSIERO PER CONCETTI ……………………………………………………………………………………..35 PENSIERO VERBALE………………………………………………………………………………………………35 PERIODO SENSITIVO………………………………………………………………………………………………36 PREDICATIVITÀ ……………………………………………………………………………………………………..36 PRESA DI COSCIENZA…………………………………………………………………………………………….36 PSEUDOCONCETTO………………………………………………………………………………………………..37 RIFERIMENTO ALL’OGGETTO……………………………………………………………………………….38 SEGNO ……………………………………………………………………………………………………………………. 38 SENSO …………………………………………………………………………………………………………………….. 39 SIGNIFICATO ………………………………………………………………………………………………………….40 SINCRETISMO ………………………………………………………………………………………………………… 40 SISTEMA DI CONCETTI ………………………………………………………………………………………….41 SOVRAPPOSIZIONE ……………………………………………………………………………………………….. 41 SPOSTAMENTO ………………………………………………………………………………………………………41 SUONO ……………………………………………………………………………………………………………………. 41 STRUMENTO DI PRODUZIONE INTELLETTUALE …………………………………………………41 SVILUPPO ……………………………………………………………………………………………………………….42 SVILUPPO ARTIFICIALE…………………………………………………………………………………………43 TRATTO DISTINTIVO ……………………………………………………………………………………………..44 UNITÀ COMPONENTE…………………………………………………………………………………………….44 VOCALIZZAZIONE …………………………………………………………………………………………………. 44 VOLATILIZZAZIONE ………………………………………………………………………………………………45 ZONA DI SVILUPPO PROSSIMO …………………………………………………………………………….. 45

APPENDICE DI RIFERIMENTO ITALIANO-INGLESE- SPAGNOLO……………………………………………………………………………. 47

APPENDICE DI RIFERIMENTO INGLESE-ITALIANO- SPAGNOLO……………………………………………………………………………. 49

APPENDICE DI RIFERIMENTO SPAGNOLO-ITALIANO- INGLESE ……………………………………………………………………………….. 51

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ………………………………………….. 53

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PREFAZIONE – CRITERI DI REDAZIONE

Il seguente glossario è stato da me realizzato a partire dall’analisi dell’opera maestra dello psicolinguista russo Lev Semënovič Vygotskij Pensiero e linguaggio. Tale opera viene pubblicata per la prima volta postuma nel 1934; seguono altre due edizioni russe del libro in cui lo scritto viene adattato alle varie imposizioni di censura dettate dal regime dei tempi per quanto riguarda termini di stampo politico e riferimenti a personaggi politici, ed infine, a partire dal 1962 l’opera viene tradotta in almeno tredici lingue, permettendo finalmente al pensiero di Vygotskij di diffondersi in tutto il mondo.

Il presente lavoro si basa sulla settima edizione italiana del 2003 di Luciano Mecacci, il quale ha condotto la traduzione dell’opera direttamente sull’edizione russa del 1934, rispettandone il più possibile la struttura, e sulla prima edizione americana del 1962 di Eugenia Hanfmann e Gertrude Vakar; le citazioni sono tratte, oltre che dalle due edizioni sopra citate, anche da testi on line di analisi e critica dell’opera in lingua italiana, inglese e spagnola.

Per quanto riguarda il metodo di pianificazione del glossario da me adottato, parallelamente al lavoro di lettura dell’intera opera di Vygotskij ho portato avanti in essa un lavoro di individuazione e sottolineatura dei termini su cui si è soffermata nel dettaglio l’indagine di Vygotskij sul pensiero e il linguaggio; quindi ho eseguito la schedatura dell’opera sulla base di tali termini per poter ottenere un quadro generale di ognuno. A questo punto ho fatto seguire un lavoro di selezione dei termini che sarebbero poi diventati le voci del glossario sulla base delle novità apportate da tali termini rispetto alle teorie precedenti a Vygotskij o sulla base della rielaborazione e ricontestualizzazione da parte dello studioso russo di termini già esistenti nel campo della psicologia e della linguistica. Ho incluso nel glossario sia voci riguardanti esplicitamente il pensiero e il linguaggio, sia voci legate ad essi in maniera più indiretta, ma comunque complementari e di fondamentale importanza per una visione il più organica

possibile del tema del lavoro. Una volta pronta la lista di voci da includere nel glossario, ho 7

iniziato la stesura delle definizioni, per le quali mi sono servita in parte delle stesse parole di Vygotskij o dei critici che hanno commentato la sua opera e in parte della mia rielaborazione personale di concetti, analisi e spiegazioni. Ho ritenuto importante optare per delle definizioni il più complete possibili, ma allo stesso tempo sintetiche per rendere la lettura interessante e leggera; quindi, laddove la definizione, per importanza o per grado di difficoltà, comportava una serie di voci minori, ho scelto di suddividere la voce stessa in più voci per facilitarne la consultabilità. L’altra caratteristica che ho impresso al lavoro, oltre alla rapida accessibilità al contenuto delle definizioni, è la massima agevolezza nella consultazione del glossario in generale e in particolare nella consultazione interconnessa delle voci che hanno uno stretto legame tra loro; ho quindi dotato le voci di una rete interna di rimandi, sia dichiarati per iscritto per una versione cartacea del glossario, sia segnalati attraverso collegamenti ipertestuali per una possibile versione on line. Inoltre, una volta terminata la stesura del glossario, durante la rilettura delle voci, ho selezionato alcuni termini interni alle voci stesse con i quali ho creato ulteriori voci di rimando alle definizioni in cui sono contenuti in modo tale da permettere l’individuazione anche di tutti quei termini vygotskijani che costituiscono ad esempio un connotato o una caratteristica di un determinato fenomeno, che non richiedono dunque una definizione a sé stante, ma che meritano comunque una visualizzazione chiara all’interno del glossario. Ho infine affiancato ad ogni voce il traducente inglese e spagnolo e aggiunto al termine del glossario tre appendici di riferimento con le combinazioni linguistiche italiano- inglese-spagnolo, inglese-italiano-spagnolo e spagnolo-italiano-inglese per facilitare la consultazione del glossario da parte di uno straniero.

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GLOSSARIO AGGLUTINAZIONE [agglutination] [aglutinación]

Vedi LINGUAGGIO INTERNO

APPRENDIMENTO [learning] [aprendizaje]

Vygotskij afferma che «en un proceso natural de desarrollo, el aprendizaje se presenta como un medio que fortalece este proceso natural, pone a su disposición los instrumentos creados por la cultura que amplían las posibilidades naturales del individuo y reestructuran sus funciones mentales (Ivić 1994: 5)», raffinando così la capacità di pensiero. Attraverso il processo di apprendimento nascono nella mente del bambino nuovi tipi di astrazioni (vedi) e generalizzazioni (vedi) che giocano un ruolo di fondamentale importanza nella formazione di concetti (vedi) e di nuovi concetti sulla base dei primi; viene riorganizzata così la struttura concettuale nella mente del bambino.

Vygotskij definisce l’apprendimento come lo “sviluppo artificiale del bambino” e aggiunge che «la educación no se limita únicamente al hecho de ejercer una influencia en los procesos del desarrollo, ya que reestructura de modo fundamental todas las funciones del comportamiento (Vygotskij, citato in Ivić 1994: 7)». Quindi, per Vygotskij l’apprendimento non si riduce ad una mera acquisizione di una certa quantità di informazioni, bensì va a costituire la fonte e il motore trainante dello sviluppo (vedi) e della crescita. L’essenza dell’insegnamento consiste, di conseguenza, nel garantire lo sviluppo fornendo al bambino strumenti, tecniche interiori di pensiero e operazioni di ragionamento.

Le ricerche di Vygotskij mettono in luce come nel momento in cui ha inizio l’apprendimento, i bambini che mostrano un buon rendimento, non presentano il più piccolo segno di maturazione delle premesse psicologiche necessarie per il processo stesso di apprendimento, quali memoria,

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attenzione, consapevolezza e volontarietà. Queste, in particolar modo le ultime due, sono neoformazioni appartenenti alla sfera delle funzioni psichiche superiori che nascono proprio in età scolare; essendo ancora allo stadio embrionale in questo momento della storia del bambino sono forgiate dall’apprendimento, che ne garantisce un corso adeguato di sviluppo. Risulta quindi che «l’apprendimento si realizza su processi psichici immaturi, che stanno appena iniziando il primo e fondamentale ciclo del loro sviluppo (Vygotskij 2004: 262)∗» ed è proprio questa la chiave del successo dell’apprendimento.

Studiando il rapporto tra apprendimento e sviluppo, Vygotskij ha concluso che il primo va sempre avanti al grado di sviluppo mentale del bambino; tra i due processi non esiste nessun tipo di parallelismo. Sarebbe dunque un errore pensare che le leggi esterne della struttura del processo di insegnamento «coincidano perfettamente con le leggi interne della struttura dei processi di sviluppo che danno vita all’apprendimento. […] Lo sviluppo non è quindi subordinato al programma scolastico (265-266)»; tuttavia, non vi sono dubbi sul fatto che tra sviluppo e apprendimento vi sia una forte relazione. Vygotskij ha provato che «il pensiero astratto del bambino si sviluppa in tutte le lezioni e il suo sviluppo non si scompone affatto in corsi separati corrispondente alle diverse materie, lungo i quali si divide l’apprendimento scolastico (268)»; infatti, «le differenti materie hanno in parte una base psicologica comune (267)». Ne consegue che l’apprendimento in una materia mette in moto funzioni psichiche che si attiveranno anche nell’apprendimento di altre materie.

L’apprendimento ha dunque la sua struttura interna, la sua logica di sviluppo; interiormente, lo scolaro che apprende ha nella sua mente come una rete interna di processi che, generati e messi in movimento dall’apprendimento, si sviluppano e rifiniscono. Concludendo, per risultare il più fruttuoso possibile, l’apprendimento deve situarsi nella zona di sviluppo prossimo (vedi).

∗ D’ora in avanti le citazioni tratte dall’opera di Vygotskij Pensiero e linguaggio verranno indicate unicamente con il numero della pagina contenente la citazione posto fra parentesi.

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ATTIVITÀ VERBALE [verbal activity] [actividad verbal] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

ASTRAZIONE [abstraction] [abstacción]

Spostamento dalla cosa concreta, dall’oggetto singolo all’idea dell’oggetto in cui l’intelletto si scosta dall’oggetto empirico e ne trae una copia, ovvero il concetto astratto, il quale si colloca nella psiche ad un livello superiore rispetto a quello della percezione concreta. L’astrazione viene considerata dunque come un movimento dal basso verso l’alto e, contrariamente a quanto affermavano teorie precedenti a Vygotskij, non dipende dalla quantità di legami associativi che il soggetto è giunto a stabilire in quel momento, ma da neoformazioni qualitative che normalmente si presentano nella psiche del soggetto a partire dall’adolescenza e che sono supportate da strumenti quale, in modo particolare, «il linguaggio, che è uno degli elementi fondamentali nella costruzione delle forme superiori dell’attività intellettiva (148)», sotto cui risiede, appunto, il processo di astrazione. Il linguaggio, prosegue Vygotskij, «non interviene in modo associativo come una funzione che corre parallelamente, ma in modo funzionale, come un mezzo utilizzato razionalmente (148)» ovvero, è mediante l’uso della parola che il soggetto si concentra sui tratti distintivi dell’oggetto al quale si trova di fronte, li sintetizza per poi dare un simbolo all’oggetto. Non si tratta, quindi, di un’operazione semplice e immediata, di uno sdoppiamento automatico, ma di un processo che matura all’interno dell’individuo lentamente e che dal momento della sua comparsa si potenzia sempre più e si sviluppa.

La capacità di astrazione compare nell’adolescenza durante il processo di formazione dei concetti (vedi) o di attribuzione di significati (vedi), fenomeni per cui è necessario un «uso funzionale della parola o di un altro segno come mezzo per dirigere attivamente l’attenzione, per differenziare e separare i tratti caratteristici (143)» del concetto o del significato in questione. Durante la formazione di un concetto il soggetto riunisce caratteristiche che

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accomunano determinati oggetti concreti e le disloca nella sfera della memoria e del pensiero astratto sotto uno stesso riferimento all’oggetto. Si tratta dunque di un processo di sintesi, dai vari oggetti concreti con caratteristiche comuni alla copia astratta nel pensiero, appunto il concetto, sotto cui risiedono gli oggetti concreti. Vygotskij scrive infatti che « […] mediante l’astrazione di tratti, il bambino disloca la situazione concreta, il legame concreto dei tratti e si crea la premessa necessaria per una nuova unificazione di questi tratti su una base nuova (189)», presente in una sfera differente da quella della percezione concreta, quella dell’astratto. I concetti nuovi vengono poi creati sulla base di concetti già esistenti, quindi in questo caso si presuppone un processo di astrazione non più a partire dalla percezione dell’oggetto empirico, bensì già dall’idea dell’oggetto, che viene arricchita e trasportata ad un livello ancora superiore in cui sussistono diversi legami tra i tratti caratterizzanti dell’oggetto rispetto al livello inferiore di partenza di tale astrazione. Si va in questo modo a formare un sistema di concetti sulla base di diversi livelli di astrazione.

Il processo di astrazione costituisce inoltre un tratto caratterizzante del linguaggio interno (vedi) in quanto questo si differenzia dal linguaggio esterno (vedi) proprio per l’assoluto grado di «astrazione del linguaggio dal lato sonoro (355)», il quale rappresenta l’aspetto più concreto della lingua.

COMPLESSO [complex] [complejo]

Il complesso rappresenta un concetto (vedi) nella sua forma embrionale, è il frutto del pensiero del bambino fino all’età pre-adolescenziale nell’organizzazione mentale della sua esperienza concreta. Si tratta del secondo livello di generalizzazione (vedi) seguente il sincretismo (vedi); costituisce dunque una delle prime fasi di raggruppamento di oggetti in un unico insieme precedente la fase di formazione di un concetto vero e proprio. Come nel concetto, anche nel caso di un complesso vi è la comparsa di rapporti tra differenti percezioni concrete, la riunione e

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generalizzazione degli oggetti isolati, nonché l’organizzazione e sistematizzazione dell’esperienza. «Ma, il modo di riunione dei differenti oggetti concreti in gruppi generali, il carattere dei legami che vi si stabiliscono, la struttura dell’unità che si costituiscono […] differiscono profondamente per il tipo e la modalità di azione dal pensiero per concetti […] (151)». Ciò significa che le generalizzazioni effettuate mediante il pensiero per complessi vanno a creare, per la loro struttura, dei veri e propri complessi di oggetti concreti isolati, riuniti sulla base dei soli legami soggettivi che si stabiliscono nell’impressione del bambino; alla base del complesso infatti vi sono i legami più svariati, che spesso hanno poco in comune tra di loro e che sono di tipo fattuale, casuale e concreto. «Ogni elemento del complesso può essere legato al tutto, espresso nel complesso, e agli elementi isolati che lo compongono mediante legami isolati più diversi (153-154)». Inoltre, «nel complesso, a differenza del concetto, non vi sono legami gerarchici e relazioni gerarchiche tra i tratti (158)» degli oggetti, né rapporti di generalità (vedi). Vygotskij fa notare che «i complessi infantili, corrispondenti ai significati (vedi) delle parole, non si sviluppano liberamente, spontaneamente, secondo linee tracciate dal bambino stesso, ma secondo direzioni precise che sono indicate per lo sviluppo del complesso dal significato delle parole, già stabilito nel linguaggio degli adulti (162)». In ogni caso, il complesso infantile coincide con il concetto dell’adulto nel riferimento all’oggetto, ossia, il bambino e l’adulto si intendono perfettamente nel riferirsi ad un determinato oggetto, ma il bambino lo fa attraverso il meccanismo interno del complesso disorganico e basato sulla concretezza, mentre l’adulto lo fa sulla base del processo interno organizzato tipico del concetto. È necessario sottolineare che una volta superato il complesso con la comparsa del concetto, questo non soppianta completamente il complesso. Esso, infatti, rimane nella mente del soggetto e opera quotidianamente nella sfera del pensiero puramente concreto e nelle forme più primitive del pensiero umano come quelle che sono presenti nel sogno; qui domina ancora il meccanismo primitivo del pensiero per complessi che si manifesta attraverso il processo «della fusione concreta, della condensazione e

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dello spostamento (182)», nonché della sovrapposizione di immagini e della partecipazione (vedi).

COMPLESSO ASSOCIATIVO [associative complex] [complejo asociativo]

Primo tipo di complesso (vedi) caratterizzato dal legame puramente associativo tra gli oggetti appartenenti al gruppo. Il bambino costruisce il complesso attraverso l’inclusione nel gruppo degli oggetti più svariati sulla base di qualunque rapporto concreto, qualunque legame associativo tra gli oggetti, quali il colore, la forma, la dimensione o altri tratti distintivi che il bambino individua. Vygotskij spiega che «dire una parola per il bambino in questo periodo significa indicare il nome della famiglia delle cose, legate tra di loro in una parentela per le linee più diverse (155)». Non solo gli elementi sono inclusi nella stessa famiglia secondo l’associazione dei più svariati tratti caratterizzanti, ma anche in base a differenti caratteri del rapporto tra gli oggetti. Ne risulta quindi un complesso estremamente eterogeneo, vario e poco sistematizzato. Inoltre, come testimonia Vygotskij, «alla base di questa massa ci può essere non solo un’identità immediata dei tratti, ma anche la loro somiglianza o il loro contrasto […] (154)»; vi è sempre e comunque un legame concreto. Il bambino dunque chiamerà con lo stesso nome tutta una serie di oggetti che oggettivamente possono non avere nulla in comune tra loro, ma per cui il bambino ha stabilito più legami singoli e di vario genere sulla base della sua personale percezione di fatto della realtà. Il bambino, seguendo la logica di questo tipo di complesso, potrebbe ad esempio riferirsi con la parola «acqua» all’acqua, al latte che è liquido come l’acqua, al bicchiere, che contiene l’acqua, al vetro, che è trasparente come l’acqua, al bagno che gli viene fatto dalla madre con l’acqua, e via dicendo.

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COMPLESSO A CATENA [chain complex] [complejo cadena]

Il complesso a catena «si costituisce secondo il principio della riunione dinamica e temporanea di mattoni isolati in una catena unica e del trasferimento di significato tra i mattoni di questa catena (157)»; in questo modo, nel processo di formazione di tale complesso (vedi) vi è sempre un passaggio in sequenza da un tratto all’altro a cui corrisponde uno slittamento di significato lungo gli anelli della catena, rappresentanti le parole. Ogni anello risulta essere collegato al precedente per un tratto che differisce completamente dal tratto che caratterizza l’unione con l’anello successivo. Anche in questo caso il legame tra gli oggetti che costituiscono tale complesso è di tipo associativo. Vygotskij riporta nella sua opera vari esempi di esperimenti in cui il bambino manifesta chiaramente la formazione di un complesso a catena. In uno di questi «il bambino indica con la parola «qua» dapprima un’anatra che nuota in uno stagno, poi ogni liquido, compreso il latte che beve nel suo biberon. Poi quando un giorno vede su una moneta la raffigurazione di un’aquila, indica anche la moneta con questo nome e ciò è sufficiente perché in seguito tutti gli oggetti tondi, che ricordano una moneta, siano indicati con lo stesso nome (171-172)».

COMPLESSO COLLEZIONE [collection] [colección]

Vygotskij spiega che nella collezione «[…] oggetti concreti differenti sono riuniti in base alla loro mutua complementarietà rispetto ad un qualsiasi tratto distintivo e formano un tutto unico, composto da parti eterogenee che si completano reciprocamente l’una con l’altra (155)»; in questo tipo di complesso (vedi), quindi, agiscono delle associazioni per contrasto. Inoltre, «il complesso collezione è una generalizzazione (vedi) delle cose sulla base della loro partecipazione ad un’unica operazione pratica, sulla base della loro collaborazione funzionale (156)». Questo tipo di complesso ha delle radici molto profonde nella concretezza, nell’intuito e nella pratica del bambino, elementi che costituiscono quasi totalmente il suo pensiero fino a

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questo momento e, essendo la forma più frequente di generalizzazione delle esperienze concrete, permane nella psiche del bambino molto a lungo. Anche questo complesso non viene soppiantato completamente dalla comparsa del pensiero per concetti e rimane presente ad esempio «[…] nel linguaggio concreto, quando l’adulto parla delle stoviglie o dei vestiti, [e] ha in vista non tanto il concetto astratto corrispondente quanto degli assortimenti di cose concrete, formanti una collezione (156)».

COMPLESSO DIFFUSO [diffuse complex] [complejo difundido]

Il complesso diffuso costituisce il quarto tipo di complesso (vedi) e si caratterizza per il fatto che il singolo tratto distintivo che sta alla base della riunione dei vari oggetti concreti facenti parte del complesso si presenta, appunto, come diffuso, nonché fluido e vago; ne consegue dunque la formazione di un complesso con elementi legati tra loro in maniera imprecisa e sfumata. Gli esperimenti condotti da Vygotskij sul complesso diffuso mostrano come «il bambino assegna ad un dato modello, un triangolo giallo, non solo dei triangoli, ma anche dei trapezi, poiché gli ricordano dei triangoli con il vertice tagliato. Poi ai trapezi sono vicini i quadrati, ai quadrati gli esagoni, agli esagoni le semicirconferenze e poi i cerchi […]. [Il bambino fa rientrare nel gruppo anche figure che si avvicinano per il colore]; allora […] assegna agli oggetti gialli degli oggetti verdi, ai verdi dei blu, ai blu dei neri (159)». Anche questo tipo di complesso, come il complesso collezione (vedi), persiste a lungo nella mente del bambino e presenta un tratto nuovo che caratterizza il pensiero per complessi, ovvero l’imprecisione dei suoi contorni e la sua illimitatezza di principio. Questo complesso, inoltre, compare quando il bambino inizia a scostarsi leggermente dal mondo della pura concretezza per avvicinarsi al mondo dell’immaginazione. Quindi, lo vediamo correre con la fantasia realizzando accostamenti di oggetti sfumati e oscillanti, sorprendenti per i risultati inattesi che spesso risultano incomprensibili per gli adulti. Volendo spaziare verso campi diversi dalla psicologia,

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vediamo anche un esempio di questo tipo di pensiero creativo e fantastico nella letteratura inglese della seconda metà dell’Ottocento con Lewis Carroll, che nel suo libro Alice nel Paese delle Meraviglie istituisce per Alice, la bambina protagonista del romanzo, un mondo assolutamente irreale fondato proprio sul volo che si può compiere solo attraverso l’immaginazione e la fantasia, mondo in cui la bambina si lascia scivolare per le vie del ragionamento basato su associazioni di idee e immagini totalmente libere e sfumate che ricordano proprio il complesso diffuso.

CONCETTO [concept] [concepto]

Il concetto costituisce il livello superiore di generalizzazione (vedi) seguente il concetto potenziale (vedi); è dato dalla riunione di tratti distintivi comuni di determinati oggetti sotto un unico nome, in cui sussistono legami tra i tratti unici, precisi, regolari e sistematizzati. Vygotskij afferma in merito che «[il concetto è] caratterizzato dall’uniformità dei legami che sono alla sua base. Ciò significa che ogni oggetto isolato, implicato in un concetto generalizzato, è incluso in questa generalizzazione secondo un fondamento assolutamente identico a quello di tutti gli altri oggetti (153)», e non sulla base di tratti costituiti da impressioni soggettive, empiriche e diverse le une dalle altre, come succede nel caso del complesso (vedi).

CONCETTO POTENZIALE [potential concept] [concepto potencial]

Il concetto potenziale costituisce il terzo livello di generalizzazione (vedi) precedente il concetto; è dunque l’anello di congiunzione tra lo pseudoconcetto (vedi), rientrante nella categoria del complesso (vedi), e il concetto (vedi) vero e proprio. A differenza di come succede per il complesso, «il bambino che si trova in questa fase del suo sviluppo distingue solitamente un gruppo di oggetti da lui riuniti sulla base di un unico tratto comune (186)» e questo fa somigliare il concetto potenziale al concetto; tuttavia, è solo «un significato concreto e

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funzionale […] [a formare la] base psichica del concetto potenziale (188)» e non un processo intellettivo e logico. Infatti, il concetto potenziale viene considerato, più che il risultato di un’operazione mentale di astrazione (vedi), una formazione pre-intellettiva costituita da «un’impressione d’insieme analoga a quella che abbiamo avuto precedentemente (Groos, citato in Vygotskij 2003: 186)», «una disposizione ad una reazione comune (187)».

CONCETTO QUOTIDIANO [everyday concept] [concepto cotidiano]

I concetti quotidiani sono il prodotto dell’apprendimento (vedi) prescolastico e sono caratterizzati da un uso da parte del bambino spontaneo, automatico e del tutto corretto, anche se incosciente e involontario. Vygotskij scrive che «[…] l’indagine sui concetti spontanei e non spontanei è un caso particolare dell’indagine più generale del problema dell’apprendimento (vedi) e dello sviluppo […] (vedi) (244)», nel senso che i concetti spontanei sono indicatori del grado di sviluppo mentale del bambino, sul quale si innesta il processo di apprendimento a scuola dei concetti non spontanei, cioè dei concetti scientifici (vedi), i quali, a loro volta, esercitano un’influenza costruttiva sui primi. Vygotskij spiega in merito che si verifica «un innalzamento del livello dei concetti quotidiani che si riorganizzano sotto l’influenza del fatto che il bambino padroneggia i concetti scientifici […] (283)», responsabili della comparsa nel bambino della presa di coscienza (vedi); il bambino trasferisce questa funzione ai concetti quotidiani, i quali vengono sistematizzati, acquistando tutta una serie di nuovi rapporti con gli altri concetti e modificando così il loro rapporto con l’oggetto. Vygotskij spiega quindi che «i concetti spontanei del bambino si sviluppano dal basso verso l’alto, dalle proprietà più elementari e inferiori a quelle superiori (286)»; «[essi infatti] sono forti nella sfera dell’applicazione concreta, spontanea, con un senso dato dalla situazione, nella sfera dell’esperienza e dell’empirismo […]. [Proprio da qui comincia il loro sviluppo che] […] si muove verso le proprietà superiori dei concetti: la presa di coscienza e la volontarietà (288)»,

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funzioni che compaiono grazie all’apprendimento dei concetti scientifici nella zona di sviluppo prossimo (vedi).

CONCETTO SCIENTIFICO [scientific concept] [concepto científico]

I concetti scientifici si formano durante il processo di apprendimento (vedi) e la loro assimilazione si basa sull’esistenza di concetti quotidiani (vedi) già elaborati. Vygotskij spiega che «[…] i concetti scientifici si sviluppano dall’alto verso il basso, dalle proprietà più complesse e superiori a quelle più elementari e inferiori (286)»; più precisamente, «la forza dei concetti scientifici si manifesta nella sfera che è interamente definita dalla proprietà superiore dei concetti: la presa di coscienza (vedi) e la volontarietà. […] Lo sviluppo dei concetti scientifici comincia [proprio da questa sfera] […] e prosegue in avanti, germinando verso il basso nella sfera dell’esperienza personale e del concreto (288)», regno dei concetti quotidiani, sui quali, appunto, prende piede l’apprendimento dei concetti scientifici. Vygotskij afferma in merito che «la dipendenza dei concetti scientifici da quelli spontanei e a sua volta la loro influenza su quelli spontanei derivano da un rapporto particolare del concetto scientifico con l’oggetto, che, […], è caratterizzato dal fatto che è mediato da un altro concetto e quindi racchiude in sé allo stesso tempo, oltre alla relazione con l’oggetto, anche la relazione con l’altro concetto, cioè i primi elementi di un sistema di concetti (242)»; il concetto quotidiano fa quindi da intermediario tra il concetto scientifico e il suo oggetto, creando così una rete di concetti. È importante sottolineare che «i concetti scientifici sono le porte attraverso cui la presa di coscienza entra nel regno dei concetti infantili (243)»; da questa funzione scaturisce poi la volontarietà, che insieme alla prima funzione, va ad investire la sfera dei concetti spontanei, ristrutturandola ed elevandola alla padronanza. Vygotskij scrive infatti che «la disciplina formale di questi concetti scientifici si manifesta nella riorganizzazione di tutta la sfera dei

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concetti spontanei del bambino. In ciò sta la loro grande importanza per la storia dello sviluppo mentale (vedi) del bambino (314)».

CONCETTO SPONTANEO [spontaneous concept] [concepto espontáneo] Vedi CONCETTO QUOTIDIANO

CONDENSAZIONE [condensation] [condensación]
Vedi COMPLESSO, GENERALIZZAZIONE, LINGUAGGIO EGOCENTRICO

ENDOFASIA [endophasy] [endofasia] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

EQUIVALENZA DEI CONCETTI [equivalence of concepts] [equivalencia de conceptos]

Si tratta di una legge secondo la quale «ogni concetto (vedi) può essere designato [non solo attraverso se stesso ma anche] secondo una quantità infinita di modi mediante altri concetti (299)»; è necessario precisare che questa legge è diversa e specifica per ogni stadio di sviluppo della generalizzazione (vedi).

FASE AFFETTIVO-VOLITIVA [affective- volitional phase] [fase afectiva / volitiva] Vedi LINGUAGGIO

FASE EMOZIONALE [emotional phase] [fase emocional] Vedi LINGUAGGIO

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FASE PRE-INTELLETTIVA [pre-intellective phase] [fase pre-intelectiva] Vedi LINGUAGGIO

FUSIONE CONCRETA [concrete fusion] [fusión concreta] Vedi COMPLESSO

GENERALITÀ [generality] [generalidad]

Per generalità si intende il tipo di relazione che struttura i concetti (vedi) in un sistema secondo un ordine genetico dal più generale al più particolare e vice versa; un esempio che propone Vygotskij è la relazione tra le parole di uguale grado di generalità «sedia, tavolo, armadio, divano, scansia (297)» e la parola «mobile (297)», di generalità superiore. Vygotskij afferma che «le relazioni di generalità tra i concetti sono legate alla struttura di generalizzazione (vedi) […] e che inoltre sono legate ad essa nel modo più stretto: ad ogni struttura di generalizzazione […] corrisponde il suo sistema specifico di generalità e di rapporti di generalizzazione tra i concetti generali e particolari […] (297)». Vygotskij aggiunge poi che dai rapporti di generalità dipende la cosiddetta equivalenza dei concetti (vedi). Vygotskij spiega infine che «in funzione dello sviluppo dei rapporti di generalità aumenta l’indipendenza del concetto dalla parola, del senso della sua espressione ed appare la sempre più grande libertà delle operazioni di senso rispetto a se stesse e alle loro espressioni verbali (302)»; ne consegue che «l’insufficiente concatenazione del pensiero infantile è l’espressione diretta dello sviluppo insufficiente delle relazioni di generalità tra concetti (312)».

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GENERALIZZAZIONE [generalization] [generalización]

«La generalizzazione avviene tramite una sorta di catena percezione -> parola -> percezione -> parola ecc. (ossia analisi -> sintesi -> analisi -> sintesi ecc.) tramite la quale nuove percezioni inducono a formulare nuove parole per descriverle e ciò spinge a catalogare le percezioni affinché sia possibile, con un numero di parole finito, esprimere percezioni infinite, dato che non esistono due percezioni identiche (Vygotskij, citato in Osimo 2004:1)»; si tratta dunque di una sorta di processo di condensazione mediante il quale a tutta la realtà viene assegnato un sostituto simbolico appartenente ad una classe data, «implicitamente accettata dalla comunità dei parlanti come un’entità unitaria (Sapir, citato in Vygotskij 2003: 16)», che serve nella relazione sociale per trasmettere ad altri un’esperienza. La generalizzazione, intesa appunto come raggruppamento di oggetti singoli in un unico gruppo, avviene, a seconda dell’età del soggetto, a diversi livelli, che sono sincretismo (vedi), complesso (vedi), concetto potenziale (vedi) e concetto (vedi). Vygotskij spiega in merito che «un nuovo stadio di generalizzazione compare solo sulla base del precedente. Una nuova struttura di generalizzazione […] compare come una generalizzazione delle generalizzazioni e non semplicemente come un modo nuovo di generalizzazione di oggetti singoli. Il lavoro precedente del pensiero, che si manifesta nelle generalizzazioni dominanti nello stadio precedente, non è annullato e perduto, ma si inserisce ed entra come premessa necessaria per il nuovo lavoro del pensiero (303)»; una volta formata la nuova struttura di generalizzazione dapprima solo con alcuni concetti, il bambino trasferisce il nuovo principio agli altri concetti, riorganizzando la struttura di tutti i concetti precedenti. Riguardo alla generalizzazione come processo su cui si basa la formazione di un concetto, Vygotskij scrive che «[…] la generalizzazione di un concetto comporta la localizzazione di un dato concetto in un sistema determinato di rapporti, che sono i legami più fondamentali, più naturali, più importanti tra i concetti. La generalizzazione significa così […] la sistemazione dei concetti (241)». Inoltre, come afferma Vygotskij, essa «[…] presuppone […] non un

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impoverimento, ma un arricchimento della realtà rappresentata nel concetto rispetto alla percezione e all’intuizione sensibili e immediate di questa realtà (295)».

IDIOMATICITÀ [idiomaticity] [idiomaticidad] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

INFLUENZA DEL SENSO [influx of sense] [influjo de sentido] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

INTROSPEZIONE [introspection] [introspección] Vedi PRESA DI COSCIENZA

LEGAME ASSOCIATIVO [associative bond] [vínculo asociativo]
V edi ASTRAZIONE, COMPLESSO ASSOCIA TIVO, COMPLESSO A CA TENA,

SVILUPPO

LINGUA [language] [lengua]

La lingua comprende tutto un insieme di fenomeni sonori e intellettivi, esterni e interni, orali e scritti, grammaticali e semantici, che permettono ad un individuo di esprimere, comunicare, raccontare, agli altri e a se stessi, pensieri e sentimenti, seguendo le maniere e gli scopi più svariati. Dunque, «la lingua, dal punto di vista del linguista, non è un’unica funzione verbale, ma un insieme di forme verbali diverse (369)» che presentano, a seconda del fine e della situazione d’impiego, dal discorso quotidiano al linguaggio dell’opera letteraria, modalità

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d’espressione radicalmente differenti. Vygotskij riporta un esempio sulla differenza fra linguaggio in prosa e linguaggio in poesia e afferma che «la lingua, nell’una e nell’altra forma, ha le sue particolarità nella scelta delle espressioni, nell’impiego di forme grammaticali e nelle procedure sintattiche di accoppiamento delle parole nel linguaggio (370)».

Vygotskij, riprendendo un esperimento sulla lingua e il suo sviluppo nel bambino effettuato dallo studioso W. Stern e confermandone la validità, spiega che è all’incirca all’età di due anni che «nel bambino si sveglia una prima coscienza del significato della lingua e la volontà di conquistarlo. Il bambino a questo punto fa la più grande scoperta della sua vita. Scopre che ogni cosa ha un nome (111)». Il bambino si appropria della lingua attraverso il rapporto con il mondo degli adulti, in particolar modo attraverso il rapporto fin dai primissimi mesi di vita con la madre. «In questa fondamentale prima relazione madre-bambino, gioca un ruolo importante l’imitazione reciproca, ad iniziare dallo svilupparsi del linguaggio, in cui la madre imita il bambino, ma sempre un passo più avanti di lui dal punto di vista semantico e sintattico. […] Come osserva Vygotskij, diventiamo noi stessi attraverso gli altri: quindi non conosciamo gli altri attraverso l’empatia, bensì nella socializzazione primaria, in cui il bambino impara a conoscere l’altro e come l’altro lo interpreta, e in tal modo apprende a conoscersi. Perciò il linguaggio è anche uno strumento di comunicazione fra l’uomo e se stesso (Carnaroli 2001: 2)». Da qui l’importanza di quello che Vygotskij denomina linguaggio interno (vedi).

La lingua diventa poi un importante mezzo funzionale su cui si innestano, il primo trainato dal secondo, il processo di sviluppo (vedi) e di apprendimento (vedi) del soggetto; infatti, si osserva che «la contribución del aprendizaje consiste en que pone a disposición del individuo un poderoso instrumento: la lengua. En el proceso de adquisición, este instrumento se convierte en parte integrante de las estructuras psíquicas del individuo (Ivić1994: 4)».

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LINGUA MATERNA [native language] [lengua materna]

La lingua materna costituisce il primo apparato linguistico che il bambino apprende direttamente dal rapporto con la madre e con il mondo esterno. Vygotskij spiega che «lo sviluppo della lingua materna comincia con l’uso libero e spontaneo del linguaggio e si compie con la presa di coscienza (vedi) delle forme verbali e la loro padronanza (291)», processo esattamente opposto a quello di apprendimento di una lingua straniera (vedi). Con questa vi è una strettissima interdipendenza in quanto «l’assimilazione di una lingua straniera apre la strada alla padronanza delle sfere superiori della lingua materna (291)»; Vygotskij procede precisando che «[…] la padronanza di una lingua straniera innalza anche la lingua materna ad uno stadio superiore, nel senso della presa di coscienza delle forme della lingua, della generalizzazione dei fenomeni della lingua, dell’uso più consapevole e più volontario della parola come strumento del pensiero e come espressione del concetto (220-221)». Vygotskij conclude la sua analisi affermando un paragone tra l’apprendimento della lingua materna e l’apprendimento nel periodo prescolare dei concetti quotidiani (vedi); il bambino infatti assimila questi in maniera inconsapevole, libera e spontanea, così come avviene con la lingua madre.

LINGUA STRANIERA [foreign language] [lengua extranjera]

La lingua straniera significa per il bambino l’assimilazione dei corrispondenti di quei significati già acquisiti attraverso il processo di astrazione (vedi) e generalizzazione (vedi) nella lingua materna (vedi) in un altro codice linguistico; lo studioso russo mette in luce infatti come «l’apprendimento da parte dello scolaro di una lingua straniera si basa in qualche modo sulla conoscenza della lingua materna (220)», nel senso che «il bambino assimila una lingua straniera perché dispone già di un sistema di conoscenze nella lingua materna e lo trasferisce nella sfera dell’altra lingua (291)». Una volta comparso il processo di appropriazione volontaria della propria lingua e delle regole che la disciplinano, nel bambino l’apprendimento di una lingua

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straniera parte proprio da questo punto; come spiega Vygotskij, «lo sviluppo della lingua straniera inizia con la presa di coscienza (vedi) della lingua e il suo uso volontario e si compie con un linguaggio libero e spontaneo (291)». Di conseguenza si può affermare che «l’assimilazione della lingua straniera segue una via direttamente opposta a quella che percorre lo sviluppo della lingua materna; […] lo sviluppo della lingua materna va dal basso verso l’alto, mentre lo sviluppo della lingua straniera va dall’alto in basso (289-290)»; il primo si muove dalla spontaneità e dalla libertà alla presa di coscienza della regola, il secondo dalla regola e dalla consapevolezza all’uso spontaneo, così come succede per l’apprendimento dei concetti scientifici (vedi).

LINGUAGGIO [language] [lenguaje]

Vygotskij scrive che il «linguaggio è anzitutto il mezzo di relazione sociale, il mezzo di espressione e comprensione (15)»; in seguito, precisa che «la funzione iniziale del linguaggio è la funzione della comunicazione, del legame sociale, dell’azione su coloro che sono attorno, sia dalla parte degli adulti, che dalla parte del bambino. Così il primo linguaggio è puramente sociale […] (57)». Vi è dapprima una fase emozionale, affettivo-volitiva del linguaggio, in cui il bambino esprime i sui bisogni e le sue sensazioni prettamente attraverso il pianto; segue poi una fase pre-intellettiva, in cui il grido, il balbettio e le prime parole costituiscono per il bambino il mezzo con cui comunica con il mondo esterno. Il linguaggio diviene infine linguaggio intellettivo (vedi) quando la sua linea di sviluppo si interseca, all’incirca all’età di due anni, con quella dello sviluppo del pensiero; a partire da questo momento il linguaggio inizia ad assumere una funzione simbolica, ovvero, inizia a presentare suoni di senso (vedi) compiuto, andando ad indicare determinati oggetti e facendosi portatore di significati (vedi). A questo punto attraverso il linguaggio il bambino assimila la rappresentazione del mondo.

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Vygotskij spiega che «al primo stadio del linguaggio infantile autonomo non esistono nuove relazioni di generalità (vedi) tra i concetti (vedi), per cui tra di essi sono possibili solo i legami che possono essere stabiliti nella percezione (309)». Inoltre, «[…] nel campo dello sviluppo del linguaggio, l’assimilazione delle forme e delle strutture grammaticali avviene nel bambino prima dell’assimilazione delle strutture e delle operazioni logiche che corrispondono a queste forme (117)»; in seguito, l’apprendimento delle regole della lingua, in particolar modo della grammatica e della scrittura, danno al bambino la possibilità di accedere ad un livello superiore dello sviluppo del linguaggio, prendendo coscienza (vedi) della lingua, acquistando la capacità di astrazione (vedi) e generalizzazione (vedi) dei concetti e diventando di conseguenza sempre più consapevole e abile nell’uso del linguaggio stesso.

Lo sviluppo del linguaggio non corre soltanto lungo la linea della presa di coscienza della lingua come mezzo di comunicazione e della formazione progressiva di un sistema di concetti, ma anche lungo la linea della presa di coscienza della presenza di due piani del linguaggio, uno interno e uno esterno. Vygotskij testimonia ciò riportando i risultati della sua analisi in merito. «La ricerca mostra che l’aspetto interno, dotato di senso, semantico del linguaggio e l’aspetto esterno, sonoro, fasico, pur formando un’unità autentica, hanno ciascuno delle proprie leggi di movimento. L’unità del linguaggio è un’unità complessa, ma non omogenea e congenere […]. L’aspetto semantico della parola nel suo sviluppo va dal tutto alla parte, dalla frase alla parola, mentre l’aspetto esteriore del linguaggio va dalla parte al tutto, dalla parola alla frase (335)». Il bambino inizialmente non è consapevole di tale divisione; «una delle linee più importanti dello sviluppo del linguaggio nel bambino consiste appunto nel fatto che questa unità comincia a differenziarsi e si comincia a prenderne coscienza (342)».

LINGUAGGIO AFASICO [aphasic speech] [lenguaje afásico] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

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LINGUAGGIO EGOCENTRICO [egocentric speech] [lenguaje egocéntrico]

Il linguaggio egocentrico è un linguaggio per sé ad alta voce che assume per il bambino le funzioni di comprensione del sé, contatto, guida e organizzazione; essendo privo di destinatario esterno, risulta incomprensibile se non si conosce la situazione in cui nasce. È caratterizzato da frammentarietà, abbreviazione e tendenza alla predicatività, ovvero nel discorso vi è un’omissione del soggetto a favore del predicato e delle parole ad esso legato. Vygotskij afferma che «il linguaggio egocentrico del bambino è uno dei fenomeni del passaggio dalle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche, cioè dalle forme di attività sociale, collettiva del bambino alle sue funzioni individuali. […] Il linguaggio per se stessi nasce dalla differenziazione della funzione inizialmente sociale del linguaggio per gli altri. Si tratta dunque di […] una individualizzazione progressiva, nata sulla base della socialità interna del bambino (350)». Secondo Vygotskij, «studiare il linguaggio egocentrico del bambino è importante perché è l’embrione del linguaggio interno (vedi) dell’adulto (Osimo 2004: 1)»; infatti, la sequenza evolutiva tracciata da Vygotskij parte dal linguaggio sociale, passa attraverso l’egocentrismo, per poi raggiungere il linguaggio interno. «Il linguaggio egocentrico è un linguaggio interno per la sua funzione psichica e un linguaggio esterno per la sua struttura (351)» e il suo sviluppo è costituito da una curva crescente per quanto riguarda la sua funzione psichica e una curva decrescente per quanto riguarda la sua struttura, ovvero la vocalizzazione. Ne consegue necessariamente che «[…] il linguaggio egocentrico si sviluppa in direzione del linguaggio interno, e tutto il suo sviluppo non può essere compreso che come il corso di un’acquisizione progressiva di tutte le proprietà distintive del linguaggio interno (356)», in primis «[…] l’astrazione (vedi) dal lato sonoro e la tendenza sempre più grande all’abbreviazione, all’attenuazione dell’articolazione sintattica, alla condensazione (377)».

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LINGUAGGIO ESTERNO [external speech] [lenguaje exterior / externo]

Vygotskij definisce il linguaggio esterno come «un processo di trasformazione del pensiero nella parola, la sua materializzazione e oggettivazione (347)» attraverso la vocalizzazione. Il linguaggio esterno è dunque orale, meglio ancora fasico, cioè dotato di suono, e compare prima di tutte le altre forme di linguaggio, in modo spontaneo e inconsapevole come del resto tutti i concetti quotidiani del bambino. Ha la funzione di comunicare con l’esterno, ha dunque un destinatario ed è per questo comprensibile agli altri. Nella maggior parte dei casi il linguaggio esterno è dialogico e questo presuppone la velocità. Vygotskij afferma in merito che «la rapidità dell’atto del linguaggio presuppone una sua esecuzione del tipo di un atto volontario semplice ed inoltre con elementi abituali […]; la comunicazione dialogica implica enunciati di getto e come viene viene. Il dialogo è un linguaggio fatto di repliche, è un linguaggio di reazioni (373)». È importante precisare che il linguaggio esterno deve essere «[…] contestualizzato rispetto agli stati della mente di chi parla, riferendosi a stati della mente personali, cioè a sentimenti, credenze e pensieri che, proprio tramite la parola, colui che parla intende trasferire e riprodurre nella mente di colui che ascolta. Quindi, […] perché l’atto linguistico sia efficace, i dialoganti devono avere un’esperienza di attenzione condivisa, anche riguardo all’uso convenzionale delle parole in riferimento ai propri stati interni: quindi con un processo di organizzazione rispetto ad un codice linguistico condiviso (Carnaroli 2001: 1-2)». Di norma il linguaggio esterno è completamente espresso e sintatticamente articolato, ma vi sono circostanze in cui può essere abbreviato. Vygotskij spiega infatti che «se vi è identità di pensieri tra gli interlocutori, un identico orientamento della loro coscienza, il ruolo delle stimolazioni verbali si riduce al minimo (367)». Precisa in seguito che «[…] nel caso in cui sia presente nella mente degli interlocutori un soggetto comune, la comprensione sarà completa con l’aiuto della massima abbreviazione del linguaggio, con una sintassi estremamente semplificata; nel caso contrario non si avrà affatto la comprensione, anche se il linguaggio fosse sviluppato. Così talvolta non solo due sordi non arrivano ad intendersi tra loro, ma anche semplicemente due

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persone che danno un contenuto differente ad una stessa parola o hanno punti di vista opposti (368)». La tendenza all’abbreviazione nel linguaggio esterno compare anche «[…] quando il parlante esprime il contesto psicologico di ciò che viene enunciato mediante l’intonazione (374)».

LINGUAGGIO FASICO [phasic speech] [lenguaje fásico] Vedi LINGUAGGIO ESTERNO

LINGUAGGIO INTELLETTIVO [intellective speech] [lenguaje intelectivo]

Con questo termine si indica quella porzione di linguaggio che nasce dall’incontro tra pensiero e linguaggio a cui corrisponde il pensiero verbale (vedi). Per citare le parole di Vygotskij, egli afferma che «ad un certo momento (circa due anni), le linee di sviluppo del pensiero e del linguaggio, fino ad allora separate, si intersecano, coincidono nel loro sviluppo e fanno nascere una forma del tutto nuova di comportamento, così caratteristica dell’uomo. […] Questo momento di svolta, a partire dal quale il linguaggio diventa intellettivo e il pensiero diventa verbale, è caratterizzato da due criteri perfettamente oggettivi e indiscutibili: […] il primo sta nel fatto che il bambino […] comincia ad ampliare attivamente il suo vocabolario, […] il secondo elemento sta nel fatto che […] la riserva di parole cresce in modo estremamente rapido e a salti (110-111)». Il bambino a questo punto si sforza di possedere il segno che serve a riferirsi ad un determinato oggetto, cioè il suo nome, il quale racchiude in sé un significato; questo fatto sta ad indicare che il bambino smette di considerare il nome meramente come proprietà di un oggetto e che attraverso il pensiero intuisce un legame interno alla parola tra segno e significato. Questo primo atto di pensiero del bambino testimonia il fatto che il suo linguaggio è entrato nella fase intellettiva del suo sviluppo.

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LINGUAGGIO INTERNO [inner speech] [lenguaje interior / interno]

In un testo di critica su Vygotskij si afferma che nella sua opera Pensiero e linguaggio egli «describe las sutilezas del proceso genético mediante el cual el lenguaje, en calidad de instrumento de las relaciones sociales, se transforma en un instrumento de la organización psíquica interior del niño (la aparición del lenguaje privado, del lenguaje interior, del pensamiento verbal) (Ivić 1999: 4)». Vygotskij introduce l’analisi sul linguaggio interno spiegando che questo «è una formazione particolare per la sua natura psicologica, un tipo particolare di attività verbale, che ha delle caratteristiche assolutamente specifiche e sta in rapporto complesso con gli altri tipi di attività verbale (346)»; prosegue con l’affermazione secondo la quale il linguaggio interno si sviluppa «[…] per la via dell’isolamento funzionale e strutturale dal linguaggio esterno (vedi), per il passaggio da questo al linguaggio egocentrico (vedi) e dal linguaggio egocentrico al linguaggio interno (355)». Si tratta di un linguaggio afasico, ovvero, in esso vi è una totale astrazione (vedi) del linguaggio dal lato sonoro; il bambino, quindi, inizia a pensare la parola, maneggia la sua immagine senza pronunciarla. Il linguaggio interno svolge le stesse funzioni del linguaggio egocentrico, è cioè un linguaggio per sé, distinto dal linguaggio sociale, è la forma più intima di pensiero del bambino che compare nella prima età scolare ed è finalizzata all’adattamento individuale, alla riflessione e all’organizzazione mentale di discorsi sia orali che scritti; costituisce il fondo della coscienza e, non avendo interlocutore, in esso il pensiero viene formulato in termini imprecisi e sfumati in quanto non c’è bisogno di chiarezza per se stessi, l’identico orientamento della coscienza è totale. Il linguaggio interno è abbreviato, ridotto al massimo, stenografico, presenta cortocircuiti, economie e omissioni di ciò che è chiaro al parlante, risultando all’esterno incomprensibile.

In sintesi, le caratteristiche che lo stesso Vygotskij assegna al linguaggio interno sono: sintassi semplificata, predicatività, riduzione ed interiorizzazione dell’aspetto fasico, da cui la denominazione «endofasia», predominanza di senso su significato, influenza dei sensi,

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agglutinazione delle unità semantiche e idiomaticità. Più nel dettaglio, Vygotskij spiega che «la prima e più importante caratteristica del linguaggio interno è la sua particolarissima sintassi; […] questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del linguaggio interno rispetto a quello esterno (363)». Inoltre, «[…] la predicatività è la forma fondamentale ed unica del linguaggio interno, che dal punto di vista psicologico è costituito tutto dai soli predicati (374)»; ci troviamo dunque di fronte ad una predicatività assoluta per cui il soggetto, in quanto costantemente noto al parlante, viene sottinteso e per questo omesso a favore del predicato. «Il linguaggio interno utilizza preferibilmente l’aspetto semantico e non quello fonetico del linguaggio (379)». Per quanto riguarda l’aspetto fonetico, si assiste ad una riduzione delle parole alle iniziali, mentre considerando l’aspetto semantico, vi è «[…] una predominanza del senso (vedi) della parola sul suo significato (vedi) (380)», essendo il primo più vasto del secondo; non solo, a questa preponderanza del senso sul significato corrisponde anche una predominanza della frase sulla parola e di tutto il contesto sulla frase, rendendo così il linguaggio agglutinato a livello di unità semantiche, dal momento che i sensi e le frasi si riversano gli uni negli altri, e diventando veicolo di un pensiero condensato. Vygotskij afferma che «[…] sembra che la parola assorba in sé il senso delle parole precedenti e successive, allargando quasi senza limiti l’ambito del suo significato. Nel linguaggio interno la parola è molto più carica di senso che in quello esterno (384)»; con una sola denominazione del linguaggio interno possiamo riferirci ad una vastità di pensieri, ragionamenti e sentimenti. Questo sovrapporsi di significati fa sì che si creino nuovi significati, i quali acquistano sfumature diverse e personali, intraducibili nel linguaggio esterno e quindi comprensibili solo per chi li genera; si tratta di veri e propri idiomi.

Si conclude l’analisi affermando che «il linguaggio interno è in misura rilevante un pensiero di puri significati (387)», assolutamente fondamentale per lo studio del pensiero stesso; è infatti un elemento dinamico ed instabile che fa da intermediario nei complessi passaggi tra il pensiero e la parola.

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LINGUAGGIO ORALE [oral speech] [lenguaje oral] Vedi LINGUAGGIO ESTERNO

LINGUAGGIO SCRITTO [written speech] [lenguaje escrito]

Il linguaggio scritto è un linguaggio monologico di origine intellettuale, espresso attraverso l’uso di segni grafici e caratterizzato, a differenza del linguaggio orale, da consapevolezza, costruzione volontaria e presa di coscienza della struttura fonica, grammaticale, sintattica e semantica del discorso; non costituisce dunque la mera traduzione del linguaggio orale in segni grafici. Un importante tratto caratterizzante di questo linguaggio è l’alto grado di astrazione (vedi) dal suono e dall’interlocutore; si tratta infatti di un linguaggio muto che presenta una notevole distanza dal destinatario. È proprio per via di questa lontananza tra chi scrive e chi legge che tutto deve essere detto nella maniera più espressa possibile e nulla può essere sottointeso. Vygotskij scrive in merito che «nel linguaggio scritto gli interlocutori si trovano in situazioni differenti, il che esclude la possibilità della presenza nei loro pensieri di un soggetto comune (369)». Ecco perché il linguaggio scritto, a differenza di quello orale, presenta sempre la massima articolazione sintattica e non presuppone mai sfumature di senso e idiomaticità, avvalendosi esclusivamente dei significati formali delle parole; Vygotskij afferma infatti che «[…] il linguaggio scritto è la forma di linguaggio più verbosa, più precisa e sviluppata. In esso si deve trasmettere mediante delle parole ciò che nel linguaggio orale è trasmesso mediante l’intonazione e la percezione immediata della situazione (372)»; dunque nel caso del linguaggio scritto, affinché la comprensione sia totale, è necessario l’uso di una quantità maggiore di parole rispetto il linguaggio orale e una combinazione tra di esse il più ricca possibile. Vygotskij prosegue la sua analisi scrivendo che «se il linguaggio esterno viene prima di quello interno, allora quello scritto viene dopo quello interno; […] il linguaggio scritto è la chiave del linguaggio interno (vedi) (261)», in quanto porta il bambino all’interiorizzazione della lingua.

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Tuttavia, i due tipi di linguaggio differiscono profondamente per come si presentano: uno è sviluppato ed espresso al massimo, l’altro stenografico e ridotto al minimo.
Vygotskij assegna al linguaggio scritto il merito di far «accedere il bambino al piano astratto più elevato del linguaggio, riorganizzando allo stesso tempo il sistema psichico del linguaggio orale precedentemente formato (258-259)»; il linguaggio scritto conferisce dunque al bambino una maggiore padronanza della lingua.

PAROLA [word] [palabra]

Vedi ASTRAZIONE, GENERALIZZAZIONE, LINGUA, LINGUAGGIO, LINGUAGGIO INTERNO, SEGNO, SENSO, SIGNIFICATO, UNITÀ COMPONENTE, VOLA TILIZZAZIONE

PARTECIPAZIONE [participation] [participación]

Con questo termine ci si riferisce ad una caratteristica tipica del complesso (vedi) che sta ad indicare «la relazione che il pensiero primitivo stabilisce tra due oggetti o due fenomeni considerati sia come parzialmente identici, sia come aventi un’influenza stretta l’uno sull’altro, mentre non esiste tra loro alcun contatto spaziale, né qualche altro legame comprensibile (173)» alla luce del pensiero per concetti.

PENSIERO ARTIFICIALE [artificial thought] [pensamiento artificial] Vedi APPRENDIMENTO

PENSIERO ASTRATTO [abstract thought] [pensamiento abstracto] Vedi ASTRAZIONE, PSEUDOCONCETTO

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PENSIERO CONCRETO [concrete thought] [pensamiento concreto] Vedi COMPLESSO, PSEUDOCONCETTO

PENSIERO PER COMPLESSI [complex thinking] [pensamiento por complejos] Vedi COMPLESSO

PENSIERO PER CONCETTI [conceptual thinking] [pensamiento por conceptos] Vedi COMPLESSO, CONCETTO, PARTECIPAZIONE, PSEUDOCONCETTO

PENSIERO VERBALE [verbal thought] [pensamiento verbal]

Con questa espressione si definisce quel settore del pensiero che nasce dall’incontro con il linguaggio; a questa porzione di pensiero orientata verso il linguaggio corrisponde poi il linguaggio intellettivo (vedi). Spiega Vygotskij: «la relazione tra pensiero e linguaggio potrebbe essere rappresentata schematicamente in questo caso da due circonferenze che si intersecano, che mostrerebbero che i processi del linguaggio e del pensiero coincidono in parte. Questa è quella che si chiama la sfera del pensiero verbale (118)». Vygotskij riassume poi la sua analisi sul pensiero verbale nel seguente modo: «il pensiero verbale ci è apparso come un insieme dinamico complesso, in cui il rapporto tra pensiero e parola si è manifestato come un movimento attraverso tutta una serie di piani interni, come un passaggio da un piano all’altro. Abbiamo condotto la nostra analisi dal piano più esterno al piano più interno. Nel dramma vivente del pensiero verbale il movimento va in senso inverso: dalla motivazione che fa nascere un pensiero alla formazione di questo stesso pensiero, alla sua mediazione nelle parole del linguaggio interno (vedi), poi nei significati delle parole esterne e infine nelle parole (393)».

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PERIODO SENSITIVO [sensitive period] [período sensitivo]

Con questo termine, sostituibile anche con l’espressione «zona di sviluppo prossimo» (vedi) si indica precisamente il periodo «in cui l’organismo è particolarmente sensibile a influenze di tipo specifico. In questo periodo, influenze di tipo specifico producono un’azione sensibile su tutto il corso dello sviluppo, producono in esso vari e profondi cambiamenti (275)». Ogni materia scolastica ha il suo periodo sensitivo e in esso l’apprendimento (vedi), perché possa avere un’influenza sul corso dello sviluppo (vedi), deve prendere piede solo nel momento in cui la corrispondente fase di sviluppo è ancora immatura.

PREDICATIVITÀ [predication] [predicatividad]
Vedi LINGUAGGIO EGOCENTRICO, LINGUAGGIO INTERNO

PRESA DI COSCIENZA [to become conscious / aware] [toma de conciencia]

Vygotskij definisce questo termine come «un atto della coscienza, il cui oggetto è l’attività stessa della coscienza (238)»; prendere coscienza significa dunque acquisire consapevolezza di una determinata attività che nasce dall’interno, dalla coscienza, e che normalmente viene svolta automaticamente senza rendersi conto delle leggi che regolano il funzionamento di tale attività. Quindi, «[…] prendere coscienza di un’operazione vuol dire […] farla passare dal piano dell’azione a quello del linguaggio; vuol dire […] inventarla di nuovo in immaginazione, per poterla esprimere in parole (Cleparède, citato in Vygotskij 2003: 227)». Prima di tutto, afferma Vygotskij, «per prendere coscienza, bisogna possedere ciò di cui si deve prendere coscienza. Per padroneggiare bisogna disporre di ciò che deve essere sottoposto alla nostra volontà (236)»; ciò significa che la presa di coscienza implica necessariamente la pre-esistenza di una determinata attività della coscienza e una sua fase di funzionamento inconsapevole e involontario; solo queste condizioni permettono poi il passaggio alla consapevolezza nell’uso di tale attività.

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Vygotskij conferma in seguito la tesi di Piaget secondo la quale «la presa di coscienza segue l’azione e nasce solo quando l’adattamento automatico urta contro delle difficoltà (Piaget, citato in Vygotskij 2003: 75)». È proprio per questo motivo che questa funzione nasce solo nel periodo scolare, quando il bambino per la prima volta si scontra con la soluzione di problemi alla quale può giungere solo attraverso la padronanza delle sue attività psichiche. Inoltre, la presa di coscienza ha una comparsa tardiva in quanto si tratta di una funzione propria di uno stadio superiore dello sviluppo che presuppone l’introspezione, attività che compare ad un livello minimo appunto in età scolare; solo in questo momento nel bambino inizia a svilupparsi la percezione di ciò che accade nella sua psiche, all’interno dei suoi processi psichici, solo ora questi processi vengono generalizzati e portati alla coscienza, permettendone al bambino la progressiva padronanza.

PSEUDOCONCETTO [pseudo-concept] [pseudoconcepto]

Lo pseudoconcetto costituisce l’ultimo tipo di complesso che funge da anello di congiunzione tra il complesso (vedi) e il concetto (vedi) vero e proprio. Viene chiamato in questo modo in quanto «fenotipicamente, cioè per il suo aspetto esterno, […] coincide completamente con il concetto, ma per la sua natura genetica, per le condizioni della sua apparizione e del suo sviluppo, per i legami causali-dinamici che stanno alla sua base, non è affatto un concetto (161)», rientra ancora nella categoria del complesso. Quindi, il risultato delle operazioni alla base di questo complesso è assolutamente identico al concetto; ciò che differisce da esso sono proprio la dinamica e l’essenza di tali operazioni. Infatti, alla base di un concetto vi sono legami che nascono dal processo di astrazione (vedi), i quali portano l’oggetto dalla sfera inferiore dell’impressione concreta a quella superiore del pensiero astratto, mentre per quanto riguarda il complesso, i legami che uniscono gli oggetti fra loro si fondano sul principio di una semplice associazione nel campo della concretezza. Di conseguenza, si tratta ancora di una forma di

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pensiero concreto che, tuttavia, ha un ruolo fondamentale sia sotto l’aspetto funzionale che genetico per il raggiungimento del pensiero per concetti e costituisce il tipo di complesso in assoluto più diffuso nell’età scolare del bambino. È necessario precisare che la formazione dello pseudoconcetto nel bambino viene influenzata dalla relazione verbale con gli adulti che lo circondano in quanto questo fenomeno corrisponde per il bambino al processo di attribuzione di un significato (vedi), il quale avviene proprio attraverso l’appropriazione del linguaggio degli adulti; per questo motivo, ne consegue che questa ultima forma di complesso, orientata e guidata nel suo sviluppo dalla forza motrice della lingua degli adulti, sfocerà nella comparsa del pensiero per concetti, tipico del pensiero adulto. Gli pseudoconcetti vanno quindi considerati come gli equivalenti funzionali dei concetti, i quali prenderanno vita, appunto, a partire da queste formazioni precedenti. È proprio questa somiglianza esterna tra lo pseudoconcetto e il concetto che permette a questo punto dello sviluppo del pensiero infantile la completa comprensione tra bambino e adulto nel riferimento all’oggetto. Vygotskij conclude affermando che «gli pseudoconcetti non sono un patrimonio esclusivo del bambino. Nella nostra vita quotidiana il pensiero opera molto spesso per pseudoconcetti. [A volte i concetti con cui ragioniamo] non sono concetti nel vero senso della parola. Sono piuttosto delle rappresentazioni generali delle cose (183)».

RIFERIMENTO ALL’OGGETTO [referent] [referencia al objeto] Vedi ASTRAZIONE, COMPLESSO, PSEUDOCONCETTO

SEGNO [sign] [signo]

Il segno è l’elemento attraverso cui avviene la comunicazione; nel caso della comunicazione verbale, quindi del linguaggio, il segno si identifica nella parola, la quale serve appunto per indicare un oggetto tramite il suo nome. Il segno, che riunisce in sé il suono e il significato della

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parola, diventa il simbolo dell’oggetto designato all’interno dell’atto comunicativo; esso dunque veicola la funzione simbolica del linguaggio. L’uso funzionale del segno distingue le forme psichiche superiori dell’uomo; Vygotskij afferma che «[…] tutte le funzioni psichiche superiori sono unite […] dall’uso del segno come mezzo fondamentale di direzione e padronanza dei processi psichici (137)». Questo è ciò che succede anche con la parola nel linguaggio: qui essa viene usata, oltre che esternamente come mezzo della comunicazione, anche come mezzo per orientare il pensiero all’interno dei processi intellettivi. Inizialmente però «la parola entra nella struttura delle cose senza avere però il significato funzionale di segno. […] Per un certo tempo [la parola] è per il bambino una proprietà della cosa a fianco delle sue altre proprietà (123)»; solo in un secondo tempo, quando avviene la presa di coscienza (vedi) della parola come portatrice di un significato interno (vedi), essa comincia ad essere usata come segno strumentale.

SENSO [sense] [sentido]

Il senso è principalmente l’elemento che, abbinato al suono, rende tale suono parte del linguaggio umano. Vygotskij definisce il senso sottolineando le differenze con il significato (vedi) delle parole: «il senso della parola […] rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola. Il senso di una parola è così una formazione sempre dinamica, fluttuante, complessa che ha parecchie zone di stabilità differenti, [costituite dai singoli significati] (380)». Continua Vygotskij: «Il senso di una parola, [a differenza del suo significato], è un fenomeno […] mobile, che in una certa misura cambia costantemente secondo le varie coscienze e, per una stessa coscienza, secondo le circostanze. A questo riguardo il senso di una parola è inesauribile. […] [Inoltre,] il senso può essere staccato dalla parola che lo esprime, come può essere fissato facilmente a qualsiasi altra parola. […] Perciò accade che una parola prenda il posto di un’altra. Il senso si stacca dalla parola e così si

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conserva. Ma se la parola può sussistere senza il senso, il senso può nella stessa misura sussistere senza la parola (381)».

SIGNIFICATO [meaning] [significado]

Il significato è la parte più interna della parola che costituisce l’unità componente (vedi) del pensiero verbale (vedi) in quanto è l’elemento che racchiude in sé sia un atto di pensiero, la semantica della parola, sia un atto verbale, la sonorità della parola; il significato dunque media internamente il pensiero nella sua espressione verbale, così come il segno (vedi) lo media esternamente. Vygotskij afferma che «il fatto nuovo ed essenziale che presenta questa ricerca sullo studio del pensiero e del linguaggio è che i significati della parola si sviluppano (326)». Spiega Vygotskij più in particolare: «il significato delle parole non è costante. Si modifica nel corso dello sviluppo del bambino. Varia secondo i diversi modi di funzionamento del pensiero. Rappresenta una formazione più dinamica che statica. È stato possibile stabilire la variabilità dei significati solo quando è stata definita correttamente la natura del significato stesso. La sua natura si manifesta anzitutto nella generalizzazione (vedi), che è contenuta come elemento fondamentale e centrale in ogni parola, perché ogni parola già generalizza. (333)». Nel suo sviluppo e mutamento, il significato resta comunque una formazione più costante rispetto al senso (vedi). Vygotskij afferma infatti che «il significato è […] una [delle] zone del senso che acquista la parola in un qualche contesto; […] è la zona più stabile, più unificata e più precisa. […] Il significato […] è quel punto immobile e immutabile che rimane stabile di fronte a tutti i cambiamenti di senso della parola nei diversi contesti (389)».

SINCRETISMO [syncretism] [sincretismo]

Il sincretismo costituisce il primo livello di generalizzazione (vedi) tipico del bambino molto piccolo; è caratterizzato da un raggruppamento «[…] informe, indeterminato fino al fondo, di 40

oggetti isolati che sono legati gli uni agli altri in un modo qualsiasi nella rappresentazione e nella percezione del bambino, in un’unica immagine fusa (149)». Vygotskij spiega che «alla base delle forme sincretiche stanno soprattutto i legami soggettivi emozionali tra le impressioni, prese dal bambino come legami delle cose (156)».

SISTEMA DI CONCETTI [concept system] [sistema de conceptos]
Vedi ASTRAZIONE, CONCETTO SCIENTIFICO, GENERALITÀ, GENERALIZZAZIONE

SOVRAPPOSIZIONE [juxtaposition] [superposición] Vedi COMPLESSO

SPOSTAMENTO [transfer] [transferencia] Vedi COMPLESSO

SUONO [sound] [sonido]
Vedi LINGUAGGIO EGOCENTRICO, LINGUAGGIO ESTERNO, LINGUAGGIO

INTERNO, SEGNO, SENSO, SIGNIFICATO

STRUMENTO DI PRODUZIONE INTELLETTUALE [means of intellectual production] [instrumento de producción intelectual]

Vedi SVILUPPO

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SVILUPPO [development] [desarrollo]

Vygotskij definisce lo sviluppo come «[…] la formación de funciones compuestas, de sistemas de funciones, de funciones sistemáticas y de sistemas funcionales (Ivic 1994: 4)». Il grado di sviluppo mentale di un bambino viene stabilito mediante dei test che egli deve eseguire indipendentemente; questo metterà in luce le funzioni mentali maturate fino a quel momento e queste sono gli indicatori del grado di sviluppo. È importante sottolineare che «lo fundamental en el desarrollo no estriba en el progreso de cada función considerada por separado sino en el cambio de las relaciones entre las distintas funciones […] (Ivić 1994: 4)». Analizzando il fenomeno da questo punto di vista, lo sviluppo si presenta come un processo che apporta dei cambiamenti interni nella psiche del soggetto attraverso l’uso di strumenti esterni. Più precisamente, «the child’s mind develops in the course of acquisition of social experiences, which are presented to the child in the form of special psychological tools: language, mnemonic techniques, formulae, concepts, symbols, signs, and so on. These tools are presented to the child by an adult or by more capable peers in the course of their joint activity. Given to and used by the child first at the external level, these tools then internalize and become the internal possession of the child, altering all his or her mental functions […] (Karpov 1995: 1)», ristrutturandole a livelli via via superiori. Vygotskij afferma che «[…] la historia del desarrollo de las funciones mentales superiores aparece así como la historia de la transformación de los instrumentos del comportamiento social en instrumentos de la organización psicológica individual (Vygotskij, citato in Ivić 1994: 4)». Lo sviluppo avviene dunque attraverso la relazione sociale e non lo si considera solo in termini di sviluppo cognitivo, ma anche di intreccio fra sviluppo emotivo e sviluppo cognitivo; qui il motore trainante è il rapporto tra motivazioni e pensieri e gli strumenti forniti dall’educazione.

Le varie funzioni psichiche (percezione, emozione, memoria, pensiero, immaginazione, volontà) non hanno ciascuna una propria linea di sviluppo separata, ma costituiscono un sistema, in cui lo sviluppo di ogni elemento modifica il funzionamento degli altri. Esse si sviluppano

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affinandosi qualitativamente, passando da elementari a superiori, non attraverso l’accumulo di legami associativi, come pensavano gli studiosi prima di Vygotskij, bensì attraverso la funzione mediatrice dei cosiddetti “strumenti di produzione intellettuale”, i quali elevano le funzioni mentali ad un livello che permette la sistematizzazione e il controllo del comportamento. Considerandolo in relazione all’apprendimento (vedi), lo sviluppo, non solo non corre parallelamente ad esso, o lo precede, come si pensava prima della formulazione della tesi di Vygotskij su tali processi, ma segue l’apprendimento, il quale lo spinge in avanti, stimolando la creazione di nuove formazioni e funzioni psichiche. Vygotskij ha infatti dimostrato che lo sviluppo deve ancora essere immaturo quando ha inizio l’apprendimento affinché questo sia efficace e lo sarà solo se collocato entro la zona di sviluppo prossimo (vedi). A livello di ritmo, lo sviluppo si realizza differentemente rispetto all’apprendimento; ne consegue che esso non deve essere subordinato al programma scolastico. Le ricerche di Vygotskij hanno anche dimostrato che ogni materia contribuisce alla maturazione delle varie funzioni mentali dello scolaro, il quale giungerà ad utilizzarle anche per la risoluzione di problemi attinenti alla sfera della vita quotidiana. Lo sviluppo avviene quindi attraverso l’apprendimento, è il fine dell’apprendimento; questo «sarebbe completamente inutile, se potesse utilizzare soltanto ciò che già è maturato nello sviluppo, se non fosse di per sé la fonte di sviluppo, la fonte di un nuovo principio (275)».

SVILUPPO ARTIFICIALE [artificial development] [desarrollo artificial] Vedi APPRENDIMENTO

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TRATTO DISTINTIVO [distinctive trait] [trato distintivo]

V edi COMPLESSO, COMPLESSO ASSOCIA TIVO, COMPLESSO A CA TENA, COMPLESSO COLLEZIONE, COMPLESSO DIFFUSO, CONCETTO, CONCETTO POTENZIALE, PSEUDOCONCETTO

UNITÀ COMPONENTE [component unit] [unidad componente]

Quando si parla di unità componente si fa riferimento al metodo su cui si basa Vygotskij per analizzare il fenomeno del rapporto tra pensiero e linguaggio, appunto il metodo «che decompone un insieme unitario di base in unità componenti. Per unità componenti intendiamo quei prodotti dell’analisi tali che, pur nella differenza degli elementi, possiedono le proprietà fondamentali proprie dell’insieme, e che sono parti viventi, non decomponibili ulteriormente, di questa unità globale. […] Che cos’è dunque questa unità che non è più decomponibile ed in cui vi sono le proprietà del linguaggio verbale [e del pensiero] come insieme? Pensiamo che questa unità possa trovarsi nella parte interna della parola: nel suo significato (vedi) […] perché proprio nel significato della parola sta il centro di questa unità che chiameremo pensiero verbale (vedi) (13)»; il significato risulta essere quindi allo stesso tempo un fenomeno intellettivo e verbale, adatto all’analisi del pensiero e del linguaggio considerati nella loro unione. Vygotskij conferisce all’analisi in unità componenti il merito di mostrare «che in ogni idea si trova, in forma rimaneggiata, la relazione affettiva dell’uomo con la realtà rappresentata in questa idea. Essa permette di scoprire il movimento diretto dai bisogni e dagli impulsi dell’uomo ad una certa direzione del suo pensiero e il movimento inverso dalla dinamica del pensiero alla dinamica del comportamento e dell’attività concreta della persona (20)».

VOCALIZZAZIONE [vocalization] [vocalización]
Vedi LINGUAGGIO EGOCENTRICO, LINGUAGGIO ESTERNO

44

VOLATILIZZAZIONE [turning of speech into inward thought] [volatilización]

Vygotskij usa questo termine per indicare il passaggio dalla parola al pensiero, ovvero dal linguaggio esterno (vedi) al linguaggio interno (vedi). Lo studioso russo afferma che «se tutto il linguaggio esterno è un processo di trasformazione del pensiero in parole, la materializzazione è l’oggettivazione del pensiero, allora osserviamo qui un processo inverso, un processo che va in qualche modo dall’esterno verso l’interno, un processo di volatilizzazione del linguaggio nel pensiero, ma il linguaggio non scompare affatto, anche nella sua forma interna. […] Il linguaggio interno è sempre un linguaggio, cioè un pensiero legato alla parola. Ma se il pensiero si incarna nella parola nel linguaggio esterno, allora la parola scompare nel linguaggio interno, dando origine al pensiero (387)».

ZONA DI SVILUPPO PROSSIMO [zone of proximal development] [zona de desarrollo próximo]

Area in cui sono presenti i margini entro cui si può realizzare lo sviluppo futuro del bambino nel momento in cui egli è supportato dalla presenza di un adulto che collabora con lui o che funge da modello da imitare, fornendogli la possibilità di ampliare le sue capacità intellettive fino al limite massimo dettato dal suo sviluppo attuale e dalle sue attuali possibilità intellettive. La zona di sviluppo prossimo è il parametro che completa il quadro globale del grado di sviluppo mentale del bambino in quanto non prende in considerazione solo le funzioni e le capacità già maturate nel bambino, ma anche quelle appena comparse e in via di maturazione. L’importanza della zona di sviluppo prossimo si manifesta «nella dinamica dello sviluppo mentale del bambino durante l’apprendimento e nella riuscita di questi due fenomeni considerati in relazione tra loro (270)». Infatti, le possibilità di apprendimento (vedi) e il corso dello sviluppo (vedi) mentale del bambino si basano proprio sulla zona di sviluppo prossimo, così come l’insegnamento, di conseguenza. Il contenuto vero e proprio del concetto di zona di sviluppo

45

prossimo sta nella possibilità dello sviluppo «di elevarsi attraverso la collaborazione ad un livello intellettivo superiore, la possibilità di passare da ciò che in bambino sa fare a ciò che non sa fare, mediante l’imitazione (272)» durante l’apprendimento, il quale deve precedere e stimolare lo sviluppo, trainandolo dietro di sé. È importante precisare che il concetto di zona di sviluppo prossimo si basa proprio sul principio per cui «in collaborazione il bambino può fare sempre di più che da solo (270)»; egli, infatti, se spronato e aiutato da un adulto attraverso la proposta di esempi o di domande che spingono il bambino a mettere in gioco e potenziare le sue abilità, può superare se stesso e le sue capacità, può arrivare ad un livello superiore di attività intellettive, giungendo a risolvere problemi che per difficoltà si addicono a bambini più grandi. Come afferma Vygotskij, «[…] dobbiamo sempre determinare la soglia inferiore di apprendimento. Ma così non si chiude la questione: dobbiamo saper determinare anche la soglia superiore di apprendimento. Solo nei limiti tra le due soglie l’apprendimento può risultare fruttuoso (274)» e può portare in vita i processi di sviluppo potenziale del bambino. Questi due margini vanno proprio a determinare il periodo della zona di sviluppo prossimo, il quale viene anche denominato comunemente periodo sensitivo (vedi). È inoltre bene puntualizzare che la zona di sviluppo prossimo differisce da soggetto a soggetto nonostante la parità di età; Vygotskij scrive infatti che «la possibilità più o meno grande di passaggio del bambino da ciò che sa fare indipendentemente a ciò che sa fare in collaborazione è il sintomo più sensibile che caratterizza la dinamica dello sviluppo e della riuscita del bambino (271)». Le ricerche di Vygotskij mostrano che ciò che è presente nella zona di sviluppo prossimo in un determinato stadio di età si realizza nel livello di sviluppo superiore andando così a determinare il livello presente di sviluppo del bambino in un’età successiva.

46

APPENDICE DI RIFERIMENTO ITALIANO-INGLESE- SPAGNOLO

Agglutinazione

Agglutination

Aglutinación

Apprendimento

Learning

Aprendizaje

Attività verbale

Verbal activity

Actividad verbal

Astrazione

Abstraction

Abstracción

Complesso

Complex

Complejo

Complesso associativo

Associative complex

Complejo asociativo

Complesso a catena

Chain complex

Complejo cadena

Complesso collezione

Collection

Colección

Complesso diffuso

Diffuse complex

Complejo difundido

Concetto

Concept

Concepto

Concetto potenziale

Potential concept

Concepto potencial

Concetto quotidiano

Everyday concept

Concepto cotidiano

Concetto scientifico

Scientific concept

Concepto científico

Concetto spontaneo

Spontaneous concept

Concepto espontáneo

Condensazione

Condensation

Condensación

Endofasia

Endophasy

Endofasia

Equivalenza dei concetti

Equivalence of concepts

Equivalencia de conceptos

Fase affettivo-volitiva

Affective-volitional stage

Fase afectiva / volitiva

Fase emozionale

Emotional stage

Fase emocional

Fase pre-intellettiva

Pre-intellective stage

Fase pre-intelectiva

Fusione concreta

Concrete fusion

Fusión concreta

Generalità

Generality

Generalidad

Generalizzazione

Generalization

Generalización

Idiomaticità

Idiomaticity

Idiomaticidad

Influenza del senso

Influx of sense

Influjo de sentido

Introspezione

Introspection

Introspección

Legame associativo

Associative bond

Vínculo asociativo

Lingua

Language

Lengua

Lingua materna

Native language

Lengua materna

Lingua straniera

Foreign language

Lengua extranjera

Linguaggio

Language

Lenguaje

Linguaggio afasico

Aphasic speech

Lenguaje afásico

Linguaggio egocentrico

Egocentric speech

Lenguaje egocéntrico

Linguaggio esterno

External speech

Lenguaje exterior / externo

Linguaggio fasico

Phasic speech

Lenguaje afásico

Linguaggio intellettivo

Intellective speech

Lenguaje intelectivo

Linguaggio interno

Inner speech

Lenguaje interior / interno

Linguaggio orale

Oral speech

Lenguaje oral

Linguaggio scritto

Written speech

Lenguaje escrito

Parola

Word

Palabra

Partecipazione

Participation

Participación

Pensiero artificiale

Artificial thought

Pensamiento artificial

Pensiero astratto

Abstract thought

Pensamiento abstracto

47

Pensiero concreto

Concrete thought

Pensamiento concreto

Pensiero per complessi

Complex thinking

Pensamiento por complejos

Pensiero per concetti

Concept thinking

Pensamiento por conceptos

Pensiero verbale

Verbal thought

Pensamiento verbal

Periodo sensitivo

Sensitive period

Período sensitivo

Predicatività

Predication

Predicatividad

Presa di coscienza

To become conscious / aware

Toma de conciencia

Pseudoconcetto

Pseudo-concept

Pseudoconcepto

Riferimento all’oggetto

Referent

Referencia al objeto

Segno

Sign

Signo

Senso

Sense

Sentido

Significato

Meaning

Significado

Sincretismo

Syncretism

Sincretismo

Sistema di concetti

Concept system

Sistema de conceptos

Sovrapposizione

Juxtaposition

Superposición

Spostamento

Transfer

Transferencia

Suono

Sound

Sonido

Strumento di produzione intellettuale

Means of intellectual production

Instrumento de producción intelectual

Sviluppo

Development

Desarrollo

Sviluppo artificiale

Artificial development

Desarrollo artificial

Tratto distintivo

Distinctive trait

Trato distintivo

Unità componente

Component unit

Unidad componente

V ocalizzazione

V ocalization

V ocalización

V olatilizzazione

Turning of speech into inward thought

V olatilización

Zona di sviluppo prossimo

Zone of proximal development

Zona de desarrollo próximo

48

APPENDICE DI RIFERIMENTO INGLESE-ITALIANO- SPAGNOLO

Abstract thought

Pensiero astratto

Pensamiento abstracto

Abstraction

Astrazione

Abstracción

Affective-volitional stage

Fase affettivo-volitiva

Fase afectiva / volitiva

Agglutination

Agglutinazione

Aglutinación

Aphasic speech

Linguaggio afasico

Lenguaje afásico

Artificial development

Sviluppo artificiale

Desarrollo artificial

Artificial thought

Pensiero artificiale

Pensamiento artificial

Associative bond

Legame associativo

Vínculo asociativo

Associative complex

Complesso associativo

Complejo asociativo

Chain complex

Complesso a catena

Complejo cadena

Collection

Complesso collezione

Colección

Complex

Complesso

Complejo

Complex thinking

Pensiero per complessi

Pensamiento por complejos

Component unit

Unità componente

Unidad componente

Concept

Concetto

Concepto

Concept system

Sistema di concetti

Sistema de conceptos

Concept thinking

Pensiero per concetti

Pensamiento por conceptos

Concrete fusion

Fusione concreta

Fusión concreta

Concrete thought

Pensiero concreto

Pensamiento concreto

Condensation

Condensazione

Condensación

Development

Sviluppo

Desarrollo

Diffuse complex

Complesso diffuso

Complejo difundido

Distinctive trait

Tratto distintivo

Trato distintivo

Egocentric speech

Linguaggio egocentrico

Lenguaje egocéntrico

Emotional stage

Fase emozionale

Fase emocional

Endophasy

Endofasia

Endofasia

Equivalence of concepts

Equivalenza dei concetti

Equivalencia de conceptos

Everyday concept

Concetto quotidiano

Concepto cotidiano

External speech

Linguaggio esterno

Lenguaje exterior / externo

Foreign language

Lingua straniera

Lengua extranjera

Generality

Generalità

Generalidad

Generalization

Generalizzazione

Generalización

Idiomaticity

Idiomaticità

Idiomaticidad

Influx of sense

Influenza del senso

Influjo de sentido

Inner speech

Linguaggio interno

Lenguaje interior / interno

Intellective speech

Linguaggio intellettivo

Lenguaje intelectivo

Introspection

Introspezione

Introspección

Juxtaposition

Sovrapposizione

Superposición

Language

Lingua

Lengua

Language

Linguaggio

Lenguaje

Learning

Apprendimento

Aprendizaje

Meaning

Significato

Significado

49

Means of intellectual production

Strumento di produzione intellettuale

Instrumento de producción intelectual

Native language

Lingua materna

Lengua materna

Oral speech

Linguaggio orale

Lenguaje oral

Participation

Partecipazione

Participación

Phasic speech

Linguaggio fasico

Lenguaje afásico

Potential concept

Concetto potenziale

Concepto potencial

Predication

Predicatività

Predicatividad

Pre-intellective stage

Fase pre-intellettiva

Fase pre-intelectiva

Pseudo-concept

Pseudoconcetto

Pseudoconcepto

Referent

Riferimento all’oggetto

Referencia al objeto

Scientific concept

Concetto scientifico

Concepto científico

Sense

Senso

Sentido

Sensitive period

Periodo sensitivo

Período sensitivo

Sign

Segno

Signo

Sound

Suono

Sonido

Spontaneous concept

Concetto spontaneo

Concepto espontáneo

Syncretism

Sincretismo

Sincretismo

To become conscious / aware

Presa di coscienza

Toma de conciencia

Transfer

Spostamento

Transferencia

Turning of speech into inward thought

V olatilizzazione

V olatilización

Verbal activity

Attività verbale

Actividad verbal

Verbal thought

Pensiero verbale

Pensamiento verbal

V ocalization

V ocalizzazione

V ocalización

Word

Parola

Palabra

Written speech

Linguaggio scritto

Lenguaje escrito

Zone of proximal development

Zona di sviluppo prossimo

Zona de desarrollo próximo

50

APPENDICE DI RIFERIMENTO SPAGNOLO-ITALIANO- INGLESE

Abstracción

Astrazione

Abstraction

Actividad verbal

Attività verbale

Verbal activity

Aglutinación

Agglutinazione

Agglutination

Aprendizaje

Apprendimento

Learning

Colección

Complesso collezione

Collection

Complejo

Complesso

Complex

Complejo asociativo

Complesso associativo

Associative complex

Complejo cadena

Complesso a catena

Chain complex

Complejo difundido

Complesso diffuso

Diffuse complex

Concepto

Concetto

Concept

Concepto científico

Concetto scientifico

Scientific concept

Concepto cotidiano

Concetto quotidiano

Everyday concept

Concepto espontáneo

Concetto spontaneo

Spontaneous concept

Concepto potencial

Concetto potenziale

Potential concept

Condensación

Condensazione

Condensation

Desarrollo

Sviluppo

Development

Desarrollo artificial

Sviluppo artificiale

Artificial development

Endofasia

Endofasia

Endophasy

Equivalencia de conceptos

Equivalenza dei concetti

Equivalence of concepts

Fase afectiva / volitiva

Fase affettivo-volitiva

Affective-volitional stage

Fase emocional

Fase emozionale

Emotional stage

Fase pre-intelectiva

Fase pre-intellettiva

Pre-intellective stage

Fusión concreta

Fusione concreta

Concrete fusion

Generalidad

Generalità

Generality

Generalización

Generalizzazione

Generalization

Idiomaticidad

Idiomaticità

Idiomaticity

Influjo de sentido

Influenza del senso

Influx of sense

Instrumento de producción intelectual

Strumento di produzione intellettuale

Means of intellectual production

Introspección

Introspezione

Introspection

Lengua

Lingua

Language

Lengua extranjera

Lingua straniera

Foreign language

Lengua materna

Lingua materna

Native language

Lenguaje

Linguaggio

Language

Lenguaje afásico

Linguaggio afasico

Aphasic speech

Lenguaje afásico

Linguaggio fasico

Phasic speech

Lenguaje egocéntrico

Linguaggio egocentrico

Egocentric speech

Lenguaje escrito

Linguaggio scritto

Written speech

Lenguaje exterior / externo

Linguaggio esterno

External speech

Lenguaje intelectivo

Linguaggio intellettivo

Intellective speech

Lenguaje interior / interno

Linguaggio interno

Inner speech

51

Lenguaje oral

Linguaggio orale

Oral speech

Palabra

Parola

Word

Participación

Partecipazione

Participation

Pensamiento abstracto

Pensiero astratto

Abstract thought

Pensamiento artificial

Pensiero artificiale

Artificial thought

Pensamiento concreto

Pensiero concreto

Concrete thought

Pensamiento por complejos

Pensiero per complessi

Complex thinking

Pensamiento por conceptos

Pensiero per concetti

Concept thinking

Pensamiento verbal

Pensiero verbale

Verbal thought

Período sensitivo

Periodo sensitivo

Sensitive period

Predicatividad

Predicatività

Predication

Pseudoconcepto

Pseudoconcetto

Pseudo-concept

Referencia al objeto

Riferimento all’oggetto

Referent

Sentido

Senso

Sense

Significado

Significato

Meaning

Signo

Segno

Sign

Sincretismo

Sincretismo

Syncretism

Sistema de conceptos

Sistema di concetti

Concept system

Sonido

Suono

Sound

Superposición

Sovrapposizione

Juxtaposition

Toma de conciencia

Presa di coscienza

To become conscious / aware

Transferencia

Spostamento

Transfer

Trato distintivo

Tratto distintivo

Distinctive trait

Unidad componente

Unità componente

Component unit

Vínculo asociativo

Legame associativo

Associative bond

V ocalización

V ocalizzazione

V ocalization

V olatilización

V olatilizzazione

Turning of speech into inward thought

Zona de desarrollo próximo

Zona di sviluppo prossimo

Zone of proximal development

52

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

CARNAROLI, Francesco. Vygotskij e la psicoanalisi: relazione, linguaggio, coscienza riflessiva, [on line]. [Roma, Italia]: Psychomedia, 2001 [citato dicembre 2004]. Psicoterapia e scienze umane, N . 3 / 2001. Disponibile dal world wide web: <http://www.psychomedia.it/pm- revs/journrev/psu/psu-2001-3-b.htm>.

— Aspetti della ricerca sul dialogo in psicoanalisi, [on line]. [Roma, Italia]: Psychomedia, 2001 [citato dicembre 2004]. Sezione: Modelli e ricerche in psicoterapia, Area: Emozioni e linguaggio nelle narrative. Disponibile dal world wide web: <http://www.psychomedia.it/pm/modther/emozling/carnaroli.htm+Vygotskij+%22linguaggio+i nterno%22&hl=en&lr=lang_it>.

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IVIC, Ivan. Lev Semionovich Vygotsky (1896-1934). In Perspectivas: revista trimestral de educación comparada, [on line]. UNESCO: Oficina Internacional de Educación, vol. XXIV, n 3-4, 1994 [citato dicembre 2004]. p. 773-779, s.i.t.. Disponibile dal world wide web: <http://www.ibe.unesco.org/International/Publications/Thinkers/ThinkersPdf/vygotskys.PDF+V ygotskij+%22lenguaje+interior%22&hl=en>.

KARPOV, Yuriy V.. L. S. Vygotsky and the Doctrine of Empirical and Theoretical Learning. In Educational Psychologist, [on line]. Lawrence Erlbaum Associates, Inc., vol. 30, n 3, 1995 [citato dicembre 2004]. p. 61-66. Disponibile dal world wide web: <http://www.questia.com/PM.qst?a=o&d=77519406>.

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53

— Corso di traduzione [on line]. [Modena, Italia]: Logos, 2004 [citato dicembre 2004]. Prima parte, La scrittura come processo mentale. Disponibile dal world wide web: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_1_8?lang=it>.

— Corso di traduzione [on line]. [Modena, Italia]: Logos, 2004 [citato dicembre 2004]. Seconda parte, Lettura e formazione dei concetti. Disponibile dal world wide web: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_4?lang=it>.

— Corso di traduzione [on line]. [Modena, Italia]: Logos, 2004 [citato dicembre 2004]. Seconda parte, Lettura ed evoluzione dei concetti. Disponibile dal world wide web: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_5?lang=it>.

— Storia della traduzione, riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002, ISBN 8820330733.

TAPPAN, Mark V. Sociocultural Psychology and Caring Pedagogy: Exploring Vygotsky’s “Hidden Curriculum”. In Educational Psychologist, [on line]. Lawrence Erlbaum Associates, Inc., vol. 33, n 1, 1998 [citato dicembre 2004]. p. 23. Disponibile dal world wide web: <http://www.questia.com/PM.qst?a=o&d=76994962>.

VYGOTSKIJ, Lev Semënovič, Pensiero e linguaggio, introduzione, traduzione e commento di Luciano Mecacci, 1990, settima edizione 2003, Moskva-Leningrad, Editori Laterza, [prima edizione 1934], ISBN 88-420-3953-5.

— Thought and Language, edited and translated by Eugenia Hanfmann and Gertrude Vakar, Moscow-Leningrad, The M.I.T Press, 1962.

54

La traduzione e la semiotica dei giochi e delle decisioni Dinda L. GORLÉE Raffaella Giovanna ROSSI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

La traduzione e la semiotica dei giochi e delle decisioni

Translation and the semiotics of games and decisions

Dinda L. GORLÉE

Raffaella Giovanna ROSSI

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE DI MILANO DIPARTIMENTO INTERPRETI E TRADUTTORI Via Alex Visconti, 18 – MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma di Interprete e Traduttore Indirizzo Traduttore

3 novembre 2000

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© Editions Rodopi B.V., Amsterdam – Atlanta, GA 1994 © Raffaella Giovanna Rossi per l’edizione italiana 2000

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PREFAZIONE

CHARLES SANDERS PEIRCE

Peirce è il fondatore di uno dei due filoni della semiotica, la pragmatica, quello secondo cui il segno è sempre relazionale. Il secondo filone della semiologia, di matrice strutturalista, è quello che fa capo al linguista svizzero Ferdinand de Saussure. Peirce ha elaborato importanti teorie sulle basi cognitive della semio- tica e ha studiato il problema del significato in termini di interpretazione. Sviluppa la sua semiotica filosofica che fonde il realismo scolastico di Locke e l’idealismo kantiano; è una teoria della conoscenza alternativa a ogni teoria in- tuizionista, ma che si discosta dalla visione di Kant della realtà, esterna, opaca ma sempre afferrabile.

L’ARGOMENTO

Come nell’albero delle decisioni di Levý (1967) ogni traduttore si trova davanti una serie di ramificazioni e ogni decisione comporta un percorso, quindi anche un risultato differente.
Il saggio di Gorlée si configura come lo studio di tale precorso e dei processi che stanno alla base della traduzione: il traduttore come il giocatore si trova di fronte a scelte cruciali che ne segneranno la strada. È proprio su questo paralle- lismo tra il ruolo del traduttore e quello del giocatore che fa perno il lavoro dell’autrice sullo sfondo delle teorie semiologiche del modello peirceiano se- condo le quali il segno è sempre relazionale e il significato non è intrinseco bensì traspositivo.

9

ANALISI TRADUTTOLOGICA

Questo saggio, che si inserisce nel vasto panorama delle disquisizioni semioti- che sulla la traduzione, ha un impianto retorico argomentativo molto solido e articolato, che ho cercato di adattare alle strutture tipiche della lingua italiana, vale a dire esplicitando gli atti linguistici e utilizzando i verbi di atteggiamento proposizionale.

I costrutti con will sono stati resi in italiano con il futuro semplice oppure con il presente indicativo a seconda della “forza” che avevano in inglese.
Ho scelto di usare la terminologia specifica della psicologia per tradurre insight (p. ) per non perdere riferimenti impliciti fatti dall’autore.

Il testo è piuttosto scorrevole, lineare benché talvolta presenti sequenze pluri- membri di aggettivi che costituiscono un problema per la versione italiana per- ché vanno smembrati.
Per quel che concerne la varietà mi sono rifatta all’italiano standard di registro medio-alto giustificato non tanto dal linguaggio – in cui per esempio è stata uti- lizzata il forestierismo settoriale explication de texte invece della locuzione in- glese text analysis, la quale innalza lievemente il tono – quanto dal contesto semiotico, destinato a un pubblico di nicchia di esperti e ricercatori di semioti- ca in relazione al problema traduttivo.

Eccomi qui, seduta davanti al mio computer, alle prese con ragionamenti sugli aspetti metalinguistici di questa tesi: forse sono io che sto giocando con le sca- tole cinesi? Io, studente di traduzione scrivo un commento a una traduzione dall’inglese di una parte di un saggio sulla traduzione in cui il traduttore viene paragonato a un giocatore.

Certo, il termine gioco può sembrare riduttivo soprattutto se concordiamo con Peter Newmark (1991) nell’affermare che «la traduzione ha a che vedere con la

10

realtà morale e fattuale». Il traduttore riveste un ruolo molto importante perché è contemporaneamente punto d’arrivo (lettore nella lingua di partenza) e punto di partenza (autore nella lingua d’arrivo). Il gioco è un piacevole passatempo mentre il traduttore deve sempre essere concentratissimo e affrontare seriamen- te il proprio lavoro, nonché assumere la responsabilità delle sue scelte; scelte che non sono soltanto terminologiche ma che concernono, in uno stadio prece- dente, la strategia da seguire, nel difficile tentativo di ricreare lo stesso effetto emotivo dell’originale, il desiderio di «aprire il testo come se fosse una fisar- monica, di analizzarne tutte le piegoline e poi di richiuderlo» per presentare al lettore un ottimo prodotto finito.

Questo testo presenta uno scarsissimo residuo traduttivo, infatti il vocabolario tecnico-settoriale della traduttologia si evolve di pari passo nelle due lingue ed esistono sempre i traducenti esatti; così come le incursioni di altri settori, peral- tro poco frequenti non hanno creato incovenienti.

MOTIVO DELLA SCELTA

Ho scelto questo testo per la mia tesi perché penso che non sia del tutto soddi- sfacente seguire un corso di studi come questo ignorando completamente il piano teorico; credo di essere una persona piuttosto riflessiva che vuole capire il perché delle cose e questo lavoro mi ha dato la possibilità di approfondire un aspetto di un’attività che amo e che desidero coltivare sempre.

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio il mio relatore Professor Bruno Osimo per il tempo dedicatomi e per il sostegno non solo dal punto di vista strettamente legato a questa tesi. Ringrazio i miei genitori che mi sono stati vicino in questi mesi di tensione a- cutizzata.

Un grazie particolare a chi mi ha ricordato il valore di un sorriso nei momenti di maggiore ansia.

11

TRANSLATION AND THE SEMIOTICS OF GAMES AND DECISIONS

INTRODUCTORY REMARKS

In translation theory, “translation” is used to refer to both the act of transla- ting and to the translating text which is a result of this operation or, indeed, this sequence of operations. Translating has been considered traditionally as a prac- tical, goal-oriented activity aiming at producing a concrete result, the transla- tion. At the same time has there been a growing awareness that translation is not merely reducible to its end product, but that it is also, and indeed, first and foremost, search, attempt to find solutions for problems. Thanks to the progress made in the study of the heuristic element in translation, the process-oriented activity, aimed at problem-solving, has come to complement the product- oriented approach to translation.

TRANSLATION AS SIGN INTERPRETATION

In the following I will first propose that translation involves a dual inci- dence of semiosis. Hermeneutics, almost in the traditional sense, forms the first interpretative instance and precedes heuristic interpretation in translation proper. Following the intuition, based upon empirical evidence, that translating implies a semiotic process of decision-making, I will posit that translation the- ory and the formal theory of games can and may be considered to be basically the same in kind; i.e., translating is in some way similar to plying a “game with complete information”, such as a jigsaw puzzle or chess. Support for this work- ing hypothesis is the practical applicability of the conceptual tools used in game theory to the translation situation. I will not propose a formalized model for translation based on the theory of games. Instead I shall venture a tentative exploration of what may be called the game of translation.

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My first proposition is thus that in translation one can distinguish a double incidence of interpretation. The first is of a hermeneutic nature. In order to ac- quire a full understanding of both surface and in-depth meaning (or meanings) of the text, it involves a penetrating explication de texte, including its extralin- guistic references. Such a close reading of the text in the light of the sociohisto- rical and cultural context surrounding and conditioning its production makes cognition of its referential meaning or meanings possible. As the translation theoretician, George Steiner, argues in After Babel, “comprehensive reading [is] in the heart of the interpretative process” and is in itself a “manifold act of interpretation” (Steiner 1975:5,17). This first interpretative step made by the translator, the gaining of insight into the text “inner world”, is followed by, and alternative to, a second interpretative move which is outwardly focused. This creative, or reproductive, interpretation constitutes translation proper and con- sists of the actual transfer of the text from source language into target language. Steiner reaches the same conclusion when he states that the view of translation as interpretation

…will allow us to overcome the sterile triadic model which has dominated the history and theory of the subject. The perennial dis- tinction between literalism, paraphrase and free imitation, turns out to the wholly contingent. It has no precision or philosophical basis. (Steiner 1975:303)

Seen from this perspective, interpretation is inherent in any mode of transla- tion, be it intralingual, interlingual, or intersemiotic translation, i.e., Jakobsón’s three “ways of interpreting a verbal sign” (1959:233).

The dual occurrence of interpretation, with its inward and outward orienta- tions, is reminiscent of Saussure’s signifier and signified. But Saussurean se- miology excludes extraliguistic referentiality and restricts interpretation to pa- radigms

of sign. Signifier (that is, sign-vehicle or sound-image) and signified (that is, mental image or concept of meaning) merge into a twofold relation based upon

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mutual “solidarity”, or complementarity. Here, the meaning of a sign, however, is actually twice removed: once by conventional and once by individual, “arbi- trary” interpretation. The static quality of Saussure’s dyadic signification con- centrates on the former and does no justice to the creative potential of interpre- tation which happens to be the core of the argument here.

If, on the other hand, we follow Jakobsón and adopt Peirce’s theory of signs and their manifold meanings, we may expand the twosided paradigmatic structure and expediently (re-)introduce the dynamic element which is crucial in interpretation, and hence in the concept of translation put forward here. This dynamic element is embodied in the Peircean concept of interpretant, which is the third dimension in the triadic relation, sign-object-interpretant. In Peirce’s much-quoted definition.

A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something on some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. The sign which it creates I call the interpretant of the first sign. (CP:2.228,c.1897)

The interpretant as a sing interpretative of another sign implies that interpre- tation is a generative process of signification. The idea that the meaning of a sign is always another sign generates an endless series of interpretative signs. This unlimited process of making sense heuristically is called, in semiotic par- lance, semiosis; and translation (that is, any translational process in the semi- otic sense) is semiosis because it produces interpretant signs that, according to Eco (1979:71), “beyond rules provided by codes, explain, develop, interpret a given sign”.

Returning to the definition of sign quoted above, we may now supplement it as follows: “The sign stands for something, its object”. It stands for that o- bject, not in all respects, but in reference of a sort of idea, which I have some- times called the ground of the representamen” (CP:2.228,c.1897). Once we de- fine the object in this way as that which is signified and the interpretant as that

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in which it is interpreted, the multiplicity of different possible interpretant- signs or translations for each sign is in turn determined by the relation the “first” sign has to its object. The multiplex modes of signifying are counterba- lanced by the different modes of representational abstraction.

In order to function as a sign, a sign needs to lead to an interpretation. And in order to be meaningful, a sign must invariably be embedded in some code or system, which Peirce called “ground”. Signs signify because the previous ac- quaintance their interpreter has with the rules that underlie their particular mo- de of being encoded, enables him or her in turn to produce interpretant-signs.

Without sign representation there is no possibility of sign interpretation. Interpretation, translation, or any type of semiosis, means, in effect, tracing out the ground as it is operative in actual sign use. Meaning arises from exploratory interpretation of sign in their natural habitat: the world of context in which hu- mans use verbal (and nonverbal) signs in order to meaningfully (for themsel- ves) organize the reality surrounding them, thereby mastering it. This implies a partly experiential and partly cognitive frame of reference which is Peirce’s ground.

TRANSLATION, A GAME1

This second characterization, mentioned above, of a simple jigsaw puzzle as a heuristic game, may with good reason seem fanciful at first. It is, however, worth pursuing this view here, because it points towards a more complex game, the language game of translation. My proposition here is that translation may be consid-

ered as a game, comparable to the jigsaw puzzle as characterized above2. In the “game” of translation, however, the main element is Thirdness, not Fir- stness. Not only is translation governed by strict rules, but at the same time it challenges ingenuity while also involving logical processes. The game of tran- slation is, it would seem, a more intellectual version of the jigsaw puzzle and represents a superior form of mental gymnastics. The translation problem is further represented in a less tangible and portable form than the jigsaw puzzle,

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and so represents a higher level of abstraction as it is found in the Peircean symbol, or sign of Thirdness.

All verbal language is mainly symbolic in the sense of Peirce’s doctrine of signs. “A symbol” wrote Peirce ” is a sign which refers to the object that it de- notes by virtue of law, usually an association of general ideas” (CP:2.249,1903). Whereas the icon, or sign of Firstness, bears a physical and static resemblance to the object it evokes, the association between a symbol and its object rests upon an agreement, a consensus. There exists thus an incre- ased, dynamic distance between the symbolic sign and its object. Accordingly, the symbol only becomes meaningful in a practical way because the sign user (or better, the community of sign users) makes logical decisions about its scope and usage.

Iconic and symbolic signs both exclude any chance similarity between the sign-vehicle and the object of reference, and rely on some general, conventio- nally established connection, which consists in their ground. But symbols differ from icons insofar as the ground of the former stresses differences while that of the latter stresses similarities. What icons and symbols have in common is the idea of replica. This idea is salient to both the jigsaw puzzle and translation: in order to become meaningfully recognized, the symbolic, as the leading element in language-based translation, must even imply the iconic, the idea of replica. This replica need not be conventional, just as convention need not be standard but may, in a Peircean spirit, be or, at least, originate from an individual choi- ce, So, while the referentiality of the jigsaw puzzle limits itself to the single- ness of replication, language games, based as they are on linguistic signs, are primarily symbolic activi-

ties in the original meaning of the word symbol “Etymologically”, wrote Peir- ce, “it should mean a thing thrown together… But the Greeks used ‘throw toge- ther’ (symballein) very frequently to signify the making of a contract or convention” (CP:2.297,c.1895) 3.

Whereas the jigsaw puzzle exhibits, so to speak, its meaning, language games are not univocal in the same sense, they do not say what they mean, but possess an inherent polysemy which needs to be deciphered and interpreted.

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The basic symbolicity of language grants the signs used in language a great mobility. This dynamic quality is what distinguishes the game of translation from the jigsaw game. To be sure, the pictorial text conveying all purported in- formation immediately and simultaneously, appears transformed into a textual “image” consisting of sequentially-ordered linguistic signs which the player is required to translate into a different linguistic mode or code, without violating the rules of the game.

In its pure and traditional form the game of translation is a one-person deci- sion game based on rule-regulated, reasonable choices between alternative so- lutions. There is commonly one solitary player, the translator, who is engaged in this struggle against Nature, his or her impersonal opponent facing him or her in the text to be translated, embodied in its complex of puzzles. The player knows that each action invariably leads to a specific outcome, while the order and nature of the series of actions build and depend in the previous choices the player himself or herself has made. The game is productive of an intricate interrelation pattern, the generation of which can be symbolized by the game tree proposed by Luce and Raiffa in their (1967) Games and Decisions: Intro- duction and Critical Survey and applied to the translation situation by Levý4.

My argument here corresponds essentially to the theoretical perspective in Levý’s (1967) article, “Translation as a decision process”, in that translation is considered from the viewpoint of both game theory and semiotics. In his arti- cle, however, Levý concentrates on the problems found in the translation of li- terary texts; and within translation as a total semiotic process, he focuses on the pragmatic di-

mension (following Morris’s division of the field of semiotics into syntactics, semantics, and pragmatics) as he pays particular attention to assessment by re- aders, that is interpreters “in the second degree” (as Peirce might have been tempted to call them). In the framework of translation as a decision process, Levý used graphs called “decision trees”. Levy’s trees show how an omniscient translator has to deal with decisions, nodes, and branches that typically arise in the course of the translation process. The method of choice is to select that branch leading to the most desired result. Once one branch is chosen from a set

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of variants, all other branches are thereby eliminated and other solutions blo- cked for the rest of the game. Thus when a game situation, such as translating, is entered at one end of the decision tree, current values of variants determine a path to an appropriate action. This would mean that translating is not unlike “finding a way through a maze… the first time – not, as in studies of animal le- arning, to learn to run the maze without error” (Taylor 1968:509).

In contradistinction to the jigsaw puzzle, which aims at finding the one pre- specified solution, the game of translation is a game of seeking and finding “a” solution that is as relevant as possible to the purpose of the game: maximizing the player’s expected payoff. In translation, this aim can hardly be specified in terms of straightforward gain or loss, because in this solitary game there are no real points to score. Instead comes the gratification provided by the game itself and by its concrete result, measured in terms of success vs. failure. The transla- tor gains the desired (by him or her) outcome if by his or her choices he or she produces an equivalent 7, well formed translation; and in order to reach this go- al he or she tends to avoid time- and energy-consuming trial and error beha- vior, and to adopt an implicit or explicit strategy that will help him or her to sort out the consecutive problems. As this rational strategy is, more often than not, the minimax principle discussed above, translators, according to Levy,

…are content to find for their sentence a form which, more or less, expresses all the necessary meanings and stylistic values, though it is probable that, after hours of experimenting and rewriting, a better solution might be found… Translators, as a rule, adopt a pessimistic strat- egy, they are anxious to accept those solutions only whose “value” –even in case of the most unfavourable reactions of their readers– does not fall under a certain minimum limit admissible by their linguistic or aesthe- tic standards. (Levý 1967:1180)

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Surely the translator often has no other choice than to be satisfied with his or her own minimax performance (for instance, because exhaustive analysis of the alternatives is impossible, or because he or she has to adapt, as economi- cally as possible, his or her own standards to the constraints of the particular game). But such a policy reduces the translator’s choices to his or her own stra- tegic options which, at best, are lucky guesses about his or her own capacities.

Systematization of translational performance as rule-bound step-by-step behavior is, however, only a one-sided view of the language game of transla- tion, one which is based on a view of the linguistic code as a collective entity dealing with combinational rules. In reality, however, this code goes far be- yond such categories as “grammar” and other rule-bound linguistic feature, however comprehensive they may be. In the game of translation, solutions for problems must often be other than grammar-generated and may be the result of non- systematic search in a certain direction. Rule-consistency in decision- making needs to coexist with free discovery if the game of translation is to yield optimal results. Goal-directed heuristics is essential in translation because only this thinking method may produce chance discoveries and intuitive inspi- rations beyond the constraints of grammatical rules. In a heuristic program — based upon Peirce’s abduction8 — humans obtain plausible if not perfect solu- tions without examining all of a (possibly enormous)

mass of relevant information. In this way a problem, translational or otherwi- se, may be solved not by conducting an exhaustive search for a solution but by making use of certain rules of thumb and the various approximations and shor- tcuts that characterize human judgments. It is precisely this aspect of transla- tion which is largely ignored in the game-theoretical consideration of transla- tion, with its emphasis on rational decision-making.

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LA TRADUZIONE E LA SEMIOTICA DEI GIOCHI E DELLE DECISIONI

NOTE INTRODUTTIVE

In teoria della traduzione il termine «traduzione» è usato per indicare sia l’atto del tradurre sia il testo tradotto, frutto di questa operazione o, meglio, di questa sequenza di operazioni. Tradurre è stata considerata tradizionalmente un’attività pratica orientata all’obiettivo, il cui scopo è quello di fornire un risul- tato concreto: la traduzione. Allo stesso tempo c’è una coscienza sempre mag- giore del fatto che tradurre non può venire ridotto al solo prodotto finale, ma che, anzi, è prima di tutto una ricerca, una serie di tentativi per trovare solu- zioni ai problemi. Grazie ai progressi raggiunti nello studio della componente euristica nella traduzione, l’attività che si concentra sul processo, il cui scopo è risolvere i problemi, è andata a completare l’approccio che si focalizza sul pro- dotto della traduzione.

LA TRADUZIONE COME INTERPRETAZIONE DEL SEGNO

Sosterrò anzitutto che la traduzione implica una doppia incidenza della semiosi. L’ermeneutica, almeno nell’accezione tradizionale, rappresenta la pri- ma istanza interpretativa e precede l’interpretazione euristica della traduzione propriamente detta. Seguendo l’intuizione, basata su dati empirici, che la tradu- zione implica un processo semiotico decisionale, postulo che la teoria della tra- duzione e la teoria formale dei giochi possono essere considerati essenzialmen- te dello stesso tipo; ovverosia che la traduzione è, in un certo senso, simile al «gioco a informazione completa» così come lo sono i puzzle o gli scacchi. Ciò che conforta questa ipotesi di lavoro è l’applicabilità pratica degli strumenti concettuali della teoria dei giochi al contesto traduttivo. Non proporrò un mo- dello formale per la traduzione basato sulla teoria dei giochi. Piuttosto vorrei azzardare un’esplorazione per scoprire quello che si potrebbe definire il gioco della traduzione.

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Quindi il primo punto che affronterò è che nella traduzione si può distin- guere una doppia incidenza dell’interpretazione. La prima è di natura ermeneu- tica. Per capire appieno sia il significato (o i significati) superficiale del testo sia quello profondo è necessaria un’explication de texte esauriente che com- prenda anche i riferimenti extralinguistici. Una lettura del testo così attenta, che tiene conto del contesto socio-storico e culturale in cui è inserito e che condi- ziona la sua produzione, fa trasparire il significato, o i significati, possibili. Come George Steiner, teorico della traduzione, sostiene in After Babel [Dopo Babele], «la lettura contestuale è il cuore del processo interpretativo» ed è in sé «un atto molteplice di interpretazione» (Steiner 1975 p.7,20).

Questo primo passo interpretativo compiuto dal traduttore, l’indagine del «mondo interiore» del testo, è seguita da – o alternativa a – una seconda mossa interpretativa che si focalizza sull’esterno. Quest’interpretazione creativa, o ri- produttiva, costituisce la traduzione propriamente detta e consiste nel trasferi- mento vero e proprio del testo dalla lingua di partenza alla lingua d’arrivo. Stei- ner perviene alla stessa conclusione quando enuncia la sua visione della tradu- zione come interpretazione

(…) ci consentirà di superare lo sterile modello triadico che ha do- minato la storia e la teoria della materia. L’eterna distinzione fra la resa verbatim, la parafrasi e l’imitazione libera si dimostra total- mente contingente. Non è precisa e manca di base filosofica (Stei- ner 1975 p. 346)

Considerata in questa prospettiva, l’interpretazione concerne qualsiasi ap- proccio traduttivo, si tratti di traduzione intralinguistica, interlinguistica o in- tersemiotica, cioè i tre «modi per interpretare il segno verbale» di Jakobsón (1959 p. 267).

La doppia occorrenza dell’interpretazione, con il suo orientamento sia ver- so l’interno che verso l’esterno, ricorda il significato e il significante di de Saus- sure. Ma la semiologia saussuriana esclude la referenzialità extralinguistica e

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limita l’interpretazione al paradigma dei segni. Il significante (vale a dire se- gno-veicolo o suono-immagine) e il significato (vale a dire l’immagine mentale o il concetto del significato) si fondono in una relazione binaria basata sulla mutua «solidarietà» o complementarità. Qui il significato di un segno è forte- mente vincolato dalla convenzione. Tuttavia è rimosso due volte: una dall’in- terpretazione convenzionale e una da quella individuale, “arbitraria”. La carat- teristica statica della struttura diadica di de Saussure si concentra sul primo tipo di interpretazione e non rende giustizia al potenziale creativo dell’interpretazio- ne che qui costituisce la parte centrale dell’argomentazione.

Se, d’altra parte, si segue Jakobsón e si adotta la teoria dei segni e dei si- gnificati molteplici elaborata da Peirce, si potrebbe espandere la struttura para- digmatica binaria e opportunamente (re)introdurre l’elemento dinamico fonda- mentale nell’interpretazione e quindi il concetto di traduzione qui esposto. Que- sto elemento dinamico è rappresentato dal concetto peirceiano di interpretante, il terzo termine della relazione triadica segno-oggetto-interpretante. Nella cita- tissima frase di Peirce

Un segno, o representamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità. Si rivolge a qualcuno, cioè, crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Chiamo il segno che crea interpre- tante del primo segno (C.P. p. 2.228, c.1897)

L’interpretante come segno interpretativo di un altro segno implica che l’in- terpretazione un processo generativo di significazione. L’idea che il significato di un segno sempre un altro segno genera una serie infinita di segni interpreta- tivi. Questo processo illimitato di associazione euristica è chiamato, in semioti- ca, semiosi; e la traduzione (cioè qualsiasi processo traduttivo in senso semioti- co) è semiosi perché produce segni interpretativi che, secondo Eco (1979 p.71). «al di là delle regole stabilite da codici, spiega, sviluppa e interpreta il segno dato».

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Ritornando alla definizione di segno sopracitata, può essere ampliata di- cendo «il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quell’oggetto, non in ogni aspetto ma in riferimento di un tipo di idea che ho chiamato a volte base (ground) del representamen» (CP p.2.228, c.1897). Una volta definito l’oggetto in questi termini ovverosia come ciò che è significato e l’interpretante come ciò in cui è interpretato, la molteplicità di diversi interpretanti-segni possibili o tra- duzioni per ciascun segno è a sua volta determinata dalla relazione che il “pri- mo” segno ha con il suo oggetto. Le molteplici modalità di significato sono controbilanciate dalle diverse modalità di astrazione rappresentativa. Per fun- zionare come segno, il segno deve condurre a un’interpretazione. E per avere senso, deve assolutamente inserirsi in un codice o sistema, che Peirce chiama «ground». I segni significano per via della previa conoscenza da parte dell’in- terprete delle regole che sottendono il modo particolare con cui i segni vengono codificati, che a sua volta permette all’interprete di produrre segni interpretanti.

Senza la rappresentazione del segno non è possibile la sua interpretazione. L’interpretazione, la traduzione o qualsiasi altro tipo di semiosi significano, in- fatti, delineare come ground operi nell’uso pratico del segno. Il significato na- sce dall’interpretazione esplorativa dei segni nel loro ambiente naturale: il mondo del contesto in cui gli esseri umani usano segni verbali (e non) per or- ganizzare significativamente (per loro) la realtà che li circonda e, attraverso ciò, padroneggiarla. Questo implica una cornice di riferimento, ovverosia il ground di Peirce, composta sia di una parte esperita sia di una cognitiva.

LA TRADUZIONE, UN GIOCO1

La definizione di semplice puzzle come gioco euristico potrebbe, di primo acchito, giustamente sembrare bizzarra. Tuttavia vale la pena di adottare questo punto di vista perché spiana la strada a un gioco più complesso: il gioco lingui- stico della traduzione. Sosterrò qui che la traduzione può essere considerata un

gioco, paragonabile al puzzle sopra citato2. Eppure nel “gioco” della traduzio- ne l’elemento principale è la Terzità e non la Primità. La traduzione non è sol-

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tanto governata da regole ferree, ma sfida anche l’ingegno e, al contempo, coinvolge processi logici. Il gioco della traduzione sarebbe quindi una versione più intellettuale del puzzle e rappresenterebbe una forma superiore di ginnasti- ca mentale. Il problema della traduzione è presentato in una forma assai meno tangibile e trasportabile del puzzle e comporta quindi un livello superiore di a- strazione così come nel simbolo peirciano, o segno della Terzità.

L’intero linguaggio verbale è prevalentemente simbolico, inteso nel senso della dottrina dei segni di Peirce. «Un simbolo è un segno che si riferisce al- l’oggetto che denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee ge- nerali» (C.P. p.2.249,1903). Laddove l’icona, o segno della Primità, possiede una somiglianza fisica e statica con l’oggetto che evoca, l’associazione tra sim- bolo e il suo oggetto si fonda su un accordo, un consenso. Tra il segno simboli- co e il suo oggetto vi è quindi una distanza dinamica maggiore. Conseguente- mente il simbolo acquista un significato pratico soltanto poiché chi usa il segno (o meglio la comunità di coloro i quali usano il segno) prende decisioni logiche sulla sua estensione e sul suo impiego.

Sia i segni simbolici sia quelli iconici escludono ogni possibilità di somi- glianza tra il segno-veicolo e l’oggetto di riferimento e si fondano su una con- nessione generale, convenzionale e prestabilita che è il loro ground. Ma i sim- boli differiscono dalle icone proprio perché il ground dei primi mette in risalto la differenza mentre quello delle seconde mette in risalto la somiglianza. Ciò che i simboli e le icone hanno in comune è l’idea di replica. Questo concetto è fondamentale sia nel puzzle sia nella traduzione: affinché il significato venga riconosciuto, il simbolico, l’elemento guida nella traduzione basata sul linguag- gio, deve implicare anche l’iconico, l’idea di replica. Non è necessario che que- sta replica sia convenzionale, così come la convenzione non deve essere ne- cessariamente standard ma, in linea con Peirce, può essere contraddistinta o almeno scaturire da una scelta individuale. Così, mentre la referenzialità del puzzle si limita a una replica singola, i giochi linguistici, in quanto basati su segni linguistici, sono essenzialmente attività simboliche, nel senso originario

della parola «simbolo»: «Etimologicamente dovrebbe significare una cosa gettata insieme … Ma, molto spesso, i Greci utilizzavano gettare insieme

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(symballein) intendendo la stipulazione di un contratto o il raggiungimento di una convenzione» (C.P. p.2.297, c.1895)3.

Mentre il puzzle mostra, per così dire, il suo significato, i giochi con la lin- gua non sono altrettanto univoci, non esprimono il loro significato in modo chiaro ma hanno una polisemia insita che deve essere decifrata e interpretata. La simbolicità essenziale del linguaggio garantisce ai segni usati nella lingua una grande mobilità. Questa caratteristica dinamica è quella che permette di di- stinguere il gioco della traduzione da quello del puzzle. Ovviamente, il testo visivo che comunica tutte le informazioni immediatamente e simultaneamente appare trasformato in un’immagine testuale composta da segni linguistici di- sposti in sequenza che il giocatore deve tradurre in un altro codice o modo lin- guistico, senza trasgredire le regole del gioco.

Nella sua forma pura e tradizionale il gioco della traduzione è un gioco di decisioni fatto da una sola persona sulla base di scelte ragionate fondate su re- gole, tra soluzioni alternative. Di solito c’è un unico giocatore, il traduttore, che è impegnato in questa lotta contro la Natura, la sua antagonista impersonale che lo fronteggia nel testo da tradurre, rappresentata nel suo insieme di puzzle. Il giocatore sa che ogni azione porta inevitabilmente a un risultato specifico, mentre l’ordine e la natura della serie di azioni dipendono dalle scelte che sono state prese in precedenza dal giocatore e si basano su di esse. Il gioco dà vita a un intricato schema di interrelazioni, la cui creazione può essere simboleggiata dall’albero del gioco proposto da Luce e Raiffa nel loro Games and Decisions: Introduction and Critical Survey [Giochi e Decisioni: Introduzione e Indagine Critica] (1967) e applicato alla situazione traduttiva a Levý.

La mia argomentazione qui corrisponde in sostanza alla prospettiva teore- tica dell’articolo di Levý Translation as a Decision Process [La traduzione co- me processo decisionale] (1967) nel quale la traduzione è considerata sia dal punto di vista della teoria dei giochi sia da quello semiotico. In questo articolo, tuttavia, Levý si concentra sul problema della traduzione letteraria; e nell’ambito della traduzione quale processo interamente semiotico, ne eviden-

zia la dimensione pragmatica (in linea con la suddivisione di Morris della se- miotica in sintattica, semantica e pragmatica) prestando particolare attenzione

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al giudizio dei lettori, cioè degli interpreti «di secondo grado» (come Peirce sa- rebbe stato tentato di chiamarli). Nel quadro della traduzione come processo decisionale, Levý utilizza grafici chiamati «alberi decisionali». Questi mostra- no come un traduttore onnisciente debba affrontare le decisioni, i nodi e le ra- mificazioni che sorgono durante il processo traduttivo. Il metodo consiste nello scegliere il ramo che conduce al risultato più desiderabile. Una volta scelto un ramo tra una serie di varianti, tutti gli altri vengono automaticamente eliminati e le altre soluzioni per il resto del gioco sono bloccate. Perciò quando si è en- trati in una situazione di gioco cosìcome la traduzione, da un ramo dell’albero decisionale si attivano delle varianti che determinano il percorso verso l’azione appropriata. Ciò significa che tradurre non è diverso da «trovare la strada in un labirinto, […] la prima volta e non, come negli studi sull’apprendimento anima- le, imparare a percorrere il labirinto senza errori» (Taylor 1968 p.509).

A differenza del puzzle, il cui scopo è quello di trovare la soluzione stabili- ta a priori, il gioco della traduzione è un gioco in cui si cerca e si trova “una” soluzione più pertinente possibile con lo scopo del gioco: massimizzare le a- spettative del giocatore in termini di soddisfazione. Nella traduzione è molto difficile che questo scopo venga specificato in termini netti di perdita o di vin- cita, perché in questo gioco solitario non c’è un vero e proprio punteggio. C’è invece la gratificazione del gioco in sé e del suo risultato concreto, misurato in termini di successo o insuccesso. Il traduttore ottiene le conseguenze desiderate se, con le scelte cha ha compiuto, produce una traduzione “equivalente” e for- malmente gradevole; e, per conseguire questo obiettivo, deve evitare di ricorre- re ai tentativi per prova ed errore – sia per quanto riguarda il tempo, sia per quanto riguarda l’energia che viene impiegata – e di adottare una strategia, im- plicita o esplicita, che lo aiuti a risolvere i vari problemi. Poiché questa strate- gia razionale è molto spesso il principio minimax discusso sopra, i traduttori, secondo Levý,

[…] sono contenti di trovare per le loro frasi una forma che, più o meno, esprima tutti i significati necessari e riproduca le scelte stilistiche, tuttavia, dopo ore di sperimentazione e riscrittura, si po-

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trebbe trovare una soluzione migliore […] I traduttori di regola a- dottano una strategia pessimistica, ansiosi di accettare solamente quelle soluzioni il cui “valore” – persino nei casi delle reazioni più sfavorevoli dei loro lettori – non vada sotto un certo limite minimo ammissibile dai loro criteri linguistici ed estetici. (Levý 1967 p. 79)

Sicuramente il traduttore spesso non ha altra scelta che essere soddisfatto della sua prestazione minimax (per esempio perché è impossibile l’analisi esau- stiva delle alternative o perché deve adattare, con la maggiore economia possi- bile, i suoi criteri ai limiti imposti da quel gioco specifico). Ma se si segue una linea simile le scelte del traduttore si riducono alle sue opzioni strategiche che, nella migliore delle ipotesi, sono congetture fortunate sulle proprie capacità.

La sistematizzazione della performance traduttiva che si configura come un procedere a tappe delimitato da regole dà conto soltanto di un aspetto par- ziale del gioco linguistico della traduzione, il quale invece si basa su una con- siderazione del codice linguistico come entità collettiva governata da regole combinatorie. Ma, a ben guardare, questo codice va ben al di là di categorie come la «grammatica» e altre unità linguistiche delimitate da regole, per quan- to estese possano essere. Spesso, nel gioco della traduzione le soluzioni ai pro- blemi devono necessariamente essere altre da quelle generate dalla grammatica e possono essere il risultato di una ricerca non sistematica. Se il gioco della traduzione deve produrre risultati ottimali, il ricorso a regole coerenti nel prendere decisioni deve coesistere con la libera scoperta. L’euristica finalizzata all’obiettivo è di capitale importanza nella traduzione perché solo quest’attitudine mentale può dar luogo a scoperte casuali e ispirazioni intuitive al di là dei limiti delle regole grammaticali. In un programma euristico – basato sull’abduzione di Peirce – si ottengono soluzioni plausibili, se non perfette, sen- za esaminare tutta la massa (eventualmente enorme) di informazioni pertinenti.

In questo modo un problema, traduttivo o di altra natura, può essere risolto non attraverso una ricerca esauriente della soluzione ma facendo uso di alcune re-

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gole a orecchio e delle varie approssimazioni e scorciatoie che caratterizzano i giudizi umani. È proprio questo aspetto della traduzione che viene perlopiù i- gnorato quando si considera la traduzione nell’ambito della teoria dei giochi, che attribuisce tanta importanza alla razionalità delle decisioni.

NOTE

1 È importante sottolineare il fatto che questo paragone non è dovu- to ad alcuna necessità “oggettiva” né ad alcuna verità eterna sulla tra- duzione o sui giochi. Come ci ricorda Toury, «Ogni paragone è per sua natura parziale e indiretto: è sviluppato considerando soltanto certi aspetti condivisi esclusivamente dagli oggetti paragonati, aspetti che non costituiscono che una parte delle loro proprietà totali, ed è fatto con l’aiuto di “concetti intermedi” correlati a questi aspetti e che ser- vono come una base fissa e invariabile del paragone. Questa invariabi- le, e con essa l’intero paragone, dipendono dalla teoria» (Toury 1978 p.93). Dovrebbe essere chiaro che la prospettiva teoretica normale scelta qui è semiotica, basata sulla filosofia del segno. L’analogia tra il concetto di gioco e quello di traduzione non dovrebbe quindi essere spinta fino a ricoprire entrambi, ignorando il carattere che contraddi- stingue le due entità. Sarebbe un errore di ragionamento pretendere, senza ulteriori garanzie, che se condividono alcuni caratteri (come la scelta, le regole, la strategia, e il processo decisionale) ne devono an- che condividere altri, ma ciò non si verifica. Oltre a realizzare i loro caratteri comuni in modi diversi, è anche ovvio che differiscono nella portata teoretica generale così come nell’uso pratico e nella funzionali- tà. Conseguentemente, la tendenza qui ad assimilare la traduzione (u- sata in senso stretto) al (più ampio) concetto di gioco e a riferirsi ai “concetti intermedi” reciproci nasce solo dalla strategia di fornire una fonte di insight creativo, una strategia orientata verso l’incoraggiamen- to a compiere alcuni collegamenti che altrimenti sarebbero impensabi-

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li. Si vedano anche i relativi problemi epistemiologici sollevati in Ja- ckson 1992, in cui viene riscontrata un’analogia tra il concetto di gioco e quello di legge.

2 Le riserve e le note precauzionali della nota 1 sono da applicare, a fortiori, all’analogia tra un gioco particolare, il puzzle, e il “gioco” del- la traduzione (che è, come ribadito nella nota 1, trattato come un gioco per sostenere l’argomentazione qui presentata).

3 Una trattazione più ampia del contratto verrà fatta nel Capitolo 10.

4 Si veda anche Levý 1970. L’attualità della traduzione come metodo per risolvere i problemi e prendere le decisioni è discusso in Wilss (si vedano specialmente i Capitoli 4 e 5).

5 Per una discussione dell’equivalenza nella traduzione si vedano i Capitoli 7 e 9.

6 Per una discussione dell’adduzione perciana si veda il Capitolo 3, in modo particolare la sezione su “Il ragionamento e la logica”.

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1 It is important to underscore that this comparison is not determined by any “objective” necessity, or by any eternal truth about translation or about games. As Toury reminds us: “Every comparison is by nature both partial and indirect: it is carried out regarding certain aspects only common to the objects com- pared, aspects constituting but a part of their total properties, and it is done with the aid of some ‘intermediary concept’ related to these aspects and serving as a fixed, invariant basis for the comparison. This invariant, and with it the comparison as a whole, are theory-dependent” (Toury 1978:93). It should be clear that the common theoretical perspective chosen here is semiotic, sign- philosophical. The analogy between the game concept and translation should, therefore, not be pressed as far as to slide from one to the other, thereby ignor- ing the characters that distinguish both entities. It would be an error of reason- ing to claim, without further warrant, that if they share some characters (such as choice, rules, strategy, and decision-making) they must also share others; they don’t. In addiction to realizing their common characters in different ways, it is also obvious that they differ in general-theoretical scope as well as practi- cal usage and functionality. Accordingly, the tendency here to assimilate trans- lation (here used in the narrow sense) to the (broader) game concept and to re- fer to mutual “intermediary concepts” comes only from the strategy to provide a source of creative insight, a strategy geared towards the goal of encouraging to make some connections one might otherwise not conceive of making. See also the relevant epistemological issue raised in Jackson 1992, in which an analogy is drawn between the concepts of game and law.

2 The cautionary remarks and reservations made in note 1 apply, a fortiori, to

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the analogy between one particular game, and the “game” of translation, (which is, as pointed out in note 1, discussed as a game for the sake of the ar- gument here).

3 More on contract in Chapter 10.

4 See also Levý 1970. The state-of-the-art of translation as problem-solving and decision-making is discussed in Wilss 1988 (see especially Chapters 4 and 5).

5 For a discussion of equivalence in translation, see Chapters 7 and 9.

6 For a discussion of Peirce’s abduction, see Chapter 3, particularly the section on “Reasoning and logic”.

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