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Language, Mind and Reality: Attualità e attualizzazione di un saggio di B. Lee Whorf ANNALISA SOLINAS Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

 

Civica Scuola Interpreti e Traduttori

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Inverno 2006

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© Benjamin L. Whorf, 1956
© Per l’edizione italiana Annalisa Solinas, 2006

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ai miei genitori Claudia e Demetrio

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Abstract

L’idea di questa tesi è nata da un interesse personale per la teoria del relativismo linguistico e più in generale, per le riflessioni sul tema della parola, del suo ruolo e della sua influenza sul pensiero e sul ragionamento umano. La presente tesi consiste dunque nella traduzione in italiano del saggio Language, Mind and Reality di Benjamin L. Whorf, padre della teoria del relativismo linguistico, meglio nota come ipotesi di Sapir-Whorf.

Nella prefazione è stato introdotto brevemente il tema, accennando ad alcuni pensatori che se ne sono occupati. Poiché uno dei temi principali del saggio è il condizionamento cui è aconsciamente sottoposto il pensiero da parte degli schemi linguistici, e il concetto di giudizio arbitrario che sta alla base del nostro dare i nomi alle cose, tra gli altri è citato il filosofo tedesco Kant, con i suoi a priori dell’intelletto e l’idea della conoscenza come inevitabilmente mediata, a partire dalla percezione stessa, da schemi mentali, o categorie che possediamo dalla nascita.

Nella seconda parte è stato fatto un breve riassunto dei contenuti del saggio, e una rapida introduzione sull’autore e sul contesto in cui è stata scritta l’opera: si tratta di un saggio di linguistica, scritto per una rivista teosofica, in cui Whorf, prendendo ad esempio le particolarità di alcune lingue non indoeuropee da lui studiate, come il hopi, il giapponese, l’algonchino e il chichewa (la lingua degli zulu africani), dimostra come la visione e l’analisi della realtà che emergono da lingue così lontane dalle nostre, e parlate da culture considerate “primitive”, abbiano in realtà moltissimo da insegnarci, e potrebbero aprirci prospettive nuove e impensate. Il fatto inoltre che il nostro pensiero sia aconsciamente in balia degli schemi linguistici fa cadere ogni pretesa di oggettività o di analisi definitiva della realtà. L’invito di Whorf all’Occidente, «se sopravvivrà all’attuale ondata di barbarie», è quello di deporre ogni arroganza e ad assumere un atteggiamento di continua ricerca e di apertura e dialogo con le altre culture, unici veri presupposti per un progresso dell’umanità.

Nella terza parte infine è stata fatta una breve analisi traduttologica del prototesto, con l’individuazione delle dominanti principali, del lettore modello e della strategia traduttiva adottata: quest’ultima, trattandosi l’originale di un classico della linguistica, è stata fatta con l’idea di fornire una traduzione “di servizio”, che aiutasse il lettore a capire l’autore e la sua personalità, evitando quindi l’omogeneizzazione dello stile o la semplificazione in nome della scorrevolezza. Sono stati inoltre illustrati alcuni dei problemi principali emersi durante la traduzione, in particolare quelli legati alla natura di saggio linguistico dell’opera.

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English abstract

The purpose of this thesis is to investigate the subject of the linguistic relativity theory and, more in general, of the role and influence of language on human thought and reasoning. I chose to do this by translating into Italian the essay Language, Mind and Reality by Benjamin L. Whorf, who is considered the father of the linguistic relativity theory, or Sapir-Whorf hypothesis.

In the first part of the preface I have made a brief introduction on the subject, also citing some authors who have dealt with the subject itself. As one of the main ideas of the essay is the conditioning to which human thinking is unconsciously exposed due to the linguistic patterns of its own language, and the totally arbitrary judgement on which our name-giving is based, I have also cited the German philosopher Kant, with his a priori categories and the idea of knowledge, and even experience itself, as something inevitably determined by mental patterns already naturally present in our mind.

In the second part of the preface I have made a summary of the contents of the essay and an introduction to the author and the circumstances in which the work was written. This linguistics essay was written in the 1940 for a theosophical magazine. Making many different examples of words and patterns of non-Indo-European languages like Hopi, Japanese, Chichewa and so on, and comparing them with English, Whorf shows how the view of the world and the analysis of reality that emerge from the patterns of these languages, no matter how uncultivated their speakers, can be as logical as ours, if not sometimes more scientific. The fact that we all are unconsciously controlled by the unbreakable patterns of our own language is a lesson of humility, and should bring us to put aside any claim of objectivity. Whorf’s exhortation to the Western civilization is, if it should survive “the present welter of barbarism”, to forsake its illusion of having reached a final analysis of reality and take on a new, more open attitude, one of constant search and dialogue with the other cultures, which is the only way that can lead to the true progress of humanity.

In the third and final part I have carried out a brief analysis of the source text and of its main characteristics, on which the choice of the translation techniques has been based, and a description of the target reader. I have also illustrated some of the main problems I had to face during the translation process, particularly those related to the fact that I was dealing with an essay on linguistics.

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Abstrakt auf Deutsch

Das Ziel meiner Arbeit war ursprünglich, das Thema des sprachlichen Relativismus und genereller, der Rolle und des Einflusses der Sprache auf das menschliche Denken. Ich habe also den Aufsatz Language, Mind and Reality von Benjamin L. Whorf, der als Vater der Theorie des sprachlichen Relativismus bzw. der Sapir-Whorf Hypothese gilt, ins Italienische übersetzt.

Im ersten Teil des Vorworts habe ich eine kurze Einführung in das Thema gegeben, und einige Autoren genannt, die sich damit beschäftigt haben. Da eines der Hauptthemen des Aufsatzes die Konditionierung ist, der unseres Denken durch die Strukturen unserer Sprache unterworfen ist, und das völlig willkürliche Urteil, nach dem wir den Dingen Namen zuteilen, habe ich unter den anderen den deutschen Philosophen Kant zitiert, mit seinen a priori Kategorien und seiner Idee dass die Erkenntnis, und die Erfahrung selbst, unausweichlich von Formen, die schon von Natur aus in unserem Verstand liegen, bestimmt sind.

Im zweiten Teil habe ich den Inhalt des Aufsatzes kurz zusammengefasst, und eine kleine Einführung zum Autor gegeben und die Umstände erklärt, unter denen dieses Werk geschrieben und veröffentlicht wurde. Language, Mind and Reality wurde zum ersten mal in den 40er Jahren für eine theosophische Zeitschrift in Madras geschrieben. Durch viele verschiedene Beispiele aus der Grammatik von nicht indoeuropäischen Sprachen wie Hopi, Japanisch, Chichewa usw., und indem er sie mit dem Englischeno vergleicht, zeigt der Autor, dass die Ansicht der Welt und besonders die Analyse der Realität, die sich durch die Strukturen dieser Sprachen ergeben, auch wenn sie von völlig unkultivierten und primitiven Bevölkerungen gesprochen sind, so logisch und wissenschaftlich wie unsere sein können, wenn nicht sogar rationaler. Die Tatsache, dass uns alle nicht bewusst ist, dass unser Denken und unsere Erfahrung eigentlich von unauflösbaren sprachlichen Strukturen bestimmt sind, sollte eine Lektion in Demut für uns sein, und uns dazu bringen, unsere falschen Objektivitätsansprüche aufzugeben. Die Aufforderung Whorfs an die westliche Kultur lautet, sie solle, wenn sie die jetzige „Welle von Barbarei“ überleben will, ihre Illusionen fallen lassen, eine endgültige Analyse der Realität erreicht zu haben, und eine neue, offenere Einstellung des ständigen Suchens und des interkulturellen Dialogs einzunehmen, die die einzige Voraussetzung für den echten Fortschritt der Menschheit sei.

Im dritten Teil schlieβlich habe ich eine kurze Analyse des Ausgangstextes und seiner wichtigsten Merkmale, nach denen ich meine Übersetzungsstrategie gewählt habe, und eine Bestimmung meines Ziellesers vorgenommen. Auβerdem habe ich einige der Hauptprobleme illustriert, auf die ich beim Übersetzen gestoβen bin, und besonders die mit der sprachwissenschaftlichen Natur des Ausgangstextes verbundenen Probleme.

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We must find out more about language!

Benjamin L. Whorf

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Prefazione

«In principio era la Parola, la Parola era con Dio e la Parola era Dio». Chi sa qualcosa di teologia, o semplicemente è andato a catechesi da ragazzino, sa che nell’incipit del suo vangelo, Giovanni si riferisce a Gesù, e non solo alla «parola» intesa come la intendiamo comunemente oggi. Ma c’è stato chi si è interrogato sul significato dell’uso del termine logos (anche: «parola») per indicare il Figlio di Dio. Nell’epistola ai colossesi, San Paolo scrive che «in Lui [Gesù] sono state fatte tutte le cose, visibili e invisibili»; nella lettera agli ebrei, è detto che «Iddio […] ha parlato a noi mediante il suo Figliolo, […] mediante il quale pure ha creato i mondi»; il vangelo di Giovanni afferma che per mezzo della Parola tutte le cose sono state create. La parola assurge dunque a divinità, a principio creatore. Il fatto che nella Genesi Dio crei il mondo con la parola, ponendo le cose in essere semplicemente nominandole («E Dio disse: ‘sia luce!’. E luce fu») ha fatto nascere, (soprattutto nel medioevo, ma il tema ha affascinato molti altri pensatori successivi) l’idea che il «nome» di una cosa esprima la sua «essenza», e l’ipotesi di una lingua originale, precedente alla dispersione di Babele, in cui le parole non erano vuoti segni, ma contenevano l’essenza stessa di ciò che indicavano, e avevano quindi un potere soprannaturale. È il principio alla base delle formule magiche, dello yoga della religione indù, delle teorie cabalistiche. La religione musulmana e quella ebraica vietano di pronunciare il nome di Dio. Il filosofo Eraclito di Efeso parla nei suoi scritti di un logos-principio, un’entità cosmica che è insieme la legge che governa il mondo e l’armonia superiore nella quale si risolvono gli opposti in tensione fra loro (coincidentia oppositorum), responsabili dell’eterno divenire. Il discorso del nome- essenza presuppone però l’esistenza delle “idee” delle cose: Platone descrive un iperuranio in cui hanno sede le idee, cioè le «cose in sé», le essenze che permettono l’esistenza dei singoli enti particolari; Aristotele, con i suoi concetti di forma e sostanza, postula anch’egli un’«essenza» delle cose (ciò che fa sì che una cosa sia ciò che è e non qualcos’altro) esistente ontologicamente, al di là del mondo sensibile particolare. La grande filosofia della Scolastica medievale, fondata sul cattolicesimo, sosteneva l’esistenza degli universali (i concetti generali) ovvero l’esistenza reale dei concetti che rappresentano l’unità del molteplice. Ad essa si oppose per primo William of Ockham, con la teoria del nominalismo: per Ockham solo ciò che è individuale è concreto, quindi esistono concretamente

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solo cose finite e determinate nella loro specificità individuale, le sostanze assolute non esistono, in quanto sono solo convenzioni linguistiche atte a rappresentare la molteplicità delle sostanze individuali. Sulla sua scia si pose l’empirismo inglese, con Hobbes e Locke e i loro concetti di conoscenza basata solo sull’esperienza sensibile (insieme di impressioni) e particolare, di una coscienza umana simile a un «libro bianco», priva di idee innate. Con l’empirismo arriva anche il mito della conoscenza oggettiva: quest’ultima illusione verrà poi smentita da Kant, che con le sue forme pure a priori dimostrerà come la conoscenza umana sia sempre e comunque, a partire dalla percezione stessa, mediata e ordinata da schemi pregressi che possediamo dalla nascita, dunque mai oggettiva. (Il concetto è presente anche nella moderna Gestaltpsychologie, citata fra l’altro da Whorf nel saggio Language, Mind and Reality, di cui questa tesi propone una traduzione). Il nostro conoscere è dunque già, aconsciamente, un giudizio a priori; e le parole, il nostro dare dei nomi alle cose sono l’espressione di questo nostro arbitrario catalogare la realtà.

Ma lascio queste considerazioni, per approfondire le quali occorrerebbe molto più che qualche pagina di introduzione; ho ritenuto necessario accennarle in quanto sono concetti toccati, almeno in parte, nel saggio di Whorf. Ciò che intendevo mettere in risalto, ad ogni modo, è semplicemente questo: che tutti, fin dai tempi più antichi, si sono interrogati sul potere, sul significato, sul ruolo delle parole e del linguaggio sul pensiero e il comportamento umani. E in molti, lungi dal considerare la lingua un mero strumento espressivo, hanno compreso quanto di misterioso, di oscuro, di inafferrabile possa avere. E quanto di essa, al contrario di quello che può sembrare dal momento che pare scaturire dalla nostra volontà o arbitrio, sia svincolato da noi e anzi ci condizioni aconsciamente. (Si pensi, per fare un esempio più attuale, al moderno concetto di politically correct: dobbiamo dire, anziché «disabile» «diversamente abile», perché il primo termine suggerisce una visione dell’handicappato come “mancante” di qualcosa, di una o più “abilità”. Al di là delle considerazioni sull’ipocrisia implicita in tale atteggiamento, esso dimostra come, per incoraggiare un pensiero che consideri gli handicappati non come una parte difettosa della società, si parta in primo luogo con il cambiare la loro denominazione.)

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Uno di questi pensatori fu Benjamin Lee Whorf. Laureatosi in ingegneria chimica al Massachusetts Institute of Technology nel 1918, Whorf s’interessò alla linguistica soltanto nel 1924, allorché rivolse l’attenzione allo studio dell’ebraico, affascinato dalle letture di Fabre d’Olivet e dell’ipotesi secondo cui ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico contenesse un significato intrinseco, grazie al quale si poteva risalire ai significati nascosti e originari della Genesi. Da allora lo studioso cominciò un percorso di ricerca nel tentativo di strappare dal mero fatto linguistico il suo significato ultimo. Iniziò a interessarsi alle antiche civiltà messicane e si concentrò in particolare sulla lingua azteca, redigendone una grammatica; lo stesso fece, più tardi, con i geroglifici maya. Si iscrisse a un corso di linguistica indiano-americana tenuto da Sapir a Yale, e approfondì sempre più la conoscenza delle lingue appartenenti a questo ceppo, tra le quali c’era il hopi; approfondì inoltre le grammatiche della lingua latina, greca, ebraica, kota, shawnee, russa, taos, cinese e giapponese. Da fine grammatico e linguista qual era, Whorf seppe cogliere le particolarità di queste lingue, e le sottigliezze logiche di analisi della realtà che vi stavano dietro. Questi studi lo portano alla convinzione che per comprendere e apprezzare appieno una cultura diversa dalla propria occorre conoscere più a fondo la sua lingua, e in particolare l’analisi della realtà e la logica che vi stanno alla base, operazione fondamentale per giungere a un vero senso di fratellanza umana. «Non ci si rende sufficientemente conto che l’ideale di cooperazione e di fratellanza universale viene meno, se non include la capacità di adattarsi intellettualmente e spiritualmente ai nostri fratelli di altri paesi. L’Occidente è pervenuto a una certa comprensione emotiva dell’Oriente attraverso un tipo di approccio estetico e letterario, ma ciò non ha colmato l’abisso intellettuale; non siamo ancora arrivati a capire i tipi di pensiero logico riflessi nelle forme di pensiero scientifico o nell’analisi della natura autenticamente orientali. Ciò richiede ricerche linguistiche sulla logica delle lingue indigene, conferendo ad esse quella validità scientifica che attribuiamo alle nostre abitudini di pensiero». Così scriveva Whorf in un saggio intitolato A Brotherhood of Thought; in questo brano emerge una delle idee fondamentali del suo pensiero e lo scopo profondamente umanistico delle sue ricerche e pubblicazioni; scopo che emerge ed è anzi esplicitato nel saggio Language, Mind and Reality. Pubblicato per la prima volta su una rivista teosofica di Madras, la Technology Review, nel 1940, Language, Mind and Reality sintetizza la posizione di Whorf sull’argomento del linguaggio; nell’articolo è inoltre esposta la sua teoria più

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ardita, per la quale è famoso: la teoria del relativismo linguistico, meglio nota come ipotesi di Sapir- Whorf. Partendo da una considerazione generale sulla cultura occidentale, che Whorf afferma trovarsi in una situazione di stallo, egli passa poi ad analizzare le possibili cause di questa stagnazione. Così come i diversi linguaggi settoriali presuppongono resistenze sistematiche a punti di vista divergenti dai propri, e considerano assoluta la propria visione della realtà, diventando perciò incomprensibili gli uni agli altri («mutually unintelligible»), così l’Occidente si è cristallizzato nella propria cultura e lingua, considerando assoluti i suoi valori e i risultati scientifici e filosofici da esse scaturiti, anzi, addirittura coincidenti con l’essenza stessa della ragione. Ciò gli impedisce il superamento dei propri limiti e qualunque progresso, così come la comprensione delle altre culture e dunque la possibilità di imparare da esse. Tale comprensione, afferma Whorf, può avvenire solo grazie a un’analisi approfondita delle loro lingue, indispensabile per cogliere la visione del mondo che vi sta alla base («Linguistic knowledge entails understanding many different beautiful systems of logical analysis».). La conoscenza di analisi della realtà diverse dalla nostra potrebbe aprirci prospettive nuove e impensate. Whorf porta numerosi esempi, spaziando dal giapponese al hopi, dal chichewa (la lingua degli zulu africani) all’algonchino, e facendo raffronti illuminanti con la lingua inglese. Evidenziando la forte correlazione tra linguaggio e pensiero, Whorf ipotizza che anche le teorie scientifiche e filosofiche ne siano influenzate: non è un caso, a suo parere, che la teoria della relatività sia nata proprio in Europa: le lingue indoeuropee contengono moltissime espressioni nelle quali ci si riferisce al tempo usando termini o strutture che si riferiscono allo spazio. Il fatto che i parlanti di chichewa distinguano, a differenza nostra, fra un evento passato con conseguenze sul presente e uno che invece non ne ha più, li renderebbe, se diventassero filosofi o matematici, i nostri migliori pensatori sul tema del tempo. O ancora la distinzione fatta dagli indiani coeur d’Alene fra tre tipi diversi di forme verbali di causa efficiente potrebbe dare origine, se applicata all’osservazione scientifica, a una teoria di causalità triadica, e ad altri validi strumenti intellettuali per la ricerca scientifica. Il fatto che i parlanti chichewa operino automaticamente questa distinzione li rende degli osservatori molto più acuti di determinati aspetti del mondo; anche una volta che ci siano noti i loro schemi logici, il loro contributo ci è indispensabile, perché noi stessi non operiamo tali distinzioni automaticamente.

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L’aspetto di condizionamento aconscio della lingua sul pensiero umano è ciò che porta Whorf a formulare la sua teoria del relativismo linguistico, secondo la quale gli schemi preordinati della lingua incanalano il nostro pensare al punto che il nostro ragionare e conoscere non è mai libero e oggettivo, ma condizionato ineludibilmente dagli schemi linguistici. Ciascuna lingua segmenta il mondo in diverse parti, e a ciascuna dà un nome; ma le segmentazioni possibili sono infinite, e diverse in ogni lingua; ciascun parlante è dunque, del tutto inconsapevolmente, irretito negli schemi della sua lingua madre, e mentre crede di pensare qualcosa liberamente e poi esprimerlo in parole, meri strumenti di comunicazione, il suo pensiero è in realtà indirizzato e plasmato dalle parole e dagli schemi linguistici stessi.

Quelle di Whorf erano teorie coraggiose, rivoluzionarie, scioccanti, soprattutto per i suoi tempi: nel 1952, il Dipartimento di Stato proibì la circolazione al di fuori del Foreign Service Institute (dove era utilizzata come lettura nei corsi di linguistica) della sua prima raccolta di saggi, intitolata Four Articles on Metalinguistics. Il Dipartimento di Stato ne riconosceva l’importanza e l’utilità, ma nello stesso tempo considerava pericolose le idee espresse dall’autore, che cozzavano contro molti pregiudizi correnti degli Stati Uniti di allora, che erano quelli del maccartismo. Era certamente sovversivo affermare che popoli “primitivi” potessero aver una lingua più logica di quella della “razza eletta” dei W.A.S.P. (White Anglo-Saxon Protestants). La teoria del relativismo linguistico, poi, dopo il periodo di entusiasmo con cui venne accolta, è stata oggetto di aspre critiche, polemiche e smentite; a sua difesa, si è soltanto detto che forse non intendeva dire ciò che ha detto, che era stato malinterpretato e che la sua posizione in realtà non era così estrema.

Il desiderio di tradurre e far conoscere questo saggio non è nato dalla convinzione che la teoria di Whorf fosse esatta, né intendo stabilire qui se lo sia o meno: non lo credo importante, né avrei gli strumenti per farlo. Inoltre, dai tempi di Whorf, molti altri pensatori e linguisti si sono occupati dell’argomento, e in effetti a un lettore contemporaneo certe sue posizioni possono sembrare superate, ingenue, e in questo saggio in particolare, anche un po’ mistiche.

Ma il valore e, credo, l’attualità del suo contributo, stanno soprattutto nell’esortazione a riflettere sulla realtà con un atteggiamento libero da pregiudizi, e a porsi nei suoi confronti in modo non dogmatico, a non considerare mai nulla, nessuna teoria, religiosa, culturale, scientifica, come certa,

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assoluta, definitiva; mai nessuna cultura come superiore o più logica di un’altra. Renderci conto di quanto poco sappiamo della lingua che pure utilizziamo tutti i giorni, e quanto di essa ci sfugga e condizioni (del tutto o in parte, è lo stesso) il nostro ragionare è una lezione di umiltà. Di fronte a un Occidente fiacco e «spiritually enervated» , come lo definisce William Deresiewicz in un articolo apparso nel 2005 sul New York Times, l’invito di Whorf ad aprirsi al dialogo e alla comprensione delle altre culture e a deporre l’arroganza intellettuale per un atteggiamento di ricerca continua, unico presupposto per il vero progresso dell’umanità, è più attuale che mai.

Essendo Language, Mind and Reality un classico della letteratura della linguistica, la traduzione è stata fatta cercando di conciliare il più possibile il rispetto per lo stile e la personalità dell’autore, individuata come una delle dominanti del prototesto, e la scorrevolezza necessaria ad un saggio di natura argomentativo-persuasiva, individuata come seconda dominante dell’opera. Una delle difficoltà maggiori è stata dunque quella di evitare di “violentare” l’autore omogeneizzando lo stile, o cadendo nella tentazione di esplicitare troppo un testo che, anche solo per gli argomenti trattati, è in certi punti piuttosto arduo e oscuro. Quest’ultimo aspetto è però bilanciato da momenti di umorismo, aneddoti e interventi ironici di puro intrattenimento, tipici della saggistica anglosassone, che alleggeriscono la lettura: ho cercato di mantenere anche questo aspetto, evitando però dove possibile le appropriazioni e le standardizzazioni, per non appiattire il testo al livello di un qualunque saggio di linguistica anonimo. Un’altra difficoltà è stata quella connessa all’argomento linguistico: tradurre «la lingua che parla della lingua» ha comportato, ad esempio, dover scegliere come tradurre i numerosi esempi, tratti ovviamente dalla lingua inglese. La strategia adottata è stata di mantenere gli esempi originali, per due motivi principali. Il primo e più ovvio è l’impossibilità, in molti casi, di mantenere il senso dell’esempio traducendo le parole con il quale esso è fatto: ho dunque mantenuto quelle originali, affiancate da una traduzione tra parentesi quadre, non sempre però, per motivi di spazio e di brevità, del tutto esaurienti: d’altronde, un esempio che vuole dimostrare proprio la polisemia infinita che una parola può assumere è ben difficile da tradurre con una sola parola! Il secondo motivo è legato al lettore modello individuato, al quale ho attribuito un certo interesse filologico oltre che una certa familiarità con la lingua inglese, in tempi di globalizzazione ormai quasi scontata.

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Poiché l’autore fa moltissimi riferimenti, spaziando dalla filosofia alla fisica, dalla letteratura alla religione, dalla psicologia alla mistica indiana, una certa attenzione ho messo anche nell’uso del linguaggio e della terminologia corretti, documentandomi su testi specifici. In alcuni casi ho aggiunto delle note, laddove il riferimento, scontato per un lettore di cultura anglosassone vissuto all’epoca dell’autore, sarebbe stato invece difficile da cogliere per un lettore moderno. Le considerazioni precedenti sul lettore modello non devono far pensare che abbia tradotto esclusivamente pensando a un lettore particolarmente cólto e già edotto sulle materie trattate: dove è stato possibile senza snaturare il testo, ho cercato di limitare parole e strutture troppo ardue, in modo da rendere il saggio accessibile, almeno in parte, a un lettore con pochi strumenti ma interessato all’argomento. Quest’ultima scelta è stata fatta considerando una terza dominante dell’opera, e cioè la divulgazione di un messaggio umanitario, aspetto che oltretutto rende il saggio particolarmente interessante e attuale.

Ringraziamenti
Per la buona riuscita di questo lavoro ringrazio di cuore i miei genitori, Claudia e Demetrio, per l’affetto con cui mi hanno sostenuto e per l’aiuto prezioso nella revisione, e il mio relatore, prof. Bruno Osimo, per la pazienza, la sollecitudine e la competenza con cui mi ha seguito.

Il testo originale dal quale è stata fatta la traduzione è tratto da:
WHORF B. L. 1956 Language, Thought, and Reality. Selected Writings, a cura di John B. Carroll, prefazione di Stuart Chase, Cambridge (Massachusetts), Massachusetts Institute of Technology, 1956.

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Benjamin Whorf

LANGUAGE, MIND, AND REALITY

It needs but half an eye to see in these latter days that science, the Grand Revelator of modern Western culture, has reached, without having intended to, a frontier. Either it must bury its dead, close its ranks, and go forward into a landscape of increasing strangeness, replete with things shocking to a culture-trammeled understanding, or it must become, in Claude Houghton’s expressive phrase, the plagiarist of its own past. The frontier was foreseen in principle very long ago, and given a name that has descended to our day clouded with myth. That name is Babel. For science’s long and heroic effort to be strictly factual has at last brought it into entanglement with the unsuspected facts of the linguistic order. These facts the older classical science had never admitted, confronted, or understood as facts. Instead they had entered its house by the back door and had been taken for the substance of Reason itself.

What we call “scientific thought” is a specialization of the western Indo-European type of language, which has developed not only a set of different dialectics, but actually a set of different dialects. THESE DIALECTS ARE NOW BECOMING MUTUALLY UNINTELLIGIBLE. The term ‘space,’ for instance, does not and CANNOT mean the same thing to a psychologist as to a physicist. Even if psychologists should firmly resolve, come hell or high water, to use “space” only with the physicist’s meaning, they could not do so, any more than Englishmen could use in English the word ‘sentiment’ in the meanings which the similarly spelled but functionally different French utterance le sentiment has in its native French.

Now this does not simply breed confusions of mere detail that an expert translator could perhaps resolve. It does something much more perplexing. Every language and every well-knit technical sublanguage incorporates certain points of view and certain patterned resistances to widely divergent points of view. This is especially so if language is not surveyed as a planetary phenomenon, but is as usual taken for granted, and the local, parochial species of it used by the individual thinker is taken to be its full sum. These resistances not only isolate artificially the particular sciences from each other; they also restrain the scientific spirit

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Benjamin Whorf LINGUA, MENTE E REALTÀ

Anche a uno sguardo distratto appare oggi evidente che in questi ultimi tempi la scienza, il Grande Rivelatore della cultura occidentale moderna, è giunta, senza volerlo, a una frontiera. O deve seppellire i suoi morti, serrare le fila e procedere in un paesaggio di crescente stranezza, traboccante di cose sempre più straordinarie e scioccanti per un intelletto limitato dai condizionamenti culturali, o altrimenti diventare, per usare l’efficace espressione di Claude Houghton, «plagiari del proprio passato». La frontiera era già stata prevista, in linea teorica, molto tempo fa, e gli era stato dato un nome che è giunto fino a noi avvolto nel mito. Quel nome è Babele. Perché i lunghi, eroici sforzi fatti dalla scienza per conservarsi rigorosamente fattuale l’hanno portata alla fine a ingarbugliarsi con i fatti insospettati di ordine linguistico. Fatti con cui la vecchia scienza classica non ha mai voluto confrontarsi e che non ha mai né riconosciuto, né considerato come tali. Invece erano entrati dalla porta di servizio ed erano stati presi per la sostanza stessa della Ragione.

Ciò che noi chiamiamo «pensiero scientifico» è in realtà una specializzazione del linguaggio indoeuropeo occidentale, che ha sviluppato non solo una serie di dialettiche diverse, ma proprio una serie di dialetti diversi. QUESTI DIALETTI STANNO ORA DIVENTANDO INCOMPRENSIBILI GLI UNI AGLI ALTRI. Il termine space [spazio], ad esempio, non ha e NON PUÒ avere lo stesso significato per uno psicologo e per un fisico. Se anche tutti gli psicologi si accordassero per usare, cascasse il mondo, la parola space solo nel significato usato dai fisici, non ci riuscirebbero, tanto quanto non ci riuscirebbero degli inglesi che volessero usare la parola sentiment con lo stesso significato del termine simile nello spelling ma funzionalmente diverso le sentiment nell’originale lingua francese.

Orbene, questo non genera semplicemente confusioni su dettagli che un traduttore esperto potrebbe forse risolvere: provoca qualcosa che lascia molto più perplessi. Ogni lingua o linguaggio settoriale che sia ben sviluppato presuppone al suo interno punti di vista e una resistenza sistematica a punti di vista che divergono profondamente dai propri. Questo è vero in particolare quando la lingua non viene considerata come un fenomeno globale ma viene, come sempre, data per scontata, e una sua forma locale, provinciale, usata da un singolo pensatore, considerata come assoluta. Queste resistenze non solo creano una separazione artificiale fra le varie scienze particolari: esse inibiscono lo spirito

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as a whole from taking the next great step in development – a step which entails viewpoints unprecedented in science and a complete severance from traditions. For certain linguistic patterns rigidified in the dialectics of the sciences – often also embedded in the matrix of European culture from which those sciences have sprung, and long worshipped as pure Reason per se – have been worked to death. Even science senses that they are somehow out of focus for observing what may be very significant aspects of reality, upon the due observation of which all further progress in understanding the universe may hinge.

Thus one of the important coming steps for Western knowledge is a re-examination of the linguistic backgrounds of its thinking, and for that matter of all thinking. My purpose in developing this subject before a Theosophical audience is not to confirm or affirm any Theosophical doctrines. It is rather that, of all groups of people with whom I have come in contact, Theosophical people seem the most capable of becoming excited about ideas – new ideas. And my task is to explain an idea to all those who, if Western culture survives the present welter of barbarism, may be pushed by events to leadership in reorganizing the whole human future.

This idea is one too drastic to be penned up in a catch phrase. I would rather leave it unnamed. It is the view that a noumenal world – a world of hyperspace, of higher dimensions – awaits discovery by all the sciences, which it will unite and unify, awaits discovery under its first aspect of a realm of PATTERNED RELATIONS, inconceivably manifold and yet bearing a recognizable affinity to the rich and systematic organization of LANGUAGE, including au fond mathematics and music, which are ultimately of the same kindred as language. The idea is older than Plato, and at the same time as new as our most revolutionary thinkers. It is implied in Whitehead’s world of prehensive aspects, and in relativity physics with its four-dimensional continuum and its Riemann-Christoffel tensor that sums up the PROPERTIES OF THE WORLD at any point-moment; while one of the most thought-provoking of all modern presentations, and I think the most original, is the Tertium Organum of

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scientifico nel suo insieme dal compiere il grande passo necessario alla sua evoluzione, passo che implica la presa in considerazione di punti di vista del tutto nuovi per la nostra scienza e un taglio netto con le tradizioni. Perché determinati modelli linguistici irrigiditi nei dibattiti scientifici, spesso anche radicati nella matrice della cultura europea da cui quelle scienze sono nate, e a lungo venerati come l’essenza stessa della Ragione, sono stati logorati ed esauriti dall’uso. La scienza stessa ha la sensazione di avere come una lente sfocata attraverso cui osserva quelli che potrebbero essere aspetti molto importanti della realtà, e da un’adeguata osservazione dei quali potrebbe dipendere tutto il futuro avanzamento nella comprensione dell’universo.

Quindi uno dei prossimi passi più importanti per la scienza occidentale è un riesame del background linguistico del suo pensiero, e, del resto, di tutto il suo pensiero. Il fatto che io esponga questo argomento a un pubblico teosofico non significa che intenda né confermare né affermare nessuna delle dottrine teosofiche. Il motivo è piuttosto il fatto che di tutte le categorie di persone con cui sono entrato in contatto, i seguaci della Teosofia appaiono i più predisposti a entusiasmarsi per le idee, per le nuove idee. E il mio compito è quello di far conoscere una certa idea a tutti coloro che, se la cultura occidentale sopravvivrà all’attuale ondata di barbarie, potrebbero essere spinti dagli eventi ad assumere la guida nel riorganizzare l’intero futuro dell’umanità.

Quest’ idea è troppo drastica per essere racchiusa in uno slogan: preferirei lasciarla senza nome. Essa è la visione di un mondo noumenico, un mondo dell’iperspazio, di una dimensione più alta che attende di essere scoperta da tutte le scienze, che da essa verranno riunite e unificate, che attende di essere scoperta dietro una prima apparenza esteriore di regno di RELAZIONI SCHEMATIZZATE incredibilmente vario e recante tuttavia un’evidente affinità con la ricca e sistematica organizzazione del linguaggio, inclusa in fondo, la matematica e la musica, che appartengono, in ultima analisi, alla stessa specie del linguaggio. Il concetto è più antico di Platone, e allo stesso tempo più innovativo dei nostri pensatori più rivoluzionari. Esso è implicito nel mondo degli aspetti prensivi di Whitehead e nella fisica relativistica con il suo continuum quadridimensionale e il suo tensore di Riemann- Christoffel che riassume tutte LE PROPRIETÀ DEL MONDO in qualunque punto-istante; mentre una delle presentazioni moderne più stimolanti, e anche, credo, più originali, è il Tertium Organum di

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Ouspensky. All that I have to say on the subject that may be new is of the PREMONITION IN LANGUAGE of the unknown, vaster world – that world of which the physical is but a surface or skin, and yet which we ARE IN, and BELONG TO. For the approach to reality through mathematics, which modern knowledge is beginning to make, is merely the approach through one special case of this relation to language.

This view implies that what I have called patterns are basic in a really cosmic sense, and that patterns form wholes, akin to the Gestalten of psychology, which are embraced in larger wholes in continual progression. Thus the cosmic picture has a serial or hierarchical character, that of a progression of planes or levels. Lacking recognition of such serial order, different sciences chop segments, as it were, out of the world, segments which perhaps cut across the direction of the natural levels, or stop short when, upon reaching a major change of level, the phenomena become of quite different type, or pass out of the ken of the older observational methods.

But in the science of linguistics, the facts of the linguistic domain compel recognition of serial planes, each explicitly given by an order of patterning observed. It is as if, looking at a wall covered with fine tracery of lacelike design, we found that this tracery served as the ground for a bolder pattern, yet still delicate, of tiny flowers, and that upon becoming aware of this floral expanse we saw that multitudes of gaps in it made another pattern like scrollwork, and that groups of scrolls made letters, the letters if followed in a proper sequence made words, the words were aligned in columns which listed and classified entities, and so on in continual cross-patterning until we found this wall to be – a great book of wisdom!

First, the plane “below” the strictly linguistic phenomena is a physical acoustic one, phenomena wrought of sound waves; then comes a level of patterning in rippling muscles and speech organs, the physiological-phonetic plane; then the phonemic plane, patterning that makes a systematic set of consonants, vowels, accents, tones, etc. for each language;

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Uspenskij. Tutto ciò che ho da aggiungere sull’argomento che potrebbe essere nuovo è la PREMONIZIONE NEL LINGUAGGIO, di un mondo sconosciuto e assai più vasto, quel mondo di cui l’aspetto fisico non è che una facciata, un sottile strato esterno, e nel quale tuttavia CI TROVIAMO e al quale APPARTENIAMO. L’approccio alla realtà attraverso la matematica, che la scienza moderna sta iniziando ad adottare, non è che l’approccio attraverso un singolo caso specifico di questa relazione con la lingua.

Questa visione implica che quelli che ho definito «schemi» sono elementi fondanti in senso veramente cosmico, e che formano degli interi, assimilabili alle Gestalt in psicologia, che vengono a loro volta compresi in interi più grandi, in una progressione continua. L’immagine cosmica ha quindi un carattere seriale o gerarchico, quello di una successione progressiva di piani o livelli. Non essendo coscienti di questo ordinamento seriale, le varie scienze tagliano come dei segmenti nel mondo, segmenti che magari attraversano i vari livelli in senso trasversale, o si interrompono bruscamente quando incontrano un cambiamento di livello importante e i fenomeni diventano di un genere molto diverso, o esulano dalla comprensione dei vecchi metodi di osservazione.

Ma nella scienza linguistica, i fatti della sfera linguistica impongono il riconoscimento dei livelli gerarchici, ciascuno dato esplicitamente da un ordine di strutturazione che si è osservato. È come se guardando una parete coperta da un raffinato disegno simile a un merletto ci accorgessimo che questo fa da sfondo a un motivo più marcato, e tuttavia delicato, di minuscoli fiorellini, e avvedendoci di questa distesa floreale vedessimo ancora che i vari interstizi formano un altro motivo a volute, e che gruppi di volute formano lettere che se unite nella giusta sequenza danno parole, e le parole sono allineate in colonne che elencano e classificano le varie entità, e via di seguito in un continuo incrociarsi di motivi, finché ci rendiamo conto che quella parete è… un grande libro di saggezza!

Per prima cosa, il piano “al di sotto” dei fenomeni strettamente linguistici è un fenomeno di tipo fisico, acustico, costituito da onde sonore; poi segue un piano di strutturazione di muscoli che si contraggono e organi vocali che vibrano, quello fisiologico-fonetico; poi il piano fonematico, una struttura che crea un insieme sistematico di consonanti, vocali, accenti, toni ecc. per ciascuna lingua;

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then the morphophonemic plane in which the “phonemes” of the previous level appear combined into “morphemes” (words and subwords like suffixes, etc.); then the plane of morphology; then that of the intricate, largely unconscious patterning that goes by the meaningless name of syntax; then on to further planes still, the full import of which may some day strike and stagger us.

Speech is the best show man puts on. It is his own “act” on the stage of evolution, in which he comes before the cosmic backdrop and really “does his stuff.” But we suspect the watching Gods perceive that the order in which his amazing set of tricks builds up to a great climax has been stolen – from the Universe!

The idea, entirely unfamiliar to the modern world, that nature and language are inwardly akin, was for ages well known to various high cultures whose historical continuity on the earth has been enormously longer than that of Western European culture. In India, one aspect of it has been the idea of the MANTRAM and of a MANTRIC ART. On the simplest cultural level, a mantram is merely an incantation of primitive magic, such as the crudest cultures have. In the high culture it may have a different, a very intellectual meaning, dealing with the inner affinity of language and the cosmic order. At a still higher level, it becomes “Mantra Yoga.” Therein the mantram becomes a manifold of conscious patterns, contrived to assist the consciousness into the noumenal pattern world – whereupon it is “in the driver’s seat.” It can then SET the human organism to transmit, control, and amplify a thousandfold forces which that organism normally transmits only at unobservably low intensities.

Somewhat analogously, the mathematical formula that enables a physicist to adjust some coils of wire, tinfoil plates, diaphragms, and other quite inert and innocent gadgets into a configuration in which they can project music to a far country puts the physicist’s consciousness on to a level strange to the untrained man, and makes feasible an adjustment of matter to a very strategic configuration, one which makes possible an unusual manifestation of force. Other formulas make possible the strategic arrangement of magnets and wires in the powerhouse so that, when the magnets (or rather the field of subtle forces, in and around the magnets) are set in motion, force is manifested in the way we call an electric current. We do not think of the designing of a radio station or a power plant as a linguistic process, but it is one nonetheless. The necessary mathematics

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poi il piano morfo-fonematico, in cui i fonemi del livello precedente appaiono combinati in morfemi (parole e particelle come suffissi ecc.); poi il piano morfologico; infine il piano di quella strutturazione complessa e in gran parte inconscia che va sotto il nome privo di significato di «sintassi»; e poi ulteriori livelli, la cui piena portata potrebbe un giorno colpirci e gettarci nello sconcerto.

Il parlare è lo spettacolo migliore che l’uomo sappia inscenare. È il suo “atto” personale sulla scena dell’evoluzione, in cui emerge dallo sfondo cosmico, e “fa vedere quello che sa fare”. Ma noi abbiamo il sospetto che gli dèi che ci osservano sappiano che l’ordine in cui il suo incredibile repertorio di giochetti arriva a raggiungere un tale apice è stato rubato nientemeno che all’Universo!

L’idea, del tutto estranea al mondo moderno, che natura e lingua siano intimamente affini, è stata per secoli nota a diverse grandi culture, la cui continuità storica sulla terra è stata enormemente superiore a quella della cultura europea occidentale. In India, un aspetto di quest’idea è stato il concetto di MANTRA e di ARTE MANTRICA. A un livello culturale più semplice, il MANTRA è un semplice incantesimo di magia primitiva, tipico delle culture più rozze. A un livello più alto però, può assumere un significato diverso, altamente intellettuale, riguardante l’intima affinità del linguaggio con l’ordine cosmico. A un livello più alto ancora, diventa “MANTRA YOGA”. Il mantra diventa quindi una serie molteplice di formule consce, studiate affinché assistano la coscienza nel passaggio al mondo noumenico degli schemi, dove assume un ruolo guida. Esso può METTERE IN GRADO l’organismo umano di trasmettere, controllare e amplificare migliaia di forze che normalmente vengono emanate a intensità impercettibili.

In maniera più o meno analoga, la formula matematica che permette a un fisico di combinare del filo, dei piatti di stagno, dei diaframmi e altri simili inerti e innocui dispositivi in una struttura che trasmette musica a un punto lontano, pone la sua coscienza su di un livello estraneo a chi non vi è allenato, e rende possibile configurare la materia in un modo molto strategico che permette una inusuale manifestazione di energia. Altre formule permettono di configurare strategicamente fili e magneti in una centrale elettrica in modo che quando i magneti (o piuttosto quel campo di impercettibili forze all’interno e al di fuori dei magneti) vengono messi in movimento, si manifesti energia in una forma che noi chiamiamo corrente elettrica. Nessuno pensa alla progettazione di una stazione radio o di una centrale elettrica come a un processo linguistico: tuttavia lo è. La matematica

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is a linguistic apparatus, and, without its correct specification of essential patterning, the assembled gadgets would be out of proportion and adjustment, and would remain inert. But the mathematics used in such a case is a SPECIALIZED formula-language, contrived for making available a specialized type of force manifestation through metallic bodies only, namely, ELECTRICITY as we today define what we call by that name. The mantric formula-language is specialized in a different way, in order to make available a different type of force manifestation, by repatterning states in the nervous system and glands – or again rather in the subtle “electronic” or “etheric” forces in and around those physical bodies. Those parts of the organism, until such strategic patterning has been effected, are merely “innocent gadgets,” as incapable of dynamic power as loose magnets and loose wires, but IN THE PROPER PATTERN they are something else again – not to be understood from the properties of the unpatterned parts, and able to amplify and activate latent forces.

In this way I would link the subtle Eastern ideas of the mantric and yogic use of language with the configurative or pattern aspect which is so basic in language. But this brings me to the most important part of my discussion. We must find out more about language! Already we know enough about it to know it is not what the great majority of men, lay or scientific, think it is. The fact that we talk almost effortlessly, unaware of the exceedingly complex mechanism we are using, creates an illusion. We think we know how it is done, that there is no mystery; we have all the answers. Alas, what wrong answers! It is like the way a man’s uncorrected sense impressions give him a picture of the universe that is simple, sensible, and satisfying, but very wide of the truth.

Consider how the world appears to any man, however wise and experienced in human life, who has never heard one word of what science has discovered about the Cosmos. To him the earth is flat; the sun and moon are shining objects of small size that pop up daily above an eastern rim, move through the upper air, and sink below a western edge; obviously they spend the night somewhere underground. The sky is an inverted bowl made of some blue material. The stars, tiny and rather near objects, seem as if they might be alive, for they “come out” from the sky at evening like rabbits or rattlesnakes from their burrows, and slip back again at dawn.

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necessaria è un apparato linguistico, e senza le sue esatte indicazioni degli schemi essenziali, l’assemblaggio dei singoli dispositivi mancherebbe di proporzione e di adeguatezza, rimanendo quindi inerte. Ma la matematica utilizzata in tali casi è un linguaggio formulistico SPECIALIZZATO, mirato a rendere disponibile uno specifico tipo di manifestazione di energia solo attraverso corpi metallici, o meglio ELETTRICITÀ, come viene oggi chiamata. Il linguaggio formulistico del mantra è specializzato in una direzione diversa per fornire un altro tipo di manifestazione di energia, riorganizzando le disposizioni nel sistema nervoso e nelle ghiandole, o piuttosto, ancora, le impercettibili forze “elettriche” o “eteriche” all’interno e al di fuori di questi corpi fisici. Prima di questa riorganizzazione strategica, questi organi sono “innocui dispositivi”, privi di energia dinamica quanto magneti e fili isolati, ma con la DISPOSIZIONE ADEGUATA diventano qualcosa d’altro, che non nasce dalle proprietà delle singole parti, e che è in grado di amplificare e attualizzare energie latenti.

È in questo senso che vorrei collegare i sottili concetti orientali dell’uso mantrico e yogico del linguaggio con l’aspetto configurativo e formulistico che nella lingua è così fondamentale. Ma questo ci porta alla parte più importante della mia argomentazione. Dobbiamo scoprire di più sulla lingua! Sappiamo già quel che basta a stabilire che essa non è ciò che comunemente, uomini di scienza o profani, pensiamo. Il fatto che parliamo quasi senza sforzo, inconsapevoli del meccanismo incredibilmente complesso che stiamo utilizzando, crea in noi un’illusione. Pensiamo di sapere come ciò avviene, che non ci sia alcun mistero, che abbiamo già tutte le risposte. Ahimè, quanto sbagliate queste risposte! È come l’idea che abbiamo dell’universo: le nostre percezioni sensoriali imperfette ce ne forniscono un’immagine semplice, coerente e soddisfacente, ma ben lontana dalla verità.

Consideriamo il modo in cui la realtà apparirebbe a un qualunque essere umano, per quanto saggio ed esperto della vita, che ignorasse tutto ciò che la scienza ha scoperto sul Cosmo. Per lui, la terra è piatta; il sole e la luna sono piccoli oggetti luminosi che spuntano ogni giorno da dietro un bordo a est, si spostano in alto nell’aria, e calano dietro un bordo a ovest; evidentemente, trascorrono la notte da qualche parte sottoterra. Il cielo è una scodella rovesciata fatta di un qualche materiale azzurrino. Le stelle, degli oggetti minuscoli e abbastanza vicini, sembrano quasi vive, perché “vengono fuori” dal cielo la sera, come conigli o serpenti a sonagli dalle tane, e poi si dileguano all’alba.

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“Solar system” has no meaning to him, and the concept of a “law of gravitation” is quite unintelligible – nay, even nonsensical. For him bodies do not fall because of a law of gravitation, but rather “because there is nothing to hold them up” – i.e., because he cannot imagine their doing anything else. He cannot conceive space without an “up” and “down” or even without an “east” and “west” in it. For him the blood does not circulate; nor does the heart pump blood; he thinks it is a place where love, kindness, and thoughts are kept. Cooling is not a removal of heat but an addition of “cold”; leaves are green not from the chemical substance chlorophyll in them, but from the “greenness” in them. It will be impossible to reason him out of these beliefs. He will assert them as plain, hard-headed common sense; which means that they satisfy him because they are completely adequate as a SYSTEM OF COMMUNICATION between him and his fellow men. That is, they are adequate LINGUISTICALLY to his social needs, and will remain so until an additional group of needs is felt and is worked out in language.

But as this man is in conception of the physical universe, of whose scope and order he has not the faintest inkling, so all of us, from rude savage to learned scholar, are in conception of language. Only the science of linguistics has begun to penetrate a little into this realm, its findings still largely unknown to the other disciplines. Natural man, whether simpleton or scientist, knows no more of the linguistic forces that bear upon him than the savage knows of gravitational forces. He supposes that talking is an activity in which he is free and untrammeled. He finds it a simple, transparent activity, for which he has the necessary explanations. But these explanations turn out to be nothing but statements of the NEEDS THAT IMPEL HIM TO COMMUNICATE. They are not germane to the process by which he communicates. Thus he will say that he thinks something, and supplies words for the thoughts “as they come.” But his explanation of why he should have such and such thoughts before he came to utter them again turns out to be merely the story of his social needs at that moment. It is a dusty answer that throws no light. But then he supposes that there need be no light thrown on this talking process, since he can manipulate it anyhow quite well for his social needs. Thus he implies, wrongly, that thinking is an OBVIOUS, straightforward activity, the same for all rational beings, of which language is the straightforward expression.

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La parola «sistema solare» non ha per lui alcun senso, e l’espressione «legge gravitazionale» è per lui incomprensibile, anzi, addirittura priva di senso. Per lui, i corpi non cadono a causa di una legge di gravità, ma perché «non c’è niente che li tenga su», cioè non riesce a immaginare che possano fare qualcosa di diverso. Non riesce a concepire lo spazio senza un «alto» e un «basso», o addirittura senza un «est» e un «ovest». Per lui, il sangue non circola; e il cuore non ha la funzione di pompare il sangue, ma è la sede dei pensieri, della bontà e dell’amore. Il raffreddamento non è sottrazione di calore, ma «aggiunta di freddo»; le foglie sono verdi non a causa di una sostanza chimica detta clorofilla ma per la loro caratteristica di “verdità”. Dissuaderlo con ragionamenti da queste convinzioni è impensabile. Egli le sosterrà come semplice buon senso pratico; il che significa che esse sono del tutto adeguate come SISTEMA DI COMUNICAZIONE tra lui e i suoi consimili. In altre parole, esse sono LINGUISTICAMENTE ADEGUATE alle sue esigenze sociali, e tali rimarranno finché non sopraggiungeranno nuove esigenze, che saranno poi sviluppate attraverso la lingua.

Ma così come quest’uomo è in balìa dell’universo fisico, del cui scopo e ordine non ha la più remota idea, così tutti noi, dal rozzo selvaggio al più colto studioso, siamo in balia della lingua. Soltanto la scienza linguistica ha incominciato a inoltrarsi un poco in questo regno, e le sue scoperte sono ancora in gran parte sconosciute alle altre discipline. L’uomo naturale, sia egli un sempliciotto o uno scienziato, conosce le forze linguistiche che pesano su di lui quanto un selvaggio conosce la forza di gravità. Egli suppone che parlare sia un’attività in cui è libero e senza impedimenti. La trova un’attività semplice, trasparente, per la quale dispone di tutte le spiegazioni necessarie. Ma queste spiegazioni si rivelano essere soltanto la CONSTATAZIONE DELLE ESIGENZE CHE LO SPINGONO A COMUNICARE. Egli dirà che prima pensa qualcosa e poi trova le parole per esprimere i pensieri, «man mano che arrivano». Ma la sua spiegazione di perché ha pensato quelle determinate cose prima di articolarle in parole si riduce alla storia della sue esigenze sociali in quel momento. Una risposta vecchia, che non getta alcuna luce. Ma a lui non sembra necessario spiegare di più, dal momento che può comunque servirsi del meccanismo comunicativo in modo soddisfacente per le sue necessità sociali. Per questo motivo conclude, erroneamente, che pensare sia un processo OVVIO, lineare, uguale per tutti gli esseri raziocinanti, e del quale la lingua è semplice e diretta espressione.

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Actually, thinking is most mysterious, and by far the greatest light upon it that we have is thrown by the study of language. This study shows that the forms of a person’s thoughts are controlled by inexorable laws of pattern of which he is unconscious. These patterns are the unperceived intricate systematizations of his own language – shown readily enough by a candid comparison and contrast with other languages, especially those of a different linguistic family. His thinking itself is in a language – in English, in Sanskrit, in Chinese.1 And every language is a vast pattern-system different from others, in which are culturally ordained the forms and categories by which the personality not only communicates, but also analyzes nature, notices or neglects types of relationship and phenomena, channels his reasoning, and builds the house of his consciousness.

This doctrine is new to Western science, but it stands on unimpeachable evidence. Moreover, it is known, or something like it is known, to the philosophies of India and to modern Theosophy. This is masked by the fact that the philosophical Sanskrit terms do not supply the exact equivalent of my term “language” in the broad sense of the linguistic order. The linguistic order embraces all symbolism, all symbolic processes, all processes of reference and of logic. Terms like Nāma refer rather to subgrades of this order – the lexical level, the phonetic level. The nearest equivalent is probably Manas, to which our vague word ‘mind’ hardly does justice. Manas in a broad sense is a major hierarchical grade in the world-structure – a “manasic plane” as it is indeed explicitly called. Here again “mental plane” is apt to be misleading to an English-speaking person. English “mental” is an unfortunate word, a word whose function in our culture is often only to stand in lieu of an intelligent explanation, and which connotes rather a foggy limbo than a cosmic structural order characterized by patterning. Sometimes Manas is used to mean, however, simply the personal psyche; this according to Mr. Fritz Kunz is the case in the famous saying of The Voice of the Silence: “The mind is the great slayer of the real.”

1 To anticipate the text, “thinking in a language” does not necessarily have to use WORDS. An uncultivated Choctaw can as easily as the most skilled litterateur contrast the tenses or the genders of two experiences, though he has never beard of any WORDS like “tense” or “gender” for such contrasts. Much thinking never brings in words at all, but manipulates whole paradigms, word-classes, and such grammatical orders “behind” or, “above” the focus of personal consciousness.

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In realtà, il pensiero è un processo alquanto misterioso, e finora tutto ciò che si è riusciti a scoprire a riguardo lo si deve agli studi linguistici. Essi mostrano che le forme in cui un uomo pensa sono controllate da leggi e strutture di cui è ignaro. Queste strutture sopraordinate non sono altro che le complesse quanto impercettibili sistematizzazioni della sua propria lingua, che emergono in modo piuttosto immediato da un confronto obbiettivo e una contrapposizione con le altre lingue, in particolare quelle di famiglie linguistiche diverse. Il nostro stesso pensare avviene in una lingua – inglese, sanscrito, cinese2. E ciascuna lingua è un ampio sistema di schemi-modello, diverso dagli altri, in cui sono culturalmente stabilite le forme e le categorie secondo le quali l’io non solo pensa, ma anche analizza la natura, coglie o trascura determinate relazioni e fenomeni, imposta i suoi ragionamenti e costruisce la dimora della sua coscienza.

È una dottrina nuova per la scienza occidentale, ma sostenuta da fatti inconfutabili. È nota però, o perlomeno qualcosa di simile è noto alle filosofie indiane e alla moderna teosofia: questo è dissimulato però dal fatto che i termini filosofici del sanscrito non forniscono un equivalente esatto del mio termine language [lingua], nel senso più ampio di ordine linguistico. Il sistema linguistico comprende tutto il simbolismo, i processi simbolici, tutti i processi logici e referenziali. Termini come Nāma indicano piuttosto i sottolivelli del sistema, il livello lessicale e quello fonetico. La parola che vi si avvicina di più è probabilmente Manas, cui il nostro termine mind [mente] rende giustizia solo in parte. Nel senso più ampio, Manas indica un piano gerarchico cardine nella struttura della realtà, un «piano manasico», come viene in effetti esplicitamente chiamato. Ancora in questo caso la traduzione mental plane [piano mentale] è destinata a essere fuorviante per un parlante inglese. L’aggettivo inglese mental [mentale] è una parola infelice, la cui funzione nella nostra cultura è spesso solo quella di sostituire una spiegazione intelligente, e che descrive più un limbo nebuloso che un ordine strutturale cosmico caratterizzato da modelli. Ad ogni modo, talvolta Manas è utilizzato per indicare semplicemente la psiche individuale: come nel caso, secondo Fritz Kunz, del famoso detto de La voce del silenzio: «La mente è il grande assassino del reale».

2 Per anticipare il testo, “pensare in una lingua” non significa necessariamente usare delle PAROLE. Un incolto indiano Choctaw è tranquillamente in grado di contrapporre i tempi o i generi di due diversi eventi con la stessa facilità del più esperto letterato. Spesso il pensiero non implica nemmeno parole, ma utilizza interi paradigmi, classi di parole e categorie grammaticali “dietro” o “al di sopra” della coscienza individuale.

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It is said that in the plane of Manas there are two great levels, called the Rūpa and Arūpa levels. The lower is the realm of “name and form,” Nāma and Rūpa. Here “form” means organization in space (“our” three-dimensional space). This is far from being coextensive with pattern in a universal sense. And Nāma, ‘name,’ is not language or the linguistic order, but only one level in it, the level of the process of “lexation” or of giving words (names) to parts of the whole manifold of experience, parts which are thereby made to stand out in a semi-fictitious isolation. Thus a word like ‘sky,’ which in English can be treated like ‘board’(the sky, a sky, skies, some skies, piece of sky, etc.), leads us to think of a mere optical apparition in ways appropriate only to relatively isolated solid bodies. ‘Hill’ and ‘swamp’ persuade us to regard local variations in altitude or soil composition of the ground as distinct THINGS almost like tables and chairs. Each language performs this artificial chopping up of the continuous spread and flow of existence in a different way. Words and speech are not the same thing. As we shall see, the patterns of sentence structure that guide words are more important than the words.

Thus the level of Rūpa and Nāma – shape-segmentation and vocabulary – is part of the linguistic order, but a somewhat rudimentary and not self-sufficient part. It depends upon a higher level of organization, the level at which its COMBINATORY SCHEME appears. This is the Arūpa level – the pattern world par excellence. Arūpa, ‘formless,’ does not mean without linguistic form or organization, but without reference to spatial, visual shape, marking out in space, which as we saw with ‘hill’ and ‘swamp’ is an important feature of reference on the lexical level. Arūpa is a realm of patterns that can be “actualized” in space and time in the materials of lower planes, but are themselves indifferent to space and time. Such patterns are not like the meanings of words, but they are somewhat like the way meaning appears in sentences. They are not like individual sentences but like SCHEMES of sentences and designs of sentence structure. Our personal conscious “minds” can understand such patterns in a limited way by using mathematical or grammatical FORMULAS into which words, values, quantities, etc., can be substituted. A rather simple instance will be given presently.

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Nel piano del Manas vengono distinti due livelli, chiamati i livelli Rūpa e Arūpa. Il più basso è il regno della “parola e forma”, Nāma e Rūpa. Qui «forma» sta per configurazione nello spazio (il “nostro” spazio tridimensionale), ben lontano dal coincidere con «schema» nel senso universale. Così come Nāma, cioè «nome», non definisce la lingua o il sistema linguistico, ma solo uno dei suoi livelli, quello del processo di “lessicazione”, cioè attribuire delle parole (nomi) a porzioni della molteplicità dell’esperienza, porzioni che vengono quindi “ritagliate” e fatte spiccare in un isolamento semiartificiale. Perciò una parola come sky [cielo], che in inglese può essere trattata come board [tavola] – (the sky, a sky, some skies, piece of sky, etc.) [il cielo, un cielo, alcuni cieli, parte di cielo ecc.], ci porta a considerare quella che è una semplice impressione ottica allo stesso modo in cui pensiamo a corpi solidi e relativamente isolati. Le parole hill [collina] e swamp [pantano] ci convincono a considerare delle variazioni localizzate di altezza o composizione del terreno come OGGETTI distinti quasi come un tavolo e una sedia. Tutte le lingue attuano questa segmentazione artificiale della distesa ininterrotta e del flusso continuo dell’esistenza in un modo diverso. Le parole e il discorso non sono la stessa cosa. Come vedremo, i modelli di struttura della frase che incanalano le parole sono più importanti delle parole stesse.

Perciò i livelli Rūpa e Nāma (segmentazione e lessico) sono parte del sistema linguistico, ma una parte alquanto rudimentale e non autonoma. Essa dipende da un livello organizzativo più alto, quello in cui compare lo SCHEMA COMBINATORIO. È questo il livello Arūpa, il regno degli schemi per eccellenza. Arūpa, che vuol dire “informe”, non significa però privo di forma o di organizzazione linguistica, ma privo di riferimento a una forma spaziale, visiva, definita nello spazio, che come abbiamo visto con hill e swamp, è una caratteristica di riferimento importante sul piano lessicale. Arūpa è un regno di strutture che possono essere attualizzate nello spazio e nel tempo nei materiali dei livelli più bassi, ma che sono loro stesse indifferenti allo spazio e al tempo. Queste forme non sono paragonabili al significato delle parole, ma sono qualcosa di molto simile al modo in cui il significato emerge dalle frasi. Non sono singole frasi, ma MODELLI di frasi e di schemi di frasi. Le nostre “menti” consce individuali sono in grado di comprendere questi modelli in modo limitato utilizzando FORMULE matematiche o grammaticali in cui possono essere sostituite parole, valori, quantità. Di questo verrà dato un esempio piuttosto semplice tra poco.

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It is within the possibilities of the “culture of consciousness” that the Arūpa level of the “mental” plane may be contacted directly in an expansion of consciousness. In Ouspensky’s book, A New Model of the Universe, there are arresting glimpses of extraordinary mental states which that philosopher attained – adumbrations only, for these completely “nonlexical” vistas cannot be well put into words. He speaks of realms of “moving hieroglyphs” composed entirely of “mathematical relations,” and of the expansion and ramification of such a hieroglyph till it covered a whole aspect of the universe. Ouspensky’s mathematical predilections and his study of such things as non-Euclidean geometries, hyperspace, and the relation between time and consciousness may have led him to stress mathematical analogies. Mathematics is a special kind of language, expanded out of special sentences containing the numeral words, 1, 2, 3, 4…x, y, z, etc. But every other type of sentence of every language is also the potential nucleus of a far-reaching system. To very few is it granted to attain such consciousness as a durable state; yet many mathematicians and scientific linguists must have had the experience of “seeing,” in one fugitive flash, a whole system of relationships never before suspected of forming a unity. The harmony and scientific beauty in the whole vast system momentarily overwhelms one in a flood of aesthetic delight. To “see,” for instance, how all the English elementary sounds (“phonemes”) and their groupings are coordinated by an intricate yet systematic law into all possible forms of English monosyllabic words, meaningful or nonsensical, existent or still unthought of, excluding all other forms as inevitably as the chemical formula of a solution precludes all but certain shapes of crystals from emerging – this might be a distinct experience.

To show the full formula for this law or pattern – a so-called “morphophonemic structural formula” – I should need a large piece of paper. I can however set up a condensed form of it as 3

O, C – ng, C1C2 , C3C4, etc. …
s ± Cm Cn + V + (V1) O, ± (r, w, y);

3 The full formula from which this is abbreviated is printed and explained in my paper “Linguistics as an exact science” in Technol. Rev., December 1940, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge, Mass.

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Rientra fra le possibilità previste dalla “cultura della coscienza” che il livello Arūpa del piano “mentale” possa essere raggiunto in maniera diretta attraverso un’espansione della coscienza. Nel suo libro Un nuovo modello dell’Universo, Uspenskij fa alcuni interessanti accenni su stati mentali straordinari raggiunti dal filosofo – solamente degli accenni però, perché queste esperienze “non lessicali” si traducono in parole con fatica. Egli parla di mondi di geroglifici semoventi, composti interamente da “relazioni matematiche” e dell’espansione e ramificazione di un tale “geroglifico” fino a ricoprire tutto un aspetto dell’ universo. La predilezione di Uspenskij per la matematica e i suoi studi su argomenti come la geometria non euclidea, l’iperspazio e il rapporto tra tempo e coscienza, possono averlo spinto a dare particolare importanza alle analogie di tipo matematico. La matematica è un tipo di linguaggio particolare, che si dispiega in frasi particolari, contenenti le parole numeriche 1, 2, 3, 4… x, y, z, ecc. Ma qualunque altro tipo di frase è anch’esso il potenziale nucleo di un vasto sistema. A pochissimi è concesso acquisire un tale livello di consapevolezza come condizione durevole; eppure molti matematici e linguisti scientifici hanno probabilmente vissuto l’esperienza di “vedere”, in un lampo fuggevole, un intero sistema di relazioni che non aveva mai creduto potesse formare un’unità. Si è travolti dall’armonia e dalla razionale bellezza dell’intero e vasto sistema in un’onda di piacere estetico. “Vedere”, ad esempio, il modo in cui tutti i suoni elementari (fonemi) della lingua inglese e le loro combinazioni sono coordinati da una complessa ma rigorosa legge in tutte le loro possibili combinazioni di vocaboli inglesi monosillabici, con o senza senso, reali o ancora impensati, escludendo tutte le altre combinazioni nello stesso modo categorico in cui la formula chimica di una soluzione esclude la formazione di determinati cristalli, “vedere” tutto questo potrebbe essere un’esperienza notevole.

Per mostrare la formula estesa di queste legge o struttura, e cioè una cosiddetta “formula strutturale morfofonematica” occorrerebbe una pagina più grande; posso ad ogni modo darne una versione condensata nel modo seguente 4 :

O,C–ng,C1C2,C3 C4,ecc… s±Cm Cn+V+(V1)O±(r,w,y);

4 La formula estesa di cui questa è un’abbreviazione è riportata e spiegata nel mio saggio “Linguistics as an exact science” nel Technology Review, dicembre 1940, Massachussets Institute of Technology, Cambridge, Mass.

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C – h, C’1C’2, C’3C’4, etc. … C’m C’n ± (t/d, s/z, st/zd).

This formula requires that the English words be symbolized or “spelt” according to standard phonemic spelling of the type described by Leonard Bloomfield in his book Language. In this system the dipthongal vowels must be represented by a pure vowel (V) followed by w or y from the term (r, w, y), so that ‘note’ is symbolized nowt (or newt, depending on the dialect), ‘date’ is deyt, ‘ice’ is ays. That this is correct analysis on the physical or acoustic level is shown by the fact that, if we reverse a phonographic recording of ‘ice’ we get a sound like sya, and, if we say sya properly into the phonograph and reverse it, the machine will say ‘ice.’ For English this analysis happens to be exact also on the structural level two stages above the acoustic one, for the ys of ays (ice) is seen to be on the same line of pattern as the ls or els (else), the ns of sins (since) the ts of hats, etc. – it is part of a general architectonic scheme of having two consonants together.

Now, by reading the commas in the formula as “or,” we see that the formula is equivalent to a large series of subsidiary formulas. One of the simplest of these is O + V + C – h (see how it is contained in the big formula) which means that the word can begin without a consonant and with any one vowel, followed by any one consonant except h giving us words like ‘at, or, if.’ Changing the first term to the next symbol in the big formula, we get C – ng + V + C – h, which means that the word, ending as before, can begin with any single English consonant except the ng sound as in ‘sing’ (this sound ought to be written with ONE symbol, but, in deference to the printer, I shall employ the usual digraph). This pattern gives us the long array of words like ‘hat, bed, dog, man,’ and permits us to coin new ones like ‘tig, nem, zib’ – but not, be it noted, ngib or zih.

So far the patterns are simple. From now on they become intricate! The formula in this abbreviated form needs along with it a series of lists of assorted consonants, like so many laundry lists, each list being represented by one of the symbols C1, C2, etc. The formula C1C2 means that you can begin the word with any consonant out of list C1, and follow it with any from list C2 , which happens to contain only r and l. Since C1

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C – h, C’1 C’2, C’3 C’4, ecc.. C’m C’n ± (t/d, s/z, st/zd).

Questa formula esige che le parole inglesi vengano rappresentate, o che la loro ortografia avvenga secondo lo spelling fonematico standard del tipo descritto da Bloomfield nel suo Il linguaggio. In questo sistema, le vocali che formano un dittongo devono essere rappresentate con una vocale semplice (V), seguita da w o una y dal termine (r,w,y), in modo che note si scriva nowt (o newt, a seconda del dialetto), date sia deyt, ice sia ays. Che quest’analisi sia quella corretta sul piano fisico, o acustico, è dimostrato dal fatto che se si fa scorrere al contrario una registrazione fonografica della parola ice, otteniamo un suono simile a sya, e se pronunciamo sya nel fonografo nel modo giusto e poi la invertiamo, la macchina dirà ice. Per l’inglese si dà il caso che questa analisi sia esatta anche sul livello strutturale, due piani più in alto di quello acustico, perché l’ys di ays (ice) appare sulla stessa linea, nella formula, di ls in els (else), di ns in sins (since), ts di hats, ecc.: fa parte di uno schema architettonico più generale delle coppie di consonanti.

Ebbene, considerando le virgole della formula come degli «oppure», notiamo che essa è equivalente a una lunga serie di formule ausiliarie. Una delle più semplici è O + V + C – h (si noti come è contenuta nella formula grande), che significa che la parola può iniziare senza una consonante e per qualunque vocale, seguita da qualunque consonante eccetto h, creando parole come at, or, if. Cambiando il primo termine con il simbolo che si trova accanto nella formula grande, otteniamo C – ng + V + C – h, che significa che la parola, terminando come prima, può iniziare con qualunque consonante inglese eccetto il suono ng come in sing (questo suono dovrebbe esser scritto con UN UNICO simbolo, ma per riguardo al tipografo utilizzerò il digramma comune). Questo schema ci dà una lunga serie di vocaboli come hat, bed, dog, man e ci permette di coniarne di nuove come tig, nem, zib, ma non, si noti, ngib o zih.

Finora, gli schemi sono semplici. Ma da ora in poi diventano complesse! In questa forma abbreviata, la formula deve essere corredata da una serie di elenchi di consonanti assortite, tante liste lunghissime ciascuna rappresentata da uno dei simboli C1 , C2 , ecc. La formula C1 C2 significa che la parola può iniziare con una qualunque consonante presa dall’elenco C1 e farla seguire da una qualunque consonante presa dall’elenco C2 , che però si dà il caso contenga solo r e l. Poiché C1

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contains p, b, f, for instance, we can have words like ‘pray, play, brew, blew, free, flee,’ and the nonsensical ‘frig, blosh,’etc. But suppose we want a word beginning with sr, zr, tl, or dl. We go to our list C1, but to our surprise there is no s, z, t, or d, on it. We appear to be stumped! We pick up our other lists, but are no better off. There is no way of combining our lists according to the formula to get these initial combinations. Evidently there just aren’t any such English words; and what is more, any budding Lewis Carrolls or Edward Lears will somehow mysteriously refuse to coin such words. This shows that word coining is no act of unfettered imagination, even in the wildest flights of nonsense, but a strict use of already patterned materials. If asked to invent forms not already prefigured in the patternment of his language, the speaker is negative in the same manner as if asked to make fried eggs without the eggs!

Thus the formula sums up every combination that English one-syllable words or wordlike forms have, and bars out every one they do not and cannot have. Contained in it is the mpst of ‘glimpsed,’ the ksths of ‘sixths,’ the ftht of ‘he fifthed it,’ the nchst of the queer but possible ‘thou munchst it greedily,’ and multitudes of other “rugged sounds which to our mouths grow sleek,” but which would have “made Quintilian stare and gasp.” At the same time the formula BARS OUT numerous smooth but to us difficult (because unpatterned) combinations, like litk, fpat, nwelng, dzogb, and a myriad more, all possible and easy to some languages, but not to English.

It will be evident that implicit in our one-syllable words is an undreamed-of complexity of organization, and that the old gag, “say it in words of one syllable,” as a metaphor of simplicity, is from the standpoint of a more penetrative insight the most arrant nonsense! Yet to such insight this old cliché bears unconscious witness to the truth that those who easily and fluently use the intricate systems of language are utterly blind and deaf to the very existence of those systems, until the latter have been, not without some difficulty, pointed out.

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contiene ad esempio p, b, f, avremo parole come pray, play, brew, blew, free, flee, e le parole-nonsense frig, blosh ecc. Ma supponiamo di volere una parola che incominci per sr, zr, tl o dl. Andiamo a vedere l’elenco C1 , e scopriamo con sorpresa che non contiene nessuna s, z, t o d. Siamo perplessi. Studiamo gli altri elenchi, ma la situazione non migliora. Non c’è modo di combinare gli elementi secondo la formula per ottenere queste combinazioni come inizi di parola. A quanto pare parole del genere semplicemente non esistono in inglese: e quel che più conta, qualunque novello Lewis Carroll o Edward Lear si rifiuterebbe, per qualche misteriosa ragione, di inventarsi parole simili. Questo dimostra che la coniazione di parole nuove non è un’operazione di fantasia sbrigliata, nemmeno nei giochi di nonsense più sfrenati, ma usa rigorosamente materiali già schematizzati. Se a un parlante viene chiesto di inventare forme che non sono già previste dagli schemi della propria lingua, dirà che è impossibile quanto fare le uova al tegamino senza uova!

La formula riassume quindi tutte le possibili combinazioni che si possono trovare nelle parole o forme simili inglesi monosillabiche, e esclude tutte quelle che non ci sono o non possono esserci. Sono inclusi mpst di glimpsed, ksths di sixths, ftht di he fifthted it, e nchst del bizzarro ma possibile thou munchst it greedily, e miriadi di altri «rugged sounds which to our mouths grow sleek» [«suoni aspri che scivolano nella nostra bocca»], ma che avrebbero «made Quintilian stare and gasp» [«fatto inorridire Quintiliano»]5. Contemporaneamente la formula ESCLUDE molte altre combinazioni che scorrono ma che per noi sono difficili perché non previste dagli schemi della nostra lingua, come litk, fpat, nwelng, dzogb, e un’infinità di altre ancora, tutte possibili e facili in altre lingue, ma non in inglese.

È chiaro che le nostre parole monosillabiche implicano un’organizzazione di una complessità inimmaginabile, e che la vecchia battuta «dillo con parole da una sillaba» come metafora di semplicità, appare a uno sguardo meno superficiale una totale assurdità! Da quest’analisi emerge però anche che questo vecchio cliché è la prova involontaria del fatto che coloro che utilizzano con facilità e scorrevolezza i complessi meccanismi della lingua sono del tutto ciechi e sordi all’esistenza stessa di quei meccanismi, finché non gli vengono, non senza una certa difficoltà, indicati.

5 J. Milton, sonetto XI, On the Detraction Which Followed Upon My Writing Certain Treatises. Il riferimento qui è a M. Fabio Quintiliano, studioso di grammatica e retorica e autore di un famoso trattato sull’oratoria.

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And the adage “as above, so below” applies strongly here. As below, on the phonological plane of language, significant behavior is ruled by pattern from outside the focus of personal consciousness, so is it on the higher planes of language that we call expression of the thought. As we shall see in Part II, thinking also follows a network of tracks laid down in the given language, an organization which may concentrate systematically upon certain phases of reality, certain aspects of intelligence, and may systematically discard others featured by other languages. The individual is utterly unaware of this organization and is constrained completely within its unbreakable bonds.

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E l’adagio «come sopra, così sotto» qui è particolarmente valido. Così come sotto, al livello fonologico della lingua, i comportamenti rilevanti sono dominati da schemi che sono al di fuori della sfera della coscienza individuale, così lo stesso accade ai piani più alti del linguaggio, che chiamiamo espressione del pensiero. Come si vedrà nella seconda parte, anche il pensiero segue un sistema di binari già tracciati dalla lingua, un sistema che può dare più rilevanza a determinati aspetti della realtà, dell’intelligenza, e scartarne sistematicamente altri, prediletti invece da altre lingue. Il singolo è del tutto ignaro di questa organizzazione, pur essendo completamente avvinto nei suoi vincoli indissolubili.

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We saw in Part I that, in linguistic and mental phenomena, significant behavior (or what is the same, both behavior and significance, so far as interlinked) are ruled by a specific system or organization, a “geometry” of form principles characteristic of each language. This organization is imposed from outside the narrow circle of the personal consciousness, making of that consciousness a mere puppet whose linguistic maneuverings are held in unsensed and unbreakable bonds of pattern. It is as if the personal mind, which selects words but is largely oblivious to pattern, were in the grip of a higher, far more intellectual mind which has very little notion of houses and beds and soup kettles, but can systematize and mathematize on a scale and scope that no mathematician of the schools ever remotely approached.

And now appears a great fact of human brotherhood – that human beings are all alike in this respect. So far as we can judge from the systematics of language, the higher mind or “unconscious” of a Papuan headhunter can mathematize quite as well as that of Einstein; and conversely, scientist and yokel, scholar and tribesman, all use their personal consciousness in the same dim-witted sort of way, and get into similar kinds of logical impasse. They are as unaware of the beautiful and inexorable systems that control them as a cowherd is of cosmic rays. Their understanding of the processes involved in their talk and ratiocination is a purely superficial, pragmatic one, comparable to little Sue Smith’s understanding of the radio, which she turns on in such a way as to evoke a bedtime story. Men even show a strong disposition to make a virtue of this ignorance, to condemn efforts at a better understanding of the mind’s workings as “impractical,” or as “theories” if the condemner happens to be a yokel, or as “metaphysics” or “mysticism” or “epistemology” if he happens to be wearing the traditionally correct turnout of a scientist. Western culture in particular reserves for the investigators of language its most grudging meed of recognition and its meagerest rewards, even though it has to counter the natural human tendency to find language, mysterious as it is, the most fascinating of subjects – one about which men love

II

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Si è visto nella Parte I che nei fenomeni linguistici e mentali, il comportamento significativo (o, che è lo stesso, sia il comportamento che la significatività, finché interconnessi), sono regolati da un sistema specifico o organizzazione, una “geometria” di principi formali caratteristici di ogni lingua. Questo sistema è imposto da una sfera al di fuori dell’angusto campo della coscienza individuale, rendendo quella coscienza un semplice burattino le cui manovre linguistiche sono sotto il controllo fermo e invisibile dello schema. È come se la mente individuale che seleziona le parole ma che è in gran parte ignara dell’esistenza degli schemi, fosse in balìa di una mente più alta, ben più intellettuale che ha ben poca idea di case, letti e pentole di minestra, ma che ha la capacità di sistematizzare e matematizzare a portate e dimensioni che nessun matematico d’accademia ha mai lontanamente eguagliato.

E ora appare un grande fatto di fratellanza umana, cioè che tutti gli esseri umani sono uguali sotto questo aspetto. Per quanto possiamo stabilire dalla tassonomia del linguaggio, la mente superiore o “inconscio” di un cacciatore di teste papuano è in grado di matematizzare quanto quella di Einstein; e d’altra parte lo scienziato e il bifolco, lo studioso e l’indigeno, utilizzano la coscienza individuale con la stessa mediocrità, e restano invischiati nello stesso tipo di impasse logiche. Essi sono coscienti dei meravigliosi e inesorabili sistemi che li controllano quanto un branco di buoi lo è dei raggi cosmici. La loro comprensione dei processi implicati nei loro discorsi e ragionamenti è una comprensione di tipo superficiale, pragmatica, paragonabile a quella posseduta dalla piccola Sue Smith sul funzionamento della radio, che accende come per evocare una storia della buonanotte. Addirittura, l’uomo tende spesso a fare di questa ignoranza una virtù e a condannare gli sforzi tesi a una maggior comprensione dei meccanismi mentali come «poco pratici» o «teorie astratte» se è un bifolco, o come «metafisica» o «misticismo» o «epistemologia» se indossa la veste tradizionalmente corretta dello scienziato. La cultura occidentale in particolare riserva agli esploratori della lingua i suoi riconoscimenti più stentati e i suoi premi più miseri, anche se si trova in contrasto con la spontanea predisposizione umana a considerare la lingua, misteriosa com’è, il più affascinante degli argomenti, di cui le persone adorano

II

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to talk and speculate unscientifically, to discuss endlessly the meaning of words, or the odd speech of the man from Boston as it appears to the man of Oshkosh, or vice versa.

The higher mind would seem to be able to do any kind of purely intellectual feat, but not to “be conscious” on the personal level. That is, it does not focus on practical affairs and on the personal ego in its personal, immediate environment. Certain dreams and exceptional mental states may lead us to suppose it to be conscious on its own plane, and occasionally its consciousness may “come through” to the personality; but, barring techniques like Yoga, it ordinarily makes no nexus with the personal consciousness. We could call it a higher ego, bearing in mind a distinctive trait, appearing through every language, and its one striking resemblance to the personal self; namely, that it organizes its systems around a nucleus of three or more pronominal “person” categories, centered upon one we call the first-person singular. It can function in any linguistic system – a child can learn any language with the same readiness, from Chinese, with its separately toned and stressed monosyllables, to Nootka of Vancouver Island, with its frequent one-word sentences such as mamamamamahln’iqk’okmaqama – “they each did so because of their characteristic of resembling white people.”6

Because of the systematic, configurative nature of higher mind, the “patternment” aspect of language always overrides and controls the “lexation” (Nāma) or name-giving aspect. Hence the meanings of specific words are less important than we fondly fancy. Sentences, not words, are the essence of speech, just as equations and functions, and not bare numbers, are the real meat of mathematics. We are all mistaken in our common belief that any word has an “exact meaning.” We have seen that the higher mind deals in symbols that have no fixed reference to anything, but are like blank checks, to be filled in as required, that stand for “any value” of a given variable, like the C’s and V’s in the formula cited in Part I, or the x, y, z of algebra. There is a queer Western notion that the ancients who invented algebra made a great discovery, though the human

6 This word and sentence contains only one Nāma or lexation, mamahl or “white-race person.” The rest is all grammatical pattern which can refer to anything. The Nootka stem or Nāma for ‘doll’ with the same operations done upon it would mean “they each did so because of their ‘doll-like-ness.’

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parlare e speculare in modo non scientifico, discutendo all’infinito sul significato delle parole, o della bizzarra espressione dell’uomo di Boston come appare a un abitante di Oshkosh, o viceversa.

La mente superiore appare in grado di qualunque impresa che sia puramente intellettuale, ma non di “essere cosciente” sul piano individuale. Cioè, non si concentra su questioni pratiche e sull’Io nel suo ambiente individuale immediato. Alcuni sogni e stati mentali eccezionali potrebbero far supporre che abbia una sua coscienza relativa alla propria sfera, che occasionalmente “si rivela” alla personalità. Ma escluse tecniche come lo yoga, essa non ha generalmente nessun legame con la coscienza individuale. Si potrebbe chiamarlo un “Io superiore”, pensando a una sua caratteristica distintiva, che emerge in tutte le lingue, e che mostra una somiglianza impressionante con il sé individuale: cioè, il fatto che organizzi i suoi sistemi attorno a un nucleo di tre o più categorie pronominali “personali” incentrate su una che chiamiamo prima persona singolare. Funziona in qualunque sistema linguistico: un bambino è in grado di imparare qualunque lingua con la stessa facilità, dal cinese con i suoi monosillabi multitonali e accentati separatamente al nootka dell’isola di Vancouver, con le sue ricorrenti parole-frase, come mamamamamahln’iqk’okmaqama, «entrambi fecero ciò per la loro caratteristica di somigliare ai bianchi».7

A causa della natura sistematica, configurativa della mente superiore, l’aspetto di “schematizzazione” nella lingua domina e controlla l’aspetto di “lessicazione” (Nāma) o assegnazione dei nomi. Il significato dei singoli vocaboli è quindi meno importante di quello che ci piace immaginare. Sono le frasi, e non le parole, l’essenza del discorso, così come la vera sostanza della matematica sono le equazioni e le funzioni e non i numeri semplici. Siamo tutti in errore con la nostra comune convinzione che ogni parola abbia un suo “esatto significato”. Si è visto che la mente superiore si occupa di simboli che non hanno un riferimento fisso, ma che sono come assegni in bianco da riempire come previsto, che rappresentano un qualsiasi valore di una data variabile, come le C e le V nella formula riportata nella Parte I, o gli x, y, z dell’algebra. In occidente è diffusa la curiosa idea che gli antichi inventori dell’algebra avessero fatto una scoperta sensazionale, anche se il nostro

7 Questa parola o frase contiene un’unica Nāma, o lessicazione, cioè mamahl o «bianco». Il resto è solo schema grammaticale che può riferirsi a qualunque cosa. La radice nootka per «bambola», inserita nello stesso contesto, significherebbe «ciascuno di loro fece ciò per la sua natura di bambola».

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unconscious has been doing the same sort of thing for eons! For the same reason the ancient Mayas or the ancient Hindus, in their staggering cycles upon cycles of astronomical numbers, were simply being human. We should not however make the mistake of thinking that words, even as used by the lower personal mind, represent the opposite pole from these variable symbols, that a word DOES have an exact meaning, stands for a given thing, is only ONE value of a variable.

Even the lower mind has caught something of the algebraic nature of language; so that words are in between the variable symbols of pure patternment (Arūpa) and true fixed quantities. That part of meaning which is in words, and which we may call “reference,” is only relatively fixed. Reference of words is at the mercy of the sentences and grammatical patterns in which they occur. And it is surprising to what a minimal amount this element of reference may be reduced. The sentence “I went all the way down there just in order to see Jack” contains only one fixed concrete reference: namely, “Jack.” The rest is pattern attached to nothing specifically; even “see” obviously does not mean what one might suppose, namely, to receive a visual image.

Or, again, in word reference we deal with size by breaking it into size classes – small, medium, large, immense, etc. – but size objectively is not divided into classes, but is a pure continuum of relativity. Yet we think of size constantly as a set of classes because language has segmented and named the experience in this way. Number words may refer not to number as counted, but to number classes with elastic boundaries. Thus English ‘few’ adjusts its range according to the size, importance or rarity of the reference. A ‘few’ kings, battleships, or diamonds might be only three or four, a ‘few’ peas, raindrops, or tea leaves might be thirty or forty.

You may say, “Yes, of course this is true of words like large, small, and the like; they are obviously relative terms, but words like dog, tree, house, are different – each names a specific thing.” Not so; these terms are in the same boat as ‘large’ and ‘small.’ The word ‘Fido’ said by a certain person at a certain time

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inconscio fa la stessa cosa da tempi immemorabili! Per lo stesso motivo, gli antichi maya, o indù, con i loro sconcertanti cicli su cicli di calcoli astronomici, non facevano altro che seguire la loro natura di umani. Non bisogna però commettere l’errore di pensare che le parole, anche come utilizzate dalla mente individuale inferiore, rappresentino il polo opposto dei simboli-variabile, che una parola abbia un suo significato esatto, stia per una cosa specifica, rappresenti solo UN valore di una certa variabile.

Anche la mente inferiore coglie qualcosa della natura algebrica della lingua: le parole sono quindi a metà strada tra i simboli-variabile nella schematizzazione pura (Arūpa) e i valori reali fissi. Quelle parte di significato posseduta dalle parole, e che potremmo chiamare “riferimento”, è fissata solo relativamente. Il riferimento delle parole è in balia delle frasi e degli schemi grammaticali in cui esse occorrono. Ed è sorprendente a quanto poco può essere ridotto questo elemento di referenza. La frase I went all the way down there to see Jack [Ho fatto tutta la strada fin laggiù solo in modo da poter vedere Jack] contiene soltanto un riferimento concreto fisso: «Jack». Il resto è schema che non indica niente di specifico; perfino see [vedere] chiaramente non è inteso nel suo significato immediato, cioè di ricevere un’immagine visiva.

O, ancora, nei riferimenti delle parole gestiamo la dimensione segmentandola in classi: piccolo, medio, grande, enorme. Ma da un punto di vista oggettivo, la dimensione non è divisa in categorie, ma è puro continuum relativo. Eppure noi pensiamo sempre alla grandezza delle cose come a una serie di classi, perché la lingua ha segmentato e denominato l’esperienza in questo modo. Le parole che indicano numeri potrebbero riferirsi non ai numeri ordinali, ma a classi di numeri dai confini variabili. La parola inglese few [qualche] aggiusta il tiro a seconda della dimensione, importanza o rarità del riferimento. «Qualche» re, nave da guerra o diamante potrebbe significare che sono tre o quattro, mentre «qualche» pisello, goccia di pioggia o fogliolina di tè potrebbe significare che sono trenta o quaranta.

Si potrebbe obbiettare che questo è valido solo per parole come «grande», «piccolo» e simili, che sono chiaramente termini relativi, ma che parole come «cane», «albero», «casa» sono diverse e indicano ciascuna qualcosa di specifico: ma non è così. Questi termini sono nella stessa barca di «grande» e «piccolo». La parola «Fido» pronunciata da una persona specifica in un momento specifico

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may refer to a specific thing, but the word ‘dog’ refers to a class with elastic limits. The limits of such classes are different in different languages. You might think that ‘tree’
means the same thing, everywhere and to everybody. Not at all. The Polish word that means ‘tree’ also includes the meaning ‘wood.’ The context or sentence pattern determines what sort of object the Polish word (or any word, in any language) refers to. In Hopi, an American Indian language of Arizona, the word for ‘dog,’ pohko, includes pet animal or domestic animal of any kind. Thus ‘pet eagle’ in Hopi is literally ‘eagle-dog’; and having thus fixed the context a Hopi might next refer to the same eagle as so-and-so’s pohko.

But lest this be dismissed as the vagary of a “primitive” language (no language is “primitive”), let us take another peep at our own beloved English. Take the word “hand.” In “his hand” it refers to a location on the human body, in “hour hand” to a strikingly dissimilar object, in “all hands on deck” to another reference, in “a good hand at gardening” to another, in “he held a good hand (at cards)” to another, whereas in “he got the upper hand” it refers to nothing but is dissolved into a pattern of orientation. Or consider the word “bar” in the phrases: ‘iron bar, bar to progress, he should be behind bars, studied for the bar, let down all the bars, bar of music, sand bar, candy bar, mosquito bar, bar sinister, bar none, ordered drinks at the bar’!

But, you may say, these are popular idioms, not scientific and logical use of language. Oh, indeed? “Electrical” is supposed to be a scientific word. Do you know what its referent is? Do you know that the “electrical” in “electrical apparatus” is not the same “electrical” as the one in “electrical expert”? In the first it refers to a current

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può riferirsi a qualcosa di particolare e unico, ma «cane» si riferisce a una classe di enti dai confini flessibili. I confini di queste classi sono diversi nelle varie lingue. Si potrebbe pensare che «albero» voglia dire la stessa cosa per tutti e in qualunque luogo: niente affatto. Il termine polacco per tree [albero] copre anche il significato di wood [legno, foresta]. Il contesto o schema della frase, determina a quale tipo di oggetto questa parola polacca (o qualunque altra parola in qualunque altra lingua) si deve riferire. In hopi, la lingua degli indiani d’America che vivono nell’Arizona, il termine per «cane», pohko, comprende qualunque tipo di animale domestico. «Aquila domestica» in hopi sarebbe quindi letteralmente «aquila-cane», e, una volta chiaro il contesto, un indiano hopi potrebbe parlare della stessa aquila dicendo «il pohko di tal dei tali».

Ma per evitare che questo esempio venga considerato solo una stravaganza di una lingua “primitiva” (non esistono lingue “primitive”), diamo un altro sguardo al nostro amato inglese. Prendiamo la parola hand [mano]: nell’espressione his hand [«la sua mano»] la parola si riferisce a una parte del corpo; in hour hand [lancetta delle ore] a un oggetto completamente diverso; in all hands on deck [tutti i marinai in coperta] a qualcos’altro ancora, in a good hand at gardening [il pollice verde] a un’altra, e in he held a good hand (at cards) [ha avuto un a buona mano (a carte)] a un’altra ancora, mentre in he got the upper hand [è prevalso] non ha nessun significato ma si dissolve in uno schema di riferimento generico. Oppure, consideriamo la parola bar nelle seguenti espressioni: iron bar [sbarra di ferro], «bar to progress» [un ostacolo al progresso], he should be behind bars [dovrebbe essere dietro le sbarre], studied for the bar [ha studiato da avvocato], let down all the bars [abbassare le difese], bar of music [barra musicale], sand bar [banco di sabbia»], candy bar [stecca di zucchero candito], mosquito bar [zanzariera], bar sinister [lett. «barra sinistra», simbolo, negli stemmi araldici, di nascita illegittima], bar none [nessuno escluso], ordered drinks at the bar [ha ordinato dei drink al bar]!

Ma questi, si potrebbe obbiettare, sono casi di uso idiomatico, e non logico, scientifico della lingua. Ma davvero? Il termine electrical [elettrico] dovrebbe essere una parola scientifica. Sapreste indicare il suo referente? Sapete che electrical in electrical apparatus [impianto elettrico] non è uguale a electrical in electrical expert [esperto di elettricità]? Nel primo caso infatti indica un flusso di corrente

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of electricity in the apparatus, but in the second it does not refer to a current of electricity in the expert. When a word like “group” can refer either to a sequence of phases in time or a pile of articles on the floor, its element of reference is minor. Referents of scientific words are often conveniently vague, markedly under the sway of the patterns in which they occur. It is very suggestive that this trait, so far from being a hallmark of Babbittry, is most marked in intellectual talk, and – mirabile dictu – in the language of poetry and love! And this needs must be so, for science, poetry, and love are alike in being “flights” above and away from the slave-world of literal reference and humdrum prosaic details, attempts to widen the petty narrowness of the personal self’s outlook, liftings toward Arūpa, toward that world of infinite harmony, sympathy and order, of unchanging truths and eternal things. And while all words are pitiful enough in their mere “letter that killeth,” it is certain that scientific terms like ‘force, average, sex, allergic, biological’ are not less pitiful, and in their own way no more certain in reference than ‘sweet, gorgeous, rapture, enchantment, heart and soul, star dust.’ You have probably heard of ‘star dust’ – what is it? Is it a multitude of stars, a sparkling powder, the soil of the planet Mars, the Milky Way, a state of daydreaming, poetic fancy, pyrophoric iron, a spiral nebula, a suburb of Pittsburgh, or a popular song? You don’t know, and neither does anybody. The word – for it is one LEXATION, not two – has no reference of its own. Some words are like that.8 As we have seen, reference is the lesser part of meaning, patternment the greater. Science, the quest for truth, is a sort of divine madness like love. And music – is it not in the same category? Music is a quasilanguage based entirely on patternment, without having developed lexation.

Sometimes the sway of pattern over reference produces amusing results, when a pattern

8 Compare “kith” and “throe,” which give no meaning, and a bewildering effect, without the patterns “kith and kin” and “in throes of.”

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elettrica nell’impianto, ma nel secondo non indica un flusso di elettricità all’interno di un esperto. Quando una parola come group [gruppo] può indicare tanto una sequenza di fasi temporali quanto una pigna di giornali sul pavimento, il suo elemento di riferimento è di poca rilevanza. I riferimenti delle parole scientifiche sono spesso appositamente generici, e fortemente condizionati dal contesto in cui occorrono. È suggestivo che questa caratteristica, lungi dall’essere il marchio distintivo di una mentalità ristretta, sia particolarmente diffusa nel linguaggio intellettuale e – mirabile dictu – nel linguaggio poetico e amoroso! E questo necessariamente, perché scienza, poesia e amore hanno in comune la “fuga” oltre e al di sopra della schiavitù del riferimento letterale e dei noiosi dettagli prosaici, il tentativo di ampliare la meschina e ristretta visione del Sé individuale, e l’elevazione verso l’Arūpa, verso quel mondo di infinita armonia, empatia e ordine, di verità immutabili e cose eterne. E mentre tutte le parole sono piuttosto pietose nella loro semplice «lettera che uccide»9, è certo che termini scientifici come force, average, sex, allergic, biological [forza, media, sesso, allergico, biologico] sono non meno pietosi, e a loro modo non posseggono un riferimento più preciso di quanto ne abbiano sweet, gorgeous, rapture, enchantement, heart and soul, star dust [dolce, splendido, estasi, magia, cuore e anima, polvere di stelle]. Avrete probabilmente sentito l’espressione star dust [lett. «polvere di stelle»]: che cosa significa? Una moltitudine di stelle, una polverina luccicante, il terreno del pianeta Marte, la Via lattea, un stato di sogno a occhi aperti, un’invenzione poetica, ferro piroforico, una nebulosa a spirale, una periferia di Pittsburgh o una canzone famosa? Non lo sapete, come non lo sa nessuno. La parola, poiché si tratta di un’unica lessicazione, non di due, non ha un suo riferimento specifico. Esistono parole simili.10 Come si è visto, il riferimento è ciò che conta meno nel definire il significato, mentre la schematizzazione ha la parte principale. La scienza, cioè ricerca della verità, è una sorta di follia divina, come l’amore. E la musica non appartiene forse alla stessa categoria? Essa è una quasilingua, fondata interamente sulla schematizzazione, senza aver sviluppato l’aspetto della lessicazione.

Talvolta il predominio dello schema sul riferimento produce effetti divertenti, quando uno schema

9 «La lettera uccide»: 2 Corinzi 3:6.
10 Confrontate kith [parente] e throe [fitta di dolore] che sono privi di significato e producono un effetto strano senza la formula kith and kin [parenti e amici] e in throes of [«in preda ai tormenti di»].

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engenders meanings utterly extraneous to the original lexation reference. The lower mind is thrown into bewilderment, cannot grasp that compelling formulas are at work upon it, and resorts wildly and with glad relief to its favorite obvious type of explanation, even “seeing things” and “hearing things” that help out such explanation. The word ‘asparagus,’ under the stress of purely phonetic English patterns of the type illustrated in the formula cited in Part I, rearranges to ‘sparagras’; and then since ‘sparrer’ is a dialectical form of ‘sparrow,’ we find ‘sparrow grass’ and then religiously accepted accounts of the relation of sparrows to this ‘grass.’ ‘Cole slaw’ came from German Kohlsalat, ‘cabbage salad,’ but the stress of the pattern tending to revamp it into ‘cold slaw’ has in some regions produced a new lexation ‘slaw,’ and a new dish ‘hot slaw’! Children of course are constantly repatterning, but the pressure of adult example eventually brings their language back to the norm; they learn that Mississippi is not Mrs. Sippy, and the equator is not a menagerie lion but an imaginary line. Sometimes the adult community does not possess the special knowledge needed for correction. In parts of New England, Persian cats of a certain type are called Coon cats, and this name has bred the notion that they are a hybrid between the cat and the ‘coon’ (raccoon). This is often firmly believed by persons ignorant of biology, since the stress of the linguistic pattern (animal-name 1 modifying animal-name 2) causes them to “see” (or as the psychologists say “project”) objective raccoon quality as located on the body of the cat – they point to its bushy tail, long hair, and so on. I knew of an actual case, a woman who owned a fine “Coon cat,” and who would protest to her friend: “Why, just LOOK at him – his tail, his funny eyes – can’t you see it?” “Don’t be silly!” quoth her more sophisticated friend. “Think of your natural history! Coons cannot breed with cats; they belong to a different family.” But the lady was so sure that she called on an eminent zoologist to confirm her. He is said to have remarked, with unwavering diplomacy, “If you like to think so, just think so.” “He was even more cruel than you!” she snapped at her friend, and remained convinced that her pet was the outcome of an encounter between a philandering raccoon and a wayward cat! In just such ways on a vaster scale is woven the web of Māyā, illusion begotten

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produce un significato del tutto estraneo all’originario riferimento lessicale del nome. La mente inferiore è disorientata, non si rende conto di essere condizionata da formule stringenti, e ripiega completamente e con sollievo gioioso sulle sue spiegazioni ovvie preferite, addirittura “vedendo e sentendo” cose che possono aiutarla a togliersi d’impaccio. La parola asparagus [asparago] sotto la pressione degli schemi puramente fonetici del tipo illustrato nella formula della Parte I, diventa sparagras, e poiché sparrer è un forma dialettale per sparrow [passero], abbiamo sparrow grass [lett. «erba dei passeri»], corredata da spiegazioni religiose sulla correlazione tra i passeri e questo tipo di “erba”. Cole slaw [insalata di cavolo] proviene originariamente dal tedesco Kohlsalat, che in inglese sarebbe cabbage salad [insalata di cavolo cappuccio], ma la pressione degli schemi, che tendeva a rimodellarlo in cold slaw ha prodotto un nuovo sostantivo, slaw, e un nuovo piatto, hot slaw. I bambini, naturalmente, inventano sempre schemi nuovi, ma la pressione dell’esempio degli adulti alla fine riporta il loro linguaggio allo standard: imparano quindi che il Mississipi non è Mrs. Sippy, che l’equatore non è una menagerie lion [«leone da serraglio»] ma una imaginary line [«linea immaginaria»]. A volte la comunità degli adulti non possiede le conoscenze necessarie per correggerli. In alcune zone del New England, i gatti persiani di una certa razza vengono chiamati coon cats, e questo nome ha dato origine alla credenza che siano un incrocio tra un cat [«gatto»] e un coon, (raccoon) [«procione»]. Questa credenza è diffusa tra chi non conosce la biologia, perché la pressione dello schema linguistico (nome di animale 1 che modifica il nome di animale 2) li spinge a vedere, (o come dicono gli psicologi “proiettare”) caratteristiche del procione nell’aspetto del gatto: pensano alla coda folta, al pelo lungo ecc. Ho sentito di un caso, reale, di una donna che possedeva uno splendido coon cat, e che discuteva con un’amica: «Ma scusa, basta GUARDARLO! La coda, gli occhi buffi, non vedi?» «Non essere sciocca», rispondeva l’amica, più istruita «pensa alla storia delle scienze naturali: i procioni non possono incrociarsi con i gatti, appartengono a famiglie diverse!» Ma la signora era talmente sicura che si rivolse a un famoso zoologo perché le desse ragione. Si dice che questi le abbia risposto, con impeccabile diplomazia: «Se le piace pensare che sia così, lo pensi pure». «È stato ancora più crudele di te!» commentò lei acidamente con l’amica, e mantenne la ferma convinzione che il suo micino fosse il prodotto di un incontro galante tra un procione casanova e una gattina ribelle. Esattamente allo stesso modo, anche se su scala più vasta, si tesse la tela di Māyā, l’illusione generata

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of intrenched selfhood. I am told that Coon cats received their name from one Captain Coon, who brought the first of these Persian cats to the State of Maine in his ship.

In more subtle matters we all, unknowingly, project the linguistic relationships of a particular language upon the universe, and SEE them there, as the good lady SAW a linguistic relation (Coon = raccoon) made visible in her cat. We say ‘see that wave’ – the same pattern as ‘see that house.’ But without the projection of language no one ever saw a single wave. We see a surface in ever-changing undulating motions. Some languages cannot say ‘a wave’; they are closer to reality in this respect. Hopi say walalata, ‘plural waving occurs,’ and can call attention to one place in the waving just as we can. But, since actually a wave cannot exist by itself, the form that corresponds to our singular, wala, is not the equivalent of English ‘a wave,’ but means ‘a slosh occurs,’ as when a vessel of liquid is suddenly jarred.

English pattern treats ‘I hold it’ exactly like ‘I strike it,’ ‘I tear it,’ and myriads of other propositions that refer to actions effecting changes in matter. Yet ‘hold’ in plain fact is no action, but a state of relative positions. But we think of it, even see it, as an action, because language sets up the proposition in the same way as it sets up a much more common class of propositions dealing with movements and changes. We ASCRIBE action to what we call “hold” because the formula substantive + verb = actor + his action, is fundamental in our sentences. Thus we are compelled in many cases to read into nature fictitious acting-entities simply because our sentence patterns require our verbs, when not imperative, to have substantives before them. We are obliged to say ‘it flashed’ or ‘a light flashed,’ setting up an actor IT, or A LIGHT, to perform what we call an action, FLASH. But the flashing and the light are the same; there is no thing which does something, and no doing. Hopi says only rehpi. Hopi can have verbs without subjects, and this gives to that language power as a logical system for understanding certain aspects of the cosmos. Scientific language, being founded on western Indo- European and not on Hopi, does as we do, sees sometimes actions and forces where

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da egocentrismo inveterato. Mi si dice che i coon cats prendono il loro nome da un certo capitano Coon, che portò i primi esemplari di gatto persiano nel Maine.

In questioni meno grossolane, tutti proiettiamo le relazioni linguistiche di una certa lingua sull’universo, e addirittura le vediamo, così come quella brava signora VEDEVA la relazione linguistica (coon = raccoon) materializzata nel suo gatto. Diciamo «guarda quell’onda», usando lo stesso schema di «guarda quella casa». Ma senza la proiezione della lingua, nessuno ha mai visto una sola onda. Vediamo piuttosto una superficie in moto ondulatorio irregolare. In alcune lingue non puoi dire «un’onda»; sotto questo aspetto sono più vicine alla realtà. I hopi dicono walalata, «si verifica un ondeggiamento multiplo», e possono poi concentrare l’attenzione, se vogliono, su un punto specifico dell’“ondeggiamento” esattamente come facciamo noi. Ma poiché è impossibile in realtà trovare un’onda isolata, la forma cha corrisponde al nostro singolare, wala, non traduce l’inglese a wave [un’onda], bensì significa «si verifica uno spruzzo» come quando un contenitore di liquido venga improvvisamente urtato.

Nello schema inglese, la frase I hold it [lo tengo] è considerata alla stessa stregua di I strike it [lo colpisco], I tear it [lo strappo] e miriadi di altre proposizioni che si riferiscono ad azioni provocanti un cambiamento nella materia. Eppure hold in realtà non è un’azione, ma uno stato di posizioni relative. Ma noi lo pensiamo, e addirittura lo vediamo, come un’azione, perché la lingua costruisce la proposizione allo stesso modo in cui costruisce una classe molto più comune di proposizioni che descrivono movimenti e cambiamenti. Noi attribuiamo la caratteristica di azione a ciò che chiamiamo hold, perché nelle nostre frasi la formula sostantivo più verbo = agente + azione è fondamentale. Perciò in molti casi siamo spinti a leggere nella natura agenti fittizi, solo perché la struttura delle nostre frasi esige che i verbi, a meno che non siano imperativi, siano preceduti da un sostantivo. Siamo obbligati a dire it flashed [ha lampeggiato], o a light flashed [una luce ha lampeggiato], ponendo un soggetto, IT o A LIGHT, che compia quella che noi chiamiamo «azione», flash. Ma il lampeggiare e la luce sono la stessa cosa; non c’è qualcosa che fa qualcos’altro, nessun “fare”. Il hopi dice semplicemente rehpi. La lingua hopi contempla forme verbali prive di soggetto e questo le conferisce il potere, come sistema logico, di comprendere certi aspetti del cosmo. Come noi, anche il linguaggio scientifico, fondato sull’indoeuropeo occidentale e non sul hopi, vede talvolta azioni e forze dove

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there may be only states. For do you not conceive it possible that scientists as well as ladies with cats all unknowingly project the linguistic patterns of a particular type of language upon the universe, and SEE them there, rendered visible on the very face of nature? A change in language can transform our appreciation of the Cosmos.

All this is typical of the way the lower personal mind, caught in a vaster world inscrutable to its methods, uses its strange gift of language to weave the web of Māyä or illusion, to make a provisional analysis of reality and then regard it as final. Western culture has gone farthest here, farthest in determined thoroughness of provisional analysis, and farthest in determination to regard it as final. The commitment to illusion has been sealed in western Indo-European language, and the road out of illusion for the West lies through a wider understanding of language than western Indo-European alone can give. This is the “Mantra Yoga” of the Western consciousness, the next great step, which it is now ready to take. It is probably the most suitable way for Western man to begin that “culture of consciousness” which will lead him to a great illumination.

Again, through this sort of understanding of language is achieved a great phase of human brotherhood. For the scientific understanding of very diverse languages – not necessarily to speak them, but to analyze their structure – is a lesson in brotherhood which is brotherhood in the universal human principle – the brotherhood of the “Sons of Manas.” It causes us to transcend the boundaries of local cultures, nationalities, physical peculiarities dubbed “race,” and to find that in their linguistic systems, though these systems differ widely, yet in the order, harmony, and beauty of the systems, and in their respective subtleties and penetrating analysis of reality, all men are equal. This fact is independent of the state of evolution as regards material culture, savagery, civilization, moral or ethical development, etc., a thing most surprising to the cultured European, a thing shocking to him, indeed a bitter pill! But it is true; the crudest savage may unconsciously manipulate with effortless ease a linguistic system so intricate, manifoldly systematized, and intellectually difficult that it requires the lifetime study of our greatest scholars to describe its workings. The manasic plane and the “higher ego” have been given to all,

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potrebbero esserci solo stati. Forse non riteniamo possibile che gli scienziati, come una vecchia signora con il suo gatto, proiettino del tutto
inconsciamente gli schemi di un particolare tipo di linguaggio sull’universo e li VEDANO lì, concretizzate nella natura? Cambiare la lingua può trasformare la nostra valutazione del Cosmo.

Tutto ciò è caratteristico del modo in cui la mente individuale inferiore, succube di un mondo più vasto, imperscrutabile ai suoi metodi, utilizza il suo strano dono del linguaggio per tessere la tela di Māyā, o illusione, per fare un’analisi provvisoria della realtà e poi considerarla definitiva. In questo, la cultura occidentale è quella che si è spinta più lontano nell’analisi, sistematica e scrupolosa ma provvisoria, e più lontano nell’ostinazione a considerarla definitiva. L’occidente si è consegnato all’illusione, e la lingua indoeuropea è stata il sigillo di questo abbandono; e la via di uscita sta in una comprensione del linguaggio più ampia di quella che può fornire il solo indoeuropeo occidentale. È questo il “mantra” della coscienza occidentale, il grande passo per cui ora è pronta. È probabilmente il modo migliore per l’uomo occidentale di dare inizio a quella “cultura della coscienza” che lo porterà a una grande illuminazione.

Ancora, attraverso questo tipo di comprensione del linguaggio, si raggiunge una grande fase di fratellanza umana. Poiché la comprensione scientifica di lingue molto diverse fra loro, che non significa necessariamente parlarle, ma analizzarne la struttura, è una lezione di fratellanza, che è la fratellanza nel senso umano universale, la fratellanza dei «Figli di Manas». Essa ci permette di trascendere i confini della cultura, della nazionalità, dell’insieme di caratteristiche fisiche chiamato «razza» e scoprire che nei loro sistemi linguistici, pur diversissimi, nell’ordine, l’armonia e la bellezza di questi sistemi, nelle loro diverse sottigliezze e acute analisi della realtà, tutti gli uomini sono uguali. E questo indipendentemente del grado di evoluzione in quanto a cultura materiale, primitività, civilizzazione, sviluppo morale o etico ecc., cosa alquanto scioccante per l’acculturato uomo europeo, un rospo decisamente duro da ingoiare! Ma è la verità: il più rozzo dei selvaggi può senza rendersene conto manipolare con disinvoltura e facilità un sistema linguistico tanto complesso, dalla sistematizzazione talmente varia e così intellettualmente difficile che ai nostri migliori studiosi sarebbe necessaria una vita di studi per descriverne i meccanismi. Il piano manasico e «l’io superiore» sono

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and the evolution of human language was complete, and spread in proud completeness up and down the earth, in a time far anterior to the oldest ruin that molders in the soil today.

Linguistic knowledge entails understanding many different beautiful systems of logical analysis. Through it, the world as seen from the diverse viewpoints of other social groups, that we have thought of as alien, becomes intelligible in new terms. Alienness turns into a new and often clarifying way of looking at things. Consider Japanese. The view of the Japanese that we get outwardly from their governmental policy seems anything but conducive to brotherhood. But to approach the Japanese through an aesthetic and scientific appreciation of their language transforms the picture. THAT is to realize kinship on the cosmopolitan levels of the spirit. One lovely pattern of this language is that its sentence may have two differently ranked subjects. We are familiar with the idea of two ranks of OBJECTS for our verbs, an immediate and a more remote goal, or direct and indirect object as they are commonly called. We have probably never thought of the possibilities of a similar idea applied to SUBJECTS. This idea is put to work in Japanese. The two subjects – call them subject 1 and subject 2 – are marked by the particles wa and ga, and a diagram might show them with a line drawn from each subject word, the two lines converging upon the same predication, whereas our English sentence could have only one subject with one line to the predicate. An example would be the way of saying “Japan is mountainous”: “Japan1 mountain2 (are) many”11; or: “Japan, in regard to its mountains are many.” “John is long-legged” would be “John1 leg2 (are) long.” This pattern gives great conciseness at the same time with great precision. Instead of the vagueness of our “mountainous,” the Japanese can, with equal compactness of formulation, distinguish “mountainous” meaning that mountains not always high are abundant, from “mountainous” meaning that mountains not abundant relative to the whole area are high. We see how the logical uses of this pattern would give to Japanese great power in concise scientific operations

11 “Are” is in parentheses because “be many” is expressed by a single verblike word. The Japanese ordinarily does not use a plural.

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stati dati a tutti, e il tempo in cui l’evoluzione del linguaggio umano si è completata e dispiegata in tutta la sua fiera compiutezza da un capo all’altro della terra è molto più antico della più antica rovina che oggi marcisce nel terreno.

La conoscenza linguistica implica la comprensione di tanti splendidi e diversi sistemi di analisi razionale, attraverso la quale il mondo, che prima, osservato dal punto di vista di gruppi sociali diversi, ci appariva estraneo, diventa comprensibile in modo nuovo. L’estraneità diventa uno strumento nuovo e spesso illuminante di osservazione della realtà. Prendiamo ad esempio il giapponese. L’immagine che abbiamo dei giapponesi dalla loro politica di governo ci appare tutto fuorché portatrice di fratellanza. Ma accostandoci ai giapponesi attraverso una valutazione estetica e scientifica della loro lingua, l’immagine si trasforma. QUESTO significa realizzare la fratellanza nella dimensione cosmopolita dello spirito. Uno schema molto bello di questa lingua è il fatto che contempla la possibilità di avere in una frase due soggetti, di diverso grado. Noi siamo abituati all’idea di avere due OGGETTI di diverso grado per i nostri verbi, un fine immediato e uno più remoto, o un oggetto diretto e indiretto, come vengono comunemente definiti. Probabilmente nessuno ha mai pensato ai risvolti dell’applicazione della stessa idea ai soggetti. Quest’idea è stata invece sviluppata dai giapponesi: i due soggetti, chiamiamoli soggetto 1 e soggetto 2, sono contrassegnati dalle particelle wa e ga, e volendo fare un diagramma si avrebbero le due parole soggetto, da cui partono due linee che convergono sullo stesso predicato, mentre nella frase inglese ci sarebbe un unico soggetto con un’unica linea verso il predicato. Un esempio potrebbe essere la frase: Japan is mountainous [«Il Giappone è montuoso»]: Japan1 mountain2 (are) many»; [«Il Giappone1 monte2 (sono) molti»];12 oppure: Japan, in regard to its mountains are many [Il Giappone, in relazione ai suoi monti, sono molti]. John is long-legged [John ha le gambe lunghe] diventerebbe: John leg2 (are) long [John1 gamba2 (sono) lunghe]. Questa struttura conferisce alla frase una grande concisione, e allo stesso tempo una grande precisione. Invece del nostro vago «montuoso», il giapponese distingue, con la stessa concisione, «montuoso» nel senso che vi sono molti monti, non tutti necessariamente alti, da «montuoso» nel senso che i monti, di scarso numero rispetto all’intera area sono alti. Come si può vedere, un’applicazione adeguata di questo schema darebbe ai giapponesi un grande potenziale nelle

12 «Sono» è fra parentesi perché «essere molti» è espresso da un’unica parola-verbo. In genere il giapponese non usa il plurale.

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with ideas, could this power be properly developed.

The moment we begin scientific, unbiased RESEARCH into language we find, in people and cultures with the most unprepossessing exteriors, beautiful, effective, and scientific devices of expression unknown to western Indo-European tongues or mentalities. The Algonkian languages are spoken by very simple people, hunting and fishing Indians, but they are marvels of analysis and synthesis. One piece of grammatical finesse peculiar to them is called the obviative. This means that their pronouns have four persons instead of three, or from our standpoint two third persons. This aids in compact description of complicated situations, for which we should have to resort to cumbersome phraseology. Let us symbolize their third and fourth persons by attaching the numerals 3 and 4 to our written words. The Algonkians might tell the story of William Tell like this: “William Tell called his3 son and told him4 to bring him3 his3 bow and arrow, which4 he4 then brought to him3. He3 had him4 stand still and placed an apple on his4 head, then took his3 bow and arrow and told him4 not to fear. Then he3 shot it4 off his4 head without hurting him4.” Such a device would greatly help in specifying our complex legal situations, getting rid of “the party of the first part” and “the aforesaid John Doe shall, on his part, etc.”

Chichewa, a language related to Zulu, spoken by a tribe of unlettered Negroes in East Africa, has two past tenses, one for past events with present result or influence, one for past without present influence. A past as recorded in external situations is distinguished from a past recorded only in the psyche or memory; a new view of TIME opens before us. Let 1 represent the former and 2 the latter; then ponder these Chichewa nuances: I came1 here; I went2 there; he was2 sick; he died1; Christ died2 on the cross; God created1 the world. “I ate1” means I am not hungry; “I ate2”

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operazioni scientifiche che richiedono concisione, se questo potenziale potesse essere adeguatamente sviluppato.

Nel momento in cui incominciamo uno STUDIO del linguaggio scientifico e privo di bias, scopriamo in popoli e culture dall’aspetto meno attraente artifici espressivi splendidi, efficaci e scientifici, sconosciuti alla mentalità e alle lingue indoeuropee occidentali. Le lingue algonchine sono parlate da gente molto semplice, indiani che vivono di caccia e pesca, ma sono prodigi di analisi e di sintesi. Una finezza grammaticale caratteristica è quello che si chiama ovviativo: cioè, i pronomi hanno quattro persone anziché tre, o, come la vedremmo noi, hanno due terze persone. Questo facilita la descrizione concisa di situazioni complesse per cui noi dovremmo ricorrere a un goffo giro di parole. Simboleggiamo la loro terza e quarta persona con i numeri 3 e 4. La storia di Guglielmo Tell raccontata da loro potrebbe suonare così: «William Tell called his3 son and told him4 to bring him3 his3 bow and arrow, which4 he4 then brought to him3. He3 had him4 stand still and placed an apple on his4 head, then told him4 not to fear. Then he3 shot it4 off his4 head without hurting him4». [Guglielmo Tell chiamò suo3 figlio e gli4 disse di portargli3 il suo3 arco e freccia, che4 egli4 gli3 portò. Egli3 lo4 fece mettere in piedi fermo e mise una mela sulla sua4 testa, poi prese il suo3 arco e freccia e gli4 disse di non aver paura. Egli3 poi la4 fece schizzare della sua4 testa senza fargli4 del male]. Questo artificio sarebbe di grandissima utilità nelle specificazioni delle nostre complesse situazioni legali, permettendo di eliminare cose come the party of the first part [la parte della prima parte] e the aforesaid John Doe shall, on his part, ecc. [il sopracitato John Doe farà, dal canto suo, …].

Il chichewa, una lingua parlata dagli zulu, una tribù di negri analfabeti dell’Africa orientale, ha due tempi del passato, uno per descrivere eventi passati che hanno esito o effetti sul presente, e uno per eventi passati che non hanno alcun effetto sul presente. Un passato che è registrato in ambienti esterni viene distinto da un passato che è registrato solo nella psiche o nella memoria; si apre davanti a noi una nuova visione del TEMPO. Contrassegniamo il primo con 1 e il secondo con 2, e riflettiamo su queste sfumature del chichewa: I came1 here [sono venuto1 qui]; I went2 there [sono andato2 là]; he was2 sick [egli era2 malato]; he died1 [egli morì1]; Christ died2 on the cross [Cristo morì sulla croce2]; God created1 the world [Dio creò1 la terra]. I ate1 [ho mangiato1] significa che non ho fame; I ate2

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means I am hungry. If you were offered food and said: “No, I have eaten1,” it would be all right, but if you used the other past tense you would be uttering an insult. A Theosophical speaker of Chichewa might use tense 1 in speaking of the past involution of Monads, which has enabled the world to be in its present state, while be might use tense 2 for, say, long-past planetary systems now disintegrated and their evolution done. If he were talking about Reincarnation, he would use 2 for events of a past incarnation simply in their own frame of reference, but he would use 1 in referring to or implying their “Karma.” It may be that these primitive folk are equipped with a language which, if they were to become philosophers or mathematicians, could make them our foremost thinkers upon TIME.

Or take the Coeur d’Alene language, spoken by the small Indian tribe of that name in Idaho. Instead of our simple concept of “cause,” founded on our simple “makes it (him) do so,” the Coeur d’Alene grammar requires its speakers to discriminate (which of course they do automatically) among three causal processes, denoted by three causal verb-forms: (1) growth, or maturation of an inherent cause, (2) addition or accretion from without, (3) secondary addition i.e., of something affected by process 2. Thus, to say “it has been made sweet” they would use form 1 for a plum sweetened by ripening, form 2 for a cup of coffee sweetened by dissolving sugar in it, and form 3 for griddle cakes sweetened by syrup made by dissolving sugar. If, given a more sophisticated culture, their thinkers erected these now unconscious discriminations into a theory of triadic causality, fitted to scientific observations, they might thereby produce a valuable intellectual tool for science. WE could imitate artificially such a theory, perhaps, but we could NOT apply it, for WE are not habituated to making such distinctions with effortless ease in daily life. Concepts have a basis in daily talk before scientific workers will attempt to use them in the laboratory. Even relativity has such a basis in the western Indo-European languages (and others) – the fact that these languages use many space words and patterns for dealing with time.

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significa invece che ho fame. Se ci venisse offerto del cibo e rispondessimo: No, I have eaten1 [grazie, ho mangiato1], andrebbe bene, ma se usassimo l’altro tipo di passato sarebbe un insulto. Un parlante di chichewa teosofo potrebbe usare il tempo passato 1 nel parlare dell’antica involuzione delle monadi, che ha reso possibile il mondo come lo vediamo ora, mentre potrebbe usare il tempo passato 2 per riferirsi, poniamo, ad antichi sistemi planetari ora disgregatisi e la cui evoluzione si è ormai completata. Se parlasse di reincarnazione userebbe il 2 per parlare di eventi di una vita passata unicamente nella loro cornice di riferimento, ma userebbe l’1 se il suo discorso si riferisse o implicasse il loro «Karma». È possibile che questi uomini primitivi siano dotati di una lingua che, se dovessero diventare filosofi o matematici, li renderebbe i nostri migliori pensatori sul tema del TEMPO.

O prendiamo il coeur d’Alene, parlato da una piccola tribù indiana omonima dell’Idaho. Al posto del nostro elementare concetto di «causa efficiente», basato sul nostro semplice makes it (him) do so [gli (a lui o a esso) fa fare ciò], la grammatica dei coeur d’Alene esige che essi distinguano (cosa che ovviamente fanno già in modo automatico) fra tre processi causali, indicati da tre forme verbali causative: 1) crescita o maturazione di una causa interna, 2) aggiunta o accrescimento dall’esterno, 3) aggiunta secondaria, cioè aggiunta di un elemento che ha subito a sua volta un processo. Per dire «it has been made sweet» [è stato reso dolce] userebbero quindi la forma 1) per parlare di una prugna addolcita dalla maturazione, la forma 2) per una tazza di caffè addolcita dall’aggiunta di zucchero, e la forma 3) per delle focaccine addolcite da sciroppo fatto di zucchero sciolto. Se la loro cultura diventasse più sofisticata, e i loro pensatori sviluppassero questa distinzione, per ora inconsapevole, in una teoria di causalità triadica, adatta all’osservazione scientifica, potrebbero dare alla scienza un prezioso strumento intellettuale. E NOI potremmo imitare artificialmente una tale teoria, forse, ma NON applicarla, perché non avvezzi a fare una tale distinzione automaticamente nella vita quotidiana. I concetti hanno un fondamento nella lingua quotidiana prima che gli scienziati tentino di utilizzarle in laboratorio. Perfino la teoria della relatività ha un fondamento del genere nelle lingue indoeuropee occidentali (e anche in altre): il fatto che queste lingue utilizzino, per parlare del tempo, molti termini e schemi riferiti allo spazio.

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Language has further significance in other psychological factors on a different level from modern linguistic approach but of importance in music, poetry, literary style, and Eastern mantram. What I have been speaking of thus far concerns the plane of Manas in the more philosophical sense, the

“higher unconscious” or the “soul” (in the sense as used by Jung). What I am about to speak of concerns the “psyche” (in the sense as used by Freud), the “lower” unconscious, the Manas which is especially the “slayer of the real,” the plane of Kāma, of emotion or rather feeling (Gefühl). In a serial relation containing the levels of Nāma-Rūpa and Arūpa, this level of the unconscious psyche is on the other side of Nāma-Rūpa from Arūpa, and Nāma or lexation mediates in a sense between these extremes. Hence the psyche is the psychological correlative of the phonemic level in language, related to it not structurally as is Nāma or lexation, not by using it as building blocks, as word-making uses the phonemes (vowels, consonants, accents, etc.), but related as the feeling-content of the phonemes. There is a universal, Gefühl-type way of linking experiences, which shows up in laboratory experiments and appears to be independent of language – basically alike for all persons.

Without a serial or hierarchical order in the universe it would have to be said that these psychological experiments and linguistic experiments contradict each other. In the psychological experiments human subjects seem to associate the experiences of bright, cold, sharp, hard, high, light (in weight), quick, high-pitched, narrow, and so on in a long series, with each other; and conversely the experiences of dark, warm, yielding, soft, blunt, low, heavy, slow, low-pitched, wide, etc., in another long series. This occurs whether the WORDS for such associated experiences resemble or not, but the ordinary person is likely to NOTICE a relation to words only when it is a relation of likeness to such a series in the vowels or consonants of the words, and when it is a relation of contrast or conflict it is passed unnoticed. The noticing of the relation of likeness is an element in sensitiveness to literary style or to what is often rather inaccurately called the “music” of words. The noticing of the relation of conflict is much more difficult, much more a freeing oneself from illusion, and though quite “unpoetical” it is really a movement toward Higher Manas, toward a higher symmetry than that of physical sound.

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La lingua ha un’ulteriore importanza in altri fattori psicologici, su un piano diverso da quello dell’approccio della linguistica moderna, ma rilevante per la musica, la poesia, lo stile letterario e il mantra orientale. Quello di cui ho parlato finora riguarda il piano del Manas nel senso più filosofico, l’«inconscio superiore» o «anima» (in senso jungiano). Ciò di cui parlerò ora invece concerne la psiche (in senso freudiano), l’inconscio «inferiore», il Manas che è soprattutto «uccisore del reale», il piano di Kāma, dell’emozione o piuttosto del sentimento (Gefühl). All’interno di un rapporto gerarchico contenente i piani Nāma-Rūpa e Arūpa, questo livello di psiche inconscia si trova all’estremo opposto del Nāma-Rūpa rispetto all’ Arūpa, e il Nāma, o lessicazione, fa in un certo senso da mediatore fra questi due estremi. La psiche è dunque il corrispettivo psicologico del livello fonematico del linguaggio e ha con esso un rapporto non strutturale come il Nāma o lessicazione, non lo utilizza come “assortimento di mattoncini”, come avviene con i fonemi (vocali, consonanti, accenti ecc.) nella costruzione di parole, ma ha una relazione di contenuto affettivo dei fonemi. Esiste un modo universale, di tipo del Gefühl, di associare le esperienze, che emerge dagli esperimenti in laboratorio e appare svincolato dalla lingua, dunque fondamentalmente uguale per tutti.

Se non ci fosse nell’universo un ordine seriale o gerarchico, bisognerebbe concludere che questi esperimenti, psicologici e linguistici, si contraddicono. Negli esperimenti psicologici, pare che i soggetti umani associno le esperienze di bright, cold, sharp, hard, high, light (in weight), quick, high- pitched, narrow, ecc. [luminoso, freddo, aguzzo, duro, alto, leggero, svelto, acuto, stretto, ecc.] in una lunga serie, e invece le percezioni di dark, warm, yielding, soft, blunt, low, heavy, slow, low-pitched, wide ecc. [buio, caldo, cedevole, morbido, arrotondato, basso, pesante, lento, grave, ampio» ecc.] in un’altra lunga serie. Questo avviene indipendentemente dal fatto che le PAROLE di queste esperienze associate si assomiglino o meno, ma generalmente si tende a NOTARE una correlazione tra esperienze e parole solo quando si tratta di una relazione di somiglianza con le vocali o consonanti di tale serie, mentre se c’è una relazione di opposizione o conflitto rimane inosservata. Il cogliere una relazione di somiglianza è un elemento di sensibilità per lo stile letterario, o sensibilità per ciò che viene spesso impropriamente definita la “musicalità” delle parole. Cogliere invece una relazione di conflitto è molto più difficile, e implica molto di più uno sciogliersi dalle illusioni, e benché “poco poetico”, è davvero un movimento verso il Manas superiore, verso una simmetria più alta di quella del suono fisico.

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What is significant for our thesis is that language, through lexation, has made the speaker more acutely conscious of certain dim psychic sensations; it has actually produced awareness on lower planes than its own: a power of the nature of magic. There is a yogic mastery in the power of language to remain independent of lower-psyche facts, to override them, now point them up, now toss them out of the picture, to mold the nuances of words to its own rule, whether the psychic ring of the sounds fits or not. If the sounds fit, the psychic quality of the sounds is increased, and this can be noticed by the layman. If the sounds do not fit, the psychic quality changes to accord with the linguistic meaning, no matter how incongruous with the sounds, and this is not noticed by the layman.

Thus the vowels a (as in ‘father’), o, u, are associated in the laboratory tests with the dark-warm- soft series, and e (English a in ‘date’), i (English e in ‘be’) with the bright-cold-sharp set. Consonants also are associated about as one might expect from ordinary naïve feeling in the matter. What happens is that, when a word has an acoustic similarity to its own meaning, we can notice it, as in English ‘soft’ and German sanft. But, when the opposite occurs, nobody notices it. Thus German zart (tsart) ‘tender’ has such a “sharp” sound, in spite of its a, that to a person who does not know German it calls up the bright-sharp meanings, but to a German it “sounds” soft – and probably warm, dark, etc., also. An even better case is DEEP. Its acoustic association should be like that of PEEP or of such nonsense words as VEEP, TREEP, QUEEP, etc., i.e., as bright, sharp, quick. But its linguistic meaning in the English language happens to refer to the wrong sort of experience for such an association. This fact completely overrides its objective sound, causing it to “sound” subjectively quite as dark, warm, heavy, soft, etc., as though its sounds really were of that type. It takes illusion-freeing, if unpoetic, linguistic analysis to discover this clash between two “musics,” one more mental and one more psychic, in the word. Manas is able to disregard properties of the psychic plane, just as it can disregard whether an equational x refers to automobiles or sheep. It can project parts of its own patterns upon experience in such a way that they distort, and promote

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Ciò che è rilevante per la nostra tesi è che la lingua, attraverso la lessicazione, ha reso il parlante particolarmente sensibile a certe deboli percezioni psichiche, e ha addirittura generato una consapevolezza su piani più bassi di quello della lingua stessa: potenza della natura della magia. Il potere della lingua possiede una capacità yogica di rimanere svincolata dai fatti della psiche inferiore;può ignorarli, ora evidenziarli, ora eliminarli completamente e modellare le sfumature delle parole a suo piacimento, sia che coincidano con il “suono” psichico o meno. Se i suoni coincidono, la qualità psichica del suono aumenta, e questo viene colto anche da un profano. Se non vi è coincidenza invece, la qualità psichica cambia a seconda del significato linguistico, per quanto questo sia in contrasto con i suoni che compongono la parola, e questo non viene colto da un profano.

Perciò le vocali come la a in father [padre], la o e la u, vengono associate nei test di laboratorio al gruppo buio-caldo-morbido, e le e nella pronuncia della a nell’inglese date e la i nella pronuncia di be con il gruppo luminoso-freddo-aguzzo. Anche le consonanti vengono associate più o meno come ci si aspetta dall’ingenuo e comune sentimento in merito. Ciò che avviene è che quando una parola possiede una somiglianza sonora con il suo significato, lo notiamo subito, come nel caso di soft [morbido] in inglese e del tedesco sanft [morbido]. Ma quando si verifica l’opposto, nessuno se ne accorge. Per cui il tedesco zart (con la «z» dura), cioè «tenero», ha un suono «aguzzo», nonostante la sua a, che a chi non conosce il tedesco richiama alla mente i significati della serie luminoso-aguzzo, ma che a un tedesco «suona» MORBIDO, e probabilmente anche caldo, buio ecc. Un esempio anche migliore è DEEP [profondo]. Il suono che gli si dovrebbe associare è lo stesso di PEEP [sbirciare], o di altre parole inventate come VEEP, TREEP, QUEEP ecc, cioè del gruppo luminoso-aguzzo-veloce. Ma il caso vuole che il suo significato linguistico nella lingua inglese si riferisca al tipo sbagliato di esperienza percettiva. Questo fatto ignora completamente il suono oggettivo della parola, facendo sì che essa “suoni” soggettivamente più o meno come buio, pesante, caldo ecc, come se in realtà il suo suono fosse di quel tipo. Occorre un’analisi linguistica libera dall’illusione, se non addirittura impoetica, per scoprire questo contrasto fra due “melodie”, una più mentale e l’altra più psichica, all’interno di una stessa parola. Il Manas è in grado di ignorare le proprietà del piano psichico nello stesso modo in cui è indifferente al fatto che la x di un’equazione rappresenti un’auto o una pecora. Esso può proiettare parti dei suoi schemi sull’esperienza, in un modo tale da distorcere e favorire

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illusion, or again in such a way that they illuminate, and build up scientific theories and tools of research

Yoga is defined by Patanjali as the complete cessation of the activity of the versatile psychic nature.13 We have seen that this activity consists largely of personal-social reactions along unperceived tracks of pattern laid down from the Arūpa level functioning above or behind the focus of personal consciousness. The reason why the Arūpa level is beyond the ken of the consciousness is not because it is essentially different (as if it were, e.g., a passive network) but because the personality does focus, from evolution and habit, upon the aforesaid versatile activity. The stilling of this activity and the coming to rest of this focus, though difficult and requiring prolonged training, is by reliable accounts from widely diverse sources, both Eastern and Western, a tremendous expansion, brightening and clarifying of consciousness, in which the intellect functions with undreamed-of rapidity and sureness. The scientific study of languages and linguistic principles is at least a partial raising of the intellect toward this level. In the understanding of a large linguistic pattern there is involved a partial shift of focus away from the versatile psychic activity. Such understandings have even a therapeutic value. Many neuroses are simply the compulsive working over and over of word systems, from which the patient can be freed by showing him the process and pattern.

All this leads back to the idea touched upon in part I of this essay, that the types of patterned relationship found in language may be but the wavering and distorted, pale, substanceless reflection of a CAUSAL WORLD. Just as language consists of discrete lexation-segmentation (Nāma-Rūpa) and ordered patternment, of which the latter has the more background character, less obvious but more infrangible and universal, so the physical world may be an aggregate of quasidiscrete entities (atoms, crystals, living organisms, planets, stars, etc.) not fully understandable as such, but rather emergent from a field of causes that is itself a manifold of pattern and order. It is upon the bars of the fence, beyond which it would meet

13 Bragon’s paraphrase of the Yoga Sutras, An Introduction to Yoga, Claude Bragdon, New York, 1933.
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l’illusione, o in modo tale invece da illuminare e creare teorie scientifiche e strumenti intellettuali di ricerca.

Lo yoga viene definito da Patanjali come la totale cessazione dell’attività della versatile natura psichica.14 Si è visto che quest’attività è costituita in gran parte da reazioni individuali-sociali che seguono impercettibili percorsi di schemi tracciati del piano dell’Arūpa, che si muove al di sopra o dietro il focus della coscienza individuale. Il fatto che il livello Arūpa si trovi al di là della portata della coscienza non è dovuto a una differenza sostanziale (come se fosse ad esempio una struttura passiva), ma al fatto che la personalità si concentra, per ragioni evolutive e di abitudine, sulla suddetta attività versatile. L’interruzione di questa attività e la sospensione di questa concentrazione, per quanto sia difficile e richieda un allenamento prolungato, è secondo testimonianze attendibili prese da fonti eterogenee, sia provenienti dal mondo orientale che occidentale, un incredibile ampliamento, illuminazione e chiarificazione della coscienza, un momento in cui l’intelletto funziona con una rapidità e sicurezza inimmaginabili. Lo studio scientifico della lingua e dei principi linguistici permette perlomeno un innalzamento parziale dell’intelletto verso questo livello. La comprensione di una grande schema linguistico è implica un parziale spostamento di attenzione dall’attività psichica versatile. Una tale comprensione ha perfino valore terapeutico: molte nevrosi consistono semplicemente nella ripetizione ossessiva di sistemi di parole, dalle quali il paziente può essere liberato mostrandogli il processo e lo schema.

Tutto questo ci riporta all’idea accennata nella prima parte di questo saggio, e cioè che la relazione schematica che si osserva nella lingua potrebbe non essere altro che il riflesso pallido, tremolante, distorto e inconsistente di un MONDO CAUSALE. Così come la lingua consiste in una lessicazione- segmentazione (Nāmā-Rūpa) discreta, e in una schematizzazione ordinata, delle quali la seconda ha più un carattere di sfondo, meno evidente ma più universale e inalterabile, così che il mondo fisico potrebbe essere un aggregato di entità semidiscrete (atomi, cristalli, organismi viventi, pianeti, stelle, ecc.) non pienamente comprensibili come tali, ma emergenti piuttosto da un campo di cause che è esso stesso un vasto insieme di schema e ordine. Ed è a cavallo di questo steccato, oltre il quale attendono

14 È la parafrasi di Bragdon delle Sūtra dello Yoga in An Introduction to Yoga, Claude Bragdon, New York, 1933.

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these CHARACTERS OF THE FIELD, that science is now poised. As physics explores into the intra-atomic phenomena, the discrete physical forms and forces are more and more dissolved into relations of pure patternment. The PLACE of an apparent entity, an electron for example, becomes indefinite, interrupted; the entity appears and disappears from one structural position to another structural position, like a phoneme or any other patterned linguistic entity, and may be said to be NOWHERE in between the positions. Its locus, first thought of and analyzed as a continuous variable, becomes on closer scrutiny a mere alternation; situations “actualize” it, structure beyond the probe of the measuring rod governs it; three-dimensional shape there is none, instead – “Arūpa.”

Science cannot yet understand the transcendental logic of such a state of affairs, for it has not yet freed itself from the illusory necessities of common logic which are only at bottom necessities of grammatical pattern in Western Aryan grammar; necessities for substances which are only necessities for substantives in certain sentence positions, necessities for forces, attractions, etc. which are only necessities for verbs in certain other positions, and so on. Science, if it survives the. impending darkness, will next take up the consideration of linguistic principles and divest itself of these illusory linguistic necessities, too long held to be the substance of Reason itself.

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gli ATTORI DI QUESTO CAMPO, che ora la scienza si trova ferma. Mentre la fisica indaga i fenomeni subatomici, le forze e le forme discrete si dissolvono sempre più in relazioni di pura schematizzazione. Il LUOGO di un’entità apparente, un elettrone ad esempio, diventa indefinito, interrotto; l’entità appare e scompare da una posizione strutturale all’altra, come un fonema o qualunque altra entità linguistica che segue uno schema predefinito, e di esso si può dire che si trova in NESSUN LUOGO tra le due posizioni. Il suo luogo, prima considerato e analizzato come una variabile costante, diventa dopo un’analisi più attenta un mero alternarsi di posizioni; le singole situazioni lo «attualizzano», e lo governa una struttura oltre la portata del suo metro di misura; non esiste una forma tridimensionale, bensì qualcosa d’altro: «Arūpa».

La scienza non è ancora in grado di comprendere la logica trascendentale di un tale stato di cose, non essendosi ancora liberata dalle illusorie necessità della logica comune, che sono solo le necessità di fondo dello schema grammaticale della grammatica ariana occidentale; le necessità di sostanze, che sono solo la necessità di sostantivi in una certa posizione della frase, e necessità di forze, attrazioni ecc, che sono solo la necessità di verbi in certe altre posizioni e così via. Il prossimo passo della scienza, se riuscirà a superare le tenebre incombenti, sarà di intraprendere l’analisi dei principi linguistici e spogliarsi di queste illusorie necessità linguistiche, troppo a lungo identificate con la sostanza stessa della Ragione.

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V. V. Ivànov: il ruolo della semiotica nello studio cibernetico dell’uomo e della collettività

V. V. Ivànov: il ruolo della semiotica nello studio cibernetico dell’uomo e della collettività

MARILENA ZARDONI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di Partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della mediazione linguistica primavera 2008

© V. V. Ivanov per l’articolo originale 1965 © Marilena Zardoni per il testo italiano 2008

Ivànov: il ruolo della semiotica nello studio cibernetico dell’uomo e della collettività

Ivanov: the Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective

ABSTRACT IN ITALIANO
La tesi consiste nella traduzione, nell’analisi e nel commento del saggio di Vâčeslav Ivanov The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective, del 1965, pubblicato inizialmente nella rivista del Dipartimento di semiotica dell’Università di Tartu Sign System Studies, e infine nel libro Soviet Semiotics. Questo saggio offre lo spunto per approfondire alcuni dei concetti fondamentali della semiotica estone-russa applicata alla traduzione: il «linguaggio d’intermediazione», ossia il “linguaggio terzo” che funge da intermediario tra prototesto e metatesto, il «linguaggio interno», ossia il processo d’interiorizzazione del linguaggio nel pensiero, e i «sistemi di modellizzazione» primari e secondari, i linguaggi naturali e i linguaggio scientifici. Ivanov presenta la semiotica come disciplina che, affiancata dalla cibernetica, permette di analizzare e modellizzare l’uomo e la collettività, concezione comune a tutti i rappresentanti della «Scuola di Tartu-Mosca», di cui Ivanov è un illustre esponente. In questa tesi si cerca quindi di capire se sarebbe possibile scomporre in modo efficace ogni singola fase del processo traduttivo e modellizzare anche la traduzione.

ENGLISH ABSTRACT
This thesis presents a translation and analysis with commentary of Vâčeslav Ivanov’ s essay The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective (1965). This was initially published in the journal of the Department of Semiotics of the University of Tartu, Sign System Studies, and later in the book Soviet Semiotics. This essay investigates some of the main Estonian-Russian semiotic concepts linked to translation, such as “intermediate language”, i.e. the “third language” functioning as intermediary between prototext and metatext, “internal speech”, i.e. the interiorization process of language in the mind, and the primary and secondary “modeling systems”, or natural and scientific languages. According to Ivanov, semiotics, supported by cybernetics, makes it possible to analyze and produce models of both man and collective; this concept is also shared by the other members of the “Tartu-Moscow School”. In this thesis I have tried to understand if it is possible to decompose every phase of the translating process and produce models of translation.

ZUSAMMENFASSUNG

Die vorliegende Diplomarbeit besteht aus der Übersetzung, der Analyse und dem Kommentar des 1965 veröffentlichten Essays The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective. Er wurde anfangs in der Zeitschrift Sign System Studies des Fachbereichs Semiotik der Universität Tartu und später im Werk Soviet Semiotics veröffentlicht. Dieser Essay gibt den Anlass zur V ertiefung einiger der Grundbegriffe der auf die Übersetzungswissenschaft angewandten estnisch-russischen Semiotik: die «Vermittlungssprache», das heißt die „dritte Sprache“, die als Vermittlerin zwischen Ausgangs- und Zieltext gilt, die «interne Sprache», das heißt der Internalisierungsprozess der Sprache im Denken, und die primären und sekundären «modellbildenden Systeme», die natürlichen und künstlichen Sprachen. Dank der Semiotik und Kybernetik können der Mensch und die Gemeinschaft analysiert und modellgebildet werden. Auch die anderen Mitglieder der „Tartu-Moskau Schule“ teilen diesen Begriff Ivanovs. In dieser Diplomarbeit wird versucht herauszufinden, ob es möglich wäre, auch jede Phase des Übersetzungsprozesses zu zerlegen und die Modellbildung der Übersetzung zu erreichen.

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Sommario

Abstract in italiano ……………………………………………………………………………..3 English Abstract …………………………………………………………………………………. 3 Zusammenfassung ……………………………………………………………………………… 3 Sommario……………………………………………………………………………………………… 4 1. Prefazione………………………………………………………………………………………… 5

1.1 Introduzione…………………………………………………………………….5 1.2 V. V. Ivanov e la scuola di Tartu-Mosca……………………………..5 1.3 I sistemi di modellizzazione……………………………………………….7 1.4 Il linguaggio d’intermediazione …………………………………………. 8 1.5 Il linguaggio interno …………………………………………………………. 9 1.6 Riferimenti bibliografici…………………………………………………..12

2. Traduzione con testo a fronte …………………………………………………… 14

The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective…………………………………………………………………………………. 15 Il ruolo della semiotica nello studio cibernetico dell’uomo e della collettività ………………………………………………………………………………… 16

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1. Prefazione

1.1 Introduzione

Questa tesi si basa sulla traduzione e sull’analisi di un saggio di V. V. Ivanov The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective, del 1965, in cui l’autore presenta la semiotica come una disciplina fondamentale per lo studio preliminare di una situazione umana (o comunque non matematizzata) per individuare regolarità e algoritmi da usare poi in applicazioni di tipo cibernetico. Parole chiave del suo saggio sono, infatti, traduzione automatica, linguaggio naturale, linguaggio artificiale e linguaggio d’intermediazione.

Il saggio è stato anche pubblicato come capitolo del libro Soviet Semiotics, a cura di Daniel P. Lucid. Il libro consiste in un insieme di saggi di diversi rappresentanti della scuola semiotica estone-russa.

1.2 V. V. Ivanov e la scuola di Tartu-Mosca

Vâčeslav Ivanov nasce a Mosca nel 1929. La grave malattia che, ancora bambino, lo obbliga a letto per molto tempo, non ostacola i suoi studi; studia a casa grazie all’aiuto del padre, Vsevolod Ivanov, scrittore. Terminati gli studi nel 1946, si iscrive alla facoltà di filologia inglese dell’Università di Mosca dove, una volta conseguita la laurea, lavora come docente non titolare di cattedra presso la facoltà di Linguistica generale e comparativa. In questi anni aumenta il suo interesse per gli studi riguardanti la traduzione automatica e, tra il 1959 e il 1961, collabora con la facoltà di Linguistica generale per la traduzione automatica dell’Istituto pedagogico statale di lingue straniere e dirige il gruppo di ricerca per la traduzione automatica presso l’Accademia delle scienze di Mosca.

V. V. Ivanov è, insieme a Û. M. Lotman e B. A. Uspenskji, uno dei maggiori rappresentanti della scuola semiotica cresciuta attorno alle università di Tartu e di Mosca e che per questo motivo ha preso il nome di «scuola di Tartu-Mosca»: ha avuto ufficialmente inizio con il Simposio sullo studio strutturale dei sistemi di segni tenutosi a Mosca nel 1962 e ha riunito due tradizioni: la tradizione linguistica moscovita, con un

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orientamento chiaramente linguistico (linguistica matematica), e la tradizione critica letteraria di Leningrado, il cui orientamento era prettamente storico e vòlto a uno studio scientifico dei testi letterari e culturali. «Questo diverso background culturale era all’inizio tangibile, ma poi si è rivelato molto fruttuoso, poiché i due gruppi si sono arricchiti reciprocamente, comunicandosi i rispettivi interessi» ha sottolineato Uspenskij. Questi studiosi lavorano non sul segno in sé, ma sui sistemi di segni, sui rapporti sistemici tra i segni, sulla lingua in quanto meccanismo generatore di segni.

Nel 1973 Û. M. Lotman, V. V. Ivanov, A. M. Pâtigorskij, V. N. Toporov e B. A. Uspenskij hanno pubblicato un documento, Tesi sullo studio semiotico della cultura, che racchiude i princìpi fondamentali su cui si basa la scuola: questi studiosi coltivano un interesse particolare per il concetto di «testo», struttura mediante la quale una cultura acquisisce informazioni su sé stessa e tutto ciò che la circonda.

Comune denominatore a tutti questi ricercatori è sicuramente l’interesse per la semiotica della cultura e per la lingua, sistema primario poiché capace di parlare di tutti gli altri sistemi e di modellizzare la realtà. La cultura ha dunque un ruolo primario nello studio di questi ricercatori, poiché in grado di plasmare la collettività. Il concetto di «natura» si contrappone a questo punto al concetto di «cultura»; Lotman sostiene pertanto che «[…] se per la sopravvivenza biologica di un singolo individuo è sufficiente che vengano soddisfatti determinati bisogni naturali, la vita di una collettività, quale che sia, non è possibile senza una cultura […] Tutti i bisogni dell’uomo si possono ripartire in due gruppi. Gli uni richiedono una soddisfazione immediata e non possono (o quasi) venire accumulati. […] I bisogni che possono essere soddisfatti mediante l’accumulazione di riserve formano un gruppo distinto. Essi sono la base oggettiva per l’acquisizione, da parte dell’organismo, di informazione extragenetica» (Lotman 1987:26-27). L’uomo, a differenza di tutti gli altri esseri viventi, è in grado di far parte di entrambi i sistemi, natura e cultura. Però, secondo Lotman, esiste anche uno spazio di «non cultura» (non semiotico), ossia «quella sfera che funzionalmente appartiene alla cultura, ma non ne adempie le regole» (Lotman 1987:30), tutto ciò che fa da sfondo alla cultura senza farne parte.

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1.3 I sistemi di modellizzazione

Oggetto di studio di questi studiosi è la semiotica della cultura, in quanto è la cultura a definire la relazione uomo-realtà. La cultura viene percepita come l’insieme di tutti i sistemi modellizzanti, ossia il sistema primario, il linguaggio, e tutti i sistemi secondari. Il linguaggio è quindi il sistema modellizzante “spontaneo” sul quale si costruiscono tutti i sistemi artificiali o di secondo grado. Il sistema che assicura una maggior coesione interna in qualsiasi società è infatti quello linguistico, che regola ogni possibilità di comunicazione fra i suoi membri e sta alla sua base. In questo caso il linguaggio viene percepito come grammatica di una comunità, come sistema dei sistemi semiotici modellizzanti e «generatore» di tutti i testi verbali e non verbali.

Il concetto di «sistemi di modellizzazione» è uno dei concetti fondamentali della semiotica della cultura, e Lotman nel suo saggio Tezisy k probleme ‘Iskusstvo v râdu modeliruûŝih sistem’1 ne fornisce una definizione:

Un sistema di modellizzazione consiste in un’organizzazione di elementi, e di regole per combinarli, che è in uno stato di analogia costante rispetto a tutta la sfera di un oggetto di conoscenza, intuizione o regolazione. Per questo motivo un sistema di modellizzazione può essere considerato un linguaggio. I sistemi che si basano su un linguaggio naturale e che acquisiscono sovrastrutture supplementari, dando vita in tal modo a un linguaggio di secondo livello, possono essere definiti in modo appropriato «sistemi di modellizzazione secondaria» (Lotman 1967:130-1).

I sistemi segnici, quelli naturali e quelli artificiali, hanno quindi il compito di modellizzare il mondo, un mondo che non viene dunque percepito come un qualcosa di puramente naturale, ma come un macrosistema modellizzato dai numerosi sistemi segnici. Ogni lingua viene considerata «un sistema di comunicazione e allo stesso tempo di modellizzazione, nel senso che ogni lingua serve a comunicare e, in modo indissolubilmente legato con la comunicazione, a rappresentare il mondo e a stabilire norme di comportamento, mentale e pratico» (Lotman 1967:130-1).

1

Tesi per il problema «L’arte nella serie dei sistemi di modellizzazione».

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1.4 Il linguaggio d’intermediazione

«Il compito più importante consiste nella traduzione tra linguaggi scientifici e nella costruzione di nuovi linguaggi artificiali per renderla possibile» (Ivanov).
Questa frase finale del saggio di Ivanov (vedi capitolo 2) mi offre lo spunto per analizzare uno dei concetti fondamentali della semiotica estone-russa: parlando di «nuovi linguaggi artificiali» Ivanov fa infatti riferimento ai linguaggi d’intermediazione, ossia a quei linguaggi descrittivi che fungono da intermediario tra i linguaggi di due discipline scientifiche. Anche il semiotico bulgaro Aleksandr Lûdskanov si è espresso in sintonia con il pensiero della scuola di Tartu-Mosca:

L’identificazione del significato degli elementi linguistici presuppone un sistema di riferimento comune. Questo sistema di riferimento, che può essere un linguaggio artificiale o naturale o verbale che rispecchia l’esperienza comune della realtà, verrà convenzionalmente chiamato «linguaggio d’intermediazione» (Lûdskanov 2008:XII).

Secondo il semitico bulgaro tale linguaggio d’intermediazione «dev’essere un sistema semiotico superordinato che metta in relazione i mezzi e le strutture dei due linguaggi naturali dati e che rifletta le rispettive diverse modalità di segmentazione della realtà» (Lûdskanov 2008:XIII). Lo si utilizza sia nella traduzione umana che in quella automatica e, a seconda del grado di difficoltà ai vari livelli traduttivi, può combaciare con un dizionario, una grammatica, formule matematiche, un’altra lingua straniera o addirittura una certa tradizione culturale. Il prototesto e il metatesto sono visti come due elementi ben distinti, giustapposti o in opposizione a un tertium comparationis, codice di mediazione tra i due testi. Se due enunciati di due lingue devono essere in qualche modo corrispondenti, significa che dovrebbero poter essere scomposti in unità e descritti in un linguaggio terzo, un metalinguaggio.

È esattamente ciò che postulano molti studiosi della traduzione automatica. Deve esistere un tertium comparationis che permette il passaggio di espressione dalla

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lingua A alla lingua B garantendo che entrambe siano equivalenti a un’espressione nel metalinguaggio (Eco 2001:11).

È però lo stesso Eco che, dopo aver offerto una definizione del concetto di «linguaggio d’intermediazione», giunge a una conclusione che mette completamente in crisi la tesi precedente. Il problema che sorge è il seguente: se per stabilire che due enunciati sono equivalenti mi servo di un certo “linguaggio della lingua”, chi mi garantisce che tale metalinguaggio descriva la lingua in modo soddisfacente? Chi mi assicura che questo “linguaggio C” sia completamente affidabile? Occorrerebbe un “linguaggio D” mediante il quale dimostrarlo… ma questo è un evidente circolo vizioso.

È quindi vero che non si potrà mai essere del tutto certi – quantomeno a livello interpersonale – che questo linguaggio terzo comune possa essere un modello valido per i sistemi analizzati.

1.5 Il linguaggio interno

Alcuni studiosi identificano il linguaggio d’intermediazione con il linguaggio interno, o mentale. Tale linguaggio, postulato e analizzato a fondo dal linguista L. Vygotskij, consiste in un processo d’interiorizzazione del linguaggio nel pensiero. È sostanzialmente diverso dal linguaggio esterno: essendo un linguaggio per sé, che non necessita di interlocutori, esso è abbreviato, frammentato, privo di quella rigida struttura sintattica che caratterizza il linguaggio esterno:

[…] il linguaggio per sé non può affatto trovare la sua espressione nella struttura del linguaggio esterno, completamente diverso per la sua natura; la forma di linguaggio, che è del tutto particolare per la sua natura […] deve avere necessariamente una sua forma d’espressione speciale, poiché il suo aspetto fasico cessa di coincidere con l’aspetto fasico del linguaggio esterno (Vygotskij 1990:354).

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Una delle caratteristiche principali di tale linguaggio è la predicatività: ci si trova di fronte al solo utilizzo di predicati poiché il soggetto, in quanto costantemente noto al parlante, viene sottinteso e per questo omesso.
Anche Lûdskanov, come Vygotskij, sostiene l’esistenza di un linguaggio nel quale “parla” la memoria, formato da unità non verbali, nel quale vengono tradotte le informazioni del prototesto e dal quale vengono tradotte le informazioni del metatesto. Nel caso si consideri il linguaggio interno di Vygotskij linguaggio d’intermediazione nel processo della traduzione interlinguistica, la traduzione consisterebbe, a grandi linee, in tre fasi: prototestolinguaggio internometatesto. Il traduttore, una volta accolto il prototesto, lo rielabora per mezzo di un “codice” personale che, come lo stesso Vygotskij tiene a sottolineare, non deve essere considerato come un linguaggio privato del suono, ma come una funzione verbale del tutto particolare e originale per la sua struttura e le sue modalità di funzionamento; il terzo passaggio consiste in una seconda rielaborazione, ossia nel “mettere in parole”, nel tradurre in un linguaggio esterno comune, comprensibile a tutti gli altri individui.

In questo caso la questione del tertium comparationis si sposta dal piano della logica interpersonale a quello personale. Il linguaggio interno, per quanto completamente soggettivo, per il singolo soggetto è necessariamente strutturato in un dato modo preciso. Dato che la traduzione interlinguistica avviene nella mente del singolo traduttore, il concetto di «linguaggio interno» non risolve, ma in qualche modo supera ugualmente, il problema logico, poiché – prima che il testo si materializzi nella ricodifica metatestuale – si tratta di un processo di autocomunicazione.

Quello che a un livello della cultura è un processo di comunicazione e un dialogo tra emittente e ricevente, a un livello più alto o più basso può essere considerato autocomunicazione della cultura e dialogo della cultura con sé stessa (Torop 2008:16).

La questione, dal punto di vista pratico, si sposta semmai sulla relazione interpersonale fra traduttore e revisore: i due, in quanto individui che non condividono uno stesso linguaggio interno d’intermediazione, spesso non concordano sulle presunte “corrispondenze” tra brani del prototesto e brani del metatesto. Questione tanto più

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grave qualora la revisione avvenga senza che il traduttore sia presente o, comunque, coinvolto.

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1.6 Riferimenti bibliografici

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12

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VYGOTSKIJ L. S. Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Bari, Laterza, 1990:354- 363

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2. Traduzione con testo a fronte

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The Role of Semiotics in the Cybernetic Study of Man and Collective∗

1. Semiotics, the theory of sign systems, arose at the junction of various sciences that

investigate the sign systems used in human society: the natural languages studied by

linguistics, the artificial formalized languages analyzed in mathematical logic, and

1 others .

Any sign requires the presence of a signifying, material aspect by which the sign can be perceived by human sense organs or the appropriate instruments and a signified aspect or meaning that correlates the sign with certain objects situated outside the sign system. For example, for the signs of street signals, the colored signals (yellow, green, red) are the signifying aspect, and the messages (“go,” “stop”) are the signified aspect. For the words of natural language, a sequence of acoustic signals (spoken language) or optical signals (written language) is the signifying aspect, and a word’s meaning, defined by translation into another language or correlation with extralinguistic objects, is the signified aspect.

In various processes of recoding or translation, only the sign’s signifying aspect changes, while the signified aspect or meaning remains unchanged (for example, when a word of written language is presented in a cipher code); Shannon defined meaning accordingly as the invariant in mutually synonymous operations of translation and recoding. In work with the handicapped, it may be physically impossible to employ the usual linguistic signs, but one has recourse to variants that retain the same set of meanings, although the signs have a different material aspect, as in the tactile language of the blind-deaf-and- dumb. For this reason, it proves possible to insert the diverse signs used in human society into a computer and to employ the machine for various operations on signs and sign systems such as machine translation, machine review, and machine demonstration

∗ This article originally appeared as “Rol ́ semiotiki v kibernetičeskom issledovanii čeloveka i kollektiva” [The Role of semiotics in the cybernetic study of man and collective], in Logičeskaâ struktura naučnogo

znaniâ [The logical structure of scientific knowledge] (Moscow: Nauka, 1965), 75-90.

1

It is significant that the linguist Ferdinand de Saussure, father of modern structural linguistics, and the logician Charles Sanders Peirce, one of the founders of mathematical logic, concluded independently of one another that it was necessary to create a special science, semiotics.

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Il ruolo della semiotica nello studio cibernetico dell’uomo e della collettività

1. La semiotica, disciplina che studia i sistemi di segni, nasce dall’unione di numerose

scienze che hanno come oggetto i sistemi segnici usati dalla società: i linguaggi naturali

1 studiati dalla linguistica, i linguaggi artificiali analizzati dalla logica matematica e altri .

Ogni segno richiede la presenza di una parte concreta significante, quella percepita dai sensi o da strumenti appropriati, e un aspetto significativo, che collega il segno a determinati oggetti posti al di fuori del sistema di segni. Se si prendono come esempio i semafori stradali, i colori giallo, verde, rosso sono l’aspetto significante, e i messaggi («via,» «alt») l’aspetto significativo. Per quanto riguarda le parole del linguaggio naturale, l’aspetto significante consiste nella sequenza di segnali acustici (linguaggio orale) o visivi (linguaggio scritto), mentre quello significativo coincide con il significato della parola, specificato nella traduzione in un altra lingua o nel rapporto con oggetti extralinguistici.

Nei numerosi processi di ricodifica o traduzione, ciò che cambia è l’aspetto significante, mentre l’aspetto significativo rimane invariato (come avviene, per esempio, quando una parola del linguaggio scritto si presenta sotto forma di codice cifrato); Shannon, di conseguenza, ha definito il significato come invariante nelle operazioni reciprocamente sinonimiche di traduzione e ricodifica. Quando si lavora con persone invalide può risultare fisicamente impossibile utilizzare i consueti segni linguistici, ma si può ricorrere a varianti che mantengano lo stesso insieme di significati, sebbene i segni abbiano un aspetto materiale diverso, così come accade per il linguaggio tattile dei sordomuti ciechi.

Per questo motivo è possibile inserire i diversi segni utilizzati dalla società in un computer e adoperare tale macchina per numerose operazioni riguardanti i segni e i sistemi di segni, come la traduzione, la revisione e la dimostrazione di teoremi. In

1

È significativo il fatto che il linguista Ferdinand de Saussure, padre della linguistica strutturalista moderna, e il logico Charles Sanders Peirce, uno dei fondatori della logica matematica, sono arrivati indipendentemente l’uno dall’altro alla conclusione che fosse necessario dare vita a una nuova scienza, la semiotica.

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of theorems. Of course, as Oettinger formulated most distinctly, in this instance numbers are only a means of codifying other signs, such as the words of language or the signs of the formalized languages of mathematical logic utilized in computers; therefore, it is advisable to speak not only of computing machines, but also of semiotic machines. 2. From the viewpoint of contemporary cybernetics and semiotics, man can be described as a mechanism that performs operations on signs and sign sequences. Similarities and differences between the working of brain and computer pose the question, “people or machines?” Similarities and differences between human and animal behavior and intellectual activity pose the closely related question, “people or animals?” These questions amount for the most part to investigation of the relation between the sign systems used in human society and the sign systems employed in modern machines and animal signalization. Recently discovered data on signalization in animals such as bees, dolphins, and chimpanzees make it possible to ascertain a number of important distinctions between these systems of signalization and the sign systems, including natural language, used in human society. Animal signalization is characterized by the absence of different levels within each sign system. For animals, each signal is indivisible, in contrast to human language, which distinguishes the level of phonemes or letters of the alphabet, the level of words, the level of syntagms, and so on. Moreover, usually only one system of signalization is used within an animal collective, in contrast to human collectives, which have diverse sign systems serving the same collective. Chimpanzees constitute one of the rare exceptions: they display a potential for parallel utilization of acoustic and optical systems of signalization. Chimpanzees also reveal a closer analogy to human semiotic systems in other respects, and can be supposed to possess an analogue to the cultural-historical mode of transmitting information in time as well as possessing the genetic mode of transmitting information that seems to prevail without exception in all other animals except the anthropoid apes.

One of the most important distinctions between animal signalization and human natural language is that for animals each signal is correlated with one strictly defined class of situation, comparable to the air raid signal in the human collective. In this respect, animal signalization is more similar to those formalized languages used in modern

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questo caso, come aveva già illustrato chiaramente Oettinger, i numeri sono solo un mezzo per codificare altri segni, come le parole di una lingua o i segni dei linguaggi formalizzati della logica matematica utilizzati nei computer; per questo motivo è opportuno parlare di macchine semiotiche e non solo di macchine da calcolo.

2. Dal punto di vista della cibernetica e della semiotica odierne, l’uomo può essere descritto come un meccanismo che opera con segni e sequenze di segni. Similarità e differenze tra il lavoro cerebrale e quello del computer sollevano una questione «persone o macchine?». Similarità e differenze tra il comportamento e l’attività intellettuale di uomini e animali forniscono lo spunto per un’ulteriore domanda, strettamente collegata alla prima, «persone o animali?». Tali domande corrispondono principalmente allo studio del rapporto tra i sistemi di segni utilizzati dalla società umana e quelli impiegati dalle moderne macchine e dagli animali.

Dati recenti riguardanti la segnalizzazione di animali come api, delfini e scimpanzé, hanno permesso di constatare numerose importanti differenze tra tali sistemi di segnalizzazione e i sistemi di segni, compreso il linguaggio naturale, utilizzati dagli esseri umani. La segnalizzazione degli animali è caratterizzata dall’assenza di livelli diversi all’interno di ogni sistema segnico. Per gli animali ogni segnale è inscindibile, a differenza di quanto avviene nel linguaggio umano, che distingue il livello dei fonemi o delle lettere dell’alfabeto, il livello delle parole, il livello dei sintagmi, etc. Inoltre all’interno del gruppo animale generalmente viene utilizzato solo un sistema di segnalizzazione, a differenza delle comunità umane, caratterizzato da diversi sistemi di segni attivi in una stessa comunità. Gli scimpanzé costituiscono una delle rare eccezioni: essi manifestano la capacità di poter usare parallelamente i sistemi acustici e visivi di segnalizzazione. Sotto altri aspetti gli scimpanzé rivelano una stretta analogia coi sistemi semiotici degli esseri umani, e si potrebbe pensare che abbiano una modalità analoga a quella storico-culturale di trasmettere informazioni nel tempo, così come una modalità genetica di trasmettere informazioni che sembrano predominare senza eccezioni in tutti gli altri animali, ad eccezione delle scimmie antropoidi.

Una delle più importanti distinzioni tra la segnalizzazione degli animali e il linguaggio naturale dell’uomo è che per gli animali ogni segnale è correlato a una sola classe di situazioni ben precisa, paragonabile al segnale di incursione aerea nella società umana. Sotto questo aspetto la segnalizzazione animale è più simile ai linguaggi formalizzati

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machines and pertaining to a limited sphere of objects than to natural languages, in which each sign can have any meaning with the sole stipulation being that it must not be confused with other signs that belong to the same local vocabulary; thus it is prohibited to confuse words such as “salt,” “pepper,” and “mustard,” but the word “salt” can acquire other meanings in a specific context: for instance, in the expression “salt of the earth” in poetic language.

The earliest stages in the development of the language of an individual or of a whole collective are typified by a complexity of meanings in which a sign or word functions as the family name for an emtire complex of heterogeneous objects. This phenomenon occurs both in baby talk and in the languages of certain Australian tribes that retain extremely archaic features. In the Aranda language, the same word is used to mean “roots of the water lily covered by water,” “humam bones,” “who?,” “sleeping people,” and “night,” which are united by the common trait, “relation to the invisible and unapparent.” A similar complexity of meanings is found not only in normal development but in the pathology of dissociation and in the language of schizophrenics. In the subsequent development of language and of human intellectuall activity, complex meanings remain characteristic of everyday conversational language, poetic language, and the language of the human scieinces, but there are also meanings that are formed in correlation with strictly defined fields of subject matter.

Scientific development comes about by means of the continuial interaction of scientific languages, which are formalized or are being formalized, with nonformalized natural language; the latter, because it lacks a whole number of fixed semantic restrictions, can describe the entire diversity of human experience, including phenomena that still cannot be described scientifically or can no longer be described scientifically as a result of human errors. Natural language remains the fundamental interpretation for all the formalized languages cornstructed upon it. Indeed, possession of natural language and the sign systems constructed upon it is the specific particularity of man. Therefore, machines could only be included definitively in human society if the problem of teaching natural language to machines were solved, a prospect that lends the greatest theoretical interest to research in the fields of machine translation and the vocal control of automata.

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utilizzati dalle macchine moderne, riguardanti una sfera limitata di oggetti, piuttosto che ai linguaggi naturali, all’interno dei quali ogni segno può avere qualsiasi significato con la sola condizione che non deve essere confuso con altri segni che appartengono allo stesso vocabolario locale; pertanto è proibito confondere parole come «sale», «pepe» e «senape», ma la parola «sale», in contesti specifici, può acquistare altri significati: per esempio nell’espressione del linguaggio poetico «sale della terra».

I primi stadi nello sviluppo della lingua di un individuo o di un’intera comunità, sono caratterizzati da una complessità di significati, in cui un segno o parola funge da nome collettivo di un intero insieme di oggetti eterogenei. Tale fenomeno si verifica sia nel linguaggio dei bambini sia nelle lingue di alcune tribù australiane che conservano caratteristiche estremamente arcaiche. Nella lingua aranda si utilizza la stessa parola per significare «radice della ninfea coperta dall’acqua», «ossa umane», «chi?», «persone che dormono» e «notte», tutti concetti legati da un tratto comune: «rapporto con ciò che non è visibile e apparente». È possibile trovare una simile complessità di significati non solo nello sviluppo fisiologico, ma anche nella patologia della dissociazione psichica e nella lingua degli schizofrenici. Nel successivo sviluppo della lingua e dell’attività intellettuale dell’uomo, significati complessi rimangono caratteristici del linguaggio colloquiale quotidiano, del linguaggio poetico e del linguaggio delle scienze umane, ma ci sono anche significati che si formano in rapporto ad ambiti specifici.

Lo sviluppo scientifico avviene mediante la costante interazione tra i linguaggi scientifici, formalizzati o che si stanno formalizzando, e il linguaggio naturale non formalizzato; quest’ultimo, poiché privo di molte restrizioni semantiche rigide, può descrivere la totale molteplicità dell’esperienza umana, compresi i fenomeni che non possono ancora essere descritti scientificamente, o che non possono più essere descritti scientificamente, a causa di errori umani. Il linguaggio naturale continua ad essere l’interpretazione basilare di tutti i linguaggi formalizzati costruiti sulla sua base. In effetti solo l’uomo possiede il linguaggio naturale e sistemi segnici costruiti su di esso. Perciò le macchine potrebbero essere inserite definitivamente nella società umana solo se si riuscisse a risolvere il problema di insegnare loro il linguaggio naturale, prospettiva che conferisce il più grande interesse teorico alla ricerca nei campi della traduzione automatica e nel controllo vocale delle macchine automatiche.

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The strictly human features that distinguish man from animal can be defined wholly in terms of specifically human sign systems that allow man to take part in a collective. This distinction is demonstrated by pathological cases in which man does not learn language and can be observed by comparing the blind-deaf-and-dumb who have not received linguistic instruction with those who have been instructed.

It follows that the human sciences, which study man, must begin by examining semiotic problems.
3. As the outstanding Soviet psychologist L. S. Vygotskij observed in the 1930s, signs

1
are a means of controlling human behavior . Man cannot govern his own behavior

directly and creates signs in order to control it indirectly. The history of culture can be described to a great extent as the transmission in time of sign systems serving to control behavior. Semiotic systems for the programmed control of human behavior are elaborated due to the internalization of external signs, a process that can be partly compared to the automation of programming. This process can be traced most distinctly in the emergence of internal speech. Investigation of children’s speech makes it possible to ascertain that speech arises initially only as a means of communication and a way for adults to control the infant’s behavior.

The collective monologue of children is an intermediate form of speech found between speech as a means of communication and “mute” internal speech; in the collective monologue, each infant delivers a monologue but maintains the fiction of communication and of the presence of potential interlocutors. This “egocentric children’s speech” has parallels in the surviving archaic features of linguistic behavior in certain tribes. The next stage, immediately preceding internal speech, is the speech that the infant utters aloud before falling asleep and that requires the absence of an audience; this form of speech has been explored only in recent years by means of tape recordings.

1 L. S. Vygotskij’s book, Razvitie vysših psihičeskih funkcij [The development of the higher mental functions], which expounded this idea, was published posthumously only in 1960. See L. S. Vygotskij, Psihologiâ iskusstva [Psychology of art] (Moscow: Iskusstvo, 1965), 352-55.

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Le caratteristiche rigorosamente umane che distinguono l’uomo dall’animale possono essere definite interamente in termini di sistemi segnici prettamente umani che permettono all’uomo di prendere parte a una comunità. Tale distinzione è esemplificata dai casi patologici nei quali l’uomo non impara una lingua e può essere osservata mentre paragona i sordomuti ciechi, che non hanno ricevuto istruzioni linguistiche, con coloro che hanno ricevuto le istruzioni.

Ne segue che alla base delle scienze umane che studiano l’uomo deve esserci lo studio dei problemi semiotici.
3. Come osservò negli anni Trenta l’importante psicologo sovietico L. S. Vygotskij, i

1
segni servono per controllare il comportamento dell’uomo . L’uomo non può governare

direttamente il suo comportamento e crea dei segni per governarlo indirettamente. La storia della cultura può essere descritta in larga misura come la trasmissione nel tempo di sistemi di segni utili a controllare il comportamento. I sistemi semiotici per il controllo programmato del comportamento umano vengono elaborati grazie all’interiorizzazione dei segni esterni, processo che può essere in parte paragonato all’automazione tipica della programmazione. È possibile ritrovare in modo chiarissimo tale processo nello sviluppo del linguaggio interno. Lo studio del discorso dei bambini rende possibile appurare che il discorso nasce inizialmente solo come mezzo di comunicazione e come modo per gli adulti di controllare il comportamento dei bambini. Il monologo collettivo dei bambini consiste in una forma di discorso intermedio tra il discorso come mezzo di comunicazione e il discorso interno “muto”; nel monologo collettivo ogni bambino pronuncia un monologo ma preserva la finzione della comunicazione e della presenza di interlocutori potenziali. Tale «discorso egocentrico dei bambini» presenta delle analogie con le caratteristiche arcaiche di comportamento linguistico di alcune tribù. La fase successiva, quella immediatamente precedente al linguaggio interno, consiste nel discorso che il bambino pronuncia ad alta voce prima di addormentarsi e che richiede l’assenza di ascoltatori; si è cominciato a studiare tale forma di discorso solo negli ultimi anni grazie alle registrazioni su nastro magnetico.

1 Il libro di L. S. Vygotskij, Razvitie vysših psihičeskih funkcij [Lo sviluppo delle funzioni mentali superiori], in cui ha esposto questo pensiero, è stato pubblicato postumo solo nel 1960. Confronta L. S. Vygotskij, Psihologiâ iskusstva [Psicologia dell’arte] (Moskva: Iskusstvo, 1965), 352-55.
(Il libro di Vygotskij sull’arte è stato tradotto in inglese con il titolo The Psychology of Art [Cambridge, Mass.: M.I.T Press, 1971]).

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Internal speech, which plays a determining role in controlling the behavior of adults, can thus be considered a result of the internalization of external sign sequences. Internal speech and learning one’s native language are examples of programs that are introduced into man and then automatically, unconsciously, determine his behavior for the duration of his life. This process can also be observed in other internal sign systems, including the unconscious symbolism studied by Freud. These unconscious sign systems are formed in man at an early age and are analogous to the amply documented biological phenomenon of “imprinting” first impressions, which then determine an animal’s behavior to the extent that it is not genetically predetermined.

A fundamental fact to consider in comparing brain and machine is that a man’s behavior is determined by programs introduced into him by the collective; of course this collective programming follows the predetermining transmission of genetic codes. A machine that has not been programmed can be compared to an infant’s brain in the early stages of development. It would be vitally important to compare successively the potential for instruction in machines and man; in this comparison, man should be considered to be an automaton that undergoes prolonged instruction simultaneously with the autoconstruction of biological development or growth. Therefore research on training autoconstructing automata, such as those studied by J. von Neumann and A. N. Kolmogorov, would have particular significance for a comparison between man and machine.

4. It follows that analysis of sign systems is one of the chief means of studying man; semiotics erects a bridge between the human sciences, experimental psychology, physiology, and other natural sciences engaged in the study of man.
Formal description of human linguistic intuition is a basic task of current mathematical linguistics and presents in manifest form those unconscious behavioral programs that permit man to construct and understand meaningful linguistic texts. The tasks being addressed in mathematical linguistics are similar to those encountered in the last decade by the conscious investigation of scientific language in logical research and in studies

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Il linguaggio interno, che ha un ruolo importantissimo nel controllare il comportamento degli adulti, può essere considerato come il risultato dell’interiorizzazione delle sequenze di segni esterne. Il linguaggio interno e l’apprendimento della lingua madre sono esempi di istruzioni che vengono introdotti nell’uomo e che, automaticamente e inconsciamente, determinano il suo comportamento per tutta la vita. È possibile osservare tale processo anche in altri sistemi segnici interni, compreso il simbolismo inconscio studiato da Freud. Tali sistemi segnici inconsci si sviluppano nell’uomo sin dai primi anni di vita e sono simili al fenomeno biologico ampliamente documentato dell’imprinting delle prime impressioni, che determina il comportamento di un animale per la parte che non è geneticamente predeterminata.

Un fatto importante da considerare quando si paragonano il cervello e la macchina è che il comportamento umano è determinato dalle istruzioni in esso introdotte dalla comunità; certamente tali istruzioni collettive vengono dopo la trasmissione determinante dei codici genetici. Una macchina nella quale non sono ancora state immesse istruzioni può essere paragonata al cervello di un bambino durante le prime fasi dello sviluppo. Sarebbe di fondamentale importanza raffrontare il potenziale di istruzione nella macchina e nell’uomo; in tale raffronto si potrebbe considerare l’uomo una macchina automatica che viene sottoposto a un’istruzione prolungata in contemporanea all’autocostruzione dello sviluppo biologico, o crescita. Pertanto lo studio relativo all’addestramento di automi che si costruiscono autonomamente, come quelli studiati da J. Von Neumann e A. N. Kolmogorov, sarebbe molto significativo per porre a confronto l’uomo e la macchina.

4. L’analisi dei sistemi segnici rappresenta dunque uno dei principali metodi per studiare l’uomo; la semiotica erige un ponte tra le scienze umane, la psicologia sperimentale, la fisiologia e altre scienze naturali che si occupano dello studio dell’uomo.

Una delle principali attività della linguistica matematica contemporanea consiste nella descrizione formale dell’intuito linguistico, che espone in forma esplicita i programmi comportamentali inconsci che permettono all’uomo di creare e capire testi linguistici sensati. Nella linguistica matematica, i compiti trattati sono simili a quelli in cui ci si è imbattuti negli ultimi dieci anni nell’indagine conscia del linguaggio scientifico nella

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on the metatheories of the individual sciences, and also to the tasks of recognizing unconscious behavioral programs.
The study of human linguistic behavioral programs now makes it possible to solve problems that involve linguistics, experimental psychology, and physiology: assessment of the depth of memory of a finite automaton that generates propositions and of its dependence on the proposition’s depth in Ynvge’s sense; investigation of the way man discerns speech by accumulating signals on various levels; creating programs for the construction of speech movements; and determination of the dependence of disorders involving the separate levels of language and other semiotic systems on diseases affecting various areas of the cerebrum. Also, linguistic research stimulated by the problems of constructing an intermediary language for machine translation is now beginning to ascertain those common features of all human languages that should all be explained in the end by certain common features of the organization of the human nervous system and by common features of all human collectives.

In order to state the problem of the automatic decipherment of an unknown language with any exactitude, there must be an explicit formulation of those properties that lie at the basis of the human researcher’s intuition and are founded on the common properties of all world languages. This problem is directly connected with the construction of languages for cosmic communication, which was carefully studied for the first time in a monograph by the Dutch mathematician Freudenthal. In studying this question, it is particularly important to isolate not only the common features of natural languages but also the common features of both natural and artificial languages, including the logical- informational languages constructed by machines. Linguistics and semiotics are now starting to concern themselves in earnest with methods for constructing new languages – future languages – as distinct from the past languages that were the main object of research in nineteenthcentury historical linguistics and from the present languages that were the main object of research in descriptive linguistics of the first half of the twentieth century. Certain recent findings of mathematical linguistics make it possible to isolate common features and distinctions between natural and logical languages; experiments in constructing intermediate languages lying between natural languages and the languages of mathematical logic have been particularly rewarding in this respect.

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ricerca logica e negli studi sulle metateorie delle singole scienze, e anche ai compiti di riconoscere programmi comportamentali inconsci.
Lo studio dei programmi comportamentali linguistici dell’uomo permette di risolvere problemi che riguardano la linguistica, la psicologia sperimentale e la fisiologia: la valutazione della profondità della memoria di un automa finito che produce frasi e della sua dipendenza dalla profondità della frase nel senso di Yngve; l’indagine su come l’uomo distingue il discorso accumulando segnali a vari livelli; la creazione di programmi per la costruzione dei movimenti del discorso; e la determinazione della dipendenza di disturbi che interessano i singoli livelli del linguaggio e altri sistemi semiotici da malattie che colpiscono varie aree del cervello. Inoltre, la ricerca linguistica influenzata dai problemi riguardanti la creazione di un linguaggio d’intermediazione per la traduzione automatica sta appurando che tali tratti comuni a tutti i linguaggi umani si spiegherebbero, alla fine, con alcuni tratti comuni dell’organizzazione del sistema nervoso umano e tratti comuni di tutte le comunità umane.

Al fine di esporre con precisione il problema della decifrazione automatica di un linguaggio non noto, si necessita di una formulazione esplicita di quelle proprietà che sono alla base dell’intuito del ricercatore e che si fondano su proprietà comuni a tutte le lingue del mondo. Tale problema si collega direttamente con la formulazione di linguaggi per la comunicazione universale, analizzata meticolosamente per la prima volta dal matematico olandese Freudenthal in una monografia. Per studiare tale problema è necessario isolare non solo i tratti comuni dei linguaggi naturali ma anche quelli dei linguaggi che sono parzialmente naturali e parzialmente artificiali, compresi i linguaggi logico-informatici delle macchine. La linguistica e la semiotica contemporanee si dedicano scrupolosamente allo studio di metodi per la formulazione di linguaggi nuovi, futuri, che si differenziano dai linguaggi del passato, principale oggetto di studio della linguistica storica dell’Ottocento, e dai linguaggi del presente, principale oggetto di studio della linguistica descrittiva della prima metà del Novecento. Scoperte recenti di linguistica matematica permettono di isolare le proprietà comuni e le differenze tra i linguaggi naturali e quelli logici; gli esperimenti nella creazione di linguaggi d’intermediazione tra i linguaggi naturali e quelli della logica matematica hanno dato particolarmente soddisfazione da questo punto di vista. Alcune peculiarità

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Certain peculiarities of the syntax of natural languages can be described as the result of a compromise between the task of expressing a specific logical content common to logical and natural languages, and the necessity of making use of the human nervous system, which imposes definite limitations on ways of expressing this content, specifically, limitations on the proposition’s depth and some other syntactic parameters. Like a number of other mathematical-linguistic and physiological studies of recent years, such research has succeeded in investigating the correlation between the mechanism using a specific sign system and the organization of this sign system itself.

It seems that a number of essential features of human behavior can be described by applying a consistent semiotic viewpoint. A great many behavioral phenomena become intelligible according to the hypothesis that man elaborates every sequence of signals received by his sense organs as if it were a meaningful message; man is a decipherer and proceeds from a natural disposition to regard my message as meaningful. Thus, in ordinary linguistic communication, even obviously meaningless messages are perceived as meaningful, while attempts to interpret natural phenomena as signs are especially characteristic of earlier periods of human history. Another example of the semiotic approach to human behavior is offered by the analysis of dreams.

A human individual’s potential can be evaluated by describing all the sign systems he can use, including both multilevel sign systems composed of natural and scientific languages and monolevel sign systems such as the various natural languages. In traumatic aphasia and speech disorders, it can be shown how organic changes in the brain lead to violation of the sign systems used by the individual and to a corresponding violation of behavior. Psychiatry furnishes similar clinical material pertaining to violation of the normal relations between various sign systems: for example, the special artificial languages of schizophrenics, or the case of hysterical behavior described by Freud in which a woman patient did not use her native language during her fits, but rather a foreign language she did not ordinarily employ. Each sign system an individual employs is used to transmit information and control behavior in situations linked to the performance of functions in the collective, and the individual as a whole can be described as the system that controls all of these sign systems. Therefore the cases

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della sintassi dei linguaggi naturali sono descrivibili come il risultato di un compromesso tra la funzione di esprimere uno specifico contenuto logico comune ai linguaggi logici e naturali, e l’esigenza di utilizzare il sistema nervoso umano, che impone limiti ferrei sui modi in cui si deve esprimere tale contenuto, in particolare limiti riguardanti la profondità della proposizione e altri parametri sintattici. Come molti altri studi linguistico-matematici e fisiologici degli ultimi anni, tale studio ha esaminato con attenzione il rapporto tra il meccanismo che utilizza uno specifico sistema segnico e l’organizzazione di questo stesso sistema di segni.

Sembrerebbe che si possano descrivere numerosi elementi essenziali del comportamento umano affidandosi a un punto di vista semiotico coerente. È possibile comprendere numerosi fenomeni comportamentali se si considera l’ipotesi che l’uomo, con gli organi di senso, elabora ogni sequenza di segnali come se fosse un messaggio sensato; l’uomo è un decifratore e procede, secondo una predisposizione naturale, nel considerare ogni messaggio come sensato. Di conseguenza, nella normale comunicazione linguistica, anche i messaggi palesemente privi di significato vengono percepiti come sensati, anche se i tentativi di interpretare i fenomeni naturali come segni sono tipici quasi esclusivamente della storia passata. Un altro esempio dell’approccio semiotico al comportamento umano è offerto dall’analisi dei sogni.

È possibile valutare il potenziale di un individuo analizzando tutti i sistemi segnici che può utilizzare, compresi i sistemi segnici che appartengono a livelli diversi e che sono composti da linguaggi naturali e scientifici, e i sistemi segnici appartenenti a un unico livello, come i vari linguaggi naturali. In caso di afasia traumatica e disturbi della parola, si può dimostrare come i cambiamenti organici a livello cerebrale portino all’infrazione dei sistemi segnici utilizzati dall’individuo e a una corrispondente infrazione del comportamento. La psichiatria fornisce analogo materiale clinico riguardante l’infrazione delle normali relazioni tra diversi sistemi di segni, come i particolari linguaggi artificiali degli schizofrenici o il caso di comportamento isterico descritto da Freud, nel quale una paziente, durante le sue crisi, non parlava nella sua lingua, ma in una lingua straniera che solitamente non utilizzava. Un individuo adopera un determinato sistema segnico per trasmettere informazioni e controllare il comportamento in situazioni legate al suo agire nella comunità, e l’individuo nell’insieme può essere descritto come il sistema che controlla tutti questi sistemi di

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investigated in psychiatry and social psychology of violation of the individual’s normal functioning amount to loss of control of specific sign systems in their entirety, although part of these systems may be preserved.
5. A collective can be evaluated by describing all the sign systems of different levels used in it: natural languages, artificial languages, gesticulatory languages, etiquette, street signals, signboards, advertisements, scientific languages, religious ceremonies, monetary signs, clothes. In evaluating a collective, as in evaluating a single individual, it is important to look for possession of a maximum number of systems on different levels, from the simplest to the most complex, and also for the extent of their diffusion in the collective; often the proportion between the number of individuals possessing a specific system and the population of the entire collective depends on the level of the system, as can be seen especially in means of mass communication such as radio, television, cinema, and the press. The presence of different systems of the same level in the collective can serve as one of the ways of assessing its divisions.

The size of a collective’s operative memory and the extent of its passive means of memorization can be assessed with the help of growing new disciplines such as information science, which is developing rapidly in connection with solving the problems of the automatic search for information and of the construction of languages for computers. The sign systems for the collective as a whole and for the individual person serve not only as a means of communication but also as a means of control, and thus define the role of semiotics in the cybernetic analysis of the collective. Given the presence within a collective C of a subcollective C1, which is a subset of C and plays the role of a controlling system with respect to C, it is essential to ascertain which sign systems are used by C1 as distinct from C (problems of social cryptography), which sign systems are common to C and C1 (problems such as the special languages of the higher castes in India), and which sign systems are specific means on the part of C1 for controlling C (mass communication).

In order to compare a collective in its entirety with automata or a collective of automata, it is essential to analyze the semiotic tasks undertaken by the collective. A. N.

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segni. Di conseguenza, i casi analizzati in psichiatria e psicologia sociale di infrazione del funzionamento fisiologico dell’individuo, corrispondono alla perdita del controllo di specifici sistemi segnici nella loro globalità, sebbene parte di essi possano essere conservati.

5. È possibile estimare una comunità analizzando tutti i sistemi segnici di livelli differenti che vengono utilizzati al suo interno: linguaggi naturali, linguaggi artificiali, linguaggi dei gesti, etichetta, segnali e cartelli stradali, pubblicità, linguaggi scientifici, riti religiosi, segni valutari, indumenti. Quando si valuta una comunità, così come quando si valuta un individuo, è importante entrare in possesso del maggior numero di sistemi appartenenti a livelli differenti, dai più semplici ai più complessi, e analizzare la loro diffusione nella società; spesso la proporzione tra il numero di individui che possiede un determinato sistema e la popolazione dell’intera comunità dipende dal livello a cui il sistema appartiene, come si può notare soprattutto nei mezzi di comunicazione di massa come la radio, la televisione, il cinema e la stampa. La presenza di sistemi diversi dello stesso livello nella comunità può essere utile come uno dei modi per valutarne le divisioni.

È possibile calcolare la dimensione della memoria operativa di una comunità e l’ampiezza dei suoi mezzi di memorizzazione passivi grazie all’aiuto di nuove discipline come l’informatica, che si sta sviluppando velocemente in merito alla risoluzione di problemi che riguardano la ricerca automatica di dati e la creazione di linguaggi per i computer. I sistemi segnici sono utili all’intera comunità e ai singoli individui non solo come mezzi di comunicazione, ma anche come mezzi di controllo, e in questo modo definiscono il ruolo della semiotica nell’analisi cibernetica della comunità. Data la presenza all’interno di una comunità C di una sottocomunità C1, che è un sottoinsieme di C ed opera come sistema di controllo in relazione a C, è importante appurare quali sistemi segnici vengono utilizzati da C1 in contrapposizione a C (problemi di crittografia sociale), quali sistemi segnici sono comuni a C e C1 (problemi come i linguaggi speciali utilizzati in India dalle caste più alte), e quali sistemi segnici sono mezzi specifici da parte di C1 per controllare C (comunicazione di massa).

Per fare un raffronto tra una comunità nel suo insieme e gli automi, o comunità di automi, è importante analizzare i compiti semiotici intrapresi dalla comunità. Come primo tentativo in questo campo vanno citati gli studi di A. N. Kolmogorov sul

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Kolmogorov’s analyses of poetic language should be mentioned as one of the first attempts of this sort; his research has made it possible to move from general statements about the limited potential of cybernetic machines as compared to human collectives to precise analysis of the quantitative limitations that do not permit machines to create, for example, poetic texts of high artistic quality. In connection with this research, information theory and the theory of automata pose the problem of assessing the ever more complex tasks for which ever more complex automata are required; delays in task solution are assessed accordingly. Chomsky formulates an essentially similar task concerning language in analyzing the conditions necessary so that, as the parameter n defining the automaton’s capacity is increased, the mechanism G(i,n) would be able to understand in a definite sense an ever growing number of propositions generated by the grammar G1. Chomsky describes language as having a more complex structure than previously supposed; his research not only assesses the complexity of the tasks one man accomplishes in speaking and hearing, as Chomsky himself mentions, but is also valuable for investigating the whole collective that is able to use the language which it has elaborated.

Experimental study on the possibilities of teaching languages to automata, for example, in a game situation, is particularly important theoretically in order to compare the role of language and other sign systems in collectives of humans and of automata. It is also essential to continue the experiments already initiated in zoopsychology on elaborating the sign systems of anthropoid apes in collective problem-solving.

6. The most important special problem of modern linguistics and semiotics is that of analyzing the different levels within a single sign system, or the relations between sign systems belonging to different levels; this problem does not lie so much at the junction of these sciences with other sciences as at the basis of all the tasks of linguistics-proper and semiotics-proper.

A more exact definition of the very concept of a sign presupposes studying the relation between different levels within a system and the relations between systems of different levels. The meaning of a sign entails the presence of a signified aspect without which it would be impossible to speak of a sign. This meaning can be defined in two ways:

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linguaggio poetico; i suoi studi hanno permesso di superare le affermazioni generiche sul potenziale limitato delle macchine cibernetiche se paragonato alle comunità umane, per giungere a un’analisi precisa dei limiti quantitativi che non permettono alle macchine di creare, ad esempio, testi poetici di alta qualità artistica. In merito a tale ricerca, la teoria dell’informazione e la teoria degli automi pongono il problema della valutazione di compiti sempre più complessi per i quali vengono richiesti automi sempre più complessi; i ritardi nella soluzione dei compiti vengono valutati di conseguenza. Chomsky elabora un compito sostanzialmente simile che ha per oggetto il linguaggio analizzando le condizioni necessarie così che, quando il parametro n che definisce la capacità dell’automa aumenta, il meccanismo G(i,n) è in grado di capire in modo preciso un crescente numero di proposizioni della grammatica G1. Chomsky sostiene che il linguaggio ha una struttura molto più complessa di quanto si fosse ipotizzato in precedenza; i suoi studi non solo valutano la complessità dei compiti che un uomo deve affrontare mentre parla e ascolta, come ricorda lo stesso Chomsky, ma sono importanti per studiare l’intera comunità che è in grado di utilizzare il linguaggio che ha elaborato.

Lo studio sperimentale sulla possibilità di insegnare i linguaggi agli automi in una situazione di gioco, ad esempio, è particolarmente importante, in teoria, per fare un raffronto tra la funzione del linguaggio e altri sistemi segnici nelle comunità di umani e nelle comunità di automi. È inoltre importante portare avanti gli esperimenti già avviati in zoopsicologia riguardanti l’elaborazione dei sistemi segnici delle scimmie antropoidi, utili per la risoluzione di problemi collettivi.

6. Il problema più importante che la linguistica e la semiotica odierne devono risolvere consiste nell’analisi dei vari livelli che si trovano all’interno di un unico sistema di segni, o le relazioni tra sistemi di segni che appartengono a livelli differenti; tale problema non ha origine dall’unione di queste scienze con altre scienze, bensì dal punto di partenza di tutti i compiti della linguistica in senso stretto e della semiotica in senso stretto.

Una definizione più esatta del concetto stesso di segno presuppone lo studio della relazione tra i diversi livelli di un sistema e delle relazioni tra sistemi di livelli differenti. Il significato di un segno presuppone la presenza di un aspetto significativo, senza il quale non si potrebbe parlare di segno. È possibile definire tale significato in due modi:

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either by indicating equivalent signs on the same level within the same system- synonyms like “melancholy … sadness … grief … sorrow … ennui” – or by indicating equivalent signs on the same level in another system, such as another natural language, thus establishing equivalence on the basis of identity with respect to signs of a higher level, for example, signs of an intermediary language with an artificial semantics. Description of the lowest levels of linguistic organization is directly linked to problems also posed in other sciences: thus, analysis of phonetic language on the level of distinctive elements (labial/nonlabial, nasal/nonnasal) is directly connected with research on the construction of vocal movements in physiology and with corresponding questions of speech perception in psycholinguistics. Modern linguistics has investigated higher organizational levels that are properly linguistic: i.e., the levels of phonemes,

1
morphemes, words, and syntactic combinations of words . Nonetheless, until recent

years the least-studied levels of language have been the highest ones, including the level of meaning, the corresponding level of semantic units of an intermediary language, and so on.
Yet analysis of these highest levels is a fundamental problem, both from a theoretical viewpoint, since any sign system serves above all to express meanings, and from a practical viewpoint, since all the fundamental tasks of the automatic processing of linguistic information amount to transmitting the same meaning while changing the linguistic means for its transmission. Moreover, the recently discovered high semantic redundancy of the majority of texts in natural languages makes the task of automatic review considerably more important than that of translation.

The situation is similar in the metatheories of sciences that have been analyzed as formal systems. The semantic aspect of the corresponding signs, which is particularly important for tasks of the automatic search for information, has been studied less than the syntactic aspect. The same has been true in analysis of the sign systems of poetic art, where purely formal levels, such as rhythm in poetry, have been examined with much

1
Level E in the terminology introduced by N. A. Bernštejn in his book 0 postroenii dviženij [The

construction of movement] (Moscow, 1947).

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indicando segni equivalenti appartenenti al medesimo livello dello stesso sistema –

sinonimi come «melanconia, tristezza, afflizione, dolore, noia», o indicando segni

equivalenti appartenenti al medesimo livello in un altro sistema, come un altro

linguaggio naturale, stabilendo perciò un’equivalenza sulla base dell’identità in

relazione a segni di livello più alto, ad esempio, i segni di un linguaggio

d’intermediazione con la semantica artificiale. La descrizione dei livelli più bassi

dell’organizzazione linguistica è direttamente collegata a problemi che si riscontrano

anche in altre scienze: l’analisi del livello degli elementi distintivi del linguaggio

fonetico (labiale/non labiale, nasale/non nasale) è direttamente collegato allo studio

dell’articolazione dei movimenti vocali in fisiologia e a simili problemi riguardanti la

percezione del linguaggio in psicolinguistica. La linguistica moderna ha analizzato i

livelli organizzativi più alti che sono propriamente/completamente linguistici: ad

esempio i livelli dei fonemi, dei morfemi, delle parole e delle combinazioni sintattiche

1

di parole.
Ciò nonostante, fino a pochi anni fa, i linguaggi più alti erano i meno studiati, compresi il linguaggio del significato, il livello delle unità semantiche di un linguaggio d’intermediazione, e così via.
L’analisi di questi livelli più alti è importante sia da un punto di vista teoretico, poiché ogni sistema segnico serve principalmente a esprimere significati, sia da un punto di vista pratico, poiché tutte le principali attività dell’elaborazione automatica di informazioni linguistiche consistono nel trasmettere lo stesso significato cambiando i mezzi linguistici. Inoltre, la recente scoperta di un’elevata ridondanza semantica nella maggior parte dei testi espressi in linguaggio naturale rende notevolmente più importante l’attività di revisione automatica rispetto a quella di traduzione.
Si riscontra la medesima situazione nelle metateorie delle scienze analizzate come sistemi formali. L’aspetto semantico dei segni corrispondenti, particolarmente importanti per le attività di ricerca automatica di informazioni, è stato analizzato meno rispetto all’aspetto sintattico. Lo stesso si è verificato anche nell’analisi dei sistemi segnici dell’arte poetica, dove i livelli puramente formali, come il ritmo poetico, sono

1
costruzione del movimento] (Moskva, 1947).

Livello E della terminologia introdotta da N. A. Bernštejn nel suo libro 0 postroenii dviženij [La

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greater precision and detail than the special poetic ways of modeling the world that constitute the highest level of the sign systems of verbal art. However, in recent years mathematical prosody has isolated rather distinctly the hierarchy of different levels that should be analyzed in poetics.

Research on relationships between the sign systems of different sciences, such as physics, chemistry, and biology, and between various levels within the sign system of a single science, poses a central question for human knowledge. Formal analysis of these relationships, and of relationships between scientific languages and the natural language in which an experiment js described, would render possible automation of the basic processes of human knowledge. It should be mentioned that modern science has inherited a hierarchical organization of knowledge from ancient Greek science, which rather clearly recognized the analogy between the hierarchy of levels describing nature and the hierarchy of linguistic levels. The regularities between various levels correspond to the real processes of encoding and decoding signs in using them. Thus the transformational rules that link the various levels of natural language in Chomsky’s transformational grammar correspond to real features of discourse analysis and synthesis as carried out by people and automata. The psychological and physiological reality of linguistic levels is evidenced in cases where speech disorders destroy one level while retaining another: for example, the grammatical level may be destroyed while the lexical level is conserved, or vice versa; or the phonemic level may be destroyed while the semantic level is conserved, or vice versa. The following cases provide further evidence: the social stipulation that one level be removed while another is preserved, as in taboos; errors in normal linguistic behavior, such as not distinguishing between homonyms that coincide on one level and differ on another; possibilities for constructing grammatically correct, marked sequences of words that are meaningless; and other instances of disjunction between the various levels in the actual use of sign systems. In poetry, disjunction between the various levels is common to all poets except the greatest ones, and it manifests itself in use of the sign’s signifying aspect as an end in itself, a difference between the levels of meter and rhythm, and the phenomenon of “metrical homonymy.”

In both descriptive and historical linguistics, the object of linguistic reconstruction is never language as a whole, but always a language divided into levels.

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stati analizzati con maggiore precisione e più dettagliatamente rispetto agli speciali stili poetici di modellizzazione del mondo che costituiscono il livello più alto dei sistemi segnici dell’arte verbale. Tuttavia, recentemente, la prosodia matematica ha isolato in modo piuttosto chiaro la gerarchia dei vari livelli che dovrebbero essere analizzati in poetica.

Lo studio delle relazioni tra i sistemi segnici di scienze differenti, come la fisica, la chimica e la biologia, e delle relazioni tra i vari livelli all’interno del sistema segnico di una singola scienza, è importante per la conoscenza umana. L’analisi formale di tali relazioni e delle relazioni tra i linguaggi scientifici e il linguaggio naturale in cui un esperimento viene descritto, renderebbe possibile l’automazione dei processi fondamentali della conoscenza umana. È utile aggiungere che la scienza moderna ha ereditato un’organizzazione di conoscenza gerarchica dalla scienza dell’antica Grecia, che aveva riconosciuto piuttosto chiaramente l’analogia tra la gerarchia dei livelli che descrivono la natura e la gerarchia dei livelli linguistici.

Le regolarità comuni a livelli diversi corrispondono agli effettivi processi di codifica e decodifica dei segni nel momento in cui si utilizzano. Perciò le regole trasformazionali della grammatica trasformazionale di Chomsky che legano i vari livelli del linguaggio naturale corrispondono ai reali aspetti di analisi e sintesi del discorso che vengono eseguiti da persone e automi. La realtà psicologica e fisiologica dei livelli linguistici si manifesta in casi dove i disturbi del linguaggio distruggono un livello mantenendone un altro: è possibile, ad esempio, distruggere il livello grammaticale mantenendo quello lessicale, o viceversa; o ancora, è possibile distruggere il livello fonemico preservando quello semantico, o viceversa. I seguenti esempi ne forniscono un’ulteriore prova: un accordo sociale secondo il quale un livello viene rimosso e un altro preservato, come accade per i tabù; errori nel normale comportamento linguistico, come non distinguere tra gli omonimi che coincidono per un livello e differiscono per un altro; possibilità di costruire sequenze di parole grammaticalmente corrette e marcate ma prive di significato; e altri esempi di disgiunzione tra i diversi livelli nell’effettivo utilizzo dei sistemi segnici. In poesia, tutti i poeti separano i vari livelli, eccetto i più bravi, e tale separazione si manifesta nell’utilizzo fine a se stesso dell’aspetto significativo del segno, una differenza tra i livelli della metrica e del ritmo e il fenomeno dell’«omonimia metrica». Nella linguistica descrittiva, così come in quella storica, l’oggetto della

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7. The basic function of every semiotic system is the modeling of the world. According to N. A. Bernštejn’s cybernetic physiology of activity, every semiotic world model can also be regarded as a program for individual and collective behavior. The primacy of the behavioral program in a semiotic system as compared to all its other functions emerges with particular clarity in such extreme cases as the teaching of language to the deaf- dumb-and-blind. I. A. Sokoljanskij has shown that engaging the deaf-dumb-and-blind child in active behavior affecting the environment is a necessary prerequisite for such teaching; only gestures actively used in behavior affecting the environment can be used as signs.

Various semiotic systems possess diverse model-building roles. Moreover, the higher the system’s model-building function and the larger the number of objects situated outside the system’s borders that the system can nonetheless potentially include within its model, the harder it is to formalize it; compare, for example, the languages of mathematical logic with natural languages, or compare the games analyzed in game theory with more complex sign systems where game-like behavior is a function of the sign.

A sign system can only be formally analyzed by describing it in terms of a sign system, as in the use of metalanguage for the formal description of language; the descriptive sign system may be either the same as the described sign system or different and may be especially constructed for this purpose. In turn, the sign system used as a metalanguage can itself be examined only with the help of some metalanguage. Theoretically, this should lead to the construction of an infinite succession of metalanguages in order to describe the signified aspects of signs, but this theoretical possibility is not realized in man’s actual use of sign systems due to properties that allow natural languages to be used as the basic human sign system and metalanguage for diverse other languages.

The world model constructed by a specific sign system is usually held in common by an entire collective and is introduced to each individual who becomes a member of the collective. Moreover, those world models introduced to man at a sufficiently early age through instruction often function, both as world model and behavioral program,

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ricostruzione linguistica non è mai il linguaggio nel suo insieme, ma il linguaggio diviso in più livelli.
7. La funzione principale di ogni sistema semiotico è di modellizzare il mondo. Secondo la fisiologia cibernetica dell’attività di N. A. Bernštejn, ogni modello di mondo semiotico può essere considerato come un programma per il comportamento individuale e della comunità. La superiorità del programma comportamentale in un sistema semiotico paragonato a tutte le altre sue funzioni emerge in modo particolarmente chiaro in casi estremi, come l’insegnamento del linguaggio ai sordomuti ciechi. I. A. Sokolânskij ha dimostrato che indurre il bambino sordomuto cieco a un comportamento attivo che ha un’influenza su ciò che lo circonda è un prerequisito importante per questo tipo di insegnamento; solo i gesti che vengono utilizzati attivamente nel comportamento che ha un’influenza su ciò che lo circonda possono essere utilizzati come segni.

I vari sistemi semiotici hanno diversi ruoli di modellizzazione. Inoltre, più alta è la funzione modellizzzante del sistema e più grande è il numero di oggetti collocati al di fuori dei confini del sistema e che tuttavia il sistema riesce a racchiudere potenzialmente all’interno del proprio modello, più è difficile formalizzarlo; si pongano a confronto, ad esempio, i linguaggi della logica matematica e i linguaggi naturali, o i giochi analizzati dalla teoria dei giochi e i più complessi sistemi segnici, in cui il comportamento ludico è una funzione del segno.

È possibile analizzare formalmente un sistema segnico solo descrivendolo in termini di sistema segnico, come nell’uso del metalinguaggio per la descrizione formale del linguaggio; il sistema segnico descrittivo potrebbe essere lo stesso del sistema segnico descritto o diverso, e può essere formulato apposta a questo scopo. A sua volta il sistema segnico utilizzato come metalinguaggio può essere analizzato solo con l’aiuto di un metalinguaggio. Teoreticamente ciò dovrebbe portare alla formulazione di una successione infinita di metalinguaggi utili a descrivere il significato dei segni: tale possibilità teoretica non è però riscontrabile nell’attuale utilizzo da parte dell’uomo dei sistemi segnici a causa delle caratteristiche che permettono ai linguaggi naturali di essere utilizzati come principale sistema segnico umano e metalinguaggio per diversi altri linguaggi.

Il modello di mondo creato da un determinato sistema segnico viene solitamente utilizzato dall’intera comunità, e lo si insegna a ogni individuo nel momento in cui ne

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automatically and independently of how much they correspond to the conscious world models constructed by the individual at a later time. Therefore, recognition of these unconsciously functioning semiotic models and programs is a necessary prerequisite for the conscious control of individual and collective behavior.

8. The development of human sign systems in the individual (ontogenesis) or in mankind (phylogenesis) is brought about by increases in the number of different levels within the same system and in the number of levels of different systems. Hypothetically, human sign systems originate from an undifferentiated sign system, not yet divided into different levels, which may have been used several hundred thousand years ago by the ancestors of modern man as their sole semiotic modeling system. This primordial system was gradually articulated into an ever more complex network of diverse sign systems on different levels, each in turn forming its own hierarchy of levels. Different systems of the same level and systems of different levels are complementary with respect to each other and provide for the construction of a world model by means of an entire complex of semiotic systems.

The significance of the presence of several systems for the individual person’s development can be observed in the extreme example, already mentioned above, of the development of sign systems in the blind-deafand-dumb. Here the accelerating growth of new sign systems constructed upon already assimilated systems can only begin after two systems of different levels, the hieroglyphic and alphabetical, have been formed and equivalence has been established between these systems. The normal development of the individual and the collective, particularly in the most recent collectives, manifests a similar process of the ever accelerating growth of new sign systems after the assimilation of several other systems whose signs have been ascertained to be equivalent.

The avalanching growth of sign systems during the past decade has presented increasing obstacles to the organization of the whole system in its entirety and has necessitated automation of translation between different sign sequences to adjust the effective functioning of the whole collective. Translation between natural languages is only one such task, while the most important task is translation between scientific languages and the construction of new artificial languages to accomplish this. Various sciences have

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entra a far parte. Inoltre quei modelli di mondo che si insegnano all’uomo in un’età abbastanza precoce, spesso funzionano, sia come modello di mondo sia come programma comportamentale, automaticamente e indipendentemente da quanto corrispondano ai modelli di mondo consapevoli che l’individuo si crea in seguito. È perciò importante riconoscere tali modelli e programmi semiotici inconsapevoli per il controllo consapevole del comportamento dell’individuo e della comunità.

8. Lo sviluppo dei sistemi segnici umani nell’individuo (ontogenesi) e nel genere umano (filogenesi) è determinato dall’aumento del numero dei vari livelli all’interno dello stesso sistema e dei livelli di sistemi differenti. Ipoteticamente i sistemi segnici umani avrebbero origine da un sistema segnico indifferenziato non ancora diviso in vari livelli, che potrebbe essere stato utilizzato dagli antenati dell’uomo moderno centinaia di miglia di anni fa come unico sistema semiotico di modellizzazione. Tale sistema primordiale si sarebbe gradualmente articolato in una rete ancora più complessa di sistemi segnici differenti a diversi livelli, ognuno dei quali avrebbe dato origine a sua volta a una propria gerarchia di livelli. Sistemi diversi dello stesso livello e sistemi di livelli differenti sono complementari in relazione a ogni altro sistema e determinano la costruzione di un modello di mondo per mezzo di un intero insieme di sistemi semiotici. È possibile osservare l’importanza della presenza di numerosi sistemi per lo sviluppo dell’individuo nell’esempio estremo già citato in precedenza, lo sviluppo dei sistemi segnici nelle persone sordomute cieche. In questo caso, il veloce sviluppo di nuovi sistemi segnici creati su sistemi già assimilati è stato possibile solo in seguito alla creazione di due sistemi di livelli differenti, quello geroglifico e quello alfabetico, e le equivalenze che sono state stabilite tra questi due sistemi. Lo sviluppo normale dell’individuo e della comunità, in particolare nelle comunità più moderne, mostra un simile processo di crescita sempre più veloce di nuovi sistemi segnici in seguito all’assimilazione di numerosi altri sistemi, di cui si è accertata l’equivalenza dei segni. Negli ultimi dieci anni, il continuo sviluppo dei sistemi segnici ha incontrato sempre più ostacoli nell’organizzazione dell’intero sistema nel suo insieme, e ha reso necessaria l’automazione della traduzione tra sequenze di segni diverse per permettere l’effettivo funzionamento dell’intera comunità. La traduzione tra linguaggi naturali è solo uno di questi compiti; il compito più importante consiste nella traduzione tra linguaggi scientifici e nella costruzione di nuovi linguaggi artificiali per renderla possibile.

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prepared for these future syntheses of human and mechanical methods of constructing world models, and among them the first place rightfully belongs to semiotics.

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Numerose scienze si sono preparate a queste future sintesi di metodi umani e artificiali per costruire modelli di mondo, e tra questi la priorità và data alla semiotica.

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Segno, Interpretante, Oggetto: la triade di Peirce e la sua attualità per la Scienza della Traduzione GIOVANNA CARENZIO Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Segno, Interpretante, Oggetto: la triade di Peirce e la sua attualità per la Scienza della Traduzione GIOVANNA CARENZIO Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO Relatore: Prof. Bruno OSIMO Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Autunno 2006

Abstract This thesis is made up of three parts: after a general synthesis of the discipline, the candidate analyses the core of Peirce’s thought applied to Translation Studies. The first chapter is a short overview of the different contributions given by some famous philosophers to Semiotics (spanning from Ancient Greece to the 19th century). The second chapter presents the life of Charles Sanders Peirce (1839- 1914), one of the founders of American Pragmatism. The third chapter is dedicated to his Theory of Signs, or “Peircean Triad” (sign-interpretant-object), that sheds light on the mechanisms of the different phases of the translation process. The importance of Peirce’s theory for Translation Studies is analysed through the words of major scholars in the field of semiotics. L’architettura del contributo prevede una triplice articolazione nell’ottica della specificazione dell’oggetto – la semiotica come campo di studio che interessa la scienza della traduzione – a partire da una sintesi generale sulla disciplina per giungere al nucleo fondatore del pensiero di Peirce. Nel primo capitolo viene presentato un breve panorama dei contributi che alcuni grandi filosofi hanno dato alla semiotica (in un periodo di tempo che va dal pensiero greco al 1800). Nel secondo capitolo si introduce la figura del grande pensatore Charles Sanders Peirce (1839-1914), figura di spicco del pragmatismo americano. Il terzo capitolo è dedicato alla teoria del segno, o «triade di Peirce» (segno-interpertante-oggetto), alla luce della quale vengono riscoperti e illuminati i meccanismi posti in essere nelle diverse fasi del processo traduttivo. Nelle osservazioni conclusive, infine, vengono analizzati alcuni interventi di studiosi che hanno colto e valorizzato l’attualità del contributo che Peirce ha consegnato alla scienza della traduzione. L’architecture de la contribution prévoit une triple articulation dans l’optique de la spécification de l’objet – la sémiotique en tant que terrain d’étude relative à la science de la traduction – en partant d’une synthèse générale de cette discipline pour arriver au noyau fondateur de la pensée de Peirce. Dans le premier chapitre, est présenté un bref panorama des contributions que quelques grands philosophes ont apportées à la sémiotique (durant une période allant de la pensée grecque jusqu’au 19ème siècle). Dans le second chapitre, est introduite la figure du grand penseur Charles Sanders Peirce (1839-1914), figure de proue du pragmatisme américain. Le troisième chapitre est dédié à la théorie du signe ou «triade de Peirce» (signe-interpretant-objet), à la lumière de laquelle sont redécouverts et illuminés les mécanismes mis en évidence dans les différentes phases du processus de traduction. Dans les observations conclusives, enfin, sont analysées quelques interventions de savants qui ont saisi et valorisé l’actualité de la contribution que Peirce a livrée à la science de la traduction. IV La libertà gioca se stessa in quell’area di gioco che si chiama segno, in quanto il segno è avvenimento da interpretare. La libertà si gioca nell’interpretazione del segno. LUIGI GIUSSANI 1 Sommario 0. Premessa ……………………………….. 2 0.1 Descrizione del materiale ……………………………….. 2 0.2 Premessa metodologica ……………………………….. 2 1. Premesse storiche ……………………………….. 3 2. C.S. Peirce: cenni biografici ……………………………….. 23 3. La teoria del segno ……………………………….. 28 3.1 Sign ……………………………….. 29 3.2 Interpretant ……………………………….. 34 3.3 Object ……………………………….. 39 4. Riferimenti bibliografici ……………………………….. 45 5. Bibliografia ……………………………….. 48 0. Premessa 0.1 Descrizione del materiale Nel primo capitolo faccio esplicito riferimento alle notazioni sviluppate da Omar Calabrese nel suo saggio Breve storia della semiotica (Milano, Feltrinelli, 2001). Nel secondo capitolo ho selezionato alcuni brani dei Collected Papers of Charles Sanders Peirce (Edited by Charles Hartshorne and Paul Weiss, Harvard University Press, The Murray Printing Company, Cambridge, Massachusetts, 1931-1958). 0.2 Premessa metodologica Le citazioni dai Collected Papers sono in inglese: la traduzione in italiano sarebbe una complicazione inutile per i lettori. Il testo originale permette infatti una interpretazione diretta del pensiero di Peirce senza manipolazioni e interferenze. Il commentario è di conseguenza discutibile con una maggiore trasparenza. 3 1. Premesse storiche Seguendo il percorso proposto da Omar Calabrese, è interessante rintracciare i fatti semiotici presenti nel pensiero precedente i fondatori della semiotica (dai Presocratici a Hegel), per constatarne l’evoluzione e l’interpretazione verificatasi nel corso dei secoli. Le pagine che seguono si propongono come sintesi estrema delle prospettive più significative – dai Presocratici a Hegel – funzionando da cornice in chiave evolutiva. I presocratici Fin dagli inizi della sua storia, il pensiero greco ha avuto a che fare con il problema dei segni. Il segno è qualcosa che rinvia a qualcos’altro, o naturalmente o convenzionalmente: il termine è già individuabile in Omero e in Esiodo, in cui sta a indicare tanto il segno naturale, quanto il segno divino, quanto il segno convenzionale. La filosofia greca antica si pone già dei problemi per larga parte semiotici quando tratta della questione filosofica dell’aderenza del linguaggio alla realtà. Negli Eleati, in particolare, troviamo per la prima volta la concezione della convenzionalità del segno linguistico. Secondo Parmenide, dal momento che l’Essere è inesprimibile e l’esperienza del reale è illusoria, il linguaggio consiste nell’applicare etichette alle cose illusorie. Dalla parte opposta si colloca invece Eraclito, che sembra essere il primo a proclamare la dottrina secondo cui il linguaggio esiste “per natura”. Solo i sensi ci mostrano il reale, il molteplice, e il linguaggio serve appunto a nominare tale molteplicità: sono le cose, gli oggetti, a determinarla. Su questa opposizione fra convenzionalità e naturalità si basa tutto il dibattito sul linguaggio nel pensiero presocratico. Ippocrate (V-IV a.C.) Molto opportunamente, Calabrese include tra i filosofi “semiotici” Ippocrate, il fondatore della medicina, che è considerata la “scienza delle cose nascoste” ed è da lui affrontata con il metodo razionale: per capire i 4 segni occorreva ricorrere all’uso dei cinque sensi, più che a riti magici. I medici greci, infatti, costruiscono un sistema prognostico (come analizzare la malattia e le sue conseguenze) fondato non più sull’analogia ma sulla fenomenologia, sui dati della realtà come appare. In una visione fenomenologica si mantiene l’idea di una doppia struttura del mondo, l’apparenza e la sostanza che vi è nascosta, ma la capacità di giungere alla seconda dipende dal metodo causale con il quale si riconducono certi fenomeni ad altri che ne sono la matrice. I dati sensoriali della realtà vengono interpretati come segni, ovverosia come sintomi. Questo accade solo a patto che quei dati si ripetano, mostrino una certa regolarità. In questo senso il ragionamento necessario è ipotetico (abduttivo). I sintomi hanno un carattere di polisemia e polifunzionalità che li rende davvero simili a un linguaggio. Il medico è inteso come un interprete. La semiosi viene definita come un processo di significazione, in cui un segno rinvia a qualcos’altro, ma solo rispetto a un punto di vista e a qualcuno che lo esprime.

Platone (429-347 a.C.) Tutta la teoria platonica può essere interpretata come una dottrina dei segni e dei loro referenti metafisici, le Idee. I segni sono strumenti per rappresentare delle cose che, a loro volta, non sono altro che ombre agli occhi dell’uomo prigioniero della caverna. Il rapporto fra nomi e Idee è mediato, i nomi riflettendo solo alcune particolarità delle Idee. Se così non fosse, sottolinea Platone, nome e Idea coinciderebbero. La concezione platonica del processo segnico coinvolge tre termini: OMBRA (REFERENZA) NOME (SEGNO) IDEA (REFERENTE METAFISICO) Platone confuta la tesi della convenzionalità assoluta, intesa come completa arbitrarietà del segno linguistico: se tutte le azioni hanno una realtà 5 oggettiva e stabile, e il dare nomi è un’azione, allora anche il denominare non dipende dall’uomo soltanto ma dal modo in cui la natura vuole che le cose siano denominate, attraverso uno strumento, il segno linguistico. Ma Platone confuta, nel medesimo tempo, anche la tesi della naturalità, asserendo che, se fra nome e cosa vi è rapporto di naturalità, l’adeguazione del nome alla cosa avviene pur sempre in virtù di una legge, cioè di un accordo. Questa risiede nella mimesi, nell’atto imitativo che risiede nell’attività segnica. Se le cose si rispecchiassero nei nomi, non vi sarebbe imitazione, ma copia. Pertanto, i nomi hanno sempre un valore segnico, più o meno grande a seconda del grado di iconicità ricercato o raggiunto. Aristotele (384-322 a.C.) Il pensiero aristotelico segna una svolta decisiva per la storia della semiotica. Aristotele è il vero fondatore della logica. Nel De interpretatione definisce il segno nel senso moderno del termine, cioè rinvio a qualcos’altro. Le cose che sono, che si verificano nella voce, sono simboli delle affezioni dell’anima, e gli scritti sono simboli delle cose che sono nella voce; e come i segni grafici non sono gli stessi per tutti, neppure le singole forme foniche sono le stesse; alcune di queste ultime sono tuttavia fondamentalmente segni, le stesse per tutti sono le affezioni dell’anima, e le cose, di cui queste affezioni sono immagini similari, altresì sono le stesse per tutti. (Aristotele: 16a, 2-8) Il linguaggio è lo strumento per conoscere la realtà, psichica o materiale. Anche Aristotele disegna implicitamente un triangolo semiotico, con le seguenti posizioni: AFFETTI E CONCETTI CONVENZIONE MOTIVAZIONE SUONI COSE 6 Il tipo di funzionamento del linguaggio dipende dal fatto che le affezioni dell’anima e le cose da esse rappresentate sono uguali per tutti i parlanti, anche se i segni invece non lo sono. I segni sono le cose che implicano altre cose, a priori o a posteriori. Gli Stoici (IV-III a.C.) Gli stoici danno per primi una chiara definizione del segno, che per essi è «ciò che è indicativo di una cosa oscura», dove per «oscuro» intendono ciò che non è presente nel momento della comunicazione. Ne consegue che il segno si definisce come un renvoi a una cosa che non è necessariamente attuale, e che non è neppure necessariamente esistente. Per la prima volta si parla di segno non in termini puramente linguistici. Ne vengono indicate due specie: il segno rammemorativo e il segno indicativo. Il triangolo semiotico da essi proposto ha come vertici il significante, il significato (o “detto”, che può essere incompleto – nome – o completo – giudizio) e l’oggetto reale di riferimento. Gli Scettici (IV-II a.C.) Sesto Empirico (filosofo e medico) polemizza ampiamente contro la dottrina del segno degli Stoici. Il segno e la cosa significata stanno in un rapporto di relazione, e dunque devono essere appresi insieme, ma se il segno indicativo si riferisce a ciò che è non-evidente-per-natura, questo è assurdo. Sesto nega il valore conoscitivo della parola. Per natura essa non esprime nessun significato per il semplice fatto che non tutti sono in grado di capire quello che tutti gli altri dicono. […] Se invece la parola esprime un significato per convenzione, è ovvio che soltanto quelli che precedentemente abbiano appreso gli oggetti ai quali sono convenzionalmente applicate le espressioni verbali apprenderanno anche queste ultime. (Sesto Empirico: I, 36- 38) Epicuro (341-270 a.C.) Epicuro sostiene che unica fonte della conoscenza è la sensazione, che rispecchia fedelmente la realtà, e che provoca l’affezione, ovvero una 7 reazione del soggetto rispetto alle cose reali. Una ripetizione stabile delle sensazioni fa nascere in noi l’anticipazione, la quale è vera poiché viene confermata dall’esperienza. Egli propende per l’antica ipotesi naturalista sull’origine del linguaggio, ma non può eliminare neppure la nozione di accordo sociale: Neppure l’origine del linguaggio derivò da convenzione, ma gli uomini stessi naturalmente, a seconda delle singole stirpi, provando proprie affezioni e ricevendo speciali percezioni, emettevano l’aria in diverso modo conformata per l’impulso delle singole affezioni e percezioni, e a tal differenza contribuiva quella diversità delle stirpi ch’è prodotta dai vari luoghi abitati da esse. Più tardi, poi, di comune accordo, le singole genti determinarono per convenzione le espressioni proprie, per potersi fare intendere con minore ambiguità e più concisamente. E quando alcuno che n’era esperto introduceva la nozione di cose non note, dava loro determinati nomi. (Epicuro: IX, 75-76) Agostino (354-430) Con Agostino si fa un passo avanti decisivo verso la modernità: per la prima vota si mettono insieme la teoria del segno e quella del linguaggio verbale, in un processo di definitiva unificazione. Nel De Trinitate Agostino tratta del verbum, distinguendo tre livelli di analisi: la sostanza vocale dimostra che il verbum è segno di qualcos’altro; la sua sostanza razionale permette di definirlo ed “estrarlo dalla memoria”; infine, il verbum permette di giungere alla verità grazie alla sua funzione mediatrice. Il secondo livello di analisi, quello del senso, mostra la sua origine stoica: il verbum non è la cosa significata, perché è assimilato allo stesso pensiero, che si realizza nel discorso (locutio); è un aspetto interiore connaturato all’uomo, e non ha nulla a che vedere con le singole lingue. Lo stesso aspetto fonico (vox verbi) altrimenti “si consumerebbe”. Il pensiero formato dalle cose che conosciamo è una parola che non è né greca, né latina, né di alcuna altra lingua. Ma, come è necessario trasmetterla alla conoscenza di coloro ai quali parliamo, si adotta un segno attraverso il quale essa è significata. La parola che si intende dal di 8 fuori è un segno della parola che dà la luce interiore, e il nome di verbum è più adeguato al secondo; perciò, ciò che è pronunciato dalla bocca è il suono della parola (vox verbi) […], il nostro verbum diviene un suono articolato per impronta, non consumandosi nell’essere mutato in suono. (Agostino: 1932, 15, §§ 10-11) Il segno è definito come: una cosa che, più che l’impressione che essa produce sui sensi, fa venire di per sé alla mente qualche altra cosa. (Agostino: 2000, I, 1) Agostino suddivide i segni in due grandi categorie: i segni naturali e i segni convenzionali. Fra i segni, alcuni sono naturali, altri convenzionali. I segni naturali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fanno conoscere di per sé qualcos’altro di più di ciò che essi sono. È così che il fumo significa il fuoco, perché lo fa senza volere, ma noi sappiamo per esperienza, osservando e notando le cose, che, anche se il fumo apparisse da solo, vi sarebbe sotto del fuoco. La traccia di un animale che passa appartiene pure a questo genere di segni. Quanto all’espressione di un uomo irritato o triste, essa traduce il sentimento del suo animo, per quanto egli non abbia affatto volontà di esprimere la sua irritazione o la sua gioia. Lo stesso accade per ogni altro moto dell’animo. […] I segni convenzionali sono quelli che tutti gli esseri viventi fanno gli uni agli altri per mostrare reciprocamente, per quanto possono, i moti del loro animo, cioè tutto ciò che sentono e tutto ciò che pensano. La nostra sola ragione di significare, cioè di produrre segni, è quella di rendere chiari e di trasferire nello spirito altrui ciò che porta nel proprio spirito chi produce il segno. (Agostino: 2000, II, 1, 2-3, neretto aggiunto). Il segno ha una ragion d’essere puramente funzionale: quella di significare un oggetto. Però non lo significa come tale, e neppure significa un nozione in sé, ma l’idea che noi ci facciamo dell’oggetto. 9 Anselmo (1033-1109) Al principio dell’XI secolo hanno inizio la vera e propria logica e la semantica medievali. Anselmo d’Aosta elabora una dottrina della verità finalizzata alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. Nel De Veritate sviluppa la dicotomia fra segno e referente, distinguendo fra verità della significazione e verità della proposizione. Le cose determinano la verità della proposizione, ma non costituiscono la sua verità ontologica. Tutte le parole con l’aiuto delle quali noi diciamo mentalmente le cose, cioè di cui ci serviamo per pensarle, sono rassomiglianze o immagini delle cose di cui esse sono parole; ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. (Anselmo d’Aosta: 29-31) Ruggero Bacone (1214-1292) Nel De signis e nel Compendium studii tehologiæ, Bacone sostiene che la significazione può essere intesa in due modi: come rapporto fra il segno e l’interprete del segno, e fra il segno e l’oggetto di riferimento. Dal primo punto di vista si deve dedurre che la stabilità del significato dei segni è temporanea. Il linguaggio è un sistema aperto all’infinito, poiché chiunque ha la possibilità di creare termini nuovi per imposizione. In pratica, questa apertura è limitata da schemi e strutture che devono essere rispettati nel lavoro di imposizione linguistica. Resta, in ogni caso, il principio che la significazione dipende più che altro dai parlanti, e non da caratteri intrinseci ai segni. In qualche caso, tuttavia, i segni “motivati” esistono: i segni naturali (inferenze o somiglianze) e i segni dati (volontari o involontari). Tommaso d’Aquino (1225-1274) Il massimo esponente dell’aristotelismo cristiano è Tommaso d’Aquino. Il problema del segno è interpretato con riferimento alla lettura delle Scritture. I segni delle Scritture non sono equivoci, cioè da interpretare in senso allegorico, ma rigorosamente univoci, referenziali. I segni che vi sono presenti rinviano ad altri segni, gli eventi, che hanno sempre Dio 10 come punto di riferimento. Un segno particolare per Tommaso è quello del sacramento, o segno efficace, che testimonia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare. I segni sono per lui legati convenzionalmente ai concetti, e questi sono invece correlati per similitudine alle cose. William of Ockham (1290-1349) William of Ockham cambia sostanzialmente i termini del dibattito logico intorno al segno. Il segno è per lui Tutto ciò che, una volta appreso, fa venire a conoscere qualche altra cosa, sebbene non dia una conoscenza primaria di questa cosa ma una conoscenza attuale e susseguente a una conoscenza abituale della stessa cosa. (William of Ockham: I, 4) Ockham distingue fra segno naturale, che è il concetto e che è prodotto dalle cose stesse, e segno convenzionale, istituito ad arbitrio a significare più cose, cioè la parola. Il significato di un termine parlato o scritto può essere mutato liberamente, mentre il termine mentale non muta il suo significato ad arbitrio di nessuno. Sono tre i sistemi segnici da lui riconosciuti: un tipo mentale (rapporto tra intelletto e realtà), e due tipi convenzionali che si identificano nel linguaggio verbale e scritto. Egli fa una distinzione tra le parole (nomina relativa) e i termini (nomina absoluta): le parole possono avere significati anche connotativi, mentre i termini sono specifici e hanno valore assoluto. (Osimo 2002: 20) Umanesimo e Rinascimento in Italia Con l’Umanesimo si afferma una concezione radicalmente diversa della conoscenza, fondata sulla centralità dell’individuo-uomo rispetto all’universo e sulla sua capacità di sviluppare nuovi sistemi del sapere. Questa vera e propria “rivoluzione” avviene con la riscoperta dei classici antichi e col conseguente abbandono dell’aristotelismo, in favore delle tendenze platoniche e neoplatoniche. 11 Il mondo è una specie di testo prodotto da una entità superiore con una sua logica interna. Ogni parte, ogni oggetto del mondo è dunque correlato al sistema e ne costituisce un segno, identificabile dall’intelletto umano ancorché esso sia segreto. Sono fondamentalmente due gli autori che meglio definiscono tale “semiotica del mondo naturale”: Nicola Cusano e Pico della Mirandola. Nicola Cusano elabora l’idea della “dotta ignoranza”, ovvero della debolezza intellettuale umana dinanzi alla perfezione del mondo, che può tradursi in sapienza se si pone con atteggiamento umile al lavoro di decrittazione dei segni del sistema-mondo. Pico della Mirandola sviluppa il concetto di magia naturalis, che corrisponde alla visione di un mondo creato come una vera e propria “semiosfera” nel quale ciascun elemento rinvia a qualche misterioso significato. L’idea di un sistema-mondo produce, come si è detto, una concezione parimenti sistemica della conoscenza attraverso “segni”, che dal primo derivano e che vengono raccolti e memorizzati attraverso un metodo mnemotecnico. Ne fanno fede gli innumerevoli trattati riguardanti singole arti, che assumono la fisionomia di codici specifici o di codificazione del comportamento, di trattati sulle arti e sulla pittura, arti che si riconoscono parte di un sistema di reciproche corrispondenze. L’empirismo inglese Francis Bacon (1561-1626) Le motivazioni delle analisi semiotiche dell’empirismo (sviluppate poi in quasi tutto il Seicento inglese) nascono da un rinnovato interesse per la scienza in tutte le sue branche. I filosofi-scienziati sviluppano una riflessione sul modo di funzionamento – sulla base dell’osservazione – del fatto linguistico. Bacon differenzia i segni puramente arbitrari, come le parole, dai segni analogici: Ora, i sistemi di notazione che, senza il soccorso o l’intromissione delle parole, riescono a significare le cose, sono di due tipi, l’uno dei quali è fondato sull’analogia, l’altro è puramente arbitrario. Del primo tipo sono i geroglifici e i gesti; del secondo tipo sono i caratteri reali […]. Bisogna 12 che i geroglifici e i gesti abbiano sempre qualche somiglianza con la cosa che vogliono rappresentare, e siano così dei simboli, e per questa ragione noi li abbiamo chiamati notazioni per analogia. Invece i caratteri reali non hanno nulla di simbolico e sono del tutto irrappresentativi, come le lettere dell’alfabeto; e sono stati costituiti ad arbitrio e sono entrati poi nell’uso per abitudine e quasi per un tacito accordo. (Bacon: IV, 286) La tradizionale querelle tra natura e convenzione si concretizza a proposito di due questioni: l’origine del linguaggio e il rapporto fra nomi e cose. Bacon conferma la sua posizione di convenzionalista, dimostrandosi scettico a proposito della ricostruzione della lingua originaria, e fermandosi quindi alle lingue come sono. La congruità dei segni alle cose dipende soltanto dalla loro funzione di strumento atto a distinguere le cose. Bacon diventa il propugnatore di una metodologia della scienza fondata sul ragionamento induttivo, prevedendo anche le forme di errore e individuandone le cause in specifiche tipologie di attitudini soggettive degli individui e dei gruppi etnici e sociali.

Thomas Hobbes (1588-1679) Nella dottrina materialista di Hobbes il problema del segno linguistico è assai importante, a cominciare dalla sua funzione: La più nobile e utile invenzione fu quella del linguaggio, consistente in nomi e appellativi e nella loro connessione, onde gli uomini esprimono i loro pensieri, li rievocano quando sono passati, e se li scambiano tra loro per mutua utilità e conversazione. Senza di esso tra gli uomini non ci sarebbe stato governo, società, contratto, pace più di quanto non ve ne sia tra i leoni, gli orsi e i lupi. L’uso generale del linguaggio è di trasferire il nostro discorso in discorso verbale, o la serie dei pensieri in una serie di parole; e questo per due comodità. La prima è di notare le conseguenze dei nostri pensieri, i quali, potendo sfuggire dalla memoria e costringerci a un nuovo lavoro, possono di nuovo essere richiamati alla mente per mezzo delle parole che li esprimono; sicché il primo uso dei nomi è quelli di designazioni o note mnemoniche. L’altra comodità è che molti usano le stesse parole per comunicarsi l’un l’altro, con la loro connessione e col loro ordinamento, quel che essi concepiscono o pensano su ciascuna materia, o 13 anche il desiderio, o il timore, o qualunque altro sentimento. Per tale uso le parole sono chiamate signa. (Hobbes: 22-24) Per quanto riguarda i segni, Hobbes li considera inferenze che traiamo a partire dai dati dell’esperienza. Un segno, infatti, è qualcosa che deve essere osservato anticipare o seguire la cosa significata (conseguente dall’antecedente, antecedente dal conseguente). La tipologia da lui ipotizzata prevede i segni naturali (indipendenti dalla volontà umana) e i segni arbitrari (stabiliti dagli uomini a loro piacere e per esplicito o tacito accordo). John Locke (1632-1704) A conclusione del suo Essay Concerning Human Understanding, Locke ci lascia una definizione della semiotica: Tutto ciò che può entrare nella sfera dell’interesse umano essendo, in primo luogo, la natura delle cose quali sono in se stesse, i loro rapporti, e il modo della loro operazione; o, in secondo luogo, ciò che l’uomo stesso ha il dovere di fare, come agente razionale e volontario, per il raggiungimento di un qualunque fine, e specialmente della felicità; o, in terzo luogo, i modi e i mezzi coi quali viene raggiunta e comunicata la conoscenza di questi due ordini di cose; ritengo che la scienza possa venir propriamente divisa in queste tre specie […]. Il terzo ramo può essere chiamato dottrina dei segni; e poiché la parte più consueta di essa è rappresentata dalle parole, assai acconciamente essa viene anche chiamata logica. Il suo compito è di considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose, o per trasmettere ad altri la sua conoscenza. Poiché le cose che la mente contempla non essendo mai, tranne la mente stessa, presenti all’intelletto, è necessario che qualcos’altro, come un segno o una rappresentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spirito, e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all’immediata visione di un altro, né essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comunicare ad altri i nostri pensieri, nonché per registrarli a uso nostro, sono altresì necessari dei segni delle nostre idee, e quelli che gli uomini hanno trovato più convenienti a tale 14 scopo, e di cui perciò fanno uso generalmente, sono i suoni articolati. (Locke: IV, XXI, 1, 4) Il linguaggio è inteso da un lato come istituzione sociale, e dall’altro come strumento creativo del soggetto. Ma che esse soltanto significhino le peculiari idee degli uomini, e le rappresentino per un’imposizione perfettamente arbitraria, è cosa evidente, in quanto spesso esse non riescono a suscitare in altri (anche tra coloro che usano lo stesso linguaggio) le stesse idee di cui assumiamo che esse siano il segno; e ogni uomo ha una così inviolabile libertà di far sì che le parole stanno per le idee che a lui piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nella mente le stesse idee che ha lui, quando pur usino le stesse parole che egli usa. (Locke: IV, II, 11) Il razionalismo francese Cartesio (1596-1650) Le teorie cartesiane sul segno compaiono per la prima vota ne Il Mondo. Cartesio pensa a una struttura triadica del segno, costituita da un aspetto materiale (i suoni delle parole), un aspetto mentale che è loro direttamente collegato (il significato) e i fenomeni della realtà, che le parole rappresentano. Tuttavia, non vi è relazione diretta fra parole e cose, e il linguaggio, essendo considerato un’istituzione, è arbitrario. Cartesio include a volte nella categoria di linguaggio anche fenomeni non verbali, come la luce, il riso, il pianto, quando sono usati come segni. Nel Discorso sul metodo arriverà a indicare anche i gesti dei sordomuti e i segni naturali che esprimono le passioni. L’idea di Cartesio è che la natura del linguaggio corrisponda alla divisione fra corpo e mente, corpo e anima. Non a caso, infatti, l’aspetto materiale del linguaggio è variabile, ma la struttura del pensiero rimane la stessa, e ha carattere universale. Cartesio distingue fra parole che esprimono concetti e altri segni che esprimono sentimenti. Nel primo caso siamo di fronte a una attività spirituale e razionale, nel secondo a una attività animale. Tuttavia, possono esistere alcuni casi in cui i segni naturali provocano pensieri, e altri in cui le parole provocano sentimenti e passioni. 15 Port-Royal (XVII secolo) Né Cartesio né i primi cartesiani hanno elaborato una teoria linguisticosemiotica degna di nota. Occorre attendere la Grammatica e la Logica, o l’arte di pensare di Arnauld (1612-1694), Lancelot (1615 ca-1695) e Nicole (1625-1695), appartenenti alla setta giansenista del convento di Port-Royal. L’importanza di questa opera per gli sviluppi che essa ha portato nel pensiero contemporaneo è stata messa in luce da Noam Chomsky e da molti altri dopo di lui. Il punto di partenza della Grammatica è che essa può cogliere i tratti universali dell’attività linguistica umana, che sono uguali per tutti, perché questa è soltanto la manifestazione materiale e convenzionale dell’attività del pensiero. Il linguaggio come sistema di segni rappresenterebbe la struttura superficiale, il pensiero invece sarebbe la struttura profonda. Tra le riflessioni semiotiche del gruppo di Port-Royal contenute nella Logica, due sono assai rimarchevoli. Il pensiero non può essere raggiunto che tramite ciò che lo significa, i segni; ma poiché questi non sono congrui al pensiero, occorre stabilire le condizioni generali per servirsi di qualcosa come segno. Quando si considera un oggetto in se stesso e nel suo proprio essere, senza spingere lo sguardo dello spirito a ciò che esso può rappresentare, l’idea che se ne ha è un’idea di cosa, come l’idea della Terra, del Sole. Ma quando si considera un certo oggetto come rappresentante di un altro, l’idea che se ne ha è un’idea di segno, e quel primo oggetto si dice segno. In questo modo consideriamo solitamente le mappe e i quadri. Il segno quindi racchiude due idee, l’idea del segno e quella della cosa che rappresenta; e la sua natura consiste nel suscitare la seconda mediante la prima. (Arnauld e Nicole: I, IV) 16 Il razionalismo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, Leibniz si pone la questione di definire il segno, e lo intende come «qualcosa che percepiamo in un dato momento, e che poi consideriamo come connesso a qualcos’altro, in virtù dell’esperienza precedente, nostra o di altri». Leibniz propende per una tripartizione dei segni a seconda della loro relazione di motivazione con i loro significati. I nessi segnici possono essere determinati da scelta (e, quindi, arbitrarietà), da caso (e, quindi, arbitrarietà inconsapevole, accordo tacito) e da natura (motivazione). Egli fa una distinzione funzionale dei sistemi di segni, che possono avere funzione cognitiva (dare coerenza ai modi di conoscere) oppure comunicativa (consentire l’espressione fra uomini). Christian F. von Wolff (1679-1754) Seguace di Leibniz, Wolff tenta di dare una sistemazione organica a tutti i campi teorici analizzati dal maestro. Wolff dichiara che ogni procedimento conoscitivo può essere considerato processo segnico, e qualifica il segno come «ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza passata o futura di un altro ente» (Wolff: 952). Egli classifica i segni secondo la seguente tipologia: «il segno dimostrativo indica un designato presente, quello prognostico indica un designato futuro, quello memoriale indica un designato passato» (Wolff: 953). Il secondo empirismo inglese George Berkeley (1685-1753) La concezione della semiotica di Berkeley è assai vasta. Tutto l’universo è inteso come un sistema simbolico, comprese le nostre percezioni che costituiscono un linguaggio per mezzo del quale Dio (l’«Autore della Natura») ci presenta il mondo. I tipi di significazione identificati da Berkeley sono tre: 1) significazione operata all’interno dello stesso senso, che avviene dentro le categorie, e che è resa possibile per somiglianza qualitativa; 2) significazione che attraversa 17 sensi diversi, e che si svolge attraverso le categorie, senza somiglianza qualitativa, ma solo per associazione spaziotemporale; 3) volontà attiva, ovvero significazione che congiunge idee e cause, e che risiede nella Mente dell’«Autore della Natura» che la distribuisce alle menti finite degli uomini. David Hume (1711-1776) Hume approfondisce la teoria del segno come rappresentante di idee particolari. Quando abbiamo trovato una somiglianza fra diversi oggetti che ci capitano spesso innanzi, diamo a tutti lo stesso nome, qualunque siano le differenze che possiamo osservare nei gradi della loro quantità e qualità, e qualunque altra differenza possa apparire fra loro. Acquistata questa abitudine, nell’udire quel nome l’idea di uno di quegli oggetti si risveglia, e fa sì che l’immaginazione la concepisca in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni. […] La parola ci sveglia un’idea individuale, e insieme con essa una certa abitudine; e quest’abitudine produce ogni altra idea individuale, secondo che l’occasione richiede. Ma, poiché la produzione di tutte le idee, alle quali il nome può essere applicato, è cosa impossibile nella maggior parte dei casi, noi abbreviamo questo lavoro limitandolo a una considerazione più ristretta, senza che sorgano da questa abbreviazione troppi inconvenienti per i nostri ragionamenti. (Hume: VII) Una causa non è il criterio per determinare l’esistenza delle cose, ma è solo uno strumento intellettuale per conoscerle. In questo senso, una causa è esattamente uguale al segno indicativo naturale, dal momento che gli elementi caratteristici delle cause sono la contiguità spaziotemporale, la successione temporale, la congiunzione costante. La riprova è che l’inferenza causale è un’inferenza per mezzo di segni, ovvero un’inferenza debole, senza dimostrazione necessaria ma solo probabile. L’unica forma di certezza è la credenza nel fatto che certi fenomeni si ripeteranno a partire dalla loro notazione passata. 18 Gli enciclopedisti Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) Il linguaggio articolato è per Rousseau una evoluzione in senso degenerativo del genere umano. L’ipotesi sull’origine funzionale delle lingue è da lui dimostrata attraverso il collegamento fra linguaggio umano e musica. I suoni di una melodia non ci colpiscono semplicemente come suoni, ma come segni delle nostre affezioni dell’anima, dei nostri sentimenti. È per questa ragione che eccitano in noi le emozioni che essa esprime, e la cui immagine noi vi riconosciamo. (Rousseau: Introduzione) Questa relazione esiste anche nel discorso in atto, fissato da un contratto implicito fra gli uomini per regolare la loro esistenza obbligata alla collettività, che si evolve verso una sempre maggiore necessità di esplicitazione, e perciò si razionalizza, con la progressiva soppressione della comunicazione emotiva. Denis Diderot (1713-1784) Nell’Encyclopédie Diderot elabora un sistema classificatorio della conoscenza umana nel quale la comunicazione e la significazione giocano un ruolo decisivo proprio dal punto di vista cognitivo. Nella Grammatica Generale ritroviamo dei sottosistemi che sono tutti di natura semiotica: i segni (gesti e caratteri), i tratti prosodici (segmentali e sovrasegmentali), i costrutti (figure dello stile), la sintassi (ordine del discorso e usi linguistici) e infine gli aspetti metalinguistici (filologia, critica, pedagogia, ovvero le discipline che parlano dei vari linguaggi). Nella sua analisi Diderot prende in esame non solo le parole, ma anche i segni visivi, auditivi e tattili. Le parole denotano solo approssimativamente la realtà, pertanto la loro vera natura è quella di servire da strumento non tanto di conoscenza, quanto di decodifica del reale in un quadro di intersoggettività fra individui intesa nella sua natura inventiva e dinamica. 19 Il sistema semantico non cambia col mutare delle culture, ma le culture differiscono per il diverso uso dei significanti, del sistema dell’espressione e della memorizzazione delle sensazioni. Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780) Nel linguaggio Condillac vede un metodo per spiegare la conoscenza, ed è dunque fondamentale conoscere l’origine dei segni per determinarne la struttura. Le idee sono connesse con i segni, e soltanto per questo mezzo si connettono tra loro. Condillac riconosce tre tipi di segni: 1) i segni accidentali, o gli oggetti che certe circostanze particolari hanno legato con qualcuna delle nostre idee, cosicché sono propri a risvegliarle; 2) i segni naturali, o i gridi che la natura ha stabilito per i sentimenti di gioia, d’odio, di dolore eccetera; 3) i segni istituzionali, o quelli che noi stessi abbiamo scelto, e che non hanno che un rapporto con le nostre idee. (Condillac: II, 19) Immanuel Kant (1724-1804) Kant, pur con la sua monumentale opera, è il pensatore che nella storia del pensiero filosofico si è forse occupato meno del linguaggio. Nella Critica della ragion pura, egli elabora il principio dello schematismo dell’intelletto, grazie al quale si designano i concetti generali degli oggetti. Alla base dei nostri concetti sensibili puri non ci sono immagini di oggetti, ma schemi. Nessuna immagine di triangolo potrebbe mai essere adeguata al concetto di triangolo in generale. Essa infatti non adeguerebbe il concetto in quella sua generalità per cui vale tanto per il triangolo rettangolo quanto per l’isoscele eccetera, ma resterebbe limitata soltanto a una parte di questo ambito. Lo schema del triangolo non può esistere altrove che nel pensiero, e significa una regola della sintesi della immaginazione rispetto a figure pure nello spazio. Molto meno ancora un oggetto dell’esperienza o una sua immagine adeguano il concetto empirico; ma questo si riferisce sempre immediatamente a uno schema dell’immaginazione, che è la regola della determinazione della nostra intuizione conforme a un determinato concetto generale. Il concetto del cane designa una regola secondo cui la mia immaginazione può descrivere 20 la figura di un quadrupede in generale senza limitarla a una forma in particolare che mi offra l’esperienza o a ciascuna immagine possibile, che io possa concretamente rappresentarmi. Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro forma immediata, è una tecnica celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi. (Kant 1985: 165-166) Nella Critica del giudizio Kant afferma che parole e segni visibili (algebrici, numerici) sono tutti espressione dei concetti, ovvero «caratteri sensibili che designano concetti e servono come strumenti soggettivi di riproduzione». A torto, e con uno stravolgimento di senso, i logici moderni accolgono l’uso della parola “simbolico” per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni, non sono “caratteristi”, cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo una legge dell’associazione immaginativa […]; tali sono, in quanto semplici espressioni dei concetti, le parole oppure i segni visivi. Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde analogicamente. (Kant 1997: 218) La filosofia di Kant è tutta tesa a stabilire le precondizioni logiche dell’attività conoscitiva; i concetti sono dei regolatori della comprensione, funzionano per trasformare rappresentazioni differenti in una rappresentazione comune. In questo senso è chiara la loro presupposizione semantica. Il romanticismo tedesco Le teorie del linguaggio sviluppatesi in questo ambito possono essere riassunte in quattro categorie: 1) la discussione sulla natura arbitraria, convenzionale o motivata dei segni; 2) la teoria del segno come dialettica 21 fra rappresentazione e presentazione; 3) l’idea del linguaggio come totalità superiore alle sue parti; 4) l’identità fra linguaggio e sistema della cultura, in una prospettiva antropologica. I romantici tedeschi negano in maniera più o meno assoluta la natura arbitraria e/o convenzionale del linguaggio. Fiche, ad esempio, parla dell’origine del linguaggio come necessità, derivante dal desiderio degli uomini di sottomettere la natura non ragionevole alla ragionevolezza umana. Questo tentativo passa attraverso l’uso di tutti i sensi, e di sistemi di segni dotati di diversi piani dell’espressione, con l’unico scopo di designare gli oggetti sensibili per imitazione con l’unica volontà di comunicare. I segni sono una mediazione, rivestita di forma sensibile, della rappresentazione concettuale del mondo da parte dello spirito umano. Le parole sono presentazioni di rappresentazioni dei referenti. Tale presentazione può essere anche molto aderente alle cose, ma può indebolirsi per inadeguatezza o per oblio della propria natura originaria laddove si perda il senso della relazione imitativa, allora i segni sono arbitrari, e il nesso con i designata è frutto di immaginazione. A Schelling si deve la teorizzazione dell’organismo linguistico come totalità da cui dipende ogni singolo elemento, che non può essere afferrato senza il ricorso al tutto. Wolhelm von Humboldt, infine, sviluppa l’interessante concetto di correlazione fra lingua e popolo: la lingua, pur essendo un organismo e una totalità, non manifesta direttamente il pensiero: è piuttosto un «intramondo», mediatore fra pensiero e realtà attraverso caratteristiche proprie del sistema linguistico, che si sviluppano nel corso del tempo in modo dinamico e incessante. Culture diverse possono dare vita a filosofie diverse. Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) Omar Calabrese conclude il suo percorso sulla storia della semiotica con Hegel, il grande metafisico di questo periodo, che si è occupato maggiormente di altri del segno e della significazione del linguaggio. La filosofia dello spirito soggettivo implica una conoscenza intuitiva legata alla 22 sensazione e all’affetto, ma la rappresentazione fa accedere alla concettualizzazione. La rappresentazione si realizza sensibilmente attraverso i segni, ma è “soggettiva”, cioè arbitraria. La rappresentazione diviene un sistema di relazioni, una semiotica. Secondo Hegel, “il segno è una certa intuizione immediata che rappresenta un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé. Il segno è diverso dal simbolo, la cui determinazione propria è più o meno il contenuto che essa esprime come simbolo”. Il luogo vero del segno è l’intelligenza, che svolge la sua attività creatrice di rappresentazione, tra cui il linguaggio, che può essere fonico, scritto, per geroglifici o per scrittura alfabetica. Nella Propedeutica filosofica, Hegel tratta del problema della significazione, e in particolare dell’arbitrarietà del segno: Una realtà esteriore presente diviene segno quando è arbitrariamente associata a una rappresentazione che non le corrisponde e che se ne distingue parimenti attraverso il suo contenuto, in modo tale che questa realtà deve esserne la rappresentazione o significazione. (Hegel: II, 1, 155) Per quanto concerne l’invenzione di segni determinati, è naturale che, per i fenomeni sonori (rumori, fremiti, fracassi), si siano scelti dei segni verbali che ne sono le imitazioni immediate, per altri oggetti o modificazioni sensibili, il segno è, assolutamente parlando, arbitrario, per mezzo della designazione dei rapporti e delle determinazioni astratte, la simbolizzazione gioca un ruolo essenziale e la formazione ulteriore dei linguaggi appartiene alla facoltà dell’universale, cioè dell’intendimento. (Hegel: II, 1, 160) 23 2. Charles Sanders Peirce: cenni biografici Charles Sanders Peirce nacque a Cambridge, nel Massachussets, nel 1839, figlio di Sarah Hunt Mills e di Benjamin Peirce, insigne matematico, docente alla Harvard University. Questi si occupò personalmente dell’educazione del figlio, fanciullo prodigio. All’età di dodici anni lesse il libro Elements of Logic di Richard Whately, trovato per caso tra i libri di studio del fratello maggiore, e ne rimase affascinato. A quattordici anni era già notevolmente competente in chimica, studiava logica, era versato in matematica e filosofia. Questo giovane brillante fece inizialmente una discreta carriera: una volta laureatosi alla Harvard ottenne subito un incarico procuratogli dal padre presso l’agenzia United States Coast Survey1 (1859-1891), dove lavorò molti anni ed elaborò una serie di lavori scientifici che ebbero notevole risonanza internazionale. Dal 1869 al 1872 fu osservatore presso l’Harvard’s Astronomical Observatory e assistente di questo Osservatorio; compì ricerche di notevole successo, che si raccolsero nell’unico volumetto che egli riuscì a pubblicare nel corso della vita, riguardante le ricerche fotometriche. Questi inizi promettenti non trovarono successivamente conferma nella carriera di Peirce. Nel 1879 insegnò logica alla Johns Hopkins University; per cinque anni ebbe un incarico alla Harvard. Inspiegabilmente lo perse e in seguito nessuna università volle più conferirgli un incarico, forse a causa della sua difficile personalità, o, più probabilmente, a causa dell’opinione sfavorevole che di lui aveva Charles William Eliot, uno dei suoi professori, che fu presidente della Harvard University dal 1869 al 1909. Nel 1887 Peirce si ritirò a vita privata vicino a Milford, in Pennsylvania e, negli ultimi anni della sua vita, stentò letteralmente a sopravvivere; riuscì ad andare avanti solo con l’aiuto dei suoi amici, tra i quali William James. 1 In seguito denominata National Geodetic Survey, della quale è stato sovrintendente Benjamin Peirce dal 1867 al 1874. 24 Nel corso della vita Peirce non pubblicò nessun libro, ma una serie di articoli, che però non ebbero la risonanza che potevano meritare. Non trovò mai un editore disposto a pubblicare quella che egli chiamava «la grande Logica». Morì nel 1914 lasciando una quantità incredibile di carte scritte, più di ottantamila fogli che la moglie vendette alla Harvard University. Soltanto a partire dagli anni Trenta la sua fama cominciò a diffondersi nel mondo grazie ad alcune raccolte sia dei saggi che aveva pubblicato, che di questi straordinari manoscritti. Chiunque studi Peirce si immette in un oceano di problemi più che di soluzioni, di domande più che di risposte. La filosofia era effettivamente per Peirce una ricerca incessante, un’incessante messa in pratica della «massima pragmatica», cioè un incessante interpretare, in una scommessa della ragione che ha il suo compimento nell’apertura all’infinito. Come egli stesso ha scritto: «Do not block the way of inquiry». Figura di spicco del pragmatismo americano, insieme a Charles Morris e William James, Peirce non è soltanto un genio singolare ma sicuramente uno dei filosofi più importanti della nostra epoca. Il pragmatismo si configura come il contributo più significativo degli Stati Uniti alla filosofia occidentale. Ebbe grande successo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma nella versione elaborata da James, che tuttavia ammise sempre onestamente e lealmente che le idee di partenza erano di Peirce e non sue. La distinzione tra «pragmatismo» e «pragmaticismo» introdotta da Peirce intendeva, dunque, precisare così la netta differenza tra la sua posizione e quella dei suoi colleghi. Come già anticipato, l’opera di Peirce è molto vasta, e implica per lo studioso una necessaria procedura di selezione. Prendendo spunto da un’intervista a Carlo Sini (Rai, 6.02.92) accennerò brevemente ad alcuni principi fondamentali dell’analisi filosofica di Peirce: 25 il principio della «massima pragmatica», il principio del «fallibilismo» del metodo scientifico, il «metodo per fissare le convinzioni» e l’«abduzione». La «massima pragmatica» Alla base del pragmaticismo sta la «massima pragmatica». Essa stabilisce che le nostre opinioni, le nostre idee, hanno il loro luogo di rivelazione nell’agire, nella pratica, nel comportamento. Al primo posto si colloca, dunque, l’azione. James interpretava questo motto dando rilievo al carattere irrazionale dell’azione, mentre Peirce non intendeva assolutamente porre l’azione al posto della ragione o della logica, ma intendeva trovare un nuovo terreno sulla base del quale analizzare i problemi della verità e della logica. Per Peirce il mondo stesso è in evoluzione attraverso le nostre opinioni: la realtà è coinvolta nelle nostre azioni-inferenze. Il «fallibilismo» del metodo scientifico Per Peirce il motore della ricerca è rappresentato da un «dubbio reale e vivente». È il «dubbio reale e vivente» che conduce l’uomo a formarsi determinate convinzioni. Esso consiste in uno stato mentale di insoddisfazione e di frustrazione che l’uomo tende a trasformare in stato d’animo calmo e certo con l’introduzione di nuove convinzioni. L’ammettere l’esistenza di una convinzione iniziale non verificata riconduce la riflessione di Peirce a riconoscere il «fallibilismo» del metodo scientifico, anticipando così i concetti cardine sviluppati da Popper. Questo «fallibilismo» non è solo della mente e del comportamento umano, ma è dell’universo intero, che nasce da una caoticità e procede verso un ordine. Il «metodo per fissare le convinzioni» Peirce osserva che gli uomini hanno differenti metodi per fissare le loro convinzioni; egli enunciava quattro metodi principali: la tenacia, l’autorità, il metodo metafisico, e il metodo scientifico. La tenacia è quell’atteggiamento per cui un uomo nutre nei confronti delle proprie convinzioni la tenace volontà di perseguirle contro tutto e contro tutti. Il metodo dell’autorità è a sua volta un metodo tenace, ma non si appella tanto 26 alle convinzioni del singolo, quanto a quelle di un’istituzione, fissate dall’autorità, dallo Stato, ecc. Ma questi due modi – dice Peirce – non riescono a stabilire credenze durevoli nel tempo. Il terzo metodo, quello metafisico, non si appella alla tenacia ma al dubbio, al confronto, al dialogo, e ha come meta quella di pervenire a una credenza razionale. Questo metodo, più nobile degli altri, ha dato risultati meno apprezzabili di quanto si poteva sperare, perché i filosofi non si sono intesi sull’idea di ragione. Resta il quarto metodo, che Peirce segue tutta la vita: il metodo scientifico. Il metodo scientifico è quel procedimento secondo il quale gli uomini non soltanto elaborano le loro convinzioni in dialogo con altri uomini, ma le affidano al riscontro della prova pratica. La pratica alla quale viene affidato il compito di rivelare il significato logico è sempre un’interpretazione della realtà. L’«abduzione» Il vero problema era quello che già poneva Kant: come sono possibili giudizi sintetici a priori? Ossia come posso inferire cose che non osservo da quello che osservo e avere successo in questa inferenza? Peirce sostenne con molta coerenza che l’uomo ragiona avanzando ipotesi plausibili, e tali inferenze, o pensieri-segni, riflettono i diversi modi in cui noi diamo un senso ai fenomeni che osserviamo. Il vero ragionamento fondamentale è quello che Peirce chiama «abduttivo». Abduction is the process of forming an explanatory hypothesis. It is the only logical operation which introduces any new idea; for induction does nothing but determine a value, and deduction merely evolves the necessary consequences of a pure hypothesis. Deduction proves that something must be; Induction shows that something actually is operative; Abduction merely suggests that something may be. Its only justification is that from its suggestion deduction can draw a prediction which can be tested by induction, and that, if we are ever to learn anything or to understand phenomena at all, it must be by abduction that this is to be brought about. 27 No reason whatsoever can be given for it, as far as I can discover; and it needs no reason, since it merely offers suggestions. C.P.5, Pragmatism and Pragmaticism, Book 1: Lectures on Pragmatism, Chapter 4, Instinct and Abduction, n. 171 Peirce spiega il principio della logica abduttiva con l’esempio, diventato celebre, dei fagioli. ABDUZIONE (ragionamento sintetico ipotetico) a) regola tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi costante nota b) risultato questi fagioli sono bianchi constatazione di un fenomeno non facilmente prevedibile quindi forse: c) caso questi fagioli vengono da questo sacco antecedente, spiega il rapporto esistente tra risultato e regola L’abduzione è un ragionamento sintetico ipotetico: se è vero che le probabilità che tale inferenza sia corretta sono più basse che nella deduzione e nell’induzione, è anche vero che la verifica di tale inferenza nella realtà è sempre possibile. L’abduzione si basa sull’ipotesi di un caso, e la verifica dell’ipotesi consiste nella costruzione del rapporto tra una regola e un risultato: si basa su una considerazione nota per giungere a una nuova convinzione. Il valore creativo dell’abduzione è dunque superiore a quello dell’induzione e della deduzione, e ha una forza creativa che permette l’introduzione di idee nuove e originali. In virtù di questa ricostruzione a ritroso il ragionamento prende anche il nome di «retroduzione». La semiosi, la significazione, la comprensione di un testo non segue un ragionamento deduttivo o induttivo […] ma abduttivo, che si limita a suggerire che qualcosa può essere. (Osimo 2002: 72-73)

3. La teoria del segno Peirce ha dato un contributo fondamentale alla scienza della traduzione moderna, che fortunatamente ha superato l’artificiosa distinzione tra una “teoria” e una “pratica” della traduzione. L’approccio semiotico alla traduzione permette di addentrarsi in modo corretto in un’attività razionale basata su elementi certi, non più basati su un istinto ma su un metodo. Vediamo, pur in estrema sintesi, la teoria del segno, meglio conosciuta come «Triade di Peirce». In ogni situazione pratica di vita, dunque, agiscono sempre tre elementi, che fondano la teoria dei segni secondo Peirce: segno, interpretante e oggetto. «La semiosi è un’azione, o influenza, che è, o comporta, una collaborazione di tre soggetti, come un segno, il suo oggetto e il suo interpretante, senza che questa influenza tri-relativa sia in alcun modo risolvibile in azione tra coppie». (Osimo 2002: 66) Now the relation of every sign to its object and interpretant is plainly a triad. A triad might be built up of pentads or of any higher perissad elements in many ways. But it can be proved – and really with extreme simplicity, though the statement of the general proof is confusing – that no element can have a higher valency than three. C. P. 1, Principles of Philosophy, Book 3: Phenomenology, Chapter 1, Introduction, n. 292 Una cosa (segno) sta per un’altra (oggetto) passando da un segno mentale (interpretante). INTERPRETANTE (entità mentale evocata dal segno) SEGNO (parola, frase, testo di qualsiasi genere) OGGETTO (qualsiasi significato astratto o concreto collegato al segno) 29 Tra le tante definizioni della triade fornite nei Colleted Papers, riporto quella ritenuta più canonica: A representation is that character of a thing by virtue of which, for the production of a certain mental effect, it may stand in place of another thing. The thing having this character I term a representamen, the mental effect, or thought, its interpretant, the thing for which it stands, its object. C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 6, On a new list of categories, n. 564 Utilizzo l’esempio fatto da Osimo: «Se vedo un albero spezzato in due, molte foglie verdi per terra e il terreno bagnato, questi sono segni che – verosimilmente – un temporale e un fulmine si sono abbattuti da poco in questa zona. In questo caso l’albero (segno) produce nella mia mente un pensiero (interpretante) che mi rimanda al temporale (oggetto)». (2002: 66) Analizzo di seguito i tre vertici della Triade. 3.1 Sign Il segno viene definito come «qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa in qualche aspetto o capacità». Si rivolge a qualcuno, ossia, crea nella mente di quella persona un segno equivalente, un segno «più sviluppato». Quel segno che crea lo chiama interpretante del primo segno. Il segno, denominato anche representamen, sta per qualcosa: il suo oggetto. A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something in some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. That sign which it creates I call the interpretant of the first sign. The sign stands for something, its object. It stands for that object, not in all respects, but in reference to a sort of idea, which I have sometimes I called the ground of the representamen. C.P. 2, Elements of Logic, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 228 30 La traduzione è un anello fondamentale della concatenazione semiotica, dal momento che il fine ultimo della traduzione è rivelare il significato ultimo del segno. Questo svelamento è frutto di un processo traduttivo che si ambienta nella mente del traduttore. Applicandolo alla parola scritta, tale processo avviene attraverso una parola (il segno) che porta a un significato (oggetto) passando dalla mente del traduttore, dove al segno corrisponde un’entità precisa (interpretante) che, sulla base dell’esperienza individuale relativa a quel segno, rimanda a una gamma di significati (oggetti), variabile nel tempo e necessariamente soggettiva. Il significato ultimo è inteso nella contingenza di un momento, soggetto a un ulteriore atto di traduzione/interpretazione/lettura. La «semiosi illimitata» è una serie infinita di rappresentazioni, ognuna rappresentante quel che le sta dietro, in una concatenazione di pensieri (traduzioni) che non ha mai fine, in quanto è sempre possibile arricchire un’interpretazione di nuovi elementi. Per sgombrare il campo da possibili equivoci, vale la pena soffermarsi sull’espressione di Peirce sopra riportata «equivalent sign» con le parole di Osimo: Per Peirce l’equivalenza è qualcosa di soggettivo («si rivolge a qualcuno»), è valida soltanto «sotto qualche aspetto» o «in qualche capacità». L’equivalenza non ha valore assoluto ma relativo, effimero. L’interpretante non è proprio un equivalente ma «un segno più sviluppato». La parola «equivalente» non è usata in senso stretto come «di pari valore», ma in senso molto più ampio. (2002: 70) Peirce usa una metafora singolare, quella dello spogliarello in cui il “corpo” del segno non è mai del tutto svelato. The easiest of those which are of philosophical interest is the idea of a sign, or representation. A sign stands for something to the idea which it produces, or modifies. Or, it is a vehicle conveying into the mind something from without. That for which it stands is called its object; that which it conveys, its meaning; and the idea to which it gives rise, its 31 interpretant. The object of representation can be nothing but a representation of which the first representation is the interpretant. But an endless series of representations, each representing the one behind it, may be conceived to have an absolute object at its limit. The meaning of a representation can be nothing but a representation. In fact, it is nothing but the representation itself conceived as stripped of irrelevant clothing. But this clothing never can be completely stripped off; it is only changed for something more diaphanous. So there is an infinite regression here. Finally, the interpretant is nothing but another representation to which the torch of truth is handed along; and as representation, it has its interpretant again. Lo, another infinite series. C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 2, The Categories in Detail, n. 339 Seguendo gli spunti estremamente originali di Peirce, il pensiero deve esistere e crescere in incessanti “traduzioni” nuove e più alte, altrimenti mostra di non essere vero pensiero. Se la serie di successivi interpretanti giunge a un termine, il segno è in tal modo reso imperfetto. Un segno, quindi, non è un segno se non si traduce in un interpretante, che diventa a sua volta un nuovo segno più sviluppato del primo. Anything which determines something else (its interpretant) to refer to an object to which itself refers (its object) in the same way, the interpretant becoming in turn a sign, and so on ad infinitum. No doubt, intelligent consciousness must enter into the series. If the series of successive interpretants comes to an end, the sign is thereby rendered imperfect, at least. If, an interpretant idea having been determined in an individual consciousness, it determines no outward sign, but that consciousness becomes annihilated, or otherwise loses all memory or other significant effect of the sign, it becomes absolutely undiscoverable that there ever was such an idea in that consciousness; and in that case it is difficult to see how it could have any meaning to say that that consciousness ever had the idea, since the saying so would be an interpretant of that idea. C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 3, The Icon, Index and Symbol, n. 303 32 Il rapporto tra segno e oggetto non è sempre dello stesso tipo e il vincolo tra essi non ha la stessa intensità: tale relazione può essere motivata da una ragione, da una somiglianza fisica, oppure può essere legata a un’associazione mentale. Peirce individua tre gradi di arbitrarietà nel rapporto tra segno e oggetto, tutti indispensabili nel pensiero, che danno vita a tre fondamentali tipi di segno: l’icona, l’indice e il simbolo. One very important triad is this: it has been found that there are three kinds of signs which are all indispensable in all reasoning; the first is the diagrammatic sign or icon, which exhibits a similarity or analogy to the subject of discourse; the second is the index, which like a pronoun demonstrative or relative, forces the attention to the particular object intended without describing it; the third [or symbol] is the general name or description which signifies its object by means of an association of ideas or habitual connection between the name and the character signified. C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 3, A Guess at the Riddle, n. 369 La prima classe di segni, l’icona, è una rappresentazione poco arbitraria dell’oggetto. Non ha una connessione dinamica con l’oggetto che rappresenta, ma le sue qualità assomigliano a quelle dell’oggetto, e possono quindi rimandare ad esso pur non essendovi direttamente collegate. An Icon is a sign which refers to the Object that it denotes merely by virtue of characters of its own, and which it possesses, just the same, whether any such Object actually exists or not. It is true that unless there really is such an Object, the Icon does not act as a sign; but this has nothing to do with its character as a sign. Anything whatever, be it quality, existent individual, or law, is an Icon of anything, in so far as it is like that thing and used as a sign of it. C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 247 L’indice, seconda classe di segni, è influenzato dall’oggetto, ha necessariamente alcune qualità in comune con l’oggetto, e la mente interpretante può semplicemente constatarlo. 33 An Index is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of being really affected by that Object. […] In so far as the Index is affected by the Object, it necessarily has some Quality in common with the Object, and it is in respect to these that it refers to the Object. It does, therefore, involve a sort of Icon, although an Icon of a peculiar kind; and it is not the mere resemblance of its Object, even in these respects which makes it a sign, but it is the actual modification of it by the Object. C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 248 Il simbolo, terza classe di segni, è fisicamente legato all’oggetto in virtù di una legge, di una convenzione condivisa, di un’associazione mentale riconosciuta. A Symbol is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of a law, usually an association of general ideas, which operates to cause the Symbol to be interpreted as referring to that Object. […] Not only is it general itself, but the Object to which it refers is of a general nature. Now that which is general has its being in the instances which it will determine. There must, therefore, be existent instances of what the Symbol denotes, although we must here understand by “existent,” existent in the possibly imaginary universe to which the Symbol refers. The Symbol will indirectly, through the association or other law, be affected by those instances; and thus the Symbol will involve a sort of Index, although an Index of a peculiar kind. It will not, however, be by any means true that the slight effect upon the Symbol of those instances accounts for the significant character of the Symbol. C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 249 Il pensiero si sviluppa attraverso i segni, che cambiano nel tempo, trasformandosi incessantemente in pensieri più sviluppati. Un simbolo, in particolare, una volta in essere, si diffonde tra i popoli e col tempo porta in sé nuove significazioni: Symbols grow. They come into being by development out of other signs, particularly from icons, or from mixed signs partaking of the nature of icons and symbols. We think only in signs. These mental signs are of mixed nature; the symbol-parts of them are called concepts. If a man makes a new symbol, it is by thoughts involving concepts. So it is only out of symbols 34 that a new symbol can grow. A symbol, once in being, spreads among the peoples. In use and in experience, its meaning grows. Such words as force, law, wealth, marriage, bear for us very different meanings from those they bore to our barbarous ancestors. C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 3, The Icon, index and symbol, n. 302 All’interno delle argomentazioni su icona, simbolo e indice, Peirce colloca i segni linguistici nel tipo intermedio: essi sono simboli, ed esplicano tale funzione solo se sono interpretati come segni. 3.2 Interpretant Il termine «interpretante», o «segno interpretante» è stato coniato da Peirce per designare quel segno mentale, quel pensiero, quella rappresentazione, che funge da mediazione soggettiva tra segno e oggetto. Il segno è tradotto in un oggetto (concreto o astratto) per mezzo di un passaggio mentale, frutto dell’esperienza individuale, chiamato appunto «interpretante», inteso come segno prodotto dalla nostra mente in reazione alla percezione del primo segno. Ogni atto di lettura si configura come processo traduttivo intersemiotico. Un segno deve avere un’interpretazione o significazione o, come lo chiamo io, un interpretante. Questo interpretante, questa significazione è semplicemente una metempsicosi in un altro corpo; una traduzione in un altro linguaggio. Questa nuova versione del pensiero ha ricevuto a sua volta un’interpretazione, e il suo interpretante viene interpretato, e così via, finché non compare un interpretante che non ha più la natura del segno. (Peirce, in Gorlée: 126) L’interpretante può essere un segno mentale di un’altra classe. In consequence of every sign determining an Interpretant, which is itself a sign, we have sign overlying sign. The consequence of this, in its turn, is that 35 a sign may, in its immediate exterior, be of one of the three classes, but may at once determine a sign of another class. C.P. 2, Book 1, Chapter 2, Partial Synopsis of a Proposed Work in Logic, n. 94 La semiosi dei tre tipi di segni descritti poco sopra – indice, icona, simbolo – dà luogo a sua volta a tre tipi di interpretanti. L’interpretante di un segno iconico è emozionale (emotional); quello di un segno indessicale è energetico (energetic); l’interpretante legato al simbolo può essere intellettuale (intellectual) o logico (logical). (John Dewey, Peirce Theory of Linguistic Signs, Thought, and Meaning, in The Journal of Philosophy, Volume XLIII, No. 4, February 14, 1946). All’interno del processo traduttivo, il collegamento tra segno e interpretante è uno degli aspetti più interessanti da indagare. Nella mente del traduttore avviene il collegamento tra una parola (in qualsiasi lingua nota) e un significato (nel linguaggio mentale – non verbale – del traduttore). Tale collegamento non è arbitrario (come invece è in Saussure), ma soggettivamente necessario; necessità che scaturisce dalla precisione della percezione soggettiva. Laddove in Saussure la relazione tra signifiant e signifié è arbitraria, in Peirce la relazione tra segno (parola) e oggetto (significato) è mediata dall’interpretante, entità mentale che, all’interno di uno stesso soggetto, non risulta affatto arbitraria ma esperienziale. Il risultato di questa percezione del testo (nel caso del traduttore, del prototesto) è una concezione mentale, un pensiero o una serie di pensieri che, per il traduttore, stanno per il testo percepito. In altre parole, è l’idea che il traduttore si è fatto del testo letto. Partendo da questa idea, avviene la riformulazione del messaggio nella cultura ricevente, tenendo conto di residuo culturale2 e ridondanza3 . (Osimo 2006: 7, neretto aggiunto) 2 «Nella teoria matematica della comunicazione, elemento del messaggio che non giunge a destinazione. Elemento della traduzione che, dopo avere elaborato la propria strategia, il traduttore decide di non tradurre all’interno del testo nella cultura ricevente perché risulta una delle sottodominanti meno prioritarie o risulta difficile o apparentemente impossibile da tradurre. Il residuo viene generalmente tradotto nel metatesto inteso come apparato paratestuale» (Osimo 2004: 222). 3 «Nella teoria della comunicazione, surplus di informazione inviato allo scopo di garantire l’arrivo a destinazione del messaggio nella sua interezza» (Osimo 2004: 223). 36 L’interpretante è soggettivo perché soggettiva è l’esperienza di ciascuno di noi, come riconosce con estrema efficacia George Steiner. Non ci sono due esseri umani che condividano un contesto associativo identico. Poiché tale contesto è formato dalla totalità dell’esistenza dell’individuo, poiché comprende non solo la somma della memoria e dell’esperienza personale, ma anche il bacino di quell’inconscio particolare, varia da persona a persona. Non esistono facsimili della sensibilità, né psichi gemelle. Tutte le forme e le notazioni del discorso, perciò, comportano un elemento latente o realizzato di specificità individuale. Sono, in parte, un idioletto. (Steiner: 178-179) Cosa intende Peirce per «esperienza»? Peirce colloca l’esperienza nell’ambito del processo di acquisizione della conoscenza, che può essere costituito da tre differenti dinamiche. La prima dinamica è l’istinto, che può presentare a sua volta tre caratteri distintivi: è conscia, è determinata verso un quasi-scopo, e sotto certi aspetti sfugge a qualsiasi controllo. Descriptive Definition of a Human Instinct, as the term will here be used. An animal instinct is a natural disposition, or inborn determination of the individual’s Nature (his ‘nature’ being that within him which causes his behaviour to be such as it is), manifested by a certain unity of quasipurpose in his behaviour. In man, at least, this behaviour is always conscious, and not purely spasmodic. More than that, unless he is under some extraordinary stress, the behaviour is always partially controlled by the deliberate exercise of imagination and reflexion; so much so that to the man himself his action appears to be entirely rational, so far is it from being merely sensori-motor. General analogy and many special phenomena warrant the presumption that the same thing is true of the lower animals, though they are undoubtedly far less reflective than men. Yet the adaptation of the behaviour to its quasi-purpose in some definite part overleaps all control … So then the three essential characters of instinctive conduct are that it is conscious, is determined to a quasi-purpose, and that in definite respects it escapes all control. C.P. 7, Science and Philosophy, Note n. 19. 37 La seconda dinamica, plasmata dall’istinto, è – appunto – l’esperienza, luogo in cui le nuove conoscenze sono memorizzate dall’individuo in una sorta di memoria storica, che sta alla base della capacità di rischiare inferenze. Come si forma precisamente l’esperienza? Attraverso una serie di sorprese, di imprevisti nei quali un individuo si imbatte all’interno della realtà, che sono all’origine di ogni scoperta. But precisely how does this action of experience take place? It takes place by a series of surprises. There is no need of going into details. At one time a ship is sailing along in the trades over a smooth sea, the navigator having no more positive expectation than that of the usual monotony of such a voyage, when suddenly she strikes upon a rock. The majority of discoveries, however, have been the result of experimentation. […] It is by surprises that experience teaches all she deigns to teach us. C.P. 5, Book 1, Lectures on Pragmatism, n. 51 L’abitudine, terza e ultima dinamica del processo di acquisizione della conoscenza, è il luogo di deposito delle esperienze a partire dalle quali l’uomo è in grado di individuare una verità nuova. All’interno dell’abitudine, è possibile individuare diversi gradi di «forza», che variano dalla dissociazione completa all’associazione inseparabile, dalla prontezza all’azione all’eccitabilità, e presentano una diversa durata. Habits have grades of strength varying from complete dissociation to inseparable association. These grades are mixtures of promptitude of action, say excitability and other ingredients not calling for separate examination here. The habit-change often consists in raising or lowering the strength of a habit. Habits also differ in their endurance (which is likewise a composite quality). But generally speaking, it may be said that the effects of habitchange last until time or some more definite cause produces new habitchanges. It naturally follows that repetitions of the actions that produce the changes increase the changes. […] There are, of course, other means than repetition of intensifying habit-changes. In particular, there is a peculiar kind of effort, which may be likened to an imperative command addressed to the future self. I suppose the psychologists would call it an act of autosuggestion. C.P. 5, Book 3, Chapter 1, A Survey of Pragmaticism, n. 477 38 La triade periceiana dell’acquisizione della conoscenza trova una diretta applicazione al processo della lettura. Così la presenta Osimo: Scopo istintivo della lettura è trovare il significato del testo. L’intuizione, che in questo processo è fondamentale, è quel quid che fa la differenza tra deduzione e abduzione. Permette di fare inferenze, congetture (provvisorie) che introducono conoscenze (ipotetiche) nuove, e costringe a controllarle. L’esperienza individuale, con il suo bagaglio di percezioni, anche se non sempre a livello del tutto consapevole, serve ad affrontare la decodifica, le inferenze sono basate sulla creatività, ma anche sulle esperienze acquisite. E il realismo delle ipotesi creative è tutto affidato all’esperienza. Quando un’inferenza si dimostra utile e produttiva, dà luogo a ripetizioni, che col tempo formano l’abitudine, generalizzazione dell’esperienza che agisce sinteticamente individuando regolarità e reagendovi in modo omogeneo. L’abitudine interpretativa guida il lettore che procede veloce finché non incontra uno scoglio, un fenomeno anomalo, un testo marcato, che attiva la modalità di decodifica lenta, analitica. Quando l’applicazione di un’abitudine interpretativa si rivela fallace, entra in gioco il terzo lato del “triangolo”, e l’esperienza nuova produce modifiche nell’abitudine acquisita. Ciò a sua volta ha effetto sulla percezione futura, e così via all’infinito. Il traduttore si inserisce nel ragionamento, anche in questo caso, con un ruolo di primo piano. La sua esperienza di “leggente” e di “scrivente” è estesa perché è necessario – per ragioni anche di natura economica – che la lettura/scrittura possa procedere veloce e, nel contempo, arrestarsi o rallentare al momento giusto. (2004 a : 52-53) Il processo traduttivo si conclude quindi nel rischio della scelta, compiuta sulla base di un’abduzione, ossia – come già detto – di un’inferenza logica che, sulla base di un evento, risale alla regola generale che spiega in modo verosimile tale evento. Eco ci aiuta a chiarire questa dinamica: Interpretare qualcosa come se fosse in un certo modo significa avanzare una ipotesi, perché il giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data […]. E deve essere un tipo di ipotesi molto avventuroso, perché dal particolare (da un Risultato) occorre inferire una 39 Regola che non conosce ancora; e per trovare da qualche parte quella Regola occorre ipotizzare che quel Risultato sia un Caso di quella Regola da costruire. Kant non si è espresso in questi termini, certo, ma lo ha fatto il kantiano Peirce: è chiaro che il giudizio riflettente altro non è che un’abduzione. (Eco 1997: 74) La scelta operata dal traduttore porta all’individuazione di un significato «primario». But of this endless series of equivalent propositions there is one which my situation in time makes to be the practical one for me, and that one becomes for me the primary meaning. C.P. 8, Reviews, Correspondence and Bibliography, Book 1, Reviews, Chapter 13, On Pragmatism, from a review of a book on cosmology, n. 195 Il significato «primario» non ha nulla a che vedere con la verità, ha a che vedere con la realtà. Nel corso di una traduzione il significato primario è quello che scelgo di attualizzare nel mio metatesto. Lo chiamiamo «primario» nel senso di «primario tra i diversi significati possibili», attualizzato in quel preciso momento e contesto contingente e soggetto a una ulteriore traduzione/interpretazione/ lettura. (Osimo 2002: 71)

3.3. Object Concludo il percorso di definizione con il terzo vertice della triade: l’oggetto. L’oggetto, denominato da alcuni studiosi anche «referente» o denotatum (Jakobson), è l’elemento della realtà a cui rimanda il segno. L’oggetto può esistere a prescindere dal segno, attraverso il quale soltanto è conoscibile. Come spiega Rivoltella, il concetto di oggetto è complesso: Peirce vi distingue due dimensioni che definisce «oggetto immediato» e «oggetto 40 dinamico». L’oggetto dinamico è la «descrizione operativa di una classe di possibili esperienze» (Eco: 29): quando il comandante dice ai suoi soldati «Ri-poso!» – l’esempio è di Peirce – l’oggetto dinamico di quest’ordine comprende sia il desiderio del comandante che i suoi uomini assumano la posizione di riposo, sia l’azione dei soldati che obbedendo all’ordine si mettono in posizione di riposo. Più che una realtà «in carne e ossa» l’oggetto dinamico è dunque per Peirce «un’istruzione semantica» (Eco) che vincola il segno alla sua rappresentazione: l’oggetto dinamico evoca, cioè, un insieme di esperienze possibili in un determinato contesto culturale e sociale. Rispetto a questo primo tipo di oggetto, l’oggetto immediato è, invece, l’oggetto così come il segno lo rappresenta, cioè il «modo in cui l’oggetto dinamico è focalizzato» (Eco). La modalità di questa focalizzazione viene definita da Peirce ground: questo è ciò che può venire compreso e trasmesso di un dato oggetto sotto un certo profilo, ciò che dell’oggetto il segno seleziona. Dunque, l’oggetto immediato è il risultato della selezione che il segno compie all’interno dell’oggetto dinamico. (Rivoltella: 90) In sintesi, l’oggetto immediato è l’idea su cui si è costruito il segno, ed è soggetto a cambiamenti. L’oggetto dinamico è il concetto reale a cui il segno rimanda. 41 Osservazioni conclusive Tento di analizzare alcuni dei numerosissimi aspetti dell’applicazione della teoria peirciana alla traduzione. Il processo di significazione, la progressiva approssimazione che da un segno conduce a un significato passando da un interpretante (filtrato dalla mente del traduttore), è illuminante se applicato alla triade cultura emittente-cultura traducente-cultura ricevente del processo traduttivo. Il processo mentale che da un testo nella cultura emittente producesse un testo nella cultura ricevente, senza attraversare una fase intermedia di trasformazione in materiale mentale poi riconvertito e riverbalizzato, non sarebbe traduzione testuale, ma creerebbe un prodotto di scarto di cui a volte si percepiscono le tracce in quello che viene chiamato «traduttese». (Osimo 2004 a : 95) Riporto di seguito una tabella che dettaglia le fasi di tale processo: Percezione Una parola (segno) viene letta Correlazione Nella mente si sviluppa un interpretante che mette in relazione quel segno con un oggetto Interpretazione L’interpretante è una rappresentazione psichica che implica un’interpretazione, spesso aconscia, della relazione tra segno e oggetto Inferenza L’interpretazione aconscia è ipotetica e provvisoria (abduttiva) Percezione La lettura continua: altri segni Evoluzione dell’interpretazione Alla luce dell’interpretazione dei nuovi segni si evolvono gli interpretanti, e si modifica la prima interpretazione del primo segno, che non sarà mai stabile, ma sempre in evoluzione, alla luce delle nuove percezioni (esperienze) (Osimo 2004 c : 34) La semiosi illimitata è la dinamica più adeguata a spiegare l’atto traduttivo: una traduzione non può mai considerarsi finita, ma provvisoria e passibile di miglioramento (Osimo: 2000-2004). 42 Il concetto di traducibilità, nell’ottica perceiana, assume una luce assai originale, dal momento che il senso di un atto di traduzione varia nel tempo, ed è condizionato dal contesto linguistico, culturale e storico in cui viene accolto. Dinda Gorlée si è occupata approfonditamente di questo aspetto, ponendosi domande che identificano vere e proprie sfide per il “mestiere” del traduttore: una traduzione ha una scadenza? come si determina la traducibilità di un testo? hanno senso parole come «fedele/infedele» riferite a una traduzione? Ecco le sue risposte: Nulla è per sempre: tutti i segni e i sistemi segnici procedono da uno stato più caotico, sorprendente, paradossale ecc. e passano attraverso la traduzione verso uno stato più ordinato, prevedibile, razionalizzato […] Le opere originali sono, e spesso col tempo restano, autentiche, autonome, uniche, e quindi entità sostanzialmente insostituibili. Una traduzione, tuttavia non ha la stabilità di un’opera originale e diventa ossificata come testo-segno datato. […] Non si può sottolineare abbastanza che le traduzioni diventano obsolete perché il contesto culturale generale e specifico cambia continuamente, mettendo in discussione questioni come traducibilità versus intraducibilità, e fedeltà versus infedeltà, rendendole del tutto ridondanti. (Gorlée: 2000, 126) Prima di lei, Anton Popovič, teorico slovacco della letteratura e della traduzione di fama mondiale, ha esortato ad abbandonare la visione impressionistica della traduzione, e afferma con chiarezza che «la contrapposizione empiricamente riconoscibile tra le cosiddette traduzioni “fedele” e “libera” non spiega le operazioni traduttive dal punto di vista funzionale, pertanto è inaccettabile». (2006: 22) A conferma della natura semiotica dell’atto traduttivo, lo scienziato bulgaro Aleksandr Lûdskanov ha dato un contributo importante in un articolo dal titolo A semiotic approach to the theory of translation, pubblicato nel 1975 nella rivista Language Sciences. Negli anni ’70, a seguito della crescita esponenziale dell’attività traduttiva a livello mondiale, Lûdskanov, che 43 lavorava presso l’Accademia di Scienze, viene incaricato di realizzare il “sogno” della traduzione automatica. Dalla sua profonda riflessione emergono domande cruciali e più che mai attuali: la scienza della traduzione è possibile? Quale oggetto di studio ha? In quale area si colloca? Le sue risposte sono altrettanto perentorie: Una scienza della traduzione è possibile. Questa scienza deve essere una teoria generale delle trasformazioni semiotiche. Il suo posto è nella semiotica, non nella linguistica, nella letteratura ecc. […] Le trasformazioni semiotiche sono sostituzioni dei segni che codificano un messaggio mediante segni di un altro codice, conservando (per quanto possibile data l’entropia) informazioni invarianti in relazione a un determinato sistema di riferimento. (Lûdskanov 1975: 7) Popovič ha ripreso il pensiero di Lûdskanov confermando la necessità della definizione di una concezione generale del processo traduttivo, che vada al di là delle caratteristiche stilistiche delle diverse tipologie di testo e dei loro obiettivi: Lûdskanov parla di una concezione unica per i diversi tipi di traduzione. Si riferisce alla traduzione di un qualsiasi messaggio da un codice a un altro, mentre i singoli tipi (“generi”, nella sua terminologia) di traduzione – testo sociopolitico, scientifico-tecnico, artistico – vengono considerati casi particolari del concetto generale di traduzione. (Popovič: 10) Nelle ultime parole del suo articolo, Lûdskanov conferma che «qualsiasi traduzione richiede scelta e la libera scelta è creatività» (1975: 8). E aggiungo che la traduzione è sempre un’attività razionale anche quando ha come oggetto testi creativi. Un’adeguata presa di coscienza di tutte le fasi del processo delle trasformazioni semiotiche renderebbe più consapevole e responsabile il lavoro del traduttore dalla fase iniziale – la percezione – fino all’ultima fase, quella che si può definire «critica della traduzione». Desidero accennare a questa disciplina – tanto interessante da meritare un 44 approfondimento più adeguato in altra sede – in quanto essa è parte integrante dell’attività del traduttore, come spiega Osimo. Le applicazioni del concetto di abduzione di Peirce alla critica della traduzione possono essere viste in questi termini: esiste un primo grado della ricostruzione abduttiva, la retroduzione, applicato alla critica letteraria (l’abduzione sull’autore, i tentativi di inferire la strategia narrativa sulla base del risultato, che è poi il testo letterario stesso); un secondo grado di abduzione è rappresentato dalla traduzione, operazione nella quale è necessario effettuare congetture tanto sull’autore (vedi il primo grado) quanto sul lettore del metatesto, per elaborare una strategia traduttiva che si sovrappone (e in taluni casi sostituisce) alla strategia narrativa del prototesto; il terzo grado o livello dell’abduzione applicata alla letteratura si vede all’opera nel caso della critica della traduzione, dove sulla base di un risultato di secondo grado (la traduzione di un ipotetico, ipotizzato prototesto) le congetture si spingono oltre che sull’autore (primo grado) e sul metatesto (secondo grado), anche sul traduttore e sulla sua strategia traduttiva (terzo grado). (Osimo 2004 b : 39-40) A conclusione di queste brevi annotazioni, riporto un’affermazione di Popovič, già citato nel corso del contributo, che conferma la necessità di approfondire queste riflessioni: «La teoria difende il traduttore dal praticismo, dalle abitudini, dagli stereotipi creativi, dalle convenzioni. La riflessione teorica è d’impulso per chi ha smesso di crescere e si è fossilizzato» (2006: XXVIII). 45 4. Riferimenti bibliografici AGOSTINO d’Ippona, 1932 De Trinitate, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina. AGOSTINO d’Ippona, 2000 De Doctrina Christiana, Milano, Mondadori. ANSELMO d’Aosta, 1934 Monologion, Firenze, La Nuova Italia. ARISTOTELE, 1992 De interpretatione, Milano, Rizzoli. ARNAULD Antoine, 1875 La logique ou l’art de penser, Paris, Delagrave. BACON Francis, 1927 De dignitate et augmentis scientiarum, Salerno, Spadafora. CALABRESE Omar, 2001 Breve storia della semiotica. Dai presocratici a Hegel, Milano, Feltrinelli. 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Anton Popovič. La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva, trs. Bruno Osimo and Daniela Laudani. Milano: Editore Ulrico Hoepli, 2006. xx + 194 pp. ISBN 88-203-3511-5. 19 €. [Original: Teória umeleckého prekladu. Bratislava: Tatran, 1975.] Reviewed by Ubaldo Stecconi (Brussels)

On May 1, 2004 ten new countries joined the EU and the division of the continent into Western and Eastern blocs symbolically came to an end. According to many commentators, the division had always been artificial: Europeans on opposite sides had always shared more than their governments did. This is how Prof. Peter Liba — who helped me put Anton Popovič’s work in its proper historical context — put it: “We [under the totalitarian regime, behind the Iron Curtain] have never stopped being in Europe and develop its cultural potential” (Liba 2006). From a Western European viewpoint, this has been repeatedly confirmed as the institutional, cultural, and intellectual heritage of the East has become progressively familiar. The Italian edition of Teória umeleckého prekladu (1975) brings this realisation to Translation Studies. Anton Popovič (1933–1984) was not exactly unknown. A good academic manager and organiser, his international links included Poland, Hungary, the Netherlands, Canada, and the US. From his Cabinet of literary communication at the University of Nitra, he established contacts with translation scholars (cf. Holmes, de Haan and Popovič 1970; Popovič 1970) and the quality of his work was recognised in Western circles (cf. Dimić 1984; Beylard-Ozeroff, Králová and Moser-Mercer, eds. 1998; Tötösy de Zepetnek 1995; Zlateva 2000; Gentzler 2001). However, according to Mr Osimo, who translated the text reviewed here with Daniela Laudani, no extended part of his work has been available in the academic lingua francas of the West (cf. pp. x–xi).1 Unfortunately, Italian is not exactly the first choice as a lingua franca either. Teória umeleckého prekladu should appear in more widely used languages, and I hope the reasons will be clear to you by the end of this review. Why did an interest in translated communication arise in Nitra in the late 1960s? Prof. Liba informs us that the Cabinet of Literary Communication was born as an interdisciplinary project of František Miko, a linguist, Popovič, a literary comparatist, and other teachers. A covert disagreement with Marxist approaches to literature lay in the background, but the project could push through because Nitra’s marginal position eluded political monitoring. Secondly, those scholars felt they had to critically come to terms with Western theories of literature. The initial interest was thus literary studies, particularly Miko’s theory of style, which Popovič 74 Book reviews — whose main interest had always been translation theory — later applied to literary translation. La scienza della traduzione appears 31 years after the Slovak original and 26 after the 1980 translation into Russian, on which it is also based. In spite of this, many positions and insights still read fresh and provocative. How can it be that the book does not show its age? I can think of two reasons: either Popovič was a Leonardo-like genius way ahead of his time, or Translation Studies has been running out of steam lately. This seems the conclusion Palma Zlateva reached at the end of her comprehensive overview of the Russian edition of the work: It is unfortunate that Popovič left us so early, before he could witness both the influence of his ideas and our failure to overcome during these years some of the pitfalls which he had been warning us in his writings. (Zlateva 2000: 115) I believe she has a point. Already in the introduction, Popovič laments the lack of a solid theoretical background in translation circles, especially practitioners (p. xxvii). As we know, this is still the case. His solution is as follows: a theory of translation can be developed on the basis of a more general semiotic theory of communication and it should strive to remain an open interdisciplinary field. However, this implies the danger that Translation Studies loses its individual character: To prevent that researchers from other disciplines deny the science of translation the status of an independent discipline, I have drawn a map of the relationships between the science of translation, linguistics and comparative literature. (pp. xxviii–xxix) The map appears at pages 12–13 and makes an interesting read if compared with the Toury-Holmes map (e.g. in Toury 1995: 10) Western scholars are more familiar with. Popovič was bold and optimistic, but it seems to me that we have not moved a lot forward since. Perhaps Translation Studies has chosen the wrong time to fight for the independence of its province within the larger confederation of the human sciences. Today’s research — both in the human and the natural sciences — is no longer structured around disciplinary boundaries but around problems, regardless of where their solutions may come from. At any rate, it is interesting to note the close association between a solid theory for translation and a precise technical terminology for its operational concepts. This attention to a ‘scientific’ terminology is demonstrated by a 30-page glossary that closes the book. The glossary is explicitly presented as “a theoretical microsystem” (p. 147) and most of the entries it includes read like an encyclopedia. Theory, specialist terminology, and independence are three corners of one and the same figure for Popovič: “although the science of translation has an interdisciplinary outlook, there exists a specific Book reviews 75 domain for it which does not automatically borrow the terminology of the other disciplines” (p. 5). According to Prof. Liba, Popovič translated little and did not have a large firsthand experience of literary translation. In spite of this, I found his remarks on the practical act of translating insightful and to the point. Starting from the recognition that any translation is a secondary model, Popovič writes that “Translating … is a consequence of the clash between primary and secondary communication” (p. 47). This is a theoretical position that sets the stage for a dynamic and dialectical view of translating. One can find a first reflection of this view already in the terms proposed for what we sometime call source and target texts. Popovič defines them prototext and metatext, thus highlighting their distinct and convergent functions for the act of translating. The prototext is defined as “Subject of intertextual continuity. Original text, primary model which is the basis for second-degree textual operations” (p. 166). This definition suggests an ontological primacy for the act of translating, of which the prototext is nothing more than a ‘basis’. Consistently, the metatext is defined as a “Model of the prototext” which is the product of “a logopoietic activity carried out by the author of the metatext” (p. 159). What are the crucial elements around which this logopoietic activity revolves? Recalling the literary context in which Popovič operated, it is not surprising that style comes first, with content and expression distant seconds. “The concept of translational correspondence must be defined above all at the stylistic level; content and language elements give equally important functional contributions to it” (p. 76). At this point it should be obvious that the text is the only workable unit of translation: “Ideally a translation that strives to build stylistic similarities must be carried out at textual level” (p. 68). This outlook has interesting consequences on the notion of equivalence. “The art of translation is the exact reproduction of the prototext as a whole” (p. 82). This statement should not be mistaken as endorsing such ideas as perfect equivalence or identity. Popovič forcefully rejects the notion of total equivalence; in fact, his core theoretical argument is the alternative and more realistic notion of change or shift. Translators change the prototext precisely in order to convey it as exactly as possible, “to possess it in its totality” (ibid.). Both absolute freedom and absolute faithfulness are self-contradictory conceptions; in fact, translating can actually be defined in terms of stylistic, linguistic or semantic shifts. There can be no trade-off between faithfulness and freedom; rather, they are dialectically related. The optimal situation is functional stylistic change; i.e. change whose goal is the expression of the prototext’s character in a way that responds to the conditions of the other system (p. 83). This state of affairs gives translators their fair share of semiotic responsibility. Popovič has no doubt that translating involves creativity: 76 Book reviews Every translator interprets the prototext and develops its creative potential. (p. 126) A translator is both more and less than a writer. Less, because his or her art is ‘secondary’. More, because … he or she has to mix analytical thinking with creative abilities; create according to fixed rules; and introduce the prototext into a new context. (p. 38) Because creativity means making choices, this complex translational task can be neatly expressed as follows: “Translators choose within choices already made” (p. 39). As we know well, not everyone is convinced that translating involves creativity yet. Those who deny translators’ creative efforts presuppose that translating is a simple recording of the original; those who recognise them presuppose that translating happens in the mind of the translator. Popovič would certainly prefer the latter position as is evidenced by his rejection of the conception of the copy and of machine translation: “Machine translation … is devoid of style; to use a figure, it is ‘dehydrated’. Since it is not a text, automatic translation cannot even be regarded as a translation in the first place” (p. 69). Popovič refuses to accept that the copy, the perfect matching of all levels of expression between prototext and metatext, is a desirable — if unreachable — limit translators should tend to. In fact, the copy is the opposite of translation; its very negation. It is not the first time a case needs to be made along these lines for the independence of a form of semiotic work. A debate in early 16th century Italy compared the expressive powers of painting to poetry and sculpture. Then too people wondered whether painting originated in the imagination or was a mere recording of something else. Today, we have no doubt that painters are creative artists, but before the year 1500 they were regarded more or less as craftsmen. Masters such as Bellini, Giorgione and Titian, active in Venice in the first three decades of the century, helped change the public perception of painters. When will this happen to translators? Arguments like those included in La scienza della traduzione can certainly bring that time closer, and this is another reason why — I repeat — I hope this book will soon appear in a language that is more familiar to the community of scholars. Note . All references to La Scienza della traduzione include page numbers only; all translations into English are mine. Book reviews 77 References Beylard-Ozeroff, Ann, Jana Králová and Barbara Moser-Mercer, eds. 1998. Translators’ strategies and creativity: Selected papers from the 9th International Conference on Translation and Interpreting, Prague, September 1995 — In honor of Jiří Levý and Anton Popovič. AmsterdamPhiladelphia: John Benjamins. [Benjamins Translation Library, 27.] Dimić, Milan V. 1984. “Anton Popovič in Memoriam”. Canadian review of comparative literature / Revue Canadienne de Littérature Comparée. 11:2. 350. Gentzler, Edwin. 2001. Contemporary translation theories (2nd edition). Clevedon: Multilingual Matters. Holmes, James S, Frans de Haan and Anton Popovič, eds. 1970. The nature of translation: Essays on the theory and practice of literary translation. The Hague: Mouton. Liba, Peter. 2006. Personal communication. 5 August. Popovič, Anton. 1976. Dictionary for the analysis of literary translation. Edmonton: Department of Comparative Literature, The University of Alberta. Popovič, Anton. 1970. “The concept of ‘shift of expression’ in translation analysis”. Holmes et al. 1970. 78–90. Toury, Gideon. 1995. Descriptive Translation Studies and beyond. Amsterdam-Philadelphia: John Benjamins. Tötösy de Zepetnek, Steven. 1995. “Towards a taxonomy for the study of translation”. 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Mémoire di Marina Sabristov, Derek Attridge: IL MODELLO LINGUISTICO E LE SUE APPLICAZIONI. Civica Scuola per Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

IL MODELLO LINGUISTICO E LE SUE APPLICAZIONI

MARINA SABRISTOV

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales

Civica Scuola per Interpreti e Traduttori di Milano

Laurea Magistrale in Traduzione

Primo supervisore: professor Bruno Osimo

Secondo supervisore: Ema Stefanovska

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et interprétation

Parcours: Traduction professionnelle

Estate 2015

 

© Cambridge University Press 2005© Marina Sabristov per l’edizione italiana 2015


 

ABSTRACT

 

Il seguente testo, estratto dal volume LITERARY CRITICISM, VOLUME VIII, From Formalism to Postructuralism, analizza l’influenza che ha avuto lo studio di Ferdinand de Saussure sulla linguistica del Novecento e sul lavoro di molti altri linguisti come Roman Jakobson, Roland Barthes, Claude Lévi-Strauss e altri. Oltre alla traduzione italiana, il presente mémoire contiene un glossario bilingue con definizioni e un’analisi testuale che fornisce informazioni sulle caratteristiche principali del prototesto. Segue inoltre un’analisi traduttologica del testo che prende in considerazione la dominante, il lettore modello e le principali scelte traduttive.

 

English Abstract

The following text, selected from the volume LITERARY CRITICISM, VOLUME VIII, From Formalism to Postructuralism, analyses the influence that the work of Ferdinand de Saussure had on Twentieth-century linguistics and on the studies of many other linguists such as Roman Jakobson, Roland Barthes, Claude Lévi-Strauss and many more. In addition to the translation of this text from English into Italian, this dissertation contains a bilingual glossary with definition and a textual analysis which gives information about the main features on the source text, followed by a part which contains the analysis of the dominant, the target reader, the translation loss and the main translation choices.

 

TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

 


 

3

THE LINGUISTIC MODEL AND ITS APPLICATIONS

3

IL MODELLO LINGUISTICO E LE SUE APPLICAZIONI

The Saussurean model

Il modello saussuriano

The small number of students who, in the years 1906-7, 1908-9, and 1910-11, attended the lectures on general linguistics given at the University of Geneva by Ferdinand de Saussure could scarcely have guessed that they were participating in the birth of one of the new century’s most potent intellectual movements. Those lectures, recreated after Saussure’s death in 1913 by Charles Bally and Albert Sechehaye from students’ notes and published as the Cours de linguistique générale (Course in General Linguistics) in 1916, produced two great waves of influence, the first upon the fledgling discipline of scientific linguistics itself, the second – after a delay of several decades – on the wider study of cultural practices and concepts. It is the second, the movement known as ‘structuralism’1, which constitutes a major development in twentieth-century literary studies, but in order to explain the impact of Saussure’s linguistic model upon this field (as well as upon a number of other fields, including anthropology, psychoanalysis, cultural history, and political theory), it is necessary to devote some attention to the most important elements of that model, and to the later modifications it underwent within linguistic theory. The development of the model within literary studies is largely covered in other chapters in this volume and in volume 9, and this chapter will offer only a sketch – with the exception of the work of Roman Jakobson, who occupies a unique position at the juncture of linguistic and literary studies. Il piccolo gruppo di studenti che, tra il 1906 e il 1911, partecipò alle lezioni di linguistica generale all’Università di Ginevra, tenute da Ferdinand de Saussure, non poteva immaginare che stava partecipando alla nascita di uno dei movimenti intellettuali più importanti del secolo. Quelle lezioni, ricreate dagli appunti degli studenti dopo la morte di Saussure (1913), da Charles Bally e Albert Sechehaye e pubblicate nel 1916 come Cours de linguistique générale (Corso di linguistica generale), hanno prodotto due grandi sviluppi. Il primo riguardava la disciplina della scienza linguistica ancora ai primi passi, il secondo invece – dopo un ritardo di diversi decenni – era relativo a uno studio più ampio della cultura sia in senso teorico sia in senso pratico. È proprio questo secondo sviluppo – quello poi conosciuto come «strutturalismo»1, a costituire una pietra miliare degli studi letterari del Novecento. Tuttavia, per spiegare l’impatto che il modello di Saussure ha avuto sul campo della linguistica (così come su altri campi di studio, comprese l’antropologia, la psicanalisi, la storia della cultura e la teoria politica), è necessario incentrare l’attenzione sugli elementi più importanti di questo modello e sulle modifiche che ha subito all’interno della teoria linguistica.  Lo sviluppo di questo modello negli studi letterari è ampiamente trattato in altri capitoli del presente volume e nel volume 9. Questo capitolo offre solo un abbozzo, ad eccezione dell’approfondimento dell’opera di Roman Jakobson che occupa una posizione unica nel punto di giunzione tra linguistica e studi letterari.
In examining the arguments of the Course for the specific purposes of this chapter, we are situating ourselves at two removes from Saussure’s own thinking. In the first place, the authorship of the text whose influence we are tracing is shared among a number of people: Saussure himself, the students whose notes were consulted, and the editors Bally and Sechehaye, who rewrote and reorganized those notes to create out of ‘faint, sometimes conflicting, hints’ (Course, p. xxx2) a relatively clear and coherent exposition. For convenience, however, this multiple author is usually referred to as ‘Saussure’. In the second place our interest is not in Saussure’s contribution to linguistic theory as such but in those aspects of his thought that were to be influential in literary theory and allied fields; in the account of his argument that follows, therefore, ‘language’ can be thought of as a paradigm for all cultural systems of signification, including literature. Esaminando le argomentazioni del Cours ai fini di questo capitolo, ci troviamo a una certa distanza dal pensiero di Saussure stesso. In primo luogo, la paternità del testo la cui influenza cerchiamo di individuare è ripartita tra più persone: tra Saussure, gli studenti i cui appunti sono stati analizzati e tra i curatori Bally e Sechehaye, che li hanno riscritti e riorganizzati per produrre, a partire da «indizi vaghi e a volte contradittori» (Saussure 1972:XVI2), una versione del testo relativamente chiara e coerente. Tuttavia, per convenienza, a questo autore multiplo ci si riferisce come “Saussure”.  In secondo luogo, l’interesse non è incentrato sul contributo di Saussure alla teoria linguistica in quanto tale ma sugli aspetti del suo pensiero che avrebbero influenzato la teoria letteraria e le materie annesse; di conseguenza, per quanto riguarda l’argomento che segue, il concetto di «lingua» può essere pensato come un paradigma per tutti i sistemi culturali di significazione, inclusa la letteratura.
The first major theoretical task Saussure sets himself in the Course is the definition of the proper object of linguistic study. He is quite open about the circularity involved in this willed choice of an object: ‘Other sciences work with objects that are given in advance and that can then be considered from different viewpoints; but not linguistics. . . . Far from it being the object that antedates the viewpoint, it would seem that it is the viewpoint that creates the object’ (p. 8)3. The choice of object, then, will be in part determined by the question of amenability to the kind of project Saussure wishes to undertake, which is, it soon becomes clear, the construction of a rational, explicit, scientific account. This means carving out of the heterogeneous assemblage of phenomena and practices that falls under the heading of language (langage is Saussure’s term for this broadest of categories) 4 an object which is discrete, stable, systematic, homogeneous,’ and open to empirical examination and logical theorizing. The study of language all too easily turns into a study of cultural history, psychological processes, social interaction, or stylistic evaluation, topics which cannot profitably be pursued, Saussure feels, until some understanding is attained of the linguistic core itself. He locates this core at the interface between auditory images and concepts: the fundamental fact of any language, that is, is its systematic linking of sounds (or, more accurately, the mental representations of sounds) with meanings. This system he calls langue, choosing the French word used for individual languages in contrast to the more general term langage.

Il primo grande compito teorico che Saussure si dà nel Cours de linguistique générale è quello di definire l’oggetto dello studio della linguistica. Saussure è alquanto esplicito sulla circolarità che implica la scelta volontaria di un oggetto: «Altre scienze operano con oggetti dati a priori e che possono in seguito essere considerati da diversi punti di vista; nel nostro campo, niente di simile… Lungi dall’essere l’oggetto a precedere il punto di vista, si direbbe che sia il punto di vista a creare l’oggetto» (Saussure 1916:23) 3.  La scelta dell’oggetto, poi, sarà in parte determinata dalla questione di compatibilità con il tipo di progetto che Saussure desidera intraprendere, e che, come presto diventa chiaro, si basa sulla costruzione di una descrizione razionale, esplicita e scientifica. Questo significa ricavare dall’insieme eterogeneo di fenomeni e pratiche di quello che rientrano sotto il concetto di linguaggio (langage è il termine usato da Saussure per questa categoria ampia)4, un oggetto discreto, stabile, sistematico, omogeneo e aperto ad analisi empirica e teorizzazione logica. Lo studio della lingua si trasforma facilmente nello studio della storia della cultura, dei processi psicologici, dell’interazione sociale o della valutazione stilistica, tematiche che, secondo Saussure, non possono essere adeguatamente affrontate fino al momento in cui non si raggiunge la comprensione dell’essenza stessa della lingua. Saussure colloca quest’essenza nell’interfaccia tra immagini uditive e concetti: il fatto fondamentale di ogni lingua è il suo collegamento sistematico dei suoni (o, più accuratamente detto, la rappresentazione mentale dei suoni) con i significati. Saussure chiama questo sistema langue, scegliendo la parola francese usata per definire i linguaggi individuali, in contrapposizione al langage che è un termine più generale.Langue is distinguished from the individual acts of speaking which it makes possible, and which Saussure terms parole. The set of conventional associations that constitutes a langue is held more or less completely in the brain of each member of the group, but in its entirety it can be thought of only as a social phenomenon – not, Saussure stresses, as an abstract set of laws existing apart from its users in some ideal realm, but as the sum of all the individually possessed systems (Course, pp. 13-14). It is outside the control of any individual within the group, whereas an act of parole is an example of an individual’s willed behaviour5.Il termine langue è contraddistinto dall’atto individuale di parlare che Saussure chiama parole. L’insieme di collegamenti convenzionali che costituisce una langue è contenuto più o meno nel cervello di ogni membro del gruppo, ma nel suo complesso, può essere pensato solo come un fenomeno sociale e come la somma di tutti i sistemi individuali di ognuno e non – sottolinea Saussure – come insieme di regole astratte che sono separate dagli utilizzatori e che si trovano in qualche regno ideale (Saussure 1916:30-31). Il sistema langue è fuori dal controllo di ogni individuo all’interno del gruppo, mentre l’atto di parole è un esempio di comportamento individuale volontario5.Saussure’s attempt to envisage a type of fact which is both individual and social, which has a psychological character without being limited to the representations of a single brain, which is an empirical reality yet is not directly observable, is one of the most significant features of the Course and one which was to have lasting effects on other disciplines. Later versions of langue often treat it as the abstract system upon which the concrete phenomena of parole depend; but Saussure insists that ‘Langue is concrete, no less so than parole; and this is a help in our study of it. Linguistic signs, though basically psychological, are not abstractions; associations which bear the stamp of collective approval – and which added together constitute langue – are realities which have their seat in the brain’ (p. 15). This strenuous avoidance of alternatives results in a conception of language that is rather less amenable to objective analysis than Saussure would have wished, but one which was to prove immensely fruitful for later thinkers engaged in the study of other cultural phenomena. He himself remarks prophetically:Il tentativo di Saussure di immaginare un tipo di fatto che sia individuale e sociale, che abbia un carattere psicologico senza essere limitato alle rappresentazioni di un solo cervello, che sia una realtà empirica non direttamente osservabile, è una delle caratteristiche più significative del Cours che, inoltre, avrebbe influenzato più a lungo le altre discipline.  Nelle versioni successive, spesso langue è considerata come un sistema astratto dal quale dipendeva il fenomeno concreto di parole; ma Saussure insiste che «langue non è meno concreta di parole; e questo ci aiuta nel nostro studio. I segni linguistici, anche se essenzialmente psicologici, non sono astrazioni; le associazioni che portano il marchio di approvazione collettiva e che sommate costituiscono la langue, sono realtà che hanno il proprio posto nel cervello» (Saussure 1916:32). Il fatto di evitare ad ogni costo le alternative determina una concezione della lingua meno passibile di analisi oggettiva di quanto Saussure avrebbe voluto, ma molto feconda per i pensatori successivi impegnati nello studio di altri fenomeni culturali. Saussure stesso osserva in modo profetico:A science that studies the life of signs within society is conceivable; . . . I shall call it semiology. . . Semiology would show what constitutes signs, what laws govern them. Since the science does not yet exist, no one can say what it would be; but it has a right to existence, a place staked out in advance. (p. 16)6Possiamo concepire una scienza che studia la vita dei segni all’interno della società; … la chiameremo semiologia…La semiologia illustra gli elementi che costituiscono i segni, quali sono le leggi che li governano. Dal momento in cui questa scienza non esiste ancora, nessuno può dire come potrebbe essere; ma ha il diritto di esistere, ha un posto stabilito in anticipo (Saussure 1916:33). 6The most important discussions in the Course for later literary theorists are those concerned primarily with semiotic principles and only secondarily with language.

The central notion for any semiotic theory is the sign, and Saussure begins his section on ‘General principles’ with what was to become a famous chapter on the ‘Nature of the linguistic sign’. It is always easiest to discuss the linguistic sign by focusing on the example of a single word, usually a familiar, concrete noun, and Saussure, in using ‘tree’ and ‘horse,’ is no exception. (In addition, his use of diagrams with pictures of these objects – actually an addition of the editors – misleadingly suggests that meanings are fundamentally visual images; see Harris, Reading Saussure, pp. 59-61, for a useful discussion of the expository problems Saussure faces here.) The simplicity of this conceptualization of the sign made it instantly accessible to Saussure’s readers, but also gave rise to a number of problems, and it is worth placing it in the context of the more general discussion of langue. If the system of langue is fundamentally a set of socially agreed conventions linking aural representations with meanings, the term ‘sign’ applies to any such linkage, and would include such modes of signification as affixation, accidence, word-order, figuration, or tone. Thus the final /s/ meaning ‘plural’ in some English words is just as much part of the system of signs as the word ‘tree’ and its associated concept. Saussure’s choice of ‘sign’ over any more specific term from linguistics is clearly designed to leave its application as open as possible, but his tendency to use words or morphemes in illustration obscures its generality in a manner that has given rise to some confusion. In applications of the linguistic model to literary study, however, it is precisely the generality of the term which is productive.Per i teorici letterari successivi, i dibattiti più importanti nel Cours sono quelli che riguardano in primo luogo i principi semiotici e solo in secondo luogo la lingua.

Il concetto centrale in ogni teoria semiotica è il segno e Saussure comincia la sezione sui «Principes généraux» con quello che successivamente sarebbe diventato il famoso capitolo sulla «Nature du signe linguistique». È sempre più semplice discutere del segno linguistico concentrandosi sull’esempio di una sola parola, di solito su un sostantivo familiare e concreto e Saussure, usando le parole «arbre» e «cheval», non fa eccezione. (Inoltre, il suo uso di diagrammi insieme alle immagini di questi oggetti – in realtà un’aggiunta dei curatori – suggerisce erroneamente che i significati sono fondamentalmente immagini visive; vedi Harris 1987:59-61, per un dibattito utile sui problemi espositivi affrontati da Saussure).  La semplicità di questa concettualizzazione del segno l’ha reso subito accessibile ai lettori di Saussure; tuttavia ha generato una serie di problemi e vale la pena inserirlo nel contesto di un dibattito più generale sulla langue. Se il sistema di langue è fondamentalmente un insieme di convenzioni socialmente convenute che collegano le rappresentazioni sonore ai significati, il termine «segno» si applica a ogni collegamento e include modi di significazione come l’affissazione, gli accidenti, l’ordine delle parole, la figurazione o il tono. Pertanto, la /s/ finale del plurale di alcune parole inglesi è tanto parte del sistema dei segni quanto lo è la parola «arbre» e il concetto a lei associato. La scelta di Saussure di usare la parola «segno» invece di un termine linguisticamente più specifico è stata chiaramente concepita per lasciare via libera a ogni sua applicazione, ma la sua tendenza a usare parole o morfemi negli esempi illustrati rende poco chiara la sua generalità, tanto da creare confusione. Tuttavia, nelle applicazioni del modello linguistico allo studio letterario è proprio la generalità del termine a essere produttiva.For the components of the sign, Saussure coined two words: signier and signied (signiant and signifié)7. This successful act of linguistic creativity (which contradicts Saussure’s own assertion that the individual has no power over the language) encapsulates much of Saussure’s intellectual revolution. An older discourse distinguished between sign and meaning (or sign and referent), implying that the sign is an independent, self- sufficient entity – we know what a cross is without having to know what it stands for – whereas Saussure wanted to stress that the most typical sign comes into being only when it is conveying a meaning.

For instance, in a specimen of foreign script that appears to us only as a strange line of curlicues, we cannot distinguish the scribe’s ornamental flourishes from the elements of a written language – if, that is, we recognize the presence of a language at all. So the terms ‘signifier’ and ‘signified’ are totally interdependent: a signifier, the word itself tells us, is that which has a signified, and vice versa. (We shall return shortly to the importance of the reverse implication.) Moreover, a perceptual object can function as a signifier only through its existence within a system of signs (a langue) by virtue of which it is linked to a signified; and it can only function in this way for an individual who is in possession of that langue. Like langue itself, therefore, the signifier is an entity that is not easily categorizable within the terms of empirical science: it is very definitely material, yet its material specificity is in no way essential to it.Per definire gli elementi del segno, Saussure ha coniato due parole: signifiant e signifié7. Il successo di questo atto di creatività linguistica (che contraddice l’affermazione saussuriana sul fatto che l’individuo non ha potere sulla lingua) racchiude una buona parte della rivoluzione intellettuale di Saussure.  Un dibattito precedente distingueva tra segno e significato (o segno e referente), sottintendendo che il segno è un elemento indipendente e autosufficiente – sappiamo cos’è una croce senza il bisogno di sapere per cosa sta – mentre Saussure voleva mettere in risalto il fatto che il segno più tipico prende vita solo quanto veicola un messaggio.

Per esempio, in un estratto di un documento straniero che ci appare solo come una strana linea di ghirigori, non possiamo distinguere l’infiorettatura dell’autore dagli elementi della lingua scritta – sempre se riusciamo a riconoscere la presenza stessa di una lingua. Quindi i termini signifiant e signifié sono totalmente interdipendenti: un signifiant, la parola stessa ce lo suggerisce, è quello che ha un signifié e viceversa. (Ritorneremo a breve sull’importanza dell’implicazione inversa). Inoltre, un oggetto percettivo può funzionare come un signifiant solo attraverso la sua esistenza all’interno di un sistema segnico (una langue) in virtù del quale è collegato a un signifié; e funziona in questo modo solo per l’individuo che padroneggia questa langue.  Di conseguenza, come la langue stessa, il signifiant è un’entità non facilmente categorizzabile con i termini della scienza empirica: ha sicuramente una qualità materiale ma la sua specificità materiale non è in alcun modo indispensabile.For Saussure, then, the traditional use of the word ‘sign,’ supposedly in opposition to ‘meaning,’ in fact involved smuggling in meaning as well. His revised terminology makes a virtue of this confusion, with ‘sign’ standing for the combination of a signifier and a signified; any one of the three terms therefore co-implies the other two. The difference between ‘sign’ and ‘signifier’ is small, but crucial, and some of the contradictions which later applications of Saussure have run into arise from a failure to acknowledge it. The gesture we call a ‘salute’ made on a particular occasion is in itself neither a sign nor a signifier, merely a physical movement; within the code of military gestures, it is a sign which combines a signifier (the physical gesture as understood by someone who has internalized that code) with a signified (the acknowledgement of a relationship of authority, also understood in terms of the internalized code). Saussure suggests that we might think of the relation between signifier and signified by analogy with that between the front and back of a sheet of paper: ‘one cannot cut the front without cutting the back at the same time’ (p. 113).Pertanto, per Saussure, l’uso tradizionale della parola «segno», presumibilmente in opposizione a «significato», includeva di fatto anche un significato nascosto. La sua terminologia rivista si adatta a questa confusione dove «segno» sta per la combinazione tra signifiant e signifié; di conseguenza ognuno dei tre termini coimplica gli altri due. La differenza tra «segno» e «signifié» è minima ma cruciale e alcune delle contraddizioni in cui le successive applicazioni di Saussure sono incorse derivano dalla mancata consapevolezza di questa differenza. Il gesto che chiamiamo «saluto militare» fatto in occasioni particolari non è né un segno né un signifiant, ma soltanto un movimento fisico; all’interno del codice dei gesti militari, è un segno che combina un signifiant (il gesto fisico compreso da qualcuno che ha interiorizzato questo codice) con un signifié (il riconoscimento di un rapporto di autorevolezza, inteso anche in termini del codice interiorizzato). Saussure suggerisce che si potrebbe pensare al rapporto tra signifiant e signifié per analogia con il rapporto tra il fronte e il retro di un foglio di carta: «non si può tagliare il fronte senza tagliare allo stesso tempo anche il retro» (Saussure 1916:157).By coining words which refer purely to the functions of the two aspects of the sign, Saussure also avoids the connotations of more familiar terms such as ‘sound’, ‘image’, ‘meaning’, ‘thought’, ‘concept’, and although he has frequent recourse to this traditional vocabulary, what is important for the work he inspired is his attempt to bypass them. A signifier is anything that signifies for a group; a signified is anything – it need not be something we would happily call a ‘meaning’ – which is so signified. Although Saussure’s vocabulary frequently leads to a sense of language as a pre-programmed psychological dance between discrete auditory images and sharply defined concepts, his theory points to an understanding of signification as a continuing social process in which all the terms are mutually defining.Coniando parole che si riferiscono puramente alle funzioni dei due aspetti del segno, Saussure evita anche le connotazioni di termini più familiari come «suono», «immagine», «significato», «pensiero», «concetto» e, benché ricorra spesso a questo vocabolario tradizionale, quello che è importante per il lavoro che ha ispirato è il suo tentativo di evitarli. Un signifiant è qualunque cosa abbia significato per un gruppo; un signifié è qualunque cosa – non necessariamente qualcosa che chiameremmo «significato» – venga così significata. Sebbene il vocabolario di Saussure porti spesso a sentire una lingua come una danza psicologicamente programmata tra immagini uditive discrete e concetti definiti con precisione, la sua teoria punta alla comprensione della significazione come un processo sociale continuo in cui tutti i termini si definiscono a vicenda.Saussure’s double-sided terminology for the sign also leaves no room for a third term such as ‘thing’ or ‘reality’ or ‘referent’, and this exclusion has been the source of some unease among those who feel that it marks a retreat into the sphere of idealism and social irresponsibility. It is, however, completely consistent with the decision to concentrate on language as a set of social conventions: such conventions operate as much in spite of as in the service of reality, as any study of ideology will indicate. The epistemological question of language’s access to the ‘real’ and the political question of language’s capacity to change the conditions of human existence are clearly important questions, but not the ones Saussure was asking. Saussure has no doubt about the reality of the language system, of the social groups who produce and preserve it, of the acts of speaking and writing, listening and reading, by which it is manifested and transmitted, or of the historical processes in which it is always caught up; and it is his view that an understanding of these realities is not enhanced by confusing them with the philosophical issue of reference or the pragmatic issue of language as an instrument for change. Saussure’s influence may have been partly responsible for a tendency to bracket these questions (especially the second one) in later semiological work, in the hope of achieving a full understanding of systems of signification in themselves; the impossibility of semiology as a rigorously scientific project (already implicit at several points in the Course) became more evident in time, however, and the value of Saussure’s writing turned out to be less a matter of the proffering of objective analyses than an unsettling of entrenched mental habits.La doppia terminologia che Saussure usa per definire il segno non lascia spazio a un terzo termine come «cosa» o «realtà» o «referente» e questa esclusione è stata fonte di disagio tra coloro che pensano che possa segnare una ritirata nella sfera dell’idealismo e dell’irresponsabilità sociale.  Tuttavia, è del tutto coerente nella decisione di concentrarsi su una lingua in quanto insieme di convenzioni sociali: tali convenzioni funzionano sia nonostante sia a servizio della realtà, come mostra qualsiasi studio sull’ideologia. La questione epistemologica dell’accesso della lingua alla sfera «reale» e la questione politica riguardo la capacità di cambiare le condizioni dell’esistenza umana sono chiaramente molto importanti ma non sono quelle che si poneva Saussure. Egli non ha dubbi sulla realtà del sistema linguistico, dei gruppi sociali che lo producono e lo tutelano, degli atti di parlare e scrivere, ascoltare e leggere, attraverso i quali la lingua è manifestata e trasmessa o dei processi storici in cui è sempre coinvolta; egli ritiene che la comprensione di queste realtà non aumenta confondendole con il problema filosofico del riferimento o quello pragmatico che vede la lingua come strumento di cambiamento. L’influenza di Saussure è probabilmente in parte responsabile della tendenza di collegare le suddette questioni (specialmente la seconda) al successivo lavoro semiologico, con la speranza di ottenere una completa comprensione dei sistemi di significazione in quanto tali; l’impossibilità di definire la semiologia come un progetto rigorosamente scientifico (concetto già implicito in vari punti nel Cours) era tuttavia diventata sempre più evidente con il tempo e il valore degli scritti di Saussure si solo rivelati più uno scompaginamento di abitudini mentali radicate che un’analisi oggettiva.Implicit in Saussure’s presentation of the sign as the simultaneous coming into-being of a signifier and a signified is the notion of arbitrariness. It is an odd fact that many of those who cite Saussure as the source of their use of this notion are employing it in a way which Saussure viewed as an established truism, albeit one in need of fuller consideration. The principle that language’s yoking of words and ideas operates purely by convention, that there is no intrinsic suitability governing the relation between any piece of language and what it means, is an ancient one, argued forcefully (if not clinchingly) by Hermogenes in Plato’s Cratylus, and repeated at intervals throughout the history of Western thought. ‘No one disputes the principle of the arbitrary nature of the sign’, observes Saussure, ‘but it is often easier to discover a truth than to assign to it its proper place’ (p. 68). For Saussure, its proper place is within an appreciation of the system of langue by which the relations between signifiers and signifieds are determined. For if a signifier comes into existence only when it is fused with a signified, and vice versa, and that signifier can function as such only if it operates within a set of social conventions, arbitrariness extends not merely to the relationship between the two parts of the sign, but is a property of each of them. There is no intrinsic reason why the aural possibilities of the human vocal apparatus should be classified in any particular way; and there is no intrinsic reason why the conceptual possibilities open to the human mind should be classified in any particular way. It is this principle of radical arbitrariness that constitutes Saussure’s challenge to traditional modes of thought, and clearly has major importance for all attempts at the analysis of cultural signification.La nozione di arbitrarietà nella presentazione saussuriana del segno come nascita simultanea di un signifiant e un signifié è implicita.  È insolito che molti di coloro che citano Saussure come fonte nel loro uso di questa nozione, lo facciano in un modo che Saussure stesso avrebbe definito un cliché, sebbene abbia bisogno di una considerazione più completa.  Il principio secondo cui l’unire della lingua di parole e idee funziona puramente secondo la convenzione che non esiste un’adeguatezza intrinseca che regoli il rapporto tra ogni parte di lingua con quello che significa, è un concetto datato, dibattuto energicamente (se non definitivamente) da Ermogene nel Cratilo di Platone e ripetuto in modo sistematico per tutta la storia del pensiero Occidentale. «Nessuno contesta il principio della natura arbitraria del segno», osserva Saussure, «ma spesso è più semplice scoprire una verità che assegnarle un posto suo» (Saussure 1916:100). Per Saussure, il posto giusto è all’interno di una valutazione del sistema di langue in base al quale si determinano i rapporti tra signifiant e signifié. Se un signifiant nasce solo in seguito alla fusione con un signifié e viceversa, e quel signifiant può funzionare in quanto tale solo se inserito in un contesto di convenzioni sociali, l’arbitrarietà si estende non soltanto al legame tra le due parti del segno, ma diventa anche parte di ognuna. Non esiste ragione intrinseca in base alla quale le possibilità uditive dell’apparato vocale umano siano classificate in un modo specifico; e non esiste ragione intrinseca per cui le possibilità concettuali disponibili alla mente umana siano classificate in un modo specifico. Questo principio di arbitrarietà radicale rappresenta la sfida di Saussure al pensiero tradizionale e ha chiaramente una grande importanza per tutti i tentativi di analisi della significazione culturale.The first part of the double challenge is easy to accept: the variety of the world’s languages demonstrates that the human potential for making noises can be employed in many different ways, and the same point can be extended to all types of sign-system. (There are, of course, functional and historical reasons why certain patterns and not others emerge, but these do not govern the way signs are used.) It is less easy to agree that the categories of our thought are produced by the language we think in rather than by the extra-linguistic world that impinges upon us. Here again, it is important to bear in mind that Saussure’s focus is on the language system, not the relation between that system and another reality outside of signification; within the system, it is the simultaneous birth of signifier and signified as interdependent elements of a system of signs that creates the category denominated by the signified. The sign-system which results will function perfectly well whatever its relation to the non-significatory realm, as long as there is communal agreement about it. Such communal agreement will, of course, depend on a number of extra-linguistic realities, notably the language’s adequacy in performing the tasks demanded of it, and at this point the real certainly impinges on the linguistic: but the real remains, by definition, outside the system, always leaving open the possibility of a changed relationship to it. Saussure’s insistence (over-insistence, it could be argued) is always that language can never be fixed or determined in advance, whether by human agency or the non-linguistic world; he remarks in a manuscript note: ‘If any object could be, at any point whatsoever, the term on which the sign is fixed, linguistics would immediately stop being what it is, from top to bottom’ (Cours, ed. Engler, fasc. 2, p. 148). It should be noted, however, that nothing in Saussure’s argument implies that the shades of meaning available to one language are not available to other languages; what is implied is merely that they may require different means to convey them.La prima parte della doppia sfida è facile da accettare: la varietà delle lingue del mondo dimostra che il potenziale umano di produzione di rumore può essere impiegato in molti modi diversi e l’uso della stessa idea può essere estesa a tutti i tipi di sistemi segnici. (Ci sono, certamente, ragioni funzionali e storiche del perché sono emersi certi modelli e non altri, ma questi non controllano il modo in cui i segni vengono usati).  È meno facile concordare sul fatto che le categorie del nostro pensiero siano prodotte dalla lingua in cui pensiamo piuttosto che dal mondo extra-linguistico che si riflette su di noi. E ancora, è importante tenere a mente che l’attenzione di Saussure si focalizza sul sistema linguistico, non sul rapporto tra quel sistema e un’altra realtà al di fuori della significazione; all’interno del sistema, è la nascita simultanea del signifiant e signifié, in quanto elementi indipendenti di un sistema di segni a creare una categoria denominata dal signifié. Il sistema segnico che ne risulta funzionerà benissimo qualsiasi sia il suo rapporto con il campo non-segnico, purché ci sia un comune accordo al riguardo. Questo comune accordo dipenderà, sicuramente, da una serie di realtà extra-linguistiche, in particolare dall’adeguatezza della lingua a eseguire i compiti che le sono richiesti; a questo punto il reale incide sul linguistico: ma il reale rimane, per definizione, fuori dal sistema, sempre lasciando aperta la possibilità di una relazione alterata. Saussure insiste (esageratamente, oserei dire) sul fatto che una lingua non può essere definita o determinata in anticipo, sia attraverso l’azione umana sia dal mondo non-linguistico; in una nota a mano Saussure osserva che: «Se un oggetto può essere, a un qualsiasi punto, il termine sul quale è fissato il segno, la linguistica smetterebbe immediatamente di essere quello che è, da cima a fondo» (Engler 1967-1974:148). Tuttavia, occorre sottolineare che niente nella discussione di Saussure implica che le sfumature di significato di cui dispone una lingua non siano disponibili in altre lingue; ciò che si lascia intendere è semplicemente il fatto che possano esistere modalità diverse per trasmetterle.If both signifiers and signifieds are what they are only by virtue of the system within which they exist, they have no essential core by which they are determined. Again, this is easy to demonstrate for signifiers; the letter ‘t’, Saussure observes, can be written in many different ways: ‘the only requirement is that the sign for t not be confused . . . with the signs used for l, d, etc.’ (p. 120). But the same is true, for the same reasons, of the signifieds; they too are only what they are by virtue of what, within the system of signifieds, they are not. This is one of Saussure’s most influential pronouncements:Se i signifiant e i signifié sono ciò che sono soltanto in virtù del sistema all’interno del quale ognuno di loro esiste, questo significa che non hanno un nucleo essenziale in base al quale sono determinati. Ancora una volta, questo è facilmente dimostrabile per i signifiant; la lettera «t», osserva Saussure, può essere scritta in vari modi: «l’unico requisito fondamentale è che il segno che si utilizza per la t non venga confuso […] con quelli usati per la l, la d, ecc.» (Saussure 1916:165).  Ma lo stesso, e per le stesse ragioni, vale per i signifié che sono quel che sono in virtù di ciò che non sono all’interno del sistema di signifié. Questa è una delle affermazioni più autorevoli di Saussure:Everything that has been said up to this point boils down to this: in language there are only differences. Even more important: a difference generally implies positive terms between which the difference is set up; but in language there are only differences without positive terms. Whether we take the signified or the signifier, language has neither ideas nor sounds that existed before the linguistic system, but only conceptual and phonic differences that have issued from the system. (p. 12o)8Tutto ciò che precede si risolve nel dire che nella lingua non vi sono se non differenze. Di più: una differenza suppone in generale dei termini positivi tra i quali essa si stabilisce; ma nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi. Si prenda in considerazione il signifié o il signifiant, la lingua non comporta né idee né suoni preesistenti al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e foniche uscite da questo sistema. (Saussure 1916:166)8Saussure uses the term value for the kind of identity possessed by signs: the analogy is with an economic system, in which the value of an object or a monetary token is determined not by its inherent properties but solely by what it can be exchanged for. (As in the linguistic system, economic values are strongly conditioned by factors outside the system, such as usefulness and scarcity; but the economic system would still function as a system of values if such factors operated differently from the way they do.)

 

Saussure took one further decisive (and influential) step in constituting the object of his linguistic science: he insisted on the theoretical separation of the type of relation that holds between two elements within a given state of a system, and the type of relation that holds between an element in one state of a system and the equivalent element in a prior or subsequent state of the same system. The former he termed synchronic relations, and the latter diachronic relations. These are both aspects of langue, which is systematic in its internal relations and in the ways in which changes – which are in themselves unsystematic – produce effects within it, and the Course has a long section on each. What was innovative in the study of language early in the twentieth century, however, was the promotion of the synchronic study of the language system to an autonomous discipline, without which any diachronic study would be inadequate – since it follows from Saussure’s argument that the function of any item in the system can be understood only if the system as a whole is understood. For the individual user of language, and for the language community at a given time, only the synchronic state of the language has any relevance; and analysis of the structure of relations in which that state consists is only muddied by introducing questions of etymology or language-change. As with all Saussure’s distinctions, this opposition is a conceptual and methodological one which is considerably complicated in practical application; what it offers to the wider field of semiology is an initial simplification upon which more complex analyses can be built.

 

 

Another bold conceptual opposition helped to provide initial clarification of the multitude of synchronic relations within a system of langue, though this one perhaps raised as many problems as it solved for Saussure’s intellectual heirs. If we imagine a pair of items in the system between which a relation or a potential relation exists, this relation can be manifested in two ways in parole: either both items occur in an utterance, or one occurs and the other does not. Relations that hold in praesentia between occurring items are termed syntagmatic (in that they form part of a syntagm, or chain), and relations that hold in absentia between an occurring item and one or more items held in memory are termed associative. Both these categories remain rather vague in Saussure’s thinking, however, and he admits that syntagmatic relations cut across the boundary between langue and parole – and so, it might be argued, do associative ones. It is perhaps the very obscurity of Saussure’s thought here that allowed this relatively marginal distinction to become, in a new guise, a central one in Saussurean semiology.Saussure usa il termine valeur per il tipo di identità che i segni possiedono: l’analogia riguarda il sistema economico, nel quale il valore di un oggetto o di un simbolo monetario è determinato non dalle sue proprietà intrinseche ma soltanto da ciò con cui può essere scambiato. (Come accade nel sistema linguistico, i valori economici sono fortemente condizionati da fattori esterni al sistema, come l’utilità e la scarsità; ma il sistema economico potrebbe comunque funzionare come un sistema di valori se tali fattori si comportassero diversamente da come accade).

 

Saussure ha fatto un passo in avanti decisivo (e influente) nello stabilire l’oggetto della sua scienza linguistica: ha insistito sulla separazione teorica del tipo di relazione che c’è tra due elementi all’interno di un dato stato di un sistema, e il tipo di relazione che c’è tra un elemento in uno stato di un sistema e l’elemento equivalente di uno stato precedente o successivo dello stesso sistema.  Il primo l’ha chiamato relazioni sincroniche e il secondo, relazioni diacroniche. Questi sono entrambi aspetti della langue, che è sistematica nelle sue relazioni interne e nei modi in cui i cambiamenti – in sé asistematici – producono effetti al suo interno e il Cours contiene una vasta sezione su entrambi gli aspetti. L’innovatività dello studio della lingua all’inizio del Novecento sta nella promozione dello studio sincronico del sistema linguistico a disciplina autonoma, senza cui ogni studio diacronico sarebbe inadeguato – perché discende da discorso di Saussure in base al quale la funzione di ogni elemento del sistema può essere capita solo se viene capito il sistema nel suo insieme. Per i fruitori individuali della lingua e per la comunità linguistica in un dato momento, ha rilevanza solo lo stato sincronico della lingua; e l’analisi della struttura di relazioni di cui consiste quello stato è solo confusa dall’introduzione di questioni etimologiche o di cambiamento linguistico. Per quanto riguarda tutte le distinzioni di Saussure, questa opposizione è concettuale e metodologica ed è considerevolmente complicata quando si tratta di applicazione pratica; quel che offre al campo più vasto della semiologia è una semplificazione iniziale su cui possono essere costruite analisi più complesse.

Esiste un’altra opposizione concettuale coraggiosa che inizialmente ha contribuito a chiarire la moltitudine di relazioni sincroniche all’interno del sistema di langue, anche se questo punto ha probabilmente posto agli eredi intellettuali di Saussure più problemi di quanti ne ha contribuito a risolvere. Se immaginiamo una coppia di elementi del sistema tra i quali esiste una relazione vera o potenziale, nella parole questa relazione può manifestarsi in due modi: entrambi gli elementi occorrono in un enunciato oppure uno si verifica e l’altro no. Le relazioni che ci sono in praesentia tra gli elementi che occorrono si chiamano sintagmatiche (nel senso che formano un sintagma o una catena), e le relazioni che ci sono in absentia tra un elemento che occorre e uno o più elementi presenti nella memoria sono dette associative. Tuttavia, entrambe le categorie rimangono alquanto vaghe nel pensiero di Saussure ed egli ammette che le relazioni sintagmatiche ignorano il confine tra langue e parole – e così, si potrebbe dibattere, accade anche alle relazioni associative. Probabilmente è stata proprio l’incomprensibilità del pensiero di Saussure a permettere a questa distinzione relativamente marginale di diventare, sotto una nuova veste, una delle distinzioni centrali della semiologia di Saussure.

 

 

Modications and alternatives to the Saussurean model

 

 

Modifiche e alternative al modello saussuriano

The effects of Saussure’s conceptual revolution are to be felt everywhere in modern linguistics, operating most powerfully, perhaps, where they are least acknowledged. The isolation of the language system as the primary object of study, the theoretical distinction between synchronic and diachronic approaches, the crucial role of differential relations: these methodological assumptions, even though they are debated in their detailed ramifications, form the broad foundation of modern linguistic thought. And more than any specific model of linguistic structure, these general principles, in conjunction with related principles derived in particular from the work of Marx, Freud, and Durkheim, produced massive changes in the modes of twentieth-century cultural analysis. In some areas, however, the influence of Saussure’s theory was mediated through later modifications, and this section will be concerned with some of these refashionings.Gli effetti della rivoluzione concettuale di Saussure sono percepiti dovunque nella linguistica contemporanea, e forse hanno un impatto maggiore dove sono meno consapevoli. L’isolamento del sistema linguistico come oggetto primario di studio, la distinzione tra gli approcci sincronico e diacronico, il ruolo cruciale delle relazioni differenziali: queste ipotesi metodologiche, anche se dibattute nell’ambito delle loro ramificazioni dettagliate, costituiscono le fondamenta del pensiero della linguistica contemporanea.  E più di ogni modello specifico di struttura linguistica, questi principi generali, insieme ai relativi principi che derivano in particolare dall’opera di Marx, Freud e Durkheim, hanno prodotto importanti cambiamenti nelle modalità d’analisi culturale del Novecento. Tuttavia, in alcuni campi, l’influenza della teoria di Saussure è stata mediata attraverso modifiche successive e questa sezione tratterà di alcuni di questi rimodellamenti.The fundamental Saussurean conception of language (in so far as it is the ‘object’ analyzed by linguistic science) as a system of purely differential relations which makes possible all linguistic activity was developed in somewhat different ways by all the major schools of twentieth-century linguistics, and its subsequent use as a model in literary studies derives in part from some of these post-Saussurean developments. Most of those who revised the model attempted to evacuate from it Saussure’s lingering, if inconsistent, psychologism; the langue which underlies linguistic behaviour comes to be understood as an abstract form, deducible from acts of parole, a term which now covers the psychological as well as the physical aspects of language. (At the same time, Saussure’s related effort to keep the social nature of language in view at all times found few followers, though an important theory of just this aspect of language was elaborated in the 1920s by Voloshinov (Bakhtin?) in opposition to what he called the ‘abstract objectivism’ of Saussurean theory then dominant in Russia; see Marxism, pp. 58-61.) The linguist who took to its furthest extreme the idea of the language system’s abstractness was Louis Hjelmslev, the leading member of the Linguistic Circle of Copenhagen where ‘glossematic’ linguistics was developed in the 1930s. Hjelmslev’s emphasis on the purely formal properties of langue, independent of any given realization in a sign-system, was later to be a significant influence upon French structuralism, and his principled distinction between denotation and connotation – first-order and second-order systems of signification – also proved fruitful for wider semiological purposes.La concezione saussuriana fondamentale della lingua (in quanto «oggetto» analizzato dalla scienza linguistica) come sistema di relazioni puramente differenziali che consente qualsiasi attività linguistica, è stata sviluppata in modi alquanto diversi dalle scuole linguistiche più importanti del Novecento e i suoi usi successivi come modello per gli studi letterari derivano in parte da alcuni di questi sviluppi postsaussuriani. Molti di coloro che hanno rivisto il modello di Saussure, hanno tentato di svuotarlo dal suo resistente, se non addirittura incoerente psicologismo; la langue che sottolinea il comportamento linguistico va intesa come forma astratta, deducibile da atti di parole, termine che include sia gli aspetti psicologici sia gli aspetti fisici di una lingua.  (Allo stesso tempo, lo sforzo di Saussure di mantenere sempre in vista la natura sociale della lingua aveva trovato pochi seguaci, anche se, negli anni Venti era già stata elaborata da Voloshinov (Bahtin?) una teoria importante di questo stesso aspetto linguistico, in contrapposizione tra ciò che chiamava «oggettivismo astratto» della teoria saussuriana all’epoca dominante in Russia; vedi Volosinov 1973:58-31). Il linguista che ha portato all’estremo l’idea dell’astrattezza del sistema linguistico è stato Louis Hjelmslev, a capo del Circolo linguistico di Copenhagen dove, negli anni Trenta, è stata sviluppata la glossematica. L’enfasi di Hjelmslev sulle proprietà puramente formali della langue, indipendentemente da ogni attualizzazione in un sistema segnico, avrebbe notevolmente influenzato lo strutturalismo francese, e la sua distinzione di principio tra denotazione e connotazione – sistemi di significazione di primo e di secondo grado si è rivelata produttiva anche per la semiologia in senso lato.In the United States, linguistics took another direction, partly as a result of the empirical task of analyzing North American Indian languages. Although the pioneering work of Edward Sapir has affinities with Saussure’s mentalistic approach to language, what became known as structuralism within American linguistics – championed in particular by Leonard Bloomfield – adopted a rigorously inductive method based on mechanistic and behaviourist assumptions, and strongly opposed the continental use of deductive arguments about the mental system underlying language. However, the Saussurean tradition reasserted itself in a new guise after 1957 with the rapid acceptance in the United States, and beyond, of Noam Chomsky’s theory of generative grammar, advanced as a direct challenge to the Bloomfieldian approach (see Chomsky, Syntactic Structures). The debt to Saussure became particularly evident with Chomsky’s reformulation in Current Issues (1964) of the distinction between langue and parole as a distinction between competence and performance – with, significantly, the omission of the social dimension of Saussure’s distinction, and the replacement of Saussure’s rather imprecise notion of a language system as a set of relations with the theory – later much modified – of generative processes.9 The Bloomfieldian emphasis on linguistic study as primarily the establishment of taxonomies gave way to an attempt to explain why languages are as they are, and this project, too, brought the American linguistic enterprise closer to structuralism in the continental, rather than the Bloomfieldian, sense. Chomsky was also responsible for the much echoed phrase ‘deep structure’; this was a technical term within sentence-analysis, but its metaphoric resonances proved irresistible to many non-linguists and it became, for a time at least, part of the rhetoric of structuralism.Negli Stati Uniti, la linguistica ha preso un’altra strada, in parte come conseguenza del compito empirico di analizzare le lingue native dell’America settentrionale. Sebbene l’opera pionieristica di Edward Sapir abbia affinità con l’approccio mentalistico di Saussure alla lingua, ciò che in seguito è diventato noto come strutturalismo nell’ambito della linguistica americana difeso in particolare da Leonard Bloomfield – adotta un metodo rigorosamente induttivo basato sulle ipotesi meccanicistiche e comportamentali e contrasta duramente l’uso continentale di argomenti deduttivi sul sistema mentale sottostante alla lingua. Eppure, la tradizione saussuriana si è riaffermata sotto nuove spoglie dopo il 1957 con un rapido consenso negli Stati Uniti e oltre, per la teoria della grammatica generativa di Noam Chomsky, presentata come sfida diretta all’approccio di Bloomfield (vedi Chomsky:1957). Il debito verso Saussure diventò particolarmente evidente con l’avvento della riformulazione di Chomsky in Current Issues in Linguistic Theory (1964) della distinzione tra langue e parole come distinzione tra competence (competenza) e performance (esecuzione)  – con una significativa omissione della dimensione sociale della distinzione saussuriana e la sostituzione del concetto saussuriano alquanto impreciso di sistema linguistico come serie di relazioni con la teoria – successivamente assai modificata – dei processi generativi.9 L’enfasi bloomfieldiana sullo studio linguistico principalmente come l’affermarsi di tassonomie ha permesso di spiegare perché le lingue sono quel che sono; anche questo progetto ha portato l’iniziativa linguistica americana più vicina allo strutturalismo in un senso continentale, piuttosto che bloomfieldiano.  Chomsky è, inoltre, il creatore della nota espressione «deep structure» (struttura profonda); all’inizio era un termine tecnico nell’àmbito dell’analisi della frase ma le sue risonanze metaforiche si sono rivelate irresistibili per molti non linguisti ed è diventata, per un periodo di tempo almeno, parte della retorica dello strutturalismo.One branch of post-Saussurean linguistics, in particular, had a considerable impact on literary studies: phonology. Although Saussure’s own discussion of phonology is one of the less coherent parts of the Course, the foundation-stone of the concept of the ‘phoneme’ was laid by his clear apprehension of the distinction between, on the one hand, the identity of a linguistic unit – given entirely by its relation to other units within the system of langue – and, on the other, the concrete instances of its use within acts of parole. The history of the phoneme as a concept is an  extremely complex one, going back well before Saussure, and the notion itself emerged in a variety of forms in the work of different schools; but Saussure’s general model of language provides the firmest framework for its central insight – the recognition that the actual sounds of any language are able to function as determiners of meaning only because of a system of differences whereby they are identified by the speakers of that language. Saussure’s discussion, mentioned earlier, of the variety of ways in which the letter t can be written provides a clear instance of the argument; in exactly the same way, the phoneme /t/ in English is realized in a host of different ways (the qualities of a given pronunciation being determined by its place in the utterance, the accent or dialect being used, the idiosyncrasies of the particular speaker and speech act, and so on), but it will continue to be recognized as that phoneme as long as it does not lose its clear difference from all the other phonemes in the system. (The language could still function – by communal agreement – if /t/ was replaced by a completely different sound that remained clearly distinguishable within the system.) We thus arrive at a sharp methodological distinction between phonetics, the study of the sounds of speech as physical phenomena, and phonology, the study of the differential system of which those physical sounds are a realization. The frequent invention of terms ending in ‘-eme’ in modern linguistic and structuralist theory (mytheme, gusteme, philosopheme) bears witness to the appeal of the phoneme as an analytic concept.La fonologia, in particolare, è una branca della linguistica postsaussuriana che ha avuto un considerevole impatto sugli studi letterari. Benché l’approfondimento di Saussure stesso della fonologia sia una delle parti meno coerenti del Cours, la pietra fondatrice del concetto di «fonema» è stata posata dalla sua chiara comprensione della distinzione tra, da un lato, l’identità dell’unità linguistica – data interamente dalla sua relazione con le altre unità all’interno del sistema della langue – e i casi concreti dei suoi usi all’interno degli atti di parole dall’altro. La storia del fonema come concetto è molto complessa e risale a molto prima di Saussure. Nel lavoro di diverse scuole il concetto stesso è emerso in una varietà di forme; ma il modello linguistico generale di Saussure ha la sua struttura più solida nella sua intuizione centrale – l’ammissione che i suoni di ogni lingua possano avere la funzione di determinanti del significato solo a causa di un sistema di differenze per mezzo del quale sono identificati dai parlanti di quella lingua. L’approfondimento di Saussure, accennato prima, sulla varietà dei modi in cui può essere scritta la lettera t, offre un chiaro esempio a favore di questa tesi; esattamente nello stesso modo, il fonema /t/ in inglese è attualizzato in molti modi diversi (le qualità di una data pronuncia sono determinate dalla sua posizione nella frase, dall’accento o dal dialetto che si usa, dalle idiosincrasie di un dato parlante e dall’atto linguistico e così via) ma continuerà a essere riconosciuto come quel fonema finché non perde la netta differenza rispetto a tutti gli altri fonemi di un sistema.  (La lingua potrebbe ancora funzionare – per via di un comune accordo – se la /t/ fosse sostituita da un suono completamente diverso rimasto chiaramente distinguibile all’interno del sistema). Di conseguenza, arriviamo a una distinzione metodologica precisa tra fonetica, lo studio dei suoni di una lingua come fenomeno fisico, e la fonologia, lo studio del sistema differenziale di cui i suoni fisici sono l’attualizzazione. L’invenzione frequente dei termini che finiscono per «-ema» nella linguistica contemporanea e la teoria strutturalista (mitema, gustema, filosofema) testimoniano l’attrattiva del fonema in quanto concetto analitico.Of the various versions of this theory, the one which was to play the most direct part in the evolution of structuralism was that developed by Nikolai Trubetzkoy and Roman Jakobson in the late 1920s. Both Russian emigrés, Trubetzkoy and Jakobson played a leading part in the Prague Linguistic Circle and its evolving theoretical enterprise, which came to be known as Prague Structuralism (see above, chapter 1). (The following section will be devoted to Jakobson’s peculiarly important role in the application of the linguistic model to literary analysis.) Prague Circle phonology, for whom Saussure and the Polish linguist Jan Baudouin de Courtenay were probably the most important influences, placed special emphasis on the functions of language and of its elements, and the phoneme was therefore understood in terms of its function in differentiating meaning. This understanding of the phoneme gives rise to the widely used principle of the ‘commutation test’, an elegant demonstration of the differential nature of the language system. In a word of the language under examination, a series of replacements is made at a given point; the word ‘farm’, for instance, undergoes modifications in its initial element. Among the responses which an English speaker would make to these changes would be that the same word was being pronounced in a different way, or that a different word – say ‘charm’ – was being uttered. In the former case, the two sounds in question are evidently both variant realizations of the same phoneme, in the latter case the two sounds are realizations of different phonemes. As we shall see, Jakobson took this principle further by applying Saussurean principles to the constitutive elements of the phoneme itself.Delle varie versioni di questa teoria, quella che avrebbe giocato un ruolo più diretto nell’evoluzione dello strutturalismo è stata quella sviluppata da Nikolaj Trubeckoj e Roman Jakobson alla fine degli anni Venti.  Entrambi immigrati russi, Trubeckoj e Jakobson hanno avuto un ruolo fondamentale nel Circolo Linguistico di Praga e nella sua attività teorica in evoluzione, nota in seguito come Strutturalismo di Praga (vedi sopra, Capitolo 1). (La parte successiva sarà dedicata al ruolo particolarmente importante di Jakobson nell’applicazione del modello linguistico nell’analisi letteraria). La fonologia del Circolo di Praga, influenzata soprattutto da Saussure e dal linguista polacco Jan Baudouin de Courtenay, ha posto un particolare accento sulle funzioni della lingua e i suoi elementi, e il fonema è stato di conseguenza concepito in termini delle sue funzioni differenziali semantiche. Questa concezione del fonema dà origine al principio largamente usato del «commutation test» (prova di commutazione), una dimostrazione elegante della natura differenziale del sistema linguistico. In una parola della lingua in esame, ad un certo punto vengono fatte una serie di sostituzioni; la parola «farm», per esempio subisce modifiche all’interno dell’elemento iniziale. Tra le risposte che un parlante inglese darebbe a questi cambiamenti ci sarebbe quella che la stessa parola è stata pronunciata in un modo diverso, o che è stata pronunciata una parola diversa – per esempio «charm». Nel primo caso, i due suoni in questione sono entrambi diverse attualizzazioni dello stesso fonema, nel secondo caso i due suoni sono attualizzazioni di fonemi diversi. Come vedremo, Jakobson ha sviluppato ulteriormente questo principio applicando i principi di Saussure agli elementi costitutivi del fonema stesso.Saussurean principles also helped to produce an influential theory of phonology within American structuralist linguistics. Bloomfield – who favourably reviewed the Course in 1923 (though he later paid it little overt attention) – laid the foundations, and the ‘phonemicists’, notably George L. Trager, Bernard Bloch, and Henry Lee Smith, later elaborated upon it, once again employing the Saussurean distinction between actual sounds and a more abstract system of differences. Their work on ‘supra- segmental phonemes’ – features of language such as stress and intonation – was influential for a time in studies of verse form. The phonemic approach was displaced, however, by the twin influences of Jakobson and Chomsky; generative phonology absorbed Jakobson’s analysis of elementary phonological oppositions into a Chomskeian framework, and the subsequent development of metrical phonology found in the traditions of verse form telling evidence for a systematic rhythmic component in the sound patterns of English.I principi di Saussure hanno aiutato a produrre un’influente teoria della fonologia all’interno della linguistica strutturalista americana. Bloomfield – che ha revisionato in modo positivo il Cours nel 1923 (anche se successivamente gli ha dato poca attenzione esplicita) – ha posto le fondamenta e i «fonemicisti», in particolare George L. Trager, Bernard Bloch e Henry Lee Smith, le hanno sviluppate in seguito, usando ancora una volta la distinzione saussuriana tra i suoni effettivi e un sistema di differenze più astratto. Il loro lavoro sui «fonemi soprasegmentali» – tratti linguistici come enfasi e intonazione ha influenzato per un periodo gli studi sulla forma del verso. Tuttavia, l’approccio fonemico è stato sostituito dalla doppia influenza di Jakobson e Chomsky; a fonologia generativa ha assorbito l’analisi jakobsoniana delle opposizioni fonologiche elementari all’interno nel sistema chomskiano, e il successivo sviluppo della fonologia metrica ha trovato nelle tradizioni della forma del verso una prova lampante dell’esistenza di una componente ritmica sistematica nel modello di suoni della lingua inglese.Another of Saussure’s distinctions, that between syntagmatic and associative relations, proved fruitful in a number of different recastings. The term ‘associative’ as used by Saussure found little favour, however: it lumps together all possible mental associations – including mere association of ideas – between an occurring sign and other signs within the system. It was replaced in the work of most followers of Saussure by the term ‘paradigmatic’, which was given a more precise structural definition: just as the relation between the terms in a grammatical paradigm (amo, amas, amat, etc.) is such that only one is chosen for a particular context, so any actually occurring sign is related to a set of signs from which it was chosen.Un’altra delle distinzioni di Saussure si è rivelata produttiva in una serie di diversi rimodellamenti tra le relazioni sintagmatiche e associative. Eppure, il termine «associativo» così come è usato da Saussure ha trovato pochi consensi: questo termine raggruppa insieme tutte le associazioni mentali possibili – inclusa la semplice associazione di idee – tra un segno che occorre e altri segni all’interno del sistema.  Nel lavoro della maggior parte dei seguaci di Saussure, questo termine è stato sostituito con «paradigmatico», termine a cui è stata data una definizione strutturale più precisa: proprio come la relazione tra i termini di un paradigma grammaticale (amo, amas, amat, ecc.) è tale che solo uno può essere scelto per un contesto particolare, quindi ogni segno che effettivamente ricorre è legato a un insieme di segni da cui è stato scelto.Thus the phoneme represented by the p in pen is paradigmatically related to the other phonemes which the system of English phonology allows at this point in the syntagmatic context -en. The productiveness of the distinction lies, as with all Saussure’s conceptual oppositions, in its generality: it applies at every level of the sign-system, and to all varieties of sign. It also gives a more specific content to the notion of identity within a differential system: the elements of any sign-system are determined not by the substance in which they are realized but by the co-occurring and interdependent syntagmatic and paradigmatic relations into which they enter (see Lyons, Introduction, pp. 70-81). The recognition of syntagmatic and paradigmatic relations, and their interdependence in determining units, is crucial to all types of structuralism (it is, for instance, the basis on which the commutation test is built) and to all linguistic theories which rely on a distributional analysis of units. Its most influential reformulation was that made by Jakobson, to be considered in the following section.Pertanto il fonema rappresentato dalla lettera p di pen è paradigmaticamente legato agli altri fonemi che il sistema fonologico inglese permette a questo punto nel contesto sintagmatico -en. La produttività della distinzione è riposta, come per tutte le opposizioni concettuali di Saussure, nella sua generalità: viene applicata a ogni livello di sistema segnico e a tutte le varietà del segno. Dà anche un contenuto più specifico al concetto di «identità» all’interno del sistema differenziale: gli elementi di ogni sistema segnico sono determinati non dalla materia di cui sono fatti bensì da relazioni sintagmatiche e paradigmatiche co-occorrenti e interdipendenti in cui entrano (vedi Lyons 1968:70-81).  Il riconoscimento delle relazioni sintagmatiche e paradigmatiche e la loro interdipendenza con le unità determinative, è fondamentale per tutti i tipi di strutturalismo (per esempio, è la base su cui è costruita la prova di commutazione) e per tutte le teorie linguistiche che si basano sull’analisi distribuzionale delle unità. La riformulazione più influente è stata fatta da Jakobson e sarà oggetto della prossima sezione.Saussure remained uncertain about the relation of this distinction to the distinction between langue and parole, regarding the syntagm as blurring the boundary between them (p. 125). (One reason for this was his undeveloped notion of syntax, which led him to regard the sentence as the free invention of the individual speaker, and hence as part of parole – see Course, pp. 106, 124.) Later linguists have, in effect, distinguished between the syntagm as a particular utterance, belonging to parole, and the syntagmatic pattern or regularity, belonging to langue and specifying the rules which individual syntagms observe. The work of Chomsky, in particular, presented a means of preserving within a rule-governed system of language Saussure’s recognition of the freedom with which speakers produce new sentences. It is possible, therefore, to use the syntagmatic/paradigmatic distinction to classify the types of relation determined by the language system – which elements may co-exist in conjunction with, or replace, which other elements –  and also as a tool to analyze a given utterance or text. But the Saussurean slide from langue to parole in the domain of the syntagm remained a source of possible confusion for later theorists, especially as the syntagmatic dimension of language was sometimes confused – because the spoken syntagm unfolds in time – with the diachronic approach to linguistic study. (In fact, the two distinctions have the opposite relation: both paradigm and diachrony are characterized by relations of substitution, and both syntagm and synchrony – as their names imply – are characterized by relations of co-occurrence.) A further source of confusion lies in the differing connotations of the words ‘structure’ and ‘system’: the former may seem to imply a syntagm, an act of parole which exhibits relationships among its parts, rather than an underlying set of relationships which makes such acts possible, while the latter is likely to suggest a paradigm, a set of substitutable terms, to the exclusion of syntagmatic possibilities. (‘System’ is in fact used in this way by Barthes in Elements of Semiology, where it is put in opposition to ‘syntagm’.) However, the term ‘structuralism’ denotes a concern not with acts of parole but with the underlying relational system that makes them possible, a system which includes both paradigmatic and syntagmatic relations.

 

 

Saussure’s absolute distinction between synchronic and diachronic approaches to language has frequently been challenged, but most linguistic schools of the twentieth century (in stark contrast to the previous century) have taken advantage of the methodological clarification it offers to study the rules and relationships which co-exist in a given system. Treated as a necessary simplification of the actual condition of language (whether conceived of as an individual or as a collective phenomenon) it has borne fruit not only in more rigorous accounts of contemporary languages, but in accounts of earlier languages or language states, since the synchronic approach is valid for any period and language community for which it is possible to hypothesize a single linguistic system. Historical studies of cultural fields have found this a highly productive model.10Saussure è rimasto incerto sulla relazione tra questa distinzione e la distinzione tra langue e parole, riguardante il sintagma che fa sbiadire il confine tra loro (Saussure 1916:172). (Una delle ragioni è il suo concetto non sviluppato di «sintassi», che lo ha portato a considerare la frase come una libera invenzione del singolo parlante e di conseguenza parte della parole – vedi Saussure 1916:152, 170). I linguisti successivi hanno, effettivamente, fatto distinzione tra sintagma come particolare enunciato, che appartiene alla parole, e modello o regolarità sintagmatica, appartenente alla langue, e che segue le regole che osservano i singoli sintagmi. L’opera di Chomsky in particolare presentava un modo di preservare il riconoscimento saussuriano della libertà all’interno di un sistema linguistico governato da regole, con cui i parlanti producono nuove frasi. Tuttavia, è possibile usare la distinzione sintagmatico/paradigmatico per classificare i tipi di relazione determinati dal sistema linguistico – i cui elementi potrebbero coesistere insieme ad altri elementi o sostituirli – e anche come strumento di analisi di un dato enunciato o testo. Ma lo slittamento di Saussure da langue a parole nel campo del sintagma è rimasto fonte di un possibile equivoco per i teorici successivi, specialmente quando la dimensione sintagmatica della lingua è stata a volte confusa – perché un sintagma parlato si sviluppa nel tempo – con l’approccio diacronico allo studio linguistico. (In effetti, le due distinzioni hanno una relazione opposta: sia il paradigma sia la diacronia sono caratterizzati da relazioni di sostituzione e sia il sintagma sia la sincronia – come suggerisce il loro nome – sono caratterizzati da relazioni di co-occorrenza). Un’ulteriore fonte di confusione è riposta nelle diverse connotazioni delle parole «struttura» e «sistema»: la prima sembra implicare un sintagma, un atto di parole che presenta relazioni tra le parti, invece di un insieme sottostante di relazioni che rende possibile questi atti, mentre la seconda potrebbe suggerire un paradigma, un insieme di termini sostituibili, fino all’esclusione delle possibilità sintagmatiche. (Il termine «sistema» è infatti usato in questo modo da Barthes in Eléments de sémiologie, dove è messo in contrapposizione a «sintagma»). Tuttavia, il termine «strutturalismo» denota un interesse non verso gli atti di parole bensì verso il sistema relazionale sottostante che li rende possibili, un sistema che include sia relazioni paradigmatiche sia relazioni sintagmatiche.

La distinzione assoluta di Saussure tra gli approcci sincronico e diacronico alla lingua è stata spesso messa in discussione, ma quasi tutte le scuole linguistiche del Novecento (in forte contrasto con il secolo precedente) hanno approfittato della chiarificazione metodologica che questa distinzione offre per studiare le regole e le relazioni che coesistono in un dato sistema. Se trattato come semplificazione necessaria dell’effettiva condizione della lingua (concepita come un fenomeno individuale o collettivo), porta risultati non solo nelle descrizioni più rigorose delle lingue contemporanee, ma anche in quelle delle lingue o degli stati linguistici precedenti, dal momento che l’approccio sincronico è valido per ogni periodo e comunità linguistica per cui è possibile ipotizzare un singolo sistema linguistico.  Studi storici del settore culturale hanno trovato questo modello molto produttivo.10An alternative to Saussure’s concept of the sign which should be mentioned for its importance in literary semiotics was that developed simultaneously but independently by Charles Sanders Peirce, who, using a quite different terminology, and not confining himself to language, proposed a tripartite classification of signs (though a given sign can combine the features of more than one class): the icon, in which there is a resemblance between the sign and its object (a road-sign in which a cross represents an intersection, for example), the index, in which the sign is an effect of the object (such as an animal’s spoor), and the symbol, which is the Peircian equivalent of the arbitrary sign upon which Saussure placed all his emphasis.Un’alternativa al concetto di segno di Saussure che deve essere menzionata per l’importanza che ha avuto nella semiotica letteraria è stata quella sviluppata in maniera simultanea ma indipendente da Charles Sanders Peirce, che, usando una terminologia piuttosto diversa e non limitandosi alla lingua, ha proposto una classificazione tripartita dei segni (anche se un dato segno può combinare le caratteristiche di più di una classe): l’icona, in cui c’è una somiglianza tra segno e il suo oggetto (per esempio, un cartello stradale con una croce che rappresenta un incrocio), l’indice, in cui il segno è un effetto dell’oggetto (come le orme di un animale) e il simbolo, che è l’equivalente peirceiano del segno arbitrario su cui Saussure si è concentrato di più.Like Saussure, Peirce rejects the simple nomenclaturist view of signs as names that refer directly to objects. Signs relate to objects only through mental interpretations: ‘A sign … is something which stands to somebody for something in some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. That sign which it creates I call the interpretant of the first sign’ (Philosophical Writings, p.99). Moreover, a sign ‘can only be a sign of … [its] object insofar as that object is itself of the nature of a sign or thought’ (Collected Papers, vol. 1, para. 538). Peirce’s notion of the interpretant as the third term necessary to any signification, not determining the sign-object relation but determined by it, and having itself the structure of a sign, underwent many reformulations and remains the subject of discussion and dispute, but what is evident is that for Peirce as for Saussure, signs are not locked onto the world outside them, but relate to one another in a network without a fixed limit or centre.

 

In order to appreciate the way in which Saussurean linguistic theory influenced structuralism it is necessary to understand the particular gloss put upon it by the French linguist Emile Benveniste. In 1939, Benveniste published an essay entitled ‘The nature of the linguistic sign’, which both reasserts the importance of Saussure’s theory of the sign, and claims to save it from some of its own inconsistencies (Problems, pp. 43-8). Benveniste insists that from the point of view of the language user the relation between signifier and signified is not arbitrary, but necessary (a fact which Saussure – for whom ‘arbitrary’ did not mean ‘random’ or ‘unfixed’ – had himself stressed), and reintroduces the notion of the referent in order to proclaim that the true site of arbitrariness is between the sign and the reality to which it refers. In doing so Benveniste abandons Saussure’s most significant claim: that the sign is radically arbitrary, in both its aspects. Some of the tensions within later structuralist thought stem from this return, in Saussure’s name, to a conception of language that he had resolutely rejected.Come Saussure, Peirce non accetta la semplice visione nomenclaturistica dei segni come nomi che si riferiscono direttamente agli oggetti.  I segni si collegano agli oggetti solo attraverso interpretazioni mentali: «Un segno […] è qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa in una certa misura o capacità.  Si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Il segno che crea io lo chiamo interpretante del primo segno» (Peirce 1955:99). Inoltre, un segno «può solo essere il segno del […] [proprio] oggetto nella misura in cui il dato oggetto ha natura di segno o di pensiero» (Peirce 1931:538).  Il concetto peirceiano di interpretante come terzo temine necessario per qualsiasi significazione, che non determina la relazione segno-oggetto ma è da essa determinato, e avente la struttura di segno, è stato oggetto di molte riformulazioni e rimane materia di discussione e dibattito, ma è evidente che tanto per Peirce quanto per Saussure, i segni non sono chiusi nel mondo esterno, ma si connettono tra di loro attraverso una rete senza un limite fisso né un centro.

Per apprezzare il modo in cui la teoria linguistica di Saussure ha influenzato lo strutturalismo, è necessario capire la particolare glossa messa dal linguista francese Émile Benveniste. Nel 1939, Benveniste ha pubblicato un saggio intitolato «Nature du signe linguistique», che riafferma l’importanza della teoria saussuriana dei segni e sostiene di salvarla da alcune sue incongruenze (Benveniste 1971:43-8). Benveniste insiste che dal punto di vista di chi usa la lingua, la relazione tra signifiant e signifié non è arbitraria ma necessaria (un fatto che Saussure stesso – per il quale «arbitrario» non significava «casuale» o «incerto» – aveva sottolineato) e reintroduce il concetto di «referente» in modo da mostrare che il vero posto dell’arbitrarietà è tra il segno e la realtà a cui questo si riferisce. Così Benveniste abbandona l’affermazione più significativa di Saussure: che il segno è radicalmente arbitrario, in entrambi gli aspetti.  Alcune delle tensioni all’interno del pensiero strutturalista successivo derivano da questo ritorno, nel nome di Saussure, a un concetto di lingua che Benveniste aveva rifiutato con decisione.A number of other essays by Benveniste, collected in Problems, played a crucial part in the discourse of structuralism. His account of the distinction – in any act of parole – between language as énoncé (‘enounced’: the particular linguistic items in a particular order) and as énonciation (‘enunciation’: the utterance as it occurs on a particular occasion) had extensive repercussions in studies of the constitution of subjectivity in language. In particular, he pointed to the special proprieties of ‘deictics’, verbal elements such as ‘I’ and ‘here’ which derive a large part of their meaning not from linguistic system but from the situation in which they are uttered (a topic in which Jakobson also took an influential interest: see ‘Shifters’).Vari altri saggi di Benveniste, raccolti in Problèmes de linguistique générale, hanno avuto un ruolo cruciale nel dibattito sullo strutturalismo. La sua descrizione della distinzione – in ogni atto di parole – tra la lingua in quanto énoncé («enunciato»: elementi linguistici specifici posti in un ordine specifico) e in quanto énonciation («enunciazione»: l’enunciato come occorre in una data occasione), ha avuto ripercussioni negli studi sulla costituzione della soggettività della lingua.  In particolare, ha richiamato l’attenzione sulle proprietà speciali dei «deittici», elementi verbali come «io» e «qui» che derivano in gran parte dal loro significato, non dal sistema linguistico ma dalla situazione in cui sono enunciati (argomento di cui anche Jakobson si è interessato: vedi «Shifters»).

Roman Jakobson

Roman Jakobson

As one of the twentieth century’s most influential figures in both linguistics and literary studies, Roman Jakobson deserves separate attention. In 1915, when he was still a nineteen-year old student in his first year at university, Jakobson helped to found the Moscow Linguistic Circle, which with the Petersburg-based group known as OPOJAZ (with which he was also associated), was the main centre of what would later be called Russian Formalism (see above, chapter 1). Having moved to Czechoslovakia in 1920, he again participated in meetings with a group of linguistic and literary scholars, and in 1926 was instrumental in their formal costitution as the Prague Linguistic Circle. In 1939 Jakobson left Czechoslovakia, settling in the USA in 1941, where he taught in a number of institutions until his death in 1982. In all three countries he had a considerable intellectual impact, and his international itinerary is an important factor in the belated influence of the Russian and Czech movements upon the English-speaking (and, as we shall see, the French-speaking) world. Although his ideas underwent significant changes during his life, they manifest a consistent thread of outlook and aspiration. Jakobson’s contribution as a literary theorist to Russian Formalism and Prague Structuralism is discussed elsewhere in this volume; what is important to note here is that his dual interest – which he saw as single – in linguistic science and in literature (and the arts more generally) stems from the earliest stage of his career. In Moscow he was actively involved as poet and critic in the Futurist movement whose linguistic experiments were continuous with the more academic study of language, literary and otherwise, being pursued at the same time. It is characteristic that he should in the same year – 1928 – collaborate with Jury Tynyanov, a leading Russian Formalist, to produce a programmatic statement entitled ‘Problems in the study of language and literature’ (Language in Literature, pp. 47-9) and with the phonologists Karcevsky and Trubetzkoy to present a set of epoch-making proposals on the appropriate methods for the analysis of phonological systems to the First International Congress of Linguistics at The Hague (Selected Writings, I, pp. 3-6). After his move to the USA, he continued to write prolifically on both linguistic and literary topics, alone and in collaboration with a number of other scholars.Roman Jakobson, in quanto una delle figure più influenti nell’ambito degli studi linguistici e letterari del Novecento, merita un’attenzione a parte. Nel 1915, quando era ancora uno studente di diciannove anni al primo anno di università, Jakobson ha contribuito a fondare il Circolo Linguistico di Mosca, che insieme al gruppo con sede a Pietroburgo noto come OPOJAZ (con cui collaborava), costituiva il centro principale di quello che in seguito si sarebbe chiamato «formalismo russo» (vedi sopra, capitolo 1). Nel 1920 si è trasferito in Cecoslovacchia, dove ha partecipato ancora agli incontri con un gruppo di studiosi della lingua e della letteratura e nel 1926 è stato determinante nella loro costituzione formale come Circolo linguistico di Praga. Nel 1939 ha lasciato la Cecoslovacchia per stabilirsi negli Stati Uniti nel 1941, dove ha insegnato in varie istituzioni fino alla morte avvenuta nel 1982. In tutti e tre i paesi ha avuto un impatto intellettuale notevole e il suo itinerario internazionale è un fattore importante nell’influenza tardiva dei movimenti russi e cechi sul mondo anglofono (e come vedremo, anche sul mondo francofono). Sebbene abbiano subìto cambiamenti importanti durante la vita, le sue idee seguono comunque un filo di prospettive e aspirazioni coerenti. Il contributo di Jakobson come teorico letterario del formalismo russo e dello strutturalismo praghese è trattato in altre parti di questo volume; è importante sottolineare che il suo interesse duplice – che Jakobson vedeva come singolo ­– nella scienza linguistica e nella letteratura (e più generalmente nelle arti) deriva dalle fasi iniziali della sua carriera. A Mosca è stato attivamente coinvolto come poeta e critico del movimento futurista i cui esperimenti linguistici erano contigui allo studio più accademico e allo stesso tempo più approfondito della lingua e della letteratura. È tipico che nello stesso anno (1928) collabori con Jurij Tynjanov, un importante formalista russo, per produrre un manifesto programmatico intitolato «Problems in the study of language and literature» (Jakobson 1987:47-9) e con i fonologi Karcevskij e Trubeckoj per presentare un insieme di proposte epocali sui metodi più appropriati per l’analisi dei sistemi fonologici al primo Congresso internazionale di linguistica tenutosi all’Aia (Jakobson 1971:3-6). Dopo essersi trasferito negli Stati Uniti, Jakobson ha continuato a scrivere prolificamente su temi linguistici e letterari, per conto suo e in collaborazione con diversi altri studiosi.The Saussurean conception of linguistic science is fundamental to Jakobson’s enterprise, which is characterized by a positivistic spirit, an attempt to identify a relatively abstract system implicit in actual behavior, and a particular focus on binary oppositions, including the two-sidedness of the linguistic sign and the paradigmatic/syntagmatic distinction. Jakobson himself frequently acknowledged the influence of Saussure upon his work, though his indebtness is sometimes obscured by the pains he took to emphasize his differences.11 Thus, the topics on which he lectured in New York soon after his arrival there were ‘Saussurean theory in retrospect’ and ‘Sound and meaning’12, the latter course also much concerned with Saussure’s linguistic theory. Jakobson, even more than Saussure, detected the principle of the binary opposition at work throughout the language system, and he proposed an analysis of the phoneme in terms of a number of binary distinctive features, such as voiced/voiceless or tense/ lax, thus making it possible to give the notion of a ‘system of differences’ a precise sense at the phonological level. Although Jakobson frequently presented this theory as a major revision of Saussurean doctrine in that it contradicts the principle of the linearity of the signifier (see, for instance, Six Lectures, pp. 97-9), it is in fact an extension of basic Saussurean principles to relations between co-occurring aspects of a single phoneme. These relations remain syntagmatic in that they occur between elements in praesentia, though Jakobson makes the useful further distinction between successive elements in a syntagmatic relation of concatenation and simultaneous elements in a syntagmatic relation of concurrence.Il concetto saussuriano di «scienza linguistica» è fondamentale per l’impegno di Jakobson, caratterizzato da spirito positivistico: il tentativo di identificare un sistema relativamente astratto implicito nel comportamento effettivo e un particolare interesse per le opposizioni binarie, inclusa la duplicità del segno linguistico e la distinzione paradigmatico/sintagmatico. Jakobson stesso ha spesso ammesso l’influenza di Saussure sul suo lavoro, benché il suo debito di riconoscenza sia occasionalmente oscurato dalla fatica che gli ci è voluta per mettere in risalto le sue differenze.11 Di conseguenza, gli argomenti che ha trattato nelle sue lezioni a New York poco dopo il suo arrivo, riguardavano la «Saussurean theory in retrospect» e «Sound and meaning»12; anche quest’ultimo corso era incentrato sulla teoria linguistica di Saussure. Jakobson, ancor più di Saussure, si è concentrato sul principio dell’opposizione binaria operante nel sistema linguistico e ha proposto un’analisi del fonema in termini di una serie di tratti distintivi binari, come sonoro/sordo o teso/rilassato, così da offrire alla definizione di «sistema di differenze» un senso preciso a livello fonologico. Sebbene Jakobson presenti spesso la sua teoria come una significativa revisione della dottrina saussuriana laddove contraddice il principio della linearità del signifiant (vedi, per esempio, Jakobson 1978:97-9), è in effetti un’estensione dei principi saussuriani di base alle relazioni tra aspetti cooccorrenti del singolo fonema.  Queste relazioni restano sintagmatiche in quanto occorrono tra elementi in praesentia, anche se Jakobson fa un’ulteriore distinzione utile tra elementi successivi in una relazione sintagmatica di concatenazione ed elementi simultanei in una relazione sintagmatica di coincidenza.

 

The other points relevant to literary studies on which Jakobson frequently expressed disagreement with Saussure involve the notion of arbitrariness and the opposition between synchronic and diachronic approaches. Although Jakobson’s practice in analyzing language, like that of virtually all twentieth-century linguists, assumes that the signs of language are fundamentally in an arbitrary relation to their meanings, his strong interest in poetry led him frequently to emphasize those aspects of the signifier which could be said to be motivated (see, in particular, ‘Quest for the essence of language’, in Language in Literature, pp. 413-27, and chapter 4 of Sound Shape). In doing so, he found Peirce’s account of the sign, and in particular the category of iconic signs, a useful complement to Saussure’s (though Peirce’s emphasis on triadic structures was less attractive to Jakobson than Saussure’s binary oppositions). For Saussure, it is the arbitrary nature of the sign which results in the peculiar indissolubility of the bond between signifier and signified, since the two aspects of the sign are brought into being simultaneously by the system; Jakobson, however, follows Benveniste in emphasizing the necessary connection between signifier and signified from the point of view of the language user (see Six Lectures, p. 111).Tra gli altri punti importanti per gli studi letterari sui quali Jakobson ha spesso espresso il suo disaccordo con Saussure, il concetto di «arbitrarietà» e l’opposizione tra gli approcci sincronico e diacronico. Sebbene la pratica jakobsoniana nell’analisi della lingua, come quella di quasi tutti i linguisti del Novecento, supponga che i segni linguistici sono fondamentalmente in una relazione arbitraria con i loro significati, il suo forte interesse per la poesia l’ha spesso portato a enfatizzare quegli aspetti del signifiant che potevano essere definiti motivati (vedi, in particolare, «Quest for the essence of language», in Jakobson 1987:413-27 e nel capitolo 4 di Sound Shape). Così facendo, Jakobson trova la descrizione peirceiana del segno e in particolare, la categoria dei segni iconici, complemento utile a quella di Saussure (anche se l’enfasi peirceiana sulle strutture triadiche è meno allettante per Jakobson rispetto alle opposizioni binarie di Saussure). Per Saussure, è la natura arbitraria del segno a determinare la particolare indissolubilità del legame tra signifiant e signifié, dal momento che i due aspetti del segno sono creati simultaneamente dal sistema; tuttavia, Jakobson segue Benveniste nell’enfatizzare il collegamento necessario tra signifiant e signifié dal punto di vista di chi usa la lingua (vedi Jakobson 1978:111).Like many literary theorists after him, Jakobson frequently complains that Saussure’s distinction between synchronic and diachronic approaches to language implies that language is static and obscures the importance of the historical dimension within language at any given time (see, for instance, Jakobson and Pomorska, Dialogues, ch. 7: ‘The time factor in language and literature’). Nevertheless, his own analytical procedures testify to the methodological importance of the distinction, which is a necessary precondition to any discussion of the interaction of the two dimensions. (The common confusion of diachrony and the syntagm mentioned above may have its origins in Jakobson’s unfortunate conflation of the paradigmatic/syntagmatic opposition with the synchronic/diachronic opposition – see Six Lectures, pp. 100-1.)Come molti teorici letterari dopo di lui, Jakobson si lamentava spesso del fatto che la distinzione saussuriana tra gli approcci sincronico e diacronico alla lingua implica che la lingua sia statica e offusca l’importanza della dimensione storica all’interno della lingua in un dato punto nel tempo (vedi, per esempio, Jakobson e Pomorska, Jakobson 1980: cap. 7: «The time factor in language and literature»). Tuttavia, le sue procedure analitiche testimoniano l’importanza metodologica della distinzione, che rappresenta una precondizione per ogni discussione sull’interazione delle due dimensioni. (La confusione diffusa della diacronia e del sintagma menzionata prima forse ha origini nella fusione sfortunata dell’opposizione paradigmatico/sintagmatico con l’opposizione sincronico/diacronico – vedi Jakobson 1978:100-1).More importantly, Jakobson takes issue with Saussure’s argument that linguistic change occurs first in parole – some speakers, for a variety of possible reasons, start using the language in a different way – and then (occasionally) becomes established in the langue; for Jakobson, change can take place in the system itself (see, for example, ‘La théorie saussurienne’, pp. 421–4). The question of change in semiological systems was to remain a crucial one in structuralist theory.Ancora di più, Jakobson controbatte all’argomentazione di Saussure che il cambiamento linguistico occorre prima nella parole – alcuni parlanti, per una varietà di ragioni possibili, iniziano a usare la lingua in modo diverso – e poi (occasionalmente) si stabilisce nella langue; per Jakobson, il cambiamento avviene nel sistema stesso (vedi, per esempio, Jakobson 1962:421-4). La questione del cambiamento nei sistemi semiologici sarebbe rimasta cruciale nella teoria strutturalista.Perhaps the most fruitful Saussurean distinction in Jakobson’s hands was that between syntagmatic and paradigmatic relations, and his development of it was to constitute a major part of his impact upon literary structuralism. In 1956, with Morris Halle, he published Fundamentals of Language, describing it in his foreword as the result of a temptation ‘to explore, forty years after the publication of Saussure’s Cours with its radical distinction between the “syntagmatic” and “associative” plane of language, what has been and can be drawn from this fundamental dichotomy’ (p. 6). Particularly seminal was the second part of the monograph, by Jakobson alone, entitled ‘Two aspects of language and two types of aphasic disturbances’ (reprinted in Language in Literature, pp. 95–1 14). Here Jakobson describes two types of linguistic difficulty caused by aphasia, the first, disorders of selection and substitution, characterized by problems in choosing the right word when the context offers little help, the second, disorders of combination and contexture, involving problems in constructing grammatical sequences. The first type, which Jakobson terms ‘similarity disorder’, is also characterized by the substitution of words associated with the one that is blocked even though they may be entirely different in their meaning (thus table for lamp, eat for toaster), whereas the second type, which he calls ‘contiguity disorder’, is characterized by substitutions based on similarity of meaning (thus spyglass for microscope and re for gaslight). Jakobson relates this opposition on the one hand to Saussure’s classification of all linguistic relations as either syntagmatic or paradigmatic (the first type of aphasia involves the retention of syntagmatic but the loss of paradigmatic capacities, the second type the reverse) and on the other to the traditional rhetorical figures metonymy (substitution based purely on association, without similarity of meaning) and metaphor (substitution based on similarity of meaning). Jakobson postulates that this opposition underlies cultural productions more generally, so that realism, for instance, can be understood as privileging syntagmatic relations or metonymy (realistic details are related to one another by their contiguity) while romanticism and symbolism operate with paradigmatic relations favouring metaphor (literal elements suggest figurative meanings through relations of similarity). The bold generality of this distinction (typical of Jakobson’s search for universals) gave it immense appeal to literary theorists on the lookout for explanatory keys.13Forse, la distinzione saussuriana più produttiva nelle mani di Jakobson è quella tra le relazioni sintagmatica e paradigmatica e il suo ulteriore studio avrebbe costituito una parte importante dell’impatto che ha avuto sullo strutturalismo letterario. Nel 1956, assieme a Morris Halle, Jakobson pubblica Fundamentals of Language descrivendo nella prefazione questa distinzione come conseguenza della tentazione «di esplorare, quarant’anni dopo la pubblicazione del Cours di Saussure con la sua distinzione radicale tra il piano del linguaggio «sintagmatico» e «associativo», il concetto che è stato e può essere ricavato da questa dicotomia fondamentale» (Jakobson 1956:6). Particolarmente influente è stata la seconda parte della monografia, di cui Jakobson è unico autore, intitolata «Two aspects of language and two types of aphasic disturbances» (ristampata in (Jakobson 1987:95-114).  In questa monografia Jakobson descrive due tipi di difficoltà linguistiche causate dall’afasia: la prima riguarda i disturbi della selezione e sostituzione, caratterizzata da problemi nello scegliere la parola giusta quando il contesto aiuta poco, la seconda riguarda i disturbi della combinazione e composizione, che comportano problemi nella costruzione di frasi grammaticali.  Il primo tipo, che Jakobson chiama «disturbo della similarità», è inoltre caratterizzato dalla sostituzione delle parole associate con quella bloccata, anche se hanno un significato totalmente diverso (quindi tavolo per lampada, mangiare per tostapane), mentre il secondo tipo, che Jakobson chiama «disturbo della contiguità», è caratterizzato da sostituzioni basate sulla similarità del significato (da cui cannocchiale per microscopio e fuoco per lampada a gas). Jakobson collega questa opposizione da una parte, con la classificazione saussuriana di tutte le relazioni linguistiche in quanto sintagmatiche o paradigmatiche (il primo tipo di afasia comporta la ritenzione della capacità sintagmatica ma la perdita di quella paradigmatica, il secondo tipo fa il contrario) e d’altra parte, con le figure retoriche tradizioni quali la metonimia (sostituzione basata puramente sull’associazione, senza somiglianza  di significato) e la metafora (sostituzione basata sulla somiglianza di significato). Jakobson presuppone che questa opposizione sottolinei in modo più generale le produzioni culturali; così il realismo, per esempio, può essere concepito come fattore che privilegia le relazioni sintagmatiche o la metonimia (i dettagli realistici sono collegati l’uno all’altro per via della loro contiguità) mentre il romanticismo e il simbolismo operano con relazioni paradigmatiche privilegiando la metafora (elementi letterari che suggeriscono significati figurati attraverso relazioni di somiglianza). La generalità coraggiosa di questa distinzione (tipica della ricerca jakobsoniana di universali) ha sollecitato molto l’attenzione di altri teorici letterari in cerca di chiavi esplicative. 13The syntagmatic/paradigmatic distinction also played a central role in Jakobson’s most programmatic statement of the relation between linguistics and literary study, first published as ‘Closing statement: linguistics and poetics’ in the volume of papers from the 1958 Indiana Conference on Style edited by Sebeok as Style in Language14. Jakobson asserts that ‘poetics is entitled to the leading place in literary studies’ and that ‘poetics may be regarded as an integral part of linguistics’ (p. 63); he thus takes up a somewhat different posture from that of most importers of linguistic models and terminology into literary studies, seeing the process not as one of borrowing between one discipline and another but of one discipline’s completely subsuming another.Anche la distinzione tra sintagmatico e paradigmatico ha giocato un ruolo centrale nell’affermazione jakobsoniana più programmatica sulla relazione tra lo studio della linguistica e della letteratura, inizialmente pubblicata come «Closing statement: linguistics and poetics» nel volume di ricerche pubblicate durante la Indiana Conference on Style del 1958, curato da Sebeok con il titolo Style in Language14. Jakobson afferma che «la poetica ha il diritto di essere in primo piano degli studi letterari» e che «la poetica può essere ritenuta parte integrante della linguistica» (Jakobson 1960:63); di conseguenza, prende una posizione alquanto diversa da quella della maggior parte degli importatori di terminologia e modelli linguistici negli studi letterari, vedendo il processo non come prestito tra una disciplina e un’altra ma come una disciplina che assorbe completamente l’altra.He justifies the place of poetics in his scheme by means of a global model of language functions (an elaboration of the Prague School model derived from Karl Bühler; see chapter 2), in which the poetic function finds its place as that use of language in which attention is directed towards what Jakobson calls ‘the message itself’, ‘the message as such’, ‘the message for its own sake’ (p. 69) – the ‘message’ in Jakobson’s terminology being the combination of signifiers and signifieds which make up the verbal object, and not, as is sometimes assumed, the signifiers alone15.The means whereby poetry secures this attention is a single general device which employs the Saussurean opposition: ‘The poetic function projects the principle of equivalence from the axis of selection into the axis of combination’ (p. 71). Whereas in other uses of language it is only the paradigmatic axis which employs equivalence, an occurring item being equivalent to those which do not occur but could have done so, poetic language implies a reader alert (consciously or not) to equivalences operative along the chain of language itself. This gives rise to a structural analysis of poetry in which similar linguistic characteristics (or for that matter opposed characteristics, opposition being one form of equivalence) are charted across the text, whether they belong to phonological, morphological, syntactic, or semantic categories. The degree of cohesion and intricacy of these relations is regarded as indicative of the quality of the poem, whether or not they are perceptible to the reader. Jakobson, working alone or in collaboration, produced a number of such analyses in the years after publishing ‘Poetics and linguistics’, the most famous of which is that of Baudelaire’s ‘Les chats’, undertaken with Claude Lévi-Strauss (1962; Language in Literature, pp. 198-215). English poems analyzed include, with L. G. Jones, Shakespeare’s Sonnet 129 (1970; Language in Literature, pp. 198-215) and, with Stephen Rudy Yeats’ ‘Sorrow of love’ (1977; Language in Literature, pp. 216-49). These studies reveal the fruitfulness of the binary opposition as an analytic tool when applied over a range of categories; indeed, one of the method’s drawbacks is precisely the ease with which such structures can be found.16 (Another weakness is its privileging of lyric poetry over other literary forms.) Jakobson’s survey in ‘Linguistics and poetics’ also includes a characteristic emphasis on the potential for sound symbolism within every language, and on the importance of grammatical as well as phonetic patterning within poems.Jakobson giustifica il posto che ha la poetica all’interno del suo schema attraverso un modello globale di funzioni linguistiche (un’elaborazione del modello della Scuola di Praga derivato da Karl Bühler, vedi capitolo 2), nel quale la funzione poetica trova il suo posto come quell’uso della lingua in cui l’attenzione è diretta verso quello che Jakobson chiama «il messaggio stesso», «il messaggio in quanto tale», «il messaggio in sé e per sé» (Jakobson 1960:69) – il «messaggio» nella terminologia jakobsoniana è la combinazione di signifiant e signifié che costituisce l’oggetto verbale e non, come a volte si presume, di soli signifiant15.  Un singolo artificio generale che impiega l’opposizione di Saussure è il mezzo attraverso il quale la poesia ottiene questa attenzione: «La funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall’asse della selezione sull’asse della combinazione» (Jakobson 1960:71). Laddove in altri usi della lingua è solo l’asse paradigmatico a usare l’equivalenza (un elemento occorrente equivale a quelli che non occorrono ma che potrebbero occorrere), il linguaggio poetico implica un lettore attento (coscientemente o meno) alle equivalenze operative lungo la catena della lingua in sé. Questo crea un’analisi strutturale della poesia in cui le caratteristiche linguistiche simili (o anche caratteristiche opposte, dove l’opposizione è una forma di equivalenza) sono rilevate in tutto il testo, sia che appartengano alle categorie fonologica, morfologica, sintattica o semantica. Il grado di coesione e complessità di queste relazioni, che siano percepibili o meno per il lettore è considerato indicativo della qualità della poesia. Jakobson, lavorando da solo o in collaborazione con qualcuno, ha prodotto molte analisi di questo tipo negli anni successivi alla pubblicazione di «Poetics and linguistics»; la più celebre è quella sui «Les chats» di Baudelaire, a cui ha lavorato insieme a Claude Lévi-Strauss (1962; Jakobson 1987:198-215). Tra le poesie in inglese analizzate troviamo il sonetto 129 di Shakespeare, analizzato insieme a L.G. Jones (1970, Jakobson 1987:198-215) e «Sorrow of love» di Yeats insieme a Stephen Rudy, (1977, Jakobson 1987:216-49). Questi studi hanno rivelato la produttività dell’opposizione binaria in quanto strumento analitico applicabile a una gamma di categorie; certamente, uno degli svantaggi di questo metodo è proprio la facilità con cui tali strutture sono individuabili.16 (Un altro punto debole è il fatto di privilegiare la poesia lirica rispetto ad altre forme letterarie). La panoramica jakobsoniana in «Linguistics and poetics» include anche una tipica enfasi sul potenziale del simbolismo sonoro all’interno di ogni lingua, e sull’importanza dei modelli grammaticali e fonetici all’interno delle poesie.The appeal of Jakobson’s programme of literary study, and of its demonstration in specific examples, lay largely in the claim to found the analysis of literary texts upon an objective basis, and to sweep away centuries of muddled and impressionistic thinking. It thus echoes Saussure’s claim with regard to the study of language; and, like Saussure, Jakobson proposes a series of grand distinctions and memorable formulae to guide his followers in their enterprise. He does not, however, follow the Saussurean model in quite the way that the French structuralists did; rather than taking as his task the elaboration of the langue which underlies all individual acts of reading literary texts, he limits his rule to the most general principles and concentrates on the detailed analysis of specific examples. In spite of many resounding assertions of the objectivity of his method, his rhetoric is imbued with evaluative colouring, and his interest extends only to texts that he regards as possessing unusual literary quality (a quality which his analysis is designed to explain). His heritage in literary studies is therefore double; he passed on to structuralists some simple but widely applicable principles derived from linguistic theory, and he passed on to stylistics some examples of the finely detailed structural description made possible by linguistic science. The tensions and contradictions one finds in his work are the tensions and contradictions one finds still unresolved in structuralism and stylistics.L’attrattività del programma jakobsoniano di studio letterario e della sua dimostrazione attraverso esempi specifici, sta principalmente nella pretesa di fondare l’analisi dei testi letterari su una base oggettiva e di eliminare dalla radice secoli di pensiero confuso e impressionistico. La pretesa di Saussure riguardante lo studio della lingua riecheggia di conseguenza; e come Saussure, Jakobson propone una serie di grandi distinzioni e formule memorabili per guidare i propri seguaci nella loro impresa. Tuttavia, Jakobson non segue il modello di Saussure nello stesso modo in cui l’hanno fatto gli strutturalisti francesi; piuttosto che prendersi l’impegno di elaborare la langue implicito in tutti gli atti individuali di lettura dei testi letterari, Jakobson limita la sua regola ai principi più generali e si concentra sull’analisi dettagliata di esempi specifici. Nonostante numerose dichiarazioni clamorose sull’oggettività del suo metodo, la sua retorica è imbevuta di sfumature valutative e il suo interesse si limita ai testi che secondo lui possiedono una qualità letteraria straordinaria (qualità che l’analisi jakobsoniana ha lo scopo di spiegare). Il suo lascito negli studi letterari è perciò doppio; ha trasmesso agli strutturalisti alcuni princìpi semplici ma largamente applicabili derivati dalla teoria linguistica e agli esperti di stilistica alcuni esempi di descrizione strutturale resa possibile dalla scienza linguistica. Le tensioni e le contraddizioni che si possono trovare nell’opera di Jakobson sono le stesse che sono ancora irrisolte nello strutturalismo e nella stilistica.

Applications of the model

Le applicazioni del modello

If there was a generative moment in the history of structuralism it was the decision in 1942 by one professor of the Ecole libre des hautes études in New York (founded a short time previously by French and Belgian exiles) to attend the lectures of another. The anthropologist Claude Lévi-Strauss, wishing to improve his understanding of linguistics in order to record the languages of central Brazil, decided to attend the course being given by Roman Jakobson, of whom he knew very little. As he records in his introduction to Jakobson’s Six Lectures (which were not published until 1976), ‘what I received from his teaching was something quite different and, I hardly need add, something far more important: the revelation of structural linguistics’ (p. xi). The major lesson was that ‘instead of losing one’s way among the multitude of different terms the important thing is to consider the simpler and more intelligible relations by which they are interconnected’ (p. xii). Jakobson’s exposition, and modification, of Saussure’s theory of langue as a system of differences underlying acts of parole allowed Lévi-Strauss to reconceive the problem of kinship structures across different societies and to present in 1945, in Word, the new journal of the Linguistic Circle of New York, an analysis which detected in the greatly varying patterns of relationships involving the figure of the maternal uncle a consistent differential system.17 Since it is at the level of phonological analysis that Jakobson, building on his work with Trubetzkoy, locates the purest operation of Saussurean principles, it is the Jakobsonian theory of binary distinctive features that the anthropologist adopts as his model announcing that structural linguistics is the most highly developed of the social sciences and is destined to play a ‘renovating role’ throughout those disciplines (Structural Anthropology, p. 33).18 What is striking about Levi-Strauss’ way of translating the insights of linguistics is that it bears witness itself to the very principle he learned from the other discipline, the primacy of formal over substantive relations: ‘Can the anthropologist’, he asks, ‘using a method analogous in form (if not in content) to the method used in structural linguistics, achieve the same kind of progress in his own science as that which has taken place in linguistics?’ (Structural Anthropology, p. 34). It is with this gesture that Lévi-Strauss opens the door to the spread of Saussurean principles beyond linguistics, with his own emphasis on the term ‘structural,’ derived from the ‘structural linguistics’ of Trubetzkoy and Jakobson (not that of the Bloomfieldians), bearing fruit in the term ‘structuralism’.

 

 

 

 

 

The wide attention that structuralism gained in the 1950s, first in France and then in a number of other countries, grew out of the application of a Lévi-Straussian notion of myth to contemporary French culture. Inspired by Lévi-Strauss, Roland Barthes infused a Saussurean view of langue and signification with a Marxist (and Brechtian) awareness of the operation of class ideology in order to anatomize the daily preoccupations of his fellow-citizens, and published the resulting eminently readable essays in French magazines. A collection of these pieces, together with a much more systematic and explicitly Saussurean theory of contemporary myth, appeared in 1957, a year before Lévi-Strauss published his Anthropologie structurale.19 Barthes, who adopted linguistic concepts and terminology not only from Saussure but also from Peirce, Hjelmslev, Trubetzkoy, Jakobson, and Benveniste, was perhaps the most influential promoter of the linguistic model in the wider cultural field, with notable contributions to literary theory and criticism (see below, chapter 6). He advanced a structural account of an earlier synchronic system (the universe of Racine’s tragedies) in Sur Racine (1963); attempted a systematic account of Saussure’s proposed new science in Elements de sémiologie (1964); put forward a linguistic model for the analysis of all narratives in ‘Introduction à l’analyse structurale des récits’ (1966); carried out a detailed semiological analysis (of captions in fashion magazines) in Système de la mode (1967); and in S/Z (1970) (whose title is an instance of a Jakobsonian distinctive feature, the opposition unvoiced/voiced) he both took Saussurean analysis of a literary text to a new extreme of detail and simultaneously undermined its claims to scientific status.20Se mai esistesse un momento generativo nella storia dello strutturalismo, potremmo farlo risalire alla decisione presa nel 1942 da un professore dell’École libre des hautes études di New York (fondata poco prima da esiliati francesi e belgi) di partecipare alle lezioni di un altro professore. L’antropologo Claude Lévi-Strauss, desideroso di migliorare la comprensione della linguistica in modo da poter documentare le lingue del Brasile centrale, ha deciso di partecipare al corso tenuto da Roman Jakobson, di cui conosceva ben poco. Come scrive nella sua introduzione a Six Leçons di Jakobson (pubblicato solo nel 1976), «quel che ho ricevuto dal suo insegnamento è stato qualcosa di alquanto diverso e, probabilmente è superfluo aggiungere, qualcosa di molto più importante: la rivelazione della linguistica strutturale» (Jakobson 1978:xi). La lezione più importante è stata che «invece di perdere la propria strada in mezzo a una moltitudine di termini diversi, è più importante considerare le relazioni più semplici e più intellegibili attraverso le quali sono collegate» (Jakobson 1978:xii). La spiegazione e la modifica jakobsoniana della teoria saussuriana della langue come sistema di differenze sottostante alla parole, ha permesso a Lévi-Strauss di riconsiderare il problema delle strutture di parentela in società diverse e di presentare nel 1945, nella rivista Word, la nuova pubblicazione del Circolo linguistico di New York, un’analisi che individuava un sistema differenziale coerente in modelli molto variabili di relazioni che prendono in considerazione la figura dello zio materno. 17 Dato che Jakobson, ampliando il proprio lavoro assieme a Trubeckoj, individua il funzionamento più puro dei principi saussuriani a livello di analisi fonologica, l’antropologo adotta come modello proprio la teoria jakobsoniana dei tratti distintivi binari annunciando che la linguistica strutturale è la più sviluppata delle scienze sociali ed è destinata a giocare un «ruolo innovativo» in tali discipline (Lévi-Strauss 1963:33). 18 Ciò che colpisce del modo di Lévi-Strauss di tradurre le intuizioni linguistiche è che questo testimonia in sé il principio stesso che ha imparato dall’altra disciplina, la primazia delle relazioni formali su quelle sostanziali: «L’antropologo è in grado, attraverso l’uso del metodo analogo per forma (se non nel contenuto) al metodo usato nella linguistica strutturale, di ottenere lo stesso progresso nella propria scienza di quello della linguistica?», si chiede Lévi-Strauss (Lévi-Strauss 1963:34). Con questo gesto, Lévi-Strauss apre la porta alla diffusione oltre la linguistica dei principi di Saussure, con la propria enfasi sul termine «strutturale», derivante da «linguistica strutturale» di Trubeckoj e Jakobson (non quella dei bloomfieldiani), dando come frutto il termine «strutturalismo».

La grande attenzione che acquisisce lo strutturalismo negli anni Cinquanta, prima in Francia e in seguito in altri paesi, ha origine dall’applicazione del concetto lévi-straussiano di «mito» alla cultura francese contemporanea. Inspirato da Lévi-Strauss, Roland Barthes, analizzando gli impegni quotidiani dei suoi concittadini, aggiunge al punto di vista saussuriano sulla langue e la significazione una presa di coscienza marxiana (e brechtiana) della funzionalità dell’ideologia di classe e pubblica i saggi più leggibili nelle riviste francesi. Una raccolta di questi pezzi, assieme a una teoria più sistematica ed esplicitamente saussuriana del mito contemporaneo, appare nel 1957, un anno prima che Lévi-Strauss pubblicasse la sua Anthropologie structurale.19 Barthes, che adotta la terminologia e i concetti linguistici non solo da Saussure ma anche da Peirce, Hjelmslev, Trubeckoj, Jakobson e Benveniste, è probabilmente il sostenitore più influente del modello linguistico nel campo più ampio della cultura, con significativi contributi alla critica e alla teoria letteraria (vedi in seguito, capitolo 6). Barthes ha anticipato una descrizione strutturale di un sistema sincronico precedente (l’universo delle tragedie di Racine) nel Sur Racine (1963); ha tentato una descrizione sistematica della nuova scienza proposta da Saussure in Elements de sémiologie (1964); ha proposto un modello linguistico per l’analisi di tutte le narrazioni nell’ «Introduction à l’analyse structurale des récits» (1966); ha portato avanti un’analisi semiologica dettagliata (delle didascalie delle riviste di moda) in Système de la mode (1967); e in S/Z (1971) (il cui titolo è un esempio di un tratto distintivo jakobsoniano, l’opposizione tra sordo/sonoro) ha portato l’analisi saussuriana di un testo letterario a un nuovo  livello di dettagli e ha simultaneamente indebolito le sue pretese di status scientifico. 20Barthes follows Saussure’s model more strictly than Jakobson or Lévi-Strauss; he takes issue with Benveniste’s reintroduction of the referent and Jakobson’s emphasis on motivation, and, taking a hint from Lévi-Strauss (and from Marxist accounts of ideology), emphasizes instead the culture’s tendency to naturalize its unmotivated signs (Elements, pp. 50-1). He makes powerful analytic tools out of Saussure’s distinction between syntagmatic and paradigmatic (or for him, ‘systematic’) relations and Hjelmslev’s distinction between denotation and connotation, whereby an entire sign – signifier and signified – functions as a signifier in a second-order system.Barthes segue il modello di Saussure più scrupolosamente rispetto a Jakobson o a Lévi-Strauss; argomenta contro la reintroduzione del referente da parte di Benveniste e l’enfasi di Jakobson sulla motivazione, e, prendendo spunto da Lévi-Strauss (e dall’impostazione ideologica marxiane), mette in risalto la tendenza della cultura a naturalizzare i suoi segni immotivati (Barthes 1967:50-1). Barthes ricava strumenti analitici efficaci dalla distinzione saussuriana tra le relazioni sintagmatiche e paradigmatiche (o per lui, «sistematiche») e dalla distinzione di Hjelmslev tra denotazione e connotazione, mediante la quale un intero segno – signifiant e signifié – svolge le funzioni di signifiant in un sistema di secondo grado.One major difference between Barthes’ project and that of Lévi-Strauss, however, was his concentration on the specific langue of a historically and geographically located culture rather than on postulated human universals. Like Saussure (and Jakobson in his poetic analyses), he used some rather general methodological principles, spelled out most fully in Elements of Semiology, to trace the systematic relations operative in a given field: narratives, the captions of contemporary fashion plates, the Racinian universe. Unlike Lévi-Strauss (and Jakobson in his phonological theory), he does not take the goal of this activity to be the discovery of unconscious universal laws and categories governing all human behaviour. His structuralism is therefore of more use in literary criticism, as it usually focuses upon the actual working of individual texts, rather than on the abstract relations that may underlie all texts; and it is also more alert to historical change (Elements ends with the speculation that ‘the essential aim of semiological research’ may be to discover how systems change through time (p. 98)) and to the political dimension of all signification.

 

 

 

 

Lévi-Strauss’ adoption of the Saussurean model was also a crucial source for Jacques Lacan’s psychoanalytic theory and practice; in his 1953 paper, ‘The function and field of speech and language in psychoanalysis’ (also known as the ‘Discours de Rome’ (Ecrits, pp. 30-113)) he used Saussurean and Jakobsonian terms in a manner that suggests mediation via Benveniste and Lévi-Strauss, but by the time of ‘The Freudian thing’ (delivered in 1955, and first published in a revised form in 1956 (Ecrits, pp. 114-45)) he is urging the reader to ‘read Saussure’ (p. 125). His best-known use of Saussurean linguistics is in ‘The agency of the letter in the unconscious’ (delivered in 1957 (Ecrits, pp. 146-78)), where the strong influence of Jakobson’s ‘Two aspects of language’ is evident (though in both cases Lacan’s versions are distinctly his own – for example, he adds to Jakobson’s confusion of the syntagm with the diachronic approach to language a further confusion of the signified with both of these (Ecrits, p. 126)).

Tuttavia, una delle differenze più importanti dei progetti di Barthes rispetto a quelli di Lévi-Strauss, è la sua concentrazione sulla langue specifica di una cultura storicamente e geograficamente localizzata piuttosto che sui postulati universali umani. Come Saussure (e Jakobson nella sua analisi della poetica) Barthes usa principi metodologici alquanto generici, specificati quasi integralmente in Eléments de sémiologie, per tracciare le relazioni sistematiche che funzionano in un certo campo: le narrazioni, le didascalie delle riviste di moda contemporanee, l’universo raciniano.  A differenza di Lévi-Strauss (e di Jakobson della sua teoria fonologica), lo scopo dell’attività di Barthes non è quella di scoprire le leggi universali inconsce e le categorie che regolano ogni comportamento umano. Pertanto, il suo strutturalismo è più utile alla critica letteraria, in quanto di solito si concentra sul reale funzionamento dei singoli testi, piuttosto che sulle relazioni astratte in tutti i testi nel loro insieme; la sua teoria inoltre, è più consapevole del cambiamento storico (gli Eléments finiscono con la speculazione che «lo scopo essenziale della ricerca semiologica» potrebbe essere quello di scoprire come cambiano i sistemi nel tempo; 98) e della dimensione politica di ogni significazione.

 

L’adozione del modello saussuriano da parte di Lévi-Strauss è stata una fonte altrettanto cruciale per la teoria e la pratica psicoanalitica di Jacques Lacan; nel saggio «Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse» del 1953 (noto anche come «Discours de Rome» (Lacan 1977:30-113)), Lacan usa termini saussuriani e jakobsoniani in una maniera che fa pensare a una mediazione tramite Benveniste e Lévi-Strauss, ma nel «La chose freudienne» (scritto nel 1955 e pubblicato in forma riveduta nel 1956 (Lacan 1977:114-45)) Lacan incita il lettore a «leggere Saussure» (Lacan 1977:125). L’uso migliore che fa della linguistica saussuriana è racchiuso all’interno di «L’instance de la lettre dans l’inconscient ou la raison depuis Freud» (scritto nel 1957 (Lacan 1977:146-78)), dove è evidente la forte influenza di «Two aspects of language» di Jakobson (anche se in entrambi i casi le versioni di Lacan sono distintamente le sue – ad esempio, aggiunge alla confusione jakobsoniana tra sintagma  e approccio diacronico al linguaggio un’ulteriore confusione del signifié con entrambe (Lacan 1977:126)).Lacanian literary theory is dealt with elsewhere (see below, chapter 8), as are a number of other deployments of the Saussurean model, some involving direct engagement, some filtered through the revisions we have discussed. These include the work of a number of narratologists, in which a Saussurean framework is often combined with a grammatical analysis of the sentence to provide a model for the system underlying narratives (see below, chapter 5); Michel Foucault’s theory of the episteme, which seeks to lay bare the fundamental modes of knowledge in a relatively homogeneous historical period; Louis Althusser’s influential borrowing of Saussurean concepts in his reworking of Marx (see below, chapter 8); and Julia Kristeva’s development of Saussure’s pre-linguistic ‘indistinct mass’ into the notion of the ‘semiotic’ (see below, chapter 8). Structuralism gained a significant, if tendentious, place in Soviet literary studies in the 1960s, the most notable practitioner being Jury Lotman (see Seylfert, Soviet Literary Structuralism). The science which Saussure envisaged has become a reality, if not a secure component of the academy; one might cite the work of Umberto Eco as a detailed working-out of the impulses which led Saussure and Peirce to see themselves as harbingers of a wider semiological enterprise.La teoria letteraria di Lacan è affrontata altrove (vedi capitolo 8), così come una serie di altri sviluppi del modello saussuriano: alcuni includono l’applicazione diretta, alcuni sono filtrati attraverso le revisioni che abbiamo affrontato.  Tra queste figura il lavoro degli esperti di narratologia, in cui lo schema saussuriano è spesso abbinato all’analisi grammaticale della frase in modo da fornire un modello per il sistema sottostante alle narrazioni (vedi di seguito, capitolo 5); la teoria dell’epistème di Michel Foucault, che mira a scoprire i metodi fondamentali della conoscenza in un periodo storico relativamente omogeneo; il prestito influente dei concetti saussuriani da parte di Louis Althusser nella sua rivisitazione di Marx (vedi di seguito, capitolo 8); e l’elaborazione da parte di Julia Kristeva della «massa indistinta» pre-linguistica di Saussure nel concetto di «semiotico» (vedi di seguito, capitolo 8). Lo strutturalismo acquisisce un posto importante, anche se partigiano, negli studi letterari sovietici degli anni Sessanta, di cui l’esponente più importante è Jurij Lotman (vedi Seylfert, Soviet Literary Structuralism). La scienza che Saussure aveva immaginato è diventata realtà, se non addirittura una componente solida dell’accademia; si potrebbe citare l’opera di Umberto Eco come elaborazione dettagliata degli impulsi che hanno portato Saussure e Peirce a considerarsi precursori di un’impresa semiologica più ampia.Chomsky’s revision of Saussure’s founding distinction between langue and parole has also borne fruit in literary theory, notably in Jonathan Culler’s argument (in Structuralist Poetics) in favour of a notion of ‘literary competence’, even though Chomsky’s own linguistic goals remain conditioned by a universalism reminiscent of Lévi-Strauss’ and of little use to the reader of literary texts.

As important as the clarifications which Saussure bequeathed to the study of culture are his inconsistencies and confusions, which allowed structuralism to promote its own undoing as it was coming into being. The paradox involved in a ‘science’ which constitutes its own object, the undermining of objectivity implied in the notion of the sign’s radical arbitrariness, the insistence on the purely differential nature of sign-systems, the oscillation of langue between the individual and the social, the failure of the attempt to make absolute distinctions between speech and writing, between synchrony and diachrony, between langue and parole: all these point to a deeper set of problems inherited by Saussure from his intellectual forebears. The relation of Saussure’s endeavour to the history of Western thought, and its usefulness as a pointer to endemic contradictions within that history, were brought out most clearly by Jacques Derrida (see below, chapter 7), whose reading of Saussure constitutes a more careful return to the actual text of the Course than is evident in most of the theorists we have discussed.21Anche la revisione chomskiana della distinzione fondatrice di Saussure tra langue e parole ha portato i suoi frutti nella teoria letteraria, in particolare nell’argomentazione di Jonathan Culler (in Structuralist Poetics) a favore del concetto di «competenza letteraria», anche se gli obiettivi linguistici di Chomsky restano condizionati dall’universalismo reminiscente di Lévi-Strauss ed è di poca utilità per il lettore dei testi letterari.

Altrettanto importanti delle chiarificazioni che Saussure ha tramandato allo studio della cultura sono le incoerenze e le confusioni che hanno permesso allo strutturalismo di promuovere il proprio disfacimento fin dalle sue origini.  Il paradosso contenuto in una «scienza» che costituisce il proprio oggetto, l’indebolimento dell’oggettività implicito nel concetto  di «arbitrarietà radicale dei segni», l’insistenza sulla natura puramente differenziale dei sistemi segnici, l’oscillazione della langue tra l’individuale e il sociale, il fallimento del tentativo di operare distinzioni nette tra discorso e scrittura, tra sincronia e diacronia, tra langue e parole: tutto questo porta a un insieme di problemi più profondi ereditati da Saussure e provenienti dai suoi predecessori intellettuali. Il collegamento tra l’impegno di Saussure e la storia del pensiero occidentale e la sua utilità in quanto indicatore di contraddizioni endemiche all’interno di quella stessa storia, sono stati spiegati in modo molto chiaro da Jacques Derrida (vedi di seguito, capitolo 7), la cui rilettura di Saussure costituisce un ritorno più attento al testo stesso del Cours rispetto a ciò che è evidente nel lavoro della maggior parte dei teorici che abbiamo analizzato.21

Stylistics

Stilistica

Whereas structuralism tends to see literature as equivalent to a language, and makes use of the model of linguistic theory accordingly, another broad field in which the influence of linguistics has been paramount has been stylistics, which stresses that literature is made of language and which therefore draws on linguistic theory not so much as a model but as a set of(tentative) findings about the language system. In theory, a structuralist analysis need use no linguistic data at all; its data are those of the material being analyzed, and it is only the general methodology which is borrowed from linguistics. Conversely, stylistics may have no use for a model derived from linguistics; a stylistic analysis may retain the traditional assumptions of literary criticism but apply them to features of language defined in accordance with linguistic theory. In practice, of course, the two approaches are seldom as easily separated as this would imply – we have already seen how Jakobson straddles both. Since the application of a general model from another discipline to one’s own field is an easier form of borrowing than mastering the detail of that discipline, stylistics has been less influential within literary studies than structuralism or post-structuralism, and has more often been practised by linguists interested in literature than by those with a predominantly literary training. (A wider definition of stylistics makes it the study of discursive features in any use of language, without giving literature a special role, and in this form it is closely related to text grammar, discourse analysis, pragmatics, and other branches of linguistics concerned with utterances in their contexts.) As a result, the goals of stylistics are varied, and do not always coincide with those of literary theorists or critics; the aim of a stylistic study may be an understanding of language mechanisms, or a demonstration of the validity of a particular linguistic theory, or the development of a method of language teaching which employs literary texts.Nonostante lo strutturalismo abbia la tendenza a vedere la letteratura come equivalente a un linguaggio e usi il modello della teoria linguistica di conseguenza, la stilistica è un altro campo vasto in cui l’influenza della linguistica è stata prevalente e sottolinea che la letteratura è composta di linguaggio e che perciò attinge dalla teoria linguistica non in quanto modello bensì in quanto insieme di scoperte (sperimentali) sul sistema linguistico. Nella teoria, l’analisi strutturalista non necessita affatto di dati linguistici; i dati che usa sono quelli del materiale analizzato e quello che è preso in prestito dalla linguistica è la metodologia generale.  La stilistica invece non ha bisogno di un modello che deriva dalla linguistica; un’analisi stilistica potrebbe mantenere le ipotesi tradizionali della critica letteraria ma applicarle a tratti linguistici definiti secondo la teoria linguistica. Nella pratica, certamente, è difficile che i due approcci siano facilmente separabili, a differenza di quel che si potrebbe pensare – abbiamo già visto come Jakobson si è destreggiato con entrambi. Dal momento che l’applicazione di un modello generale preso da un’altra disciplina nel proprio campo è la forma di prestito più semplice rispetto al conoscere in dettaglio tale disciplina, la stilistica ha avuto meno influenza sugli studi letterari rispetto allo strutturalismo e al post-strutturalismo ed è stata praticata più spesso dai linguisti interessati alla letteratura che da coloro con una formazione predominantemente letteraria.  (La definizione più ampia di stilistica la rende lo studio di tratti discorsivi di ogni lingua, senza dare alla letteratura un ruolo speciale e in questa forma è più strettamente legata alla grammatica del testo, all’analisi del discorso, alla pragmatica e ad altre branche della linguistica che trattano gli enunciati nei loro contesti). Di conseguenza, gli obiettivi della stilistica sono vari e non sempre coincidono con quelli dei critici o dei teorici letterari; lo scopo dello studio stilistico potrebbe essere la comprensione dei meccanismi linguistici, la dimostrazione della validità di una teoria linguistica particolare o lo sviluppo di un metodo di insegnamento della lingua che impiega testi letterari.One goal that has motivated a number of stylistic projects – including, as we have seen, Jakobson’s – has been the identification, on an objective, empirical basis, of the features of literary texts that give rise to judgements of value; none of these has convinced a wide literary readership, however, and it may well be that literary evaluation is too closely entwined with cultural and political processes to allow for objective and disinterested conclusions. (In any case, success in this project would make possible the mechanical creation of art, and this itself would contradict one of Western culture’s most cherished assumptions.)

 

 

The origins of stylistics are also more diverse than those of structuralism, since the term denotes an area of study rather than a particular methodology. Saussurean dichotomies, Bloomfieldian taxonomies, Chomskeian transformations, and many other varieties of linguistic technique have been employed in the analysis of literary texts. A European tradition of philological stylistics descends from the work of Leo Spitzer and Erich Auerbach. American stylistics has been eclectic, as the work of Samuel R. Levin, Seymour Chatman, Michael Riffaterre, and Ann Banfield indicates, though there is a strong Jakobsonian cast to much of it. Riffaterre, for instance, takes issue with Jakobson’s method of poetic analysis but makes the same assumption – derived from Romantic aesthetics – that the analyst’s task is to demonstrate a complex organic unity in a poem. In British stylistics, the linguistic theories of Michael Halliday (particularly systemic grammar and functionalism) have played an especially important role, and Halliday himself has made notable contributions (see, for example, ‘Linguistic function’). Speech act theory, a branch of philosophy bordering on linguistics which derives from the work of J. L. Austin, has also been put to work in literary theory, notably in Mary Louise Pratt’s A Speech Act Theory of Literary Discourse. Pratt’s argument is that literary discourse is not an imitation of other kinds of discourse, but is itself a mode of discourse (exemplified outside the strictly literary domain as well as within it).Uno degli obiettivi che hanno motivato una serie di progetti stilistici – incluso, come abbiamo visto, quello di Jakobson – è stato l’identificazione, su una base obiettiva ed empirica, dei tratti dei testi letterari che creano giudizi di valore; tuttavia, nessuno di questi ha convinto un’ampia base di lettori letterari ed è molto probabile che la valutazione letteraria sia intrecciata troppo strettamente ai processi culturali e politici per permettere di trarre conclusioni obiettive e disinteressate. (Ad ogni modo, il successo di questo progetto avrebbe reso possibile la creazione meccanica dell’arte e questo contraddirebbe una delle ipotesi più care alla cultura occidentale.).

Le origini della stilistica sono, inoltre, più eterogenee rispetto a quelle dello strutturalismo, dal momento che il termine denota un’area di studio piuttosto che una certa metodologia. Le dicotomie di Saussure, le tassonomie di Bloomfield, le trasformazioni di Chomsky e molte altre varietà di tecniche linguistiche sono state utilizzate nell’analisi dei testi letterari. La tradizione di stilistica filologica europea discende dal lavoro di Leo Spitzer e Erich Auerbach. La stilistica americana è eclettica, come indica l’opera di Samuel R. Levin, Seymour Chatman, Michael Riffaterre e Ann Banfield, anche se ha una forte impronta jakobsoniana. Per esempio, Riffaterre, argomenta contro il metodo jakobsoniano di analisi della poetica ma fa la stessa ipotesi – che deriva dall’estetica romantica – che il compito dell’analista sia illustrare l’unità organica complessa di una poesia. Nella stilistica britannica, le teorie linguistiche di Michael Halliday (in particolare funzionalismo e grammatica sistemica) hanno giocato un ruolo particolarmente importante e Halliday stesso ha apportato contributi notevoli (vedi, per esempio, «Linguistic Function»). Anche la teoria dell’atto discorsuale, branca della filosofia confinante con la linguistica che deriva dall’opera di J. L. Austin, è stata applicata alla teoria letteraria, in particolare in A Speech Act Theory of Literary Discourse di Mary Louise Pratt. L’argomentazione di Pratt è che il discorso letterario non è un’imitazione di altri tipi di discorso, ma è in sé una modalità discorsuale (esemplificata tanto fuori quanto all’interno del dominio strettamente letterario).Any study of the linguistic features of literary texts – syntax, phonetic or phonological properties, vocabulary, representations of speech or thought – could be said to fall under the heading of stylistics, though the degree to which linguistic theory is employed in such studies varies widely. One area that has always existed on the borders of linguistics (or, in earlier periods, the formal study of grammar) is prosody. The analysis of metre and rhythm in any language relies upon prior assumptions, implicit or explicit, about that language’s use of sound, and twentieth-century linguistics, in a variety of forms, has fed continually into prosodic studies. Literary scholars have turned to linguistics for objective data to give the study of metre a solid basis, though more often than not the promised objectivity has proved to be an illusion. We might note the use earlier in the century of the findings of acoustic phoneticians measuring the durations of syllables, the influence of David Abercrombie’s account of phonetic quantity upon a number of English prosodists, the appeal of Trager and Smith’s taxonomy of English suprasegmentals (mentioned above) to metrical theorists in search of a more detailed mode of scansion, and the flurry of claims made for generative metrics, especially in the United States and France, in the wake of Chomsky’s model. The germ of this last movement was an essay by Jakobson’s student and collaborator, Morris Halle, together with Samuel Jay Keyser, on ‘Chaucer and the study of prosody’.Qualsiasi dei tratti linguistici dei testi letterari – proprietà sintattiche, fonetiche e fonologiche, vocabolario, rappresentazioni del discorso o del pensiero – può ricadere nella categoria della stilistica, anche se il grado di applicazione della teoria linguistica a tali studi varia considerevolmente. Una delle aree da sempre esistite ai confini della linguistica (o, in periodi precedenti, dello studio formale della grammatica) è la prosodia. L’analisi della metrica e del ritmo di ogni lingua si basa su ipotesi fatte a priori, implicite o esplicite, sull’utilizzo del suono in tale lingua e la linguistica del Novecento, in una varietà di forme, si è nutrita continuamente di studi prosodici. Gli studiosi letterari si sono rivolti alla linguistica per avere dati oggettivi da usare per dare allo studio della metrica una base solida, anche se spesso l’oggettività promessa si è rivelata un’illusione. Si potrebbe notare l’uso  nella  prima parte del Novecento delle scoperte fatte dai fonetisti acustici che hanno misurato la lunghezza delle sillabe, l’influenza della descrizione di David Abercrombie della quantità fonetica su alcuni prosodisti inglesi, il richiamo della tassonomia dei fonemi soprasegmentali inglesi (menzionati sopra) di Trager e Smith per i teorici della metrica in cerca di un modo di scansione più dettagliato e la raffica delle dichiarazioni fatte riguardo alla metrica generativa, specialmente negli Stati Uniti e in Francia, sulla scia del modello di Chomsky. Il germe di quest’ultimo movimento è racchiuso nel saggio dello studente e collaboratore di Jakobson, Morris Halle, scritto insieme a Samuel Jay Keyser, su «Chaucer and the study of prosody».There followed a number of revisions and alternatives, each attempting to formulate simple generative rules which would account for all the existing lines of regular verse in a given language. True to the Jakobsonian inspiration of the movement, the ultimate goal in such work is often taken to be the specification of metrical universals, underlying verse form in all languages.22

 

Linguistics itself has continued to change rapidly, and the difficulty with which Saussure began – how does the linguist define an object to study? – has once more become acute. Continuities have been established with sociology, with cognitive science, with neurobiology, with cybernetics, and the notion of elementary formal structures underlying a mass of complex detail has become more and more problematic. Structuralism itself has made possible a sharper awareness of the socially constructed nature of disciplines and institutions, including those of linguistics and literary studies, and has contributed to the exposure of androcentric or ethnocentric assumptions masked by the universalist claims once characteristic of the sciences of language. These shifts have altered the relation between linguistics and literary studies. As the hopes of a scientific account of literary techniques, literary interpretation, and literary value have dwindled, an awareness of the limitations and self-contradictions of the scientific model has grown; and the heavy traffic from linguistics to literary studies characteristic of the middle decades of the twentieth century may be giving way to a more evenly balanced pattern of exchange.  Seguono svariate revisioni e alternative, ognuna delle quali tenta di formulare regole generative semplici che spiegherebbero tutti i versi di un metro regolare in una certa lingua. Fedele all’ispirazione jakobsoniana del movimento, lo scopo finale di questo lavoro è spesso considerato la specificazione degli universali della metrica che sottostanno alla forma del verso in tutte le lingue. 22

La linguistica stessa ha continuato a cambiare rapidamente e la difficoltà con cui Saussure aveva iniziato – come il linguista definisce l’oggetto di studio? – è diventata ancora una volta critica. Sono state stabilite continuità con la sociologia, con la scienza cognitiva, con la neurobiologia, la cibernetica e il concetto di strutture elementari formali che soggiacciono a una grande quantità di dettagli complessi è diventato sempre più problematico. Lo strutturalismo stesso ha reso possibile una consapevolezza più netta della natura socialmente costruita delle discipline e delle istituzioni, comprese quelle degli studi linguistici e letterari e ha contribuito all’esposizione di ipotesi androcentriche ed etnocentriche mascherate da affermazioni universalistiche un tempo caratteristiche delle scienze della lingua. Questi cambiamenti hanno alterato la relazione tra studi linguistici e letterari. Mentre le speranze di una descrizione scientifica delle tecniche, interpretazione letteraria e valore letterario sono attenuate, è aumentata la consapevolezza delle limitazioni e delle auto-contraddizioni del modello scientifico; e il passaggio pesante di contenuti dagli studi linguistici a quelli letterari caratteristico nella metà del Novecento potrebbe dare adito a un modello di scambio bilanciato in modo più uniforme.


 

1 The term ‘structuralism’ has been used to name a number of related but distinct intellectual trends in the twentieth century. In this chapter, it refers, unless otherwise indicated, to French structuralism – that is to say, a body of work which employs Saussurean principles in the systematic analysis of cultural, political, and psychological phenomena. 1 Il termine «strutturalismo» è stato usato per denominare una serie di tendenze intellettuali correlate ma distinte del XX secolo. In questo capitolo, fa riferimento, se non diversamente indicato, allo strutturalismo francese – o meglio, all’intera opera che usa i principi saussuriani nell’analisi sistematica dei fenomeni culturali, politici e psicologici.
2 References are to Saussure’s Course in General Linguistics, translated by Wade Baskin (hereafter referred to as Course); this is the translation that has been most influential upon English-speaking critics and theorists. A more recent translation by Roy Harris is in some respects more faithful to the original, though some of Harris’ choices of English equivalents are open to question. Quotations are cited in the notes from the standard French edition, usefully reprinted with extensive commentary and bibliography translated from the Italian of Tullio de Mauro. The students’ notes from which the published Course was constructed are included by Rudolf Engler in his edition. 2 Si fa riferimento al Cours de Linguistique Générale di Saussure, a cura di Tulio de Mauro. [NdT]

3 ‘D’autres sciences opèrent sur des objets donnés d’avance et qu’on peut considérer ensuite a différents points de vue; dans notre domaine, rien de semblable . . . Bien loin que l’objet précède le point de vue, on dirait que c’est le point de vue qui crée l’objet’ (p. 23).«D’autres sciences opèrent sur des objets donnés d’avance et qu’on peut considérer ensuite a différents points de vue; dans notre domaine, rien de semblable . . . Bien loin que l’objet précède le point de vue, on dirait que c’est le point de vue qui crée l’objet» (Saussure 1916:23).

4 See Course, p. 9. Translation problems abound in regard to Saussure’s French terms for language in its different aspects, and many writers in English retain the original terms langage, langue, and parole, a practice which I shall follow. Although it produces some grammatical anomalies, this practice has the advantage of signalling that these terms are being used in a technical sense which extends beyond language to all sign–systems. Baskin translates these terms respectively as ‘speech’, ‘language’, and ‘speaking,’ while Harris renders langage as ‘language’, parole as ‘speech’, and uses various equivalents for langue, including ‘the language’, ‘a language’, and ‘language structure’. ln quoting from Baskin’s translation I shall silently replace his translations of these terms with the original French where appropriate.4 Vedi Saussure 1916:25.  Ci sono molti problemi che riguardano la traduzione dei termini francesi di Saussure usati per definire il linguaggio nei suoi vari aspetti e molti autori inglesi mantengono i termini originali language, langue e parole, una prassi che seguirò anch’io. Nonostante crei anomalie grammaticali, questa prassi ha il vantaggio di segnalare che questi termini sono usati in senso tecnico che va oltre la lingua, fino ad arrivare a tutti i sistemi segnici. Baskin traduce questi termini con «discorso», «lingua» e «parola» mentre Harris usa «linguaggio» per langage, «discorso» per parole e usa vari equivalenti per langue, come «la lingua», «una lingua» e «struttura della lingua». Se del caso, nel citare la traduzione di Baskin, sostituirò le sue varianti traduttive con il loro originale francese.5 De Mauro discusses the langage/parole distinction in several notes in his critical edition of the Course, with useful bibliographical information. See his notes 63-71.5 De Mauro esamina la distinzione tra language e parole in molte note nella sua edizione critica del Cours, con informazione bibliografica utile. Vedere le note 63-71.6 On peut donc concevoir une science qui étudie la vie des signes au sein de la vie sociale . . . nous la nommerons sémiologie . . . Elle nous apprendrait en quoi consiste les signes, quelle lois les régissent. Puisqu’elle n’existe pas encore, on ne peut dire ce qu’elle sera; mais elle a droit à l’existence, sa place est déterminée d’avance’ (p. 33).6 On peut donc concevoir une science qui étudie la vie des signes au sein de la vie sociale . . . nous la nommerons sémiologie . . . Elle nous apprendrait en quoi consiste les signes, quelle lois les régissent. Puisqu’elle n’existe pas encore, on ne peut dire ce qu’elle sera; mais elle a droit à l’existence, sa place est déterminée d’avance(p. 33).7Jakobson regarded Saussure’s terms as an echo of the Stoic distinction between sēmainon and sēmainomenon, and preferred to use the Augustinian terms signans and signatum (no doubt as part of a strategy of distancing himself from one of the thinkers to whom he was most indebted). See, for instance, his discussion of the sign in ‘Quest for the essence of language’, Language in Literature, pp. 413-16. The Jakobsonian signatum is, however, less clearly distinguishable from the referent than is the Saussurean signified.7Jakobson ha visto i termini di Saussure come un eco della stoica distinzione tra sēmainon e sēmainomenon e ha preferito usare i termini agostiniani signans e signatum (senza dubbio come strategia per prendere le distanze da uno dei pensatori verso cui era più in debito). Vedere, per esempio, Jakobson 1987:413-16 e la sua analisi del segno nel «Quest for the essence of language». Tuttavia, il signatum di Jakobson è meno di distinguibile dal referente rispetto al signifié di Saussure.8 Tout ce qui précède revient à dire que dans la langue il n’y a que des différences. Bien plus: une différence suppose en général des termes positifs entre lesquels elle s’établit; mais dans la langue il n’y a que des différences sans termes positifs. Qu’on prenne le signifié ou le signifiant, la langue ne comporte ni des idées ni des sons qui préexisteraient au système linguistique, mais seulement des différences conceptuelles et des différences phoniques issues de ce système. (p. 166)8 Tout ce qui précède revient à dire que dans la langue il n’y a que des différences. Bien plus: une différence suppose en général des termes positifs entre lesquels elle s’établit; mais dans la langue il n’y a que des différences sans termes positifs. Qu’on prenne le signifié ou le signifiant, la langue ne comporte ni des idées ni des sons qui préexisteraient au système linguistique, mais seulement des différences conceptuelles et des différences phoniques issues de ce système. (p. 166)9Chomsky discusses Saussure’s distinction on pp. 1o-11 and 23 of Current Issues.9 Chomsky approfondisce la distinzione di Saussure nelle pagine 10-11 e 23 del Current Issues.10 For further discussion of the significance of Saussure’s synchronic/diachronic distinction in literary theory, see Attridge, Peculiar Language, chapter 4.10Per un ulteriore approfondimento sulla significatività della distinzione sincronico/diacronico di Saussure nella teoria letteraria, vedi Attridge, Peculiar Language, capitolo 4.11Jakobson’s indebtedness to Saussure and his insistence on his divergences from Saussure are evident throughout most of his career. His late work with Linda Waugh, Sound Shape, repeats most of the motifs of this ambivalent relationship; see pp. 13, 14-21 (where attention is drawn (p. 17) to the symbolic appropriateness of the fact that Saussure’s Course appeared in the same year as Einstein’s General Theory of Relativity), 76, 182, and 220-1 (a sympathetic discussion of Saussure’s extensive and highly problematic work on anagrams in ancient poetry).11Il debito di Jakobson verso Saussure e la sua insistenza sulle sue divergenze con la teoria saussuriana sono evidenti in quasi tutta la sua carriera. Il lavoro successivo che porta avanti insieme a Linda Waugh, Sound Shape, riprende la maggior parte dei motivi di questa relazione ambivalente; vedi Jakobson 1979:13, 14-21 (dove l’attenzione è posta (p.17) sull’appropriatezza simbolica del fatto che il Cours di Saussure apparve nello stesso anno della Teoria generale della relatività di Einstein), Jakobson 1979:76, 182 e 220-1 (una discussione solidale del lavoro estensivo e molto problematico di Saussure sugli anagrammi nella poesia antica).12 The manuscripts of both lecture series (given in 1942-3) have been published in French in Jakobson’s Selected Writings, vol. 8; the second is also available as Six leçons, translated as Six Lectures.12 I manoscritti di entrambe le serie di lezioni (tenute nel 1942-1943) sono stati pubblicati in francese nella raccolta Selected Writings, vol. 8 di Jakobson; la seconda è anche disponibile come Six leçons, tradotta in inglese come Six Lectures.13For a full-scale development of the implications of Jakobson’s distinction, see Lodge, Modes, pp. 73–124.{3]13 Per uno sviluppo su ampia scala delle implicazioni della distinzione jakobsoniana, vedi Lodge 1977:73-124.14 Jakobson’s paper has frequently been reprinted; it is included as ‘Linguistics and poetics’, in Language in Literature, pp. 62– 94. Page references will be to this printing. For a critical discussion of this paper and of Jakobson’s approach to literary analysis, see Attridge, ‘Closing statement: linguistics and poetics in retrospect’, in Fabb et al., The Linguistics of Writing, pp. 15–32.14 Il saggio di Jakobson è stato ristampato frequentemente; fa parte di Language in Literature, con il nome di «Linguistics and poetics», Jakobson 1987:62-94. Le pagine citate si riferiscono a quest’edizione. Per una discussione critica su questo articolo e sull’approccio di Jakobson all’analisi letteraria, vedi Attridge, «Closing statement: linguistics and poetics in retrospect», in Fabb, Nigel et al 1987:15–32.15The relation between ‘signified’ (or signatum) and ‘referent’ in Jakobson’s thought is by no means consistent or clear; for discussion see Waugh, Jakobson’s Science of Language, pp. 28–31 and 39–40, and Attridge, Peculiar Language, pp. 128–35.15 Nel pensiero jakobsoniano, la relazione tra signifié (o signatum) e referente non è né coerente né chiara; per ulteriori dettagli vedi Waugh 1976:28–31 e 39–40 e Attridge 1988:128–35.16For critical discussions of this problem, see Riffaterre, ‘Describing poetic structures’, and Culler, Structuralist Poetics, pp. 55-74.16 Per un approfondimento critico su tale problema, vedi Riffaterre, «Describing poetic structures» e Culler 1975:55-74.17This essay, ‘L’analyse structurale en linguistique et en anthropologie’, was reprinted with slight modifications in Lévi-Strauss’ Anthropologie structurale (1958), and translated as ‘Structural analysis in linguistics and anthropology’ in Structural Anthropology, pp. 31–54.17Questo saggio, «L’analyse structurale en linguistique et en anthropologie», è stato ristampato con piccole modifiche nell’Anthropologie structurale (1958) e tradotta come «Structural analysis in linguistics and anthropology» in Lévi-Strauss 1963:31–54.18While Lévi-Strauss accepts Jakobson’s argument that arbitrariness is not total when meaning is involved, as well as Benveniste’s emphasis on the ‘necessity’ of the signifier/signified relation, his own application of the notion is closer to Saussure’s than theirs; see, for instance, his foreword to Jakobson’s Six Lectures, p. xxii.18Mentre Lévi-Strauss accetta la tesi di Jakobson sul fatto che l’arbitrarietà non è totale quando c’è di mezzo il significato, così come l’enfasi di Benveniste sulla necessità di una relazione tra signifiant e signifié, la sua applicazione del concetto è più vicina a quella di Saussure piuttosto che alla loro; vedi, per esempio, la sua prefazione alle Six lectures di Jakobson, Jakobson 1978:xxii.19Barthes’ Mythologies was (in part) translated as Mythologies in 1972; the final essay, ‘Myth today,’ appears on pp. 1o9–59.19Mythologies di Barthes è stato (in parte) tradotto come Mythologies nel 1972; il saggio finale è «Myth today», vedi Barthes 1972:109-159.20These books have been translated as On Racine, Elements of Semiology, The Fashion System, and S/Z; the essay referred to is translated as ‘Introduction to the structural analysis of narratives’ in Image-Music-Text, pp. 79-124.20Questi libri sono stati tradotti come On Racine, Elements of Semiology, The Fashion System e S/Z; il saggio a cui si fa riferimento è tradotto in inglese come «Introduction to the structural analysis of narratives» in Barthes 1977:79-124.21Derrida, Of Grammatology, pp. 30-73; Positions, pp. 18-36. A good account of Saussure’s fruitful contradictions is given in Weber, ‘Saussure.21Derrida 1976:30-73 e 1981:18-36. Weber ha fatto una buona descrizione delle contraddizioni utili di Saussure in “Saussure”.22See, for instance, the studies of rhythm in English by Kiparsky (‘The rhythmic structure’) and Hayes (‘A grid-based theory’). The major schools of metrical theory are assessed in Attridge, Rhythms.22Vedi, per esempio, gli studi di Kiparsky («The rhytmic structure of English verse») e di Hayes («A grid-based theory of English meter») sui ritmi della lingua inglese. Le scuole più importanti della teoria metrica sono analizzate in Attridge, The Rhythms of English Poetry.


 

Primary sources and texts

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Course in General Linguistics, trad. Roy Harris, London, 1983.Sebeok, Thomas A. (ed.), Style in Language (Cambridge, MA, 1960).Sebeok, Thomas A. (a cura di), 1960, Style in Language, Cambridge, MA.Todorov, Tzvetan, La poétique de la prose (Paris, 1971); The Poetics of Prose, trans. Richard Howard (Ithaca, 1977).Todorov, Tzvetan, 1971, La poétique de la prose, Paris; The Poetics of Prose, trad. Richard Howard, Ithaca, 1977. Edizione italiana: Poetica della prosa, Roma-Napoli, Theoria, 1990.Trager, George L., and Henry Lee Smith, An Outline of English Structure (Washington, 1957).Trager, George L., e Henry Lee Smith, 1957, An Outline of English Structure, Washington.Trubetzkoy, N. S., Principles of Phonology, trans. C. A. M. Baltaxc (Berkeley, 1969).Trubeckoj, N. S., Principles of Phonology, trad. C. A. M. Baltaxc, Berkeley, 1969. Edizione italiana: Fondamenti di Fonologia, G. Mazzuoli Porru (a cura di), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1971.Voloshinov, V. N., Marksizm i losoja jazyka: Osnovnye problemy sociologičeskogo metoda v nauke o jazyke (Leningrad, 1929); Marxism and the Philosophy of Language, trans. Ladislav Matejka and I. R. Titunik (New York, 1973).Voloshinov, V. N., 1929, Marksizm i filosofija jazyka: Osnovnye problemy sociologičeskogo metoda v nauke o jazyke, Leningrad; Marxism and the Philosophy of Language, trad. Ladislav Matejka e I. R. Titunik, New York, 1973.

Secondary sources

Fonti secondarie

Attridge, Derek, Peculiar Language: Literature as Difference from the Renaissance to James Joyce (London and Ithaca, 1988).Attridge, Derek, 1988, Peculiar Language: Literature as Difference from the Renaissance to James Joyce, London e Ithaca.Bloomfield, Leonard, review of Saussure, Cours de linguistique générale, Modern Language journal, 8 (1924), 317-19. Cahiers Ferdinand de Saussure (Geneva, 1941- ).Bloomfield, Leonard, 1924, revisione di Saussure, Cours de linguistique générale, Modern Language journal, 8, 317-19. Cahiers Ferdinand de Saussure, Genève, 1941.Culler, Jonathan, Saussure (Glasgow, 1976).Culler, Jonathan, 1976, Saussure, Glasgow.Fabb, Nigel, et al. (eds.), The Linguistics of Writing: Arguments between Language and Literature (Manchester, 1987).Fabb, Nigel, et al. (eds.), 1987, The Linguistics of Writing: Arguments between Language and Literature, Manchester.Harris, Roy, Reading Saussure. A Critical Commentary on the ‘Cours de linguistique générale’ (London, 1987).

 

Language, Saussure and Wittgenstein: How to Play Games with Words (London, 1988).Harris, Roy, 1987, Reading Saussure. A Critical Commentary on the ‘Cours de linguistique générale’, London.

Language, Saussure and Wittgenstein: How to Play Games with Words, London, 1988.Lodge, David, The Modes of Modern Writing: Metaphor, Metonymy, and the Typology of Modem Literature (London, 1977)Lodge, David, 1977, The Modes of Modern Writing: Metaphor, Metonymy, and the Typology of Modem Literature, London.Lyons, John, Introduction to Theoretical Linguistics (Cambridge, 1968).Lyons, John, 1968, Introduction to Theoretical Linguistics, Cambridge.Miller, Joan, French Structuralism: A Multidisciplinary Bibliography (New York, 1981).Miller, Joan, 1981, French Structuralism: A Multidisciplinary Bibliography, New York.Riffaterre, Michael, ‘Describing poetic structures: two approaches to Baudelaire’s “Les chats”, Yale French Studies 36-7 (1966). 200-42.Riffaterre, Michael, 1966, «Describing poetic structures: two approaches to Baudelaire’s “Les chats”», in Yale French Studies, 36-7, 200-42.Rudy, Stephen, Roman Jakobson, 1896-1982: A Complete Bibliography of His Writings (Berlin, 1990).Rudy, Stephen, 1990, Roman Jakobson, 1896-1982: A Complete Bibliography of His Writings, Berlin.Waugh, Linda R., Roman Jakobson’s Science of Language (Lisse, 1976).Waugh, Linda R., 1976, Roman Jakobson’s Science of Language, Lisse.Weber, Samuel, ‘Saussure and the apparition of language: the critical perspective”. Modern Language Notes, 91 (1976), 913-38.Weber, Samuel, 1976, «Saussure and the apparition of language: the critical perspective», in Modern Language Notes, 91, 913-38.

 


 

GLOSSARIO

 

 

SINTESI LEMMI INGLESE-ITALIANO

 

TERMINE IN INGLESE

TERMINE IN ITALIANO

Arbitrariness Arbitrarietà
Code Codice
Competence Competenza
Connotation Connotazione
Context Contesto
Deictics Deittici
Denotation Denotazione
Diachrony Diacronia
Differentiating meaning Differenziale semantico
Distinctive feature Tratto distintivo
Distributional analysis Analisi distribuzionale
Énoncé (enounced/ utterance) Énoncé (ennunicato)
Énonciation (enunciation) Énonciation (enunciazione)
Equivalence Equivalenza
Extra-linguistic Extralinguistico
Function of language Funzione della lingua
Functionalism Funzionalismo
Generative grammar Grammatica generativa
Icon Icona
Index Indice
Interpretant Interpretant (interpretante)
Langue Langue (lingua)
Linguistic sign Segno linguistico
Meaning Significato
Mentalistic approach Approccio mentalista
Object Oggetto
Paradigmatic axis Asse paradigmatico
Parole Parole
Performance Esecuzione
Phoneme Fonema
Psychologism Psicologismo
Realization Attualizzazione
Referent Referente
Russian Formalism Formalismo russo
Semiology Semiologia (sémiologie)
Semiotics Semiotica
Signified/ signatum/ sēmainomenon Signifié
Signifier/ signans/ sēmainon Signifiant
Sign-system Sistema segnico
Speech Discorso
Speech act Atto linguistico
Structuralism Strutturalismo
Structure Struttura
Supra-segmental Soprasegmentale (tratto)
Symbol Simbolo
Synchrony Sincronia
Syntagmatic axis Asse sintagmatico
Signification Significazione
System of signs Sistema segnico
Systemic grammar Grammatica sistemica
Triadic structure Struttura triadica
Word-order Ordine delle parole

 


 

GLOSSARIO INGLESE – ITALIANO CON DEFINIZIONE IN ITALIANO

 

TERMINE IN INGLESE

TERMINE IN ITALIANO

DEFINIZIONE

FONTE

Arbitrariness Arbitrarietà Proprietà caratteristica delle lingue naturali e di molti sistemi semiotici, secondo la quale sia la forma del significato sia quella del significante dei segni non dipendono da alcuna ragione di tipo naturale ma solo dalla relazione che i parlanti stabiliscono tra i diversi significati e i diversi significanti della lingua (Ferdinand de Saussure la denomina arbitrarietà radicale). Altrettanto immotivata, e dunque da non potersi ricondurre ad alcun tipo di convenzione, è di conseguenza l’unione tra significato, che non va confuso con il concetto, e significante, che non va confuso con l’intera parola.  Nella linguistica di F. de Saussure, l’arbitrarietà del segno linguistico è il rapporto che lega la forma esterna di una parola a un determinato significato, rapporto il cui carattere arbitrario è dimostrato anche dal fatto che uno stesso significato trova espressione in forme diverse a seconda delle lingue. http://www.treccani.it/enciclopedia/arbitrarieta/

(data di consultazione 20/05/2015)CodeCodiceSistema di segni che possono essere di vario tipo – verbali, auditivi, olfattivi – e insieme di regole per l’uso di tali segni. Linguaggio.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Competence Competenza Nella linguistica generativa trasformazionale, la conoscenza implicita che ogni parlante ha (come sistema interiorizzato di regole) della propria lingua e che gli permette di adoperarla, distinguendo le frasi corrette da quelle che non lo sono, spiegando le ambiguità, creando frasi nuove mai prima pronunciate.http://www.treccani.it/enciclopedia/competenza/ (data di consultazione 20/05/2015)

ConnotationConnotazioneSenso (complementare al significato denotativo) assunto da un segno in relazione a un contesto specifico (culturale, geografico, storico, familiare). Tale senso, di carattere emotivo, affettivo, parzialmente inconscio, è particolarmente soggetto a variare da un individuo all’altro.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011ContextContestoAmbiente che determina il valore sistemico di un segno. Àmbito culturale di un enunciato, di una pubblicazione. Elementi di riferimento con cui viene confrontato un elemento da decifrare, come nel caso di un testo che viene confrontato con gli intertesti. È impossibile decodificare in modo univoco un enunciato senza conoscerne il contesto.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011DeicticsDeitticiIl termine deittici indica un insieme eterogeneo di forme linguistiche – avverbi, pronomi, verbi – per interpretare le quali occorre necessariamente fare riferimento ad alcune componenti della situazione in cui sono prodotti. I deittici coinvolgono dunque due realtà diverse: una realtà linguistica, interna alle frasi, e una extralinguistica, esterna alle frasi (cfr. Lyons 1977; Vanelli 1992; Vanelli & Renzi 1995). L’interpretazione dei deittici dipende in particolare da un centro deittico (detto anche origo; Bühler 1934: 102 segg.), che è di solito il parlante.http://www.treccani.it/enciclopedia/deittici_%28Enciclopedia_dell%27Italiano%29/

(data di consultazione 21/05/2015)DenotationDenotazioneSignificato elementare di un segno, accezione di un vocabolo reperibile nel dizionario, che non contiene molti elementi soggettivi o affettivi o determinati dal contesto. Ai significati denotativi di sommano quelli connotativi.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011DiachronyDiacroniaStoricità, sviluppo storico, in contrapposizione a sincronia, che è lo stato di un fenomeno o di una disciplina, in un momento dato.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Differentiating meaningDifferenziale semanticoLa tecnica del differenziale semantico si propone di rilevare con il massimo della standardizzazione il significato che i concetti assumono per gli individui. Il modo più semplice per scoprire cosa significa una certa cosa per una certa persona è quello di chiederglielo direttamente, ma solo persone intelligenti, istruite e con eccellenti capacità verbali possono fornire dati utilizzabili. La tecnica del differenziale semantico supera questi limiti in quanto si basa sulle associazioni che l’intervistato instaura tra il concetto in esame ed altri concetti proposti in maniera standardizzata a tutti gli intervistati. In concreto si utilizzano una serie di scale auto-ancoranti nelle quali solo le categorie estreme hanno significato autonomo, mentre il significato graduato delle categorie intermedie viene stabilito a giudizio dell’intervistato. La lista di questi attributi bipolari non deve avere necessariamente relazione con l’oggetto valutato, e quindi deve essere sempre la stessa. Il numero delle domande di solito va dalle 12 alle 50, in base al disegno della ricerca. Il modo più importante di utilizzare il differenziale semantico è rappresentato dall’esplorazione delle dimensioni dei significati. Si ritiene cioè che attraverso l’analisi fattoriale sia possibile determinare quali sono le dimensioni fondamentali che stanno dietro ai giudizio di un certo campione di soggetti intervistati. In linea generale, si possono trovare tre dimensioni fondamentali: la valutazione, la potenza e l’attività, in ordine di importanza. La valutazione sembra rappresentare l’atteggiamento verso un certo oggetto. Il contributo più importante della tecnica del differenziale semantico è proprio quello di aver introdotto la multidimensionalità dei significati nella struttura degli atteggiamenti.http://www.sordelli.net/finanziamenti-progettazione-mainmenu-89/strumenti/glossario/417-differenziale_semantico

(data di consultazione 25/05/2015)Distinctive featureTratto distintivoIn fonologia e in linguistica, ogni minimo elemento distintivo o, al contrario, non distintivo e irrilevante che concorre alla formazione di un fonema o di un enunciato, più tecnicamente definiti tratti pertinenti e non pertinenti.http://www.treccani.it/enciclopedia/tratto/

(data di consultazione 21/05/2015)Distributional analysisAnalisi distribuzionaleMetodo della linguistica strutturale che si propone di arrivare alla descrizione oggettiva dello stato sincronico di una lingua, analizzando la capacità dei suoi elementi di distribuirsi nella catena parlata.http://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano/parola/d/distribuzionale.aspx?query=distribuzionale

(data di consultazione 21/05/2015)Énoncé (enounced/ utterance)Énoncé (ennunicato)Sequenza di parole che forma un segmento reale di discorso (orale o scritto), prodotto in una determinata situazione di comunicazione e sufficiente a dare l’informazione richiesta; può essere molto lungo o costituito anche di una sola parola e talora sintatticamente incompleto.http://www.treccani.it/enciclopedia/enunciato/

(data di consultazione 20/05/2015)Énonciation (enunciation)Énonciation (enunciazione)L’atto individuale di produrre enunciati (orali o scritti) in un reale processo di comunicazione tra chi enuncia il messaggio e chi lo riceve.http://www.treccani.it/vocabolario/enunciazione/

(data di consultazione 24/05/2015)EquivalenceEquivalenzaTermine matematico. Parola usata impropriamente anche con riferimento a traduzioni tra lingue naturali, che per definizione sono anisomorfe, e nelle quali pertanto non trova alcuno spazio il concetto di «equivalenza». Per significare l’attualizzazione di una o più parole del prototesto nel metatesto, è possibile usare il termine traducente. «Traducente», a differenza di «equivalenza», dà l’idea di un’attualizzazione incostante, momentanea, provvisoria, contestuale.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Extra-linguisticExtralinguisticoDa un lato il termine significa un processo che sfocia al di fuori del testo principale, usando un codice verbale o non verbale. Il metatesto è supplementare o complementare rispetto al testo principale. In questo senso il termine si contrappone a «intestuale». In un’altra accezione, il termine denota un processo che, partendo da un testo verbale, produce un metatesto non verbale.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Function of languageFunzione della linguaRoman Jakobson individua sei funzioni del linguaggio: la funzione emotiva, incentrata sull’emittente, diretta a manifestarne sensazioni, stati d’animo, reazioni emotive; la funzione conativa, incentrata sul destinatario, diretta a imporgli un certo comportamento; la funzione referenziale, incentrata sul referente, diretta a fornire informazioni su di esso; la funzione metalinguistica, incentrata sul codice, diretta a evidenziarne le modalità di funzionamento; la funzione poetica, incentrata sul messaggio, diretta a curarne l’elaborazione e la strutturazione formali; la funzione fàtica, incentrata sul canale, diretta a verificarne l’efficienza e a eliminare i disturbi o rumori.http://www.treccani.it/enciclopedia/funzionalismo/

(data di consultazione 21/05/2015)FunctionalismFunzionalismoAmbito di studi e di ricerche che prende le mosse dai postulati di F. de Saussure e che mira a identificare e a descrivere le unità della lingua in base alla funzione che esse svolgono nella comunicazione. La Scuola di Praga (1926) ha dato, soprattutto con N.S. Trubeckoj, i suoi contributi più importanti nel campo della fonologia, che studia i suoni in rapporto alla loro funzione distintiva, vale a dire alla capacità che essi hanno di distinguere due parole diverse: i fonemi rappresentano le unità distintive minime della lingua; le differenze di suono che provocano cambiamenti di significato si chiamano opposizioni fonologiche e i tratti fonici su cui poggia l’opposizione sono detti distintivi o pertinenti.http://www.treccani.it/enciclopedia/funzionalismo/

(data di consultazione 22/05/2015)Generative grammarGrammatica generativaLa grammatica generativa (di cui la grammatica trasformazionale è il tipo più importante) costituisce la maggiore novità nella linguistica teorica contemporanea. È stata ideata e costruita da N. Chomsky a partire dall’elaborazione che il suo maestro, Z. Harris, aveva fatto delle nozioni, usate nella linguistica strutturale, di sostituzione e di espansione. Secondo Chomsky la grammatica generativa nasce dalla confluenza di due componenti: l’intuizione idealistica dell’infinita creatività della lingua e gli studi compiuti nel nostro secolo sulla teoria matematica della computabilità e della ricorsività (A. M. Turing, E. Post, ecc.) che consentono di dare una formulazione precisa a tale intuizione. Il termine “generativo” si riferisce non alla produzione concreta di singole frasi ma, secondo l’accezione matematica del verbo “generare”, a un dispositivo astratto che specifica, enumera certe strutture. Chomsky usa le due nozioni di esecuzione e competenza, che non possono non richiamare la dicotomia saussuriana di parole e langue; ma mentre nella langue prende rilievo l’aspetto della socialità, la competenza si riferisce a un “parlante-ascoltatore ideale in una comunità linguistica completamente omogenea”, e non solo a ciò che egli sa coscientemente, ma anche a ciò che egli deve sapere, anche se non se ne rende conto, per potersi servire della lingua.http://www.treccani.it/enciclopedia/grammatica-generativa_%28Enciclopedia-Italiana%29/

(data di consultazione 22/05/2015)IconIconaNella semiotica di Charles Sanders Peirce, l’icona è una rappresentazione poco arbitraria dell’oggetto, poco culturospecifica, che instaura un rapporto di somiglianza fattuale tra signans e signatum.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011IndexIndiceNella semiotica di Charles Sanders Peirce, l’indice, la cui relazione con l’oggetto è invece più arbitraria, è legato all’oggetto da un rapporto che non è più dettato dalla somiglianza, ma dalla contiguità logica o materiale.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Interpretant Interpretant (interpretante)Nella semiotica di Charles Sanders Peirce, il processo di significazione da un segno a un oggetto passa per un interpretante, entità mentale che, per il singolo individuo, costituisce una relazione affettiva necessaria in continua evoluzione con un determinato segno e un determinato oggetto. È l’interpretante a permettere la significazione, a suscitare nell’individuo un collegamento dal segno (per esempio una parola) all’oggetto (per esempio uno dei suoi “significati”).Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011LangueLangue (lingua)L’italiano offre la possibilità di distinguere senza l’uso di aggettivi tra il più specifico «lingua» (con cui di norma s’intendono le lingue naturali) e il più generico «linguaggio», con cui s’intendono tutti i linguaggi, anche artificiali (come la matematica) e non verbali (come la pittura e la musica), nel cui novero figurano anche quelli naturali, o lingue. Traducendo verso l’italiano, spesso corre l’obbligo di disambiguare parole come language decidendo caso per caso se tradurle «lingua» o «linguaggio» a seconda del senso che hanno nelle singole occorrenze. Da non confondersi con discorso.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Linguistic signSegno linguisticoNella semiotica di Peirce, è «segno» qualsiasi oggetto che sia interpretato come tale; in tale categoria rientrano tanto gli oggetti quanto le parole. Restringendo la questione al solo testo verbale, le parole sono segni che rimandano, attraverso interpretanti, a oggetti.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011MeaningSignificatoSecondo Peirce, il significato è la traduzione di un segno in un altro sistema di segni). In altre parole, per capire il significato di una parola, bisogna tradurla, o spiegarla a qualcuno, o confrontarla con un’altra cultura: quello che ne viene fuori è il suo significato. La traduzione non si occupa del significato; è il significato che si occupa della traduzione. Il significato immediato, o interpretante immediato secondo Peirce, è tutto ciò che è esplicito nel segno stesso tranne il contesto e le circostanze della sua espressione.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Mentalistic approachApproccio mentalistaApproccio psicologico volto alla spiegazione del comportamento attraverso il ricorso a processi mentali non-osservabili dall’esterno.http://it.wikipedia.org/wiki/Mentalismo_%28psicologia%29

(data di consultazione 22/05/2015)ObjectOggettoNella terminologia peirceiana, elemento della realtà, concreta o astratta, a cui rimanda il segno attraverso l’interpretante. Corrisponde al «referente» in altre terminologie.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Paradigmatic axisAsse paradigmaticoL’insieme delle parole o dei segni con i quali, per associazione, si può sostituire ciascun elemento dell’asse sintagmatico. Il primo a formulare questa distinzione in linguistica fu Ferdinand de Saussure, al quale si deve l’introduzione dei concetti di “rapporto sintagmatico” e di “rapporto associativo” tra i segni. Sulla linea di Saussure si pone il linguista danese Louis Hjelmslev, che parla di “assi del linguaggio”: ogni elemento del processo comunicativo può essere pensato come risultante dell’intersezione tra asse sintagmatico e asse paradigmatico. Le funzioni fra gli elementi situati sull’asse paradigmatico sono “correlazioni” (disgiunzioni logiche del tipo “o … o”), mentre le funzioni fra gli elementi che trovano posto sull’asse sintagmatico sono “relazioni” (congiunzioni logiche del tipo “e … e”).http://www.stulfa.it/comunicazione_on_line_on_site_Stulfa/doc/comunicazione%20on%20line%20e%20on%20site-702.htm

(data di consultazione 20/05/2015)Parole ParoleFerdinand de Saussure introduce alcune definizioni e opposizioni fondamentali per la linguistica e la semiotica contemporanee. La prima è quella fra langue e parole. La parole rappresenta l’aspetto individuale del linguaggio, ciò che fa riferimento alla singola esecuzione. Quello della parole, quindi, è il campo delle singole fonazioni (nessuna è mai uguale all’altra) e dei singoli sensi (che, allo stesso modo, variano sempre in qualche aspetto, anche se minimo). A differenza della langue, l’atto di parole è un fatto individuale perché è rappresentato dalle singole produzioni di ognuno, a tutti i livelli linguistici; in riferimento alla dicotomia astratto-concreto, è la concretizzazione della langue.http://www.linkuaggio.com/2012/04/ferdinand-de-saussure-langue-e-parole.html

http://www.pieropolidoro.it/teramo/lezione02.pdf

(data di consultazione 25/05/2015)PerformanceEsecuzioneIn linguistica generativa trasformazionale, con riferimento a un parlante, l’uso effettivo della lingua nelle situazioni concrete; si oppone, in inglese a competence «competenza».http://www.treccani.it/enciclopedia/performance/

(data di consultazione 24/05/2015)PhonemeFonemaIn linguistica, unità minima non ulteriormente analizzabile del significante. Il termine si è affermato con J. Baudouin de Courtenay e Ferdinand de Saussure. Dopo N.S. Trubeckoj, in opposizione a suono, denota un segmento fonico-acustico non suscettibile di ulteriore segmentazione in unità dotate di capacità distintiva (cioè capaci di differenziare due unità d’ordine più complesso).http://www.treccani.it/enciclopedia/fonema/

(data di consultazione 24/05/2015)PsychologismPsicologismoTermine filosofico di senso piuttosto lato, designante in generale le concezioni a cui s’imputa un’esclusiva o eccessiva valutazione del momento psicologico nella costruzione del sistema scientifico. A seconda del diverso significato della psicologicità, che può esservi presupposto, l’accusa di psicologismo ha quindi due valori principali, uno più vasto e l’altro più ristretto. Secondo il primo significato “psicologistica” è in genere ogni concezione che consideri ogni oggettività come fondata nell’esperienza soggettiva, e sottoposta in ultima analisi alle leggi di questa Nel senso più ristretto, psicologistica è detta la filosofia che trasferisce nella considerazione propriamente speculativa e trascendentale dello spirito il metodo della psicologia empirica, e fa quindi smarrire alle leggi spirituali il loro carattere di aprioristica assolutezza. S’intende quindi come essenzialmente antipsicologistico sia, in questo senso, quello stesso idealismo che, nel precedente senso del termine, appare psicologistico.http://www.treccani.it/enciclopedia/psicologismo_(Enciclopedia-Italiana)/

(data di consultazione 24/05/2015)RealizationAttualizzazioneLa parola ha due accezioni importanti per la scienza della traduzione. 1. La prima riguarda in generale qualsiasi realizzazione pratica di un (proto)testo. Si può allora parlare di «attualizzazione di una poesia» per indicarne la recitazione. 2. La seconda ha a che fare con l’attualità, il presente, ed è una strategia traduttiva che riguarda il cronòtopo temporale: a differenza della storicizzazione e dell’acronizzazione, si tratta della modifica di un (meta)testo consistente nell’eliminare riferimenti ai tempi sovietici del prototesto, sostituendoli con riferimenti all’attualità della cultura ricevente.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011ReferentReferenteNella semantica, l’oggetto o l’ente concreto, il valore extralinguistico, significato da un segno, un elemento o un messaggio linguistico.http://www.treccani.it/enciclopedia/referente_(Dizionario-delle-Scienze-Fisiche)/

(data di consultazione 22/05/2015)Russian FormalismFormalismo russoNella storia della letteratura russa, movimento letterario e filosofico fiorito tra il 1914 e il 1928 (in russo formalizm). Ebbe inizio con un opuscolo di V. Šklovskij (Voskresenie slova «La resurrezione della parola», 1914) che propagandava il cubo-futurismo. Dalla propaganda del futurismo, i formalisti ben presto passarono allo studio dei problemi della lingua poetica. Nel 1915 sorsero il Moskovskij lingvističeskij kružok («Circolo linguistico moscovita», di cui facevano parte R. Jakobson, P. Bogatyrëv, T. Tomaševskij) a Mosca, e nel 1916, l’Opojaz (Obščestvo izučenija poetičeskogo jazyka, «Società per lo studio della lingua poetica», di cui facevano parte V. Šklovskij, O. Brik, B. Ejchenbaum, Ju. Tynjanov) a Pietrogrado. I formalisti consideravano l’opera letteraria pura forma, ovvero «relazione di materiali». Tra le raccolte collettive, notevoli gli Sborniki po teorij poetičeskogo jazyka («Raccolte di teoria della lingua poetica», 2 vol., 1916-17). Scrissero romanzi storici, si occuparono di cinema, condussero una campagna di rivalutazione del 18° sec.  e fiancheggiarono l’attività poetica di V. Majakovskij dopo la rivoluzione.http://www.treccani.it/enciclopedia/formalismo/

(data di consultazione 22/05/2015)SemiologySemiologia(sémiologie)Disciplina fondata da Ferdinand de Saussure in concomitanza – ma senza contatto – con la semiotica di Peirce. Si occupa dello studio dei sistemi di segni, soprattutto verbali. A volte in Italia è confusa con la semiotica.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011SemioticsSemioticaScienza dei segni e della significazione. Tra i sistemi di segni studiati dalla semiotica ci sono anche i linguaggi naturali, perciò la linguistica si inquadra nella semiotica. Gli studiosi che si rifanno a Saussure la chiamano «semiologia». Disciplina che studia i sistemi di segni (anche non verbali: visivi, uditivi, gestuali…) e in che modo e perché i segni stanno per qualcosa. Il termine «semiotica» è stato ripreso, dopo l’antica Grecia, da Locke e da Peirce, che è considerato il fondatore della moderna disciplina.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Signified/ signatum/ sēmainomenonSignifiéLa parte del segno linguistico che, secondo Saussure, coincide con il concetto. «Propongo di mantenere la parola signe per designare il tutto o di sostituire a «concetto» e «immagine acustica» rispettivamente signifié e signifiant» (Saussure 1911:3). Il termine si basa su quello di semainòmenon della scuola stoica, e su quello di signatum di Sant’Agostino.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Signifier/ signans/ sēmainonSignifiantSecondo Saussure, il suono emesso nell’atto della parola (oppure l’aspetto grafico di una parola scritta) che, insieme al signifié, costituisce il segno linguistico. Il termine si basa su quello di semainon della scuola stoica, e quello di signans di Sant’Agostino.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Sign-systemSistema segnicoIn semiologia e semiotica, sistema che concerne i segni linguistici.http://dizionari.repubblica.it/Italiano/S/segnico.php

(data di consultazione 24/05/2015)SpeechDiscorsoTesto verbale attualizzato, non necessariamente orale. Ogni discorso costituisce un sistema culturale, e la traduzione può essere considerata trasformazione tra diversi sistemi discorsuali. Spesso in italiano parole come speech vengano tradotte come «linguaggio», ma anche nelle rispettive lingue esiste una differenza tra «linguaggio» come potenzialità e «discorso» come attualizzazione.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Speech actAtto linguisticoÈ l’unità di base della descrizione linguistico-pragmatica che studia l’uso della lingua in situazione. Atti linguistici sono ad es. una constatazione, una richiesta, un consiglio, una promessa, un ringraziamento. Prendendo la parola non solo si pronunciano frasi soggette a giudizi di grammaticalità, di buona formazione morfosintattica e semantica; si compiono anche atti, soggetti a giudizi di riuscita e di appropriatezza, ci si impegna cioè in una forma di comportamento governato da regole che non sono solo linguistiche, ma anche socioculturali, proprie di una data comunità in una data fase della sua storia.http://www.parodos.it/dizionario/attolinguistico.htm

(data di consultazione 24/05/2015)StructuralismStrutturalismoTeoria e metodologia affermatesi in varie scienze dal primo Novecento, fondate sul presupposto che ogni oggetto di studio costituisce una struttura, costituisce cioè un insieme organico e globale i cui elementi non hanno valore funzionale autonomo ma lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive di ciascun elemento rispetto a tutti gli altri dell’insieme.http://www.treccani.it/enciclopedia/strutturalismo/

(data di consultazione 24/05/2015)StructureStrutturaIl complesso degli elementi funzionali di un sistema di comunicazione e di espressione, o di un suo settore.http://www.treccani.it/enciclopedia/struttura/ (data di consultazione 24/05/2015)

Supra-segmental Soprasegmentale (tratto)Elemento dell’espressione orale che esala dalla linearità della trascrizione, come per esempio intonazione, gesticolazione, timbro della voce, tono, melodia, espressione visiva.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011SymbolSimboloNella semiotica peirceiana, il simbolo instaura con il suo oggetto il rapporto più arbitrario in assoluto, in quanto gli è legato esclusivamente in virtù di una legge artificiale, di una convenzione pura e semplice.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011SynchronySincroniaStato di una situazione o di una disciplina in un dato momento, in contrapposizione a diacronia, che è lo sviluppo storico.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011Syntagmatic axisAsse sintagmaticoAsse sintagmatico, si definisce come il concatenamento di elementi atti alla comunicazione (parole o qualsiasi altro tipo di segno) legati da un rapporto di contiguità (l’uno dopo l’altro). Insieme all’asse paradigmatico, la linea sintagmatica costituisce una delle intuizioni più innovative del padre della linguistica Ferdinand de Saussure.http://it.wikipedia.org/wiki/Linea_sintagmatica

(data di consultazione 24/05/2015)SignificationSignificazioneProcesso di formazione del significato, mediante il quale un segno, mediante un legame soggettivo, emotivo interpretante, rimanda a un oggetto.Osimo, Bruno, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2011System of signsSistema segnicoIn semiologia, sistema che concerne i segni.http://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano/parola/s/segnico.aspx?query=segnico

(data di consultazione 24/05/2015)Systemic grammarGrammatica sistemicaTeoria della lingua, sviluppata negli anni Sessanta da Michael Halliday, secondo cui il principio esplicativo generale del funzionamento di una lingua è il sistema delle intersezioni di paradigmi e classi di unità.http://dizionario.internazionale.it/parola/grammatica-sistemica

(data di consultazione 24/05/2015)Triadic structureStruttura triadicaChe ha carattere di triade o forma una triade; costituito di tre elementi.http://www.treccani.it/vocabolario/triadico/

(data di consultazione 24/05/2015)Word-orderOrdine delle paroleL’ordine degli elementi di una struttura sintattica (come un sintagma o una frase) è un parametro cruciale negli studi linguistici, principalmente in quelli di tipologia. A partire dalla struttura della frase indipendente dichiarativa assertiva che si prende convenzionalmente come riferimento, è possibile infatti dar conto, a cascata, di un’ampia gamma di altre costruzioni.http://www.treccani.it/enciclopedia/ordine-degli-elementi_%28Enciclopedia_dell%27Italiano%29/

(data di consultazione 24/05/2015)

 

 

 

ANALISI TESTUALE


 

Introduzione

 

Il saggio tecnico che ho tradotto fa parte della raccolta LITERARY CRITICISM, VOLUME VIII, From Formalism to Postructuralism, a cura di Raman Selden, edita da Cambridge University Press nel 2005. Il volume è diviso di due macro-sezioni e ogni sezione contiene i seguenti saggi:

 

1     Russian Formalism di Peter Steiner, University of Pennsylvania

 

STRUCTURALISM: ITS RISE, INFLUENCE AND AFTERMATH

 

2    Structuralism of Prague School di Lubomír Doležel, University of Toronto

3    The linguistic model and its application di Derek Attridge, Rutgers University

4    Semiotics di Stephen Bann, University of Kent

5    Narratology di Gerald Prince, University of Pennsylvania

6    Roland Barthes di Annette Lavers, University College London

7    Deconstruction di Richard Rorty, University of Virginia

8    Structuralist and poststructuralist psychoanalytic and Marxist theories di Celia Britton, University of Aberdeen

 

READER-ORIENTED THEORIES OF INTERPRETATION:

 

9    Hermeneutics di Robert Holub, University of California, Berkeley

10 Phenomenology di Robert Holub

11 Reception theory: School of Constance di Robert Holub

12 Speech act theory and literary studies di Peter J. Rabinowits, Hamilton College

13 Other reader-oriented theories di Peter J. Rabinowits

 

 

L’autore

 

L’autore del saggio preso in esame è Derek Attridge, professore di inglese all’Università di York, Regno Unito, dove insegna dal 2003. Attridge nasce in Sudafrica, dove completa gli studi universitari. In seguito si trasferisce nel Regno Unito dove consegue il Master of Arts e il PhD all’Università di Cambridge. Il suo lavoro più recente riguarda la letteratura sudafricana e include la Cambridge History of South African Literature (La storia della letteratura sudafricana, Cambridge, co-editata insieme a David Attwell) e uno studio sui romanzi di J. M. Coetzee. Attridge è inoltre ben noto come studioso di James Joyce, ha pubblicato varie opere su questo autore ed è stato per molti anni Amministratore della Fondazione James Joyce. I suoi interessi si concentrano sulla lingua e la teoria letteraria, con particolare riguardo verso l’opera di Jacques Derrida. Un’altra area di interesse è la forma poetica, interesse riflesso nel libro Moving Words: Forms of English Poetry, pubblicato nel 2013.

Il testo

 

Il saggio oggetto della presente tesi, The linguistic model and its application, tratta dell’influenza di Ferdinand de Saussure sulla linguistica del Novecento e lo strutturalismo. L’autore fa una breve panoramica degli studi linguistici di Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson. Cita inoltre Roland Barthes, Jacques Lacan, Claude Lévi-Strauss e altri. È un testo specialistico dal taglio saggistico ed è pensato per un pubblico colto e competente in materia linguistica. Molti dei concetti sono dati per impliciti e questo fa presumere che i lettori conoscano già l’àmbito di studio.

 

Il testo è diviso in cinque parti:

 

Il modello saussuriano

Infarinatura degli studi linguistici di Saussure e analisi, in particolare, della dicotomia langue/parole e signifié/signifiant e l’arbitrarietà del segno.

 

Modifiche e alternative al modello saussuriano

Analisi del modello linguistico di Saussure e introduzione il concetto di interpretant di Charles Sanders Peirce.

 

Roman Jakobson

Analisi degli studi di Roman Jakobson e riferimento a numerose opere che ha scritto per conto suo o in collaborazione con altri linguisti e studiosi della lingua.

 

Le applicazioni del modello

Analisi dell’applicazione del modello linguistico di Saussure.

 

Stilistica

Influenza della stilistica sugli studi letterari.

 


 

ANALISI TRADUTTOLOGICA


 

 

Lettore modello e dominante

 

Questo testo si rivolge a un pubblico istruito e specifico, ovvero a studiosi, ricercatori o studenti nel dominio della linguistica che possiedono e desiderano approfondire le conoscenze e le competenze in materia. Siamo in grado di capirlo perché l’autore fa la scelta di essere implicito in alcuni concetti e nozioni, nonché riferimenti. Analizzando il lettore modello, si arriva alla conclusione che nel proseguire con il lavoro di traduzione, il lettore modello del prototesto deve coincidere con il destinatario del metatesto. Per questo motivo, non ho ritenuto necessario spiegare ulteriormente i concetti e le nozioni implicite. In alcuni casi ho dovuto svolgere la frase, data la tipica sintassi della lingua inglese che, se lasciata come tale, risulta poco comprensibile e poco adatta al lettore italiano.

Il saggio in esame è un testo specialistico ed è ricco di terminologia tecnica ma ha anche un carattere saggistico; perciò ritengo che la dominante del testo sia la trasmissione del contenuto informativo e il mantenimento dello stile saggistico. La dominante più forte, tuttavia, risiede nella funzione informativa del testo. L’autore non fa scelte stilistiche particolari. L’esposizione è piuttosto lineare e le frasi sono molto lunghe e piene di citazioni e riferimenti bibliografici.  Un altro elemento molto importante è la precisione terminologica, essenziale per veicolare con accuratezza il messaggio dell’autore.

 

Strategia traduttiva

 

Prima di procedere con la traduzione, ho cercato di elaborare una strategia traduttiva il più possibile efficace per facilitare il lavoro. Oltre alla lettura attenta e alla comprensione del testo, ho cercato fin da subito di individuare la dominante, il lettore modello e il linguaggio e lo stile dell’autore. Già dalla prima lettura è evidente che il prototesto è ricco di riferimenti bibliografici.

Data la natura specialistica del testo, una parte del lavoro importante è stata la ricerca terminologica. In questa fase in particolare mi sono avvalsa di vari strumenti di ricerca, ossia Internet, testi paralleli in rete e cartacei, dizionari monolingue e bilingue e glossari. Non è stato difficoltoso trovare una terminologia adatta, in quanto questo particolare campo di studio offre numerosi testi sia in italiano sia in inglese.

Mentre traducevo, ho tenuto presente il lettore modello del testo. Dato che il destinatario del metatesto e del prototesto sono molto simili, ho optato per il mantenimento di un registro alto, adatto a un saggio tecnico. Di conseguenza, ho cercato di non semplificare il testo ricorrendo a termini più comuni rispetto a quelli usati dall’autore; ho applicato la stessa scelta per quando riguarda i periodi e ho cercato di mantenere il più possibile la struttura della frase. Questa scelta ha spesso pregiudicato la scorrevolezza del testo, in quanto è stato a volte necessario ricorrere a ripetizioni poiché l’uso dei sinonimi in caso di termini specialistici porta a essere imprecisi e a falsare il messaggio del testo. Ho usato sinonimi laddove trovavo termini più comuni.

Trattandosi di un testo che fa riferimento alla terminologia di Saussure, ho scelto di tradurre «signifier» e «signified» con, rispettivamente, «signifiant» e «signifié». In tutto il testo ho cercato di mantenere la terminologia originale dei vari autori citati.

Il testo mantiene i termini originali langue e parole di Saussure. Anche in questo caso ho scelto di mantenere la terminologia originale e di non svolgere ulteriormente i significati impliciti di queste due parole.

La parola «language» ha presentato qualche difficoltà nella scelta della resa. In italiano «language» si può tradurre con «lingua» o con «linguaggio». Bisognava prestare particolare attenzione a non confondere i due concetti.

 

Note e riferimenti bibliografici

 

Questo saggio è ricco di riferimenti bibliografici e spesso le opere citate non hanno una traduzione italiana oppure sono citate le traduzioni delle opere a cui si fa riferimento. In questo caso specifico, certi testi citano le pagine delle varie opere. Di conseguenza, ho dovuto operare una scelta traduttiva che, teoricamente, crea un forte residuo traduttivo in quanto, in caso di opere in inglese citate con riferimento a pagine specifiche, ho preferito mantenere l’opera citata così come si presenta nel prototesto, anche se esisteva la traduzione italiana.

Non ho applicato questa scelta traduttiva solo a un’opera in particolare, ossia, Cours de Linguistique Générale di Saussure. L’autore cita molto quest’opera, in particolare nella prima parte. Come si può leggere nella nota riportata di seguito, Attridge fa riferimento alla traduzione in inglese di questo particolare testo, tradotto da Wade Baskin. Nella stessa, fa riferimento anche ad un’altra traduzione fatta da Roy Harris. Ho scelto di non tradurre questa nota e di inserire un commento mio perché, trattandosi del lavoro di Ferdinand de Saussure e visto il fatto che l’autore inserisce citazioni del Cours de Linguistique Générale e utilizza la traduzione delle stesse traendole dalla traduzione di Wade Baskin, mi sembrava opportuno tradurre le citazioni direttamente dall’originale e non da una traduzione. Da qui la scelta di usare il libro Cours de Linguistique Générale di Saussure, a cura di Tulio de Mauro (a cui l’autore stesso fa riferimento in una delle note successive). In questo caso, il numero delle pagine cambia rispetto al testo originale.

2 References are to Saussure’s Course in General Linguistics, translated by Wade Baskin (hereafter referred to as Course); this is the translation that has been most influential upon English-speaking critics and theorists. A more recent translation by Roy Harris is in some respects more faithful to the original, though some of Harris’ choices of English equivalents are open to question. Quotations are cited in the notes from the standard French edition, usefully reprinted with extensive commentary and bibliography translated from the Italian of Tullio de Mauro. The students’ notes from which the published Course was constructed are included by Rudolf Engler in his edition. 2 Si fa riferimento al Cours de Linguistique Générale di Saussure, a cura di Tulio de Mauro. [NdT]

 

Ho inserito la traduzione (se del caso) delle opere citate nella traduzione dei riferimenti bibliografici.

Infine, un’ultima considerazione riguarda le note inserite dall’autore. Nel testo originale le note sono riportate a piè di pagina. Tuttavia, io le ho inserite alla fine della traduzione italiana, appena prima dei riferimenti bibliografici, per una mera questione tecnica di Word: inserendo le note nel testo, il numero di riferimento di ognuna sarebbe cambiato e inoltre, la posizione delle note andava a incidere sulla chiarezza originale/traduzione. Ritengo che questa scelta pregiudichi la scorrevolezza nella lettura del file digitale ma non quella della versione cartacea.

 

 

Gestione del residuo traduttivo

 

Data la natura del testo, la dominante che mira alla funzione informativa e il lettore modello sia del prototesto sia del metatesto, il residuo traduttivo è relativamente basso. Può essere individuato nella scelta di non tradurre le opere citate o di non inserire all’interno del testo le opere che hanno una versione italiana. Tuttavia, è una scelta che può essere operata, dato che il lettore modello è un lettore colto, istruito e può essere rappresentato da studiosi, professori, studenti o esperti del settore.

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


 

Dizionari ed enciclopedie:

Il Nuovo de Mauro

http://dizionario.internazionale.it

Treccani.it, l’enciclopedia italiana

http://www.treccani.it

Gabrielli Aldo, Grande dizionario Italiano, Hoepli

http://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano

http://dizionari.repubblica.it/Italiano

Merriam-Webster: Dictionary and Thesaurus

www.merriam-webster.com

 

Altre fonti:

Giorgio Sordelli, portale informazione

http://www.sordelli.net/finanziamenti-progettazione-mainmenu-89/strumenti/glossario

Pagina di ricerca Wikipedia

http://it.wikipedia.org

Stulfa.it, sito di approfondimento su vari argomenti

http://www.stulfa.it/comunicazione_on_line_on_site_Stulfa/doc/comunicazione%20on%20line%20e%20on%20site-702.htm

Sito di approfondimento su lingua, grammatica e letteratura italiana

http://www.linkuaggio.com

Pietro Polidoro, sito che raccoglie materiali del seminario “Da Kandinsky al Banner”, tenuto presso l’università La Sapienza.

http://www.pieropolidoro.it

Parados.it, glossari

http://www.parodos.it/dizionario/

 

BAZZANELLA, CARLA, 2009, Linguistica e pragmatica del linguaggio. Un’introduzione, Roma-Bari, Laterza.

GARZANTI, 2013, Enciclopedia Universale, Milano, Garzanti editore.

JAKOBSON, ROMAN, 2005, Saggi di linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Milano, Feltrinelli.

OSIMO, BRUNO, 2002, Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli.

OSIMO, BRUNO, 2011, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli.

SAUSSURE, FERDINAND DE, 1979, Cours de linguistique générale, a cura di Tullio De Mauro, Paris, Payot.

 

Doležel: Structuralism of the Prague school Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Doležel: structuralism of the Prague school

 

 

Nicole Marezza

 

Fondazione Milano

Civica Scuola Interpreti Traduttori

via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

 

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione linguistica

Luglio 2015

 

© L. Doležel «The Cambridge History of Literary Criticism» volume 8 1995

© Cambridge University Press «The Cambridge History of Literary Criticism» volume 8 2005

© Nicole Marezza per l’edizione italiana 2015

 

 

 

Doležel: structuralism of the Prague school

 

Abstract in italiano

La presente tesi propone la traduzione del capitolo Structuralism of the Prague school del manual The Cambridge History of Literary Criticism volume VIII di Raman Selden. Nella prefazione viene brevemente introdotto il capitolo e la sua struttura e si esaminano alcune scelte traduttive. Il testo tradotto affronta il tema dello strutturalismo letterario sviluppato dal circolo linguistico di Praga. La teoria si basa su un’elaborazione del pensiero di Ferdinand de Saussure e dei formalisti russi. Nel capitolo in esame viene esposta brevemente la storia del Circolo linguistico di Praga e si affrontano i temi delle norme letterarie, della struttura letteraria, dell’epistemologia della Scuola di Praga e vengono esposte le teorie di importanti personaggi del mondo della linguistica tra cui Jakobson, Mukařovský, Mathesius e altri.  

English abstract

This work presents the translation of the chapter Structuralism of the Prague school from Doležel’s manual on linguistics The Cambridge History of Literary Criticism volume VIII. The foreword provides a brief overview of the chapter’s content and structure and examines some choices made during the translation. The translated text tackles the concept of literary structuralism developed by the Prague Linguistic Circle. Their theory is based on the development of the thought of Ferdinand de Saussure and the Russian formalists. The history of the Prague Linguistic Circle is briefly explained in this chapter. Some of the major theme are the literary norms, the literary structure and the Prague School epistemology. Theories of important scholars of the PLC such as Jakobson, Mukařovský, Mathesius can be found.

 

Резюме на русском языке

В данной работе представлен перевод главы structuralism of the Prague school из учебника The Cambridge History of Literary Criticism учёного Долежеля. Во введении представлено общее содержание и структура главы, а также выборочные примеры переводов, определенных слов и выражений, используемых в тексте оригинала. В переведённом тексте рассматривается понятие литературный структурализм разработанное Пражским лингвистическим кружком. Их теория основана на дальнейшем развитии идеи, предложенной Фердинандом де Соссюром и русскими формалистами. В рассматриваемой главе кратко излага́ется история Пражского лингвистического кружка а также рассматриваются предметы литературных норм,  литературной структуры, эпистемологии Пражской лингвистической школы. Здесь также излагаются теорий важных учёных лингвистики, например Якобсона, Мукаржовского,  Матезиуса и других.

 

 

 

 

Sommario

 

1 Introduzione al testo. 4

2. Traduzione con testo a fronte. 4

2.2 History. 7

2.2 Storia. 7

2.3 Prague School epistemology. 13

2.3 L’epistemologia della scuola di Praga. 13

2.4 Specificity of literary communication. 17

2.4 Specificità della comunicazione letteraria. 17

2.5 Literary structure. 24

2.5 Struttura letteraria. 24

2.6 Semiotics of the subject and of the social context of literature; literary norms. 30

2.6 Semiotica del soggetto e del contesto sociale della letteratura; norme letterarie. 30

2.7 Poetic (fictional) reference. 38

2.7 Referenza poetica (fizionale) 38

2.8 Literary history. 43

2.8 Storia della letteratura. 43

2.9 Production history. 47

2.9 Storia della produzione. 47

2.10 Reception history. 48

2.10 Storia della ricezione. 48

2.11 History of structure. 50

2.11 Storia della struttura. 50

3. Riferimenti bibliografici 56

 

 

 

 

1 Introduzione al testo

 

La presente tesi ha come oggetto la traduzione del secondo capitolo del manuale The Cambridge History of Literary Criticism volume 8 a cura di Raman Selden, pubblicato nel 1995 presso la Cambridge University Press.

Il capitolo che ho tradotto si intitola «Structuralism of the Prague school» e tratta del lavoro svolto dai componenti del Circolo linguistico di Praga che hanno sviluppato il primo sistema dello strutturalismo letterario. Il Circolo è stato fondato da Mathesius nel 1926 e da lì è cresciuto fino a diventare un’associazione internazionale. Gli studiosi del Circolo linguistico di Praga hanno ricevuto un grande contributo dai formalisti russi. La loro teoria si basa su un’elaborazione del pensiero di Ferdinand de Saussure e dei formalisti russi. Il capitolo in esame ci mostra come lo strutturalismo non sia un fenomeno francese, ma faccia parte anche del mondo slavo. Il lavoro svolto dai formalisti russi è stato di fondamentale importanza per gli studiosi del Circolo linguistico di Praga. Il capitolo è composto da undici sottocapitoli tra cui storia, epistemologia della scuola di Praga, specificità della comunicazione letteraria, struttura letteraria, norme letterarie… Viene mostrata l’evoluzione di varie teorie, e i diversi punti di vista. Gli studiosi adottano una posizione strutturale-sistemico nello studio della letteratura: un concetto è definito da tutti gli altri e questo a sua volta li definisce. La letteratura è considerata una forma di comunicazione, esistono quindi regole di ricezione, produzione e struttura di un testo poetico. Sulla base di questo principio vengono sviluppate tre diverse teorie che prevedono un diverso numero di fattori coinvolti in ogni discorso: la teoria di Bühler (3 fattori), di Mukařovský (4 fattori) e di Jakobson (6 fattori).  Nei testi poetici prevale la funzione estetica e manca un riscontro preciso nella realtà esterna al contrario della ricezione del linguaggio con funzioni comunicative che ha pretese di riscontro nella realtà esterna. Viene ritenuto che lo strato tematico di una struttura letteraria sia indipendente dalla lingua, ma allo stesso tempo connesso perché il tema viene espresso attraverso questa. In questo capitolo si parla anche del rapporto tra autore e opera. Jakobson sostiene che la vita e il lavoro di uno scrittore siano intercambiabili, che un’invenzione poetica sia il riflesso della realtà psichica dell’autore. Per quanto riguarda il ricevente si pensa che la sua condizione influenzi la percezione dell’opera. Vodička, nei suoi studi che posero le basi per la teoria della ricezione, spiega come l’opera letteraria sia intesa come segno estetico diretto al pubblico e la ricezione cambi in base alle proprietà estetiche del testo e all’atteggiamento dei lettori. Il capitolo si conclude mostrando la differenza del pensiero positivista e strutturalista riguardo al cambiamento letterario; mentre la storia positivista cercava le cause del cambiamento letterario fuori dalla letteratura, la storia strutturalista concepisce l’evoluzione della poesia come automovimento. Jakobson sostiene che ci sia un legame tra diacronia e sincronia e che i concetti di sistema e i suoi cambiamenti siano collegati.

2. Traduzione con testo a fronte

 

The groundwork of structural poetics laid by the Russian Formalists was developed into the first system of twentieth-century literary structuralism by scholars of the cercle linguistique de Prague (Prague Linguistic Circle – PLC). Il lavoro preparatorio della poetica strutturale condotto dai formalisti russi fu sviluppato dagli studiosi del Cercle linguistique de Prague (Circolo linguistico di Praga) nel primo sistema dello strutturalismo letterario del novecento.
The personal and theoretical links between the Russian and the Prague school are well known. I legami personali e teorici tra la scuola Russa e la scuola di Praga sono ben noti.
Jan Mukařovský, the most prominent literary theorist of Prague, acknowledged that the conceptual system of his first major work – the May monograph of 1928- originated with the Russian Formalists (Kapitoly, II, p.12). Jan Mukařovský, il più illustre teorico della letteratura di Praga, riconobbe che il sistema concettuale del suo primo lavoro importante – May, una monografia del 1928 – aveva radici nei formalisti russi (Mukařovský 1948:2 12). 
Later on, in his review of the Czech translation of Shklovsky’s Theory of Prose (published in 1934) Mukařovský summed up not only the Czech indebtedness to, but also the Czech criticism of, early Russian Formalism (‘K českému překladu’, Kapitoly, I, pp. 344-50; Steiner, The Word, pp. 134-42). Più tardi, nella sua recensione della traduzione ceca di Teoria della prosa di Šklovskij (1934) Mukařovský riassunse non solo i debiti che i cechi avevano nei confronti del primo formalismo russo ma anche le loro critiche (Mukařovský 1934:I:344-50; Steiner 1977:134-42).
The first president of the PLC, Vilém Mathesius, surveying the first ten years of the Circle’s activities in 1936, highly commended the contribution of Russian scholars, but emphasized the domestic sources of Prague School thought. Il primo presidente del Circolo linguistico di Praga, Vilém Mathesius, esaminando i primi dieci anni delle attività del Circolo nel 1936, fece molti elogi al contributo degli studiosi russi ma sottolineò che il pensiero della scuola di Praga aveva radici nazionali.
He strongly protested the claim that the work done in Prague was nothing more than an application of Russian linguistic and literary-theoretical trends; the ‘working symbiosis’ achieved in the Circle is a ‘mutual give and take’ (‘Deset let’ pp 149ff.; cf Renský, ‘Roman Jakobson’, p. 380). Protestò fortemente contro l’affermazione secondo cui il lavoro fatto a Praga non era nulla di più di un’applicazione delle tendenze linguistiche e teoricoletterarie; la «simbiosi operativa» raggiunta nel Circolo è un «dare e ricevere reciproco» (Mathesius 1966:149 e seguenti; vedi anche Renský 1977:380).
In the same year, Roman Jakobson, who was a member of both Schools, spoke as well of a ‘symbiosis of Czech and Russian thought’, but pointed also to influence from Western European and American science. Nello stesso anno Roman Jakobson, membro di entrambe le scuole, parlò anche di una «simbiosi del pensiero ceco e russo», facendo inoltre notare le influenze provenienti dagli ambienti scientifici statunitensi e dell’Europa occidentale.
Such a synthesis was not exceptional in Prague: ‘The position at the crossroads of various cultures has been always characteristic of the Czechoslovak world’(‘Die Arbeit’, SW, II, p.547). Una sintesi di questo tipo non era inconsueta a Praga: «la posizione all’incrocio tra diverse culture è sempre stata caratteristica del mondo cecoslovacco» (Jakobson 1936:II:547).
Today, from a historical distance, we recognise the Prague School as one of the manifestations of the last blossoming of Central European culture[1]. Oggi, da una distanza storica, riconosciamo la scuola di Praga come una delle manifestazioni dell’ultimo fiorire della cultura mitteleuropea.
In the short period between the 1910s and 1930s, Central Europe gave rise to several theoretical systems which were to dominate the twentieth-century intellectual climate: phenomenology (Husserl, Ingarden), psychoanalysis (Freud, Rank), neopositivism (the Vienna Circle),Gestalt-psychology (Wertheimer, Köhler, Koffka), the Warsaw School of logic (Leśniewski, Tarski) and, last but not least, structuralism (the Prague School). Nel breve periodo tra il 1910 e il 1940, l’Europa centrale ha dato luogo a diversi sistemi teorici che avrebbero dominato il clima intellettuale del novecento: la fenomenologia (Husserl, Ingarden), la psicoanalisi (Freud, Rank), il neopositivismo (il Circolo di Vienna), la psicologia della gestalt (Wertheimer, Köhler, Koffka), la scuola logica di Varsavia (Leśniewski, Tarski) e ultimo ma non per importanza, lo strutturalismo (la scuola di Praga).
The PLC was integrated into the Central European context not only by the interantional composition of its membership, but also by lively scholarly contacts (lectures by Husserl, Carnap, Utitz and others). Il Circolo linguistico di Praga era integrato nel contesto mitteleuropeo non solo per la composizione internazionale, ma anche per i suoi vivaci contatti accademici (le lezioni di Husserl, Carnap, Utitz e altri).

2.2 History

2.2 Storia

The Prague Linguistic Circle was born on 6 October 1926: Vilém Mathesius, director of the English seminar at Charles University, and four of his colleagues (R. Jakobson, B. Havránek, B. Trnka, J. Rypka) met to discuss a lecture presented by the young German linguist H. Becker. Il Circolo linguistico di Praga venne fondato il 6 ottobre 1926: Vilém Mathesius, direttore del seminario inglese all’Univerzita Karlova, e quattro suoi colleghi (Jakobson, Havránek, Trnka, Rypka) si incontrarono per discutere di una conferenza tenuta dal giovane linguista tedesco Becker.
Mathesius gave the group not only an organized form, but also a clear theoretical direction[2]. Mathesius diede al gruppo non solo un’organizzazione ma anche una chiara direzione teorica.
The Circle quickly grew into an international association of about fifty scholars, including, in addition to its founding members, J. Mukařovský, O. Fischer, N. V. Trubeckoj, S. Karcevskij, P. Bogatyrёv, D. Cyževskyj, F. Slotty. Il Circolo si evolse velocemente in un’associazione internazionale di circa cinquanta studiosi, inclusi, oltre ai suoi membri fondatori, J. Mukařovský, O. Fischer, N. V. Trubeckoj, S. Karcevskij, P. Bogatyrёv, D. Cyževskyj, F. Slotty.
In the 1930s, a group of younger scholars entered the Circle, among them R. Wellek, F. Vodička, J. Veltrusky, J. Prušek and J. Vachek. Negli anni trenta entrò nel Circolo un gruppo di studiosi più giovani, tra cui R. Wellek, F. Vodička, J. Veltrusky, J. Prušek e J. Vachek.
Initially, papers presented at the regular meetings were concerned with theoretical linguistics, but soon questions of poetics became an equally important topic of discussion; ethnology and anthropology, philosophy and legal theory followed[3]. Inizialmente, i documenti che venivano presentati durante gli incontri periodici avevano come oggetto la linguistica teorica, ma presto la questione della poetica diventò un argomento di discussione altrettanto importante; poi venivano l’etnologia, l’antropologia, la filosofia e giurisprudenza.
The Circle’s international scholarly series Travaux du Cercle Linguistique de Prague (TCLP) (1929-1939) contains in eight volumes germinal contributions by members and ‘fellow travellers’, written in English, French, and German.   La serie internazionale accademica Travaux du Cercle Linguistique de Prague (1929-1939) presenta in otto volumi il contributo fondamentale degli studiosi e dei loro «compagni di viaggio» in inglese, francese e tedesco.
In 1928, the Prague participants of the first international congress of linguistics in the Hague drafted jointly with the Geneva School scholars a document outlining the principles of the new, structural linguistics. Nel 1928 i partecipanti praghesi al primo congresso internazionale di linguistica all’Aia redassero insieme agli studiosi della scuola di Ginevra un documento che descriveva a grandi linee i principi della nuova linguistica strutturale.
The programmatic ‘Thèses du Cercle Linguistique de Prague’ (presented to the first International Congress of Slavists held in Prague and published in TCLP, I, 1929) set out the structural theory of language, literary language and poetic language. Le programmatiche «Thèses du Cercle Linguistique de Prague» (presentate al primo congresso internazionale degli slavisti tenutosi a Praga e pubblicate nei Travaux du Cercle Linguistique de Prague, I, 1929) enunciava la teoria strutturale della lingua, del linguaggio letterario e poetico.
In 1932, in the documents of the third International Congress of Phonetic Science in Amsterdam the label ‘L’Ecole de Prague’ was first used, in a narrow application, referring to the innovative phonology of the PLC linguists. Nel 1932 nei documenti del terzo congresso internazionale sulla scienza della fonetica tenutosi ad Amsterdam, per la prima volta venne usata la definizione «L’Ecole de Prague», in un contesto circoscritto, riferendosi all’innovativa fonologia dei linguisti del Circolo linguistico di Praga.
In the 1930s, the Circle emerged as a strong cultural force on the domestic scene. Negli anni trenta il Circolo emerse nel contesto nazionale come una potente forza culturale.
Its first contribution of this kind was a tribute to the philosopher president of the Czechoslovak republic T. G. Masaryk (on the occasion of his eightieth birthday) – a slim volume Masaryk a řeč (Masaryk and Language) (1930) containing lectures by Mukařovský and Jakobson. Il suo primo contributo di questo tipo fu un tributo al filosofo e presidente della repubblica Cecoslovacca Masaryk (in occasione del suo ottantesimo compleanno) – un agile volume Masaryk a řeč (Masaryk e la lingua) (1930) che conteneva conferenze di Mukařovský e Jakobson.
The PLC attracted wide public attention when its members , in alliance with avant-garde Czech writers and poets[4] stood up against conservative purists who tried pedantically to restrict experimentation in contemporary poetic language. Il Circolo linguistico di Praga attirò l’attenzione di un vasto pubblico quando i suoi soci, d’accordo con scrittori e poeti cechi d’avanguardia, si opposero ai puristi conservatori che cercavano pedantescamente di limitare le sperimentazioni nel linguaggio poetico contemporaneo.
The cycle of polemical and programmatic lectures published in Spisovná čeština a jazyková kultura (Standard Czech and Language Culture) (1932) formulated the PLC principles of language, culture and planning which have retained their significance up to today (see also Garvin, “Role”). Il ciclo di conferenze polemiche e programmatiche pubblicate in Spisovná čeština a jazyková kultura (Havranek 1932) presentavano i principi linguistici, culturali e programmatici del Circolo linguistico di Praga, che sono tuttora significativi (vedi anche Garvin, «Role»).
No less enduring are studies on the history of old and modern Czech verse (Jakobson, Mukařovský), on Czech dialects end on the history of Czech literary language (both by Havránek) published in a special volume of the representative Ottuv slovník naučný (Otta’s Encyclopaedia) (1934). Vale lo stesso per gli studi sulla storia dei versi cechi antichi e moderni (Jakobson, Mukařovský), e sui dialetti e sulla storia del linguaggio letterario ceco (entrambi di Havránek) pubblicati in un volume speciale del rappresentativo Ottuv slovník naučný (Otta 1934).
In 1935 the PLC launched its Czech journal Slovo a slovesnost (The Word and Verbal Art), exploiting in its title the happy etymological link which in Slavic languages exists between the terms for language and for literature; the journal soon became an influential forum for modern linguistics and literary theory. Nel 1935 il circolo linguistico di Praga lanciò la rivista in ceco Slovo a slovesnost (la parola e l’arte verbale), sfruttando nel titolo il fortunato collegamento etimologico che esiste nelle lingue slave tra la parola slovo (lingua) e la parola slovesnost (arte verbale); la rivista diventò presto un forum influente per la linguistica e la teoria letteraria moderna.
Three widely read collections reaffirmed the PLC’s cultural position in the rapidly changing political conditions: a jubilee volume Torso a tajemství Máchova díla (Torso and Mystery of Mácha’s Work) (1938), a popularising collective work Čtení o jazyke a poesii (Readings on Language and Poetry) (1942) and a cycle of radio broadcasts O básnickém jazyce (On Poetic Language) (1947). La posizione culturale del Circolo linguistico di Praga si riaffermò nella situazione politica in rapido cambiamento grazie a tre collezioni molto lette: il volume giubilare Torso a tajemství Máchova díla (Jakobson 1938), il lavoro collettivo divulgativo Čtení o jazyce a poesii (Havranek e Mukařovský 1942) e un ciclo di trasmissioni radiofoniche O básnickém jazyce (Havranek e Mukařovský 1947).
As the influence of the PLC grew, so did the voices of the critics, coming both from the right – the traditionalists in language and literary science, and from the left – the Marxists. Col crescere dell’influenza del Circolo di Praga, crebbe anche la voce dei critici, che arrivava sia da destra – i tradizionalisti della scienza della lingua e della letteratura, sia da sinistra – i marxisti.
The exchange between PLC members and the Marxist publicists (which took place between 1930 and in 1934) is probably the first confrontation between structuralism and Marxism in the twentieth century. Lo scambio tra i soci del Circolo linguistico di Praga e i pubblicisti marxisti (che ebbe luogo tra il 1930 e il 1934) è probabilmente il primo scontro tra strutturalismo e marxismo nel novecento.
In the final years of Czechoslovak independence and even during the German occupation the Prague School scholars worked vigorously to systematize structural poetics and aesthetics and published their best works in literary analysis. Negli ultimi anni dell’indipendenza cecoslovacca e persino durante l’occupazione tedesca gli studiosi della scuola di Praga lavorarono con vigore per sistematizzare la poetica e l’estetica e  per pubblicare i loro migliori lavori di analisi letteraria.
When Czech universities were closed by the Nazis in November 1939, the meetings of the Circle continued in private homes and apartments. Quando le università ceche vennero chiuse dai nazisti nel novembre 1939, gli incontri del Circolo continuarono in abitazioni private.
Public activities were resumed in June 1945. Le attività pubbliche ricominciarono nel giugno 1945.
A few leaders were lost, either to natural death (Trubeckoj, Mathesius), or to exile (Jakobson, Wellek); on the other hand, many PLC members found themselves in key positions in Czechoslovak universities and in the newly established Czechoslovak Academy of Sciences. Il Circolo perse alcuni dei suoi leader sia per  morte naturale (Trubeckoj, Mathesius), sia per l’esilio (Jakobson, Wellek); d’altra parte, molti soci del Circolo linguistico di Praga andarono ad occupare posizioni chiave all’interno delle università cecoslovacche e dell’accademia cecoslovacca delle scienze, di recente fondazione.
In fact, the brief spell of democracy in post-war Chechoslovakia (between May 1945 and February 1948) was the most productive time for Prague School structuralism. Di fatto, il breve periodo di democrazia nella Cecoslovacchia del dopoguerra (tra il maggio 1945 e il febbraio 1948) fu il periodo più produttivo per lo strutturalismo della scuola di Praga.
In 1946 Mukařovský visited Paris and presented a lecture on structuralism at the Institut d’Etudes Slaves, which offered the last and most concise exposition of Prague School thinking for the benefit of a foreign audience; the lecture was never published in French and had no impact in the Parisian intellectual scene. Nel 1946 Mukařovský andò a Parigi e tenne una conferenza sullo strutturalismo all’Institut d’Etudes Slaves; questa fu l’ultima e più coincisa esposizione del pensiero della scuola di Praga a un pubblico straniero; la conferenza non venne mai pubblicata in francese e non influenzò in alcun modo lo scenario intellettuale parigino.
In 1948 the second, three-volume, edition of Mukařovský’s selected works Kapitoly z české poetiky (Chapters from Czech Poetics) as well as the last representative work of Prague School structuralism, Vodička’s monograph Počatky krásné prózy novočeské (The Beginnings of Czech Artistic Prose), were published. Nel 1948 vennero pubblicate la seconda edizione in tre volume delle opere scelte di Mukařovský Kapitoly z české poetiky e l’ultima opera rappresentativa dello strutturalismo della Scuola di Praga, la monografia di Vodička Počatky krásné prózy novočeské.
Shortly afterwards, the Circle’s activities were abruptly terminated; the last lecture took place on 13 December 1948. Poco dopo le attività del Circolo furono improvvisamente interrotte; l’ultima conferenza fu tenuta il 13 dicembre 1948.
The PLC was not a mutual admiration society. Il Circolo linguistico di Praga non era una società di mutua ammirazione.
Differences of opinion, polemical exchanges and personal tensions were inevitable in a discussion group[5]. Differenze di opinioni, scambi polemici e tensioni personali erano inevitabili in un gruppo di discussione.
Nevertheless, in its basic assumptions about literature and literary study, the Prague School was more homogeneous than Russian Formalism; consequently a cohesive synopsis of its theory can be given. Tuttavia, le teorie sulla letteratura e sugli studi letterari della Scuola di Praga erano più omogenee di quelle del formalismo russo; di conseguenza è possibile elaborare un sunto coeso della loro teoria.
According to Mathesius, the ideas promulgated by the PLC achieved a rapid success because they were not the product of chance, but fulfilled an ‘acute intellectual need’ of the international scientific community (‘Deset let’, p. 137). Secondo Mathesius le idee diffuse dal Circolo linguistico di Praga ottennero un rapido successo perché non erano frutto del caso, ma soddisfacevano il «forte bisogno intellettuale» della comunità scientifica internazionale (Mathesius 1936:137).
Prague Structuralism was a development in the mainstream of twentieth-century theoretical thought: it was a stage in the post-positivistic paradigm of linguistics and poetics that had been initiated by Ferdinand de Saussure and the Russian Formalists. Lo strutturalismo di Praga è stato uno sviluppo del pensiero teorico principale del novecento: fu una fase del paradigma della linguistica e della poetica postpositivista, iniziato con Ferdinand de Saussure e con i formalisti russi.

2.3 Prague School epistemology

2.3 L’epistemologia della scuola di Praga

The Prague School poeticians reformulated traditional concerns of literary study into an advanced post-positivist epistemology based upon the following principles[6]. I poeticisti della scuola di Praga riformularono le preoccupazioni tradizionali degli studi letterari in un’avanzata epistemologia postpositivista basata sui seguenti principi.
First, the study of literature, in accordance with modern scientific thought, adopts a structural stance. Per prima cosa lo studio della letteratura, in concordanza con il moderno pensiero scientifico, adotta una posizione strutturale.
Its principles were defined in a 1929 Czech paper of Jakobson’s where the label ‘structuralism’ was coined: ‘were we to summarize the leading idea of present-day science in its most various manifestations, we could hardly find a more appropriate designation than structuralism. I principi vennero definiti in un articolo in ceco del 1929 di Jakobson nel quale venne coniato il termine «strutturalismo»: «se dobbiamo riassumere l’idea guida della scienza odierna  nelle sue più varie manifestazioni, possiamo difficilmente trovare un termine più appropriato di strutturalismo.
Any set of phenomena examined by contemporary science is treated not as a mechanical agglomeration but as a structural whole, and the basic task is to reveal the inner, whether static or developmental, laws of this system’ (quoted in ‘Retrospect’, SW, II, p. 711). Ogni gruppo di fenomeni esaminati dalla scienza contemporanea è trattato non come un agglomerato meccanico ma come un insieme strutturale, e il lavoro fondamentale è quello di rivelare le leggi interne sia statiche che evolutive di questo sistema » (citato da Jakobson 1971:II:711).
For Mukařovský, structuralism is ‘an epistemological stance’ whose essence is ‘the manner by which it forms its concepts and operates with them’. Per Mukařovský lo strutturalismo è «una posizione epistemologica» la cui essenza è «il modo in cui plasma i suoi concetti e vi opera.»
In the structuralist view , ‘the conceptual system of every particular discipline is a web of internal correlations. Dal punto di vista strutturalista «il sistema concettuale di ogni singola disciplina è una rete di correlazioni interne.
Every concept is determined by all the others and in turn determines them. Ogni concetto è definito da tutti gli altri e questo a sua volta li definisce.
Thus a concept is defined unequivocally by the place it occupies in its conceptual system rather than by the enumeration of its contents’ (‘Strukturalismus’, Chapters, I, p. 13; Prague School, p.68).[7] Così un concetto è definito inequivocabilmente dal posto che occupa nel suo sistema concettuale piuttosto che dall’enumerazione dei suoi contenuti» (Mukařovský 1939/40:I:13; Steiner 1929-1946:68).
Secondly, Prague School poetics is an empirical theory; its scope, problems and metalanguage were developed in a constant exchange with literary analysis. In secondo luogo, la poetica della scuola di Praga è una teoria empirica; il suo campo, i suoi problemi e il metalinguaggio furono sviluppati in costante scambio con l’analisi letteraria.
Vodička perceived this feature of Mukařovský’s work when he provided an evaluation of his teacher’s method: ‘Mukařovský did not proceed from general, essentially philosophical problems of aesthetics, but from the empirical study of verbal material in literary works’ (‘integrity’, p. 11). Vodička si accorse di questa caratteristica dei lavori di Mukařovský quando valutò il metodo del suo maestro: «Mukařovský non procede da  problemi generali essenzialmente filosofici dell’estetica, ma da studi empirici di materiale verbale presente in opere letterarie» (Vodička 1972:11).
When, in turn, Vodička’s own work was assessed by his disciple Červenka, the same epistemological principle was recognized: ‘Today, there are many speculations about the relationship between Marxism and structuralism, existentialism and structuralism, etc., as if we were dealing with a confrontation of contradictory philosophical trends. Quando a sua volta il lavoro di Vodička venne valutato dal suo discepolo Červenka, venne rinvenuto lo stesso principio epistemologico: «Oggi, ci sono molte speculazioni sulla relazione tra marxismo e strutturalismo, esistenzialismo e strutturalismo eccetera, come se avessimo a che fare con uno scontro tra tendenze filosofiche contraddittorie.
However, structuralism as conceived by Mukařovský, Jakobson, Vodička and their disciples… is not a philosophy, but a methodological trend in certain sciences, especially those concerned with sign systems and their concrete uses.’ (‘O Vodičkově metodologii’, p. 331) Comunque lo strutturalismo così come concepito da Mukařovský, Jakobson, Vodička e i loro discepoli… non è una filosofia, ma è una tendenza metodologica in alcune scienze, soprattutto in quelle che si occupano dei sistemi di segni e del loro uso concreto» (Červenka 1969:331).
Thirdly, the study of literature combined abstract poetics of universal categories and descriptive poetics concerned with particular literary works. In terzo luogo, lo studio della letteratura combina la poetica astratta delle categorie universali e la poetica descrittiva dedicata a particolari opere letterarie.
This epistemological principle was not explored in theory, but rather in the practice of Prague School writings. Il principio epistemologico non fu analizzato in teoria ma nella pratica, attraverso gli scritti della Scuola di Praga.
The model was provided by Mukařovský’s May monograph: in the theoretical Introduction Mukařovský unfolded a conceptual framework for the description of poetic structure (see below) and then proceeded to describe in terms of this framework the structure of a masterwork of Czech romanticism, from phonic patterning through semantic devices to thematic organization. Il modello fu la monografia May  di Mukařovský: nell’introduzione teorica Mukařovský spiegò l’impianto concettuale per la descrizione della struttura poetica (vedi sotto) e poi procedette descrivendo sulla base di questo impianto la struttura di un capolavoro del romanticismo ceco, dai modelli fonici agli artifici semantici all’organizzazione tematica.
Vodička in his Beginnings adopted a method of presentation which was later popularized by Roland Barthes’ S/Z: analytic segments dealing with particular text are interspersed with theoretical reflections on topics provoked by the analysis. Vodička nel suo libro Počátky adottò un metodo di presentazione che più tardi venne reso in forma divulgativa da S/Z di Roland Barthes: segmenti analitici in relazione con un particolare testo vengono inframmezzati di riflessioni teoriche sugli argomenti prodotti dall’analisi.
Jakobson in his best-known poetological investigations posited the theoretical problem of grammatical categories in poetry and then analysed many poems with a view to revealing their characteristic grammatical patterning. Jakobson nelle sue notissime indagini poetologiche postulò il problema teorico delle categorie grammaticali nella poesia e poi analizzò molte poesie con l’intenzione di rivelare i loro modelli grammaticali caratteristici.
Fourthly, Prague School epistemology postulated a fundamental difference between ordinary readers and expert students of literature. In quarto luogo, l’epistemologia della Scuola di Praga postulava l’esistenza di una differenza fondamentale tra i lettori comuni e gli studiosi esperti di letteratura.
According to Jakobson, a poem, like a musical composition, ‘affords the ordinary readers the possibility of an artistic perception, but produces neither the need nor the competence to effect a scientific analysis’ (Dialogues, pp. 116ff.). Secondo Jakobson, una poesia, come anche una composizione musicale, «dà la possibilità ai lettori comuni di avere una percezione artistica ma non produce né il bisogno né la competenza per eseguire un’analisi scientifica.»
In post-war structuralism, this epistemological principle was reinforced by the mathematical theory of communication (see Cherry, Communication, pp. 89ff.). Nello strutturalismo del dopoguerra, questo principio epistemologico fu rinforzato dalla teoria matematica della comunicazione (vedi Cherry 1957:89 e seguenti).
But the Prague School scholars were aware that a student of human communication is more than an engineer of signals, because he has to deal with semantic and cultural phenomena; his epistemic position is not fixed but mobile, depending on the character and aim of his inquiry. Ma gli studiosi della Scuola di Praga erano consapevoli che uno studioso di comunicazione umana fosse qualcosa di più che un semplice ingegnere dei segnali, perché ha a che fare con fenomeni semantici e culturali; la sua posizione epistemica non è immutabile ma mutevole, perché questa dipende dal carattere e dallo scopo della sua indagine.
In a ‘preliminary stage’ he can assume the posture of ‘the most detached and external onlooker’, of a ‘cryptanalyst’; but this stage leads to an ‘internal approach’ to the language studied, when the observer assumes the role of ‘a potential or actual partner in the exchange of verbal messages among the members of the speech community, a passive or even active fellow member of that community’ (Jakobson, ‘Linguistics and communication’, SW, III, p.574). In uno «stadio preliminare» può assumere la condizione «dello spettatore più distaccato ed esterno»  di un «criptoanalista»; ma questo stadio porta a «un approccio interno» alla lingua studiata, nel momento in cui l’osservatore assume il ruolo di «un partner potenziale o effettivo nello scambio di messaggi verbali tra i componenti di una comunità linguistica, un individuo passivo o attivo di quella comunità» (Jakobson 1961:III:574).
This mobility gives the student of human communication an efficient epistemic versatility: as cryptanalyst he proceeds ‘from text to code’, but as observer-participant he is capable of understanding ‘the text through the code’(Jakobson, ‘Zeichen’, SW, II, p. 277). Questa mobilità dà allo studioso di comunicazione umana una efficace versatilità epistemica: come criptoanalista procede «dal testo al codice», ma come osservatore-partecipante è in grado di capire «il testo attraverso il codice» (Jakobson 1962:II:277).
These epistemic postures satisfy the diverse needs of the literary theorist without confusing practical literary activities (such as writing and reading) with cognitive activities aiming at theoretical understanding. Queste posizioni epistemiche soddisfano i diversi bisogni dei teorici letterari senza confondere le attività letterarie pratiche (come la scrittura e la lettura) con le attività cognitive che mirano alla comprensione teorica.

2.4 Specificity of literary communication

2.4 Specificità della comunicazione letteraria

The post-positivistic paradigm which was detected (above) in Prague School epistemology was equally decisive for the formulation of its theoretical tenets regarding the nature of literature. Il paradigma postpositivista che fu scoperto (sopra) nell’epistemologia della Scuola di Praga fu altrettanto decisivo per la formulazione dei suoi principi teorici riguardanti la natura della letteratura.
Prague School scholars outlined a comprehensive theory of literature within general semiotics and semiotic aesthetics. Gli studiosi della Scuola di Praga delinearono un’esauriente teoria sulla letteratura nell’ambito della semiotica generale e l’estetica semiotica
The semiotic impulse was perceived primarily as a radical contrast to traditional literary study: ‘Without a semiotic orientation the theoretician of art will always be inclined to regard the work of art as a purely formal construction, or as a direct image of the author’s psychic or even physiological dispositions or of the particular reality expressed by the work, or, perhaps, as a reflection of the ideological, economic, social and cultural situation of a certain milieu’ (Mukařovský, ‘L’Art’, Studie z estetiky, p. 87; Structure, p.87). L’impulso semiotico fu percepito principalmente come un contrasto radicale con gli studi letterari tradizionali: «senza un orientamento semiotico i teorici dell’arte saranno sempre inclini a considerare un testo artistico come un costrutto puramente formale, o come un’immagine diretta delle disposizioni psichiche o addirittura fisiologiche dell’autore o della particolare realtà espressa dall’opera o magari come un riflesso della situazione ideologica, economica, sociale e culturale di un certo contesto» (Mukařovský 1936:87; Mukařovský 1936:87).
Semiotic aesthetics is a negation of all forms of determinism and stands in contrast to established views of art, specifically to the formalist, the expressive, the mimetic and the sociological conceptions. L’estetica semiotica è una negazione di tutte le forme di determinismo ed è in contrasto con le consolidate visioni dell’arte, in particolare con le concezionisu formalista, espressiva, mimetica e sociologica.
It is well known that a powerful inspiration for twentieth-century semiotics of literature came from Saussure’s linguistics. È risaputo che la semiotica letteraria del novecento trasse grande ispirazione dalla linguistica di Saussure.
However, the Prague School did not subsume literature and other forms of art under the linguistic model; aesthetics was linked to general semiotics directly rather than through linguistic mediation (see also chapter 4). Comunque la Scuola di Praga non sussunse la letteratura e altre forme d’arte sotto il modello linguistico; l’estetica era collegata alla semiotica generale in modo diretto e non attraverso la mediazione della lingua (vedi anche capitolo 4).
All forms of art – literature, visual arts, music, theatre, cinema, architecture, folk  art, etc. – constitute the realm of aesthetic signs, but they are substantially different in their material bases, modes of signification and social channels of communication. Tutte le forme d’arte – letteratura, arte visiva, musica, teatro, cinema, architettura, arte folklorica eccetera – costituiscono il campo dei segni estetici, ma sono sostanzialmente differenti nelle loro basi materiali, nelle modalità di significazione e nei canali sociali di comunicazione.
Language, literature, art are specific systems within the general system of human culture and their semiotic study requires models and methods specific and appropriate for each system. La lingua, la letteratura, l’arte sono sistemi specifici all’interno del sistema generale della cultura umana, e il loro studio semiotico richiede modelli e metodi specifici e appropriati per ogni sistema.
Central to Prague School semiotics of literature is the idea of literature as a form of communication. Nella semiotica letteraria della Scuola di Praga l’idea della letteratura come forma di comunicazione è centrale.
Going back at least to romantic poetics, the idea postulates the existence of specific features in the production, structure and reception of the poetic ‘message’ (text). Risalendo almeno alla poetica romantica, l’idea postula l’esistenza di caratteristiche specifiche nella produzione, struttura e ricezione del «messaggio» (testo) poetico.
The Prague School scholars found a stimulating theoretical framework in the work of Karl Bühler (particularly in his Sprachtheorie). Gli studiosi della Scuola di Praga trovarono un impianto teorico stimolante nell’opera di Karl Bühler (in particolare nel suo Sprachtheorie).
His ‘Organonmodel’ identified three fundamental factors involved in every speech event: sender, receiver and referent (the ‘objects’ or ‘facts’ talked about). Il suo «Organonmodel» identificava tre fattori fondamentali coinvolti in ogni discorso: mittente, ricevente e referente (gli «oggetti» e i «fatti» di cui si parla).
From this model Bühler derived three basic functions of language: the expressive function (Ausdruck) orients the speech event towards the sender, the conative function (Appel) towards the receiver and the referential function (Darstellung) towards the referent[8]. Da questo modello Bühler ricavò tre funzioni fondamentali della lingua: la funzione espressiva (Ausdruck) che orienta il discorso verso il mittente, la funzione conativa (Appel) che l’orienta verso il ricevente e la funzione referenziale (Darstellung) che l’orienta verso il referente.
While these functions are distinguished in theory, every speech event involves all three functions; they operate as a hierarchy, the dominant function determining the speech event’s character[9]. Sebbene queste funzioni siano distinte nella teoria, ogni discorso coinvolge tutte e tre le funzioni; queste operano gerarchicamente: la funzione dominante determina il carattere del discorso.
In Prague, Bühler’s functionalism was accepted and modified. A Praga, il funzionalismo di Bühler venne accettato e modificato.
Not surprisingly, the first modification was prompted by the need to account for literary (poetic) communication. Non sorprende che la prima modifica sia stata introdotta per spiegare la comunicazione letteraria (poetica).
Mukařovský noticed that the nature of poetic utterance requires activation of a fourth factor of human communication – ignored by Bühler – language (the linguistic sign) itself. Mukařovský notò che la natura dell’enunciato poetico richiede l’attivazione di un quarto fattore della comunicazione umana – ignorato da Bühler – la lingua (segno linguistico).
Consequently, the aesthetic  function is discovered and placed in opposition to all the others. Di conseguenza venne scoperta la funzione estetica e messa in opposizione a tutte le altre.
The aesthetic function, ‘nullifying any exterior aim, turns an instrument into an end’ (‘Estetika’, Kapitoly, I, p. 42) La funzione estetica «annullando qualunque scopo esteriore, trasforma uno strumento in un fine» (Mukařovsky 1940:I:42).
However, the ‘negativity’ of the aesthetic function vis-à-vis the other language functions becomes ‘a positive quality’ when we consider its ramifications for human existence and experience: ‘Aesthetic-phenomena make man again and again aware of the many-sidedness and diversity of reality’ (ibid.). Comunque la «negatività» della funzione estetica a confronto con le altre funzioni della lingua diventa una «qualità positiva» se consideriamo le sue ramificazioni per l’esistenza e l’esperienza umana: «i fenomeni estetici rendono l’uomo consapevole più e più volte della poliedricità e diversità della realtà» (Mukařovsky 1940:I:42).
For the scholars of the Prague School, aesthetic activities were functionally different from practical activities, but no less necessary for man’s existence (cf. Chvatik, ‘Strukturalismus’, p. 140; van der Eng, ‘Effectiveness’; Schmid, ‘Funktionsbegriff’, p. 461; Kalivoda, ‘Typologie’). Per gli studiosi della Scuola di Praga le attività estetiche erano funzionalmente diverse dalla attività pratiche, ma non meno necessarie per l’esistenza umana (vedi anche Chvatik 1981:140; van der Eng 1982; Schmid 1982:461; Kalivoda 1986)
The second stage in the development of Bühler’s model, Jakobson’s well-known schema of language communication (‘Linguistics’, SW, III, pp. 18-51), was formulated much later, but has its roots in Prague School functionalism. La seconda fase dello sviluppo del modello di Bühler, il famoso schema della comunicazione verbale di Jakobson (1960:III:18-51), venne formulato molto più tardi ma affonda le sue radici nel funzionalismo della Scuola di Praga.
Inspired by the mathematical theory of communication, Jakobson expands the factors of communication to six- ‘addresser’, ‘addressee’, ‘message’, ‘context’ (‘referent’), ‘contact’ (‘channel’), ‘code’ – and consequently distinguishes six language functions –‘emotive’, ‘conative’, ‘poetic’, ‘referential’, ‘phatic’ and ‘metalingual’. Ispirato dalla teoria matematica della comunicazione, Jakobson espande i fattori della comunicazione a sei – «mittente», «destinatario», «messaggio», «contesto» («referente»), «contatto» («canale»), «codice» – e di conseguenza distingue sei funzioni linguistiche – «emotiva», «conativa», «poetica», «referenziale», «fatica» e «metalinguistica».
As far as the poetic function is concerned, Jakobson took an important, but little noticed step by defining it as ‘the set [Einstellung] toward the MESSAGE  as such, focus on the message for its own sake’ (ibid., p. 25). Per quanto riguarda la funzione poetica, Jakobson fece un passo importante ma poco notato definendola «l’atteggiamento [Einstellung] verso il messaggio in quanto tale, il focus sul messaggio in sé e per sé» (1960:III:25).
This shift from Mukařovský’s focus on the ‘sign’ (language, ‘code’) to the focus on the ‘message’ (text) is indicative of the post-war conception of literature as text rather than as language. Questo spostamento dal focus sul «segno» (lingua, «codice») di Mukařovský, al focus sul «messaggio» (testo) è indicativo di come la letteratura nel dopoguerra sia concepita come un testo invece che come un linguaggio.
The popularity of the Bühlerian system of language functions probably explains why an alternative version of Prague School functional linguistics has gone almost unnoticed. La popolarità del sistema bühleriano delle funzioni linguistiche spiega probabilmente perché una versione alternativa della linguistica funzionale della Scuola di Praga sia passata quasi inosservata.
Its development was promoted by the interest of Prague scholars in the theory of standard (literary) language, stimulated by the polemic of 1932 (see above, History). Il suo sviluppo venne promosso dall’interesse degli studiosi di Praga per la teoria del linguaggio standard (letterario), stimolato dalla polemica del 1932 (vedi sopra, 2.2 Storia).
Its foremost representative, Bohuslav Havránek, observed that standard language as the primary tool of communication in modern society has to serve many specialized ‘social functions’ (‘Funkce’, Studie, p. 16), being used to express ‘the results of philosophical, scientific, political, legal and administrative thought’ (‘Úkoly’, Studie, p. 20). Il suo principale rappresentante Bohuslav Havránek osservò che la lingua standard in quanto strumento primario della comunicazione nella società moderna deve svolgere molte «funzioni sociali» specializzate (Havránek 1929:16), essendo usato per esprimere il «risultato del pensiero filosofico, scientifico, politico, legale e amministrativo» (Havránek 1932:20).
Obviously, Havránek’s term ‘social function’ is meant to designate the role of standard language in the various societal and, especially, cultural activities which are conducted with its aid. Ovviamente, il termine «funzione sociale» di Havránek è inteso a designare il ruolo della lingua standard nelle varie attività sociali e in particolare culturali che sono condotte con il suo aiuto.
However, no sociological model of these activities was suggested or invoked and this version of Prague School functional linguistics was therefore left without a theoretical base. Dato che non venne suggerito o evocato alcun modello sociologico di queste attività, questa versione della linguistica funzionale della Scuola di Praga rimase senza una base teorica.
In an ad hoc classification, Havránek suggested the following set of language functions and of the corresponding functional languages:a) function of everyday communication – conversational language;

b) technological function – technical language;

c) theoretical function – scientific language;

d) aesthetic function – poetic language.

(‘Ukoly’, Studie, p. 49; Garvin, Reader, p. 14)

In una classificazione ad hoc, Havránek propose i seguenti gruppi di funzioni del linguaggio e dei corrispondenti linguaggi funzionali:a)    Funzione della comunicazione quotidiana, linguaggio conversazionale;

b)    Funzione tecnologica-linguaggio tecnico

c)    Funzione teorica- linguaggio scientifico

d)    Funzione estetica – linguaggio poetico.

(Havránek 1932:49; Garvin 1964:14)

Although ‘aesthetic function’ and ‘poetic language’ appear in different company than in Mukařovský’s Bühlerian system, Havránek did not reinterpret these notions, but rather reiterated the contrast between poetic language and the languages with communicative function (conversational, technical, scientific) (ibid., p. 51; ibid., p. 15).[10] Sebbene la «funzione estetica» e il «linguaggio poetico» appaiano in un gruppo diverso rispetto al sistema Bühleriano di Mukařovský, Havránek non reinterpretò questi concetti ma piuttosto reiterò il contrasto tra linguaggio poetico e i linguaggi con funzioni comunicative (conversazionale, tecnico, scientifico) (Havránek 1932:51; Garvin 1964: 15).
Functional linguistics provide the contrastive frame necessary for defining the specific character of the aesthetic/poetic functioning of language. La linguistica funzionale fornisce il quadro contrastivo necessario per definire il carattere specifico del funzionamento estetico/poetico della lingua.
In his later work, Mukařovský dissociated the aesthetic function from the ‘object’ (language, text) and grounded it in the ‘subject’ (user). Nel suo successivo lavoro Mukařovský dissociò la funzione estetica dall’«oggetto» (lingua, testo) e la fondò sul «soggetto» (utente).
Function is now defined as ‘a mode of a subject’s self-realization vis-à-vis the external world’. La funzione è ora definita come «la modalità di realizzazione personale di un soggetto rispetto al mondo esterno.»
A new, ‘purely phenomenological’ typology of functions is suggested, distinguishing immediate (practical and theoretical) and semiotic (symbolic and aesthetic) functions (‘Misto’, Studie z estetiky, p.69; Structure, p. 40; cf. Vodička, ‘Integrity’, pp. 13ff.; Veltruský, ‘Mukařovský’, pp. 142-5). Si propone una nuova tipologia «puramente fenomenologica» di funzioni che distingue le funzioni immediate (pratiche e teoriche) da quelle semiotiche (simboliche ed estetiche) (Mukařovský 1942, Mukařovský 1966:69, Steiner 1978:40; vedi anche Vodička 1972:13 e seguenti; Veltruský1980/81:142-5).
The aesthetic function remains contrasted ‘to each individual function and to every set of individual functions’ (‘K problému’, Studie z estetiky, p. 200; Structure, p. 244), but its anchoring in the subject brings about a radical relativization of its domain. La funzione estetica rimane in contrasto con «ogni singola funzione e ogni gruppo di funzioni singole» (Mukařonvský 1937/38:200; Steiner 1978: 244), ma il suo ancorarsi al soggetto porta a una relativizzazione radicale del suo campo di applicazione.
The realm of aesthetic phenomena becomes essentially unstable, being continuously redesigned by fundamental functional shifts: ‘The aesthetic function immediately penetrates and enlarges proportionately wherever the other functions have weakened, withdrawn or shifted. Il campo dei fenomeni estetici diventa essenzialmente instabile, essendo continuamente ridefinito dai cambiamenti funzionali fondamentali: «la funzione estetica si diffonde immediatamente e si amplia in proporzione ovunque le altre funzioni si siano indebolite, ritirate o siano mutate.
Moreover, there is no object which could not become its bearer or, conversely, an object which necessarily has to be its bearer’ (ibid.). Inoltre non esiste oggetto che non possa diventare il suo portatore o al contrario oggetto che necessariamente debba esserne portatore» (Mukařovský 1937/38.).
This departure from Bühlerian functionalism manifests Mukařovský’s temporary engagement with phenomenological aesthetics in the late 1930s; simultaneously, we observe in his writings a shift from analytical metalanguage to florid but vague poetic metaphors. Questo allontanamento dal funzionalismo bühleriano rivela la temporanea adesione attiva di Mukařovský all’estetica fenomenologica alla fine degli anni trenta; allo stesso tempo osserviamo nei suoi scritti un passaggio dal metalinguaggio analitico alle metafore poetiche, ricche ma vaghe.
This episode confirms that Prague School doctrines were forged at the crossroads of several intellectual trends. L’episodio conferma che le dottrine della Scuola di Praga vennero forgiate al confine tra diverse tendenze intellettuali.
In their repeated attempts to define the specificity of literary communication, the Prague scholars explored three avenues: the linguistic, the sociological and the phenomenological. Nei suoi ripetuti tentativi di definire la specificità della comunicazione letteraria, la Scuola di Praga esplorò tre strade: quella linguistica, quella sociologica e quella fenomenologica.
While the similarities and differences in these approaches remained obscure at the time, we are now able to see that they represent the intellectual context in which the Prague School semiotics was born. Mentre a quel tempo, le similarità e le differenze di questi approcci rimanevano oscure, siamo ora in grado di vedere che rappresentano il contesto intellettuale nel quale nacque la semiotica della Scuola di Praga.

2.5 Literary structure

2.5 Struttura letteraria

In harmony with its structuralist epistemology (see above, p.37), Prague School poetics treated literary works as specific, poetic (aesthetic) structures. In armonia con la sua epistemologia strutturalista (vedi 2.3 L’epistemologia della Scuola di Praga), la poetica della Scuola di Praga considerava le opere letterari strutture poetiche (estetiche) specifiche.
What it achieved is a substantial development of the model of poetic structure[11]. Conseguì così uno sviluppo sostanziale del modello di struttura poetica.
Prague School structuralism favours a stratificational model of signifying structures. Lo strutturalismo della Scuola di Praga predilige un modello stratificazionale di strutture significative.
In its linguistic version, the model represents language as a structure consisting of several differentiated, but integrated, levels of entities (phonemic, morphonemic, morphemic, lexical, syntactic) (cf. Daneš, ‘Strata’). Nella sua versione linguistica, il modello rappresenta il linguaggio come una struttura composta da vari livelli di entità differenziate ma integrate (fonemico, morfofonemico, morfemico, lessicale, sintattico) (vedi anche Daneš 1971).
Similarly, the stratificational model of poetics conceives literary structure as a hierarchy of strata. In modo simile, il modello stratificazionale della poetica concepisce la struttura letteraria come una gerarchia di strati.
From the beginning, however, the stratificational model in poetics displayed two features which distinguished it considerably from its linguistic counterpart: a) the verbal strata (phonic and semantic) are complemented by the extralinguistic stratum of thematics (‘thematic structure’); b) the aesthetic opposition of ‘material’ and ‘form’ is superimposed on all the strata. Sin dall’inizio comunque, il modello stratificazionale mostrò, in poetica, due caratteristiche che lo distinguevano considerevolmente dal suo omologo linguistico: a) gli strati verbali (fonico e semantico) sono completati dallo strato extralinguistico della tematica («struttura tematica»); b) l’opposizione estetica tra «materiale» e «forma» è sovrapposta a tutti gli strati.
The independence of the thematic stratum from language was stated explicitly by Mukařovský: ‘we will not … try to reduce thematic and language elements to one concept, as has been done by some theoreticians who claim that in a literary work there are only language elements and no others’ (Máj, Kapitoly, III, p. 11). L’indipendenza dello strato tematico dalla lingua venne dichiarata esplicitamente da Mukařovský: «non […] cercheremo di ridurre elementi tematici e linguistici a un unico concetto, come è stato fatto da alcuni teorici i quali asseriscono che in un’opera letteraria ci siano solo elementi linguistici e non di altro tipo» (Mukařovský 1928:III:11).
But Mukařovský also emphasized the necessary link between the linguistic and the thematic strata: thematic entities of literature cannot be expressed otherwise but by verbal (linguistic) means. Ma Mukařovský sottolineò anche il collegamento necessario tra gli strati linguistico e tematico: le entità tematiche della letteratura non possono essere espresse se non con mezzi verbali (linguistici).
Themes and language are ‘material’ of literature. I temi e la lingua sono il «materiale» della letteratura.
‘Material’ is transformed into an aesthetically effective structure by the form, which in Mukařovský’s innovative formulation is a dynamic force of two jointly operating procedures: deformation and organisation. Il «materiale» viene trasformato in una struttura esteticamente efficace dalla forma, che nell’innovativa formulazione di Mukařovský è una forza dinamica di due procedure che operano insieme: deformazione e organizzazione.
Deformation, ‘a conspicuous, even violent, disturbance of the original shape of the material’ (ibid.) is a necessary, but not sufficient condition of aesthetic structuring; deformations can also be found in emotional or pathological discourse where they have no aesthetic function. La deformazione, «un evidente, persino violento, disturbo della forma originaria del materiale» (Mukařovský 1928:III:11) è una condizione necessaria, ma non sufficiente, della strutturazione estetica; le deformazioni si possono anche trovare in un discorso emotivo o patologico dove non hanno alcuna funzione estetica.
The model of poetic structure requires the coupling of deformation with organisation, achieved in two ways: a) deformation is implemented in a systematic way which gives rise to ‘formal devices’; b) formal devices stand in mutual relationships which establish their ‘correspondences’. Il modello della struttura poetica richiede l’abbinamento della deformazione e dell’organizzazione, ottenuto in due modi: a) la deformazione è effettuata in modo sistematico che dà origine a «artifici formali»; b) gli artifici formali sono in relazioni reciproche che stabiliscono le loro «corrispondenze».
This reconstruction of Mukařovský’s structural model puts to rest the often-repeated claim that Prague poetics was based on nothing more than on the concept of ‘deviation’[12]. La ricostruzione del modello strutturale di Mukařovský mette a tacere l’asserzione spesso ribadita secondo cui la poetica di Praga sarebbe stata basata su niente più che il concetto di «deviazione».
Furthermore, the limited role of linguistics in the poetological model becomes apparent: its domain is the ‘material’ of language elements, which cannot be described without precise linguistic concepts and categories; but the core of the Prague School model – the aesthetic structuring – requires a special, poetological conceptual system. Inoltre, diventa chiaro il ruolo limitato della linguistica nel modello poetologico: il suo dominio è il «materiale» degli elementi linguistici, che non può essere descritto senza concetti e categorie linguistiche precisi; ma il nucleo del modello della Scuola di Praga – la strutturazione estetica – richiede un sistema concettuale poetologico speciale.
The semiotic aesthetics which Mukařovský developed in the 1930s brought substantial modifications to his original model. L’estetica semiotica sviluppata da Mukařovský negli anni trenta apportò modifiche sostanziali al suo modello originale.
The difference between ‘material’ and ‘form’ is relativized when all constituents of the poetic structure are assigned ‘meaning-creating value’: ‘All constituents traditionally called formal are… vehicles of meaning, partial signs in a work of art. La differenza tra «materiale» e «forma» è relativizzata quando a tutti i costituenti della struttura poetica viene assegnato «un valore generatore di significato»: «tutti i costituenti tradizionalmente chiamati formali sono […] veicoli di significato, segni parziali in un testo artistico.
Conversely, the constituents called ‘thematic’ are by their very nature mere signs which acquire full meaning only in the context of the work of art’ (‘O strukturalismu’ Studie z estetiky, pp. 112ff.; Structure, pp. 10ff.) D’altra parte, i costituenti chiamati «tematici» sono per loro natura semplici segni che acquisiscono pieno significato unicamente nel contesto di un testo artistico» (Mukařovský 1946:112 e seguenti; Steiner 1982:10 e seguenti).
In a semiotic perspective a literary work is a totally semanticized structure. In una prospettiva semiotica un’opera letteraria è una struttura totalmente semanticizzata.
The semanticization affects not only the ‘vertical’ (stratificational), but also the ‘horizontal’ (linear) dimension of the model. La semanticizzazione riguarda non solo la dimensione «verticale» (stratificazionale) del modello ma anche quella «orizzontale» (lineare).
The poetic text is not a uni-directional temporal progression, but a process of semantic accumulation, a bi-directional ‘growth’ of sense within the sentence and beyond (‘O jazyce’, Kapitoly, I, pp. 113-21; Word, pp. 46-55). Il testo poetico non è una progressione temporale unidirezionale, ma un processo di accumulazione semantica, una «crescita» bidirezionale del senso nella frase e oltre (Mukařovský 1940:I:113-21; Steiner 1977:46-55).
Semantic accumulation, retraced by the reader, generates the coherence and totality of the poetic text: ‘every new partial sign which the receiver apprehends during the process of reception… not only associates with those which have penetrated previously into the receiver’s consciousness, but also changes to a greater or lesser extent the sense of everything that has preceded. L’accumulazione semantica, ricostruita dal lettore, genera la coerenza e la totalità del testo poetico: «ogni nuovo segno parziale che il ricevente percepisce durante il processo di ricezione […] non solo si associa con quelli che sono penetrati in precedenza nella coscienza del ricevente, ma anche cambia in misura più o meno ampia il senso di tutto ciò che ha preceduto.
And, conversely, everything that has preceded affects the meaning of each newly apprehended partial sign’ (‘O strukturalismu’, Studie z estetiky, p. 112; Structure, pp. 8ff.; cf. ‘O jazyce’, Kapitoly, I, pp. 113ff; Word, p. 47). E d’altra parte, tutto ciò che ha preceduto influenza il significato di ogni segno parziale successivamente percepito» (Mukařovský 1946, Mukařovský 1966:112; Steiner 1978:8 e seguenti; vedi anche Mukařovský 1940:I:113 e seguenti; Steiner 1977:47).
Mukařovský’s semanticization of the poetic structure and his conception of poetic meaning as a dynamic, bi-directional process of accumulation is surely a historic achievement in structural poetics, as has often been noted (Grygar, ‘Mehredeutigkeit’ , pp. 31ff.; Červenka, ‘Contexts’; Slawiński, Literatur, p. 208; Steiner and Steiner, ‘Axes’; Veltruský, ‘Mukařovský’, pp. 125-7; Bojtár, Structuralim, pp. 56ff.; Volek, Metaestructuralismo, p. 240). La semanticizzazione della struttura poetica di Mukařovský e la sua concezione del «significato poetico» come processo di accumulazione dinamico e bidirezionale è sicuramente, come è stato spesso notato, una conquista storica della poetica strutturalista (Grygar 1972:31 e seguenti; Červenka 1972; Slawiński 1975:208; Steiner e Steiner 1979; Veltruský 1980/81:125-7; Bojtár 1985:56 e seguenti; Volek 1985:240).
No less significant is Vodička’s contribution to the theory and analytical application of the structural model. Non è meno significativo il contributo di Vodička alla teoria e all’applicazione analitica del modello strutturalista.
His Beginnings of Modern Czech Artistic Prose is not only a historical study of a crucial period in the evolution of Czech literature, but also a theoretical pinnacle of Prague School structural narratology[13]. Il suo Počatky krásné prózy novocěeské non è solo uno studio storico di un periodo cruciale per l’evoluzione della letteratura ceca, ma anche il culmine teorico della narratologia strutturalista della Scuola di Praga.
Vodička modifies Mukařovský’s stratificational model by fusing its phonic and semantic levels onto one – the verbal (linguistic) level. Vodička altera il modello stratificazionale di Mukařovský fondendo i suoi livelli fonico e semantico in un unico livello, quello verbale (linguistico).
Narrative structure thus becomes a correlation of a thematic and a verbal level. La struttura narrativa diventa così una correlazione del livello tematico e di quello verbale.
Vodička’s project of a structural thematics is centered around three concepts: motif, thematic plane and world. Il progetto della tematica strutturalista di Vodička è incentrato su tre concetti: motivo, piano tematico e mondo.
The term ‘motif’ – used in the sense of Tomashevsky (Teorija) and Mukařovský (Máj) – designates the elementary unit of narrative content. Il termine «motivo» usato come lo intende Tomaševskij (Teorija) e Mukařovský (Máj) designa l’unità elementare del contenuto narrativo.
A thematic plane is a compositionally homogeneous set of motifs which are not contiguous, but rather distributed through the entire work. Un piano tematico è un gruppo compositivamente omogeneo di motivi, non contigui, ma al contrario distribuiti nell’intera opera.
The basic thematic planes – story, characters, outer world – can be found under various names in traditional narratology. I piani tematici di base – storia, personaggi, mondo esterno – nella narratologia tradizionale si ritrovano sotto vari nomi.
Structural thematics represents thematic planes as macrostructural integers of motifs, and thus opens the way to studying stories, characters and setting as semantic categories rather than as mimetic representations. La tematica strutturale rappresenta i piani tematici come insiemi macrostrutturali di motivi, e così apre il cammino allo studio di storie, personaggi e ambientazione come categorie semantiche piuttosto che come rappresentazioni mimetiche.
Vodička did not develop theoretically the highest level of his thematics and relied on ordinary language for the meaning of such terms as ‘fictional world’, ‘novelistic world’, ‘ideal world’, etc. Vodička non sviluppò il livello più alto della sua tematica dal punto di vista teorico e si affidò alla lingua ordinaria per il significato di parole come «mondo finzionale», «mondo romanzesco», «mondo ideale» eccetera.
Vodička devoted so much attention to thematics because he considered it a channel through which reality enters literature and exercises pressure on its evolution (see below, pp. 54-6). Vodička dedicò così tanta attenzione alla tematica, perché la considerava un canale attraverso il quale la realtà diventa parte della letteratura ed esercita pressione sulla sua evoluzione (vedi 2.11 Storia della struttura).
On the other side, the pivotal place of thematics in the literary structure is ensured by its bond with the verbal stratum. D’altra parte, l’importante ruolo della tematica nella struttura letteraria è assicurato dal suo legame con lo strato verbale.
Vodička’s theme is not a self-contained ‘deep structure’ more or less independent of the ‘surface structure’ of its expression; rather, it is shaped and modified by forms of expression, by the micro – and macro – devices of narrative discourse. Il tema di Vodička non è una «struttura profonda» autonoma, più o meno indipendente dalla «struttura superficiale» della sua espressione; ma piuttosto è plasmato e modificato dalle forme di espressione, da microartifici e macroartifici del discorso narrativo.
Vodička’s interest is focused on discourse devices which emerge along three axes: a) narration-characterization-description; b) narrator’s speech-characters’ speech; c) monologue-dialogue. L’interesse di Vodička si focalizza su artifici discorsuali che si sviluppano in tre direzioni: a) narrazione-caratterizzazione-descrizione; b) discorso del narratore-discorso dei personaggi; c) monologo-dialogo.
Inspired by Mukařovský’s theory of the monologue-dialogue opposition (‘Dialog’, Kapitoly, I, pp. 129-53; Word, pp. 81-112), Vodička initiated a systematic study of narrative modes and of the diverse forms of characters’ speech[14]. Ispirato dalla teoria dell’opposizione monologo-dialogo di Mukařovský (Mukařovský 1940:I:129-53; Steiner 1977:81-112), Vodička iniziò uno studio sistematico delle modalità narrative e delle diverse forme di discorso dei personaggi.

2.6 Semiotics of the subject and of the social context of literature; literary norms

2.6 Semiotica del soggetto e del contesto sociale della letteratura; norme letterarie

Semiotic poetics as a theory of literary communication is necessarily concerned with the pragmatic factors involved in literary activity – with the communicating subjects (sender and receiver) and with the social conditions in which the activity takes place. La poetica semiotica in quanto teoria della comunicazione letteraria si interessa necessariamente ai fattori pragmatici coinvolti nell’attività letteraria – ai soggetti comunicanti (mittente e ricevente) e alle condizioni sociali in cui l’attività ha luogo.
The semiotics of the literary subject was formulated in Prague in a critical exchange with expressive and phenomenological theories of literature. La semiotica del soggetto letterario venne formulata a Praga tramite uno scambio critico con teorie espressive e fenomenologiche della letteratura.
The most resolute criticism was directed against the determinism of expressive theories – against the claim that ‘poetic invention’ is a reflex of the author’s ‘psychic reality’. La critica più accanita era diretta al determinismo delle teorie espressive – contro l’affermazione secondo cui «l’invenzione poetica» è un riflesso «della realtà psichica» dell’autore.
 In Jakobson’s succinct statement, expressive explanations are ‘equations with two unknowns’ (‘Co je’, Language, p.371). Nella concisa asserzione di Jakobson, le spiegazioni espressive sono «equazioni con due incognite» (Jakobson 1934, Jakobson 1987:371).
Jakobson went beyond epistemological to substantive criticism when he challenged the uni-directionality of psychological determinism. Jakobson andò oltre la critica epistemologica e passò a quella concreta quando sfidò l’unidirezionalità del determinismo psicologico.
Using the case of the Czech Romantic poet Mácha, he demonstrated that the poet’s ‘life’ and his ‘work’ are mutually substitutable. Usando il caso del poeta romantico ceco Mácha, dimostrò che la «vita» del poeta e il suo «lavoro» sono reciprocamente intercambiabili.
A comparison of Mácha’s intimate diary, a private text, with his famous poem May, a public text, reveals that both texts record a set of possible events caused by a lover’s passionate jealousy: murder, suicide or resignation. Il confronto tra il diario intimo di Mácha, un testo privato, e la sua famosa poesia May, un testo pubblico, mostra come entrambi i testi registrino una serie di eventi possibili causati dalla gelosia travolgente di un innamorato: assassinio, suicidio, rassegnazione.
Each of these events, Jakobson maintains, ‘was experienced by the poet; all are equally genuine, regardless of which of the given possibilities were realized in the poet’s private life and which in his oeuvre’ (ibid., p. 374).[15] Ciascuno di questi eventi, afferma Jakobson «venne vissuto dal poeta; tutti sono ugualmente autentici, a prescindere da quale delle possibilità date fu realizzata nella vita privata del poeta e quale nella sua oeuvre» (Jakobson 1987:374).
Mukařovský criticized psychological determinism on similar grounds: ‘the relationship between the poet’s work and his life does not have the character of a unilateral dependency but of a correlation’ (‘Strukturalismus’, Kapitoly, I, p. 27; Prague School, p. 81). Mukařovský criticò il determinismo psicologico su basi simili: «la relazione tra il lavoro del poeta e la sua vita non ha il carattere di una dipendenza unilaterale ma di una correlazione» (Mukařovský 1939/40 Mukařovský 1948:I:27; Steiner 1982:81).
He proceeded to articulate a semiotic view of the creative subject which can be summarized in three thesis: a) The literary work signifies the poet’s life in different possible ways, direct as well as figurative (‘Básník’, Studie z estetiky, p. 144; Word, p. 143). Procedette con l’articolazione della visione semiotica del soggetto creativo che può essere riassunta in tre tesi: a) l’opera letteraria significa la vita del poeta in diversi modi possibili, sia diretti che figuràti (Mukařovský 1941, Mukařovský 1966:144; Steiner 1977:143).
For semiotic poetics the relationship between the work and its creator is not an a priori constant but an empirical variable[16]. Per la poetica semiotica la relazione tra l’opera e il suo autore non è una costante a priori ma una variabile empirica.
b) Intersubjective (‘objective’) factors are necessarily present in literary communication since the literary work serves ‘as an intermediary between its author and a collectivity’ (‘L’art’, Studie z estetiky, p. 85; structure, p. 82). b) Fattori intersoggetivi («oggettivi») sono necessariamente presenti nella comunicazione letteraria visto che l’opera letteraria fa «da intermediario tra il suo autore e la collettività» (Mukařovský 1936, Mukařovský 1966:85; Steiner 1978:82).
Historically changing objective factors, particularly literary norms, constrain individual creative acts not only by contributing to the work’s theme, genre, style, etc., but even by regulating the admission of particular aspects of the subject into the process of creation: ‘there exist, for example, certain periods which put emphasis on direct sense perception, while others emphasize ‘memory’, i. e. the stock of perceptions’ (‘Nové německé dílo, Studie z poetiky, p. 345). Fattori obiettivi che cambiano storicamente, in particolare le norme letterarie, limitano gli atti creativi individuali, non solo contribuendo a tema, genere, stile eccetera dell’opera, ma anche regolando l’ammissione di aspetti particolari del soggetto nel processo di creazione: «ci sono, per esempio, alcuni periodi che enfatizzano la percezione sensoriale diretta, mentre altri enfatizzano la «memoria» cioè l’insieme delle percezioni» (Mukařovský 1939, Mukařovský 1982:345).
c) The creative subject is in dialectical tension with the intersubjective norms, challenging their authority by constant violations. c) il soggetto creativo è in tensione dialettica con le norme intersoggettive, poiché sfida la loro autorità con violazioni continue.
More importantly, the subject is responsible for the uniqueness of the literary work by creating it according to a global ‘constructional principle’ which operates ‘in every segment of the work, even the most minute, and which results in a unified and unifying systematization of all the constituents’ (‘Genetika’, Kapitoly, III, p. 239). Ma soprattutto, il soggetto è responsabile dell’unicità dell’opera letteraria poiché la crea in conformità con un «principio costruttivo» globale che opera «in ogni sezione dell’opera, anche la più minuscola, e che determina un sistematizzazione unificata e unificante di tutti i costituenti» (Mukařovský 1938, Mukařovský 1948:III:239).
It is not by chance that Mukařovský baptized this individualizing factor of poetic creativity semantic gesture. Non è per caso che Mukařovský battezzò questo fattore individualizzante della creatività poetica gesto semantico.
In its formation and sense this term synthesizes the semanticization of the poetic structure (see above, pp. 42-5) and the personal character of the creative act, thus bringing Prague School poetics to its culmination. Nella sua formazione e nel suo senso questo termine sintetizza la semantizzazione della struttura poetica (vedi 2.5 Struttura letteraria) e il carattere personale dell’atto creativo, portando così la poetica della Scuola di Praga al suo apice.
By making the poet’s characteristic ‘gesture’ responsible for the semantic regularities of the literary work, Mukařovský promotes the subject to the highest factor of aesthetic structuration[17]. Rendendo “il gesto” caratteristico del poeta responsabile delle regolarità semantiche dell’opera letteraria, Mukařovský promuove il soggetto al grado di più alto fattore della strutturazione estetica.
Turning to the theory of the receiving subject’s activity, we find its most lucid formulation in the context of a critique of the phenomenological concept of Verstehen (‘understanding’).[18] Passando alla teoria dell’attività del soggetto ricevente, troviamo la sua formulazione più chiara nel contesto di una critica del concetto fenomenologico di Verstehen («comprensione»).
Mukařovský accepts the self-evident fact that the mental states of different receivers of one and the same literary work are not identical. Mukařovský accetta il fatto evidente che gli stati mentali dei diversi riceventi di una stessa opera letteraria non siano identici.
However, structural theory shifts the focus of the theory of reception by recognizing that literary study cannot investigate the mental state of each recipient , but ‘the conditions of the induction of this state, conditions which are given equally for all receiving individuals and are objectively identifiable in the structure of the work’ (‘Nové německé dílo’, Studie z poetiky, p.343). Comunque la teoria strutturale sposta il focus della teoria della ricezione riconoscendo che lo studio letterario non può indagare lo stato mentale di ogni ricevente, ma può indagare «le condizioni che inducono questo stato, condizioni che sono date allo stesso modo a ogni individuo ricevente e sono oggettivamente identificabili nella struttura dell’opera» (Mukařovský 1939, Mukařovský 1982:343).
Thanks to the supra-individual status of the literary work the idiosyncratic mental states of the individual receivers ‘always have something in common’ and, therefore, ‘a generally valid judgement about the value and the sense of a work is possible’ (‘K pojmosloví’, Kapitoly, I, p.37). Grazie allo status sovraindividuale dell’opera letteraria gli stati mentali idiosincratici dei singoli riceventi «hanno sempre qualcosa in comune» e dunque, «è possibile un giudizio generalmente valido sul valore e sul senso dell’opera» (Mukařovský 1947, Mukařovský 1948:37).
The existence of objective factors in the creation and reception of literary works leads Mukařovský to develop a conceptual differentiation between concrete psycho-physical individual and ‘personality’ (‘osobnost’). L’esistenza di fattori oggettivi nella creazione e ricezione delle opere letterarie porta Mukařovský a sviluppare una differenziazione concettuale tra l’individuo psicofisico concreto e la «personalità» («osobnost»).
The concept of personality incorporates the objective constraints imposed on the social interaction called ‘literature’; without such constraints, the production, transmission and reception of literary ‘messages’ would be impossible. Il concetto di personalità incorpora i vincoli oggettivi imposti all’interazione sociale chiamata «letteratura»; senza questi vincoli, la produzione, trasmissione e ricezione del «messaggio» letterario sarebbe impossibile.
Far from suppressing the subject, Prague School structuralism envisaged a theory which finds a balance between individual and supra-individual factors in literary communication: ‘The conception of the work of art as a sign offers for aesthetics a deep insight into the problems of the role of personality in art precisely because it liberates the artwork from its unequivocal dependence on the individuality of its author’ (‘Strukturalismus’, Kapitoly, I, p. 19; Prague School, p. 74). Lungi dal reprimere il soggetto, lo strutturalismo della Scuola di Praga contemplava una teoria che trova un equilibrio tra fattori individuali e sovraindividuali nella comunicazione letteraria: «la concezione dell’opera d’arte come segno offre all’estetica una comprensione profonda dei problemi del ruolo della personalità nell’arte, proprio perché libera l’opera d’arte dalla sua dipendenza inequivoca dall’individualità del suo autore» (Mukařovský 1939/40 Mukařovský 1948:I:19; Steiner 1929-1946:74).
The concept of ‘personality’ can be applied not only to individual producers and receivers, but also to ‘collectives’ engaged in literary communication; thus it connects the semiotics of the subject and that of the social context. Il concetto di «personalità» può essere applicato non solo ai singoli produttori e riceventi, ma anche a «collettivi» [gruppi] impegnati nella comunicazione letteraria; così connette la semiotica del soggetto e quella del contesto sociale.
On the production side, collective personalities are artistic or literary groups, schools, generations; on the reception side – the public. Dal punto di vista della produzione, le personalità collettive sono gruppi, scuole, generazioni, artistiche o letterarie; dal punto di vista della ricezione è il pubblico.
The semiotics of the collective personality is formulated in contrast to sociological determinism. La semiotica della personalità collettiva è formulata in contrasto con il determinismo sociologico.
Mukařovský emphatically denied the possibility of deriving characteristics of art from societal conditions: ‘if we had no other evidence, we could not unequivocally derive from a certain state of a society the art corresponding to that society, just as we could not form a picture of a society solely on the basis of the art which it produced or accepted as its own’. Mukařovský negò recisamente la possibilità di derivare le caratteristiche dell’arte dalle condizioni della società: «se non avessimo altre prove, non potremmo ricavare inequivocabilmente da un certo stato di una società, l’arte corrispondente, proprio come non potremmo crearci un quadro della società solamente sulla base dell’arte che produce o accetta come propria».
Postulating the work of art as ‘a sign with respect to society no less than with regard to the individual’, Mukařovský reasserted a basic thesis of semiotic poetics: the relationship between literature and society is not uniform and constant, but ‘empirically highly variable’. Supponendo che l’opera d’arte sia «un segno per la società tanto quanto per l’individuo», Mukařovský riaffermò una tesi fondamentale della poetica semiotica: la relazione tra la letteratura e la società non è uniforme e costante, ma «empiricamente molto variabile».
Mapping out the range of possibilities, he sets them between two poles – ‘consensus between art and society’ and ‘mutual separation’. Facendo uno schema della gamma di possibilità, le ha collocate tra due estremi – «consenso tra arte e società» e «separazione reciproca».
Regulated and tendentious art is situated on the first pole, while l’art-pour-l’art trends and poètes maudits are positioned on the pole of separation (ibid., pp. 19-21; ibid., pp. 74ff.). L’arte regolata e tendenziosa è collocata al primo estremo, mentre l’orientamento dell’art pour l’art e i poètes maudits sono collocati all’estremo della separazione (Mukařovský 1948:I:19-21; Steiner 1929-1946:74 e seguenti).
Mukařovský devoted considerable attention to the role of the public in the reception of art and literature, pointing out that the public mediates between art and society. Mukařovský dedicò un’attenzione particolare al ruolo del pubblico nella ricezione dell’arte e della letteratura, mettendo in risalto che il pubblico fa da mediatore tra arte e società.
It can perform this mediating role because its members are capable of ‘perceiving certain kinds of artistic signs (for example, musical, poetic, etc.) adequately’. Può eseguire questo ruolo di mediatore perché i suoi componenti sono in grado di «percepire certi tipi di segni artistici (per esempio, musicali, poetici eccetera) in modo adeguato».
A necessary condition for an individual to become a part of the public is ‘some special education’ (ibid., p. 22; ibid., p. 76). Una condizione necessaria perché un individuo diventi parte del pubblico è «una qualche educazione speciale» (Mukařovský 1948:I:22; Steiner 1929-1946:76).
Thanks to this education, the public’s reception of artworks is an active involvement and, as such, exercises a strong influence on the development of art. Grazie a questa educazione, la ricezione delle opere d’arte da parte del pubblico è un coinvolgimento attivo e, in quanto tale, influenza fortemente lo sviluppo dell’arte.
On the other hand, art shapes the public’s taste, creating, in a sense, its own public. D’altro canto, l’arte plasma il gusto del pubblico creando, in un certo senso, un pubblico suo.
A semiotic theory of literature puts much emphasis on the crucial objective factors of production and reception, the aesthetic norms. Una teoria semiotica della letteratura pone molta enfasi sui fattori oggettivi cruciali della produzione e della ricezione: le norme estetiche.
Mukařovský introduced this concept by analogy with Saussure’s langue: ‘The essence of art is not the individual work of art; rather, it is the ensemble of artistic habits and norms, the artistic structure which is of a supra-individual social character. Mukařovský introdusse questo concetto per analogia con la langue di Saussure: «l’essenza dell’arte non è la singola opera d’arte; ma piuttosto è l’insieme delle abitudini e delle norme artistiche, la struttura artistica che ha carattere sociale sovraindividuale.
A particular work of art relates to this supra-individual structure as an individual verbal discourse relates to the system of language, which is also common property and transcends every actual language user’ (‘K pojmoslovi’, I, p.32). Una certa opera d’arte si collega a questa struttura sovraindividuale come un singolo discorso verbale si collega al sistema della lingua, che è anche pubblico dominio e trascende ogni utente effettivo della lingua» (Mukařovský 1947:I:32).
Mukařovský recognized, however, the essential difference between linguistic and literary norms. Mukařovský riconobbe, comunque, la differenza essenziale tra norme linguistiche e letterarie.
First, literary norms are much less rigid than their linguistic counterparts; consequently, literary norms are not respected, but constantly violated in the practice of literary communication: ‘A work which would fully correspond to the accepted norm would be standardized, repetitive; only the works of epigones approach this limit, whereas a powerful work of art is non-repetitive’ (‘Estetická funkce’, Studie z estetiky, p.32; Aesthetic Function, p. 37). Per prima cosa le norme letterarie sono molto meno rigide dei loro omologhi linguistici; di conseguenza, nella comunicazione letteraria, le norme letterarie non vengono rispettate, ma al contrario sono costantemente violate: «Un’opera che corrisponde appieno alla norma accettata sarebbe standardizzata, ripetitiva; solo le opere degli epigoni affrontano questo limite, mentre un’opera d’arte ben riuscita non è ripetitiva» (Mukařovský 1936, Mukařovský 1966:32; Mukařovský 1970:37).
Literary norms thus function as the supra-individual background of literary creativity. Le norme letterarie fungono così da sfondo sovraindividuale della creatività letteraria.
Not surprisingly, historically minded theorists of the Prague School identified literary norms with tradition: ‘Every work of art is part of a tradition (system of norms) without which it would be incomprehensible’ (Wellek, ‘Theory’, p. 182). Non è una sorpresa che i teorici della Scuola di Praga con una mentalità storica abbiano identificato le norme letterarie con la tradizione: «ogni opera d’arte fa parte di una tradizione (sistema di norme) senza la quale sarebbe incomprensibile» (Wellek 1969:182).
Vodička identifies norms with standards of a period (‘Literárni historie’, Struktura, p. 37) and derives the dynamics of literature from a tension that arises between these standards and the poets’ need for innovation (see below, pp. 54-6). Vodička identifica le norme con gli standard di un periodo (Vodička 1942, Vodička 1969:37) e ricava la dinamica della letteratura da una tensione che emerge tra questi standard e il bisogno d’innovazione dei poeti (vedi sotto, 2.11 Storia della struttura).
Variability and bi-directionality of the relationship between art and society form the basis of the Prague School sociology of art and literature. La variabilità e la bidirezionalità della relazione tra arte e società crea le fondamenta della sociologia dell’arte e della letteratura della Scuola di Praga.
Its general model of societal activities, including artistic production, as a set of parallel, autonomous, but mutually related ‘series’ has been much discussed and criticized (see Striedter, ‘Einleitung’, pp. lii-lvii; Grygar, ‘Role’). Il suo modello generale delle attività sociali, inclusa la produzione artistica, considerato come insieme di «serie» parallele, autonome ma reciprocamente collegate, è stato molto discusso e criticato (vedi Striedter 1976:lii-lvii; Grygar 1978).
However provisional, the model closed the breach between the purely immanent theory of literary structures and pragmatic explanations, while firmly rejecting dogmatic determinism of all shades and provenances. Sebbene provvisorio, il modello pose fine alla rottura tra le teoria puramente immanente delle strutture letterarie e le spiegazioni pragmatiche, mentre respingeva con fermezza il determinismo dogmatico di ogni sfumatura e provenienza.

2.7 Poetic (fictional) reference

2.7 Referenza poetica (fizionale)

The relationship between the sign and the ‘world’ – the reference relation – is one of the basic problems of semiotics. La relazione tra il segno e il «mondo» – la relazione di referenza – è uno dei problemi essenziali della semiotica.
In Prague School linguistics, with its general Saussurean bent, the reference relation was kept in the background; its semantics was focused on the immanent nexus between signifiant and signifié. Nella linguistica della Scuola di Praga la relazione di referenza venne lasciata in secondo piano a causa della sua inclinazione generale verso Saussure; la sua semantica era concentrata sul nesso immanente tra signifiant e signifié.
In the domain of aesthetics and poetics, however, the problem of reference could not be ignored. Nel campo dell’estetica e della poetica, però, il problema della referenza non poteva essere ignorato.
The most interesting statements of the Prague School position were arrived at in the comparative typology of semiotic systems (Jakobson) and in the contrastive semantics of poetic and non-poetic language (Mukařovský). Le dichiarazioni più interessanti della posizione della Scuola di Praga sono state fatte nell’ambito della tipologia comparativa dei sistemi semiotici (Jakobson) e della semantica contrastiva del linguaggio poetico e non poetico (Mukařovský).
Jakobson noted that the reference relation constitutes one of the differential properties of visual and auditory signs. Jakobson notò che la relazione di referenza costituisce una delle proprietà differenziali dei segni visivi e uditivi.
He was struck by the fact that many people react violently to abstract, non-representational paintings, while the issue of representation is hardly ever raised with respect to music:In the entire history of the world quite rarely have people grieved and asked, ‘what facet of reality does Mozart’s or Chopin’s sonata such-and-such represent?’… The question of mimesis, of imitation, of objective representation seems, however, quite natural and even compulsory for the great majority of human beings as soon as we enter into the field of painting and sculpture.

(‘On the Relation’, SW, II, p.339).

Era colpito dal fatto che molte persone reagiscono violentemente a dipinti astratti e non rappresentatativi, mentre il tema della rappresentazione non è quasi mai toccato quando si parla di musica: Nell’intera storia del mondo è raro che qualcuno addolorato abbia chiesto: «Quale aspetto della realtà rappresenta la sonata di Mozart o Chopin?» […]Quando entriamo nel campo della pittura e della scultura la questione della mimesi, dell’imitazione, della rappresentazione oggettiva sembra, invece, abbastanza naturale e addirittura obbligatoria per la gran maggioranza degli esseri umani.

 (Jakobson 1967, Jakobson 1966-1988:II:339).

Jakobson resolves the puzzle by pointing to the typological contrast between auditory and visual signs: while visual signs have a strong tendency to be ‘reified’ (interpreted as representations of things or beings) auditory signs are ‘artificial’ and nonrepresentational systems (ibid., p. 341, p. 337). Jakobson risolve il mistero indicando il contrasto tipologico tra i segni uditivi e visivi: mentre i segni visivi hanno una forte tendenza a essere «reificati» (interpretati come rappresentazioni di cose o esseri), i segni uditivi sono sistemi «artificiali» e nonrappresentativi (Jakobson 1966-1988:II:341, 337).
The lack of reference in music could be explained on these grounds. La mancanza di referenza della musica potrebbe essere spiegata su queste basi.
Literature, however, cannot be lumped together with music when it comes to reference. La letteratura, quando si parla di referenza tuttavia, non può essere messa insieme alla musica.
Language, unlike music, refers to the world and so does the art of language. La lingua, a differenza della musica, si riferisce al mondo e così fa l’arte della lingua.
Mukařovský tried to face the issue by postulating for literary texts a dual reference, particular and universal: ‘The work of art as sign is based on a dialectical tension between two kinds of relationship to reality: a relationship to the concrete reality which is directly referred to and a relationship to reality in general’ (‘K pojmosloví, Kapitoly, I, pp.35ff.). Mukařovský provò ad affrontare la questione postulando per i testi letterari una doppia referenza, particolare e universale: «L’opera d’arte, in quanto segno, si basa su una tensione dialettica tra due tipi di relazione con la realtà: una relazione con la realtà concreta a cui si riferisce direttamente, e una relazione con la realtà in generale» (Mukařovský 1947, Mukařovský 1948:I:35 e seguenti).
Particular reference, which literary signs share with non-literary verbal signs (ordinary language), is restricted to ‘thematic’ literary genres, such as narratives; they refer to (are about) specific events, particular characters, and so on (‘L’Art’, Studie z estetiky, p. 87; Structure, p. 86). La referenza particolare, che i segni letterari condividono con i segni verbali non letterari (lingua comune), è ristretta ai generi letterari «tematici», come le narrazioni; si riferisce a eventi e personaggi specifici eccetera (Mukařovský 1936, Mukařovský 1966:87; Steiner 1978:86).
This brief comment exhausts Mukařovský’s semantics of particular reference. Questo breve commento esaurisce la semantica della referenza particolare di Mukařovský.
On the issue of universal reference he is less laconic but no less vague. Sull’argomento della referenza universale è meno laconico ma non meno vago.
In a late formulation he suggested that ‘the text “means” not that reality which comprises its immediate theme but the set of all realities, the universe as a whole, or – more precisely – the entire existential experience of the author or of the perceiver’ (‘O jazyce’, Kapitoly, I, p.82; Word, p. 6). In una formulazione tarda ipotizza che «il testo “significa” non quella realtà che include il suo tema immediato ma l’insieme di tutte le realtà, l’universo nell’insieme, o – più precisamente – l’intera esperienza esistenziale dell’autore o del percettore» (Mukařovský 1940, Mukařovský 1948:I:82; Steiner 1977:6).
In earlier pronouncements, universal reference seems to have had the character of an ideological category: the ‘infinite reality’ which works of literature refer to is ‘the total context of so-called social phenomena – for example, philosophy, politics, religion, economy, etc.’ (‘L’Art’, Studie z estetiky, p. 86; Structure, p. 84).[19] In dichiarazioni precedenti, la referenza universale sembra aver avuto il carattere di una categoria ideologica: la «realtà infinita» a cui le opere letterarie si riferiscono è «il contesto totale dei cosiddetti fenomeni sociali – come la filosofia, la politica, la religione, l’economia eccetera» (Mukařovský 1936, Mukařovský 1966:86; Steiner 1978:84).
In tying literary works of ‘thematic’ genres to particular reference, Mukařovský could not ignore the issue of fictionality. Collegando opere letterarie di generi «tematici» alla referenza particolare, Mukařovský non poteva ignorare l’argomento della finzionalità.
He formulated it in a purely negative way: in contradistinction to reference in ordinary language, reference in poetic language ‘has no existential value, even if the work asserts or posits something’ (ibid., p. 87; ibid., p. 86). Lo formulò ex negativo: in contrapposizione con la referenza nella lingua comune, la referenza nel linguaggio poetico «non ha valore esistenziale, anche se l’opera afferma o postula qualcosa» (Mukařovský 1966:87; Steiner 1978:86).
The same contrast frames the closely related problem of poetic truth. Lo stesso contrasto inquadra il problema strettamente correlato della verità poetica.
In communicative language the question of truth does arise: ‘The reception of the utterance with communicative function will be accompanied by the question whether that which the speaker is telling actually happened’, that is the receiver will ask whether the utterance is truth, or, lie, or mystification, or ‘pure fiction’ (‘Estetická funkce’, Studie z estetiky, p. 45; Aesthetic Function, p. 72). Nella lingua comunicativa emerge la questione della verità: «la ricezione del discorso con funzioni comunicative è accompagnata dalla questione se quello che dice il parlante è davvero successo», ossia il ricevente si domanda se l’enunciazione è verità, o menzogna, o mistificazione o «pura finzione» (Mukařovský 1936, Mukařovský 1966:45; Mukařovský 1970:72).
In poetic texts such concepts as truth, illusion, lie, pretending and so on are not applicable, since they all presuppose truth-value. Nei testi poetici concetti come verità, illusione, menzogna, finzione eccetera non sono pertinenti dato che presuppongono il valore di verità.
But poetic texts lack truth-value: ‘In poetry, where the aesthetic function prevails, the question of truthfulness does not make any sense’ (‘O jazyce’, Kapitoly, I, p. 82; Word, p. 6).[20] Ma i testi poetici non hanno valore di verità: «Nella poesia, dove prevale la funzione estetica, la questione della veridicità non ha alcun senso» Mukařovský 1940, Mukařovský 1948:I:82; Steiner 1977:6).
The special truth-conditions do not obliterate the distinction between ‘real’ events (narrated events based on actual happenings) and ‘fictional’ events (the author’s inventions) in literary works; however, this distinction is relevant only insofar as it becomes ‘an important component of the structure of the poetic work’ (‘Estetická funkce’, Studie z estetiky, p. 45; Aesthetic Function, p. 72; cf. Winner, ‘Mukařovský’, p. 446). Le speciali condizioni di verità non annullano la distinzione tra eventi «reali» (eventi narrati basati su avvenimenti reali) ed eventi «finzionali» (invenzioni dell’autore) nelle opere letterarie; in ogni caso questa distinzione ha senso solo se diventa «una componente importante della struttura dell’opera poetica» (Mukařovský 1936, Mukařovský 1966:45; Mukařovský 1970:72; vedi anche Winner 1978:446).
By semanticizing the structural model of poetics, Prague School scholars, as demonstrated above, were able to launch a comprehensive study of semantic and thematic structures of literature. Semantizzando il modello strutturale della poetica, gli studiosi della Scuola di Praga, come illustrato sopra, furono in grado di dare inizio a uno studio esauriente sulle strutture semantiche e tematiche della letteratura.
However, the dominance of Saussurean non-referential semantics prevented them from appreciating the importance of the reference relation which links literature to the ‘world’. Ma l’influenza della semantica non referenziale saussuriana impedì loro di apprezzare l’importanza della relazione di referenza che collega la letteratura al «mondo».
Rejecting as ‘aesthetic subjectivism’ the view that art is a ‘a sovereign creation of a hitherto non-existent reality’ (ibid., p. 46; ibid., p.74), Mukařovský lets the aesthetic sign ‘hover’, ‘detached to a considerable extent from direct contact with the thing or event it represents’ (‘Význam’, Studie z estetiky, p. 57; Structure, p. 21). Rifiutando come «soggettivismo estetico» l’opinione che l’arte è la «creazione autonoma di una realtà finora inesistente» (Mukařovský 1970:46; Winner 1978:74), Mukařovský lascia che il segno estetico «si libri», «distaccato in notevole misura dal contatto diretto con la cosa o l’evento che rappresenta» (Mukařovský 1942, Mukařovský 1966:57; Steiner 1978:21).
In such a semantics, the pivotal problem of fictionality could not be tackled. In una semantica di questo tipo, non è stato possibile affrontare il problema cruciale della finzionalità.
The theoretical system of semiotic poetics was left with a considerable lacuna. Il sistema teorico della poetica semiotica venne lasciato con una lacuna notevole.

2.8 Literary history

2.8 Storia della letteratura

There is no doubt that a theoretically based study of literature tends to privilege its synchronic dimension. Non c’è alcun dubbio che uno studio di letteratura con un fondamento teorico tenda a privilegiare la dimensione sincronica.
In Prague, this natural tendency was reinforced by the influence of Saussure who installed synchronic structure of language as the legitimate subject of scientific investigation[21]. A Praga, questa tendenza naturale era rinforzata dall’influenza di Saussure che pone la struttura sincronica della lingua come soggetto legittimo dell’indagine scientifica.
While Saussure’s differentiation of synchrony and diachrony was accepted in Prague, his ideas about linguistic evolution were subject to a persistent critical examination. Mentre a Praga venne accettata  la differenziazione di Saussure tra sincronia e diacronia, le sue idee sull’evoluzione linguistica furono sottoposte a molteplici esami critici.
The Prague School’s divergence from Saussure was succinctly summed up by Jakobson: Saussure ‘attempted to supress the tie between the system of a language and its modifications by considering the system as the exclusive domain of synchrony and assigning modifications to the sphere of diachrony alone. La divergenza della Scuola di Praga da Saussure fu riassunta succintamente da Jakobson: Saussure «cercò di eliminare il legame tra il sistema di una lingua e i suoi cambiamenti considerando il sistema come ambito esclusivo della sincronia e attribuendo i cambiamenti solo alla sfera diacronica.
In actuality, as indicated in the different social sciences, the concepts of a system and its change are not only compatible but indissolubly tied’ (Dialogues, p. 58). In pratica, come indicato da varie scienze sociali, i concetti di un sistema e il suo cambiamento non sono solamente compatibili ma anche legati in modo indissolubile» (Jakobson 1988:58).
The Prague linguists developed a theory which deemed the evolution of the language system no less ‘systemic and goal-oriented’ than its synchronic functioning (ibid., p. 64). I linguisti di Praga svilupparono una teoria che riteneva l’evoluzione del sistema della lingua non meno «sistemico e orientato agli obiettivi» del suo funzionamento sincronico (Jakobson 1988:64).
The dialectic of stability and change and the idea of a systemic evolution also stimulated an original theory of literary history[22]. La dialettica della stabilità e del cambiamento e l’idea di un’evoluzione sistemica stimolarono anche una teoria originale della storia della letteratura.
Its early formulation in Mukařovský’s study of a nineteenth-century Czech descriptive poem (Polák’s Sublimity of Nature) led to a lively polemic on the writing of literary history (for a summary, see Galan’s Structures, pp. 56-77). La sua prima formulazione nello studio di Mukařovský di una poesia descrittiva ceca dell’ottocento (Vznešenost přírody [il sublime della natura] di Polák) portò a una polemica animata sulla scrittura della storia della letteratura (per un riassunto vedi Galan 1984:56-77).
In TCLP 6 René Wellek published a penetrating, but rather neglected, essay ‘The theory of literary history’. In Travaux du Cercle linguistique de Prague 6, René Wellek pubblicò un saggio acuto ma piuttosto trascurato: «La teoria della storia letteraria».
The most significant contributions to literary history were made by Felix Vodička in his papers and in his book The Beginnings of Czech Artistic Prose. I contributi più significativi alla storia della letteratura vennero apportati da Felix Vodička nei suoi articoli e nel suo libro Počátky krásné prózy novocěeské.
Prague School scholars were unanimous in postulating a close connection between literary theory (poetics) and literary history: a new understanding of literary evolution is possible only on the foundations of a structural and semiotic theory of literature. Gli studiosi della Scuola di Praga erano unanimi nel postulare una stretta connessione tra la teoria della letteratura (poetica) e la storia della letteratura: una nuova concezione dell’evoluzione della letteratura è possibile solo sulle basi di una teoria della letteratura strutturale e semiotica.
Mukařovský derived the ‘dynamism’ of the literary structure directly from its basic characteristics. Mukařovský derivò il «dinamismo» della struttura letteraria direttamente dalle sue caratteristiche essenziali.
Structure is not ‘a mere aggregation of parts’, but is ‘energized’ by the functional relationships which exist between its parts. La struttura non è «una semplice aggregazione di parti» ma è «stimolata» dalle relazioni funzionali che esistono tra le sue parti.
While an aggregated whole is annulled by change, for structure change is necessary (‘Strukturalismus’, Kapitoly, I, p. 15; Prague School, pp. 69f.). Sebbene per la struttura il cambiamento sia necessario, questo distrugge il tutto aggregato. (Mukařovský 1939/40, Mukařovský 1948:I:15; Steiner 1982:69 e seguenti).
Wellek spelled out the new epistemology of literary history in contrast to two traditional trends documented on English literary scholarship: ‘All histories of English literature are either histories of civilization or collections of critical essays. Wellek pose le basi della nuova epistemologia della storia letteraria in contrasto con due tendenze tradizionali documentate dall’accademia letteraria inglese: «Tutte le storie della letteratura inglese sono storie della civiltà o raccolte di saggi critici.
The one type is not a history of art, the other not a history of art’ (‘Theory’, p. 175).[23] Il primo tipo non è una storia dell’arte, l’altro non è una storia dell’arte» (Wellek 1969:175).
Wellek demands a history focused on the ‘internal development’ of ‘art in literature’: ‘Individual structures together make up an order in a certain period and this order is transforming itself in a certain direction under the pressure of the changing environment’ (ibid., p. 189).[24] Wellek esige una storia focalizzata sugli «sviluppi interni» «dell’arte nella letteratura»: «le singole strutture, insieme, costituiscono un ordine in un certo periodo, e quest’ordine si sta trasformando in una certa direzione sotto la pressione dell’ambiente mutevole» (Wellek 1969:189).
In a similar vein, Vodička assigned to literary history the task of studying all texts displaying the aesthetic function; the shifting domain of this function is itself a literary historical problem (‘Literární historie’, Struktura, p. 13). In maniera simile, Vodička assegnava alla storia della letteratura il compito di studiare tutti i testi con una funzione estetica; il campo mutevole di questa funzione è di per sé un problema storico letterario (Vodička 1942, Vodička 1969:13).
In a theoretical framework, which represents literature as a specific system of communication, literary history necessarily becomes a three-pronged process: the history of production (genesis), the history of reception and the history of literary structures (cf. Vodička, ‘Literární historie’, Struktura, p. 16). In un impianto teorico, che rappresenta la letteratura come un sistema specifico di comunicazione, la storia letteraria diventa necessariamente un processo a tre punte: la storia della produzione (genesi), la storia della ricezione e la storia delle strutture letterarie (vedi anche Vodička 1942, Vodička 1969:16).
In Prague, these three strains were differentiated in theory and explored in historical research, but their correlations and hierarchies were not clarified. A Praga, queste tre tendenze erano in teoria distinte ed esaminate attraverso ricerche storiche, ma le loro correlazioni e gerarchie non furono mai chiarite.

2.9 Production history

2.9 Storia della produzione

In contrast to the positivist focus on production history, the Prague School de-emphasized this strain. Diversamente dal focus positivista sulla storia della produzione, la Scuola di Praga deenfatizzò questa tendenza.
Nevertheless, significant ideas about this topic were formulated. Ciò nonostante, vennero formulate idee significative su questo argomento.
In harmony with Prague School theory (see above, pp. 45-9) production history was released from its dependence on external (psychological, social) factors and focused on the intrinsic relationship between the individual creative acts and supra-individual aesthetic norms (tradition). In armonia con la teoria della Scuola di Praga (vedi sopra 2.6 Semiotica del soggetto e del contesto sociale della letteratura; norme letterarie) la storia della produzione divenne indipendente da fattori esterni (psicologici e sociali) e si focalizzò sulla relazione intrinseca tra gli atti creativi individuali e le norme estetiche sovraindividuali (tradizione).
The poet ‘either identifies with the tradition, or departs from it in an effort for a new and individually coloured creation’ (Vodička, ibid., p. 25). Il poeta «o si identifica con la tradizione o se ne distacca nel tentativo di creare qualcosa che abbia un colorito individuale» (Vodička 1969:25).
But the author’s innovative individuality ‘can assert itself only within the range of possibilities afforded by the immanent evolutionary tendency of the literary structure’. Ma l’innovativa individualità dell’autore «può affermarsi solo in una gamma di possibilità prodotte dall’immanente propensione evolutiva della struttura letteraria».
The significance of the creator is not thereby diminished: ‘the quality of the work is ultimately dependent on the talent and the artistic feeling of the poet’ (ibid., p. 26). La significatività dell’autore non viene quindi ridotta: «la qualità dell’opera dipende in definitiva dal talento e dalla sensibilità artistica del poeta» (Vodička 1969:26).
The Prague School shifts the core of production history to the study of the evolution of the text and of its sources in language, thematic tradition and artistic devices. La Scuola di Praga sposta il nucleo della storia della produzione allo studio dell’evoluzione del testo e delle sue fonti nella lingua, nella tradizione tematica e negli artifici artistici.
The influence of texts on texts and literatures on literatures is reconciled with the general postulate of the autonomy of literary structure: such influences operate within the evolutionary possibilities of an author or a period (ibid., p. 29). L’influenza dei testi sui testi e delle letterature sulle letterature viene riconciliata con il postulato generale dell’autonomia della struttura letteraria: queste influenze operano nell’ambito delle possibilità evolutive di un autore o di un periodo (Vodička 1969:29).

2.10 Reception history

2.10 Storia della ricezione

It has been recognised (Striedter, ‘Einleitung’) that the foundations of the theory of reception were laid down by Felix Vodička. Vodička derived this theory quite naturally from the semiotics of literary communication: ‘A literary work is understood as an aesthetic sign destined for the public. È stato riconosciuto (Striedter 1976) che le basi della teoria della ricezione furono poste da Felix Vodička. Vodička derivò questa teoria, in modo piuttosto naturale, dalla semiotica della comunicazione letteraria: «Un’opera letteraria è intesa come segno estetico diretto al pubblico.
We must, therefore, always keep in mind not only a work’s existence but also its reception; we must take into account that a literary work is aesthetically perceived, interpreted and evaluated by the community of readers’ (‘Literární historie’, Struktura, p. 34; Semiotics, p. 197). Dobbiamo quindi tenere sempre a mente non solo l’esistenza di un’opera ma anche la sua ricezione; dobbiamo tenere in considerazione che un’opera letteraria è percepita, interpretata e giudicata esteticamente dalla comunità dei lettori» (Vodička 1942, Vodička 1969:34; Matekja 1976:197).
The dynamism of reception and the diversity of interpretations arise from two factors: from the aesthetic properties of the literary text and from the changing attitudes of the reading public.[25] Il dinamismo della ricezione e la diversità delle interpretazioni derivano da due fattori: dalle proprietà estetiche del testo letterario e dall’atteggiamento mutevole del pubblico dei lettori.
Vodička’s reception history is an empirical study of the post-genesis fortunes of literary works as attested in recorded concretizations (diaries, memoirs, letters, critical reviews and essays, etc.) (‘Problematika’, Struktura, p. 199; Prague School, p. 111). La storia della ricezione di Vodička è uno studio empirico sulle fortune dei testi letterari una volta ultimati, come attestato in attualizzazioni scritte (diari, memoir, lettere, recensioni critiche, saggi eccetera) (Vodička 1941, Vodička 1969:199; Steiner 1982:111).
In his study of the successive reinterpretations and re-evaluations of the work of the nineteenth-century Czech poet Jan Neruda, Vodička focused exclusively on critical receptions. Nel suo studio sulle successive reinterpretazioni e rivalutazioni dell’opera del poeta ceco dell’ottocento Jan Neruda, Vodička si focalizzò esclusivamente sulla ricezione critica.
Critical texts are of special interest for a literary historian because critics ‘fix’ concretizations of literary works in conformity with ‘contemporary literary requirements’ (norms); their concretizations are representative of a particular historical stage of reception (ibid., p. 200; ibid., p. 112). I testi critici sono di interesse speciale per uno storico della letteratura perché i critici «fissano» le attualizzazioni delle opere letterarie in conformità con «le necessità letterarie contemporanee» (norme); le loro attualizzazioni sono rappresentative di una particolare fase storica della ricezione (Vodička 1969:200; Steiner 1982:112).
On the other hand, critical texts stimulate, as a rule, subsequent critical texts, so that a work’s ‘critical history’ (Cohen, Art, p. 10) can be retraced. D’altra parte, i testi critici stimolano, di norma, testi critici successivi, così che può essere ripercorsa la «storia critica» di un’opera (Cohen 1964:10).
Vodička started the development of his reception theory from the premise that a literary work is an ‘aesthetic sign’. Vodička iniziò lo sviluppo della sua teoria della ricezione dalla premessa che un’opera letteraria è un «segno estetico».
He concluded it with the trenchant observation that reception itself is an aesthetic process:Just as automatized devices in poetic language lose their aesthetic effectiveness, which motivates the search for new, aesthetically actualized devices, so a new concretization of a work or author emerges not only because literary norms change but also because older concretizations lose their convincingness through constant repetition. Lo concluse con l’osservazione tranchant che la ricezione stessa è un processo estetico:Proprio come gli artifici automatizzati nel linguaggio poetico perdono efficacia estetica, da cui la ricerca di un nuovo artificio esteticamente attualizzato, così la nuova attualizzazione di un’opera o di un autore emerge non solo perché le norme letterarie cambiano ma anche perché le attualizzazioni precedenti a furia di ripetersi smettono di essere convincenti.
A new concretization always means a regeneration of the work; the work is introduced into literature with a fresh appearance, while the fact that an old concretization is repeated (in schools, for example) and no new concretizations arise is evidence that the work has ceased to be a living part of literature’ (‘Problematika’, Struktura, p. 216; Prague School, p. 128[26]). Una nuova attualizzazione significa sempre una rigenerazione dell’opera; l’opera è introdotta nella letteratura con un aspetto nuovo, mentre il fatto che si ripeta una attualizzazione vecchia (nelle scuole per esempio) e che non nasca nessuna attualizzazione nuova è prova che l’opera ha cessato di essere parte viva della letteratura» (Vodička 1941, Aesthetic Vodička 1969:216; Steiner 1982:128[27]).
Vodička thus reaffirmed the basic principle of Prague School poetics: all literary phenomena, from minute poetic devices to literary history spanning centuries, are products of unceasing human aesthetic activity. Vodička quindi riaffermò il principio base della poetica della Scuola di Praga: tutti i fenomeni letterari, dai minuscoli artifici poetici alla storia della letteratura che si estende per secoli, sono prodotti dell’incessante attività estetica umana.

2.11 History of structure

2.11 Storia della struttura

The subject of literary history is the ‘literary series’, ‘an abstract repertoire of all possibilities of literary creativity’. Il soggetto della storia della letteratura è la «serie letteraria», «un repertorio astratto di tutte le possibilità della creatività letteraria».
What changes and evolves are not concrete literary works, but this ‘higher, hierarchically superior structure’ (Vodička, ‘Literárni historie’, Struktura, p. 18). Ciò che cambia e si evolve non sono le concrete opere letterarie, ma questa «sovrastante struttura gerarchicamente superiore» (Vodička 1942, Vodička 1969:18).
Positivistic literary history sought the ‘causes’ of literary change outside literature. La storia positivista della letteratura cercava «le cause» del cambiamento letterario fuori dalla letteratura.
In contrast, structural literary history ‘conceives of the evolution of poetry as a continuous “self-motion” [Selbstbewegung] carried by the dynamism of the evolving series itself and governed by its own, immanent order’ (Mukařovský, ‘Polákova Vznešenost’, Kapitoly, II, p. 91). Al contrario, la storia strutturalista della letteratura «concepisce l’evoluzione della poesia come un continuo “automovimento” [Selbstbewegung] spinto dal dinamismo della serie in evoluzione e controllato dal suo stesso ordine immanente» (Mukařovský 1934, Mukařovský 1948:II:91).
The impact of external factors (ideology, politics, economy, science, etc.) is not denied, but it is the dynamism of the structure itself which determines the continuity of history (ibid., p. 165). L’impatto di fattori esterni (ideologia, politica, economia, scienza eccetera) non è negato, ma è il dinamismo della struttura stessa a determinare la continuità della storia (Mukařovský 1948:II:165).
If the evolution of literature is treated as ‘a mere commentary’ on extraliterary (cultural, social, economic) history, then literary history becomes a ‘discontinuous set of random phenomena’ (ibid., p. 166). Se l’evoluzione della letteratura è trattata come «un semplice commentario» della storia extraletteraria (culturale, sociale, economica), la storia della letteratura diventa una «serie discontinua di fenomeni casuali» (Mukařovský 1948:II:166).
Vodička specified the immanent order of literary evolution by recalling the principles of Prague School aesthetics: conventionalization (automatization) of the aesthetic structure creates a necessity for ‘actualization’ (‘foregrounding’) – a necessity for change. Vodička specifica l’ordine immanente dell’evoluzione letteraria richiamando i principi dell’estetica della Scuola di Praga: la convenzionalizzazione (automatizzazione) della struttura estetica crea una necessità di «attualizzazione» una necessità di cambiamento.
Vodička, however, makes a distinction between the immanent ‘cause’ and the deterministic cause of natural science: ‘The state of the structure at a certain moment does not lead to a necessary, single effect; in the internal tensions of the structure there exist a certain number of possibilities which condition future development’ (‘Literárni historie’, Struktura, p. 19). Vodička fa però una distinzione tra la «causa» immanente e la causa deterministica della scienza naturale: «Lo stato della struttura in un determinato momento non porta a un effetto necessario, singolo; nelle tensioni interne della struttura esiste un certo numero di possibilità che condiziona gli sviluppi futuri» (Vodička 1942, Vodička 1969:19).
The most powerful, but by no means only immanent factor evolution is the principle of contrast (in the Hegelian sense), evident in the sequence classicism-romanticism-realism. L’elemento più potente, ma di certo non l’unico fattore immanente, dell’evoluzione è il principio del contrasto (nel senso hegeliano del termine), evidente nella sequenza classicismo-romanticismo-realismo.
In his own historical research Vodička resists reducing the complex literary process to a simple teleological schema; literary history is never a straightforward transformation of one structure into another, but a chain of ‘attempts, failures and half-successes’ (Počátky, p. 306). Nella sua ricerca storica Vodička resiste alla tentazione di ridurre il complesso processo letterario a un semplice schema teleologico; la storia della letteratura non è mai una trasformazione diretta di una struttura in un’altra, ma una catena di «tentativi, insuccessi e mezzi successi» (Vodička 1948:306).
Structural literary history does not deny the impact of heteronomous, extraliterary factors: ‘Literary works are materialized by people, they are facts of social culture and exist in numerous relationships to other phenomena of cultural life’ (Vodička, ‘Literaŕní historie’, Struktura, p. 25). La storia della letteratura a impostazione strutturale non nega l’impatto di fattori eteronomi extraletterari: «Le opere letterarie sono concretizzate dalle persone, sono fatti di cultura sociale ed esistono in numerose relazioni con altri fenomeni della vita culturale» (Vodička 1942, Vodička 1969:25).
In the final account, evolution of the literary series is a result of a complex interplay (dialectic) of immanent and external impulses[28]. In definitiva, l’evoluzione della serie letteraria è il risultato di una complessa interazione (dialettica) di impulsi immanenti ed esterni.
In keeping with his poetics (see above, p. 45), Vodička charges thematics with mediating this interplay: through thematics ‘the contents of a community’s practical interests and period problems exercise the most powerful influence on the immanent evolution of the literary structure’ (Počátky, p. 168). Coerentemente con la sua poetica (vedi 2.6 Semiotica del soggetto e del contesto sociale della letteratura; norme letterarie), Vodička dà alla tematica il compito di mediare questa interazione: attraverso la tematica «il contenuto degli interessi concreti di una comunità e i problemi del periodo esercitano l’influenza più potente sull’evoluzione immanente della struttura letteraria» (Vodička 1948:168).
The literary historian studies all changes in the evolving literary structure: changes of constituents, of their selection and organization, but he is particularly concerned with the profoundly consequential shifts of dominants. Lo storico della letteratura studia tutti i cambiamenti della struttura letteraria in evoluzione: cambi dei componenti, della loro selezione e organizzazione, ma si occupa in modo particolare dei cambi di dominante che hanno conseguenze profonde.
These shifts set the entire literary structure into motion and are responsible for the pendulum of literary evolution: the maximum-minimum impact of supra-individual norms generates the contrast between normative and individualistic epochs; the maximum-minimum weight afforded the poetic subject in the literary structure opposes the expressive literature of the romantics to the objective literature of the modernists; the admission or suppression of actual world material brings about the alternation of realistic and antirealistic trends. Questi cambi mettono in movimento l’intera struttura letteraria e sono responsabili del pendolo dell’evoluzione letteraria: l’impatto massimo-minimo delle norme sovraindividuali genera il contrasto tra epoche normative e individualistiche; il peso massimo-minimo offerto dal soggetto poetico nella struttura letteraria oppone la letteratura espressiva dei romantici alla letteratura oggettiva dei modernisti; l’ammissione o rimozione del materiale del mondo reale porta all’alternanza di tendenze realistiche e antirealistiche.
Shifts of dominants were explored in detail in the history of Czech verse (Jakobson, ‘Staročeský verš’, SW, VI, pp. 417– 65; Mukařovský, ‘Obecné zásady’, Kapitoly, II, pp. 9–90), but proved to be no less decisive in the history of narrative prose (Vodička, Počátky). I cambi di dominate vennero esaminati nel dettaglio nella storia della poesia ceca (Jakobson 1934, Jakobson 1966-1988:VI:417– 65; Mukařovský 1934, Mukařovský 1948:II:9–90), ma si dimostrarono non meno decisivi nella storia della narrativa (Vodička 1948).
In reconstructing the evolving series, the literary historian discovers evolutionary tendencies and thus provides a ground for assessing the historical value of individual works. Nel ricostruire la serie evolutiva, lo storico della letteratura scopre le tendenze evolutive e così procura un terreno per stabilire il valore storico delle singole opere.
Historical value is not identical with the work’s aesthetic value; the latter arises in the subject’s perception of the literary work, while the former is given by the work’s participation and success in implementing the tendencies of the literary process. Il valore storico non è identico al valore estetico dell’opera; quest’ultimo si manifesta nella percezione soggettiva dell’opera letteraria, mentre il primo è dato dalla partecipazione e dal successo dell’opera nel realizzare le tendenze del processo letterario.
The fate of Prague School structuralism in its country of origin is strangely mirrored in its reception abroad. Il destino dello strutturalismo della Scuola di Praga nel suo paese d’origine si riflette in modo strano nella sua ricezione all’estero.
The significance of the Prague School for modern linguistic theory has been generally acknowledged. Il valore della Scuola di Praga per la teoria della linguistica moderna è stato generalmente riconosciuto.
According to Stankiewicz, we owe to the PLC ‘a body of work that surpasses in scope all that was done by other contemporary schools of linguistics’ (‘Roman Jakobson’, p. 20). Secondo Stankiewicz dobbiamo al Circolo linguistico di Praga «un corpo di opere che supera per portata tutto quello che era stato fatto da altre scuole linguistiche contemporanee» (Stankiewicz 1983:20).
In contrast, Prague School poetics and aesthetics has been virtually expunged from the history of twentieth-century structuralism. La poetica e l’estetica della Scuola di Praga sono state invece quasi cancellate dalla storia dello strutturalismo.
Contemporary literary theory and aesthetics is dominated by the opinion that structuralism is a French phenomenon of the 1960s; even when the Prague stage is not ignored, it is treated as just a ‘strategic background’ to a ‘story’ located in ‘the haute culture milieu of modern Paris’ (Merquior, From Prague, p. x). L’estetica e la teoria della letteratura contemporanee sono dominate dall’idea che lo strutturalismo sia un fenomeno francese degli anni sessanta; anche quando la fase praghese non è ignorata, viene trattata solo come «background strategico» di una «storia» posizionata nel «milieu della haute culture della Parigi moderna» (Merquior 1986:x).
A reduction of twentieth-century structuralism to its French stage greatly distorts its history and its theoretical achievement: structuralism appears as a historically short-lived and epistemologically restrictive episode in Western thought. La riduzione dello strutturalismo alla sua fase francese distorce incredibilmente la sua storia e i suoi risultati teorici: nel pensiero occidentale, lo strutturalismo appare come un episodio storicamente breve ed epistemologicamente restrittivo.
Prague School structuralism had aimed to reshape all perennial problems of poetics and literary history into a coherent and dynamic theoretical system. Lo strutturalismo della Scuola di Praga ha puntato a rimodellare tutti i problemi perenni della poetica e della storia della letteratura in un sistema teorico coerente e dinamico.
Given the variety and difficulty of these problems – from the ‘intrinsic’ properties of literary works, to the specific function of poetic language, to the ‘extrinsic’ relationships of literature to its producers, its recipients and the world – the ideas of the Prague School scholars should not be regarded as definitive. Data la varietà e la difficoltà di questi problemi – dalle proprietà «intrinseche» delle opere letterarie, alle funzioni specifiche del linguaggio poetico, alla relazione «estrinseca» della letteratura con i suoi produttori, i suoi riceventi e il mondo – le idee degli studiosi della Scuola di Praga non vanno considerate definitive.
The spirit of the Prague School, shaped in a struggle to preserve integrity of theoretical thought against the pressures of ideology, was strongly antidogmatic. Lo spirito della Scuola di Praga, plasmato dallo sforzo di preservare l’integrità del pensiero teorico contro la pressione dell’ideologia, è fortemente antidogmatico.
The heritage of Prague is an inspiration for future ventures rather than a historical monument. Il retaggio di Praga, lungi dall’essere un monumento storico, è d’ispirazione per iniziative future.

 

 

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Vachek Josef 1964 A Prague School Reader in Linguistics Bloomington.

Van der Eng Jan 1982 «The Effectiveness of the Aesthetic Function» in P. Steiner, M. Červenka e R.Vroon a cura di The structure of the Literary Process. Studies to the Memory of Felix Vodička Amsterdam/Philadelphia.

Van Peer Willie 1986 Stylistics and Psychology. Investigations in Foregrounding London.

Veltruský Jiří 1980/81 «Jan Mukařovský’s structural poetics and aesthetics» in Poetics Today 2 117-57.

Vodička Felix 1941 «Problematika ohlasu Nerudova dila» Struktura 193-219.

Vodička Felix 1942 «Literární historie. Její problémy a úkoly» Struktura 13-53.

Vodička Felix 1948 Počatky krásné prózy novocěeské Praha.

Vodička Felix 1972 «The integrity of the leterary process: notes on the development of theoretical thought in J. Mukařovský’s work» in Poetics 4 5-15.

Volek Emil 1985 Metastructuralismo. Poética moderna, semiotica narrativa y filosofia de las ciencias sociales Madrid.

Wellek René 1969 The Literary Theory and Aesthetics of the Prague School Ann Arbor MI.

Winner Thomas G. 1975 «Jan Mukařovský: the beginnings of structural and semiotic aesthetics» in Matejka (a cura di) Sound 433-55.

Žmegač, Viktor e Zdenko Škreb (a cura di) 1973 Zur Kritik literaturwissenschaftlicher Methodologie Frankfurt-on-Main.

 

 

 



[1] Contemporary views about the position of Prague School theory in the inter-war intellectual context can be found in Sus, ‘Preconditions’; Červenka, ‘Grundkategorien’; Matejka, ‘Postscript’; Fokkema and Kunne-Ibsh, Theories, pp. 10-49, Rensky, ‘Roman Jakobson’; Steiner, Formalism.

 

Opinioni contemporanee sulla posizione della teoria della Scuola di Praga nel contesto intellettuale tra la prima e la seconda guerra mondiale possono essere trovate in Sus:1972; Červenka  1973; Matejka 1976:265-98; Fokkema e Kunne-Ibsh:1977: 10-49, Rensky 1977:379-89; Steiner 1984.

 

[2] Mathesius was one of the early twentieth-century linguists who were critical of the legacy of the historically oriented neo-grammarian school. Already in 1912, four years before the appearance of Ferdinand de Saussure’s Cours de linguistique générale, Mathesius published an article On the potentiality of linguistic phenomena” (English trans. In Vachek, Reader, pp. 1-32) where he advocated a synchronistic and functionalist approach to language. The article remained hidden in an esoteric scholarly journal, but in the 1920s when the work of Saussure and the Russian “Saussurians” became known in Prague many young linguists were ready to follow Mathesius’ lead.

 

Mathesius fu uno dei linguisti dell’inizio del novecento critici nei confronti dell’eredità lasciata dalla scuola neogrammatica a orientamento storico. Già nel 1912, quattro anni prima della comparsa dei corsi di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, Mathesius pubblicò un articolo «sul potenziale dei fenomeni linguistici» (traduzione inglese di Vachek 1964:1-32) dove sostenne un approccio sincronistico e funzionalista alla lingua. L’articolo rimase nascosto in una rivista accademica esoterica, ma negli anni 20 quando l’opera di Saussure e i russi “saussuriani” divennero conosciuti a Praga molti giovani linguisti erano pronti a seguire la guida di Mathesius.

[3] A list of the papers presented  in the PLC between 1926 and 1948 is published in Matejka (ed.), Sound, pp. 607-22.

 

Una lista dei documenti presentati nel Circolo Linguistico di Praga tra il 1926 e il 1948 è pubblicato in Matejka 1978:607-22.

 

 

[4] The alliance between progressive theorists and avant-garde artists was already forged before the formation of PLC and proved to be long lasting. Jan Mukařovský was very close to the surrealist poet Vitězslav Nezval and to the experimental prose writer Vladislav Vančura. Roman Jakobson, who had been an active member of the Russian poetic avant-garde, established close contacts with Czech  poets and artists shortly after his arrival in Prague: ‘The young Czech poets and artists made me a member of their circle, and I became very close to them… My intimate knowledge of Czech artistic circles allowed me to comprehend fully the force of Czech literary art from the Middle Ages to today’ (Dialogues 143: cf. Linhartová, ‘La place’; Effenberger, ‘Roman Jakobson’; Toman, ‘Chemical laboratory’).

 

L’alleanza tra i teorici progressisti e gli artisti dell’avanguardia era già plasmata prima della formazione del Circolo Linguistico di Praga e si è dimostrata di lunga durata. Jan Mukařovský era molto vicino al poeta surrealista Vitězslav Nezval e allo scrittore di prosa sperimentale Vladislav Vančura. Roman Jakobson, che era stato un esponente attivo dell’avanguardia poetica russa, instaurò stretti contatti con i poeti e gli artisti cechi poco dopo il suo arrivo a Praga: «i giovani poeti e artisti cechi mi hanno iscritto al loro circolo e io mi sono avvicinato molto a loro… la mia profonda conoscenza dei circoli artistici cechi mi ha permesso di comprendere appieno la forza dell’arte letteraria ceca dal medioevo ad oggi» (Jakobson 1983:143: vedi anche Linhartová 1977; Effenberger 1983; Toman 1987).

[5] Jakobson captured the ambience of both the Moscow and the Prague Circles with the following words: ‘Recollecting their passionate, impetuous discussions which tested, egged on, and whetted our scientific thought, I must confess that never since and nowhere else have I witnessed learned debates of similar creative force’ (SW, II, p. vi). Wellek was true to the Prague School spirit when he stated that his profound indebtedness to the work of Mukařovský and Jakobson and to the  stimulating atmosphere of the PLC ‘can be best expressed by critical collaboration’ (‘Theory’, p. 191, 39; emphasis added).

 

Jakobson rese l’atmosfera sia del Circolo di Mosca che di Praga con le seguenti parole: «ricordando i loro dibattiti appassionati e impetuosi che testarono, incitarono e stimolarono il nostro pensiero scientifico, devo confessare che mai più da allora, in nessun luogo ho assistito a dei dibattiti colti dotati di una simile forza creativa» (Jakobson 1966-1988:II:vi). Wellek fu sincero nei confronti dello spirito della Scuola di Praga quando dichiarò che il suo profondo debito nei confronti dell’opera di Mukařovský e di Jakobson e della atmosfera stimolante del Circolo di Praga «può essere espresso al meglio dalla collaborazione critica» (Wellek 1970:191 39; corsivo mio).

 

[6] This achievement would be impossible without the close cooperation of linguists and literary theorists typical of the Prague School. According to Mathesius, ‘linguistics makes the most natural ally of literary theory’ (‘Deset let’, p. 145). All Prague School linguists, including Mathesius, were deeply involved in the study of literature, while its literary theorists were perfectly at home in linguistic theory. It should be emphasized that the Prague School continued the tradition of a mutual exchange between linguistics and literary study, inaugurated by Wilhelm von Humboldt and continued by Ferdinand de Saussure (see Doležel , Occidental Poetics). In Prague, the study of literature and poetic language stimulated significant departures in linguistic theory, for example the formulation of the principles of phonology (Jakobson and Pomorska, Dialogues, p.22).

 

Questo successo sarebbe impossibile senza la stretta collaborazione, tipica della Scuola di Praga, tra linguisti e teorici della letteratura. Secondo Mathesius «la linguistica è il più naturale alleato della teoria letteraria» (Mathesius 1936:145). Tutti i linguisti della Scuola di Praga, Mathesius incluso, erano molto coinvolti nello studio della letteratura, mentre i teorici della letteratura erano perfettamente a loro agio nella teoria linguistica. Va sottolineato che la Scuola di Praga continuò la tradizione di uno scambio reciproco tra la linguistica e gli studi letterari, inaugurata da Wilhelm von Humboldt e continuata da Ferdinand de Saussure (vedi Doležel 1990). A Praga, lo studio della letteratura e del linguaggio poetico stimolò deviazioni significative nella teoria della linguistica, per esempio la formulazione dei principi della fonologia (Jakobson e Pomorska 1983:22).

[7] Mukařovský pointed to parallels and differences between structuralism and biological holism (Smuts) (‘K pojmoslovi’, Kapitoly, I, p. 29). Trnka singled out Russel’s  relation logic as one of the inspirations of structuralism (‘Linguistics’, p. 159). The relationship of structuralism to the twentieth-century logic of wholes mereology (Husserl, Leśniewski) – has been established only recently (see Smith and Mulligan, ‘Pieces’).

 

Mukařovský ha messo in evidenza i parallelismi e le differenze tra lo strutturalismo e l’olismo biologico (Smuts) (Mukařovský 1947:I: 29). Trnka identificò la logica della relazione di Russel come una delle fonti d’ispirazioni dello strutturalismo (Trnk 1966:159). La relazione dello strutturalismo con la logica degli insiemi, la mereologia, del novecento (Husserl, Leśniewski) si è affermata solo recentemente (Smith e Mulligan 1982).

 

[8] In Bühler’s and Prague School functional linguistics the term function is not used in the mathematical sense, but in the sense of ‘aim’ or ‘goal’ (cf. Skalička, ‘Strukturalismus’; Holestein, Approach, p. 121).

 

Nella linguistica funzionale di Bühler e della Scuola di Praga il termine funzione non è usato nel senso matematico, ma nel senso di «scopo» o «obiettivo» (vedi anche Skalička 1947/48; Holestein 1976:121).

 

[9] Referring specifically to the Bühlerian tradition, Holenstein (‘Poetry’) praised the idea of ‘polyfunctionality’ as a major achievement of modern functionalist  thought (see also Broekman, Strukturalismus, pp. 95f.; Chvatik, Strukturalismus, pp. 138f.; Martínez-Bonati, Discourse, p. 54).

 

Riferendosi nello specifico alla tradizione bühleriana, Holenstein 1981 elogiò l’idea della «polifunzionalità» in quanto successo importante del pensiero funzionalista moderno (vedi anche Broekman 1971:95 e seguenti; Chvatik 1981:138 e seguenti; Martínez-Bonati 1981:54).

 

[10] Havránek’s sociological functionalism has its parallel in functionalist ethnography pioneered in Prague by Bogatyrjov, especially in his Functions. We find here a precocious formulation of the idea of social semiosis (cf. Halliday, Explorations).

 

Il funzionalismo sociologico di Havránek ha il suo parallelo nell’etnografia funzionalista sperimentata a Praga da Bogatyrёv, in particolare nel suo Funzioni. Troviamo qui una formulazione precoce dell’idea di semiosi sociale (vedi anche Halliday 1973).

[11] The tradition of the structural model in poetics goes back to Aristotle, to his theory of the tragedy based on general principles of his logic and philosophy of science. In the Romantic period under the influence of organic thinking the structural model became morphological. Prague School structuralism initiates the semiotic version of the model. The advance of the structural model from a logical to a morphological to a semiological stage represents the main tread of the history of poetics (see Doležel, Occidental Poetics).

 

La tradizione del modello strutturale nella poetica risale ad Aristotele, alla sua teoria della tragedia basata sui principi generali della sua logica e filosofia della scienza. Nel periodo romantico sotto l’influenza del pensiero organico, il modello strutturale divenne morfologico. Lo strutturalismo della Scuola di Praga avviò la versione semiotica del modello. L’avanzamento del modello strutturale dalla fase logica a quella morfologica a quella semiologica rappresenta il principale percorso della storia della poetica (vedi Doležel 1990).

 

[12] The source of this misrepresentation is Mukařovský’s paper ‘standard language and poetic language’ known from an early English translation (Garvin, Reader). This paper should be read within its polemical context: in opposition to arbitrary restrictions imposed by conservative Czech purists (see History), Mukařovský defends the right of the language of modern poetry to ‘deviate’ from the norms of standard Czech. Serious students of Prague School poetics have emphasized the duality of its aesthetic principle: ‘Poetic language is to be seen as an organized, systematic violation of language norms, characterised by strict regularity’ (Bulygina, ‘Pražskaja škola’ p. 118; emphasis added). Van Peer labelled this aesthetic principle ‘systematic foregrounding’ (Stylistics, p. 7).

 

La causa di questo travisamento è l’articolo di Mukařovský «Linguaggio standard e linguaggio poetico» conosciuto grazie a una vecchia traduzione inglese (Garvin 1964). Questo articolo dovrebbe essere letto nel suo contesto polemico: in contrasto con le restrizioni arbitrarie imposte dai puristi conservatori cechi (vedi 2.2 Storia), Mukařovský difende il diritto della lingua della poesia moderna di «deviare» dalle norme del ceco standard. Seri studiosi della poetica della Scuola di Praga hanno messo in evidenza la dualità del suo principio estetico: «il linguaggio poetico deve essere visto come una violazione organizzata e sistematica delle norme linguistiche, caratterizzata da una regolarità ferrea» (Bulygina 1964:118; corsivo mio). Van Peer definì questo principio estetico «attualizzazione sistematica» (Van Peer 1986:7).

 

[13] Mukařovský’s papers on nineteenth and twentieth century Czech prose writers (now collected in the second volume of Chapters from Czech Poetics under the heading ‘On poetic prose’) and Jakobson’s essay on Pasternak’s prose (‘Randbemerkungen’), where he formulated his well-known differentiation of poetry (metaphor) and prose (metonymy), testify further to the deep interest of Prague School scholars in narrative poetics.

 

Gli articoli di Mukařovský sugli scrittori di prosa ceca dell’ottocento e novecento (ora raccolti nel secondo volume di Kapitoly z české poetiky sotto il titolo «Sulla prosa poetica») e il saggio di Jakobson sulla prosa di Pasternak (‘Randbemerkungen’), dove formulò la sua famosa differenziazione tra poesia (metafora) e prosa (metonimia), testimoniano ulteriormente il profondo interesse degli studiosi della Scuola di Praga per la poetica narrativa.

[14] For a further development of narrative discourse theory in the Prague School tradition, see Doležel, Narrative Modes.

 

Per un ulteriore sviluppo della teoria del discorso narrativo nella tradizione della Scuola di Praga vedi Doležel 1973.

[15] In her summary of Jakobson’s reconstruction of Pushkin’s ‘sculptural myth’ (‘Socha’, Language, pp. 318-67) Pomorska pointed out another aspect of the ‘work-life’ exchange: ‘according to the results of jakobson’s analysis, not only is the life situation active in the process of literary creation, but the product created is likewise active and often decisive in the poet’s actual biography’ (‘Roman Jakobson’ p. 373).

 

Nel suo riassunto della ricostruzione del «mito scultorio» di Puškin, di Jakobson (Jakobson 1937, Jakobson 1987:318-67) Pomorska illustrò un altro aspetto dello scambio «opera-vita»: «secondo i risultati dell’analisi di Jakobson, non solo la vita è attiva nel processo di creazione letteraria, ma il prodotto creato è altrettanto attivo e spesso decisivo nella biografia reale del poeta» (Pomorska 1977:373).

 

[16] The range of possibilities was indicated by Wellek: ‘The work of art may embody the dream of its creator, his exact psychological opposite, it may function almost as a mask in a subtly inverse fashion only indirectly related to the empirical “personality”’ (‘Theory’, p. 181).

 

La gamma delle possibilità è stata indicata da Wellek: «L’opera d’arte potrebbe incarnare il sogno del suo creatore, il suo esatto opposto psicologico, potrebbe funzionare quasi come una maschera in un modo sottilmente opposto, che riguarda solo indirettamente la “personalità” empirica» (Wellek 1969:181).

 

[17] The concept of semantic gesture was not sufficiently developed in Mukařovský’s theoretical writings, but was repeatedly applied in his mature analyses of the oeuvre of several Czech poets and prose writers. It has received considerable attention from Mukařovský’s interpreters (Prochaźka, Příspěvek, pp. 64f., 68; Jankovič, ‘Perspectives’; Mercks, ‘Gesture’; Schmid, ‘Geste’; Burg, Mukařovský, pp. 87-96, 288-96, 398-402; Volek, Metaestructuralismo, pp. 228-30).

 

Il concetto di atto semantico non venne sviluppato a sufficienza negli scritti teorici di Mukařovský, ma venne ripetutamente applicato nella sua analisi matura dell’opera di diversi poeti e scrittori di prosa cechi. Ha ricevuto un’attenzione considerevole dagli interpreti di Mukařovský (Prochaźka 1969:64 e seguente, 68; Jankovič 1972; Mercks 1980; Schmid 1982; Burg 1985:87-96 288-96 398-402; Volek 1985:228-30).

 

[18] The occasion for a direct engagement with phenomenology was Mukařovský’s review article of the first volume of J. Petersen’s Die Wissenschaft von der Dichtung, published in Berlin in 1939.

 

L’occasione per un impegno diretto nella fenomenologia fu l’articolo di recensione critica del primo volume di J. Petersen Die Wissenschaft von der Dichtung pubblicato a Berlino nel 1939.

[19] The vagueness of the concept of universal reference is reflected in the diversity of opinions among Mukařovský interpreters. Steiner takes universal reference to mean ‘reality in toto’ (‘Basis’ p. 371). Fokkema highlighted Mukařovský’s idea that a work of art ‘may have an indirect or metaphorical meaning in relation to the reality we live in’ (Fokkema and Kunne-Ibsch, Theories, p. 32). Mayenova understood the term as meaning ‘the recipients’ diverse experience’ (‘Statements’, p.428). Veltruský believes that Mukařovský’s ‘phenomenological’ and ‘sociological’ conceptions of universal reference ‘were to a large extent complementary’ (‘Mukařovský’s poetics’, p. 140).

 

La vaghezza del concetto di referenza universale è riflesso nella diversità di opinioni degli interpreti di Mukařovský. Steiner diede alla referenza universale il significato di «realtà in toto» (Steiner 1978:371). Fokkema evidenziò l’idea di Mukařovský secondo cui un’opera d’arte «potrebbe avere un significato indiretto o metaforico in relazione alla realtà in cui viviamo» (Fokkema and Kunne-Ibsch 1977:32). Mayenova interpretò il termine come «le diverse esperienze dei riceventi» (Mayenova 1978:428). Veltruský crede che le concezioni «fenomenologiche» e «sociologiche» della referenza universale di Mukařovský «fossero in larga misura complementari» (Veltruský 1980/81:140).

 

[20] Mukařovský’s position on truth-value in poetry as well as its justification accord with the views of Gottlob Frege (for a detailed discussion see Doležel, Occidental Poetics).

 

La posizione di Mukařovský sul valore della verità nella poesia come anche la sua giustificazione concordano con le idee di Gottlob Frege (per una discussione dettagliata vedi Doležel 1990).

[21] Saussure’s differentiation of linguistic synchrony and diachrony did not imply rejection of historical study. In fact, Saussure justified it with a new argument: the arbitrariness of linguistic sign makes historical change in language inevitable.

 

La differenziazione di Saussure della sincronia e della diacronia linguistica non implica un rifiuto degli studi storici. Infatti Saussure lo giustifica con una nuova tesi: l’arbitrarietà dei segni linguistici rende inevitabile il cambiamento storico della lingua.

[22] ‘What most sharply distinguishes Czech structuralism from the other twentieth-century literary theories is its commitment to literary history’ (Galan, Structures, p.2).

 

«Quello che distingue più fortemente lo strutturalismo ceco da altre teorie letterarie del novecento è la sua dedizione alla storia della letteratura» (Galan 1984:2).

[23] Wellek does not criticize social historians, historians of ideas and others for using literature as documentary material, nor is he trying to prevent professors of literature from becoming involved in these domains. He points out, however, that these practical or pedagogical considerations should not be confused with ‘the clarification of a theoretical problem which can be solved only on a philosophical basis’ (‘Theory’, pp. 175ff). Vodička added an important caveat: the aesthetic function affects substantially the information conveyed in the literary work and, therefore, the use of literary works as historical sources requires extreme caution (‘Literární historie’, Struktura, pp. 38ff).

 

Wellek non critica gli storici sociali, gli storici delle idee e altri per l’uso della letteratura come materiale documentativo, e non sta neanche cercando di evitare che i professori di letteratura si occupino di questi campi. Sottolineò comunque che queste considerazioni pratiche o pedagogiche non dovrebbero essere confuse con «la chiarificazione di un problema teorico che può essere risolto solo su base filosofica» (Wellek 1969:175 e seguenti). Vodička aggiunse un avvertimento importante: la funzione estetica influisce in modo sostanziale sull’informazione comunicata nell’opera letteraria, e quindi, l’uso di opere letterarie come fonti storiche richiede estrema cautela (Vodička 1942, Vodička 1969:38 e seguenti).

 

[24] From the very beginning of his theoretical development Wellek closely associated literary structures with values and, therefore, charged the literary historian with critical evaluation. In contrast, Mukařovský believed that the question of aesthetic valuation cannot be answered by literary history (‘Polakova Vznešsenost’ Kapitoly, II, p. 100): Vodička took a middle-of-the-road position, differentiating between the aesthetic and the historical value (see below).

 

Sin dall’inizio dei suoi sviluppi teorici Wellek collegò strettamente le strutture letterarie a dei valori e quindi affidò le valutazioni critiche agli storici della letteratura. Al contrario Mukařovský credeva che la questione della valutazione estetica non potesse essere soddisfatta dalla storia della letteratura (Mukařovský 1934, Mukařovský 1948:II:100): Vodička prese una posizione intermedia, differenziando l’estetica dal valore storico (vedi sotto).

[25] Vodička drew a careful distinction between his semiotic position and Ingarden’s phenomenology. He borrowed Ingarden’s term ‘concretization’, but gave it his own definition – ‘a reflection of a work in the consciousness of those individuals for whom the work is an aesthetic object’ (‘Problematika’, Struktura, p. 199; Prague School, p. 110). Despite Vodička’s explicit dissociation, his borrowing of Ingarden’s term has led to a spontaneous linking of his semiotic theory of reception with phenomenological Rezeptionsästhetik (see below, chapter 11) and resulted in a confusion which up to now has not been cleared up (for contradictory opinions see Schmid, ‘Begriff’; Fieguth, ‘Rezeption’; Martens, ‘Textstrukturen’; Striedter, ‘Einleitung’, pp. lxiii-lxv; de Man, ‘Introduction’, pp. xvii-xviii). A claim according to which Prague School theory of reception was ‘established on the foundations of Rezeptionsästhetik’ (Jauss, Literaturgeschichte, p. 246; Aesthetic, p. 72) is contrary to historical facts.

 

Vodička tracciò un’attenta distinzione tra la sua posizione semiotica e la fenomenologia di Ingarden. Prese in prestito il termine «concretizzazione» da Ingarden, ma gli diede una sua definizione personale: «il riflesso di un opera nella coscienza di quegli individui per i quali l’opera è un oggetto estetico» (Vodička 1941, Vodička 1969:199; Steiner 1982:110). Nonostante la dissociazione esplicita di Vodička, la sua appropriazione del temine di Ingarden portò ad un collegamento spontaneo della sua teoria semiotica della ricezione con la Rezeptionsästhetik fenomenologica (vedi capitolo 11) e determinò una confusione che ad oggi non è stata chiarita (per opinioni contraddittorie vedi Schmid 1970; Fieguth 1971; Martens 1973; Striedter 1976:lxiii-lxv; de Man 1982:xvii-xviii). Una dichiarazione secondo cui la teoria della ricezione della Scuola di Praga venne «costituita sulla basi della Rezeptionsästhetik » (Jauss 1970:246; Jauss 1982:72) è contraria a fatti storici.

[26] It is worth remembering that Vodička’s reception theory is not restricted to concretizations of individual literary works; ‘higher literary wholes’, authors, literary groups, periods and entire national literatures, preserve their vitality in a continual process of reception.

 

Vale la pena ricordare che la teoria della ricezione di Vodička non è ristretta alla concretizzazione delle singole opere letterarie; «insiemi letterari superiori», autori, gruppi letterari, periodi e intere letterature nazionali preservano la loro vitalità in un processo continuo di ricezione.

 

[28] This ‘Prague School model’ of literary evolution was succinctly summed up by Červenka: ‘The preceding state of the literary series predetermines in a manifold manner its following stage; the actual selection from this immanently given set of possibilities is accomplished under the impact from a different realm, from the external, extraliterary series’ (‘O Vodičkově metodologii’, p. 335).

 

Questo «modello della Scuola di Praga» dell’evoluzione letteraria venne riassunto succintamente da Červenka: «la condizione precedente della serie letteraria predetermina in molteplici modi la sua condizione successiva; la scelta effettiva da questo insieme di possibilità date immanentemente è realizzata sotto l’influenza di un campo diverso da quello delle serie esterne extraletterarie» (Červenka 1969:335).

Laura Scavino, Da Mosca e da Praga verso Tartu: influenza del formalismo e dello strutturalismo su Lotman Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Da Mosca e da Praga verso Tartu:

influenza del formalismo e

dello strutturalismo su Lotman

LAURA  SCAVINO

Civica  Scuola  Interpreti  e  Traduttori  Milano

              Via  Alex  Visconti, 18 – 20151  MILANO

 

 

 

Relatore: Professor Bruno OSIMO

L-12 Mediazione Linguisitica

 

Luglio 2015

Anno  Accademico 2014-2015

 

 

Titolo tesi: Da Mosca e da Praga verso Tartu: influenza del formalismo e dello strutturalismo su Lotman

Nome studente: Scavino Laura

Nome del relatore: Osimo Bruno

Titolo accademico: Mediazione linguistica

Data: 23 luglio 2015

Lingue degli abstract: italiano, inglese, russo

N. pagine: 69

Parole chiavi (max 10): Lotman, Estonia, formalismo, strutturalismo, Tartu, intervista, traduzione, Jakobson, semiotica, Praga, Mosca; linguistic circles, interview, formalism, structuralism, semiotics, influence, translation.

 

 

La traslitterazione del russo è stata eseguita in conformità della norma ISO R 9:1995.

 

© S. J. Neklûdov Moskovsko-Tartuskaâ Semiotičeskaâ Škola: istoriâ, vospominaniâ, razmyšleniâ. Moskvà, 1998 per l’edizione originale.

© Tallinn University Press, 2013 per i testi citati.

© Laura Scavino per l’edizione italiana 2015.

 

 

 

 

ABSTRACT IN ITALIANO

La tesi è stata elaborata utilizzando fonti scritte in russo e in inglese reperite in Estonia e fonti orali grazie al parere di studenti e studiosi estoni, in particolar modo del figlio di Ûrij Lotman: il professor Mihhail Lotman del quale si trascrive l’intervista in appendice. L’elaborato ruota attorno alla figura di Lotman, la sua storia legata al contesto russo ed estone ma soprattutto alla semiotica e al suo interessamento nei confronti dei circoli linguistici dell’epoca, l’influenza dei formalisti russi in quanto suoi insegnanti, l’ideazione della scuola di Tartu-Mosca che è il simbolo dello strutturalismo ed è  collegata all’esperienza di Praga e quindi a Roman Jakobson. In ultima analisi è stata notata anche l’influenza che egli ancora esercita nell’ambito della semiotica della traduzione.

 

 

ENGLISH ABSTRACT

The following thesis was prepared using written sources in English & Russian which have been founded in Estonia, and oral sources obtained through the opinions of Estonian students and scholars, in particular Professor Mihhail Lotman, son of Urij Lotman, whose interview has been transcribed as an appendix. The following paper is set around the figure of Lotman, his history and links within a Russian & Estonian context, but mainly to his semiotics and interest towards the linguistic circles at the time; the influence of his Russian formalist teachers; the idea of the Tartu-Moscow school which is seen as the symbol of Structuralism; and its link to the experience of Prague and therefore to Roman Jakobson. In conclusion, it was identified that Lotman is still heavily influencing the semiotics in the field of translation.

 

 

РЕЗЮМЕ НА РУССКОМ ЯЗЫКЕ

Дипломная работа создавалась с использованием источников, написанных на русском и на английском языках, обнаруженных в Эстонии, а также на основе устных источников благодаря участию эстонских студентов и ученых, в частности, сына Юрия Лотмана – профессора, Михаила Лотмана, чьё интервью приводится в Приложении. Ключевой фигурой работы является Лотман, его история, связанная с Россией и с Эстонией, в частности, с семиотикой и его интересом к языковым кружкам того времени, влиянием русских формалистов, выступавших в качестве его учителей, замыслом основать тартуско-московскую семиотическую школа, которая является символ структурализма, а также с опытом Праги, и, естественно, с Романом Якобсоном. В заключении отмечается влияние, которое он по-прежнему оказывает в сфере семиотики перевода.

 

Sommario

1.  Formalismo russo                                                            4

 

2. Il Circolo linguistico di Praga                                           12
3. Lo strutturalismo ceco                                                     17
4. Jakobson figura chiave di congiunzione fra il formalismo russo e lo strutturalismo francese                                                   20
5. Lotman e Scuola semiotica di Tartu-Mosca                    22
5.1. Di che cosa avevano bisogno i moscoviti e che cosa poteva offrire loro Lotman?                                                             24
5.2. Lotman in Estonia                                                25
5.3. Uno sguardo più da vicino                                            40
5.4. Il ruolo della traduzione                                                42
6. Conclusione                                                                   47

 

7. Appendice – Intervista a Mihhail Lotman condotta durante il programma Erasmus+ in data 1/6/2015 a Tallinn, Estonia  48
Riferimenti bibliografici                                                         57

 

«L’abitudine impedisce di vedere, di sentire gli oggetti, bisogna deformarli se si vuole che riescano a trattenere il nostro sguardo: il fine delle convenzioni artistiche sta proprio in questo» (Todorov 1965:14).

 

1.    Formalismo russo

 

La critica è l’attività degli eruditi nell’antica Grecia ma possiamo definirla «una generica attitudine a esprimere giudizi sui testi che nasce quasi nello stesso momento in cui prende avvio l’esperienza di una parola adibita a fini diversi da quelli della comunicazione ordinaria e funzionale» (Verdenius 2003:9). Critici letterari e pensatori di vari periodi storici hanno posto l’accento sugli aspetti formali dell’arte e della letteratura. Aristotele, retore antico e medievale, Kant, molti romantici e simbolisti ed esteti dell’Ottocento davano assoluta importanza alla forma letteraria.

 

La teoria letteraria moderna invece trova la sua culla in un paesaggio e contesto totalmente diverso e non solo dal punto di vista climatico: Mosca nel Novecento.

Nei primi del Novecento vi è una nuova intensità e coscienza di sé nelle letterature e teorie critiche, a partire dal movimento formalista in Russia e con il modernismo europeo, estendendosi successivamente al New Criticism in Inghilterra e in America e alle scuole successive, come i neoaristotelici. In generale, un’enfasi sulla forma mette tra parentesi gli interessi per gli aspetti rappresentativi, imitativi e cognitivi della letteratura. La letteratura non è più considerata un modo per rappresentare la realtà o un personaggio o per impartire lezioni morali, ma è considerata un oggetto a sé stante, autonoma (che possiede le proprie leggi) e aristotelica (avendo gli obiettivi all’interno di sé stessa). Inoltre, in questa visione formalista, la letteratura non trasmette alcun messaggio chiaro o parafrasabile; piuttosto comunica ciò che altrimenti sarebbe indescrivibile. La letteratura è considerata l’unico modo per esprimersi, non è un’estensione di retorica, filosofia, storia o un documentario sociale o psicologico (Fortson 2004).

«Il loro punto di partenza riguarda il tentativo di osservare le forme espressive come dei sistemi di comunicazione: indipendentemente, cioè, dalle idee, dai sentimenti e da ogni altro materiale psicologico, politico, ideologico, filosofico o religioso, che esse veicolano. L’obiettivo è di considerare tali forme in termini di linguaggio: di sistemi la cui specificità sia riconducibile alla diversità dei procedimenti tecnici utilizzati. Alla correlazione tradizionale forma-contenuto, che fa della forma un semplice involucro da riempire, sostituiscono  il rapporto forma-materiale: il processo espressivo viene fatto dipendere non dagli elementi che lo compongono, ma dal «principio costruttivo» che presiede alla sua organizzazione» (Grassi 2002:8-14).

I formalisti, che si concentravano sui procedimenti artistici sulla base di studi del testo, nacquero nella Russia prerivoluzionaria ma poi si opposero all’arte tradizionale come gesto politico, avvicinandosi in qualche modo alla rivoluzione.

Vi sono due scuole del formalismo russo. Il Circolo linguistico di Mosca, 1915-24 (Moskovskij lingvističeskij kružok), guidato da Roman Jakobson, che si è costituito nel 1915 e che includeva Osip Brik e Boris Tomaševskij. Il secondo gruppo, la Società per lo studio della linguaggio poetico (Obŝestvo izučeniâ poètičeskogo âzyka, Opoâz), 1916-20 che vide protagonisti Viktor Šklovskij, Boris Èjchenbaum e il filologo Ûrij Âkubinskij e il folklorista Vladimir Propp (Habib 2005:602-30). Quest’ultimo gruppo a partire dal 1915 si riunì presso l’appartamento di Osip e Liliâ Brik, il quale fungeva da punto di incontro per l’avanguardia artistica.

Il Circolo linguistico di Mosca nacque da un gruppo di studenti all’interno della Commissione per lo studio dei dialetti (Moskovskaâ dialektologičeskaâ komissiâ) presso l’Università di Mosca nel marzo del 1915.

Nel 1919 gli studiosi dell’Opoâz aderiscono al Circolo linguistico di Mosca e da quel momento i due gruppi pubblicano insieme.

I Formalisti stabilirono una serie di regole teoriche e un approccio metodologico volto a definire la letteratura quale ambito di studio indipendente (Eagleton 1983).

Essi provarono a creare una scienza della letteratura e a considerarla un fatto sociale. Ciò implicò l’abbandono della comprensione del testo artistico in quanto manifestazione del genio o della psicologia di un individuo e sostituendovi una concezione della letteratura in quanto fenomeno unico, definito da princìpi generali individuabili (Merrill 2012:11-13).

Spesso si considera, erroneamente, il formalismo russo caratterizzato dalla dottrina «arte per l’arte/искусство для искусства». Pensiero condiviso anche da Benedetto Croce, secondo il quale l’intuizione o meglio il processo creativo è indipendente da scopi morali, scientifici, edonistici ed egli è a favore dell’arte fine a sé stessa, in quanto processo creativo ma contrario all’arte per l’arte, che ha denigrato gli ambiti dell’arte pura (Nazirov 2010:358-403).

I formalisti erano sostenitori del neopositivismo, credevano che l’oggetto di studio dovesse essere un’opera d’arte in sé e non per il significato dello studio riflesso in questo lavoro. Scartavano il “pregiudizio filosofico” la loro estetica era più descrittiva che metafisica.

Per Jakobson studiare la letteratura significa apprendere i valori in essa rinchiusi: «l’oggetto della scienza della letteratura non è la letteratura in sé ma la letterarietà (literaturnost’), ossia ciò che da una data opera crea un lavoro letterario. Invece finora gli storici della letteratura hanno soprattutto scimmiottato come la polizia quando deve arrestare una determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e qualsiasi cosa si trovi nell’appartamento e anche chi per caso si trovi a passare nella strada accanto. Così anche per gli storici della letteratura tutto faceva brodo: costume, psicologia, politica, filosofia. Invece della scienza della letteratura si ebbe un conglomerato di discipline rudimentali. Pareva che ci si dimenticasse che queste rientrano, ognuna, nelle scienze corrispondenti: storia della filosofia, storia della cultura, psicologia, eccetera, e che queste ultime possono naturalmente utilizzare anche i monumenti letterari come documenti difettosi, di seconda scelta» (Ėjchenbaum 1968:37).

La differenza fra letteratura e non-letteratura non deve essere ricercata nella sfera della realtà, che si riferisce allo scrittore, ma nel metodo di esecuzione. Per questo i formalisti si rifanno ad Aristotele. Questa è la teoria secondo cui l’uso di immagini costituisce la caratteristica fondamentale della letteratura “artistica” (hudožestvennaâ) o delle poesie nel senso aristotelico del termine. I formalisti ritengono che questa teoria debba essere criticata.

Si mira ad un’analisi integrata dell’opera poetica; i membri dell’Opoâz rivolgono tutta l’attenzione verso l’analisi della forma, che viene vista come il supporto basilare della specificità dell’arte.

La parola forma ha molti significati, e ciò, come sempre, provoca non poca confusione. Dovrebbe essere chiaro che noi utilizziamo questo termine in un’accezione particolare – non come una sorta di correlativo della nozione di ‘contenuto’ […], bensì come elemento essenziale per il fenomeno artistico, il suo principio di organizzazione. Non ci curiamo della parola forma, ma soltanto di una sua particolare sfumatura. Non siamo ‘formalisti’, ma, se si vuole, ‘specificatori’ (Èjhenbaum 1926).

Il formalismo entra in collisione con il periodo storico degli anni Trenta, quando in Unione Sovietica vi è stato un periodo di crescente terrore politico ed è scoppiata una campagna contro il formalismo nell’arte e allo stesso tempo contro la scuola del formalismo e la critica letteraria (Nazirov 2010).

Più che vedere la fine del formalismo possiamo riconoscere la sua eredità nella Scuola di Praga e nella Scuola di Tartu-Mosca più avanti, tramandata da personalità russe come Roman Jakobson, Pëtr Bogatyrëv e Lotman che andarono in giro per il mondo a diffondere le lezioni dei formalisti russi.

I fondatori del formalismo furono quegli studiosi, per lo più ebrei, immersi in più di una tradizione culturale e si sentivano a loro agio nella diversità etnica e culturale di Mosca e San Pietroburgo. Le vite di Lukács, Jakobson, Trubeckoj, Bogatyrëv, Šklovskij, e anche di René Wellek, ci impongono di considerare l’enorme importanza che ha assunto l’esilio e la migrazione nella nascita della moderna teoria letteraria nell’Europa Orientale e Centrale (Tihanov 2004:67-68).

«“Formalismo” è il termine con cui viene designata, nell’accezione negativa che gli attribuivano i loro “avversari”, la corrente critico-letteraria affermatasi in Russia negli anni tra il 1915 e il 1930. La dottrina formalista è all’origine della linguistica strutturale o, almeno, del suo indirizzo rappresentato dal Circolo Linguistico di Praga» (Todorov 1965).

I formalisti elaborano i loro princìpi di analisi strutturale applicata alla letteratura, all’arte visiva, al giornalismo, al cinema, nutrendosi principalmente del riferimento alle teorie di Edmund Husserl, di Ferdinand de Saussure e dalla psicologia della Gestalt (Costa 1975:8).

I formalisti introducono, una prospettiva sociologica nello studio del lavoro intellettuale sostenendo che «scrivere all’improvviso, secondo ispirazione, non è dato per scontato, quello dello scrivere è un mestiere che esige una determinata competenza, un determinato periodo di apprendistato» (Šklovskij 1965:33). La scuola duramente attaccata da Trockij, Lunačarskij e Buharin viene in seguito etichettata come «l’ultima falange degli intellettuali di mentalità europeo-borghese. Da questa semplicistica svalutazione del metodo formalista fino alla sua diffamazione come ideologia del nemico di classe il passo è breve» e ha condotto allo scioglimento ufficiale del movimento nel 1928 (Günther 1975:30).

I formalisti vedevano la letteratura come un’emanazione dell’anima dell’autore, come un documento storico-sociale, o come manifestazione di un sistema filosofico.

L’opera d’arte viene percepita sullo sfondo e per mezzo dell’associazione mentale con altre opere d’arte. La forma dell’opera d’arte viene determinata dal rapporto con le altre forme, esistenti prima. […] Ogni opera d’arte in genere è costruita in parallelo o in contraddizione a qualche modello. La forma nuova appare non per esprimere un contenuto nuovo, ma per sostituire la forma vecchia, che ormai ha perduto la sua artisticità (Šklovskij 1965).

È il procedimento che trasforma il materiale extra-artistico in un’opera d’arte, con il procurare ad esso una forma»; Il contenuto (l’anima) dell’opera letteraria è uguale alla somma complessiva dei suoi procedimenti stilistici; un’opera d’arte ha per anima la struttura, un rapporto geometrico di masse (Šklovskij 1965).

Viktor Šklovskij (1893-1984) introduce il concetto di «evoluzione» che prevede la sostituzione delle tecniche tradizionali con altri dispositivi espressivi il cui carattere specifico non riguarda l’essere più moderni o più antichi ma semplicemente la loro capacità di produrre effetti inediti sul pubblico. Questo perché, secondo l’ottica sociologica di Šklovskij, non si scrive per sé stessi ma per un pubblico particolare: un pubblico di cui bisogna conoscere la composizione in modo tale da poter scegliere la tecnica che maggiormente è in grado di colpirlo.

Per combattere l’automatismo della percezione, l’arte usa il metodo fondamentale dello straniamento: «c’è un vecchio termine, “ostranenie”, che spesso scrivono con una sola enne anche se deriva dalla parola “strannyj” (strano), ma il termine è entrato in uso nel 1916 con questa grafia. Oltre a ciò è spesso inteso male e chiamato “otstranenie” (distacco, allontanamento), che significa rifiuto del mondo. Ostranenie è invece stupore per il mondo». (Šklovskij 1965:103).

La letteratura si trova nelle parole che adotta e nell’ordine di rapporto che stabilisce con esse. Si prende una storia da raccontare e la si trasforma (dico: trasformare) in espressione d’arte rendendo estraneo ciò che è abituale. Operi una trasfigurazione semantica. Tu non registri (e dico: registri) un contenuto ma lo generi, emancipi l’arte dalla quotidianità. La dipendenza del prodotto artistico dal contenuto è negata alla radice, come la dipendenza dalla sequenza storica. Ma la straniazione presuppone l’esistenza di un mondo fuori di noi, è il mondo l’oggetto della straniamento.

Il punto è che lo scopo dell’arte non è di testimoniare una verità assoluta, impersonale, ma di esprimere la verità percepita dal suo autore. […] L’arte deve donare un’occasione percettiva inusuale a chiunque abbia occhi, qualunque sia la cultura dell’osservatore o del lettore (Šklovskij 1965).

Analizziaziamo adesso le prospettive differenti dei formalisti russi divisi nei due centri: il Circolo linguistico di Mosca e l’Opoâz.

Secondo i moscoviti Bogatyrëv e Jakobson «mentre il Circolo Linguistico di Mosca procede dal considerare che la poesia è linguaggio nella sua funzione poetica», gli esponenti di San Pietroburgo ritenevano che «il motivo poetico non sempre scaturisce dal materiale linguistico» (Safronov 1985:42-48).

Esistono due scuole critiche che hanno affinità intellettuali con i formalisti russi: lo strutturalismo di Praga e il gruppo neomarxista capeggiato da Michail Bachtin.

Lo stretto legame genealogico fra i formalisti russi e la scuola di Praga è innegabile. Gli uni e l’altra non hanno solo in comune alcuni rappresentanti (Bogatyrëv e Jakobson), ma il gruppo della scuola di Praga si è volutamente definito una branca della scuola formale: il Circolo linguistico di Mosca. Inoltre, diversi formalisti (Tomaševskij, Tynânov e Vinokur) hanno tenuto conferenze negli anni Venti presso il Circolo di Praga e lì hanno discusso con studiosi cechi del risultato delle loro ricerche. Data questa stretta correlazione non sorprende che Russian Formalism di Victor Erlich contenga un capitolo sulla Scuola di Praga. Per parlare poi delle ripercussioni del formalismo russo sui paesi vicini, Erlich introduce il concetto di «formalismo slavo» la cui mutazione praghese definisce «strutturalismo». Sebbene sottolinei le differenze fra formalismo puro e formalismo praghese, per Erlich la teoria testuale della Scuola di Praga è una riaffermazione dei princìpi del formalismo russo in termini più rigorosi (Preminger 1974:727).

Mentre Erlich tende a fondere il formalismo russo e lo strutturalismo di Praga, Striedter rappresenta le loro graduali divergenze. Il suo schema presenta la transizione dal formalismo russo allo strutturalismo di Praga come processo che consta di tre stadi di riconcettualizzazione di ciò che è il «literary work of art» (Steiner 1994:15):

1. The work of art as the sum of devices, which have a de-familiarizing function whose purpose is impeded perception.

2. The work of art as a system of devices in specific synchronic and diachronic functions.

3. The work of art as a sign in an aesthetic function (Selden 2004:15).

 

Solo il primo e l’ultimo punto dello schema di Striedter possono essere assegnati rispettivamente al formalismo russo e allo strutturalismo di Praga; lo stadio intermedio è la zona grigia alla quale si applicano entrambe le etichette. In questo modo le due scuole critiche, storicamente connesse, allo stesso tempo sono teoricamente distanziate.

I formalisti si consideravano i pionieri nella nuova scienza del testo e gli strutturalisti hanno enfatizzato la natura interdisciplinare della loro iniziativa e la somiglianza dei loro princìpi e metodi con quelli di altri àmbiti di conoscenza. Lo strutturalismo, termine coniato da Roman Jakobson e apparso nel 1929, «is the leading idea of present-day science in its most various manifestations» (čin 1929:11).

2. Il Circolo linguistico di Praga

L’opera poetica è una struttura funzionale, e i vari elementi non possono essere compresi al di fuori della loro connessione con l’insieme. Elementi oggettivamente identici possono svolgere, in strutture diverse, funzioni assolutamente differenti.

Il lavoro preliminare della poetica strutturale disposto dai formalisti russi è stato sviluppato nel primo sistema dello strutturalismo testuale del Novecento dagli studiosi del Circolo linguistico di Praga. I collegamenti fra le scuole russa e praghese sono ben note a Jan Mukařovský, il teorico letterario più illustre di Praga, il quale ha riconosciuto che il sistema concettuale del suo primo lavoro, May, monografia del 1928, è nato con i formalisti russi.

Senza l’indirizzo semiotico, il teorico sarà sempre incline a considerare l’opera d’arte come una costruzione puramente formale, o anche come riflesso diretto sia delle disposizioni psichiche, o magari fisiologiche, dell’autore, sia della realtà distinta espressa dall’opera, sia della situazione ideologica, economica, sociale e culturale del dato ambiente. Ciò lo porterà a trattare il processo di sviluppo dell’arte come un séguito di trasformazioni formali o a negarlo (come alcune correnti dell’estetica psicologica) o ancora a concepirlo come riflesso passivo di un processo esterno all’arte. Solo il punto di vista semiotico permetterà ai teorici di riconoscere l’esistenza autonoma e il dinamismo essenziale della struttura artistica e di intenderne l’evoluzione come un movimento immanente ma in rapporto costante con l’evoluzione di altri campi della cultura (Mukařovský 1936).

Mukařovský, anche se riconosce le radici e l’influenza del formalismo russo, chiarisce la separazione con il circolo linguistico di Praga: «ogni fatto letterario si presenta dunque come effetto di due forze: la dinamica interna della struttura e l’impulso esterno. L’errore della storia letteraria tradizionale consisteva nel tener conto solo degli impulsi esterni, negando alla letteratura uno sviluppo autonomo, l’unilateralità del formalismo nel collocare l’andamento letterario nel vuoto assoluto» (Mukařovský 1936).

Vilém Mathesius, presidente del circolo linguistico di Praga per dieci anni dal 1936, ha encomiato il contributo degli studiosi russi, ma ha anche enfatizzato l’origine nazionale della scuola di Praga. Nello stesso anno, Roman Jakobson, esponente di entrambe le scuole, ha parlato di «simbiosi del pensiero ceco e russo», ma ha anche sottolineato le influenze provenienti dalle scuole occidentali e americane.

Questa sintesi non era inconsueta a Praga: «la posizione di crocevia fra svariate culture è sempre stata una caratteristica del mondo cecoslovacco» (Selden 2004:547). Riconosciamo in Praga una delle manifestazioni dello sbocciare della cultura dell’Europa Centrale (Steiner 1984:10-49).

Nel breve periodo che intercorre tra gli anni Dieci e Trenta, l’Europa centrale ha sviluppato diversi sistemi teorici che avrebbero dominato il clima intellettuale del Novecento: fenomenologia (Husserl, Ingarden), psicoanalisi (Freud, Rank), neopositivismo (circolo di Vienna), psicologia della Gestalt (Wertheimer, Kohler, Koffka), la scuola di logica di Varsavia (Lesniewski, Tarsi) e lo strutturalismo (scuola di Praga).

Il Circolo linguistico di Praga era integrato nel contesto dell’Europa centrale non solo per la composizione internazionale, ma anche per i contatti fra studiosi: seminari tenuti da Husserl, Carnap, Uritz e altri (Doležel 1995:33-34).

Il circolo nasce il 6 ottobre 1926: Vilém Mathesius, direttore del seminario inglese all’Univerzita Karlova, e quattro suoi colleghi (Jakobson, Havranek, Trnka, Rypka) incontrano il giovane linguista H. Becker in occasione di una conferenza da lui tenuta. Mathesius ha dato al gruppo non solo una forma organizzata, ma anche una chiara direzione teorica. Il circolo è diventato presto un’associazione internazionale di circa cinquanta studiosi ai quali si aggiungevano i fondatori. Inizialmente gli articoli venivano presentati regolarmente agli incontri che trattavano di linguistica teorica, ma presto vennero considerate anche questioni di poetica, etnologia e antropologia, filosofia e filosofia legale.

Negli anni Trenta il circolo è emerso in quanto forza culturale di rilievo sulla scena nazionale. Il suo primo contributo di questo tipo è stato il tributo al filosofo, Presidente della Repubblica della Cecoslovacchia, Masaryk in occasione del suo ottantesimo compleanno, all’interno del volume Masaryk and Language (1930) che conteneva discorsi di Mukařovský e Jakobson. Nel 1935 il  di Praga ha avviato la propria rivista ceca Slovo a Slovesnost, sfruttando all’interno del titolo il nesso etimologico che esiste nelle lingue slave fra i traducenti di parola e letteratura. La rivista presto divenne un forum influente di linguistica e teoria letteraria (Doležel 1995:35).

L’alleanza fra i teorici progressisti e gli artisti della avant-garde è stretta già prima della formazione del circolo e ha provato di essere un’alleanza a lungo termine. Roman Jakobson, che è stato attivo nell’avant-garde poetica russa, ha stabilito stretti contatti con poeti e artisti cechi subito dopo il suo arrivo a Praga: «i giovani poeti e artisti cechi mi ricordavano il loro circolo e mi sono avvicinato loro molto… La mia conoscenza profonda dei circoli artistici cechi mi ha permesso di comprendere pienamente l’arte letteraria ceca dal Medioevo ai giorni nostri» (Linhartova 1977:143).

L’influenza del circolo linguistico di Praga cresce di pari passo alle voci dei critici che venivano sia dalla destra, i tradizionalisti nella lingua e nella scienza letteraria, che dalla sinistra, i marxisti. Lo scambio fra i rappresentanti del circolo e i responsabili marxisti (che si è verificato fra il 1930 e 1934) è probabilmente il primo confronto fra lo strutturalismo e il marxismo nel Novecento.

Negli ultimi anni dell’indipendenza cecoslovacca e anche durante l’occupazione tedesca, gli studiosi della scuola di Praga hanno lavorato per sistematizzare la poetica e l’estetica strutturale e hanno pubblicato i loro lavori migliori di analisi testuale. Quando le università ceche sono state chiuse dai nazisti nel novembre 1939, le conferenze al circolo continuarono nelle case private. Le attività pubbliche ripresero nel giugno del 1945 (Doležel 1995:36).

Il breve incantesimo di democrazia nella Cecoslovacchia postbellica (fra il maggio del 1945 e il febbraio del 1948) è stato il periodo più produttivo per lo strutturalismo della scuola di Praga.

Le differenze di opinione, gli scambi polemici e le tensioni personali erano inevitabili. Jakobson ha racchiuso l’atmosfera dei circoli di Mosca e di Praga nelle seguenti parole: «ricordando le loro conversazioni appassionate e impetuose che hanno incitato e stuzzicato il nostro pensiero scientifico, devo confessare che non ho mai assistito a dibattiti di una simile forza creativa» (Jakobson 1966:101-114).

Secondo Mathesius le idee formulate nel circolo di Praga hanno ottenuto un rapido successo perché non erano un prodotto casuale, ma soddisfacevano un “acuto bisogno intellettuale” della comunità scientifica internazionale (Mathesius 1936:137-151). Lo strutturalismo di Praga era uno sviluppo nel pensiero teorico convenzionale del Novecento: era uno stadio del paradigma postpositivistico della linguistica e della poetica iniziato da Ferdinand de Saussure e dai formalisti russi (Doležel 1995:36).

Eppure, nonostante sia un movimento transnazionale, lo strutturalismo si è sviluppato lungo traiettorie diverse nei vari contesti nazionali. Per esempio, nella Francia degli anni Quaranta lo strutturalismo era sostanzialmente un’importazione senza radici intellettuali profonde a livello locale (Pavel 1989:125-132).

D’altro canto, l’Europa orientale e la Russia già negli anni Venti hanno esportato questo tipo di orientamenti sotto il nome di formalismo russo e strutturalismo della scuola di Praga.

Il Circolo Linguistico di Praga o scuola di Praga, come già è stato detto, attiva dal1926 fino agli anni Quaranta (il cosiddetto periodo classico) ha coinvolto sia studiosi cechi (Vilém Mathesius, Jan Mukařovský, René Wellek) che emigrati russi (Roman Jakobson e Nikolaj Trubeckoj).

Nel 1928 la scuola di Praga ha presentato le sue Tesi al Primo Congresso Internazionale di linguisti a L’Aia, tesi che, l’anno successivo sono state ampliate per il Primo Congresso Internazionale degli Slavisti. Nello stesso periodo il gruppo pubblica anche una collana, Travaux du Cercle Linguistique de Prague.

Travaux du Cercle Linguistique de Prague è una serie che dal 1929 al 1939 ha visto la pubblicazione di otto volumi scritti da parte di esponenti del circolo e da “compagni di strada”. I volumi sono scritti in inglese, francese e tedesco. Nel 1928 i partecipanti al primo congresso di linguistica di Den Haag hanno creato con gli studiosi della scuola di Ginevra un documento che esprimeva i princìpi della nuova «linguistica strutturale». Le programmatiche Thèses du Cercle Linguistique de Prague, presentate al primo congresso internazionale di slavisti tenuto a Praga e pubblicate nel 1929, hanno definito la teoria strutturale della lingua, la lingua letteraria e la lingua poetica. Nel 1932, all’interno dei documenti del terzo congresso internazionale di scienze fonetiche ad Amsterdam, viene utilizzata per la prima volta la dicitura «scuola di Praga», riferendosi alla fonologia innovativa dei linguisti del circolo di Praga (Doležel 1995:35).

Per Tesi si intende la descrizione dettagliata dell’analisi linguistica sulla base dei principi della Scuola nell’approccio alla realtà linguistica (Vaček 1966:8-10). Questo approccio viene considerato strutturalmente funzionale. Le Tesi vennero preparate da Mathesius, Jakobson, Havrànek e Mukařovský, ma vennero coinvolti anche altri studiosi. Vennero presentate in ceco e francese al Congresso, il quale le ha approvate e ha creato un comitato internazionale di dieci linguisti che si sarebbero dovuti occupare di ricerca, analisi delle lingue slave secondo i princìpi della scuola di Praga.

Il gruppo colse l’iniziativa audace della International Phonological Conference nel 1929 come preparatoria per il Congresso Linguistico a Ginevra nel 1931, che è stato un altro successo per quanto riguarda l’approccio funzionale strutturale (Nylund 2013:155-221).

Al Congresso di Amsterdam del 1932 è stato impiegato per la prima volta il termine “L’Ècole de Prague” e costituisce un successo per gli studiosi del Circolo che avevano iniziato la loro attività già da tre anni (Vaček 1966:10-11).

Al centro dell’attenzione della scuola di Praga negli anni Trenta vi era la fonetica, mentre la tipologia e i morfemi sono stati studiati più tardi. Luelsdorf afferma che materie quali la semantica, la sintassi, la stilistica e l’analisi del discorso sono affrontate molto più tardi a causa del ritardo dovuto alla Seconda guerra mondiale e al subbuglio scaturito (Robins 1967:206).

Vilém Fried ha sottolineato che la profondità degli studi di linguistica funzionale all’interno della Scuola di Praga fin dalla sua nascita va ben oltre quello che si pensa. Ciò è collegato al fatto che la maggior parte del lavoro che è stato fatto da cechi e slovacchi non è stato tradotto ed è rimasto inaccessibile a un pubblico più vasto (Fried 1972:2).

 

3. Lo strutturalismo ceco

 

Negli anni Venti, Praga è stata un luogo di incontro per studiosi di diverse discipline e paesi. Questo è il motivo per cui lo strutturalismo di Praga è il risultato di numerose assimilazioni: l’estetica e la tradizione linguistica ceca, il formalismo russo, la linguistica di Saussure (Jettmarova 2008:15-17).

Nel 1936, Jakobson ha affermato che la teoria di Praga era il risultato della simbiosi del pensiero ceco e russo (Doležel 1995:164).

Lo strutturalismo consiste originariamente in una teoria linguistica che ha spostato l’attenzione dei linguisti dalla materialità dei suoni e altri elementi del linguaggio umano alle “strutture profonde” delle relazioni, che sembrano determinare le proprietà di questi elementi. Il movimento accademico, inaugurato dal linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913), raggiunge il proprio culmine negli anni Sessanta (Habib 2005:631). Questo processo si sviluppa in Francia, Italia, Cecoslovacchia, Stati Uniti e in Unione Sovietica.

Eppure, nonostante sia stato un movimento transnazionale, lo strutturalismo si è sviluppato con traiettorie diverse.

Si ritiene che il formalismo russo e lo strutturalismo ceco abbiano iniziato lo studio della letteratura come disciplina autosufficiente applicando concetti linguistici all’analisi di testi artistici.

Nel corso degli anni Venti, l’attenzione per le caratteristiche formali dei testi letterari ha promosso la visione dell’opera letteraria e del campo letterario come sistema internamente organizzato. Questa svolta è stata accolta come fondamento dello strutturalismo ceco, movimento che si è affermato dopo il formalismo russo alla fine degli anni Venti. Lo strutturalismo russo ha applicato questo modello sistemico non solo alle opere letterarie, ma anche ad altri mezzi espressivi come il teatro e il cinema. Questo lavoro era fondamentale per lo studio della semiotica del Novecento: l’applicazione del concetto di segno linguistico nel campo della cultura (Merrill 2012:105-133).

 

Lo strutturalismo di Praga, fuori dai propri confini, isolato dietro la “cortina di ferro”, continua a lungo a essere perlopiù mal interpretato, viene equiparato al formalismo russo e così condannato all’oblio con l’avvento del poststrutturalismo. Tuttavia la realtà era diversa. Mentre negli anni Trenta e nel periodo dopo la seconda guerra mondiale Praga ha influenzato non solo lo strutturalismo linguistico europeo, ma anche la linguistica moderna in genere, i fraintendimenti forse sono emersi per due motivi: il presupposto sbagliato che il formalista russo Roman Jakobson, figura importante nel periodo classico ceco, rappresentasse quello che viene definito «strutturalismo di Praga», e l’errore secondo il quale lo strutturalismo di Praga sarebbe collegato con quello francese e che entrambi sarebbero stati messi da parte dal post strutturalismo negli anni Settanta.

«Molte idee e metodi teorici di analisi avanzati nel periodo post strutturalista sono stati introdotti nel pensiero strutturalista della scuola di Praga» (Doležel 1995:634).

 

Identificare il poststrutturalismo con un periodo nella storia intellettuale occidentale piuttosto che con un particolare atteggiamento ontologico o epistemologico (Doležel 1995:634) evidenzia che non vi è alcuna continuità fra lo strutturalismo di Praga e quello francese: «nella mente di molti teorici occidentali, lo strutturalismo viene associato con lo strutturalismo francese,  il poststrutturalismo è comunemente inteso come sfida teorica nei confronti dello strutturalismo francese. L’identificazione dello strutturalismo con la sua manifestazione francese, tuttavia, è una distorsione di un aspetto della storia del Novecento. Il termine strutturalismo viene coniato quando il concetto stesso di strutturalismo viene formulato a Praga alla fine degli anni Venti. Lo strutturalismo francese ignorava questo retaggio» (Doležel 1995:634).

Questo significa che vi era una strada che partiva dalla Russia per andare alla Praga prebellica, centro della linguistica strutturalista, estetica e poetica, e un’altra strada che arrivava alla Parigi postbellica. Questo spiega anche, come evidenzia Doležel (2000:635), che Jakobson, considerato un eroe dallo strutturalismo francese, fosse anche considerato un collegamento diretto fra il formalismo russo e lo strutturalismo francese. Di conseguenza i paradigmi di Praga e Parigi erano diversi l’uno dall’altro, nonostante avessero la “Jakobsonian Connection”, ma in momenti diversi e in circostanze differenti.

Negli anni Venti, Praga era anche un punto di incontro per studiosi di diverse discipline e paesi. Questo è il motivo per cui lo strutturalismo di Praga è il risultato di numerose assimilazioni: la tradizione estetica e linguistica ceca, il formalismo russo, la linguistica di Saussure, la fenomenologia di Husserl, la sociologia di Émile Durkheim, la logica di Carnap. Nel 1936 Jakobson (Doležel 1995:164) ha affermato che la teoria di Praga era risultato di una simbiosi del pensiero ceco e russo, mentre allo stesso tempo incorporava l’esperienza della scienza dell’Europa occidentale e statunitense.

Venne pubblicato da Mukařovský un resoconto dettagliato delle relazioni fra il formalismo russo e praghese in un suo articolo sulla traduzione ceca di O teorii prozy di Šklovskij nel 1934. Egli sottolinea che Praga ha messo insieme l’autonomia strutturale con l’aspetto del condizionamento del radicamento socioculturale.

Quando Jiří Levý ha pubblicato České theorie překladu nel 1957 e Umení překladu nel 1963, aveva una struttura teorica e metodologica completamente sviluppata: lo strutturalismo di Praga come si era sviluppato durante il periodo classico tra gli anni Venti e Quaranta (Jettmarova 2008:16).

Un‘altra figura importantissima che compare, sia in Russia che a Praga, è Pëtr Grigor’evič Bogatyrëv, etnografo, docente, studioso di folklore e semiotico russo, il cui nome è stato associato con lo strutturalismo e la semiotica. Egli ha pubblicato lavori in collaborazione con Roman Jakobson (Il folclore come forma di creazione autonoma, 1929) e ha fatto parte sia del Circolo linguistico di Mosca che del Circolo linguistico di Praga. Šklovskij lo nomina nella decima lettera di Zoo o lettere non d’amore (1923).

Sebbene il circolo di Praga sia stato sospeso e lo strutturalismo represso nei primi anni Cinquanta in quanto incompatibile con l’ideologia marxista, specialmente con la versione impersonata da Stalin, lo sviluppo dello strutturalismo viene ridotto ma non interrotto.

 

4. Jakobson figura chiave di mediatore fra il formalismo russo e lo strutturalismo francese

 

Roman Osipovič Jakobson (1896-1982) è stato a capo del Circolo linguistico di Mosca dal 1915 al 1924 ed è stato anche cofondatore del Circolo linguistico di Praga. Dopo essersi trasferito negli Stati Uniti, ha insegnato ad Harvard e al Massachusetts Institute of Technology. Jakobson è un figura chiave sia per il formalismo russo che per lo strutturalismo. Le sue teorie dei tratti distintivi, della funzione poetica, della metafora e della metonimia e il suo modello di comunicazione sono punti di partenza per gli studi umanistici e per la Scuola di Tartu in particolare (Waldestein 2008:4).

 

«Propongo di porre al centro della storia dello strutturalismo globale […] un anello di collegamento di questa storia, la figura di Roman Jakobson in quanto nodo cruciale. Invece di vederlo come “predecessore” dello strutturalismo (francese), propongo di considerarlo una figura chiave di mediazione, il quale ha letteralmente e fisicamente cucito insieme tradizioni accademiche e nazionali diverse nel corso di diverse migrazioni forzate e durante alcuni suoi viaggi» (Holenstein 1976).

Jakobson è un esempio unico di traduttore universale nel senso primordiale della parola, quella che mette in correlazione diverse cose e le modifica formando nuovi collegamenti fra loro (Latour 2000:179). Jakobson non è stato solo un collegamento influente col formalismo russo; ha svolto un ruolo di fusione con lo spazio frammentato e polifonico dello strutturalismo internazionale e della semiotica. Michel Callon (1986) lo definisce «il punto di passaggio obbligato». Roman Jakobson è anche una delle figure centrali che possono aiutarci a capire la semiotica di Tartu e la natura della sua ricezione nell’Occidente.

Ecco il modello di Jakobson (1960):

 

Egli delinea una corrispondenza fra “elementi costituenti” qualsiasi atto comunicativo e specifiche funzioni della lingua. Ogni funzione ha un fattore particolare: la funzione fàtica serve a «stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, per vedere se i canali di comunicazione funzionano», se la funzione metalinguistica è utilizzata in ogni atto comunicativo il testo poetico specifico invece è anche un atto di comunicazione (Jakobson 1960).

La contrapposizione fra poesia e funzione poetica universale ha riscosso molto successo in Occidente mentre in Oriente ha provocato alcune controversie fra gli strutturalisti. Alcuni dubitavano dell’analogia fra la lingua naturale e i codici inventati dall’uomo, altri criticavano l’assunzione della linearità nel trasmettere un messaggio attraverso i “rumori” prodotti dal contesto e dal canale (Barthes 1973:18).

Vi è coerenza ed etereogenità all’interno del movimento strutturalista internazionale. La sua coerenza è basata su temi forti e sovrapposizioni terminologiche. Contemporaneamente, il movimento abbraccia tendenze e strategie di ricerca varie e anche teoricamente opposte. Per ogni “stereotipo” che abbiamo nello strutturalismo (semiotica, formalismo, poststrutturalismo) possiamo trovare una linea di posizione opposta nei lavori degli strutturalisti stessi. Per esempio, nonostante le differenze, lo strutturalismo francese e il poststrutturalismo condividono una serie di scelte all’interno delle possibilità disponibili nel movimento strutturalista: la prevalenza della linguistica, la differenza, l’arbitraria prevalenza del signifiant sul signifié (Giddens 1987).

In questo contesto, la semiotica di Tartu può essere vista come serie di scelte particolari. Dal punto di vista del metodo ciò implica che un modo per definire la struttura della Scuola è la posizione delle sue idee rispetto a quelle di altre scuole e di tutto quello che porta il nome di “formalismo”, “strutturalismo” e “semiotica”.

 

 

5. Lotman e Scuola semiotica di Tartu-Mosca

 

A Mosca nel 1991, per la precisione nel settembre, si ritrovano circa 300 professori e studenti presso la MGU (Moskovskij Gosudarstvennyj Universitet). Vâčeslav Vsevolodovič Ivanov, poliglotta e alunno di Roman Jakobson, introduce un oratore proveniente da una piccola università della città di Tartu, in Estonia (ex repubblica sovietica che nell’agosto aveva acquisito piena indipendenza): Ûrij Mihajlovič Lotman. Egli inizia a parlare di arte come finestra verso la mente umana, cultura in quanto processo dinamico, storia come processo irreversibile, non lineare e imprevedibile. A un certo punto disegna sulla lavagna una collina, un cannone e un bersaglio e chiede retoricamente: «Come si raggiunge il bersaglio se vi è una collina in mezzo?».

La risposta a questa domanda consiste nello stabilire almeno due punti di osservazione sui due lati della collina e determinare le coordinate del bersaglio sistemando i dati ottenuti dai due punti d’osservazione. La morale consiste nel fatto che ogni osservazione è ben collocata e limitata; porta il frutto della conoscenza solo insieme ad altre osservazioni. La cultura (categoria e sua preoccupazione principale e della scuola di pensiero associata al suo nome) è interazione e dialogo di prospettive e linguaggi multipli, distinti e non reciprocamente traducibili (Waldstein 2008:9).

La “scuola di semiotica di Tartu”, associata al nome di Lotman, comprendeva un circolo di studiosi attivi negli anni Sessanta-Ottanta. Il lavoro della Scuola è stato influente negli ambiti linguistici così come quelli culturali, narrativi e degli studi slavistici ben lontani dalla Russia e dall’Unione Sovietica. I rappresentanti chiave sono Lotman e Vâčeslav Ivanov, personalità di spicco dello strutturalismo e della semiotica.

 

Secondo la definizione di Umberto Eco «la semiotica riguarda tutto ciò che può essere identificato come segno» (Eco 1975:7). Sebbene le idee semiotiche siano presenti già in Platone e Seneca, la scienza contemporanea della semiotica si riferisce alle ipotesi di Ferdinand de Saussure (1857-1913) e Charles S. Peirce (1839-1914). La semiotica diventa disciplina a sé stante negli anni Sessanta, quando viene fondata l’Associazione internazionale di semiotica da Umberto Eco, Roman Jakobson, Julia Kristeva e altri. Sebbene a Lotman, Ivanov e Toporov non fosse concesso partecipare ai congressi di tale associazione, hanno contribuito in qualità di vicepresidenti negli anni 1968-1985 (Waldstein 2008:10).

Gli studiosi di Tartu hanno creato la semiotica della cultura e si collocano fra i padri della “culturologia”, formalmente introdotta in Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica. «La scuola di Tartu è un canone indispensabile ed è l’età dell’oro degli studi umanistici russi» («The Tartu School is an indispensable canon and the Golden Age of the Russian humanities») (Zorin 1998:42). Sia come modello che punto di partenza la scuola ha ridefinito il ruolo della scienze umanistiche e della cultura intellettuale nella Russia postcomunista.

Nella storia della semiotica sovietica, gli anni 1964-1974 sono il periodo delle scuole estive di Kaariku-Tartu. Durante questo periodo la scuola si è dimostrata uno dei centri apertamente non marxisti sulle teorie di mito, arte e cultura nell’Unione Sovietica. La scuola, inaugurata nel 1964, non era semplicemente una continuazione del movimento strutturalista ma, per molti aspetti, un nuovo inizio, caratterizzato da strategie sociali diverse e da un nuovo stile (Waldstein 2008:13).

Lotman, studioso della cultura e letteratura russa, appare all’orizzonte strutturalista quando lo strutturalismo moscovita era in profonda crisi e propone possibilità di un nuovo inizio. Ed è grazie alla deviazione verso Tartu che il progetto semiotico sovietico è diventato famoso come “Scuola di Tartu-Mosca”, e anche la base per il progetto tartuense di «scienza della cultura» o «culturologia» (kul’turologiâ). Analizziamo adesso le circostanze che hanno permesso questa alleanza-gemellaggio che ha cambiato le scienze umane sovietiche.

 

5.1. Di che cosa avevano bisogno i moscoviti e che cosa poteva offrire loro Lotman?

 

Iniziamo dall’incontro fra Mosca e Tartu che è avvenuto quando Lotman ha letto i materiali del simposio semiotico del 1962 e ha deciso di inviare un suo studente a Mosca all’istituto degli studi slavi nella speranza di stabilire contatti accademici. Ovviamente gli strutturalisti moscoviti non ignoravano del tutto la presenza del professor Lotman a Tartu e il suo interesse per lo strutturalismo. Tuttavia non faceva parte dei circoli accademici o intellettuali dei linguisti di Mosca, apparteneva a un’altra generazione. Si era anche laureato con onore presso l’Università di Leningrado, aveva combattuto per sei anni nella Seconda guerra mondiale ed era iscritto al partito comunista. Nonostante tutto, Lotman era ebreo e per questo dopo la laurea negli anni Cinquanta non ha potuto continuare i propri studi o trovare un lavoro in Russia. L’anno della sua laurea si colloca nel picco della campagna staliniana antisemita contro il “cosmopolitismo” (Lotman 1994:36; Egorov 1998:47) e la laurea in letteratura russa era fra le più “ideologiche”. Se fosse stato un matematico o un linguista probabilmente il suo destino sarebbe stato diverso. Paradossalmente, lo status di svantaggio e di assegnazione gratuita gli permettono non solo di non andare in Siberia ma gli impediscono anche di lavorare in generale.

 

Entra in contratto con alcune figure delle scienze umane sovietiche fra cui Boris Tomaševskij, Boris Ėjchenbaum, Vladimir Propp, Grigorij Gukovskij e altri (Waldstein 2008:33). Si sente legato alla tradizione russa del formalismo di Pietrogrado degli anni Venti, in particolare ai lavori di Šklovskij, Tynjanov e Roman Jakobson negli anni Cinquanta.

È stato anche uno dei primi professori al mondo a iniziare a insegnare semiotica (poetica strutturale e semiotica) all’università, frequentata da un solo studente di nome Igor Černov.

5.2. Lotman in Estonia

 

Ricapitolando: Lotman non faceva parte di alcun circolo di Mosca e nel 1950 non riusciva a trovare lavoro in Russia. Tuttavia per caso viene informato di un posto vacante presso l’istituto pedagogico a Tartu e nel 1954 si trasferisce in Estonia.

Il punto chiave è che nel 1950 l’Estonia era stata acquisita di recente (Egorov 1998:49-50) e vi era un bisogno urgente di professori competenti in letteratura e lingue perché, secondo le leggi staliniane del 1938, la lingua russa era una materia obbligatoria in tutte le scuole nazionali (Smith 2002:61-62). In quanto principale veicolo di sovietizzazione la lingua e letteratura russa erano fra le priorità immediate delle politiche culturali del governo dell’Estonia sovietica. Ed è proprio questo momento in cui si richiede la presenza di Lotman, la cui appartenenza culturale ebraica in Estonia non pesava tanto quanto a Leningrado.

Fra gli anni Cinquanta e Sessanta l’Estonia aveva il regime politico più rilassato e l’economia più prospera all’interno dell’Unione Sovietica. Quando Chruščёv scherniva l’arte astratta durante una famosa esibizione di Manež nel 1962, l’arte “politicamente scorretta” stava sbocciando a Tallinn e Tartu. Inoltre gli scrittori estoni, grazie all’oscurità della loro lingua, potevano scrivere qualsiasi cosa (Veller 1983) e non sorprende che subito Arcipelago Gulag di Solženicyn venga tradotto in estone.

Nel 1960, inoltre, viene stabilito l’istituto sovietico di cibernetica dall’accademia estone delle scienze, ogni repubblica è costretta a specializzarsi in qualcosa e l’Estonia era una repubblica di elettronica, arredamento e prodotti lattiero-caseari. Sebbene l’Estonia abbia inventato il software Skype, il suo ruolo in informatica non è conosciuto dal pubblico che disconosce le radici storiche dell’attuale sofisticata tecnologia del paese. L’Estonia era anche il sito della maggior parte degli esperimenti economici degli anni Sessanta, come l’introduzione degli elementi di “economia di mercato” (Misiunas e Taagepera 1993). Inoltre l’Estonia aveva una classe media istruita, standard di vita relativamente alti e un regime tollerabile. Tutti questi fattori hanno reso l’Estonia interessante per molti intellettuali sovietici, vista come “un paese confinante” e un “occidente interno” (Levin 1998).

Per Lotman l’Estonia rappresenta un posto in cui incontrare periodicamente i moscoviti e pubblicare senza censura. Tuttavia l’Estonia viene considerata “provinciale” dai ranking sovietici e la sua collezione bibliotecaria, ricca di pubblicazioni precedenti al 1940 in tutte le lingue, era sprovvista di scritti recenti. Così egli sfrutta le sue conoscenze quali Jakobson e altri filologi occidentali, gli strutturalisti moscoviti del circolo di Ivanov, per attrarre nuovi volumi.

Lotman e i moscoviti condividevano sufficienti “radici” intellettuali: il formalismo russo, in particolare Jakobson e Propp, l’interesse per la “letteratura proibita” del modernismo russo e dell’avant-garde. D’altro canto, l’emergere della scuola di Tartu-Mosca è stata una novità, una crescita e un cambiamento. L’incontro fra gli intellettuali di Mosca e Tartu ha portato a quello che Lotman definisce “espansione esplosiva” della rete di interazioni accademiche, sociali ed intellettuali accompagnate dalla trasformazione del paradigma intellettuale, così come i modelli di comunicazione, pubblicazione e posizione nei confronti di lettori diversi.

Intorno al 1970, la situazione sociale intorno alla Scuola di Tartu-Mosca comincia a deteriorarsi.

Due i fondamentali eventi storici: la Primavera di Praga del 1968 e l’emigrazione di massa di ebrei in occidente nel 1973. Questi anni hanno avuto un effetto devastante su molti intellettuali sovietici. Anche alcuni intellettuali estoni quali Rudolf Rimmel, che aveva origini kazake, sperava che gli squali si trasformassero in delfini e che fosse possibile un cambiamento senza serbare rancore: «sailors will not revolt agains columbuses, small fish will turn into dolphines, so will the sharks so will the sharks because, it has to be so» (Rimmel 1968:1211).

Negli scritti che vanno dagli anni Sessanta al 1975 Lotman definisce la cultura memoria (Lotman 1970): essa è concepita come la registrazione, nella memoria, di quanto è già stato vissuto dalla collettività. Più precisamente la cultura può essere definita come «memoria non ereditaria della collettività» (Lotman e Uspenskij 1978:43). Pensata in questi termini, la cultura si delinea come un potente meccanismo per la conservazione dell’informazione che può includere testi scritti, immagini, strutture architettoniche, oggetti di varia natura, spazi urbani eccetera. Tuttavia Lotman afferma chiaramente che la cultura non è un deposito statico d’informazioni. La cultura conserva l’informazione e ne riceve di nuova in un continuo processo di codifica e decodifica di testi, messaggi, oggetti, pratiche che provengono da culture altre. Ne consegue che la cultura funziona sullo sfondo della noncultura, dove “noncultura” indica uno spazio culturale altro, dotato di codici diversi. L’attività culturale consiste nel tradurre porzioni della noncultura in una delle lingue della cultura, trasformandole in testi e introducendo questa nuova informazione nella memoria collettiva. Nei suoi aspetti dinamici la cultura assimila testi, li traduce nei suoi linguaggi, dialoga continuamente con la noncultura producendo nuova informazione. La cultura è pensata come una porzione, un’area chiusa sullo sfondo della noncultura, ma è importante sottolineare che cultura e noncultura sono ambiti reciprocamente condizionati che hanno bisogno l’uno dell’altro. La cultura ha bisogno del “caos esterno”, lo crea e lo annienta continuamente. Dal punto di vista semiotico la cultura è definita come un sistema modellizzante secondario: i sistemi modellizzanti secondari cercano di costruire un modello del mondo basandosi sul sistema linguistico (“primario”). Egli sostiene che un sistema modellizzante è caratterizzato da un insieme strutturato di elementi e di regole e per questo può essere considerato una lingua: la struttura della lingua costituisce  il «modello» dei sistemi secondari poiché ha i principi essenziali della loro organizzazione (Lotman 1967). Del resto se la cultura è un generatore di strutturalità, poiché il suo lavoro fondamentale consiste nell’organizzare strutturalmente il mondo che circonda l’uomo, (Lotman e Uspenskij 1978:45) la lingua naturale secondo Lotman è il dispositivo stereotipante che permette di svolgere questo lavoro di strutturazione. Il linguaggio è dunque una “sorgente di strutturalità”, (Lotman e Uspenskij 1978:48), ma non è solo questo il motivo per cui viene concepito come sistema primario. Oggetti culturali come un quadro o una composizione musicale, una scultura o un mito, uno spazio urbano e una forma architettonica possono essere correlati solo mediante la lingua naturale, che anche per questa ragione viene definita sistema modellizzante primario. Secondo Lotman, la lingua naturale da un lato è un generatore di strutturalità, dall’altro è l’operatore fondamentale che consente la correlazione tra sistemi segnici. Come hanno segnalato Pezzini e Sedda (2004), da un lato questa impostazione risente dei paradigmi linguistico-semiotici in voga negli anni Sessanta e Settanta, dall’altro è dettata da ragioni di opportunità, avendo la lingua naturale una sorta di sistematicità evidente che è stata studiata in modo particolarmente approfondito. Pensando la cultura come un modello di matrice linguistica, fa convergere la tradizione della linguistica strutturale con gli interessi di nuove discipline scientifiche come la cibernetica (concetto di “modellizzazione”) (Faccani e Eco 1969), ma è evidente che sta pensando prevalentemente a forme culturali artistiche (letteratura, quadri eccetera) o comunque a forme culturali testualizzate (testi mitici, folklorici, artistici, religiosi), che hanno la funzione di modellizzare una “realtà” esterna. Del resto secondo Lotman (1967) l’arte può essere considerata un fatto culturale e un sistema modellizzante, cioè un sistema che cerca di costruire un modello del mondo basandosi sulla lingua naturale e costruendo una sorta di “lingua di secondo grado”. Per modello di un oggetto l’autore intende tutto quanto riproduce l’oggetto stesso ai fini del processo conoscitivo, e l’arte interessa perché, riproducendo il mondo ci consente di migliorarne la conoscenza. In fondo il mondo della realtà, scrive Lotman (Faccani ed Eco 1969), costituisce il contenuto dell’arte, e l’arte deve istituire un rapporto di analogia con l’oggetto che intende rappresentare: l’opera d’arte è sempre convenzionale, ma nello stesso tempo deve essere percepita come analogo di un determinato oggetto; essa è nello stesso tempo simile e dissimile nei confronti del proprio oggetto. Ecco perché egli oppone costantemente cultura e realtà e si sofferma molto sui meccanismi d’appropriazione culturale della realtà: perché pensa al modo in cui l’arte, nelle sue forme testuali, modellizza la realtà favorendone la conoscenza. Inoltre è importante notare che già in questi primi scritti è presente il problema dell’antinomia tra sincronico e diacronico, statico e dinamico, che caratterizzerà il suo pensiero teorico in tutte le sue fasi. Il problema viene affrontato in diversi saggi, ed è già chiaro che la prospettiva statica, che vede la cultura come un meccanismo per la conservazione dell’informazione, va integrata con la prospettiva dinamica, che vede la cultura dialogare con la noncultura producendo in tal modo nuova informazione.

 

Lotman con la scuola di Tartu intende inaugurare uno studio semiotico della cultura: l’obiettivo è quello di smontare e analizzare i fenomeni culturali con il metodo strutturale. Da questo punto di vista è fondamentale la lezione dei formalisti russi che avevano spostato l’attenzione sui meccanismi interni dei testi letterari e sulle leggi interne dell’arte poetica: i formalisti rifiutavano metodi psicologici, sociologici o filosofici e non si soffermavano sui dati biografici dello scrittore, né sul contesto sociale dell’opera, ma cercavano di spiegare in termini tecnici i congegni testuali (Todorov 1965). I semiotici della cultura riprendono il metodo con il quale i formalisti russi intendevano ancorare la ricerca ai dati testuali e decidono di studiare i meccanismi strutturali e tipologici che caratterizzano i fenomeni culturali (Eco 1969). Si tratta di uno sguardo che in termini semiolinguistici si definirebbe sincronico, a cui si deve necessariamente integrare una prospettiva più dinamica, diacronica, che fotografi i movimenti delle configurazioni culturali. In questa seconda prospettiva la semiotica della cultura può essere definita come la «scienza della correlazione funzionale dei differenti sistemi segnici» (Ivanov, Lotman et alii 1973:107). Che cosa si intende con questa definizione? L’ipotesi di partenza è che la cultura sia un vasto spazio in cui coesistono molti sistemi di significazione: la scrittura, la moda, le arti visive, la religione, l’architettura, i giochi, i miti, le fotografie, l’urbanistica, gli oggetti eccetera. Secondo gli studiosi della scuola di Tartu un sistema di significazione isolato non può costituire cultura perché la condizione minima è che sussista almeno una coppia di sistemi correlati, per esempio un testo in lingua naturale e un disegno: «i singoli sistemi segnici, pur presupponendo strutture con un’organizzazione immanente, funzionano soltanto in unione, appoggiandosi l’uno all’altro. Nessun sistema segnico possiede un meccanismo che gli consenta di funzionare isolatamente» (Todorov 1965).

 

La semiotica è la disciplina che studia proprio la correlazione tra i diversi sistemi segnici che costituiscono una cultura. In uno studio, da questo punto di vista molto importante, Lotman (1975) prova ad analizzare il comportamento dei decabristi, rivoluzionari di estrazione nobiliare che nel dicembre 1825, alla morte dello zar Alessandro I, parteciparono ai movimenti insurrezionali a Pietroburgo e nella Russia meridionale. Egli ritiene che lo studio dei materiali dell’epoca permetta di individuare un comportamento distintivo dei decabristi, uomini d’azione che si comportano come membri di una società segreta, che parlano con la compiutezza stilistica propria del linguaggio scritto, che coltivano la serietà come norma di stile. Ogni loro gesto è altamente simbolico, ogni azione è ritenuta significativa e da parte del decabrista c’è una certa tendenza alla teatralità, ma non in senso negativo: è in gioco il collegamento tra l’arte e la vita, e addirittura «ogni catena di azioni diventava ‘testo’ (acquistava significato), se la si poteva collegare in modo illuminante con un determinato soggetto letterario» (Todorov 1965:207). Ne consegue un’amplificazione di tutto il comportamento, una distribuzione di maschere letterarie caratteristiche tra persone reali, l’idealizzazione dei luoghi e degli spazi dell’azione. Il romanticismo prescriveva al lettore un modo di comportarsi anche nella vita quotidiana; i personaggi di Byron, di Puškin, di Malinskij, di Lermontov, ebbero schiere di imitatori tra giovani ufficiali e funzionari. È per questa ragione, secondo Lotman, che il comportamento dei decabristi può essere oggi decodificato attraverso l’interpretazione letteraria, ed è in questo senso che la semiotica può studiare la correlazione tra diversi sistemi segnici.

 

In un altro studio egli si concentra sulla poetica del comportamento quotidiano nella cultura russa del Settecento, un periodo in cui la trasformazione del comportamento quotidiano nel mondo nobiliare fu di grande portata poiché la norma imponeva di comportarsi come uno straniero, cioè in modo non naturale, pur mantenendo però la propria naturale nazionalità. Parlare di “poetica del comportamento” significa dare per scontato che i comportamenti sono orientati secondo le norme dei testi artistici e vissute in modo estetico (Lotman 1977). E questa è la sua ipotesi di partenza, che aveva già caratterizzato lo studio dei decabristi. Il mondo nobiliare del Settecento, afferma Lotman, si sente sempre sulla scena, mentre il popolo è indotto a osservare i nobili come se fossero maschere. È la semiotizzazione del comportamento quotidiano, che porta alla creazione degli stili comportamentali: «il modo di parlare, di camminare, di vestirsi indicava senza possibilità di errore il posto occupato dalle persone nella polifonia stilistica della vita quotidiana» (Todorov 1965:268). Lotman ricorda come il nobile russo del Settecento si scegliesse una parte teatrale, un ruolo tipico che semplificava la vita quotidiana e la elevava verso un qualche ideale. Nelle sue azioni quotidiane il nobile si rifaceva a un personaggio storico, o a un uomo di Stato, o a un letterato. Ma il comportamento prevedeva anche un intreccio: occorreva scegliere una strategia per la realtà extraletteraria e i comportamenti dovevano essere regolati da una trama. La fonte principale degli intrecci nel Settecento è la letteratura “alta”: gli storici antichi, le tragedie, le vite dei santi, e anche in questo caso la semiotica può studiare la correlazione tra i diversi sistemi segnici che costituiscono una cultura. In linea con le altre tradizioni semiotiche, il testo è considerato l’unità di base da analizzare, inteso come «programma condensato di tutta una cultura» (Ivanov, Lotman et alii 1973:131). I semiotici della cultura non applicano il concetto di testo solo ai messaggi in lingua naturale, ma anche «a qualsiasi veicolo di significato globale (“testuale”), sia esso un rito, un’opera d’arte figurativa, oppure una composizione musicale» (Ivanov, Lotman et alii 1973:114).

Inoltre in una semiotica della cultura, se si considerano le dinamiche di trasformazione, è centrale il concetto di «traduzione»: ci sono testi di altre culture che vengono tradotti e cominciano a circolare ricodificati, testi della tradizione che vengono ritradotti e aggiornati, testi appartenenti a un sistema di significazione che vengono tradotti in un altro sistema di significazione (per esempio dalla letteratura alle arti visive, dal teatro alla moda, dalla filosofia all’urbanistica). Le traduzioni sono la linfa vitale di una cultura e garantiscono la continuità della semiosi proprio in virtù della loro inevitabile imperfezione (Sedda 2006).

 

Secondo Lotman e Uspenskij (1971), un modo efficace per dare una caratterizzazione tipologica alla cultura è valutare il modo in cui si definisce da sé, cioè il modo in cui si autovaluta. Da questo presupposto nasce una differenziazione diventata celebre: alcune culture si rappresentano come un insieme di testi, altre come sistemi di regole.

Nel primo caso le regole si delineano come somma di precedenti, nel secondo caso il precedente esiste solo se può essere descritto da una regola. Se consideriamo l’insegnamento di una lingua, nel primo caso avremmo una didattica basata sui modi d’uso, nel secondo caso avremmo anzitutto l’apprendimento delle regole grammaticali. Una cultura del primo tipo pone come essenziale la consuetudine; una cultura del secondo tipo, la legge. Egli definisce «apprendimento testuale» la prima e «apprendimento grammaticale» la seconda (Lotman 1971), e Eco, riprendendo questa distinzione, propone come esempio di apprendimento testuale la Common Law anglosassone, che propone le sentenze precedenti come testi ai quali ispirarsi per risolvere casi analoghi, e come esempio di apprendimento grammaticale il diritto romano, che invece per risolvere i casi prescrive minuziosamente le regole.

Non dobbiamo peraltro pensare, avverte Lotman, che le culture testualizzate siano caotiche, mentre le culture grammaticalizzate siano ordinate: l’assenza di codificazioni è vista come caos solo dal punto di vista della cultura grammaticalizzata e di fatto i sistemi non codificati sono in grado di accumulare informazione quanto i sistemi codificati (Eco 1975:194). Lotman cita l’esempio delle regole del duello e dell’onore nella cultura aristocratica russa del Settecento e del primo Ottocento: in assenza di norme esplicite, si impone la figura del “custode della tradizione”, il quale conosce le consuetudini e può assumere il ruolo di codificatore. Egli specifica insomma che non si può parlare di superiorità della regola o della consuetudine: «questi modi di costruire il codice della cultura possono considerarsi tappe di un’unica evoluzione che si attua come un avvicendamento pendolare di principi costitutivi diversi» (Lotman 1971:81). Un altro parametro per tipologizzare le culture è quello che considera le modalità comunicative che caratterizzano la culture stesse. Si possono distinguere le culture nelle quali prevale una comunicazione di tipo “IO–EGLI” e le culture orientate su una comunicazione di tipo “IO–IO” (Lotman 1973). La comunicazione “IO–EGLI” rappresenta il caso più tipico: c’è un soggetto della trasmissione (“IO”) che possiede l’informazione, e c’è un destinatario (“EGLI”) che aspetta di ricevere il messaggio. Nel caso della comunicazione “IO–IO”, invece, il soggetto trasmette un messaggio a se stesso. Quest’ultima tipologia può sembrare paradossale, ma egli specifica che nella realtà non è rara e che anzi nel sistema generale della cultura ha un ruolo non trascurabile. Un esempio può essere rappresentato dalle annotazioni diaristiche, fatte non tanto per fissare un ricordo, quanto per chiarire un certo stato d’animo. Nel sistema “IO–IO” il depositario dell’informazione evidentemente non cambia, mentre il messaggio, nel processo comunicativo, si modifica e acquista un nuovo senso. Ha luogo, in altri termini, una trasformazione qualitativa dell’informazione e di conseguenza un riorientamento dello stesso “IO”. La sua idea è che la trasmissione del messaggio attraverso il canale “IO–IO” viene condizionata dall’intrusione di codici esterni che ne ristrutturano il contenuto. Un esempio caratteristico è l’influenza di suoni cadenzati (rumore di ruote, musica ritmica) sul monologo interiore dell’uomo: egli riporta degli esempi da Tjutcev e da Puškin dai quali emerge come l’intrusione di un ritmo esterno stimoli e riorganizzi il monologo interiore (Lotman 1973:115-118). Nella comunicazione “IO–IO” siamo in presenza di un messaggio espresso in una lingua naturale cui segue l’introduzione di un codice supplementare che, peraltro, mira a liberare il messaggio dai nessi semantici propri della lingua comune: in realtà il messaggio mantiene i nessi semantici della lingua naturale, ma viene inevitabilmente trasformato dalla sovrapposizione del nuovo codice. Pertanto nella comunicazione “IO–EGLI” abbiamo a che fare con un’informazione data in anticipo, che viene trasferita da una persona all’altra, con codice stabile all’interno del processo comunicativo; nella comunicazione “IO–IO” abbiamo un aumento dell’informazione attraverso l’introduzione di nuovi codici: mittente e destinatario coincidono e ha luogo una riorganizzazione della personalità che può avere importanti funzioni culturali, dalla costruzione del senso dell’identità alla psicoterapia. Si possono pertanto distinguere le culture nelle quali prevale la comunicazione “IO–EGLI” e quelle nelle quali prevale il modello “IO–IO”, e Lotman aggiunge infine che le culture orientate sulla comunicazione “IO–EGLI” hanno un carattere dinamico e tendono a un rapido aumento delle conoscenze; per contro, la società risulta segmentata in modo rigido con gli emittenti ben separati dai destinatari, e soprattutto la verità viene concepita come un messaggio bell’e pronto, confezionato da altri e da ricevere con una sostanziale passività. Le culture orientate sulla comunicazione “IO–IO” tendono a sviluppare invece la dimensione spirituale ma sono molto meno dinamiche di quanto effettivamente richiedano i bisogni umani. I concetti elaborati da Lotman fino alla metà degli anni Settanta rimangono costanti anche nella produzione successiva. Tuttavia i saggi riuniti nel volume La semiosfera, del 1985, pur riprendendo i concetti di cultura, non-cultura, testo, traduzione, confine, prospettiva statica e prospettiva dinamica, li riesaminano a partire da presupposti teorici differenti e alla luce di nuovi interessi epistemologici. Ricostruendo sinteticamente gli sviluppi teorici della semiotica, egli individua la tradizione che risale a Peirce e a Morris, al centro della quale si colloca il segno isolato da cui si generano altri segni (interpretanti), e la tradizione che risale a Saussure, al centro della quale si pone l’atto comunicativo isolato, e  lo scambio tra il mittente e il destinatario come elemento base di ogni atto semiotico (Lotman 1985). Per lui queste due tradizioni muovono da esigenze di analisi che però non trovano riscontro nella realtà, dove i sistemi non presentano elementi in isolamento, ma sempre immersi in un continuum semiotico omogeneo. Egli definisce semiosfera questo continuum, in analogia con il concetto di biosfera proposto dal biologo Vernadskij (nel libro Biosfera 1926): ma mentre la biosfera è definita da Vernadskij “materia viva”, più precisamente “l’insieme degli organismi vivi”, la semiosfera ha un carattere più “astratto”, è l’insieme dei segni che appartengono a uno spazio conchiuso, all’interno del quale si possono realizzare processi comunicativi ed elaborare nuove informazioni. La semiosfera può essere considerata come un organismo unico, uno spazio semiotico complessivo, che nella sua unitarietà rende significativo il singolo atto segnico (testo, frammento di linguaggio, eccetera).

 

«Immaginiamo la sala di un museo nella quale siano esposti oggetti appartenenti a secoli diversi, inscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni per la decifrazione, un testo esplicativo redatto dagli organizzatori, gli schemi di itinerari per la visita della mostra, le regole di comportamento per i visitatori. Se vi collochiamo anche i visitatori con i loro mondi semiotici, avremo qualcosa che ricorda il quadro della semiosfera» (Lotman 1985:64).

In un altro passaggio l’autore dice che la semiosfera del mondo contemporaneo comprende i segnali dei satelliti, i versi dei poeti e le grida degli animali, oltre a molti altri elementi che sono in rapporto reciproco tra loro. In effetti, come notano Pezzini e Sedda (2004:369), la semiosfera può essere intesa sia in senso globale (l’intero spazio della significazione, cioè in definitiva una cultura), sia in senso locale e specifico (un determinato spazio semiotico, per esempio un museo), ma è certo che la metafora organicista aiuta a concepire la semiosfera come un unico grande ambiente, circoscritto rispetto allo spazio che lo circonda, in grado di manifestare una omogeneità semiotica. Se lo spazio della semiosfera è circoscritto, si conferma come fondamentale il concetto di confine, inteso come «la somma dei “filtri” linguistici di traduzione» (1985:58-59). Affinché i testi esterni alla semiosfera diventino comprensibili è necessario tradurli in una delle lingue della semiosfera. In pratica si semiotizzano i fatti non semiotici: «Il confine dello spazio semiotico non è un concetto astratto, ma un’importante posizione funzionale e strutturale, che determina la natura del suo meccanismo semiotico. Il confine è un meccanismo bilinguistico, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa. Solo col suo aiuto la semiosfera può così realizzare contatti con lo spazio extrasistematico o non semiotico» (Lotman 1985:60). È importante notare, peraltro, che se da un lato il confine unisce due sfere semiotiche, dal punto di vista dell’autocoscienza (cioè dell’autodescrizione) le divide, perché avere coscienza di se stessi nel rapporto culturale significa avere coscienza della propria specificità in contrapposizione ad altre realtà culturali. Il confine è un elemento necessario della semiosfera perché questa ha sempre bisogno di un ambiente esterno “non organizzato”, e quando manca se lo crea: così l’antichità si è costruita i “barbari”, la coscienza l’ “inconscio”, eccetera. Lo spazio “non semiotico” è pertanto, evidentemente, lo spazio di un’altra semiotica: le posizioni e i valori delle culture dipendono così dalla prospettiva dell’osservatore. Anche in questo lavoro Lotman ribadisce che se da un lato la cultura svolge le funzioni di conservazione e trasmissione dell’informazione, dall’altro deve elaborare informazioni nuove. L’elaborazione di nuove informazioni richiede che tra i sistemi culturali vi sia una sorta di dinamismo strutturale, cioè uno scambio attivo e strategico di informazioni. Nella misura in cui è orientato verso la conservazione e il mantenimento dell’informazione, un organismo culturale tende all’omeostaticità, all’equilibrio, alla simmetria. Nella misura in cui è orientato verso la produzione di informazioni nuove, invece, l’organismo deve essere asimmetrico e dinamico, e deve necessariamente trovare un partner per instaurare un dialogo.

Lotman si era già occupato dei meccanismi dialogici negli studi dedicati alla struttura del testo artistico, ma ora riprende questo tema sotto l’influenza di Vernadskij, il quale nel libro Osservazioni di un naturalista (1927) pone i concetti di simmetria, asimmetria, enantiomorfismo: l’enantiomorfismo è un caso di simmetria speculare che si verifica quando le parti sono specularmente uguali, ma disuguali se si sovrappongono, come nel caso dei guanti o delle mani. Secondo Lotman tutti i meccanismi generatori di senso partono da uno stato iniziale di simmetria, cioè di equilibrio e di staticità, che si complica progressivamente attraverso la produzione di una simmetria speculare enantiomorfa. In altri termini una cultura C1, in stato di equilibrio simmetrico, riceve uno o più testi appartenenti alla cultura C2; attraverso l’interpretazione dei testi ricevuti, la cultura C1 “trae fuori dalle proprie viscere” un’immagine della cultura C2. Questa immagine prodotta è una sorta di simmetria speculare elaborata da C1, è un modello enantiomorfo di fronte al quale la cultura C1 può specchiarsi trovandovi similarità e differenze. Il concetto di enantiomorfismo è utile per Lotman proprio perché gli consente di definire una situazione in cui la cultura C1 proietta un’immagine diversa ma correlata, dal momento che l’identità totale renderebbe il dialogo inutile ma la differenza totale lo renderebbe impossibile. In pratica, come in un dialogo interpersonale è necessario che i partecipanti siano diversi e che abbiano nella propria struttura l’immagine dell’interlocutore, allo stesso modo nel dialogo tra culture è necessario che le culture siano diverse e che abbiano una asimmetria correlata. Alla base di questi meccanismi di produzione culturale c’è il dialogo e Lotman ribadisce più volte che lo sviluppo della cultura è un atto di scambio che presuppone sempre un partner. Ma bisogna ricordare che, avendo bisogno di un partner, la cultura crea con i propri sforzi una cultura estranea che codifica in modo diverso il mondo e i testi. La crea perché interpreta i suoi testi attraverso i propri codici, perché ne costruisce un’immagine enantiomorfa funzionale ai suoi scopi, perché una cultura non può fare a meno di proiettare se stessa e i suoi codici sui mondi culturali che si trovano al di là dei suoi confini. Le descrizioni etnografiche delle culture «esotiche» fatte dagli europei sono un esempio chiaro di creazione di partner culturali sulla base della proiezione dei propri codici interpretativi su sistemi culturali lontani e molto diversi. Analogamente, quando Tacito descrive i Germani costruisce un modello enantiomorfo di quella cultura sulla base dei propri codici culturali, e sulla base di questo modello comincia un dialogo. Da questa visione emerge insomma che il dialogo tra culture si sviluppa sulla base di modelli virtuali, di immagini astratte, di simulacri enantiomorfi, che però poi influenzano realmente i rapporti reciproci tra i sistemi culturali. Ci troviamo così di fronte a due spinte contrarie: l’immagine interiorizzata deve essere “estranea”, cioè non del tutto riconducibile ai codici della cultura che la descrive; ma nello stesso tempo deve essere “non estranea”, cioè deve essere tradotta nel linguaggio interno della cultura. È essenziale, in altri termini, che i testi della cultura esterna risultino in una certa misura omogenei rispetto ai codici della cultura che li accoglie, e questo implica la perdita inevitabile di certe proprietà dei testi che vengono interpretati. Interpretando i testi della cultura C2, la cultura C1 tenderà a conservare gli elementi omogenei e traducibili, e a espungere gli elementi difformi: questa operazione di filtraggio in effetti faciliterà la creazione di un modello enantiomorfo di C2 con il quale instaurare un dialogo culturale. Attraverso questi potenti meccanismi di traduzione e produzione di modelli enantiomorfi, le culture lavorano all’accrescimento della varietà; tuttavia queste forze centrifughe hanno bisogno di essere controbilanciate da meccanismi opposti, che diano unità e stabilità ai materiali eterogenei che si producono. Ecco  che dall’asimmetria che produce dinamismo si deve tornare alla simmetria che garantisce stabilità, all’omeostasi che assicura la conservazione. L’asimmetria tende allo sperpero mentre la simmetria tende all’economia; l’asimmetria produce continuamente elementi extrasistematici, mentre la simmetria tende a ridurre il superfluo. La funzione di stabilizzazione è svolta, secondo Lotman, dalle metadescrizioni, cioè dalle riflessioni semiotiche sui meccanismi culturali. Le metadescrizioni pongono un freno alle trasformazioni culturali redigendo i canoni, ricordando le regole, ridefinendo le grammatiche e i codici dei sistemi culturali. In questi termini la semiosfera appare come uno spazio culturale stabile e dinamico, simmetrico e asimmetrico, caratterizzato da una sua regolarità interna e da una irregolarità strutturale che consente l’elaborazione di nuove informazioni: al centro si collocano i sistemi più stabili e dominanti, mentre le zone periferiche sono più flessibili, elastiche, mobili. Se l’organizzazione centro/periferia consente il dinamismo dei sistemi culturali, che si trasformano nel dialogo con altre culture, non vanno dimenticati i confini interni di una semiosfera, attraverso i quali si realizzano scambi interstrutturali che contribuiscono anch’essi a generare nuove informazioni. Restano tuttavia da analizzare le ragioni di queste trasformazioni, le motivazioni che permettono il dialogo interculturale, la penetrazione di testi “estranei”, l’interiorizzazione di nuovi comportamenti, l’importazione di codici e regole. L’asse centro/periferia disegna un quadro plastico di maggiore o minore stabilità ma non spiega le trasformazioni cicliche, né le variazioni di una semiosfera. È forse per questa ragione che Lotman chiama in causa le emozioni collettive, attribuendo loro una grande importanza nelle dinamiche dei sistemi culturali. Le onde della cultura (Lotman 1985:144) si muovono nel mare dell’umanità, e per questa ragione i processi che si verificano sono inseparabili dall’esplosione delle emozioni collettive.

Nei saggi dell’ultima fase, raccolti nel volume La cultura e l’esplosione (1993), Lotman riprende due questioni cruciali che riguardano inevitabilmente qualsiasi sistema semiotico:

(i) il rapporto del sistema con l’extrasistema, cioè il mondo che si estende al di là dei suoi confini;

(ii) il rapporto fra statica e dinamica, a partire dal quale un sistema si sviluppa mantenendo un’identità.

Il primo punto è già stato ampiamente tratto da Lotman nei suoi scritti precedenti. Lotman pensa il sistema culturale semiotico come un insieme di lingue e definisce il sistema extrasemiotico come extralinguistico, cioè come una realtà che le lingue della cultura devono inglobare e trasformare in contenuto. In questa prospettiva risulta fondamentale l’attività di traduzione: secondo Lotman la realtà extralinguistica va comunque pensata come una lingua, (Lotman 1994:16) e partendo di lì la definizione del significato è sempre, in fondo, la traduzione da una lingua all’altra. Il sistema culturale non è  fatalmente chiuso in sé, ma “gioca” continuamente con lo spazio che gli sta intorno ora incorporandolo in sé attraverso la mediazione delle sue lingue, ora proiettando in esso i propri elementi e i propri schemi. Per quanto riguarda, invece, le dinamiche dei sistemi culturali vi sono due possibili “movimenti in avanti”: i movimenti continui, basati sulla prevedibilità, e i movimenti discontinui, che si basano sull’imprevedibilità e si realizzano nelle modalità dell’esplosione. Occorre tuttavia specificare che l’imprevedibilità non va intesa come insieme di possibilità illimitate e non determinate: ogni fenomeno di esplosione ha il suo complesso di possibilità ugualmente probabili in relazione al passaggio allo stato seguente, e quando si parla di imprevedibilità si intende un complesso di possibilità, una soltanto delle quali si realizza. I processi graduali e quelli esplosivi, ricorda Lotman, vivono in un rapporto di reciprocità e l’annientamento di uno dei due porterebbe alla scomparsa dell’altro. Uno storico che studia i processi dinamici esplosivi e graduali ha davanti a sé un campo minato, con imprevedibili punti di esplosione, e un fiume, con il suo flusso orientato. Peraltro i due momenti dell’esplosione e dello sviluppo graduale non vanno pensati solo come fasi che si succedono l’una all’altra, ma anche come dinamiche che si sviluppano in uno spazio sincronico. In un sistema semiotico possono esservi  strati che subiscono trasformazioni esplosive e strati che si modificano gradualmente. E  le sfere della lingua, della politica, della moda e della morale – tanto per fare degli esempi – possono avere differenti velocità nel loro sviluppo dinamico, con combinazioni anche simultanee di processi esplosivi e di processi graduali: se nel nostro periodo la moda femminile in Europa ha la velocità di rivoluzione di un anno, la velocità di mutazione della struttura fonologica è talmente lenta da risultare impercettibile. Ma anche all’interno di una medesima sfera culturale vi possono essere spinte propulsive e movimenti di contenimento: nello spazio culturale della moda, per esempio, si svolge una lotta costante fra la tendenza alla stabilità, giustificata dalla tradizione, dalla moralità, o da vincoli storici e religiosi, e l’orientamento verso la novità e la stravaganza. Del resto se i processi esplosivi assicurano l’innovazione, i processi graduali assicurano la continuità; e se nell’autovalutazione dei contemporanei queste dinamiche vengono presentate in contrapposizione, esse in realtà sono due parti di un unico meccanismo: l’aggressività dell’una stimola lo sviluppo dell’altra. Le trasformazioni dei sistemi avvengono secondo procedure interne (o immanenti) o a partire da influenze esterne multiformi: «qualunque sistema dinamico è immerso in uno spazio nel quale sono situati altri sistemi ugualmente dinamici, e anche frammenti di strutture distrutte, singolari comete di questo spazio. Dunque qualunque struttura vive non soltanto secondo le leggi dell’autosviluppo, ma è anche sottoposta a multiformi collisioni con altre strutture culturali» (Lotman 1994:87).

Le influenze esterne possono dare luogo a due casi:

(i) il caso in cui l’intrusione esterna porta al prevalere di uno dei due sistemi in collisione e alla soppressione dell’altro (modello binario);

(ii) il caso in cui la collisione genera un terzo sistema in linea di principio nuovo (modello ternario).

I modelli binari sono rari, mentre i modelli ternari sono molto più frequenti. L’esempio di modello ternario che porta Lotman riguarda la cultura russa tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, quando la cultura nobiliare subisce un intenso processo di “francesizzazione”. In questo periodo e in certi particolari ambienti, la lingua francese diventa parte integrante della cultura russa e questa “intrusione” genera una specie di lingua unica con una sua autonomia funzionale. L’assoluta distruzione dei vecchi modelli è impossibile sia nelle strutture ternarie, sia in quelle binarie; tuttavia i modelli ternari conservano meglio i valori del periodo precedente attraverso mediazioni, fusioni, trasferimenti; al contrario, i modelli binari si propongono il completo annientamento di tutto l’esistente, che viene giudicato totalmente negativo. Il modello ternario tende ad adeguare l’ideale alla realtà, mentre nel modello binario l’esplosione tende a impadronirsi dell’intera massa della vita quotidiana. Per esempio, in linea con il modello binario, i teorici del marxismo sostenevano che il passaggio dal capitalismo al socialismo avrebbe avuto un inevitabile carattere di esplosione, ma la nascita del socialismo sarebbe stata possibile solo sulle rovine e non all’interno della storia precedente.

 

5.3. Uno sguardo più da vicino

Lotman dava per scontato che avremmo trovato noi stessi ancora in quel periodo segnato dalla caduta dell’impero russo, un periodo iniziato nei primi decenni del secolo scorso, e riteneva che saremmo stati vicino alla fine di quel periodo. Alcuni dei suoi pensieri sulla natura dei processi storici hanno preso forma grazie ai cambiamenti improvvisi dell’epoca. Egli riteneva che dobbiamo fare la scelta giusta nel giusto intervallo di tempo che la storia ci assegna. In questi momenti lo studio del passato, del suo significato e della vera natura dei processi storici cessa di essere un passatempo accademico fine a se stesso. Il futuro del genere umano, il suo destino, dipende dal campo della conoscenza. Egli ci insegna la responsabilità storica. L’aspetto principale della concezione della storia è l’idea secondo la quale esiste un insieme di possibili sèguiti dopo un’esplosione. Con il suo interesse nel movimento lineare in quanto opposto a quello circolare, egli era un perfetto pensatore europeo. Nutriva poco interesse nei confronti della concezione circolare dello sviluppo con le sue ripetizioni senza fine della stessa cosa, che è importantissimo in molti insegnamenti orientali. L’oggetto principale del lavoro della vita di Lotman era la cultura e la storia russa. Il non dover aspettarsi niente di nuovo incoraggia questa forma di ripetizione: era così una volta, allora ripercorriamo questa usurata immagine ancora una volta. Perché sprecare il nostro tempo a pensare qualcosa di nuovo? Tutto ciò era estraneo a Lotman, come l’idea mitologica del ritorno eterno, che è diventata molto diffusa nel Novecento risalendo a Nietzsche. Lotman aveva pensato alla scienza come un singolo insieme che non riconosce le barriere fondamentali fra gli studi umanistici e la conoscenza. In quanto ex sergente dell’artiglieria, conosceva le scienze esatte, che hanno ispirato la lettura enciclopedica durante il dopoguerra. L’idea centrale di Lotman può essere riformulata secondo la “teoria dell’informazione” (“Information Theory”). Per quanto riguarda la storia e il movimento delle culture, egli era interessato a quei processi durante i quali si verifica un aumento massimo nella quantità di informazioni. Questo spiega direttamente l’imprevedibilità dei processi che egli descrive esplosivi. Secondo Claude Shannon (padre della teoria dell’informazione), uno dei mezzi sperimentali per determinare l’entropia di un processo consiste nel tirare a indovinare. E  ogni processo che vede un significativo aumento di informazioni ricevute e inviate sarà imprevedibile. Questa è una delle fondamentali differenze fra il pensiero di Lotman e le ultime teorie diffuse che attribuiscono caratteristiche umanistiche ad alcune discipline simili alla chiaroveggenza orientale. Per Lotman il futuro è ordinato da un aumento di informazioni e per questo è imprevedibile.

 

Egli volge particolare attenzione al lavoro dei formalisti russi e fra i loro risultati Lotman seleziona una scoperta particolarmente importante per il suo lavoro, ovvero che all’interno della diacronia una nuova direzione può essere influente, che è, un fenomeno che esiste al di fuori delle barriere culturali o sul suo livello più basso, trasformato in qualcosa di veramente significativo. Questo è il modo in cui i formalisti hanno spiegato, per esempio, la sorte di una canzone di zingari, che Aleksandr Blok ha trasformato in un importante genere lirico (seguendo le orme di Apollon Grigor’ev la cui poesia è stata scoperta da Blok per i suoi contemporanei). Lotman posiziona questa visione, insieme ad altre, tra i risultati accademici dei formalisti e, inoltre, egli sostiene l’autosufficienza dell’arte in quanto lingua speciale. Se accettiamo questo ragionamento ben motivato, allora tutti i dibattiti relativi alle altre funzioni dell’arte diventano meno importanti e per certi versi perdono il loro significato. Fra gli intellettuali con i quali Lotman ha avuto l’opportunità di studiare durante la sua gioventù, quali Grigorij Gukovskij, che è morto dopo essere stato arrestato negli ultimi anni del terrore staliniano postbellico, Lotman analizza quelli che hanno provato a capire la relazione fra il contenuto della letteratura (idejnnij) e la sua forma artistica unica (obraznij).

Inoltre ha trovato una nuova soluzione che gli ha offerto un ruolo diretto nello sviluppo della semiotica contemporanea. Egli concepiva la storia della semiotica in quanto mescolamento della linguistica di Saussure e degli studi della letteratura praticati dai formalisti di San Pietroburgo, che erano i più vicini a lui in termini di pensieri accademici.

 

Nella versione contemporanea della semiotica che egli ha aiutato a creare, Lotman ha trovato una connessione simile fra l’approccio linguistico dei giovani semiotici moscoviti, che ammirava, e la linea di ricerca che continua in un orientamento formalista, al quale egli ha attribuito le fondamenta del proprio lavoro accademico. Egli, tuttavia, vedeva i termini linguistici, come la designazione dei fenomeni culturali quali le lingue e le loro relazioni reciproche come la diglossia, o il bilinguismo, quali forse più importanti per le discipline emergenti rispetto ai suoi colleghi, che consideravano i termini linguistici con l’attenzione di specialisti come ammetteranno in seguito.

 

Per distinguere le lingue l’una dall’altra, egli formula il concetto dell’antinomia di “noi” e “loro”, della collettività e dell’individuo, che era fondamentale per la sua comprensione della cultura. Lotman ha descritto in termini semiotici l’opposizione dell’individualità creativa agli istinti del gregge, che aveva appreso dal romanticismo europeo e dalla sua continuazione in movimenti avanguardistici. Lo sviluppo culturale è diventato possibile grazie all’esistenza di lingue che hanno permesso a qualcuno di parlare di se stessi come altrui e degli altri come se stessi. Egli ha riconcepito l’Altro (lo Straniero, il Vicino), che era al centro della filosofia della lingua in tutti i grandi pensatori del Novecento, in quanto partecipanti opposti nel comune dialogo semiotico.

Nei suoi studi Viktor Vinogradov prova il fatto che non vi fosse alcuna parola per “ličnoct’” nel russo antico e nel sistema di valori semantici che esprimeva.

La conclusione dello studioso è antitetica secondo il grande poeta Osip Ėmil’evič Mandel’štam, che ha scritto sulla storia russa: «prima eravamo persone (lûdi), ma adesso siamo una folla (lûd’e)». Ironicamente il secondo termine è un nome collettivo che deriva da un altra parola Indoeuropea che significa “svоbodnуj” ossia libero.

 

Tornando ancora Lotman, egli ha provato a capire come il suo approccio alla storia e quello degli altri membri della scuola di semiotica di Tartu-Mosca differissero dal gruppo francese di storici che comprendeva Fernand Braudel e Jacques Le Goff, i cui lavori hanno goduto di molta popolarità al loro tempo in Russia grazie numerose pubblicazioni di Aron Gurevič.

Per Lotman, il lavoro di questo gruppo di storici era in un certo senso direttamente opposto alle preoccupazioni principali della scuola di Tartu-Mosca, che era interessata prima e principalmente nell’arte e nella sua natura unica, imprevedibile ed esplosiva (Ivanov 2010:7-16).

 

5.4. Il ruolo della traduzione

 

Per Lotman la traduzione era decisamente al centro del funzionamento della cultura. Egli seguiva Roman Jakobson nel comprendere la traduzione in termini semiotici ampi in quanto interpretazione tra sistemi dei segni (Eco 2007). Edna Andrews sottolinea che, «per Lotman (così come era vero con Peirce), tutti gli atti comunicativi, intellettuali e culturali sono semiotica e pertanto richiedono una traduzione fra i segni dove ci sono coinvolti almeno due sistemi di segni diversi. Il livello base della traduzione è garantito nell’affermazione secondo la quale non vi è alcun atto comunicativo, ma almeno un “falsetto” nella sua percezione» (Andrews 2003:35). Altrove egli descrive la traduzione come un processo di trasformazione dello “straniero” nel “proprio”.

La sua visione della traduzione ci spinge a ripensare all’opposizione di straniamento e domesticazione nella misura in cui il vero “straniero” non può essere tradotto. Una volta che il processo di traduzione è iniziato, lo straniero viene trasformato in termini accessibili per il pubblico ricevente; si colloca in dialogo con la cultura ricevente. Questa trasformazione può verificarsi ai veri confini dell’essere accettabile, ma non può essere “straniero”. Il vero straniero è solo ciò che esiste al di fuori della traduzione (Baran 1976:17).

Egli, tuttavia, insiste sul fatto che non c’è nulla di prevedibile sulla natura del processo, o se tale processo si verifichi.

Todd descrive la prima recezione di Lotman in occidente come relazione segnata da un’assenza di dialogo: «Lotman stesso non ha iniziato questo tipo di dialogo e i suoi lettori occidentali, principalmente slavisti, non l’hanno condotto da parte sua» (Todd 2006:347).

 

La profonda imprevidibilità della traduzione, nella comprensione del termine della semiotica di Lotman, è evidente quando confrontiamo la recezione “graduale” del suo lavoro nel mondo anglo-americano alla recezione più “esplosiva” del lavoro del quasi contemporaneo Michail Bachtin. Nonostante le numerose somiglianze nei loro lavori le vie imprevedibili percorse in traduzione da questi due autori erano un po’ diverse.

Bachtin è stato fortunato ad essere stato introdotto in occidente negli anni Sessanta dal teorista letterario bulgaro Tzvetan Todorov, che era emigrato in Francia ed è stato uno dei primi traduttori di Bachtin, nel senso sia letterario sia figurato del termina. Todorov ha “tradotto” con successo il lavoro di Bachtin nella teoria letteraria del linguaggio del francese contemporaneo, che era dominata dallo strutturalismo, la filosofia della lingua, e la psicanalisi. La prima traduzione in inglese di un lavoro di Bachtin, stampata e sotto forma di libro, è apparsa nel 1968. Questa è stata seguita da altre traduzioni negli ultimi vent’anni, una principale biografia, diversi volumi di saggi critici. Una delle ragioni che ha facilitato la recensione del lavoro di Bachtin in occidente, e in particolare in America, è stata senza dubbio la sua scelta di autori da studiare: Dostoevskij, che occupa un posto centrale nel canone americano della letteratura russa, e Rabelais, i cui lavori trattano di ciò che Bachtin chiama “the lower bodily strata”, qualcosa che comunicava direttamente con gli studiosi occidentali nell’ambito degli studi umanistici negli anni Settanta e Ottanta. Lotman, d’altro canto, ha studiato il poeta russo “intraducibile” Aleksandr Puškin e i suoi contemporanei meno noti. Ed  è stato più semplice per gli studiosi occidentali negli anni Ottanta “tradurre” gli studi di Bachtin su Rabelais e Dostoevskij “per conto loro” rispetto a quanto è stato per loro tradurre gli studi di Lotman su Puškin e i Decabristi.

 

Allo stesso tempo, comunque, durante il culmine degli studi di Bachtin sull’occidente, Bachtin ha esercitato un’influenza minore sui circoli accademici in Russia di quanto abbia fatto Lotman. Dopo il Disgelo degli anni Sessanta, «il nome di Bachtin in Russia era associato in maniera negativa con l’ideologia rivoluzionaria» (Popova 2001:133). La prima biografia russa di Bachtin è apparsa solo dopo lo sciogliemento dell’Unione Sovietica, nel 1993. La presentazione di Bachtin in quanto dissidente, invece, gli è servita in occidente, l’ha reso largamente impunibile nella sua terra natìa fino alla Perestroika.

 

I lavori di Lotman hanno avuto invece una traiettoria diversa rispetto a quelli di Bachtin, sia in Unione Sovietica che all’estero. Durante il periodo in cui la teoria letteraria francese era dominante e Bachtin era il beniamino degli accademici francesi e americani in diverse discipline, l’interesse per i lavori di Lotman era ristretto ai circoli semiotici, «prima in Italia, a causa degli sforzi di Remo Faccani e Umberto Eco, poi, sempre di più negli anni Settanta, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, passando per traduzioni sporadiche di interi libri e di antologie di brevi parti» (Sebeok 1977:VII).

Inoltre le traduzioni dei saggi di Lotman venivano spesso posizionate in volumi dedicati ad approcci “sovietici” per lo studio dell’arte e la cultura, rendendoli marginali fin dall’inizio ed evitando un vero dialogo con studiosi occidentali che non fossero slavisti, ad eccezione dell’Italia, dove la semiotica era una scienza ben sviluppata, Umberto Eco era un relatore efficace, e gli scritti di Lotman su Dante hanno trovato un pubblico aperto, il lavoro di Lotman in occidente non è stato pienamente integrato nè in studi del sistema dei segni nè nella teoria letteraria francese.

Come spiega Natalia Avtonomova: «l’applicazione dei metodi linguistici ad altri settori negli studi umanistici era percepito in Francia come un limite, mentre in Russia era una liberazione allo stesso tempo dalla soggettività e dogmatismo che ha segnato le scienze sociali» (Avtonomova 2001:120-121).

 

Gli studiosi occidentali che hanno lavorato all’interno dei binari restrittivi della guerra fredda per la maggior parte non sono riusciti a cogliere l’importanza “politica” del lavoro di Lotman e sono stati catturati dalla presentazione della semiotica nell’Unione Sovietica in quanto scienza applicata. Ad un tempo in cui il potere è diventato una questione centrale fra gli studi umanistici in occidente sotto l’influenza di Foucault, fra gli altri, questo ha avuto un effetto cruciale sulla recezione di Lotman (Baran 1976).

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, tuttavia, gli studiosi in occidente sono diventati più sofisticati nel comprendere la cultura sovietica e le politiche accademiche, in generale, e anche le politiche della Scuola di Tartu, in particolare come è stato detto dal già citato Maxim Waldestein, nella sua monografia Soviet Empire of Signs: A History of the Tartu School of Semiotics. Un suo critico ha detto che Waldestein «sostituisce la concezione di potere costruita su un’opposizione ristretta e rigida, asimmetrica (potere-subordinazione) con una concezione simmetrica di potere, procedendo principalmente dai lavori di Bourdieu, Latour, Foucault e altri» (Ventsel 2011:360).

 

 

Lotman evolve sia come studioso che come teorico e alla fine degli anni Ottanta inizia a cambiare il proprio approccio, abbandonando la severa oggettività dell’archivista e parlando più direttamente al proprio momento storico. «Lotman abbandona la netraulità di espressione che vi era nei suoi lavori precedenti» (Avtonomova 2001:131). Scrive The unpredictable workings of culture e Culture and explosion durante gli anni turbolenti che seguirono la caduta del comunismo. Sebbene gli storici avessero presto costruito una catena logica di eventi inevitabili che hanno portato alla fine del comunismo, Lotman e altri cittadini sovietici l’hanno vissuta come un’esplosione inaspettata che si è promessa di cambiare il loro mondo in maniera del tutto inaspettata. Lotman nei suoi libri tratta con particolare urgenza un problema che sta sorgendo in semiotica e virtualmente in tutte le forme di strutturalismo: come sintetizzare genetica e strutturalismo sincronico, diacronia e sincronia, storia e presente. In altre parole, come si verifica il cambiamento nelle strutture semiotiche, e cosa fa all’esperienza individuale e da senso a questo cambiamento (Baran 1976).

 

6. Conclusione

 

Terminiamo con le parole di Lotman nella prefazione de The Unpredictable Workings of Culture, che lo studio del nostro passato culturale potrebbe non mostrarci un futuro inevitabile, ma può aiutarci a trovare la nostra strada nel caos culturale.

 

Quando scendiamo dalla montagna verso un burrone coperto di una foresta fitta e il buio ci impedisce di vedere oltre la nostra mano tesa, sebbene avessimo il dovere di andare avanti, possiamo fare affidamento sulla nostra fiducia nella memoria e nella correttezza del percorso scelto. In tali occasioni i dubbi sono pericolosi e devastanti ma la caparbietà si trasforma in eroismo  (Lotman 2013).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7. Appendice – Intervista a Mihhail Lotman condotta durante il programma Erasmus+ in data 1/6/2015 a Tallinn, Estonia

 

 

Da Praga e da Mosca verso Tartu: influenza del formalismo russo e dello strutturalismo ceco su Lotman From Prague and Moscow to Tartu: influence of Russian Formalism and Czech Structuralism on Lotman
1. Formalismo russo 1. Russian Formalism
2. Circolo linguistico di Praga 2. Prague school
3. Strutturalismo ceco 3. Czech Structuralism
4. Laura Scavino: Jakobson è un mediatore chiave fra il formalismo russo e lo strutturalismo ceco?

 

Mihhail Lotman: Si certamente è il collegamento diretto, non è neanche un collegamento dato che è la stessa persona. Lo strutturalismo è un ulteriore sviluppo dell’idea formalistica. Non ci sono contraddizioni fra formalismo e strutturalismo. Alla fine della sua vita Jakobson ha detto che il “formalismo è uno strutturalismo immaturo”. E così lo strutturalismo è cresciuto. Non ci sono contraddizioni  è uno sviluppo naturale. Le sue idee quali le sei funzioni della lingua hanno diverse fonti. Una di queste è Karl Bucher, cioè la lingua è un organo o qualcosa del genere. Ma la seconda fonte erano i formalisti russi, la funzione estetica della lingua e così via.4. Laura Scavino: Is Jakobson “a key mediator” between Russian Formalism and Czech Structuralism?

 

Mihhail Lotman: Of course he is the direct link, even he is not a link because it’s the same person. The Structuralism is the further development of the formalistic idea. There are no contraddictions between Formalism and Structuralism. At the end of his life Jakobson said that “Formalism is a childish Structuralism”. And so Structuralism grew up. There are no contraddictions, so is a natural development. His ideas such as the six functions of language have different sources. One of them is Karl Bucher, that is to say language as an organ or something like that. But the second source were the Russian Formalists, the aestetic function of language and so on.5. Lotman e la scuola semiotica di Tartu-Mosca6. Lotman and the Tartu-Moscow semiotic school  DomandeQuestions1. Laura Scavino: Secondo lei come mai lo strutturalismo in Italia è percepito come fenomeno francese?

 

Mihhail Lotman: Non sono uno specialista italiano o francese ma… penso che è percepito così perché ci sono diversi collegamenti fra la Francia e l’Italia, specialmente nel nord Italia (Torino, Milano e Bologna) e persone quali Umberto Eco hanno vissuto a Parigi e la metà della sue opere sono in francese.  Il primo motivo è culturale, il secondo è che hanno una tradizione linguistica vicina. La tradizione linguistica italiana non è strutturalistica, c’era la scuola di linguistica comparata ed era più vicina alla tradizione tedesca più che a quella francese. Ma la nuova linguistica deriva da Saussure, era originario della svizzera ma parlava francese. Eco è più vicino a Peirce. Ci sono polemiche nello stesso ruolo culturale.1. Laura Scavino: According to you, why Structuralism is perceived as a French phenomenon in Italy?

 

Mihhail Lotman: I am not an Italian or French specialist but…. I think is perceived like this because there are many links between France and Italy expecially in the North of Italy (Turin, Milan and Bologna) and people such as Umberto Eco lived in Paris and half of his novel are in French. So the first reason is cultural, the second is because is close to most linguistic traditions. Italian linguistic tradition is not a Structuralist tradition, there was a school of comparative linguistic more close to German tradition, not the French. But new linguistic come from Saussure, he was from Switzerland but he spoke French. Eco is closer to Peirce. There are polemics in the same cultural role.2. Laura Scavino: Suo padre cita spesso Saussure, ma non cita mai Peirce. È strano perché la sua semiotica della cultura, con l’intraducibilità tra

linguaggi continui e discreti, è molto più vicina a Peirce che a Saussure. Come se lo spiega?

 

Mihhail Lotman: Non sono sicuro che mio padre non abbia mai parlato di Peirce. Ha frequentemente usato i termini “segni iconici e simbolici” vediamo.. ha menzionato Peirce.. ah no scusa era un mio articolo!! Per lui peirce non era molto importante. Ho scritto articoli in russo, estone e inglese ma l’ultima volta che ho scritto un articolo in inglese non è piaciuto. Ok l’ho trovato: Peirce-Saussure sulle fondamenta della semiotica. E ce n’è un altro su Peirce.2.Laura Scavino: Your father often mentions Saussure but he never spoke about Peirce. This is strange, because his semiotics of culture, with the untranslatability between continuous and discrete languages, is much closer to that Peirce than Saussure. How do you explain that?

 

Mihhail Lotman: I am not sure that he has never spoke about Peirce. He frequently used the Peirce terms “iconic and symbolic signs” let’s see… Yes he mentioned Peirce… ah sorry this is my article!!

For him Peirce was not so important. I wrote articles in Russian, Estonian and English but the last time I wrote an article in English and they didn’t like it. Ok, I found it: Peirce-Saussure on foundation of semiotics. And another about Peirce.3.Laura Scavino: Suo padre conosceva Peirce?

 

Mihhail Lotman: Certamente lo conosceva. Alcuni brani sono stati tradotti in russo  sicuramente lo conosceva.3.Laura Scavino: Did your father know Peirce?

 

Mihhail Lotman: Of course he knew him. Some pieces were translated into Russian so of course he knew Peirce.4.Laura Scavino: Lo strutturalismo e la scuola di Tartu che rapporto hanno?

 

Mihhail Lotman: La scuola di Tartu è la scuola dello strutturalismo  vi è una connessione diretta. La scuola di Tartu di semiotica strutturale. Riguarda la semiotica.4.Laura Scavino: What kind of connection is there between Structuralism and the Tartu school?

 

Mihhail Lotman: Tartu school is the school of Structuralism so there is a direct connection. The Tartu school of Structural semiotics, it’s about semiotics.5. Laura Scavino: Lotman è stato influenzato dai formalisti russi, dalla scuola di Praga e dallo strutturalismo ceco? In che modo?

 

Mihhail Lotman: Ha studiato all’Università di Leningrado, i suoi professori erano tutti formalisti russi, e il suo primo supervisore era Vladimir Propp e poi ha scelto di non essere legato ai formalisti per vari motivi. Ėjchenbaum e Demosevskji erano i suoi insegnanti. Persone quali Gregorij Gukovskij erano contro il formalismo ma era vicino e connesso ai formalisti. E così questa polemica con il formalismo è principalmente formalista.5. Laura Scavino: Was Lotman influenced by Russian Formalists, the Prague school which is the Czech Structuralism? How?

 

Mihhail Lotman: He studied at the Leningrad University, his teachers were all Formalists and his first supervisor was Vladimir Propp, and then he chooses not to be connected with Formalists because there are many reasons. Ėjchenbaum was one and Demosevskyj were his teachers. People such as Gregorij Gukovskij were against Formalism but he was so close and connected with Formalists. And so this polemic with Formalism is pretty much Formalistic.6. Laura Scavino: Pensa che da Saussure si sarebbe arrivati a Lévi-Strauss se non ci fossero stati gli sviluppi dei paesi slavi?

 

Mihhail Lotman: No non possiamo andare da Saussure direttamente a Lévi-Strauss perché Lévi-Strauss non utilizza molti metodi saussuriani piuttosto il metodo di Trubeckoj della fonologia. E questo è esattamente il nuovo sviluppo nello strutturalismo e penso che Trubeckoij sia un genio e ha sviluppato un metodo: come possiamo analizzare le strutture inconsciamente. Questa è fonologia nel linguaggio della struttura. E Lévi-Strauss usa questo metodo che analizza prima di tutto le relazioni nella medicina.  Un forte strutturalista ma la gente non è conscia di ciò.  Abbiamo da una parte Saussure con il circolo linguistico di Praga e dall’altra Lévi-Strauss.6. Laura Scavino: Do you think that from Saussure we would have arrived directly to Lévi-Strauss without the advancements and developments that occurred in the Slavic countries?

 

Mihhail Lotman: No, we cannot go from Saussure directly to Lévi-Strauss because Lévi-Strauss did not use many Saussurean methods but the Trubeckoj method of phonology. And that was exactly the new development in structuralism and I think that Trubeckoij was a genius and he developed a method: how we can analyze structures unconsciously. That’s phonology in structure language. And Lévi-Strauss uses this method which analyzes first of all relations in medicine. So he’s a very strong Structuralist but people are not very conscious about it. So Saussure with the Prague Linguistic Circle and Lévi- Strauss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Historia de la traducción. Reflexiones en torno del lenguaje traductivo desde la antigüedad hasta los contemporáneos, 2012, de Bruno Osimo,Paidós, México, 349 pp. ISBN 978-607-9202-31-6.
http://www.pueblosyfronteras.unam.mx/v09n17/art11.html

Fausto Bolom Ton

fbolom@unam.mx

PROIMMSE-IIA-UNAM

Empecemos con una adivinanza ¿En qué se parecen Aristóteles, Sigmund Freud y Miguel de Cervantes? Si respondemos que los tres son personajes que han revolucionado el pensamiento sería una respuesta aceptable; sin embargo, en el marco del libro que en esta ocasión toca reseñar podemos tener una respuesta alternativa: ellos se parecen en que abordan, a su modo, un asunto de vital importancia para el hombre: la traducción.

Hablar de traducción nos remite a un proceso que necesariamente guarda una gran complejidad y que puede ir desde la lingüística, la psicológica, la literaria, hasta la fisiológica, que sin embargo es inherente al hombre y lo ha acompañado desde su formación como tal hasta la actualidad. En la antigüedad podemos advertir el proceso traductivo desde la transacción comercial amigable entre dos grupos étnicos hasta los brutales encuentros entre culturas distintas y su posterior fusión. La llamada traducción intertextual ha estado presente en nuestras vidas desde disímiles e influyentes obras como los cuentos de Andersen, El origen de las especies de Darwin, la Biblia o Principia mathematica de Newton, El Príncipe de Maquiavelo, El contrato social de Rousseau o El Capital de Marx, hasta los llamados actualmente best sellers como el de Harry Potter de J. K. Rawlling. El proceso traductivo está tan asimilado y resulta tan «normal» en nuestro globalizado y mediatizado mundo que es raro notarlo en los doblajes y los subtítulos que se realizan, por ejemplo, para programas y películas extranjeros.

Sin embargo, siendo una actividad de tal relevancia, sorprenderá la poca literatura en español que aborda en exclusiva el tema, sin que tenga que estar adscrito o supeditado a otras disciplinas como la literatura, la psicología, la semiología, etc. Es en este marco que obras como la que nos presenta Bruno Osimo resultan reveladoras para enmarcar los esfuerzos que, a lo largo de las épocas, las disciplinas y los pensamientos, se han vertido para comprender el fenómeno y el proceso.

Bruno Osimo proporciona una colección de variados y disímiles personajes, antiguos y contemporáneos, que, por sus reflexiones, él considera relevantes para relatar una historia de la traducción. El libro fue publicado originalmente en Italia, en 2002, bajo el título original de Storia della traduzione; luego, la obra fue traducida del italiano por M. Cristina Secci y publicada recientemente en español, en 2012. La obra posee ocho capítulos, una nota de la traductora, un prefacio y un útil glosario al cual remitirse. Para cada capítulo el autor proporciona una generosa bibliografía, lo cual indica una buena revisión de la documentación existente y permite también que el lector ahonde posteriormente en la materia.

El autor advierte en el prefacio que el libro «no fue concebido para ser completo ni objetivo», puesto que su selección de autores fue realizada de manera parcial en función de su propio bagaje y experiencia. Asimismo, justifica la presencia de varios semióticos y psicólogos dada la importancia que tienen la significación y el componente psíquico en el proceso traductivo. Ya desde aquí el autor presenta una definición de la traducción como «un proceso que contempla la presencia de un prototexto y un metatexto», definición que, como él mismo dice, pretende alejarse de una más simple: de «texto de salida» y «texto de llegada».

Siendo la historia el tema principal del libro, en el primer capítulo, bajo el título de «Concepción de la historia de la traducción», el autor expone los aprietos para construir tal historia puesto que, a pesar de su independencia como disciplina, la historia de la traducción ha estado ligada a la de la filosofía, la semiótica, la psicología, la lingüística, entre otras disciplinas afines; todo lo cual conlleva distintas expectativas y enfoques. No obstante, la historia de la traducción debiera conectar aspectos temporales de los textos traducidos y de la teoría y el metalenguaje generados sobre la actividad traductiva y la traducción.

En el segundo capítulo, «De la Biblia al Humanismo», se exponen autores importantes como Platón, Aristóteles, Cicerón, entre otros. Ya se esbozan en varios de ellos conceptos como el de símbolo, signo, objeto, interpretante, que más tarde formarán parte fundamental del pensamiento semiótico. También en términos prácticos se tratan problemas relevantes para el acto traductivo como la polisemia, el problema de los equivalentes lingüísticos, la dominante del texto y los residuos, el lector modelo y la interpretación, que ya en épocas posteriores se tratarán con mayor detalle. También ya se advierten pensamientos prescriptivos sobre lo que debe ser una «buena» traducción.

En el tercer capítulo, «De la Reforma a la Revolución Francesa», encontramos pensadores fundamentales como Lutero, Bacon, Cervantes, Descartes, Hobbes, Locke, Kant, entre varios más. Muchos de ellos esbozan conceptos novísimos como el de isomorfismo y anisomorfismo del lenguaje y también evidencian precoces referencias a conceptos de la semiótica; pero los hay también que exponen el deber ser de la traducción o sus tipologías. Se advierte ya en algunos de ellos la visión de que la traducción es un instrumento de intercambio cultural pues implica una decisión y una estrategia para integrar un texto ajeno a una cultura propia. En tal sentido, Lutero tiene una posición importante en la historia al traducir la Biblia del latín al alemán vulgar, lo cual le valió la ira de la Iglesia. Pero como Lutero lo indica

No hay que solicitar a estas letras latinas cómo hay que hablar el alemán, que es lo que hacen esos burros; a quienes hay que interrogar es a la madre en la casa, a los niños en las calles, al hombre corriente en el mercado, y deducir su forma de hablar fijándose en su boca. Después de haber hecho esto es cuando se puede traducir: será la única manera de que comprendan y de que se den cuenta de que se está hablando con ellos en alemán (p. 48).

En contraste, hay autores como Cervantes que cuestionan la relevancia y validez del traductor y de su traducción a lenguas vulgares:

[…] me parece que el traducir de una lengua en otra, como no sea de las reinas de las lenguas, griega y latina, es como quien mira los tapices flamencos por el revés; que aunque se ven las figuras, son llenas de hilos que las oscurecen, y no se ven con la lisura y tez de la haz; y el traducir de lenguas fáciles, ni arguye ingenio ni elocución, como no le arguye el que traslada ni el que copia un papel de otro papel (p. 52).

En el cuarto capítulo, «El siglo XIX», el autor recorre varios autores del Romanticismo quienes van un tanto en oposición con la concepción del mundo de la «Ilustración racionalista y enciclopedista». En este apartado se muestra las reflexiones de pensadores como Friedrich Scheleiermacher, Madame de Sataël, Humboldt, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, entre muchos más. En varios de los autores la traducción se observa como un enriquecimiento mutuo de las lenguas y las culturas y también como una experiencia afectiva entre el lector y el traductor. Otros autores nos enfrentan a dilemas prácticos como en qué grado deberían ser modificadas las obras y adaptarlas a la cultura de llegada, también sobre el énfasis del traductor en la armonía y musicalidad de un poema en desmedro de su precisión, o la decisión de dejar notas aclaratorias o dejar el proceso de desambiguación al lector y privilegiar la fluidez del texto. Nos llevan también a reflexionar sobre la imposibilidad de conseguir una traducción textual y en la imposibilidad de lograr el mismo efecto que el escrito habría tenido en su lengua original, en parte debido a la falta de equivalencia lingüística.

Para Osimo requieren atención especial los descubrimientos de Charles S. Pierce y de Sigmound Freud que, aunque alejados de la lingüística, han contribuido enormemente al progreso actual de la ciencia de la traducción. Es por ello que reseña a estos dos únicos autores en el quinto capítulo denominado de modo familiar y simple como «Peirce y Freud». Peirce, dentro de la disciplina de la lógica, funda la semiótica moderna y, si bien no se pronuncia directamente por la traducción interlingüística, serán muy útiles sus conceptos para enmarcar teóricamente el procedimiento por el cual es posible deducir el significado de un signo (un proceso traductivo, de hecho). Del mismo modo con Freud, padre del psicoanálisis y la psicoterapia, el autor encuentra paralelismos en el proceso traductivo al realizar el inconsciente labores de decodificación de signos, pero también en la actividad de la traducción de los sueños, en tanto son códigos y representaciones del yo.

El sexto y séptimo capítulos son los dos más extensos del libro y en estos Osimo dedica bastante esfuerzo de revisión de autores más cercanos a nuestra época. Los títulos de ambos capítulos son descriptivos de su contenido: «Traductores, escritores, lingüistas del siglo XIX» y «Psicólogos, filósofos, semiólogos del siglo XX». Y es aquí donde desfilan importantes personajes de las más variadas disciplinas y escuelas, quienes abordan temas, otra vez, muy variados como el asunto de la posibilidad o no de preservar en una traducción la musicalidad y la belleza original de una poesía, el tema del detalle y la precisión en la traducción o la generalización, los afanes y dilemas de un traductor para hallar la traducción precisa, el grado de traducibilidad de una lengua, el grado de deslizamiento semántico para preservar metáforas. Pero también son reseñadas las relevantes aportaciones en lingüística y semiología de Saussure y también las de filósofos de la talla de Wittgenstein, Heidegger y Gadamer.

De la enorme colección de autores reseñados en estos dos capítulos llama, por ejemplo, la atención el concepto de traducción de Octavio Paz:

Aprender a hablar es aprender a traducir; cuando el niño pregunta a su madre por el significado de esta o aquella palabra, lo que realmente le pide es que traduzca a su leguaje el término desconocido. La traducción dentro de una lengua no es, en este sentido, esencialmente distinta a la traducción entre dos lenguas, y la historia de todos los pueblos repite la experiencia infantil (p. 149).

En el marco de la referencia que hace el propio Paz a Richard Pierce, hablando del concepto y la definición de «efectos análogos», Bruno Osimo reflexiona:

Cada lectura es una traducción, cada crítica es interpretación, y la diferencia principal entre autor y traductor está en el paralelismo que, en este último caso, se debe instaurar a fuerza en dos procesos: el autor no siempre sabe a dónde irá a parar, mientras el traductor lo sabe con anticipación, porque su objetivo es «reproducir con medios diferentes efectos análogos» (p. 150).

Por último, en el octavo capítulo, intitulado «La ciencia de la traducción», Bruno Osimo presenta a una diversidad de investigadores occidentales y orientales con contribuciones fundamentales para la construcción formal de una ciencia de la traducción. El autor resalta que aun en la segunda mitad del siglo XX existen autores que ignoran asuntos ya tratados anteriormente y continúan proponiendo hipótesis supuestamente «nuevas», sin embargo, ya se perfila una nueva idea de la traducción gracias a desarrollos innovadores de la teoría sistémica y la teoría semiótica. Es así que en el marco de su reseña a Aleksàndr Davìdovic Švejcer, el autor subraya la complejidad del proceso traductivo y su carácter multifacético determinado por factores tanto lingüísticos como no lingüísticos, y señala que no se trata solo de un acto comunicativo sino de interacción entre dos culturas. Asimismo, en el marco de su reseña a Dinda Gorlée, el autor ofrece una visión dinámica y relativa de una traducción:

La concepción semiótica de la traducción propende hacia una visión más elástica, más efímera, del significado. Por lo tanto, las traducciones interlingüísticas escritas no pueden ser consideradas más que actualizaciones provisorias, fijaciones hipotéticas y desactualizadas de interpretaciones siempre discutibles y que se pueden enriquecer (p. 326).

En verdad, el libro nos ofrece un excelente panorama de los pensamientos que se han vertido sobre la traducción y su proceso. Sin embargo, debido a la gran cantidad de autores reseñados (165 en total), se extraña una reflexión final que permita –quizás ilusoriamente– aglutinar la enorme variedad de enfoques y perspectivas. Una vez avanzado el libro, el lector puede sentirse abrumado por al número de autores y por la sensación de redundancia en los pensamientos o en los múltiples lugares comunes. No obstante, esto mismo ilustra un punto del autor: la complejidad y sofisticación alcanzadas por la ciencia de la traducción pero que es, todavía, un proceso en cierne.

Las perspectivas esbozadas pueden muy bien enmarcar nuestras cotidianas actividades de traducción no solo intertextual o interlingüística sino también intercultural, en el contexto de nuestra «maldición babélica»; sin embargo, dejaré la estafeta traductora-interpretativa al próximo lector del texto de Bruno
Osimo.

Raba lûbvi di Mihalkov: analisi comparativa prototesto-metatesto. Tesi di Lucrezia Mangini Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Raba lûbvi di Mihalkov: analisi comparativa prototesto-metatesto

LUCREZIA MANGINI

Fondazione Milano
Civica Scuola Interpreti e Traduttori
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo
Diploma in Mediazione linguistica
Dicembre 2014

© Mosfilm Studios, 1975 © RUSCICO,1999
© Lucrezia Mangini per l’edizione italiana 2014
La traslitterazione dal russo è stata eseguita in conformità alla norma ISO/R 9: 1995.

Abstract in italiano
La presente tesi propone l’analisi comparativa prototesto-metatesto di una scena dialogata, tratta dal film Schiava d’amore. Раба любви (Raba lûbvi) di Nikita Mihalkov. Nella prefazione viene illustrato il metodo di lavoro eseguito per attuare l’analisi comparativa. Servendosi di una tabella analitica, in cui sono elencate le diverse categorie di cambiamenti riscontrabili, è stato possibile confrontare ed esaminare in modo approfondito la versione russa e quella italiana partendo dallo stesso testo dialogato. Nel corso dell’analisi si è tenuto conto del carattere particolare del testo preso in esame: un testo che non è destinato alla lettura, ma che è soprattutto pensato per la recitazione. Nella conclusione viene fornita una visione d’insieme del meccanismo che entra in gioco nella fase di resa e fruibilità del testo della cultura emittente in una variante efficace dello stesso testo nella cultura ricevente.

English abstract
This work presents a comparative prototext-metatext analysis of a dialogue scene taken from Nikita Mihalkov’s film “Schiava d’amore. Рабалюбви (Raba lûbvi)”. The foreword describes how the comparative analysis was carried out. Thanks to an analytic table, in which there is a list of different types of translation shifts that can be noticed, an in-depth comparison between the Russian original and the Italian translation has been made. The distinctive features of the text have been examined. The text is not intended for reading but for acting. The conclusion provides an overview of what happens when the text of a transmitting culture is translated and made available in an efficient translation to a receiving culture.

Резюме на русском языке
В настоящей работе представлен сравнительный анализ прототекст-метатекст сцены в виде диалога из фильма «Раба любви» режиссёра и актёра Никиты Михалкова. Во введении даётся объяснение метода работы, который был использован для выполнения сравнительного анализа. При помощи аналитической таблицы было возможно сравнить и углублённо рассмотреть русский и итальянский перевод из того же самого текста в виде диалога. В ходе анализа был принят во внимание особый характер рассмотренного текста: этот текст не предназначен для чтения, он задуман для актёрского исполнения. В заключении даётся общий обзор механизма, который используется при переводе текста исходной культуры и представляется эффективный вариант того же самого текста в приниумающей культуре.

PREFAZIONE
La presente tesi ha come oggetto l’analisi comparativa prototesto-metatesto di una scena dialogata, tratta dal film Schiava d’amore: Раба любви (Raba lûbvi), diretto e prodotto dal regista e attore Nikita Mihalkov nel 1975.
La struttura della tesi è articolata in tre fasi.
Nella prima fase è stata centrale la scelta di un film che rappresentasse una fase particolare della cultura cinematografica russa e, allo stesso tempo, si presentasse come testimonianza di un periodo cruciale della storia russa. Grazie alle consultazioni col mio relatore in materia di cinema russo, abbiamo deciso di lavorare su uno dei capolavori della cinematografia russa: il film Schiava d’amore. Раба любви (Raba lûbvi) di Nikita Mihalkov. A seguito della ripetuta e attenta visione del film in lingua russa e sottotitolata in lingua italiana, abbiamo deciso di selezionare una scena particolare che si prestasse al nostro lavoro di analisi e che cogliesse i protagonisti in un momento significativo della loro esistenza, svelando i loro sentimenti nei confronti dell’amore e della vita. Si tratta di una scena della durata di 4 minuti (dal minuto 25.55 al minuto 29.54) e incentrata sul dialogo sentimentale tra i due protagonisti del film, Ol’ga Nikolaevna e Viktor Ivanovič.
Nella seconda fase è stata creata una tabella divisa in due parti, dove sono stati inseriti il testo originale in lingua russa (prototesto) e il testo tradotto in lingua italiana (metatesto) del dialogo selezionato. Il primo è stato fornito da un sito internet specializzato in film russi, che abbiamo selezionato dopo un’attenta ricerca presso altri siti dello stesso genere: il sito è hppt//vvord.ru/tekst-filma/Raba-lyubvi/; il secondo è stato trascritto dai sottotitoli, direttamente dalla versione in dvd del film. Successivamente, è stato riascoltato attentamente il dialogo per verificare che sia il prototesto che il metatesto contenessero tutte le parti del dialogo e che le stesse fossero complete. Dalla verifica è risultato che alcune espressioni, parole, congiunzioni e avverbi mancavano sia nella versione russa che nei sottotitoli italiani. In entrambi i passi all’interno della tabella, quindi, si sono apportate le aggiunte delle parti mancati, che sono state visibilmente evidenziate con il colore rosso. Invece, sono stati segnalati tre casi con il colore blu, che corrispondono ai passi che non sono stati tradotti nei sottotitoli del dvd.
Nella terza fase è iniziato il vero e proprio lavoro di analisi comparativa prototesto-metatesto. Il testo originale (prototesto) e il testo tradotto (metatesto) sono stati confrontati a partire da una tabella analitica ed esplicativa di una serie di cambiamenti riscontrabili nel passaggio traduttivo da prototesto a metatesto.

sigla spiegazione della sigla cambiamento/ricadute sulla ricezione esempi
SENSO A Aggiunte una singola parola è aggiunta il gatto↠il gatto bianco
CS Calchi Semantici e Sintattici calco di parola che determina senso diverso e incomprensibile il tuo comportamento è morbido
M cambiamento radicale di senso riguardante una parola (Word) o più, Mistranslation il cambiamento è tale da compromettere il senso generale della frase the triumph of spirit over circumstance↠il trionfo della spiritualità sul caso
MOD MODulazione: specificazione-generalizzazione, parole-termini, ambiguazione-disambiguazione una parola è resa più specifica o più generica. un termine è diventato parola comune o viceversa. ridondanza semantica. modifica del livello di ambiguità di un’espressione in entrambi i sensi non mi dà fastidio, lo sopporto
OM OMissioni una singola parola è omessa il gatto bianco↠il gatto
FORMA C Cadenza, punteggiatura, rima, metrica, capoversi è stato alterato uno di questi elementi, modificando il ritmo del testo il capoverso dell’originale scompare nella traduzione o viceversa ne compare uno prima inesistente
CAC CACofonia allitterazioni, assonanze involontarie le ostiche ostriche
ENF ENFasi, ordine delle parole dislocazioni, frase scisse, ordine anomalo delle parole, diversa accentuazione della frase È te che volevo ↠ Io volevo te
P Presentazione – forma grafica – layout – impaginazione migliore/peggiore riproduzione degli aspetti grafici rispetto alle norme suggerite dal committente Es. uso di virgolette alte/basse in modo difforme dalla stylesheet del committente
R Registro, tipo di testo uso di parole di registro uguale a/diverso da quello desiderato. migliore/peggiore parmi d’udire un botto ↠ cos’è ‘sto casino?
S Stile complessivo dell’autore migliore/peggiore rendimento dello stile per esempio sostituzione di congiunzioni alle virgole in un autore che ha la ripetizione della virgola come tratto poetico
U Uso: locuzioni, collocazioni, calchi non semanticamente sbagliati, resa inefficace una singola parola, sebbene non semanticamente sbagliata, è collocata in modo involontariamente marcato l’ho mandato in quella città (anziché “a quel paese”)
è supposto saperlo
RAPPORTI TRA CULTURE INTRA uso di SINonimi, ripetizioni, rimandi intratestuali sinonimizzazione e desinonimizzazione. coglimento di rimandi interni da un capo all’altro del testo. ridondanza lessicale eliminazione (volontaria o involontaria) delle ripetizioni volutamente disseminate in parti diverse del testo per creare rimandi interni da una parte all’altra del testo
DT destinatario – Dominante del Testo- leggibilità migliore/peggiore coglimento del lettore modello e della dominante del testo Un testo volutamente complesso, con ricerca di forme peculiari, viene standardizzato anche se non è rivolto a un lettore modello standard
D Deittici, rimandi interpersonali, punto di vista migliore/peggiore riproduzione del punto di vista del narratore o del personaggio, ideologia personale questo/quello, ora/allora, qui/là
I rimandi Intertestuali, realia migliore/peggiore coglimento dei rimandi esterni ad altri testi o altre culture eliminazione (volontaria o involontaria) dei rimandi interculturali o intertestuali volutamente disseminati in parti diverse del testo per creare rimandi esterni dal testo ad altri testi/culture
COMPETENZA TRADUTTORE O Ortografia errori d’ortografia nella cultura ricevente un pò, qual’è, ti dò
G-S errori Grammaticali e Sintattici errori di grammatica o sintassi nella cultura ricevente sebbene è, inerente il, in stazione
E Enciclopedia – precisione fattuale – conoscenza del mondo la dotazione enciclopedica della traduttrice è insufficiente a colmare l’implicito culturale blue helmets↠elmetti celesti
L Logica la logica della traduttrice è insufficiente a colmare l’implicito culturale sapeva che non sarebbe sopravvissuta alla propria morte
(OSIMO 2013).

La tabella è suddivisa in quattro colonne verticali e quattro colonne orizzontali. Queste ultime indicano quattro grandi macroaree di applicazione, che è necessario consultare per ottenere una traduzione quasi perfetta: senso, forma, rapporti tra le culture e competenza del traduttore. A loro volta, ciascuna di queste macroaree è suddivisa in cinque sotto aree, che corrispondono ai reali cambiamenti da segnalare al lettore. Nelle colonne verticali, invece, sono mostrati rispettivamente: le sigle dei cambiamenti, le spiegazioni delle sigle, le spiegazioni dei cambiamenti e delle ricadute sulla ricezione e gli esempi dei cambiamenti.
Oltre al supporto della tabella, è stato preso in considerazione un altro criterio importante che ha determinato la struttura complessiva e finale del confronto svolto: il testo, oggetto di discussione, è il copione della scena di un film. Di conseguenza, è stata messa in atto un’analisi comparativa nell’ottica di proporre soluzioni alternative non limitate alla lingua scritta, ma più vicine ed affini al parlato.

RAFFRONTO PROTOTESTO-METATESTO

Виктор Иванович: Всё . Слушайте , как много дураков, а ? Viktor Ivanovič: Salvi. Quanti sciocchi ci sono al mondo .
Ольга Николаевна: Вы знаете что, вот что я подумала. Ol’ga Nikolaevna: Sapete … ho pensato una cosa .
Виктор Иванович: Да. Viktor Ivanovič: Sì .
Ольга Николаевна: Удивительно , вот когда окно грязное, то и все за окном тоже кажется грязным. Вот также и в жизни. Столкнешься с чем-то неприятным, и сразу вся жизнь кажется ужасной, ужасной … верно? Ol’ga Nikolaevna: È strano… quando i vetri della finestra sono sporchi… anche ciò che si vede fuori sembra sporco. Nella vita è lo stesso . Ci si imbatte in qualcosa di spiacevole e subito tutta la vita ci appare orribile. Non vi pare ?
Виктор Иванович: А когда за окном решетка , то и небо кажется в клетку, не замечали? Viktor Ivanovič: Quando poi la finestra ha le sbarre… anche il cielo sembra in gabbia . Non è così ?
Ольга Николаевна: Ну почему… Ну почему с вами ни о чем невозможно говорить серьезно? Ну какой вы , право? Ol’ga Nikolaevna: Perché? Perché con voi non si può mai parlare seriamente? Insomma chi siete? Come siete?
(смех) (risa)
Виктор Иванович: Какой ? Ну , какой? Ммн? Viktor Ivanovič: Chi sono? Come sono?
Ольга Николаевна: Боже мой! А ведь я действительно вас совершенно не знаю. Но , милый мой, я прожила слишком много чужих женских жизней, чтобы меня мог обмануть мужчина. мц… Ol’ga Nikolaevna: Dio mio … possibile che vi conosca così poco ? Mio carissimo amico , finora ho vissuto molte, fin troppe vite di donne a me estranee … perché oggi un uomo mi possa ingannare. (verso)
Виктор Иванович: ууууууун… Viktor Ivanovič: (verso)
Ольга Николаевна: Что, что вы так на меня смотрите? Ну , поехали, поехали . Ol’ga Nikolaevna: Cosa c’è? Insomma non mi guardate così? Andiamo via!
Виктор Иванович: Куда изволите ? Viktor Ivanovič: Dove volete andare ?
Ольга Николаевна: Не знаю. В ботанический сад. Ol’ga Nikolaevna: Non so… al Giardino Botanico.
Виктор Иванович: Слушаюсь . Viktor Ivanovič: Agli ordini.

Виктор Иванович: Я давно хотел поговорить с вами. Viktor Ivanovič: Da molto tempo vorrei parlarvi .
Ольга Николаевна: Ммн .. Что? Ol’ga Nikolaevna: Cosa?
Виктор Иванович: Да нет , в другой раз. Viktor Ivanovič: No, un’altra volta.
Ольга Николаевна: В Москве, наверное , сыро , идут дожди… Максаков непременно привезет простуду, приедет капризный,сопливый. Ol’ga Nikolaevna: A Mosca certamente piove. Sarà umido. Maksakov arriverà sicuramente raffreddato. Carico di capricci , fisime …
Виктор Иванович: Вы очень скучаете по нему ? Viktor Ivanovič: Avete nostalgia di lui?

Ольга Николаевна: Я по Москве скучаю. Ol’ga Nikolaevna: Ho nostalgia di Mosca.

Виктор Иванович: А в Москву-то хочется ? Viktor Ivanovič: Vorreste tornare a Mosca?
Ольга Николаевна: Хочется …Да что я там буду делать? Ol’ga Nikolaevna: Vorrei… ma per farci cosa ?

Виктор Иванович: Сниматься в кино. Viktor Ivanovič: Del cinema .
Ольга Николаевна: (смех) Ни мне, ни Максакову там делать нечего, кино там больше нет. Ol’ga Nikolaevna: (risa) Per me e Maksakov ormai non c’è più niente da fare. Ormai a Mosca il cinema non esiste più.
Виктор Иванович: Но,нет ….Почему же? Есть. Viktor Ivanovič: Ma, no… perché? Esiste.
Ольга Николаевна: И потом потому, что вы привязались со своей Москвой ? Моя мама… ослепла ,подшивая кружева, и всю жизнь мечтала уехать в Париж. И до сих пор мечтает. Дайте крутануть ! Ol’ga Nikolaevna: E poi perché mi seccate con la vostra Mosca? Mia madre… mamma… faceva dei merletti meravigliosi . Per tutta la vita ha sognato di trasferirsi a Parigi. È ancora lì che sogna . Lasciate guidare a me.
Виктор Иванович: Пожалуйста. Viktor Ivanovič: Prego.

Ольга Николаевна: Дайте, дайте, дайте, дайте, дайте! (смех) а то бы?! Ой,страшно! Сейчас куда-нибудь попадем .
Ol’ga Nikolaevna: Lasciatemi!
Lasciatemi! (risa) Come si fa?! Oh, ho paura ! Chissà dove finiremo!
Виктор Иванович: Теперь без меня. Viktor Ivanovič: Ora da sola !
Ольга Николаевна: Нет, не надо . (NUUUUUU) Ol’ga Nikolaevna: No, non posso! (NUUUUUU)
(мычанья) (versi)

Ольга Николаевна: Хотите, я скажу, кто вы? Ol’ga Nikolaevna: Volete che vi dica chi siete?
Виктор Иванович: Xочу! Viktor Ivanovič: Dite !
Ольга Николаевна: Хотите? Вы – большевик! Ol’ga Nikolaevna: Davvero ? Siete un bolscevico!
(смех) (risa)
Виктор Иванович: А вы знаете , что это ? (смех) Ну , расскажите. Viktor Ivanovič: Ma lo sapete cosa significa? (risa) Ditemelo .
Ольга Николаевна: Не скажу . Ol’ga Nikolaevna: No , non lo farò!

(смех) (risa)

CONCLUSIONE
Attraverso l’analisi comparativa prototesto-metatesto è stato possibile riscontrare la presenza di quasi tutti i tipi di cambiamenti proposti nella tabella. Per quanto riguarda la macroarea del senso della frase, i cambiamenti riscontrati in termini di frequenza sono rispettivamente rientrati nelle sigle MOD, M, OM, A, ad eccezione del cambiamento di tipo CS, che non è mai stato individuato nel corso del confronto.
Per quanto riguarda la macro area della forma della frase, i cambiamenti riscontrati sono rientrati principalmente nelle sigle U, C, R, S, E, ad eccezione del cambiamento di tipo P, che non è mai stato osservato. In particolar modo il cambiamento di tipo C è stato ricorrente e ha interessato l’alterazione della punteggiatura dal prototesto al metatesto per quasi tutta la lunghezza del dialogo ed in particolar modo nell’ultima parte del testo.
Nella macroarea dei rapporti tra culture i cambiamenti maggiormente verificati in termini di frequenza sono stati quelli di tipo D e INTRA. Tuttavia, non sono mai stati osservati i restanti cambiamenti DT e I.
Per quanto riguarda l’ultima macroarea sulla competenza dello scrittore, l’unico cambiamento rilevato è stato quello di tipo G-S, anche se solo molto saltuariamente nel testo.
La presenza dei diversi tipi di cambiamenti è stata ciclica e abbastanza armoniosa nel corso del testo. Non è stata rilevata la presenza eccessiva di un cambiamento particolare rispetto ad un altro.
Nel complesso è possibile osservare che i diversi passaggi traduttivi dal prototesto al metatesto sono stati resi in modo semplificato o generalizzato nel testo della cultura ricevente. Di conseguenza, è stata riscontrata la predilezione per una resa a tratti meccanica e poco naturale, che molto spesso è sembrata letterale e poco espressiva nella produzione orale.
Infine, il testo finale ha subìto un impoverimento generale sia per quanto riguarda le forme espressive in termini di incisività e intenzione comunicativa che per quanto riguarda il grado di importanza dei messaggi veicolati nel prodotto finale della cultura ricevente.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Berruto Gaetano. 2006 Corso elementare di linguistica generale, Torino, UTET.
Mihalkov. Nikita 1975 Schiava d’amore. Раба любви, Moskvà, Mosfilm.
Mihalkov. Nikita 1975 Raba lyubvi, testo dello script, disponibile in internet all’indirizzo hppt//vvord.ru/tekst-filma/Raba-lyubvi/
Osimo Bruno 2013 Valutrad: un modello per la qualità della traduzione ISBN 9788898467006. Milano, Bruno Osimo.
Osimo Bruno 2010 Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli.
Osimo Bruno 2004 Traduzione e qualità, Milano, Hoepli.
Riasanovsky Nicholas V. 2010 Storia della Russia, Milano, Bompiani.

«Adeguarsi o adeguare. Un racconto sulla traduzione» Opera recensita: Di seconda mano, di Laura Bocci, Rizzoli, 2004, p. 196, 15 euro. Pubblicato su Diario della settimana del 24 settembre 2004, p. 68.

Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani 2003

 

Questi saggi di traduttologia applicata non sono l’originale di Experiences in Translation, uscito in Canada due anni fa, anche se in parte ne ricalcano il contenuto. I quattordici capitoli, che si basano anche su altre conferenze di Oxford e di Bologna, sono caratterizzati dalla presenza di un grandissimo numero di esempi italiani che nell’edizione canadese, per evidenti motivi di traducibilità, erano perlopiù assenti o comunque diversi. Il volume canadese era perciò una traduzione senza un originale, mentre questo volume italiano è un originale che però con ogni probabilità non avrà una traduzione puntuale. Il che di per sé stesso dà già molto da pensare a cosa si può intendere per «traduzione», concetto che, da Jakobson in poi, diventa vieppiù nodale in semiotica, superando la concezione ristretta al solo passaggio testuale interlinguistico.

Negli anni Sessanta e Settanta, la disciplina si chiamava ancora «teoria della traduzione», e i traduttori non ne volevano sapere perché l’angusta impostazione lessicalistica non permetteva loro di trarne alcuno spunto pratico. Si ragionava, allora, in termini di “equivalenze”, senza tenere conto che le lingue naturali (a differenza di linguaggi artificiali come la matematica) nascono e si evolvono spontaneamente con la gente che parla e scrive, in modo diverso nei diversi contesti culturali. Se a questo si aggiunge che una componente importante del significato è soggettiva (come spiegano Peirce e Freud), andare alla ricerca di parole “equivalenti” diventa proprio impossibile. Era una teoria arida senza applicazioni, gli esempi scarseggiavano e, quando c’erano, erano “finti”, creati dal linguista a tavolino per mostrare qualcosa, non erano problemi reali incontrati da traduttori all’opera. Eco capovolge quella situazione claustrofobica, disponendo di un’enorme mole di esempi, tra i quali qua e là s’intrufola – senza parere – qualche notazione di semiotica della traduzione. Per questo motivo le ristampe già si susseguono e il volume trova moltissimi proseliti, in primo luogo fra i traduttori.

In alcuni casi, le esperienze riferite da Eco sono quelle dell’autore di testi narrativi interpellato dai propri traduttori nelle varie lingue; e, dato che i suoi romanzi sono stati diffusamente tradotti, questa da sola è una fonte pressoché inesauribile di casi concreti di problemi non già meramente lessicali, ma di traducibilità della cultura, delle implicazioni diverse della componente di non detto nella cultura emittente e in quella ricevente. Altri casi riguardano l’esperienza di Eco come traduttore – di Gérard de Nerval e di Queneau, per esempio –, e allora ci viene illustrato in che modo ha affrontato e risolto i problemi che gli si sono posti. In altri casi, infine, Eco è presente nel libro in veste di semiotico (non vedo perché dovremmo continuare a chiamarlo «semiologo», dal momento che si rifà assai più a Peirce che non a Saussure) che parla di traduzione nell’ottica della più generale teoria della significazione.

Ma quasi sempre Eco è tutte e tre le cose insieme. Del resto, fin dai tempi del Nome della rosa siamo abituati a incontrare, elegantemente celate nell’ordito narrativo, annotazioni di semiotica e filosofia del linguaggio, al punto che viene il sospetto che il vero e proprio topos del macrotesto echiano sia il gusto per la ricerca del rimando intertestuale, il piacere della congettura, la libido abduttiva.

Alcuni traduttori saranno forse annoiati dalla presenza di queste sparse annotazioni semiotiche con cui Eco tira le fila dei singoli esempi portati e li inquadra in categorie, indicando quale sarebbe l’approccio scientifico ai vari problemi. E, forse, simmetricamente, i ricercatori più rigidi potranno essere seccati dalla sicurezza con cui scelte traduttive sono indicate come giuste o sbagliate, dimentichi che nessuno meglio dell’autore empirico di un testo conosce l’intentio auctoris e l’intentio operis. È in fondo questa la migliore dimostrazione che si tratta di un libro interessante e ricco di spunti. Dovrebbero leggerlo anche alcuni editor di narrativa tradotta, il cui potere di scelta è inversamente proporzionale alla competenza: ma non sperateci.