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Federica Bartesaghi Traduzione dal marketese all’italiano Amplifon

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione Linguistica

Ottobre 2010

 

 

© GfK Eurisko, Post Test sulla comunicazione stampa Amplifon, 2009

© Federica Bartesaghi per l’edizione italiana 2010

 

Amplifon: un esperimento di traduzione dal marketese all’italiano

(Amplifon: a translation experiment from marketese

to italian)

 

Abstract in italiano

La traduzione è quel processo di mediazione che permette a persone provenienti da paesi diversi di comunicare tra loro, ma non solo, la traduzione è anche e soprattutto una costante nella vita di ogni uomo: è ciò che rende possibile stabilire un nesso fra sé stessi e il resto del mondo, o senza spingersi troppo lontano, tra sé stessi e chi ci circonda. Quotidianamente ci si imbatte in centinaia di diverse culture e altrettante convivono dentro a ogni singolo individuo. «Traduzione» significa incontro tra lingueculture e quindi «tradurre» significa rendere possibile l’interazione tra due, venti o duecento mondi diversi. Questo è quanto si è voluto mostrare attraverso la traduzione linguoculturale di una ricerca di mercato commissionata da Amplifon al centro di ricerca GfK Eurisko.

 

English abstract

Translation is the mediation process that enables comprehension between people coming from different countries; most importantly, translation is a constant in every person’s life. It makes it possible to establish a connection between ourselves and the rest of the world, or without going too far, between ourselves and the people around us. Every day, we run across hundreds of different cultures and just as many live together inside a single person. “Translation” means an encounter among languacultures, and therefore, “to translate” means to enable the interaction among two, twenty or two hundred different worlds. That is what we have tried to show through the languacultural translation of a market survey commissioned by Amplifon to the research centre GfK Eurisko.

 

Resumen en español

La traducción es el proceso de mediación que permite la comunicación entre personas originarias de diferentes países, pero no solo, la traducción es también y sobretodo una constante en la vida de todas las personas. Nos hace posible establecer una conexión con el resto del mundo, o sin ir más lejos, entre nosotros y quien nos rodea. Todos los días, nos topamos con centenares de diferentes culturas y otras tantas coexisten dentro de cada persona. «Traducción» significa encuentro entre lenguaculturas y por lo tanto «traducir» significa hacer posible la interacción entre dos, veinte o docientos mundos diferentes. Esto es lo que hemos querido mostrar a través de la traducción de la lengua-cultura de una investigación de mercado que Amplifon le comisionó al centro de investigación de mercados GfK Eurisko.

 

Sommario

 

1. Prefazione  3

1.1 I rich point  4

1.2 La traduzione della cultura  6

1.3 La ricerca di mercato come sottocultura  10

2. Analisi traduttiva  13

2.2 Analisi linguistico-culturale  14

2.3 Dominante e sottodominanti 16

2.4 Lettore modello   17

3. Traduzione  19

3.1 Residuo traduttivo   28

 

 

 

1. Prefazione

 

1.1 I rich point

Il punto di partenza della mia tesi può essere facilmente riassunto dalle parole di un illustre etnologo e studioso della lingua che ha affermato quanto segue: «Using a language involves all manner of background knowledge and local information in addition to grammar and vocabulary» (Agar 2006:2). Ciò mi aiuta a introdurre il concetto di «linguacultura», concetto che nei prossimi capitoli starà alla base di ogni mia considerazione.

In materia di traduzione, infatti, parlare di lingua non è sufficiente. Grammatica, lessico, punteggiatura, sono solo alcuni degli ostacoli che un traduttore si trova a dover affrontare al momento di tradurre da una lingua verso un’altra lingua. Consapevolmente o meno, migliaia di altri fattori interferiscono e creano ostacoli che possono forse essere catalogati come culturali. Dico «forse» perché, come spiegherò più avanti, il concetto di «cultura» è tutt’altro che semplice da definirsi. Per ora, utilizzerò il termine «cultura» con la sua accezione più comune, ossia ciò che definisce quell’insieme di abitudini, atteggiamenti, convenzioni che fanno sì che un gruppo di persone più o meno ristretto si identifichi come “diverso” dagli altri. Questa differenza tra culture è la distanza che si interpone fra le stesse ed è esattamente il vuoto che un traduttore si propone di colmare al fine ultimo di rendere ogni cultura più accessibile all’altra. Si tratta di quel genere di fraintendimenti che si possono presentare se un inglese e un giapponese cercano di comunicare tra loro, ognuno parlando la propria lingua; ma paradossalmente lo stesso genere di equivoci può facilmente riscontrarsi all’interno della stessa lingua, o meglio, è un fenomeno che si verifica in continuazione e che non è meno complicato da analizzare rispetto al primo.

Lo stesso Agar identifica questi momenti di incomprensione e di aspettative disattese con il termine di «rich point», in quanto è proprio grazie alla loro esistenza che avvertiamo una distanza, un punto di mancato incontro. Differenze che talvolta fanno sorgere un problema: cos’è meglio, una traduzione accettabile, in cui il vuoto è colmato senza che il traduttore lasci alcuna traccia di sé nel testo finito o una traduzione adeguata, dove si ritiene giusto conservare le peculiarità dell’originale, in quanto impossibile da tradurre in modo completo? Nel primo caso il rischio sarebbe quello di cancellare l’identità del testo originale, eliminando o modificando ogni sua caratteristica e privando quindi i riceventi del testo tradotto di nuovi elementi che potrebbero in qualche modo arricchirli a livello personale. Nel secondo caso il rischio è ben diverso, sarebbe infatti quello di fornire al lettore ultimo un testo eccessivamente complicato da capire, anche se indubbiamente più apprezzabile.

È una domanda e un problema al quale non è possibile fornire una risposta univoca, in quanto è plausibile che una risposta giusta ed universalmente valida nemmeno esista, ma solleverò invece una seconda questione, che è poi il fulcro della tesi stessa: come comportarsi quando non si tratta di tradurre interlinguisticamente da una linguacultura verso un’altra linguacultura, ma piuttosto all’interno della stessa lingua? Prendiamo di nuovo in considerazione quel gruppo di persone che si identificano in una stessa cultura e che di conseguenza avvertono una distanza nei confronti di altre culture; facciamo ora una seconda divisione, in quanto questo gruppo, questa cultura, altro non è in realtà se non la sottocultura (che nel nostro specifico caso si chiamerà «ricerca di mercato») di una maxicultura, (che si chiamerà «marketing»).

Siamo dunque giunti all’introduzione del mio esempio, reale e pratico, di come una sottocultura pur utilizzando (anche se così non sembra) una stessa lingua e pur essendo profondamente radicata all’interno di una società, possa risultare incomprensibile e distante anni luce a un gran numero di persone facenti parte della medesima società. Queste sono le premesse del mio elaborato, ma non posso passare alla dimostrazione pratica di quanto introdotto fin qui prima di aver chiarito il concetto, ormai rivelatosi fondamentale, di «linguacultura» e della più generale traduzione culturale.

1.2 La traduzione della cultura

La lingua è così profondamente radicata nella cultura e viceversa, che esse possono fondersi in un’unica parola: «linguacultura». Inizierò prendendo nuovamente spunto da una citazione: «Culture is construction, a translation between source and target […] the translation we build is the culture we describe» (Agar 2006:6). È necessario quindi capire perché le parole cultura e traduzione vengono associate quasi fossero sinonimi. La cultura, proprio come abbiamo detto per la traduzione, è relativa. Relativa a moltissimi fattori, ma individuabile in un solo modo: quando si incontra una differenza, ossia quel rich point di cui ho parlato in precedenza.

La linguacultura risulta pertanto visibile solo quando entra in contrasto con una seconda linguacultura, quando si produce ciò che è giustamente definito un «Culture shock». Quest’ultimo altro non è se non un letterale shock culturale, l’evento che ci fa rendere conto di non essere in grado di comprendere qualcosa perché a noi sconosciuto, insolito, estraneo (successivamente spiegherò quanto questo concetto calzi alla perfezione al mio caso specifico). Siamo giunti al punto in cui il gruppo, la nostra particolare cultura, incontra una cultura differente con la quale deve entrare in contatto ed è costretta a stabilire una comunicazione facendo uno sforzo traduttivo. In questo caso la traduzione è una costruzione artificiale ideata al fine di rendere possibile la comunicazione tra “loro” e “gli altri”. Riecco quindi la questione che avevo sollevato e alla quale non si era potuto dare una risposta, ossia fino a che punto sia giusto interferire nel testo originale per semplificare la comprensione di chi utilizzerà il testo finito. Approfitterò di una nuova citazione, che a parer mio è chiarissima ed esaustiva a riguardo: «[…] it needs to be elaborate enough to get the job done and no more than that» (Agar 2006:6).

Prima ho affermato che la cultura è relativa e questo è vero per il semplice motivo che non può esistere nessuna cultura in sé, può esistere solo una particolare percezione di codesta cultura per un’altra cultura. Lo stesso principio vale per la lingua: quando si parla una lingua la maggior parte dei problemi non riguardano la grammatica delle frasi, ma piuttosto il significato che queste frasi hanno per ogni individuo. Detto in parole semplici, la cultura è una presa di coscienza che inizia proprio lì dove avvertiamo un problema. Nulla può definirsi cultura prima di entrare in contrasto con qualcos’altro che metta in evidenza le incongruenze e di conseguenza non ha senso parlare di una cultura X senza definire cosa questa cultura X rappresenta per una cultura Y. È quindi logico supporre che sia riduttivo parlare di una cultura; bisognerebbe parlare sempre di più culture. Ne consegue che esistono altri due tratti distintivi del termine «cultura», ossia che oltre ad essere relativa essa è anche parziale e plurale.

Oggi ogni individuo è un po’ di tutto, un po’ di questa e un po’ di quella cultura, nessuno può essere più identificato con una cultura soltanto, come invece era più probabile anni fa, quando i nuclei cittadini erano chiusi e isolati ed entravano poco in contatto con il resto del mondo, quando le tradizioni, le usanze, le lingue erano tramandate di generazione in generazione quasi imperturbate. Basti immaginare la vita che potevano condurre un contadino, piuttosto che un fabbro: certamente il numero di culture con le quali queste persone venivano a contatto era molto limitato. Allora forse sì era possibile parlare di un numero ristretto di culture, ma oggi non più.

La facilità con la quale è possibile viaggiare fino all’altro capo del mondo o con la quale ci si mette in comunicazione con chiunque ovunque si trovi, creano i presupposti per un fruttuoso interscambio culturale tra i popoli. Una «contaminazione positiva» (Osimo 2002:7) tra le culture favorisce la crescita intellettuale degli individui ed arricchisce coloro che si pongono nei confronti del resto del mondo con una atteggiamento umile e curioso, mentre al contrario non è di alcuna utilità per coloro che si pongono nei confronti degli altri con un atteggiamento caratterizzato dal pregiudizio e dall’indifferenza. Ci si chiede se sia giusto continuare ad utilizzare indistintamente la parola «cultura» se il suo significato originale è venuto a mancare; e ci si chiede anche dove stia la linea di demarcazione tra ciò che è identificabile come culturale e ciò che non lo è. È infatti difficile, se non improbabile, tracciare questa immaginaria linea, relativa anch’essa a molti fattori.

Un terzo concetto attribuibile alla cultura è «densità». Con questo si intende il grado di rilevanza di una cultura, quanto essa è pervasiva nei confronti delle altre. Un altro ancora l’«atteggiamento», ossia come ci si comporta nel confronti di una data cultura, come ci si relaziona ad essa e quanta importanza le si attribuisce. Una quinta questione è il «livello di integrazione» e con questo si intende quanto i singoli individui siano riusciti a far confluire verso un traguardo comune le mille sfaccettature delle loro culture. Un’ultima caratteristica della cultura è la «volatilità», che equivale ai mutamenti più o meno importanti a cui la cultura viene sottoposta nel corso del tempo. Come abbiamo visto, tutti questi concetti aiutano a inquadrare le mille qualità che una cultura può presentare, ma a questo punto sorge spontaneo chiedersi che senso ha delineare così precisamente un termine il cui significato e la cui attualità vengono messi in seria discussione.

Ciononostante, è giusto dire che un buon uso che può essere fatto di questo termine è, come abbiamo già detto, usarlo per individuare una differenza, un rich point. Al contrario, un uso sbagliato del termine sarebbe utilizzarlo per indicare una mancanza, etichettare una differenza che percepiamo come una deficienza da parte degli altri. Come ho affermato all’inizio del paragrafo, dire «cultura» è un altro modo per dire «traduzione». Ma attenzione ancora una volta, quando diciamo «cultura» possiamo far riferimento a due cose ben distinte: una prima accezione della parola è quella già ampiamente analizzata e discussa; una seconda accezione, invece, è quella che sta a indicare tutto ciò che è “squisitamente umano”, ciò che da migliaia di anni rende gli uomini diversi dagli altri primati e dai suoi antenati preistorici.

In quest’ottica si può dire che le differenze tra gli uomini rappresentino anche le similitudini tra gli stessi e cioè quello che rende possibile la traduzione. Questa universale connessione tra gli individui è esattamente il secondo significato del termine «cultura». Le condizioni storiche che hanno portato a coniare questa parola e le condizioni storiche che, al contrario, hanno portato al suo declino sono molto diverse, c’è da chiedersi se il suo destino è l’estinzione o se sarà in grado di trovare un nuovo posto nel mondo.

1.3 La ricerca di mercato come sottocultura

Nel paragrafo precedente ho parlato di una maxicultura e di una sottocultura, è venuto ora il momento di spiegare meglio come queste due entità hanno a che fare con quanto appena detto. Voglio occuparmi di una particolare cultura che è ormai entrata a far parte integrante della nostra società e non solo, parlo di quel vastissimo settore che prende il nome di «marketing», ossia di tutto ciò che ha a che fare con il commercio, la consulenza, la compravendita, la finanza, ossia con la maggior parte degli ambiti lavorativi e, in maniera indiretta, anche con i rimanenti.

Nel nostro caso il «marketing» rappresenta la maxicultura, una vera e propria linguacultura sotto ogni aspetto. Restringerò ora il campo alla «ricerca di mercato», che costituisce una delle molte sottoculture o culture satellite rispetto alla maxicultura appena citata e che a essa ha guardato nel momento di organizzare il proprio “repertorio culturale”, ossia «l’aggregato di alternative utilizzate da un gruppo di persone e dai suoi singoli membri per l’organizzazione della vita» (Itamar Even-Zohar 2000:201).

In quanto totalmente estranea a questo settore e ignara delle sue dinamiche, ho avuto l’opportunità di “sbirciare” al suo interno grazie all’aiuto di persone che, per necessità professionale, hanno dovuto relazionarsi con questo sistema e hanno imparato a farlo proprio. In riferimento a quanto già spiegato, il modo in cui queste persone sono venute a contatto con questo nuovo mondo è stato passando attraverso un vero e  proprio Cultural shock. Come mi è stato raccontato, dopo un iniziale sconcerto, costoro hanno cominciato a familiarizzare con questa nuova dimensione e hanno iniziato ad esprimersi usando la lingua della cultura dominante (il marketese) e giorno dopo giorno ciò che inizialmente suonava bizzarro, quasi senza senso, ha acquisito nuova forma ed è diventato uno strumento fondamentale, se non indispensabile, per la vita lavorativa.

Metabolizzando lo shock iniziale hanno preso confidenza con la situazione, trasformandola in qualcosa di quotidiano, di naturale. Esattamente come avviene per una persona che si trasferisce in un nuovo Paese e che deve abituarsi a uno stile di vita completamente diverso. In seguito a un iniziale smarrimento, la routine e l’abitudine faranno sì che questa persona si ritrovi a pensare, parlare e vivere in quello stesso modo che prima gli era avulso quasi senza rendersene conto. A qualcuno forse un simile paragone potrà sembrare bizzarro, ma la dimostrazione pratica di queste mie considerazioni ne comproverà la veridicità. A volte infatti (e questo avviene anche con la traduzione), la vera difficoltà sta in ciò che appare scontato, ciò che a primo acchito non avremmo messo neanche in discussione.

 

 

 

2. Analisi traduttiva

 

2.1 Presentazione del materiale

Nel terzo capitolo, ossia nella parte pratica, mi occuperò della traduzione di una ricerca di mercato commissionata da Amplifon all’ente di ricerca GfK Eurisko, con sede a Milano. Si tratta della presentazione in Powerpoint dei risultati delle rilevazioni effettuate da un gruppo di ricercatori nel periodo tra l’ottobre e il novembre del 2009, il cui scopo finale era quello di testare la comunicazione stampa dell’azienda che commissionava il lavoro. Tale documento mi è stato gentilmente messo a disposizione dagli stessi addetti ai lavori, i quali mi hanno altresì fornito le informazioni necessarie per una più esaustiva interpretazione del gergo marketese all’interno della traduzione.

2.2 Analisi linguistico-culturale

Per svolgere un’analisi linguistico-culturale del testo che tradurrò è necessario fare una premessa, ossia che ogni mediazione linguistica ruota intorno a tre poli: la cultura emittente (dell’autore), la cultura mediante (del traduttore) e la cultura ricevente (del lettore). Nel mio caso specifico, che differisce dall’immaginario classico che si ha di una traduzione e cioè che essa sia interlinguistica, quindi tra due sistemi linguistici differenti, questa mediazione è effettuata all’interno della stessa area linguistica e alla presenza di due soli poli: la cultura emittente, che come ho già affermato è una sottocultura del più amplio settore del marketing e cioè la ricerca di mercato; e di una cultura comune per il traduttore e i riceventi del testo finito. Difatti, ho già anticipato che la mia preparazione linguistico-culturale antecedente alla traduzione del testo è quella di una persona in gran parte estranea a questa cultura, come lo sono anche i miei prototipi di lettori.

Partendo da questo presupposto, risulta logico e ragionevole che la problematica fondamentale che si riscontra durante una prima lettura del testo siano gli elementi culturospecifici, ovvero una terminologia estremamente settoriale che rende la comprensione ostica per chiunque non sia dotato di una minimo bagaglio di conoscenze specifiche.

Allo stesso modo, la comprensione è resa ulteriormente ardua da tutto ciò che è omesso dal testo stesso, vale a dire dall’implicito culturale. Perché se già risulta complicato capire ciò che il testo vuole comunicare al lettore a causa del gergo utilizzato, ciò che di alcuni argomenti viene dato per scontato perché ritenuto conoscenza già acquisita, risulta ancor più duro da comprendere. Ma se questi ostacoli che il testo presenta sono complessi da affrontare, esso presenta anche degli innegabili punti di forza per il traduttore: il testo originale ha come obiettivo principale quello di riportare i risultati della ricerca nel modo più oggettivo possibile; non vi è alcuna personalizzazione, non vi è ironia, non vi sono metafore, in pratica non vi si trova nessuno di quegli elementi che solitamente caratterizzano testi come articoli di giornale, piuttosto che saggi o testi letterari e che il più delle volte sono fonte di complicazioni e fraintendimenti per il traduttore. Questi elementi non sono presenti nel nostro testo proprio perché l’autore non ha alcun interesse a rendere la sua ricerca più intrigante facendo ricorso a simili tattiche comunicative che andrebbero a discapito di una comprensione immediata.

La strategia comunicativa del traduttore deve quindi mirare a riportare tale oggettività anche nel testo tradotto. Sarà quindi fondamentale ricordarsi di comunicare nel modo più chiaro e semplice possibile, spiegando bene non solo ogni singolo concetto, ma anche ciò che nel testo non è esplicitato. Come spiegherò più attentamente nei prossimi paragrafi, nulla deve essere dato per scontato per il nostro lettore modello.

2.3 Dominante e sottodominanti

Mi ricollego al paragrafo precedente per chiarire un altro aspetto fondamentale dell’analisi traduttiva, ovvero l’individuazione della dominante del testo e delle eventuali sottodominanti in esso presenti. La dominante di un testo è il senso primario che esso vuole trasmettere, il primo concetto che si desidera far giungere al ricevente quando quest’ultimo affronta la lettura di un testo e che, nel caso di una traduzione, deve rispecchiare esattamente ciò che l’autore voleva comunicare originariamente. In cima alla classifica degli aspetti più importanti che lo scrittore di questo testo voleva comunicare al lettore quando ha messo nero su bianco ciò che aveva scoperto, vi è indubbiamente l’intenzione di divulgare informazioni. D’altronde, scopo primario di questa e di tutte le ricerche di mercato è effettuare un’indagine al fine di dare una risposta alle richieste del committente. Questo è affermato in maniera chiarissima nelle prime pagine del documento:

«GfK Eurisko ha condotto una ricerca multi-disciplinare che si è posta i seguenti obiettivi: verificare l’impatto e il gradimento della pagina di stampa […] individuare le aree ad alto impatto visivo immediato […] evidenziare le aree in cui si concentra l’attenzione, verificare le parti di testo che vengono lette, comprendere quale sia la decodifica del messaggio proposto, valutare la capacità di call to action, valutare il riflesso della comunicazione sull’immagine del brand di Amplifon».

La sola sottodominante di rilievo che emerge dal testo è l’aspirazione a dare una forte impressione di professionalità e di internazionalizzazione al committente; ed è anche l’aspetto più complicato da riportare in una traduzione visto che è stato ottenuto principalmente facendo ricorso a termini in lingua straniera. Questo carattere secondario del testo talvolta risulta fin troppo marcato: il ricorrente impiego di termini importati o adattati dall’inglese mi induce a credere che la smania dell’autore di fare colpo sul suo cliente attraverso frasi eloquenti e una complessa terminologia offuschi quell’obiettivo finale che, come abbiamo detto, è comunicare informazioni nel modo più chiaro possibile.

2.4 Lettore modello

In questo caso specifico lettore modello dell’autore e lettore modello del traduttore sono molto diversi; ma generalmente queste due persone coincidono. Individuare questa figura prima di accingersi a tradurre è fondamentale quanto individuare la dominante del testo. Il lettore modello è quella persona che prima l’autore e poi il traduttore hanno in mente come plausibile ricevente del testo, tanto originale quanto tradotto. È il prototipo di persona per la quale si scrive, una persona immaginaria che forse nella realtà non sarà mai l’effettiva ricevente del testo, ma che in ogni caso è estremamente necessario avere ben chiara in mente.

Per ogni testo scritto esiste un lettore modello, per un libro di fiabe il lettore modello sarà un bambino che forse ha appena iniziato a leggere, per un film splatter il lettore modello sarà probabilmente un giovane ragazzo o un appassionato del genere, mentre per una ricerca di mercato il lettore modello sono il committente e il suo staff. Bisogna sempre sapere per che genere di persona si sta scrivendo: di dov’è originaria, qual è la sua età, che tipo di istruzione ha ricevuto, di che sesso è e in alcuni casi è utile persino possedere informazioni secondarie come qual è il suo stato civile, se ha dei figli e via dicendo. Sono tutte informazioni che permettono di elaborare una strategia traduttiva sensata e completa.

Nel caso specifico dell’autore di questa ricerca di mercato, sarebbe improbabile prefigurarsi un prototipo di lettore che non avesse nulla a che fare con il campo delle comunicazioni, della pubblicità o dell’impresa. Il prototipo di lettore dell’autore era indubbiamente una persona competente in questo campo, che avrebbe ricavato informazioni utili per la sua vita professionale leggendo questa ricerca (informazioni che oltretutto aveva pagato). Il lettore modello che mi prefiguro io al momento di tradurre questo testo per la mia tesi è invece molto distante: benché molto istruito, possiede poche e generiche informazioni riguardo al funzionamento di questo particolare settore e ha bisogno di essere agevolato nella comprensione da ampie spiegazioni che permettano di colmare il vuoto lasciato dall’implicito culturale che caratterizzava invece il primo lettore modello, il quale troverebbe tali agevolazioni alla lettura indubbiamente ridondanti.

 

3. Traduzione

 

 

 

 

 

 

Figura 1


La semiotica[1] è una metodologia di analisi desk[2] che può intervenire su[3] qualsiasi supporto[4] di comunicazione e marketing / brand communication mix[5] (concept; nome; logo; packaging; advertising; below-the-line[6]; retailing; web site; etc.)
L’analisi semiotica è un metodo[7] di ricerca di mercato preliminare che può essere applicato a qualsiasi strumento di comunicazione usato per lanciare un prodotto[8] (idea; nome; logo; confezione; pubblicità; pubblicità con media alternativi; distribuzione commerciale al dettaglio; sito internet; etc.)

 

Individua i codici e le modalità/proprietà comunicazionali pertinenti e distintive che definiscono l’identità (brand, product[9]) espressa/il concetto comunicato, il posizionamento[10] veicolato e i valori trasmessi dal supporto in test[11], identificandone il target profile[12] prefigurato. Individua le modalità per comunicare[13] nella maniera più pertinente e distintiva, che siano  in grado di esprimere l’identità scelta (marchio, prodotto), il concetto comunicato e i risultati ottenuti dalla pubblicità testata, identificando il profilo degli acquirenti potenziali.

 

Il Media Mix[14] di Amplifon tende a costruire un profilo comunicazionale[15] coerente e trasversale[16] di “testimonianza[17]”, concentrato sulla “performance risolutiva[18]” (e non sugli end benefit[19]) e sulla “call to action[20]” (alla prova[21]) per esemplificazione[22].Costruisce una determinazione dimostrativa assertiva[23] e storicizzante[24] (“prima”) del “problema” (psico-sociale primariamente) dell’ipoacusia[25]; nella stampa, in particolare, definisce un’idea di ‘comunicazione da leggere’ a carattere informativo (prevalente), “corporate[26]” e promozionale (in coda) mentre marginalizza l’impatto visivo. La strategia pubblicitaria di Amplifon mira a stabilire un piano comunicativo che sia coerente con se stesso e che si rivolga a tutti i potenziali clienti avvalendosi della testimonianza di chi ha fatto uso del prodotto (e non sui benefici che apporta) e vuole stimolare i possibili acquirenti a recarsi nei punti vendita per provare il prodotto.Descrive il problema della riduzione dell’udito (il disagio personale e le difficoltà a relazionarsi con gli altri) in maniera decisa e contestuale[27]; nel volantino la comunicazione può essere letta a più livelli: informativa sul prodotto, informativa sull’azienda e promozionale[28], mentre riduce l’impatto visivo.

 

Trasversalmente, il Media Mix di Amplifon sfrutta un insieme omogeneo di figure referenziali della “vita sociale” (gruppo di amici/famiglia, il setting d’arredo[29], il momento della cena, la living room[30]/sala da pranzo) per: caratterizzare i needs[31] (contemporanei) e le attese del target[32] (senior[33], 65-75 anni) in senso di piena/effettiva e appagante compartecipazione conviviale – socialità, comunitarietà, amicalità/familiarità, giovialità[34].Nella comunicazione stampa, tuttavia, il visual[35] risulta tendenzialmente incoerente e scarsamente performante[36]: qualifica l’ipoacusia attraverso la figura della bolla ma ne dona una determinazione solo debolmente invalidante ; il visual tende a ridurre gli aspetti “privativi” e a connotare un’idea di partecipazione (contenuta, ma reale) incoerente con le valenze espresse dall’ “intrappolamento” nella bolla. Complessivamente, la strategia pubblicitaria di Amplifon mette in scena un modello di vita sociale armoniosa (gli amici/la famiglia, l’ambientazione, il momento della cena, il soggiorno/la sala da pranzo) per rappresentare i bisogni contemporanei e le aspettative del “cliente modello[37]” (anziano, 65/75 anni) vale a dire un vero e appagante coinvolgimento nella vita sociale[38]

Tuttavia, l’immagine usata nel volantino funziona poco: la bolla fa capire che l’uomo non è in grado di sentire bene, ma non in maniera del tutto convincente; l’immagine, infatti, dà comunque un’idea di partecipazione, per quanto limitata, che è incoerente con l’impressione di intrappolamento che bolla vuole suggerire.

 

La caratterizzazione risulta molto più coerente e chiara nel commercial televisivo[39] (erigendo tale comunicazione a “primario riferimento[40]”) in quanto: la mimesi facciale del “protagonista” (opposta a quella degli “astanti”) esprime “straniamento” (vs. “condivisione), “apatia” (vs. enfasi), “contenutezza” (vs. divertimento); la disposizione della simulazione finzionale[41] alla partecipazione enfatizza la sensazione di disagio e il sentimento di repressione: “voler partecipare / vivere appieno la socialità” , “non poter seguire” (per non audizione) “dover far sembrare” di partecipare per evitare la stigmatizzazione sociale. La rappresentazione risulta molto più coerente e chiara nella pubblicità televisiva (il che la rende fondamentale), in quanto la mimesi facciale del protagonista esprime spaesamento, indifferenza e noia contrapponendosi a quella degli altri, i cui volti esprimono partecipazione, passione e divertimento. Il fatto che il protagonista finga di essere coinvolto evidenzia il suo disagio e la sua inibizione: vuole partecipare alla vita sociale, ma è incapace di farlo perché non riesce a sentire, e simula la comprensione per evitare l’esclusione sociale.

 

Nel complesso, il media Mix risulta piuttosto coerente in termini di identità espressiva, scelte figurative e tematiche, tono di voce e dinamica narrativa proposta, sebbene siano relativamente diverse le qualificazioni dell’ipoacusia: Più “severe” le condizioni ‘costrittive’ sul piano relazionale nell’adv televisivo[42].Molto meno invalidante l’ipoacusia proposta nella press adv[43](tendendo a marginalizzare l’ “utilità” di un intervento risolutore).Il media mix risulta tendenzialmente pertinente alla ‘call to action’ promozionale, valorizzando specificatamente la gratuità della prova e l’assistenzialità dei “protesisti[44]”: in modo più coerente l’adv televisivo che esprime con maggiore chiarezza e attinenza l’esemplificazione esortativa, valorizza compiutamente il Centro Amplifon e focalizza chiaramente sulla ‘temporalità[45]’ della “portabilità” dell’offerta; in modo meno appealing[46] e diretto (anche se più “istituzionalizzante[47]” e rassicurante) nell’adv stampa che investe più propriamente in una “attestazione” risolutiva (più che esortativa)[48], non avvalora la “temporalità” della portabilità e rende meno evidente il discorso “testimoniale”. Nel complesso, la strategia pubblicitaria è coerente con l’identità del prodotto, con le scelte figurative e tematiche, con il tono di voce e con la narrazione proposta, sebbene il disturbo all’udito acquisisca sfumature differenti: più “gravi” nello spot televisivo e più “lievi” nel volantino, dove la necessità di un intervento risolutore sembra minore.La strategia pubblicitaria risulta quindi atta a invogliare le persone a partecipare al mese della prevenzione, puntando sulla prova gratuita dell’udito e sull’assistenza ai clienti da parte dei protesisti: lo spot televisivo è più coerente, dato che sottolinea l’importanza di una prova pratica del prodotto, valorizza il Centro Amplifon e richiama l’attenzione sulla temporaneità[49] dell’offerta. Nel volantino ciò avviene in modo meno invitante e diretto (ma più serio[50] e rassicurante): valorizza maggiormente la risoluzione del problema, ma incentiva meno il cliente a recarsi nel Centro Amplifon e, al contempo, indebolisce sia l’aspetto temporale dell’offerta che l’importanza della testimonianza diretta.

 

 

3.1 Residuo traduttivo

Il residuo traduttivo di un testo è ciò che il traduttore si trova costretto a omettere o decide deliberatamente di escludere dal testo finale. Quando si affronta la traduzione di un testo è impossibile pensare di poter riprodurre tutto, bisogna effettuare scelte traduttive ricordando di tenere sempre in mente qual è la dominante del testo e per chi stiamo traducendo. Può trattarsi di qualsiasi aspetto del testo che risulterebbe incomprensibile al lettore modello e che nelle traduzioni interlinguistiche, il più delle volte, è rappresentato da elementi culturospecifici che per natura non possono avere la stessa valenza per il lettore modello dell’autore e per quello del traduttore. Naturalmente, vi si sommano elementi linguistici e sintattici propri di ogni sistema linguistico. Nel mio caso, ossia in una traduzione culturale, il mio ostacolo sono stati prevalentemente gli elementi culturospecifici di coloro che ormai conosciamo come «marketesi» e siccome il mio lettore modello è una persona totalmente estranea alla loro cultura, nella maggior parte dei casi non è stato possibile trovare dei corrispondenti nella cultura ricevente. Ho dovuto fare ricorso a un gran numero di note e di agevolazioni alla lettura per compensare la mancanza di traducenti. L’unico residuo che ho scelto di eliminare è stata la forte aggettivazione presente nel prototesto; questo perché benché fosse perfettamente possibile riportare questo aspetto nel metatesto, non sarebbe stato coerente con la decisione di eliminare tutte le parti del testo non indispensabili per la comprensione e quindi anche tutti quegli “orpelli lessicali” (lunghe serie di aggettivi e un uso esagerato di parentesi e virgolette) che avrebbero creato confusione nella mente del mio lettore modello.

Riferimenti bibliografici

Anderson, Myrdene (2000). «Ethnography as translation». In La traduzione. A cura di Susan Petrilli, Roma: Meltemi (181-187).

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[1] La semiotica all’interno delle ricerche di mercato è utile ad analizzare la comprensione e l’efficacia di una comunicazione pubblicitaria. Per cui un messaggio pubblicitario, un prototipo, una confezione (pack), uno slogan, un simbolo, un’immagine, un logo, ecc. vengono presentati e discussi con i partecipanti dei focus group (forma di ricerca qualitativa, in cui un gruppo di persone è interrogato riguardo all’atteggiamento personale nei confronti di un tema specifico. Le domande sono fatte all’interno di un gruppo interattivo, in cui i partecipanti sono liberi di comunicare con altri membri del gruppo. Il focus group è una tecnica particolarmente usata nella ricerca di mercato e nel marketing, come strumento utile per lo sviluppo di nuove idee e per l’acquisizione di feedback riguardo ai nuovi prodotti. In particolare, permette alle imprese e alle agenzie di discutere, osservare o esaminare il nuovo prodotto prima che esso sia messo a disposizione del pubblico al fine di cogliere i loro processi di significazione).

[2] L’analisi desk viene realizzata per circoscrivere un quadro di riferimento, vale a dire il contesto della ricerca. La sua utilità è duplice: da un lato rappresenta il background teorico e razionale del piano progettuale, dall’altro costituisce la base dei contenuti su cui elaborare gli strumenti di rilevazione per la fase di ricerca sul campo. Tale metodologia consiste nello studiare uno o più oggetti scomponendoli in elementi e attribuendogli dei significati. Scomporre l’oggetto della ricerca significa dotarsi di strumenti per un’analisi più precisa e puntuale, che agevoli l’individuazione degli aspetti maggiormente ricchi di significato i quali dovranno essere approfonditi in successive fasi di ricerca quantitativa e/o sul campo. Si noti che analisi desk è la versione italiana della locuzione inglese desk analysis e si tratta di una traduzione in cui i due termini sono stati invertiti, ma dove non è stata introdotta la preposizione e tradotta la seconda parola.

[3] La preposizione «su» viene usata in modo molto esteso in tutti i campi in cui è forte l’influenza della lingua inglese, probabilmente come traducente della preposizione «on» (reale o immaginaria che sia). Un esempio lampante di tale fenomeno sono le locuzioni «su internet»/«sul sito», che stanno prendendo piede in alternativa alle più italiane «in internet»/«nel sito». Pertanto, nella traduzione ho ritenuto opportuno sostituire il «su» con una preposizione italiana più grammaticalmente fondata.

[4] Calco sull’inglese support. Dato il contesto mi è sembrato più chiaro usare la parola «strumento», in alternativa avrei anche potuto usare la parola «mezzo».

[5] La Communication mix è un insieme di elementi che compongono il piano di comunicazione di un’idea di marketing e si raggruppano in 4 categorie: pubbliche relazioni, pubblicità, promozione delle vendite, attività persuasiva dei venditori.

[6] Below the line è una locuzione tecnica che si usa in pubblicità e indica tutte le attività di comunicazione che non sfruttano i media tradizionali. Tra queste troviamo le sponsorizzazioni, le relazioni pubbliche, le promozioni e il direct marketing (tecnica di marketing attraverso la quale aziende e enti comunicano direttamente con clienti e utenti finali). La locuzione ha origini giornalistiche e indica il complesso delle notizie nella metà inferiore, cioè sotto (below) la piega (line) della prima pagina di un quotidiano esposto assieme agli altri in edicola. L’espressione contraria è Above the line, che indica invece le attività veicolate attraverso i media classici, come televisione, radio, editoria, affissioni.

[7] In questo caso non si tratta di metodologia in senso stretto, ma di un metodo. C’è la tendenza  a usare la parola più astratta per quella più concreta o quella collettiva al posto di quella che denota un solo elemento, come nei casi di tipo/tipologia, problema/problematica ecc. A volte la stessa tendenza si riscontra anche nei verbi, nei quali di solito si preferisce la variante più lunga: usare/utilizzare/usufruire.

[8] Nella versione originale c’era una certa ridondanza prodotta dalla locuzione communication mix, che sostanzialmente significa ciò che già viene detto in altre parti della frase. Ho preferito semplificare la comprensione per il mio lettore modello.

[9] Non c’è un reale motivo terminologico per dire brand e non dire marchio. L’uso di termini inglesi conferisce alla ricerca una certa pomposità e un aspetto più cosmopolita.

[10] Il posizionamento di un prodotto è la decisione aziendale circa il target e il tipo di prodotto (con relative caratteristiche) in relazione al mercato e al suo collocamento. Ad esempio: se si tratta di un prodotto pensato per ragazze, molto probabilmente si sceglierà di farlo rosa, colorato, profumato o in versione da borsetta. Sono decisioni che vengono prese a tavolino prima di cominciare la produzione.

[11] In test significa testato, già provato.

[12] Il target profile è il modello di cliente a cui è rivolta una determinata campagna, pubblicità o prodotto; si tratta quindi di un prototipo di cliente. È la “versione marketing” del lettore modello di un autore.

[13] L’ostacolo alla comprensione è dovuto a un uso sbagliato della lingua. «Comunicazionale» è un aggettivo di seconda formazione rispetto a «comunicazione». La scelta di usare un aggettivo di seconda formazione richiama il discorso fatto in precedenza per usare/utilizzare: sono parole più pesanti e difficili da capire per una persona normale e vengono usate con lo scopo di “abbindolare” il lettore usando un lessico altisonante (ma inesatto).

[14] Il Media Mix è una strategia di marketing che decide quali strumenti o mezzi utilizzare per una campagna di pubblicizzazione. Il media mix (o media planning), serve a capire dove e come distribuire il budget tra vari mezzi e pianificare l’azione di comunicazione.

[15] Il profilo comunicazionale è l’identità della comunicazione stessa: giovane, vecchia, classica, moderna, diretta, indiretta ecc. Sono i tratti principali della comunicazione e vengono prestabiliti ad hoc per il prodotto che si vuole pubblicizzare.

[16] «Trasversale al target» significa per tutti, cioè che sia adatto per tutta la fascia di persone che rappresentano i potenziali clienti.

[17] Per «comunicazione di testimonianza» si intende la testimonianza fisica di una persona che realmente soffre di quel disturbo, una persona che sia vicina ai clienti e che gli assomigli: per testimoniare sull’utilità e sui benefici che l’utilizzo di un apparecchio acustico apporta allo stile di vita quotidiano di una persona comune, non ci sarà un giovane attore o modello a fare da testimonial, ma piuttosto un signore di mezz’età che come migliaia di altre persone deve convivere con un problema all’udito.

[18] «Performance risolutiva» significa letteralmente «risoluzione del problema». Non si tratta di un palliativo o di un aiuto, ma di qualcosa che è in grado di eliminare il problema completamente. La pubblicità deve mostrare ai possibili compratori la performance del prodotto, quindi come funziona e i vantaggi che apporta.

[19] L’end benefit è il risultato finale: il beneficio ottenuto in seguito all’uso del prodotto.

[20] Call to action è la locuzione inglese usata per indicare la «chiamata all’azione». Si riferisce allo stimolo che la pubblicità deve dare al cliente: deve far in modo che chi è interessato al prodotto non si limiti a pensare che sarebbe utile comprarlo, ma esca realmente di casa e si rechi nel negozio per provarlo.

[21] È importante, se non fondamentale, che la gente lo vada a provare. Tutti infatti già sanno a cosa serve il prodotto, già lo conoscono in linea teorica. Il punto cruciale è che quando poi lo provano non vogliano più farne a meno ed è esattamente questo lo spirito della pubblicità: fare in modo che alle persone venga voglia di provarlo.

[22] «Esemplificare» significa spiegare o dimostrare qualcosa attraverso degli esempi. In questo caso si intende mostrare le qualità del prodotto e il suo funzionamento tramite la prova pratica dello stesso.

[23] Letteralmente, l’assertività è una caratteristica del comportamento umano che consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e opinioni.

[24] «Storicizzare» significa concepire o interpretare qualcosa come un processo storico in divenire (per esempio storicizzare la realtà). In questo caso intende dire che la pubblicità racconta una storia: un uomo ha un problema all’udito, è insieme alla sua famiglia, gli altri si divertono, ma lui non è in riesce a partecipare. Poi si reca in un Centro Amplifon, prova l’apparecchio acustico ed è felice, perché finalmente la sua percezione della realtà cambia (esce dalla bolla).

[25] Per ipoacusia si intende una riduzione, più o meno grave, dell’udito.

[26]Nell’ambito della comunicazione, il termine inglese corporate indica tutto ciò che è relativo all’azienda. La comunicazione corporate ha come scopo quello di pubblicizzare l’immagine e la conoscenza dell’azienda stessa: è Amplifon che dice qualcosa di sé.

[27] Ho scelto di capovolgere la frase e di mettere il soggetto all’inizio e gli aggettivi ad esso riferiti in seguito, dato che la costruzione originaria era più inglese che italiana. In questo modo la lettura risulta meno faticosa e più normale.

[28] In questo caso per «promozionale»si intende dire che la pubblicità è informativa rispetto al mese della prevenzione: offre ai clienti la possibilità di recarsi nei punti vendita ed effettuare gratuitamente la prova dell’udito. In definitiva nella pubblicità si promuovono l’apparecchio, il marchio e il servizio di controllo dell’udito gratuito.

[29] Hanno scelto di usare la locuzione inglese piuttosto che quella italiana perché l’espressione è omnicomprensiva: non si riferisce unicamente all’arredamento, ma anche a tutto ciò che abbellisce e adorna lo spazio abitato. Usare la parola «arredamento» al posto di setting d’arredo sarebbe limitante, ma la parola «ambientazione» è in grado di riprodurre la stessa idea.

[30] Anche in questo caso scelgono di usare l’inglese piuttosto che l’italiano, quando invece esiste un traducente esatto per living room, ovvero «salotto» o «soggiorno».

[31] Parola chiave in questa e in tutte le ricerche di mercato. L’obiettivo principale delle aziende è infatti quello di soddisfare le esigenze dei clienti e per fare ciò è fondamentale essere capaci di individuarne i bisogni (i needs).

[32]Il target rappresenta i soggetti che, sulla base delle caratteristiche delle loro richieste, vengono individuati come ideali destinatari di una specifica azione di marketing o di una particolare comunicazione pubblicitaria. Questo termine inglese che letteralmente significa «bersaglio» viene usato in molti settori oltre che nel marketing pubblicitario: in gergo economico, ad esempio, indica il risultato di una precisa strategia; mentre all’interno di un’azienda è il risultato pratico posto come obiettivo per un progetto.

[33] In questo caso definisce un’età precisa ma non sempre è così. Solitamente, indica una fascia di età che a seconda dei casi noi definiremmo in molti modi diversi: adulta, mezz’età,anziana.. e che nel gergo del marketing è spesso contrapposta a un’altra fascia, quella dei  junior.

[34] La grande ripetizione che viene fatta in tutto il testo di parole che terminano in –ità (come ad esempio socialità, comunitarietà e successivamente temporalità, gratuità e assistenzialità) è un’altra prova dello stile raffinato che l’autore cerca di conferire al testo usando la forma più astratta di una parola, ma lo fa maldestramente e a discapito del senso della frase.

[35] Il visual corrisponde all’immagine principale sia di una confezione che di una campagna pubblicitaria. In questo caso si riferisce all’immagine dell’uomo intrappolato nella bolla visibile nella figura 1, che è seduto a tavola con la sua famiglia e con gli amici, ma che fatica a sentire ciò di cui stanno parlando.

[36] La figura 1 mostra l’immagine della bolla, la quale da una parte dà l’idea di un totale straniamento rispetto al mondo esterno, ma dall’altra non esclude del tutto l’ipoacustico dalla vita sociale: lui ne fa ancora parzialmente parte. Per «scarsamente performante» si intende che l’immagine non funziona bene perché non trasmette esattamente il significato che si desiderava comunicare.

[37] Per «cliente modello» non intendo dire «cliente perfetto»; mi rifaccio alla definizione di target profile data in precedenza, ovvero un prototipo di acquirente ideale.

[38] Mettono in campo una vasta gamma di emozioni e situazioni per rendere meglio l’idea, ma non aggiungono significato alla frase e non sono necessarie per capirne il senso, quindi ho preferito riassumere l’idea generale e parlare di «vita sociale».

[39] Il commercial televisivo è la pubblicità che viene mandata in onda in televisione(on air).

[40] Il commercial televisivo è diventato il mezzo di comunicazione primario per questo prodotto (ovvero il «primario riferimento») perché è quello che funziona di più: rispetto agli altri riesce a comunicare al meglio l’identità del prodotto. La mimesi facciale del protagonista nel video rivela appieno il suo senso di disagio e di smarrimento mentre gli altri si stanno divertendo, impressione che è meno immediata nella pubblicità stampata, cioè nel volantino (figura 1).

[41] Nella figura 1 è evidente che il protagonista finge di essere in grado di seguire la conversazione e sorride a chi siede al tavolo con lui. Simula per non dare a vedere che in realtà non riesce a sentire bene perché vuole evitare il disagio che tale situazione crea e per la paura di essere trattato diversamente dagli altri.

[42] AdvAdvertising e Adware sono tre termini con cui si indica la pubblicità. L’adv televisivo indica gli annunci pubblicitari mandati in onda in televisione.

[43] È l’abbreviazione della locuzione inglese Newspaper advertising e si riferisce alla pubblicità che viene stampata sui giornali o sul volantini, quindi una forma scritta di pubblicità.

[44] I protesisti di Amplifon sono coloro che si occupano della creazione e dell’adattamento delle protesi acustiche.

[45] L’uso della parola «temporalità» è scorretto perché fuori contesto. Infatti sotto questa voce nel dizionario si legge: «natura di ciò che è temporale, effimero; proprio del tempo, della storia (si contrappone a spiritualità)condannare la t. della Chiesa».

[46] Appeal è un termine inglese che può avere molti significati e per questo viene usato in svariati modi; ma i più ricorrenti sono: «attrazione, richiamo, interesse, fascino».

[47] Come ho già accennato, l’uso dell’aggettivo «istituzionalizzante» sembra fuori luogo. Ciò che è «istituzionalizzante» è ciò che «istituzionalizza» e sotto questa voce nel dizionario si legge:  «Acquisizione, all’interno della società, di una forma stabile, pienamente accettata e perlopiù oggetto di ordinamento giuridico (sancire qualcosa dandogli carattere giuridico)».

[48] «Investire di più in un’attestazione risolutiva invece che esortativa» significa dare maggiormente rilievo e importanza alla dimostrazione di come si può risolvere il problema (quindi mostrare il disagio che si prova prima di usare Amplifon e il benessere che si può ritrovare dopo averlo provato) piuttosto che esortare le persone a recarsi nel punto vendita.

[49] Forse ciò che in gergo marketese si intende dire con «temporalità» corrisponde all’italiano «temporaneità», che indica ciò che e temporaneo, quindi che ha durata breve e limitata.

[50] Con l’uso dell’aggettivo «istituzionalizzante», che non pare pertinente all’interno della frase, si cerca di dare lustro e serietà all’azienda. È come se Amplifon volesse dire ai suoi clienti che lo scopo dell’azienda non è solo quello di ricavare dei guadagni, ma anche quello di assistere al meglio i suoi clienti, in modo sicuro e professionale. Per questo motivo ho scelto di usare la parola «serietà».

GAIA COZZI Dinda L. Gorlée Equivalence, translation, and the role of the translator (Equivalenza, traduzione e il ruolo del traduttore)

GAIA COZZI

Dinda L. Gorlée

Equivalence, translation, and the role of the translator

(Equivalenza, traduzione e il ruolo del traduttore)

Mémoire de traduction littéraire

inglese/italiano

Relatore Prof. Bruno Osimo Correlatrice Prof.ssa Cynthia Bull

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione

Dipartimento di lingue
Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori

Université March Bloch – Strasbourg Insitut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

a.a. 2003-2004 (sessione di settembre)

          ______________________________________________________

© 1994 Dinda L. Gorlée
© 2004 Gaia Cozzi (traduzione parziale)

Indice

Abstract……………………………………………………………………………………………………………p. 5 Prefazione………………………………………………………………………………………………………..p. 6

1. 2.

Fonte e autrice del testo……………………………………………………………………………p. 6 Analisi traduttologica………………………………………………………………………………..p. 7

  1. 2.1  Tipologia testuale e contenuto……………………………………………………………….p. 7
  2. 2.2  Struttura, stile e destinatario…………………………………………………………………..p. 9
  3. 2.3  Documentazione e ricerca……………………………………………………………………….p. 10
  4. 2.4  Problemi e scelte specifiche di traduzione…………………………………………..p. 10
  5. 2.5  Residuo traduttivo e note…………………………………………………………………………p. 11

Ringraziamenti……………………………………………………………………………………………p. 12

3.

Traduzione con testo a fronte……………………………………………………………………p. 13 Bibliografia……………………………………………………………………………………………….p. 90 Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………..p. 93

3

Abstract

Equivalence, translation, and the role of the translator is an article from the volume Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Amsterdam/Atlanta, 1994). Its author, Dinda L. Gorlée, is multilingual and translator English, Spanish and Norwegian; she is also visiting Professor of Semiotics and Translation Studies at the Department of Translation Studies of the University of Helsinki and researcher in the field of Semiotics and Translation Studies. In her text, largely argumentative, Gorlée aims to show the relevance of Peirce’s philosophy of signs by taking up, as illustrative examples, the following issues: (1) equivalence between source text and target text, (2) the translation process and its phases and (3) the role of the translator in the translation process. The text presents the typical structure of essays, that is, introduction, argument, conclusion, and a considerable metatext: notes and references are to be found in every page. The style is coherent; as for syntax, Gorlée generally uses short sentences and simple constructions, with few coordinate sentences; as for lexicon, she uses a jargon and a number of Latinisms. The model reader of the original text is in all likelihood a Semiotics and/or Translation Studies scholar or lover: the issue itself is rather specific and the approach is very professional. The texts consulted for my work were, apart from monolingual and bilingual dictionaries, mainly old translations (mine) of Gorlée’s essays, where I was able to find a good number of terms. This strategy was successful as it allowed me to work quickly and easily, as did the use of searching engines, thanks to which I was able to find the information I needed and to check the use of words in real time. However, in my work some translation loss remained: an untranslatable pun based on the ambiguity of the word “mind” and a play on words based on the change of consonants. In the first case I made a note explaining that it was not possible to render the pun, assuming that the model reader should know English; in the second case I translated the sentence plainly, proven that the play on words was not indispensable to the understanding of the sentence. To avoid further translation loss I decided to add some notes, i.e. to specify that a sentence was written in Italian also in the original text. Other notes were added to translate quotations that Gorlée had left in German, giving for granted that the reader knew it.

4

5

Prefazione 1. Fonte e autrice del testo

Equivalence, translation, and the role of the translator è un articolo tratto dal volume Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Amsterdam/Atlanta, 1994).
L’autrice è Dinda L. Gorlée, Professore Ospite di Semiotica e Scienza della

Traduzione al dipartimento di Scienze della Traduzione dell’Università di Helsinki e ricercatrice tra l’altro nel campo della semiotica in relazione alla teoria della traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica. Gorlée ha fondato la Norwegian Association for Semiotic Studies ed è stata il primo presidente della Nordic Association for Semiotic Studies. È inoltre membro del comitato esecutivo all’interno della IASS (International Association for Semiotic Studies) in rappresentanza dei Paesi Bassi. Ha collaborato in qualità di ricercatrice con numerose università tra cui l’Indiana University, l’università di Amsterdam, di Vienna e di Ouagadougou (Burkina Faso) e ha pubblicato un consistente numero di saggi di semiotica e teoria della traduzione. Si interessa inoltre di traduzione biblica, di traduzione legale (di cui dirige un’agenzia a L’Aia) e in modo particolare dell’intersemiosi lingua- musica.

Le sue pubblicazioni più recenti sono Grieg’s Swan Songs (in Semiotica 142- 1/4:153-210), 2002) e On Translating Signs: Exploring Text and Semio-

6

Translation (Rodopi, Amsterdam/New York, 2004); è in preparazione il volume Song and Significance: Interlingual and Intersemiotic Vocal Translation.
Semiotics and the Problem of Translation costituisce probabilmente la sua opera più importante.

2. Analisi traduttologica

2.1 Tipologia testuale e contenuto

L’articolo che ho tradotto è un testo prevalentemente argomentativo, in cui l’autrice si ripropone di dimostrare l’attinenza della filosofia dei segni di Peirce all’interno della teoria della traduzione, tesi che Dinda Gorlée dimostra sviluppando tre argomenti principali: l’equivalenza tra prototesto e metatesto, il processo traduttivo e le sue fasi e il ruolo del traduttore all’interno del processo traduttivo.

Nel primo punto viene innanzitutto chiarito il significato del termine «equivalenza», in quanto diversi studiosi lo usano in sensi diversi. La critica della traduzione tende poi a proporre una varietà incredibile di equivalenze e a fare ampio uso di termini correlati (uguaglianza, analogia, isomorfismo…), creando una certa confusione terminologica e concettuale. Gorlée fa inoltre notare che, se in genere prototesto e metatesto vengono idealmente messi in una corrispondenza di uno-a-uno, dal punto di vista semiotico il concetto di

intercambiabilità di prototesto e metatesto risulta paradossale: poiché il 7

processo traduttivo è un atto irreversibile, non potrà mai verificarsi una ri- traduzione. Come ha dimostrato Peirce, equivalenza non è sinonimo di corrispondenza “uno-a-uno” bensì “uno-a-molti”. Il suo concetto di equivalenza è dunque governato dalla Terzità e non dalla Primità (iconicità). La studiosa illustra quindi i concetti di «equivalenza qualitativa» tra un segno e il suo interpretante (equivalenza riferita ai segni in sé) e di «equivalenza referenziale» (equivalenza dei segni prodotti dalla Secondità) e introduce le dimensioni logiche di «ampiezza, profondità e informazione», a cui Peirce si è dedicato quand’era lettore all’università, per spiegare da un altro punto di vista la connessione tra rappresentazione dei segni e interpretazione dei segni. Riprende poi con il concetto di «equivalenza significazionale» (equivalenza dei segni prodotti dalla Terzità).

Nel secondo punto Dinda Gorlée prende in esame il processo traduttivo, un altro argomento problematico della teoria della traduzione sul quale, secondo lei, è possibile far chiarezza inserendolo nella cornice della teoria peirciana dei segni. A questo scopo introduce alcune delle teorie di diversi studiosi in merito alle fasi della traduzione per esaminarle alla luce del processo interpretativo di Peirce, da lui sistematicamente descritto come un processo di ragionamento triplice consistente nella produzione di tre successivi interpretanti. Le teorie esaminate sono: le Arbeitsstufen di Koller (Rohübersetzung, Arbeitsübersetzung, druckreife Übersetzung), interessanti ma definibili solo in relazione l’una con l’altra, le quattro fasi di Toury

8

(scomposizione, selezione, trasferimento, ricomposizione), non sempre applicabili e il «quadruplice movimento ermeneutico» proposto da Steiner in After Babel, che assomiglia molto alla semiosi: tre fasi più una “illusoria”: fiducia iniziale, confronto, incorporazione, (compensazione), reminescenti della successione peirciana di tre momenti interpretativi (interpretanti immediati/emozionali, interpretanti dinamici/energetici, interpretanti filiali/logici, questi ultimi suddivisi a sua volta in un interpretante logico “non definitivo” e in uno definitivo. Nel paragrafo successivo vengono spiegati i tre interpretanti di Peirce. Il primo è emergente nel momento in cui ci si trova di fronte a «situazioni problematiche di natura intellettuale» e per risolverle viene formulata una congettura o ipotesi. È la fase più istintiva e produce un flusso di idee. Il secondo, in cui le ipotesi di lavoro vengono testate e verificate mediante un giudizio fondato, e produce “una” traduzione che fornisce “una” soluzione al problema. Con il tempo e il duro lavoro, una mente allenata produrrà un terzo interpretante come soluzione quasi perfetta mediante la quale la semiosi potrebbe giungere a un punto morto. Essendo comunque un pensiero-segno, il terzo interpretante dovrà mantenere la propria efficacia comunicativa nel tempo, per cui bisognerebbe far compiere al processo semiosico un ulteriore passo, in cui il segno verrrebbe chiamato ad «adempiere all’esplosivo compito di generare la sola, infallibile abitudine con cui la semiosi giungerebbe definitivamente a termine».

L’ultimo punto discusso è quello del ruolo del traduttore nel processo 9

traduttivo, figura attorno alla quale sono sempre stati creati falsi miti, in positivo e in negativo. Il traduttore è per Peirce un medium passivo nell’attività traduttiva, poiché è il pensiero che pensa nell’uomo e non viceversa, ed egli è portato “suo malgrado” da un pensiero all’altro. Un traduttore nello spirito intellettuale di Peirce non è tanto un individuo esperto che conosce ogni risposta, quanto «uno studente dedito a ciò che si manifesta nella semiosi a cui partecipa»: è intrigato o disorientato dal segno che ha di fronte, o ne è persino innamorato… Ecco, il traduttore peirciano può essere definito come una persona che compie disinteressatamente un lavoro d’amore. Infine, nella conclusione, l’autrice propone come nuovo adagio «traduttore- abduttore» al posto del «traduttore-traditore» citato nell’introduzione: secondo lei rifletterebbe meglio ciò che in una filosofia peirciana dei segni dovrebbe essere la principale preoccupazione del traduttore, che dovrebbe staccarsi dal proprio ruolo “tradizionale” e impegnarsi nel «paradosso creativo del tradimento per aumento, […] riduzione o distorsione», altrimenti produrrebbe solo repliche morte dell’originale, e soffocherebbe la semiosi. Deve partire dai fatti ma senza, all’inizio, seguire una teoria, bensì lasciandosi guidare da una “ragione” istintiva.

2.2 Struttura, stile e destinatario

Il testo che ho tradotto è un saggio ospitato in un volume che raccoglie articoli di semiotica e teoria della traduzione. Presenta quindi la struttura tipica dei 10

saggi: introduzione, argomentazione e conclusione. L’argomentazione si articola a sua volta in dieci paragrafi: Introductory remarks, Equivalence, Qualitative equivalence, Referential equivalence, Breadth, depth, information, Significational equivalence, Translation process, First, second, and third logical interpretants, The role of the translator, Concluding remarks. Presenta inoltre un corposo apparato paratestuale: note e rimandi sono presenti praticamente in ogni pagina.

Lo stile è lineare. Per quanto riguarda la sintassi, Gorlée usa periodi generalmente brevi, poiché spezzati mediante la punteggiatura, e di costruzione semplice, con poche coordinate. Ciò rende il testo abbastanza scorrevole, un pregio per un testo di tipo argomentativo. A livello lessicale, il testo presenta una certa terminologia settoriale e un buon numero di latinismi. Il lettore modello del testo originale è con tutta probabilità un appassionato o uno studioso di semiotica e/o scienza della traduzione. Quest’ipotesi ci è confermata prima di tutto dall’argomento, non certo da manuale di divulgazione, e poi dal taglio piuttosto professionale: il testo, oltre a usare come già detto una terminologia settoriale, offre numerosi rimandi a testi e saggi della stessa disciplina. Ciò dimostra che l’autrice aveva in mente destinatari con una discreta se non buona conoscenza della materia.

2.3 Documentazione e ricerca

Per far fronte a dubbi e difficoltà sono ricorsa essenzialmente a dizionari 11

(monolingui e bilingui), a testi paralleli e a internet. Come testi paralleli ho consultato per lo più mie traduzioni precedenti di testi della stessa autrice, in cui ho potuto ritrovare buona parte della terminologia. Tale strategia si è rivelata particolarmente utile e rapida, così come la consultazione di motori di ricerca, che mi ha permesso di trovare in tempo reale informazioni riguardo agli studiosi citati e alle loro teorie, di consultare un buon numero di dizionari on line e di verificare l’uso di alcuni termini; attraverso il Servizio Bibliotecario Internazionale ho potuto poi controllare quali testi erano stati tradotti in italiano. Preziosi sono stati inoltre i chiarimenti del mio relatore e della mia correlatrice.

2.4 Problemi e scelte specifiche di traduzione

Ho avuto qualche difficoltà nella traduzione della frase «To ignore its need to grow would be an antiquarianism» (pag. 60), termine quest’ultimo che i dizionari consultati (Merriam-Webster, Oxford Dictionary and Thesaurus, Enciclopaedia Britannica, Picchi) non riportavano. Inizialmente avevo pensato come possibile traduzione «[…] equivarrebbe a fare dell’antiquariato», ma mi sono poi resa conto che «antiquariato» avrebbe fatto pensare più che altro al commercio di oggetti antichi, insomma era troppo connotato. Dovevo trovare una parola più generica, più astratta, che si avvicinasse di più al concetto che voleva esprimere l’autrice, ossia la mania di conservare cose (in questo caso segni-parole) antiche, antiquate. La mia correlatrice mi aveva proposto 12

«arcaismo», ma poi abbiamo convenuto che allora anche l’autrice avrebbe potuto benissimo servirsi del termine «archaism»: evidentemente voleva un termine più particolare, più “a effetto”. Anche «arcaismo», inoltre, mi sembrava troppo connotato. Forse per assonanza, mi è venuto in un secondo tempo in mente il termine «antichismo», anch’esso usato molto raramente nella lingua italiana e quindi rispecchiante la scelta di Gorlée e soluzione migliore della precedente anche perché manteneva il suffisso «-ismo», a marcarne l’accezione ideologico-astratta. Ho provato a inserirlo in Google, trovando, tra l’altro, una pagina che lo usava nel seguente modo: «Questo richiamo ai costumi degli antichi non è dettato da alcuna forma di “antichismo”». Mi è sembrato che usato così si avvicinasse molto alla connotazione data a «an antiquarianism» da Gorlée, per cui l’ho ripreso nella mia traduzione: «Ignorare il suo bisogno di crescita sarebbe una forma di antichismo».

Per il resto non ho avuto particolari problemi, avendo già tradotto testi di questa teorica.

2.4 Residuo traduttivo e note

Nel testo tradotto sono rimasti due residui traduttivi. Uno è a pag. 63, nella traduzione della frase «[the translator] has been invested, and indeed infested, with such images as the copyist, the acolyte […]». Qui l’autrice attua infatti un 13

gioco di parole basato sul cambio di consonante (inVested – inFested) che in italiano non è stato possibile rendere. Mi sono limitata pertanto a tradurre la frase così com’era, dato che, per quanto simpatico, il gioco di parole non era indispensabile per la comprensione del testo, a differenza di quanto accadeva a pag. 47 nella citazione di Peirce: «[…] and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind […]». Anche qui troviamo un gioco di parole, questa volta però intraducibile in quanto in italiano non esiste un termine che abbia contemporaneamente tutti i significati che ha il termine inglese «mind». Alla luce di ciò, l’unica “soluzione” è stata quella di lasciare la citazione originale e aggiungere una nota spiegando questa scelta. Altre note che ho ritenuto necessario aggiungere: a pag. 17, la traduzione dei termini in tedesco, lingua che magari non tutti i lettori potrebbero conoscere e che invece Gorlée dà più volte per scontata (forse in quanto plurilingue?), si vedano anche pag. 49 e 51; a pag. 79 ho specificato che l’adagio «traduttore traditore» e la nuova versione di Gorlée «traduttore abduttore» erano in italiano anche nel testo originale. Ho reso inoltre esplicita l’etimologia del termine «traditore» (trado=consegnare, affidare, tramandare), menzionato dall’autrice nella frase: «Forse traditore può essere qui preso positivamente, nel suo senso etimologico – che renderebbe il traduttore un trasmettitore neutrale del messaggio». Non è infatti detto, a mio avviso, che tutti i lettori la ricordino o la intuiscano immediatamente.

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3. Ringraziamenti

Vorrei ringraziare in particolare il professor Bruno Osimo e la professoressa Cynthia Bull per la gentile collaborazione e la disponibilità. Un grazie sentito anche a tutti coloro che mi hanno incoraggiata durante la stesura della Tesi.

Dinda L. Gorlée

EQUIVALENCE, TRANSLATION, AND THE ROLE OF THE TRANSLATOR

“If we were to translate into English the traditional formula Traduttore traditore as ‘the translator is a betrayer’, we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? Betrayer of what values?”

Introductory remarks

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(Jakobson 1959:238)

Certain translation-theoretical key issues have loomed large in the preceding chapters, and deserve to be addressed at this point. Despite the longstanding discussions among translation theoreticians about precisely these issues, no agreement seems to be in view at this time. Yet it may be said without undue drama that proper and continued discussion of these controversial topics, from a variety of methodological angles, is critical to the harmonious evolution of the interdisciplinary (or better transdisciptinary) field of translation theory. If it can be shown – as I propose to do in these pages – that Peirce’s philosophy of signs throws new light upon these problems, my contribution here will be instrumental, albeit in a modest way, in bringing the discussion closer to a consensus, a “settlement of opinion” in Peirce’s spirit.

Let me therefore next take up, as illustrative examples of the relevance of a Peircean semiotics to translation theory, the following issues: (1) equivalence between source text and target text, (2) the translation process and its phases and (3) the role of the translator in the translation process.

Equivalence

By equivalence will be meant here the stipulation, recurrent in any text in the theory of translation, that there be between source text and target text identity1 across codes. Firstly, different translation scholars use the notion of equivalence in different senses, Koller (1992:214-215) mentions, among others, Nida’s “closest natural equivalent”, Wilss’s “möglichst äquivalenter zielsprachlicher text” and Jäger’s term, “kommunikativ äquivalent”. The picture is further blurred by the manifold qualifications given the term, which is often used not in a merely descriptive (that is, value neutral) sense, but as an a priori requirement with which a text should comply in order to qualify as an adequate translation. The varieties of equivalence which have been put forth in translation criticism is indeed truly astonishing: besides “translation equivalence”, the seemingly most general term2, one finds “functional 16

equivalence”, “stylistic equivalence”, “formal equivalence”, “textual equivalence”, “communicative equivalence”, “linguistic equivalence”, “pragmatic equivalence”, “semantic equivalence”, “dynamic equivalence”, “ontological equivalence”, and so forth; to say nothing of the ostensibly free use of related terms such as sameness, invariance, congruence, similarity, isomorphism, and analogy.

In this landscape of, it would seem, utter terminological and conceptual confusion,

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it is nevertheless clear that it is generally claimed that original text and translated text are ideally placed in a one-to-one correspondence, meaning by this that they are to be considered as codifications of one piece of information, as logically and/or situationally interchangeable, – the “invariant core” being, of course, “a hypothetical construct only” (Toury 1978:93)3. However, semiotic viewpoint this would seem to be a misconception, or at least a gross simplification of the facts. One case in point is Jakobson’s statement (1959:233): “Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics”, and hence of translation. In general-semiotic parlance, one would say that both original and translation are signs forming part of a semiosic chain – a sequence of interpretive signs. Yet in contradistinction to the interchangeability claim, the translation follows from and is caused by (Peirce would obviously say “is determined by”) the original; it is its interpretant-sign. If both signs are lifted out of the infinite semiosic sequence and studied in isolation, the original is of the two the primary sign, both temporally and logically. The interpretant is not an imitation of an immanent structure of the sign or the object, nor is it an arbitrary structure imposed on the object from the outside. It is the law or habit (weak or strong), through which sign and object become related so that an effect of the semiosis can occur. The mediating sign-action, once set into motion, is a recursive but irreversible process of sign translation. This implies that there is in the sense intended here no back-translation possible: the pre-semiosic situation cannot be restored. This turns the very idea of interchangeability between original and translation into a paradox. Indeed, the semiosis has not only dramatically changed the original sign; it also offers, perhaps, new knowledge of the dynamical object (in Peirce’s sense) to which both signs, if still indirectly and incompletely, refer.

To reduce sign translation, linguistic or otherwise, to mimicry or to a mirroring procedure is to respond to nothing but the sign’s Firstness, and thus to atrophy its full signifying potential. A translation is obviously more than a “hypoicon” – an iconic in

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otherwise degenerate Third (Gorlée 1990). From a semiosic standpoint, the zealously pursued preservation of any semiotic substance – be it meaning, information, ideas, or content (just to mention some of the commonly used terms) – is more than irrelevant, counterproductive to what translation should be concerned with, namely the sign-and-code- enriching confrontation between sameness and otherness: “du Même et de l’Autre” (Ladmiral 1979:209)4. Genuine semiosis is non-mechanical engenderment and re- engenderment, and is for this reason the very opposite of mimesis: “Nay, exact conformity would be in downright conflict with the taw [of habit]; since it would instantly crystallize thought and prevent all further formation of habit” (CP:6.23,1901).

Mention of one tradition within linguistics – Humboldt’s (1767-1835) linguistic relativism – is in order here, because it opposed at an early date what may he called the received view (according to which fixed world-word connections are established), thereby foreshadowing Peirce’s dynamic version of the indeterminacy of meaning, the Sapir-Whorf hypothesis, as well as some of Chomsky’s concepts. I refer here to the

adage of Wilhelm von Humboldt’s, one that was later embraced (although never explained) by Chomsky – who called it in his early writings “creativity”, or sometimes “open- endedness” – about the capability of languages to “make infinite use of finite means”. (Sebeok 1991:29)

Humboldt’s “alternative” view is of particular interest in a discussion of translation, because it would later inspire, explicitly and/or implicitly, the “holistic” view on literary translation which was initiated by Holmes and further developed by Toury and others5. This approach would, despite its concentration upon one particular kind of translation – the translation of verbal art –, or perhaps because of it, breathe new life into what had become a rather unfruitful approach to it from traditional linguistics. According to the relativistic concept of

verbal language, different languages correspond to different world-visions. From the 19

viewpoint of the different languages, reality is not experienced as it “really” is, but as it is molded, reflected – subjectively, homogeneously, but variously – in and by the different languages.

Although Humboldt is frequently recognized as the founder of general linguistics, his pioneering role in linguistic semiotics has received scant recognition (Schmitter et alii 1986:317). This is perhaps due (as indicated by Trabant 1986) to Humboldt’s language- orientedness which has turned problematic at a time when sign-theoretical discussions, following Peirce, are moving away from “linguistic imperialism” and towards a semiotic perspective which places the verbal and the non-verbal on a continuum, the former being superior to the latter, but nevertheless building upon it. Not coincidentally, Humboldt considered language to be not only a system of social invented and intrinsically arbitrary signs, but also to have an iconic aspect to it6.

Prefiguring, it would seem, Saussure’s langue-parole dichotomy, Humboldt distinguished between language as ergon (theory, a written or orally transmitted verbal corpus) and energeia (praxis, a verbal activity). While the latter builds and feeds the former, it – energeia – is for Humboldt the essence of language itself. Language consists not only of a systematic, rule-bound whole, but of energies, and this dynamic interactive principle elevates language to the semiotic (or rather, semiosic) status of expression of thought. Humboldt’s so-called “anti-semiotics” of language (Trabant 1986:69-90) was only opposed to a linguistic semiotics to the extent that the latter limits its considerations to the arbitrary and conventional nature of the signs of language, thereby “killing all its spirit and sending all its life into exile” (Humboldt in Trabant 1986:72; my trans.). In fact, language is, for Humboldt (as it would later be, if in a more radically evolutionary paradigm, for Peirce) a living “organism” (Nöth 1990:201), an essentially semiotic sign-system, an irreversible processuality, in which man establishes shifting connections between language and the phenomena of the world surrounding him.

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The relevance of this to translation/interpretation in Peirce’s sense should be clear. Peirce himself used the term “equivalence” with special reference to the interpretant. This shows that for him equivalence was synonymous not with one-to-one correspondence, as in Firstness (iconicity) and, in a different modality, in Secondness, but with the kind of one-to- many correspondence that obtains whenever a sign “gives birth” to an interpretant (or rather a series of interpretants). Two signs which are thus dynamically equivalent7 can be logically derived from one another. Peirce typically struggled with language trying to express exactly what he meant by his dynamic equivalence which takes place in the semiosis:

A sign . . . is an object which is in relation to its object on the one hand and to an interpretant on the other in such a way as to bring the interpretant into a relation to the object corresponding to its own relation to the object, I might say “similar to its own”[,] for a correspondence consists in a similarity; but perhaps correspondence is narrower. (PW:32,1904)

In his much-quoted definition of a sign, Peirce said that the sign creates in the mind of the person it addresses an “equivalent sign, or perhaps a more developed sign” (CP:2.228,1897). Elsewhere he noted: “An equivalent of a proposition is the same proposition differently materialized. For the proposition consists in its meaning” (MS599:62,c.1902), which implies that it is not what language or code a text-sign is in, but what signification it has, which is to the interpretational (that is, the translational) point. That Peirce’s concept of equivalence is teleological (that is, is governed by Thirdness) is further put into evidence by his statement that “two signs whose meanings are for all possible purposes equivalent are absolutely equivalent” (CP:5.448,n.1,1906; emphasis added).

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Qualitative equivalence
Let us next take a closer look at Peirce’s views on equivalence by approaching somewhat

differently. It should by now be clear that translational equivalence cannot be identified, at least not wholly, with an algebraic equation or other sign of Firstness. Discussing different sets of diagrams, Peirce ascertained that it every algebraic equation is an icon, insofar as it exhibits by means of the algebraic signs (which are not themselves icons) the relations of the quantities concerned” (CP:2.282,c.1893). After giving this quote from Peirce, Jakobson added the following:

Any algebraic formula appears to be an icon, “rendered such by the rules of communication, association, and distribution of the symbols”. Thus “algebra is but a sort of diagram”, and “language is but a kind of algebra”. Peirce vividly conceived that “the arrangement of words in the sentence, for instance, must serve as icons, in order that the sentence may be understood”. (Jakobson 1971b:350)

Now this is no doubt true for the physical construction of whole sentences and sets of sentences. And in this sense two linguistic signs, each one couched in a different code, can share the same overall external structure of their parts, and thus be derived from the same model, the common source which itself remains tacit. In this sense, too, a text and its translation (both composite linguistic signs), taken together, may be viewed as a self- reflexive dual construct; they do not need anything beyond themselves in order to be recognized and understood as signs sharing a number of significant qualities – sensory and/or material properties. It is easy to imagine that texts such as a sonnet, a marriage contract, and a court reporter’s transcript share some significant physical features with their respective translated versions – sign-internal features which may even be appreciated

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without knowledge of the languages8 involved. Such common features are abstracted from sign-external reality, and may occur, in some form or other, in all codes, linguistic and non- linguistic alike. For example, in the case of verbal text-signs, the primary text and its translation may show an equivalent length, distribution of paragraphs, rhyme structure, and/or use of punctuation9. Such features make them immediately recognizable as similar signs – similar, that is, in “feel”, “tone”, or other “quality of feeling” (as Peirce would say).

If both signs (the translated and the translating sign) are taken as being morphologically, syntactically, etc. symmetrical (in other words, as mutually convertible across code barriers) this is done without taking into due consideration that one is the antecedent and the other the consequent. Yet the essential hierarchical relation which determines the one to be the interpretant of the other, and not vice versa, cannot be denied. Translational equivalence must always be a diachronic affair (to use a term from Saussure). Moreover, various quasi-synonymous equivalents (with mutually inconsistent terms) may be obtained from one sign. This means that the sign and its equivalent interpretant-sign may only be considered as one another’s counterparts to the extent that their signhood in its aspect of Firstness is under inquiry. I propose to call this equivalence referred to the signs-in-themselves “qualitative equivalence”.

Referential equivalence

Having traced qualitative equivalence between a sign and its interpretant-sign, we may next consider equivalence originating from Peirce’s other categories: Secondness, the category of the object, and Thirdness, the category of the interpretant. The aspects of sign equivalence yielded by Secondness and Thirdness will be called respectively “referential equivalence” and “significational equivalence”. The three aspects of equivalence together may then be named semiotic (or more accurately, semiosic) equivalence. This will be explained in adjacent paragraphs.

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Concerning referential equivalence between sign and interpretant-sign, a distinction must be made between the standing-for relation on the level of the immediate object and on the level of the dynamical object10. The immediate object being the idea called up directly by a particular sign-use, is only knowable through the sign. As opposed to qualitative aspects of the sign (Firstness sensu stricto) the sign-immediate object relation represents the Firstness of Secondness; it concentrates on the sign’s referent on referents on the code level. Of course, the sign may be placed in any code or sign-system, verbal or nonverbal; and its immediate object is given in the exhibitive, ostensive, or verbal (depending on the code) manifestation of the sign. The interpreter sees the object only insofar as the sign reflects it. Without previous acquaintance with the code the sign is in, it is not possible to gain knowledge of its immediate object, let alone to penetrate into the inner sanctum of its “deeper” signification.

Translation involves at least two codes: a source code and a target code. For a sign in one code to be a translation of a sign in a different code, the respective immediate objects need not be the same. Since the immediate object is “the idea which the sign is built upon” (MS318:70,1907), it is differently represented in each code. The immediate object will be subject to change in and through the intercede semiosis of translation. In tandem with equivalence on the level of the sign, here too sameness is no requirement, neither on the micro-level (such as, in language, word-to-word or sentence-to-sentence correspondence) nor on the macro-(i.e., textual) level; and here too equivalence must be understood in a broad sense, as the kind of “loose” sameness created through any kind of semiosic interpretation, This does not imply that it is not crucial for both signs (the primary sign and the translated sign) to give, through their immediate objects, “hints” (as Peirce called them), careful examination of which in their contexts must lead to the same underlying idea, – the common real” or “dynamical” object, which stays itself outside the sign relation and is therefore not translated,

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Let me give one example of this, To translate the Spanish expression, cortar el bacalao, by an expression which is identical on the immediate-objectual level creates equivalence if the expression occurs, for instance, in a fish recipe. But if the expression refers, in a figurative sense, to power structures, identity on the level of the immediate object would be a misinterpretation and distortion of the real facts pointed at by and in the code. The immediate object is therefore one referential meaning criterion, but one which needs to be supplemented by contextual information. A sign normally does not function in a vacuum, but is embedded in a communicational environment which supplies linguistic, referential, ideological, etc. indications to its right understanding. It is only within such a context that the interpreter can be led by the immediate object towards the dynamical object – the real feeling, thing, event, phenomenon, thought, or concept which causes the sign relation but remains itself independent from it.

The dynamical object is itself absent and remains outside the semiosic event. It is the Second under the aspect of Secondness; and as a “double Second” it is only knowable through the immediate object, which, as indicated, is the outward perceptible form in which the object manifests itself in the sign. In order to get to know the dynamical object of a sign one can only perceive, study, and try to understand what is implied by the immediate object. This requires, according to Peirce, “experience”, “collateral observation” (real or imagined), and skills such as “imagination and thought” (MS318:77,1907). The dynamical object corresponds to the hypothetical sum total of all instances of the sign-bound immediate object, of which the primary sign and the translated sign are two instances couched in different (sub)codes and more often than not with different immediate object. “No man can communicate any information to another without referring to some experiences to be shared by him and the person whom he addresses” (NEM3,2:770,1900). Like all other forms of communication, translation is sign-action within a physical universe of social interaction. The existence of a common experiential ground is a

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crucial element of communication: without it, access to knowledge of what the message really means (its dynamical object) is blocked. The more freely and directly collateral experience is shared with a partner in a communication situation, the more efficient the communication. Peirce wrote:

I go into a furniture shop and say I want a “table”. I rely upon my presumption that the shop-keeper and I have undergone reactional experiences which though different have been so connected by reactional experiences as to make them virtually the same, in consequence of which “table” suggests to him, as it does to me, a movable piece of furniture with a flat top of about such a height that one might conveniently sit down to work at it. (NEM4:259,c.1904)

In other words, “when there are both an utterer and an interpreter, the [dynamical object of the sign] is that which the former has in mind, but which it does not occur to him to express, because he well knows that the interpreter will understand that he refers to that, without his saying so” (MS318:69,1907). By this token, it is essential for intercode communication to successfully take place, that the communicational partners, though belonging to different codes, have acquired and possess, albeit implicitly, a shared knowledge of the phenomena of the world in their different semiotic expressions.

Obviously, it is easier to get to know a dynamical object which has an indexical relation to the sign than one which is an icon or a symbol.11 What the latter have in common, and what distinguishes them from Seconds, is their generality. Iconic signs show possible attributes, yet unattached to any existent; symbolic signs give general rules, applicable but not yet applied to a particular case; while indexical signs are concrete sign- instances embodying icons and governed by symbols.

Now even if the primary sign and the translated interpretant-sign have different immediate objects, their dynamical objects will always need to be identically the same, at least ideally. Even their sameness is, however, relative, since it is to some degree always the result of an interpretation, of an inferential procedure. In other words, the relation

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between the two must be mediated by a semiosis which makes it possible for one to be a logical consequence of the other. Before embarking upon further analysis of this, I will try to explain form a slightly different angle how sign-representation is connected with sign- interpretation.

Breadth, depth, information

The sign’s standing-for and standing-to relations must be taken together for a specific purpose: to introduce a group of concepts which, though still connected with the sign and the code it is in, pertain specifically to its external relations. These concepts were addressed by Peirce as a young lecturer, most prominently in his paper “Upon logical comprehension and extension” (W1:454-471,186612). I shall not attempt to give an exhaustive account of Peirce’s thought here, but will limit myself to the ideas having a direct connection with my main theme.

Following a long-recognized tradition, Peirce argued in the above-mentioned Lowell Institute Lecture VII that a word (or any other symbol13) has two different logical dimensions which, as stated by Peirce in a later manuscript, “are equally applicable . . . to . . . all kinds of signs” (MS200:49,1907). One of these logical dimensions is “extension”, “denotation”, or “breadth”; the other is “comprehension”, “connotation”, or “depth”. Despite the fact that these concepts have been standard expressions in logic since the Port Royalists, they have been lacking in precise designation. Peirce proposed to adopt as the most serviceable designations, logical breadth and depth.

The logical breadth, or denotation, of a term relates the term to the world. It indicates the (real) individuals or objects to which the term applies and which occasion its use. Logical depth, or connotation, refers to a term’s meaning-content, the attributes or qualities that can be predicated to it, “the possibilities which are imagined or judged to be realized” in those individuals (MS200:49,1907). Not only does the word force an

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interpreting mind to recognize the thing, phenomenon, event, or relation which is indicated or designated by it; the word is also informed and influenced by its designatum, or object; and finally, “Everything must be comprehended or more strictly translated by something” (W1:333,1865). Note, however, that both aspects are not equally important: “Every symbol denotes by connoting” (W1:272,1865). Peirce wrote, and “Denotation is created by connotation” (W1:287,1865). Whereas both aspects of the word are essential, depth, as referring to sign-enriching action, thus has priority over breadth, the indicative aspect of the sign. As Peirce put it later (in an unpublished letter to his former student, Christine Ladd- Franklin), “the depth of the sign seems to be nothing but its better self. The sign is related to its depth . . . as an idea to an ideal, as memory to vivid hallucination . . . (MSL237:187,1902).

Logical breadth refers backward to the object, and logical depth forward to the interpretant. The dual elements in the sign produce what Peirce called “information”14. Whenever a sign is interpreted, it “always results in an increase either of extension [denotation, breadth] or comprehension [connotation, depth] without a corresponding decrease in the other quantity” (W1:464,1866). By information Peirce meant the “amount of com-

prehension [connotation, breadth] a symbol has over and above what limits its extension [denotation, breadth]” (W1:287,1865). And increase of information of a sign means “an addition to the number of terms equivalent is produced; in other words, in each act of sign interpretation/translation new knowledge (that is, Thirdness) is generated15.

The following passage from Peirce, taken from a later work, may help to clarify the foregoing analysis:

A symbol, once in being, spreads among the peoples. In use and in 28

experiences, its meaning grows. Such words as force, law, wealth, marriage, bear for us very different meanings from those they bore to our barbarous ancestors. (CP:2.302,c.1895)

Take, for instance, the occasion when, in common law, a judge makes a court decision which establishes a new precedent for a certain type of case; or when, in Roman law, a new law is added to the body of law. What transpires then is an increase of information. The term “law” can be applied to a new object, but its basic characters remains unchanged. Consequently, it has increased in breadth, but with no increase in depth. Or imagine a newly-married convert to Islam, locked up in a harem. Her concept of “marriage” has probably undergone a dramatic change. Though the marital institution itself is the same as she knew it previously, a series of new characters were added to it. The term “marriage” remained constant in breadth, but has increased in depth. In this case, too, information has increased. By “spreading among the peoples” (CP:2.302,c.1895) (that is, by being interpreted, translated), the semiotic features of symbols (words, concepts, etc.) are developed and enhanced.

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Significational equivalence

Inspired by these and similar thoughts, Peirce “invented” the concept of the interpretant as he saw it, thus:

Indeed, the process of getting an equivalent for a term, is an identification of two terms previously diverse. It is, in fact, the process of nutrition of terms by which they get all their life and vigor and by which they put forth an energy almost creative – since it has the effect of reducing the chaos of ignorance to the cosmos of science. Each of these equivalents is the explication of what there is wrapt up in the primary – they are the surrogates, the interpreters of the original term. They are new bodies, animated by that same soul. I call them the interpretants of the term. And the quantity of these interpretants of the term. And the quantity of these interpretants, I term the information or implication of the term. (W1:464- 465,1866)16.

From the perspective of Peirce’s evolutionary logic, each translation makes the implicit more explicit, thereby involving increased information. This is clearly expressed by Peirce’s “a sign is something by knowing which we know something more” (PW:31- 32,1904). The growth of knowledge is accompanied by an increase in either breadth or depth. It has no influence upon the signified facts themselves, nor the characters attributed to them, which may be either true or false (NEM4:24,c.1904). But when two signs are equivalent, they denote the same things and have the same logical breadth. They may depend, for their truth-value, upon a particular connotative depth (as obtained in interpretation) or they may depend only upon this denotative breadth.

The interpretant is supposed to indicate the same things or facts as the primary sign,

and to signify these things, and assert these facts, in like manner. But both relations are 30

unlikely to remain constant and unchanged in the course of time – in other words, in the course of a series of semiosic events of an inferential nature. Equivalence, in the strictest sense, between sign and interpretant is therefore logically impossible: it would stifle the growth of knowledge, which growth is exactly the point of sign production and sign use. Ours whole human universe being, in Peirce’s words, “perfused with signs, if it is not composed exclusively of signs” (CP:5.448,n.1,1905), we communicate by signs, of which we produce a constant stream of new interpretants, which we interpret again, and so on. During this never-ending inferential process, new significations (and thereby new truth- values) are constantly put forth, probed, weighed, accepted, negotiated, defended, ignored, held in reserve, rejected, etc.17 New knowledge is thereby accrued of the object. In accordance with Peirce’s pragmatic maxim, the ultimate goal of this exercise remains, nonetheless, to achieve total knowledge of the meaning of a sign. To achieve this, one needs to persevere in making ever-new interpretations/translations of the sign, in order to gain access, via the sign and its immediate object, to the sign’s prima causa, the dynamical object. In the final analysis, translation, linguistic and otherwise, is about our own life- world, real and imagined, and the myriad ways in which we make sense of it by creating significational equivalents of it and its parts18.

Translation process

Let us next take another example of an issue in translation theory for which a solution can be found by placing it into the framework of a Peircian theory of signs. The translation procedure itself has been commonly but arguably hypothesized as a chronological scenario involving variously three or four stages. It is tempting to view the nature and role of these stages in the light of Peirce’s process of interpretation, which is systematically described by him as a threefold reasoning-process consisting in the production of three successive interpretants.

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In reference to the study of the translation process in itself, Toury advances the following cautionary remarks:

Since we know very little of the inner, psychological mechanisms involved in translating, any single act of this kind of activity is in the position of a “black box”, that is, an open system whose internal structure can be guessed at, or tentatively reconstructed, only on the basis of the relationships between the entities established as its input and output. (Toury 1986:1114)

Now, rather than a sign of intellectual humility, the foregoing remarks appear to me to call for a Peircean approach to the phenomenon of translation. It is a well-known fact that Peirce, the logician, was radically opposed to psychologism – meaning by this the dependence of semiotics upon psychology. For him, the study of sign action does not require knowledge of the exact workings of the human mind. This is not to say that Peirce considered that the mind as a thinking (i.e., sign-processing) agency was irrelevant to his logic; rather, the reverse is actually true. “I am using mind”, Peirce wrote half in jest,

. . . as synonym of Representation; and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind. I think they mainly talk about consciousness, in the sense of the first category, and hypothetical arrangements in the brain. (MS478:157,1903)

Instead of Firstness, Peirce, the logician, studied Thirdness; “not the psychological process, but the logical function” (MSL237:126,c.1900); not the contents of the “black box” itself, but the inferential processes leading from premisses to conclusions. These processes he called the “modes of action of the human soul” (CP:6.144,1892). All thought is, for Peirce, about showing how one sign leads rationally to another, thereby signifying growth and

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development. This being Peirce’s main subject of inquiry, he would hardly have been inclined to embark upon a serious investigation of how mental processes may fail, derail, or get paralyzed, as would be the concern of the psychologist19.

For the purpose of the argument here, it is critical to bear in mind that semiotics as Peirce conceived it is a query about the logical relationship between a particular sign on the on hand, and its interpretant or translated sign on the other; and also that this relationship can be defined as either abductive, inductive, or deductive. The translation process being a mental process not open to direct scrutiny, Toury seems to contend (at least in the above quotation) that it can only be explained by abduction, while this makes a perfectly valid statement, it would for Peirce probably have been a somewhat “pessimistic ” way of dealing with the facts of the matter. Despite their reliance on guessing instinct, abductive hypotheses are often remarkably right in their explanations of the facts, so their truth-value should not be considered too lightly. Moreover, abductive leaps call for inductive testing, the search for facts by “experiments which bring to light the very facts to which they hypothesis had pointed” (CP:7.218,1901). Finally, induction again prepares the ground for deduction, the development of laws ruling the facts and giving them a “purpose or end” (MS292:13,c.1906). For the argument here, the questions raised by Toury are timely, because the three kinds of reasoning are directly dependent on the categories and must be considered as the equivalents, in the logical sign relation, of the three kinds of logical interpretants which correspond to the three stages in the translation process. This shall be argued in subsequent paragraphs.

Let us first introduce, seriatim, some of the ideas as to the stages in translation, as proffered by different scholars. In a highly praxis-oriented spirit, Koller (1992:203-204) distinguishes between three “Arbeitsstufen”: the “Rohübersetzung” or shortlived transla-

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tion, the “Arbeitsübersetzung” or middlelived translation, and the “druckreife Übersetzung” or longlived translation, Koller’s criteria are qualitative and correspond to a mounting scale of grammatical, lexical, stylistic, etc. “Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit”, “accuracy, correctness, and adequacy” (Koller 1992:20-4). As explained by Koller, the first phase produces a draft translation of limited scope and usage. Its focus on “Genauigkeit”, or accuracy, means that there must be “Identität des Inhaltes”, but violations against morphological, syntactic, phraseological, lexical, stylistic, etc. rules are in this stage still accepted. In a second-phase translation, “Genauigkeit und Richtigkeit”, accuracy and correctness, are required; it may contain no grammatical, lexical or stylistic errors. Finally, Koller’s “print-ready” translation is characterized by the triad, “Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit” – accuracy, correctness, and adequacy. A product of solid research and serious reflection, it is intent on satisfying the highest norms and expectations. It must be noted, however, that the progression from, roughly, fidelity to source-fact, to agreement with target-code, and finally accordance with text-type between source-text and target-text, sets singularly relative priorities. The three steps advanced by Koller to describe the quality of the translator’s performance can only be defined in relation to one another. External criteria of assessment are absent here. This greatly reduces the usefulness of Koller’s three- step process outside pure translation practice and pedagogy.

With some necessary “theoretical speculation”, Toury himself proposes a four-stage schematic representation of translation:

(1) an indispensable decomposition of the initial entity up to a certain,

varying

level,

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and assigning its constituents at this level the status of “features”;
(2) a selection of features to be retained, that is, the assignment of relevance to some part of the initial entity’s features, from one point of view or another;
(3) the transfer of the selected, relevant features over (one or more than one) more or less defined semiotic border;
(4) the (re)composition of a resultant entity around the transferred features, while assigning to them the same or another extent of relevancy. (Toury 1986:1114)

In contradistinction to Koller’s practical proposal describing the quality of the end-product, ‘I’oury’s program is highly theoretical and process-oriented. A prerequisite for it is that the text ab quo can be divided into discrete units, some of which may then be considered as relevant “from one point of view or another” (as signifying, in semiotic parlance) and others as irrelevant (as non-signifying). Only the former are then transcoded, while the fate of the latter, evidently disposable, units remains rather unclear in Toury’s proposal.

It would seem to me that no parts of a text-sign may be concealed by camouflage without practicing some form of erosion, whereby the semiotic substance is thinned in the successive semioses it undergoes, instead of becoming progressively richer in content, as Peirce would have it. The notion of relevancy brandished by Toury is really a dangerous and indiscriminate weapon. Due to the fact that it may have either an ideological or an intuitive bias, or both, Toury’s scenario here seems more tailored to suit rhetorical needs than to lead to the summum bonum, the truth in the way Peirce saw it20.

In After Babel, Steiner proposes a fourfold “hermeneutic motion, the act of elicitation and appropriative transfer of meaning” (Steiner 1975:296), which in his description really consists of three stages and an illusory fourth. In the first stage there is,

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according to Steiner, “initiative trust” in the meaningfulness of the “‘other’ as yet untried, unmapped alterity of statement” (Steiner 1975:296) in the text-to-be-translated. This trust “will ordinarily be instantaneous and unexamined, but it has a complex base” (Steiner 1975:296). After what looks like a description of Peirce’s Firstness, Steiner proceeds to the second stage of translation, where the initial trust is put to the test of confrontation, and the “manoeuvre of comprehension [becomes] explicitly invasive and exhaustive” (Steiner 1975:298). The text is now attacked, as it were, in its “otherness”, in an act of aggression in which we “‘break’ [its] code . . . leaving the shell smashed and the vital layers stripped” (Steiner 1975:298). Now, this is remarkably similar to Peirce’s Secondness. “The third movement”, Steiner continues, “is incorporative, in the strong sense of the word . . . embodiment . . . [W]e come to incarnate alternative energies and resources of feeling” (Steiner 1975:298-299). This last process, of “comprehensive appropriation”, may result in a “complete domestication, an at-homeness” of the translation in its new situation; or the translation may have acquired a “permanent strangeness and marginality” in it (Steiner 1975:298). The fact that a translation may work either like “sacramental intake” or like its opposite, an “infection” (Steiner 1975:299), means, for this critic, that it still lacks

. . . its fourth stage, the piston-stroke, as it were, which completes the cycle. The aprioristic movement of trust puts us off balance. We “lean towards” the confronting text . . . We encircle and invade cognitively. We come home laden, thus again off-balance, having caused disequilibrium throughout the system by taking away from “the other” and by adding, though possibly with ambiguous consequence, to our system is now off-tilt. The hermeneutic act must compensate. If it is to be authentic, it must mediate into exchange and restored parity. (Steiner 1975:300)

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By reaching this new state of synthesis, Steiner’s model has come full circle. Though Steiner would surely never place himself under the banner of semiotics – any semiotic banner –, yet his “hermeneutic motion” closely resembles semiosis, and his stepwise scenario described above is interestingly reminiscent, conceptually and otherwise, of Peirce’s succession of three interpretive moments as manifested in the first (immediate/emotional), second (dynamical/energetic), and third (final/logical interpretants) – the latter again subdivided, according to Short (1986a:115), in a “non-ultimate” and an ultimate logical interpretant21.

Translation, at least in its lingual varieties, deals with signs interpretable by logical interpretants; it is a “pragmatic” process of making sense of intellectual concepts, or signs of Thirdness. The solution of mental problems, of which translation would be one exemplary instance, occurs for Peirce in three, perhaps partly overlapping, inferentially- reached developmental stages showing an increasing degree of “hardness” or solidity of belief22. When embodied in an actual (and thus observable) tangible (and thus testable) translation, this concept may serve as a quality norm roughly similar to Koller’s above- mentioned three grades of “accuracy, correctness, and adequacy” (Koller 1979:94). This is hardly coincidental, because Peirce’s logic is a normative science (Ransdell 1981:201- 202n;Fisch 1996:269ff.) – albeit in a more “technical” sense than meant by Koller – and translation taken in its non-descriptive performance-directed aspects is equally processual and, at the same time, norm-governed.

First, second, and third logical interpretants
The first in the series of logical interpretants emerges when we are faced with problematic

situations of an intellectual nature, as a fleeting belief, a mere set of feelings arising

. . . when upon a strong, but more or less vague, sense of need is 37

superinduced some involuntary experience of a suggestive nature; that being suggestive which has a certain occult relation to the build of the mind. We may assume that it is the same with the instinctive ideas of animals; and man’s ideas are quite as miraculous as those of the bird, the beaver, and the ant. For a not insignificant percentage of them have turned out to be the keys of great secrets. (CP:5.480,c.1905).

To solve or explain the problem a conjecture, or hypothesis, is formulated. Peirce drew a felicitous parallel between this initial, heuristic stage of scientific inquiry and the “Pure Play of Musement”, or intellectual reverie (CP:6.452ff.,1908). In the translation process this would correspond to the more instinctive than rational phase when the text-sign first enters a receptive mind. A trained translator’s mind will then, spontaneously and with practiced ease, start generating a flow of ideas. This impromptu translation may be a fragmentary and tentative draft, perhaps; it is nevertheless a new sign susceptible of serving as a point of departure in the next semiosis.

Whereas with animals “conditions are comparatively unchanging, and there is no further progress” (CP:5.480, c.1905), with humans the first conjectural interpretants can be further developed, introducing a process of growth of ideas. The next logical interpretant is a product of what Peirce called “the dash of cold doubt that awakens the sane judgment of the muser” (CP:5.480,c.1905), and expresses itself in experimentation, in weighing pros and cons. The working hypotheses are at this stage put to the test and verified by solid judgment. In the translation situation the more or less lucky guesses are now out on the dissecting table and analyzed with a clear hand. The result is “a” translation which provides “a” solution to the problem. It offers at best a successful solution, one which works in the intended communicational situation and one which makes sense (that is, significant) in the target culture. But it may at worst be received in it

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with mixed feelings, shock, or even rejection.
Given time and hard work, a practiced mind is bound to produce a third logical

interpretant as the near-perfect solution with which semiosis to all intents and purposes may come to a (possibly temporary) logical standstill. Such an ideal translation will have found its natural habitat in the recipient situation, thereby losing its acute “percussivity” (NEM4:318,c.106). The new configuration having thus become unproblematic and more or less harmonious, the mind ceases to be in the “state [of] activity . . . mingled with curiosity” (NEM4:318,c.1906) by which it is stimulated to put out further interpretant- signs.

This ideal status quo should, nevertheless, never become a taking refuge in some artificial fixity. The third logical interpretant does express a firm belief, but it is still a thought-sign; and its primary goal is therefore to remain alive and communicative throughout time. To ignore its need to grow would be an antiquarianism. The judge of any interpretant’s finality must always be the social community, or communis opinio, the norms of which are naturally changeable. Although the semiosis at this point may have lost its edge, yet the translation process has reached a still non-ultimate moment. Its apparent finality is no more than a resting-point.

For this reason it is possible, and even essential, to take the semiosic process one crucial step further, and to consider that the semiosic fire is susceptible of rekindling at any future moment, however distant or utopian. The sign would then be called upon to fulfill the explosive task of generating the one single unfailing habit with which the semiosis would definitely come to its end. This ultimate logical interpretant would embody the final truth-norm and would therefore no longer be placed in the triadic relation which characterizes the Peircian sign. A translation which would pretend to give final answers is, however, an alarming oxymoron, a sure sign that culture itself has, for instance by some irreversible catastrophic final event, come to an end23. This would make

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the actual production of a truly final ultimate translation a terminal matter, or sign of the death of the sign (CP:5.284=W2:224,1868).

The role of the translator

The next and last point that will be raised here is the role of the translator in the translation process. Alternatively criticized and ridiculed, enhanced and romanticized, the translator has frequently been taken out of proportion to the job he or she really does. The technical translator has essentially been seen as a craftsman (or craftswoman), and his or her work as a form of expertise – difficult, perhaps, but not an impossible skill to master. At the other end of the scale, the literary translator, and in particular the poetic translator, has been elevated (or has elevated him- or herself) to the interesting status of creative artist in his or her own right. This dichotomy has created a potent mythology around the figure of the translator, who has been invested, and indeed infested, with such images as the copyist, the acolyte, the slave, the amanuensis, the bricoleur, the re-creator, the mediator, or other metaphors serving to either efface or aggrandize the translator’s personal performance.

In the face of such ambiguous assessment of the professional persona and talents of the translator, and of his or her role in the translation process, I would like to construe the translator in terms of Peirce’s semiotics, in order to argue that on the whole, the personal impact of the translator on the translating procedure seems perhaps to have been subject to indue inflation – both “upward” and “downward” inflation. This is at least the (hopefully more realistic) direction in which Peirce’s doctrine of signs would point us.

The translator as communicator has a dual role. He or she embodies both the addressee (or one of the addressees) of the original message, and the addresser of the translated message; both interpreter and utterer; both the patient interpreting the primary sign, and the agent uttering the translated meta-sign. In semiotic terms, the translator is

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charged with both the standing-for and the standing-to relation, and thus he or she monopolizes the whole sign-manipulative process in which translation consists. The following statements, from Peirce, seem to point by implication to the translator’s situation: ” . . . two separate minds are not requisite for the operation of a sign . . . [T]wo minds in communication are, insofar, ‘at one’, that is, are properly one mind in that part of them” (MS283:107,1905-1906); “In the Sign they are, so to say, welded” (CP:4.551,1906).

Now it is a notorious fact that Peirce considered that “neither an utterer, nor even, perhaps, an interpreter, is essential to a sign, characteristic of signs as they both are” (MS319:58,1907). Although semiosis is for Peirce triadic action and he did not explicitly include any such fourth or fifth component, in addition to the sign, its object, and the interpretant24, this is not to say that Peirce did not recognize the existence of either. In fact, he did so repeatedly, for instance, when he stated that when a (verbal) sign is made, “there really is some speaker, writer, or other sign-maker who delivers it-, and he supposes there is, or will be, some hearer, reader, or other interpreter who will receive it” (CP:3.433,1896); or in his often-cited definition of the sign as “something which stands to somebody for something . . . It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign . . . ” (CP:2.228,1897); or when Peirce referred to “the Utterer’s (i.e. the speaker’s, writer’s, thinker’s or other symbolizer’s) total knowledge” (CP:5.455,1905).

Some caveats are in order. Firstly, Peirce did not have in mind, it would seem, that the utterer and the interpreter were human individuals or even specific minds25. “A sign is whatever there may be whose intent is to mediate between an utterer of it and an interpreter of it, both being repositories of thought” Peirce wrote (MS318:206,1907;Peirce’s emphasis). He was rather thinking, in an abstract way, of what he called “theatres of consciousness” (MS318:55,1907) or “quasi minds”: “Signs require at least two Quasi-minds; a Quasi-utterer and a Quasi-interpreter” (CP:4.551,1906). Peirce

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argued as a central piece

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of his theory of signs that semiosis “not only happens in the cortex of the human brain, but must plainly happen in every Quasi-mind in which Signs of all kinds have a vitality of their own” (NEM4:318,c.1906). Secondly, the interpreter seems to be more essential for sign-action than the utterer. Many signs have no utterer, or at least they do not emanate from any personalized and conscious sign-maker. To illustrate this, Peirce mentioned “such signs as symptoms of disease, signs of the weather, groups of experiences serving as premisses, etc.” (MS318:56-57,1907). But a sign is no sign unless there is some interpreter interpreting it as such – “capable of somehow ‘catching on’” (MS318:205,1907) – if not really then at least potentially. A sign which for whatever reason is unable ever to be interpreted can not really be considered a sign in the semiotic sense. Thirdly, the utterer and the interpreter inside the translator’s mind are engaged in a dialectic relation evolving over time, a dialogue, half internal and half external, in which the translator/utterer is subordinate to the translator/interpreter; yet the performance of both “roles” by the one translator is clearly dominated by that of the interpretant-sign – that is, the interpretant turning again the sign, or the sign as it is being transformed into an interpretant.

As opposed to Saussurean-based linguistics semiotics, with its emphasis on sign production, pragmatic semiotics (that is, semiotics in the Peircian tradition) proceeds to the contrary and manifests itself first and foremost as a theory of sign interpretation. The sign as Peirce conceived it is, in contradistinction to its Saussurean counterpart, not defined in terms of an utterer and/or interpreter, but in terms of its relations – with itself, with its object, with its interpretant. Through semiosis, the sign deploys its meaning; its full meaning is thus knowable, “although it may lie only at the ideal and infinitely distant terminus of inquiry” (Savan 1983:6). Sign action and sign interpretation are not necessar-

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ily determined by a human utterer or interpreter: Peirce’s semiosis is self-generating triadic action. As all semiotic signs, the text-sign interpretation are not necessarily determined by a human utterer or interpreter: Peirce’s semiosis is self-generating triadic action. As all semiotic signs, the text-sign is a living agency actively seeking to realize itself through some interpreting mind rather than passively waiting to be realized by it, as is the case in linguistic semiotics. One reason why the Peircean concept of text-sign may at first seem fanciful is that it diminishes the significance of the reader/interpreter/translator. In a Saussurean-inspired text-semiotics, the latter is customarily looked upon as the sole discourse-producing subject, as the one agency giving the text-sign its pragmatic, Peircian paradigm, the presence of an interpreter is somehow subsumed but at the same time de-emphasized.

This means that the active mediating role in the kind of semiosic action ordinarily called translation is played not by the translator, as is commonly thought, but by the autonomous action itself through which the sign gets to realize its meaning. Peirce wrote about thought and the thinking person that thought thinks in man rather than man in it (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), and

[T]he idea does not belong to the soul; it is the soul that belongs to the idea. The soul does for the idea just what cellulose does for the beauty of the rose; that is to say, it [the cellulose] affords it [beauty] opportunity. (CP:1.216,1902)26

Applied to the translation situation this means that the translator is merely instrumental in making sign-action possible; he or she is used (that is, acted upon, influenced) by the sign. Therefore it would be a misconstrual of the facts to hold, as is generally done, that the sign is translated by the translator, because it really translates itself27. The translator does not

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address the text-sign; the text-sign addresses the translator. And the translator is not addressed as a flesh-and-blood person but as a mind (that is, as a sign). The sign addresses, in the interpreter’s memory, “a particular remembrance or image” which is “the mental equivalent” of that sign – in short, its interpretant (W1:466,1866). “The whole function of the mind is to make a sign interpret itself in another sign” (MS1334:44,1905). Of course, the translator may be a Marxist, a woman, an Italian; but at the moment of translating one is, if not simply the “site being traversed by words” which Barthes postulated, certainly not a calculus of ideological or sexual or national sentiments. The text-sign must be seen as a living organism requiring translation for its survival and actively seeking a receptive mind capable of generating interpretants; without interpretive response the text-sign would die and disappear.

The relevance of this semiotic transaction to machine translation is obvious. To be sure, Peirce envisioned, in 1905, the possibility of translation by a mechanical device – non-human but programmed by a human mind. He wrote:

. . . if we had the necessary machinery to do it [translation], which we perhaps never shall have, but which is quite conceivable, an English book might be translated into French or German without the intervention of translation into the imaginary signs of human thought . . . Supposing there were a machine or even a growing tree which. without the interpolation of any imagination were to go on translating and translating from one possible language to a new one, . . . (MS283:97-98,1905)

The translator is thus for Peirce essentially a passive medium in the translational business, which he or she (like Peirce’s “growing tree”) can

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influence only peripherally.
Embodying the (above-mentioned) idea that thought thinks in man rather than man in

it (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), the translator is “carried in spite of [him- or herself] from one thought to another” (CP:1.384,1890-1891). Peirce’s deemphasis of the personal interpreter bears on his (still somewhat mysterious) “man is a sign equation (CP:5.314=W2:241,1868). In Peirce’s semiotic aphorism, man is considered as much as a symbol, a process of communicating, knowing, and learning, as is the sign itself; consequently, all terms involved in the semiosic process are signs. Neither the utterer nor the interpreter can function as autonomous agencies under the umbrella of semiosis. They are as much signs convertible into one another within this communicative relationship, as the sign uttered and/or interpreted somehow needs them for its existence. By this token, signs of all kinds interpret themselves by themselves, man interprets man, man interprets signs, and signs man, all in an irreversible self-organizing generative system which constantly renews itself28. This makes the pragmatic process of carrying ideas (that is, thought-signs), as opposed to being carried by them, into a sort of contractual relationship29 in which

. . . men and words reciprocally educate each other; each increase of a man’s information involves and is involved by, a corresponding increase of a word’s information. (CP:5.313=W2:241,1868)30

While “[e]very utterance naturally leaves the right of further exposition in the utterer” (CP:5.447,1905), at the same time the interpreter enjoys what Peirce significatively called the “privilege of carrying its [the sign’s] determination further” (CP:5.447,1905). Being a term subsumed by the triadic sign-process, the translator-sign is only given a limited freedom of interpretive action. As Peirce stated, “a sign which should make its interpreter

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its deputy to determine its signification at his pleasure should not signify anything, unless nothing be its significate” (CP:5.448,n.1,1906). By this shrewd but slightly malicious observation, Peirce obviously meant more than that interpreters/translators, when left to their

own resources, are capable of, and indeed prone to, producing non-sense. Peirce’s remark that “the barbaric conception of personal identity must be broadened drives home the fact that

All communication from mind to mind is through continuity of being. A man is capable of having assigned to him a rôle – no matter how humble it may be, – so far he identifies himself with its Author. (CP:7.572,c.1892)

A translator in Peirce’s intellectual spirit leads therefore a “problematic existence” (CP:2.334,c.1895): he or she is not so much an individual expert who may pretend to know all the answers, as he or she needs to be a dedicated student of what transpires in the semiosis in which he or she participates. The truly Peircian translator is intrigued, fascinated, or puzzled by the sign in front of him or her, even in love with it. By the same token, the translator’s mind needs to be open and subject to semiosis – that is, committed to growth and engaged in an ongoing learning-process. it must submit itself unreservedly to the sign’s attractive force, inspired by what can rightly be called “creative Love”, as opposed to self-love (Henry James, William James’s father, quoted in Murphey 1961:351;see also CP:6.287,1893).

The erotic overtones of this imaginery are hardly coincidental. They serve to highlight the fact that the translator is to some degree a devotee of the sign, one whose desire consists in unconditional surrender to its needs and desires, rather than looking in the text-sign for opportunities to show off his or

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her own skills and talents. Whereas love of self is, for Peirce, a mere euphemism for greed (CP:6.291,1893), creative love is, in accordance with Peirce’s agapastic theory of evolution with its roots in the gospel of St. John, the same as his “evolutionary love”,

. . . which teaches that growth comes only from love, from I will not say self-sacrifice, but from the ardent impulse to fulfill another’s highest impulse. Suppose, for example, that I have an idea that interests me. It is my creation. It is my creature; . . . it is a little person. I love it; and I will sink myself in perfecting it. It is not by dealing out cold justice to the circle of my ideas that I can make them grow, but by cherishing and tending them as I would the flowers in my garden. The philosophy we draw from John’s gospel is that this is the way mind develops . . . (CP:6.289,1893)31

This, too, is synechism, the evolutionary principle of inquiry, which, applied to the translator’s (or any other investigator’s) mental attitude, concentrates upon facts not as isolated phenomena, but as embodying “a true continuum . . . whose possibilities of determination no multitude of individuals can exhaust” (CP:6.170,1902). In this fashion, then, the translator partakes of a metaphysical cosmology in which meaning-potentialities, relationships, and generalities informing the sign are established which would escape the anatomically-oriented mind.

I hope to have made clear that in tandem with this conception of the role of the translator as disinterestedly performing a labor of love, translation as semiosis finds a whole new and exciting expression32.

Concluding remarks

A turn away from the linguistic approach to translation, and a return (following Peirce and in the company of Jakobson, Steiner, and others) to a philosophical perspective on the phenomenon of translation, makes the whole perennial discussion regarding the “fidelity” or “infidelity” of a translation (as it is often called with a moralizing flavor) redundant, and sheds a wholly new

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light upon the epistemology of its “truth”. These ideas are no longer in order in a theory of translation which aims not at the reproduction of meaning (without, however, losing its normative and purposive character) but at the embodiment and deployment of a sign’s meaning-potential.

Translators shall accept the compliant role and be considered as bare and anonymous minds. In the epigraph of this chapter I mentioned the old cliché, traduttore traditore, and Jakobson’s timely remarks upon it. Perhaps traditore may be taken here positively, in its etymological sense – which would make the translator a neutral transmitter of the message. Perhaps also, translators should be able and willing to sabotage their “traditional” duties, to display deviant behavior, and to engage in the creative, or simply deceptive, “paradox of betrayal by augment” (Steier 1975:298), and also betrayal by reduction or distortion. Otherwise what they may produce are transliterations, dead replicas of the original. To the degree that a translation is a mere simulacrum it only serves to stifle semiosis, because it weaves patterns in which likeness, or even sameness, is a recurrent motif. Modelling in translation needs to be speculative, by suggesting a hypothesis. It makes its start from facts, but without, at the outset, having any particular theory in view. It aims to propose the construction of a prognostic model, but it must do so guided by instinctive “reason”. This is not the oxymoron it looks like at first blush. Let me therefore propose traduttore abduttore as a new adage suited to reflect what should, in a Peircian philosophy of signs, be the primary concerns of the translator. This makes semiosis, translational or otherwise, perhaps a risky game, but never a trivial pursuit. For the translation of texts, it is the breath of life.

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Notes

Dinda L. Gorlée

EQUIVALENZA, TRADUZIONE E IL RUOLO DEL TRADUTTORE

«If we were to translate into English the traditional formula Traduttore traditore as ‘the translator is a betrayer’, we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? Betrayer of what values?»

(Jakobson 1959:238)

Introduzione

Nei capitoli precedenti ci siamo imbattuti in alcuni temi chiave della teoria della traduzione che meritano a questo punto di essere esaminati. Nonostante le discussioni di lunga data tra teorici della traduzione proprio riguardo a questi temi, sembra che al momento non si riesca a trovare un accordo. Tuttavia si potrebbe affermare senza farne un dramma che l’accurata e

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continua discussione di questi argomenti controversi da varie angolature metodologiche è decisiva per l’evoluzione armoniosa del campo interdisciplinare (o meglio, transdisciplinare) della teoria della traduzione. Se si può mostrare – come mi propongo di fare io in queste pagine – che la filosofia dei segni di Peirce getta nuova luce su questi problemi, il mio contributo qui sarà determinante, per lo meno in modo modesto, per portare la discussione verso un consenso, un accordo di opinioni in spirito peirciano.

Permettetemi allora di prendere come esempi illustrativi dell’attinenza della semiotica peirciana con la traduzione i seguenti argomenti: (1) l’equivalenza tra prototesto e metatesto, (2) il processo traduttivo e le sue fasi e (3) il ruolo del traduttore all’interno del processo traduttivo.

L’equivalenza

Per equivalenza si intenderà qui la stipulazione, ricorrente in qualsiasi testo nella teoria della traduzione, tra l’identità del prototesto e quella del metatesto tra codicii. Innanzitutto, diversi studiosi di traduzione usano il concetto di equivalenza in vari sensi. Koller (1992:214-215) cita, tra gli altri, il «closest natural equivalent» di Nida, il «möglichst äquivalenter zielsprachlicher Text1» di Wilss e il termine di Jäger «kommunikativ äquivalent2». Il quadro è ulteriormente offuscato dalle varie qualifiche date al termine, che spesso viene usato non in senso meramente descrittivo (ossia, oggettivamente), bensì come un requisito a priori che un testo dovrebbe soddisfare per qualificarsi come traduzione adeguata. Le varietà di equivalenze proposte dalla critica della traduzione sono davvero

1 Letteralmente, testo in lingua d’arrivo il più equivalente possibile [NdT]. 2 Equivalente comunicativo [NdT].

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sorprendenti: oltre a «equivalenza traduttiva», il termine apparentemente più generaleii, è possibile trovare «equivalenza funzionale», «equivalenza stilistica», «equivalenza formale», «equivalenza testuale», «equivalenza comunicativa», «equivalenza linguistica», «equivalenza pragmatica», «equivalenza semantica», «equivalenza dinamica», «equivalenza ontologica» e così via; per non parlare dell’uso ostentatamente libero di termini correlati quali uguaglianza, invarianza, congruenza, somiglianza, isomorfismo e analogia.

In questo panorama di, sembrerebbe, totale confusione terminologica e concettuale, è tuttavia chiaro che in genere prototesto e metatesto vengono idealmente messi in una corrispondenza di uno-a-uno, intendendo con ciò che devono essere considerati codificazione di un’informazione, logicamente e/o situazionalmente intercambiabili – essendo ovviamente il «nucleo invariante» «solo un costrutto ipotetico» (Toury 1978:93)iii. Tuttavia, da un punto di vista semiotico ciò sembrerebbe un errore o per lo meno una grossolana semplificazione dei fatti. In proposito Jakobson ha affermato (1959:233): «L’equivalenza nella differenza è il problema cardine della lingua e la preoccupazione principale della linguistica», e quindi della traduzione. Nel lessico semiotico generale si direbbe che sia il prototesto, sia il metatesto sono segni che formano parte di una catena semiosica – una sequenza di segni interpretativi. Tuttavia, diversamente dalla pretesa di intercambiabilità, la traduzione deriva ed è causata (Peirce ovviamente direbbe «è determinata») dall’originale; è il suo segno-interpretante. Se entrambi i segni vengono separati dalla sequenza semiosica infinita e studiati singolarmente, l’originale dei due è il segno primario, sia temporalmente, sia logicamente. L’interpretante non è l’imitazione di una struttura immanente del segno o dell’oggetto, e nemmeno una struttura arbitraria imposta all’oggetto dall’esterno. È la legge o l’abitudine (debole o forte) attraverso cui segno e oggetto diventano correlati affinché possa verificarsi un effetto semiosico. Il segno- azione che funge da mediatore, una volta messo in moto, è un processo di traduzione del

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segno ricorsivo ma irreversibile. Ciò implica che, nel senso inteso qui, non sarà possibile una ri-traduzione: la situazione pre-semiosica non può essere ripristinata. Ciò rende paradossale l’idea di intercambiabilità tra metatesto e prototesto. In realtà la semiosi non ha cambiato considerevolmente solo il segno originale; offre anche, forse, una nuova conoscenza dell’oggetto dinamico (in senso peirciano) a cui entrambi i segni si riferiscono – anche se indirettamente e in modo incompleto.

Ridurre la traduzione di segni, linguistica o non, a imitazione o a un processo di rispecchiamento [«mirroring»] è rispondere a nient’altro che alla Primità del segno, ossia atrofizzare tutto il suo potenziale significante. Ovviamente una traduzione è più di un’ipoicona – un sinsegno iconico o un altrimenti degenerato Terzo (Gorlée 1990). Da un punto di vista semiosico, la conservazione solertemente perseguita di ogni sostanza semiotica – intendendo con ciò informazioni, idee o contenuti (solo per citare alcuni dei termini usati comunemente) – è oltremodo irrilevante e controproducente per ciò che dovrebbe interessare la traduzione, cioè il confronto arricchente tra uguaglianza e alterità: «du Même et de l’Autre» (Ladmiral 1979:209)iv. La vera semiosi è una generazione e ri- generazione non meccanica, e per questa ragione è il contrario della mimesi: «Anzi, l’esatta conformità starebbe nel conflitto totale con la legge [dell’abitudine]; poiché cristallizzerebbe all’istante il pensiero e impedirebbe la formazione ulteriore dell’abitudine» (CP:6.23,1901).

Qui è giusto citare una tradizione all’interno della linguistica, il relativismo linguistico di Humboldt (1767-1835), che si opponeva precedentemente a ciò che si può chiamare la concezione invalsa (secondo la quale vengono stabiliti rapporti fissi tra parola e mondo), preannunciando così la versione dinamica di Peirce dell’indeterminatezza del significato, le ipotesi di Sapir-Whorf e anche alcuni dei concetti di Chomsky. Mi riferisco qui all’

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adagio di Wilhelm von Humboldt, che fu successivamente abbracciato (seppur mai spiegato) da Chomsky – il quale, nei suoi primi scritti lo chiamò «creatività», o a volte «open-endedness» – per quanto riguarda la capacità dei linguaggi di «fare un uso infinito di mezzi finiti». (Sebeok 1991:29)

Questa visione “alternativa” di Humboldt si rivela particolarmente interessante nelle discussioni sulla traduzione perché avrebbe poi ispirato, esplicitamente e/o implicitamente, la visione “olistica” sulla traduzione letteraria iniziata da Holmes e successivamente sviluppata da Toury e altriv. Quest’approccio avrebbe portato, nonostante la sua focalizzazione su un tipo particolare di traduzione – la traduzione dell’arte verbale – , o forse proprio grazie a essa, una ventata di vitalità in quello che era diventato un approccio piuttosto sterile da parte della linguistica tradizionale. Secondo la concezione relativistica del linguaggio verbale, linguaggi differenti corrispondono a visioni del mondo differenti. Dal punto di vista dei diversi linguaggi, la realtà non è sentita com’è “realmente”, ma com’è plasmata, riflessa – soggettivamente, omogeneamente, ma in modo vario – ne, e da, i diversi linguaggi.

Sebbene Humboldt venga spesso considerato il fondatore della linguistica generale, il suo ruolo da pioniere nella semiotica linguistica ha ricevuto uno scarso riconoscimento (Schmitter et alii 1986:317). Ciò è probabilmente dovuto (come indicato da Trabant 1986) alla focalizzazione sulla lingua di Humboldt, diventato problematico in un momento in cui le discussioni segno-teoriche, seguendo Peirce, si stanno allontanando dall’“imperialismo linguistico” e stanno andando verso una prospettiva semiotica che pone il verbale e il non verbale in un continuum, essendo il primo superiore al secondo senza però basarsi su di esso. Non a caso, Humboldt riteneva non solo che il linguaggio fosse un sistema di segni

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inventati dalla società e intrinsecamente arbitrari, ma anche che avesse un aspetto iconicovi. Anticipando, a quanto pare, la dicotomia di Saussure langue-parole, Humboldt fece una distinzione tra lingua come ergon (teoria, un corpus trasmesso per iscritto o oralmente) ed energeia (pratica, un’attività verbale). Mentre quest’ultima costituisce e alimenta la prima, essa – l’energeia – è per Humboldt l’essenza della lingua stessa. La lingua non consiste solo in un’interezza sistematica e legata alle regole, ma anche in energie, e questo principio interattivo dinamico eleva la lingua allo status semiotico (o meglio, semiosico) di espressione del pensiero. La cosiddetta «antisemiosi» della lingua di Humboldt (Trabant 1986:69-90) si opponeva a una semiotica linguistica solo in quanto quest’ultima limita le sue considerazioni alla natura arbitraria e convenzionale dei segni della lingua, in questo modo «uccidendo . . . tutto il suo spirito e mandando in esilio tutta la sua vitalità» (Humboldt in Trabant 1986:72; trad. mia). Infatti, per Humboldt (come successivamente sarebbe stato, anche se in un paradigma più radicalmente evoluzionista, per Peirce), un «organismo» vivente (Nöth 1990:201), un sistema di segni essenzialmente semiotico, una processualità irreversibile, in cui l’uomo stabilisce legami variabili tra la lingua e i

fenomeni del mondo che lo circonda.
La connessione di ciò con la traduzione/interpretazione nel senso di Peirce dovrebbe

essere chiara. Peirce stesso usava il termine «equivalenza» riferendosi in particolare all’interpretante. Questo mostra che per lui equivalenza non era sinonimo di corrispondenza uno-a-uno, come nella Primità (iconicità) e, in modo diverso, nella Secondità, ma del tipo di corrispondenza uno-a-molti che si ottiene ogni qualvolta un segno «dà vita» a un interpretante (o meglio a una serie di interpretanti). Due segni che sono infatti dinamicamente equivalentivii possono essere logicamente derivati uno dall’altro. Peirce si sforzava sempre di riuscire a esprimere esattamente ciò che intendeva con la sua equivalenza dinamica che si verifica nella semiosi:

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Un segno . . . è un oggetto che è in relazione al suo oggetto da un lato e a un interpretante dall’altro, in modo da portare l’interpretante in relazione all’oggetto corrispondente alla sua stessa relazione con l’oggetto. Potrei dire «simile alla sua stessa»[,] in quanto una corrispondenza consiste nella somiglianza; ma forse la corrispondenza è più ristretta. (PW:32,1904).

Nella sua famosa definizione del segno, Peirce ha affermato che il segno crea nella mente della persona a cui è indirizzato un «segno equivalente, o forse un segno più sviluppato» (CP:2.228,1897). Altrove ha notato: «Un equivalente di una proposizione è la stessa proposizione materializzata in modo differente. Perché la proposizione consiste nel suo significato» (MS599:62,c.1902); ciò implica che non è in che lingua o codice un testo-segno è, ma quale significazione ha, a essere il punto interpretativo (ossia traduttivo). Che il concetto d’equivalenza di Peirce sia teleologico (ossia governato dalla Terzità) è ulteriormente messo in evidenza dalla sua affermazione che «due segni i cui significati siano equivalenti

in tutti i casi possibili sono assolutamente equivalenti» (CP:5.448,n.1,106; enfasi aggiunta).

L’equivalenza qualitativa

Osserviamo più da vicino le idee di Peirce sull’equivalenza usando un altro approccio. Dovrebbe essere ormai chiaro che l’equivalenza traduttiva non può essere identificata, o per lo meno, non totalmente, con un’equazione algebrica o un altro segno di Primità. Discutendo diverse serie di diagrammi, Peirce ha appurato che «ogni equazione algebrica è un’icona nella misura in cui mostra mediante i segni algebrici (che non sono loro stessi icone) le relazioni delle quantità esaminate» (CP:2.282,c.1893). Dopo aver fornito questa citazione da Peirce, Jakobson ha aggiunto quanto segue:

Ogni formula algebrica pare un’icona, «resa tale dalle regole della 56

comunicazione, dell’associazione e della distribuzione dei simboli. Pertanto, l’«algebra non è che una sorta di diagramma», e la lingua non è che un tipo di algebra». Peirce ha immaginato in modo vivido che «la disposizione delle parole nella frase, ad esempio, deve servire come icone, in modo che la frase possa essere compresa». (Jakobson 1971b:350)

Ora, ciò vale senza dubbio per la costruzione fisica di intere frasi e serie di frasi. E in questo senso due segni linguistici, ognuno espresso in un codice differente, possono condividere la stessa struttura globale esterna delle loro parti, e quindi derivare dallo stesso modello, la fonte comune stessa che rimane tacita. Anche in questo senso, un testo e la sua traduzione (entrambi segni linguistici compositi), presi assieme, potrebbero essere considerati come un costrutto duale auto-riflessivo; non hanno bisogno d’altro oltre a sé stessi per essere riconosciuti e compresi come segni che hanno in comune una serie di importanti qualità – proprietà sensoriali e/o materiali. È facile immaginare che testi quali un sonetto, un contratto di matrimonio o la relazione di un messaggero di corte abbiano alcune importanti caratteristiche fisiche in comune con le loro rispettive versioni tradotte – caratteristiche interne ai segni che potrebbero anche essere apprezzate senza conoscere le lingue coinvolteviii. Tali caratteristiche comuni sono estratte dalla realtà esterna ai segni e possono verificarsi, in una forma o in un’altra, in tutti i codici, linguistici o non linguistici. Ad esempio, nel caso dei testi-segni, il testo primario e la sua traduzione possono rivelare una pari lunghezza, distribuzione di paragrafi, struttura della rima e/o uso della punteggiaturaix. Tali caratteristiche li rendono immediatamente riconoscibili come segni simili – simili, cioè, nella “sensazione”, il “tono” o in altre «qualità del sentire» (come direbbe Peirce).

Se entrambi i segni (quello tradotto e quello che traduce) sono considerati morfologicamente, sintatticamente ecc. simmetrici (in altre parole, reciprocamente

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convertibili oltre le barriere dei codici), ciò è fatto senza considerare come si dovrebbe che uno è l’antecedente e l’altro il conseguente. Tuttavia il rapporto gerarchico essenziale che determina che l’uno sia l’interpretante dell’altro e non viceversa non può essere negato. L’equivalenza traduttiva deve sempre essere una faccenda diacronica (per usare un termine di Saussure). Inoltre, da un segno è possibile ottenere vari equivalenti quasi sinonimi (con termini reciprocamente non coerenti). Ciò significa che il segno e il suo equivalente segno interpretante possono essere considerati solamente un’altra controparte nella misura in cui la loro segnità nel suo aspetto di Primità sia oggetto di studio. Io propongo di chiamare quest’equivalenza riferita ai segni in sé «equivalenza qualitativa».

L’equivalenza referenziale

Avendo delineato l’equivalenza qualitativa tra un segno e il suo segno interpretante potremo ora considerare l’equivalenza derivante dalle altre categorie di Peirce: la Secondità, la categoria dell’oggetto, e la Terzità, quella dell’interpretante. Gli aspetti dell’equivalenza dei segni prodotti dalla Secondità e la Terzità saranno chiamati rispettivamente «equivalenza referenziale» ed «equivalenza significazionale». I tre aspetti dell’equivalenza assieme potrebbero quindi esser chiamati equivalenza semiotica (o, per essere più precisi, semiosica). Questo verrà spiegato nei paragrafi successivi.

Per quanto riguarda l’equivalenza referenziale tra segno e segno interpretante, è necessario operare una distinzione tra la relazione “di stare per” sul piano dell’oggetto immediato e su quello dell’oggetto dinamicox. Essendo l’oggetto immediato l’idea richiamata direttamente da un particolare uso dei segni, è conoscibile solamente mediante il segno. In contrapposizione agli aspetti qualitativi del segno (Primità in senso stretto), la relazione dell’oggetto di segno immediato rappresenta la Primità della Secondità; si concentra sul referente o i referenti del segno a livello di codice. Ovviamente il segno può essere inserito in qualsiasi codice o sistema di segni, verbale o non verbale; e il suo oggetto

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immediato è dato dalla manifestazione esibitiva, ostensiva o verbale (a seconda del codice) del segno. L’interprete vede l’oggetto solamente fintanto che il segno lo riflette. Senza una precedente conoscenza del codice in cui si trova il segno non è possibile conoscere il suo oggetto immediato, tanto meno valicare il santuario interiore della sua significazione più “profonda”.

La traduzione implica almeno due codici: un codice emittente e uno ricevente. Affinché un segno in un codice sia una traduzione di un segno in un altro codice, i rispettivi oggetti immediati non devono essere gli stessi. Poiché l’oggetto immediato è «l’idea su cui è costruito il segno» (MS318:70,1907), in ogni codice viene rappresentato diversamente. L’oggetto immediato sarà soggetto a cambiamenti nella e attraverso la semiosi intercodice della traduzione. In tandem con l’equivalenza sul piano del segno, anche qui la «sameness» non è un requisito necessario, né a microlivello (come, nella lingua, la corrispondenza parola per parola o frase per frase), né a macrolivello (ossia, quello testuale); e anche qui l’equivalenza deve essere intesa in senso lato, come il tipo di «sameness» “ampia” creata attraverso qualsiasi tipo di interpretazione semiosica. Ciò non implica che non sia cruciale per entrambi i segni (quello primario e quello tradotto) dare, mediante i loro oggetti immediati, degli «indizi» [«hints»] (come li chiamava Peirce), il cui studio accurato nei loro contesti deve portare alla stessa idea di base – l’oggetto comune “reale” o “dinamico”, che sta esso stesso all’infuori della relazione segnica e pertanto non è tradotto.

Farò ora un esempio a riguardo. Tradurre l’espressione spagnola cortar el bacalao con un’espressione identica a livello dell’oggetto immediato crea un’equivalenza se l’espressione ricorre, ad esempio, in una ricetta di pesce. Ma se l’espressione si riferisce, in senso figurato, alle strutture di potere, l’identità a livello dell’oggetto immediato sarebbe un’interpretazione errata e una distorsione della realtà dei fatti indicati dal e nel codice. L’oggetto immediato è perciò un criterio di significato referenziale, ma che necessita di essere integrato da informazioni contestuali. Normalmente un segno non funziona nel

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vuoto, ma è inserito in un ambiente comunicativo che fornisce indicazioni linguistiche, referenziali, ideologiche ecc. per una corretta interpretazione. È solo all’interno di un contesto del genere che l’interprete può essere portato dall’oggetto immediato verso l’oggetto dinamico – il sentimento, la cosa, l’evento, il fenomeno, il pensiero o il concetto reale che crea la relazione segnica ma ne rimane indipendente.

L’oggetto dinamico stesso è assente e rimane all’infuori dell’evento semiosico. È il Secondo sotto l’aspetto della Secondità; e, in quanto “doppio Secondo”, è conoscibile solamente attraverso l’oggetto immediato, che, come accennato, è la forma percepibile esteriore in cui l’oggetto si manifesta nel segno. Per riuscire a capire l’oggetto dinamico di un segno si può solo provare a intuire, studiare e cercare di capire cos’è implicato dall’oggetto immediato. Ciò richiede, secondo Peirce, «esperienza», «osservazione collaterale» (reale o immaginaria) e doti come «fantasia e pensiero» (MS318:77,1907). L’oggetto dinamico corrisponde al totale ipotetico della somma di tutte le circostanze dell’oggetto immediato legato ai segni, il cui segno primario e segno tradotto sono due circostanze espresse in (sotto)codici diversi più che con oggetti immediati diversi.

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«Nessuno può comunicare un’informazione a un’altra persona senza riferimenti a esperienze comuni con la persona a cui ci si rivolge» (NEM3,2:770,1900). Come ogni altra forma di comunicazione, la traduzione è un’azione di segni all’interno di un universo fisico di interazione sociale. L’esistenza di un terreno d’esperienza comune è un elemento cruciale per la comunicazione: senza di questa l’accesso alla conoscenza di ciò che il messaggio davvero significa (il suo oggetto dinamico) è bloccato. Più l’esperienza collaterale è condivisa liberamente e direttamente con l’interlocutore in una situazione comunicativa, tanto più efficiente è la comunicazione. Peirce ha scritto:

Entro in un negozio di mobili e dico che voglio un «tavolo». Mi baso sul presupposto che io e il negoziante abbiamo vissuto esperienze reattive che, per quanto diverse, sono state talmente collegate da esperienze reattive da renderle quasi le stesse, cosicché «tavolo» gli suggerisce, così come a me, un mobile con una superficie piana di un’altezza a cui una persona ci si possa comodamente sedere a lavorare. (NEM4:259,c.1904)

In altre parole, «quando ci sono sia un parlante, sia un’interprete, [l’oggetto dinamico del segno] è quello che il parlante ha in mente, ma che non gli occorre esprimere perché sa bene che l’interprete capirà che si sta riferendo a quello senza che lo dica» (MS318:69,1907).

Per lo stesso motivo, affinché la comunicazione intercodice sia efficace, è essenziale che coloro che stanno comunicando, sebbene appartenenti a codici diversi, abbiano acquisito e posseggano, anche implicitamente, una conoscenza comune dei fenomeni del mondo nelle loro differenti espressioni semiotiche.

Ovviamente, è più semplice arrivare a conoscere un oggetto dinamico che abbia una relazione indicale con il segno che non uno che sia un’icona o un simboloxi. Ciò che questi

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ultimi hanno in comune e che li distingue dai Secondi è la loro generalità. I segni i-

conici mostrano possibili attributi, non collegati tuttavia ad alcunché di esistente; i segni simbolici danno regole generali, applicabili ma non ancora applicate a un caso particolare; mentre i segni indessicali sono istanze di segno che rappresentano icone e sono governati da simboli.

Ora, sebbene il segno primario e il segno interpretante tradotto abbiano oggetti immediati differenti, i loro oggetti dinamici dovranno sempre essere esattamente gli stessi, per lo meno idealmente. Tuttavia, anche la loro identità è relativa, essendo comunque in parte il risultato di un’interpretazione, di una procedura inferenziale. In altre parole, la relazione tra i due deve essere mediata da una semiosi che renda possibile per l’uno essere una conseguenza logica dell’altro. Prima di imbarcarci in un’ulteriore analisi dell’argomento cercherò di spiegare da un punto di vista leggermente diverso la connessione tra rappresentazione dei segni e interpretazione dei segni.

Ampiezza, profondità, informazione

Le relazioni di “stare per” e “stare a” del segno devono essere considerate assieme a uno scopo preciso: introdurre una serie di concetti che, sebbene siano ancora connessi al segno e al codice in cui è inserito, sono specificamente attinenti alle sue relazioni esterne. A questi concetti si è dedicato Peirce quando era un giovane lettore all’università, in modo particolare nel suo saggio Upon logical comprehension and extension (W1:454-471, 1886xii). Non provo nemmeno a dare un resoconto esaustivo del pensiero di Peirce qui, ma mi limito alle idee direttamente legate al tema principale.

Seguendo una tradizione che si perpetua da lungo tempo, Peirce ha affermato nella Lowell Institute Lecture VII sopraccitata che una parola (o qualsiasi altro simboloxiii) ha due

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diverse dimensioni logiche che, come da lui dichiarato in un manoscritto successivo, «sono ugualmente applicabili . . . a . . . tutti i tipi di segno» (MS200:49,1907). Una di queste dimensioni logiche è l’«estensione», «denotazione» o «ampiezza»; l’altra è la «comprensione», «connotazione» o «profondità». Nonostante questi concetti siano espressioni standard della logica sin dai linguisti di Port Royal, è sempre mancata loro una designazione precisa. Peirce ha proposto di adottare, come definizioni più funzionali, ampiezza e profondità logica.

L’ampiezza logica, o denotazione, di un termine mette il termine in relazione al mondo. Indica gli individui o oggetti (reali) a cui il termine si riferisce e che causano il suo uso. La profondità logica, o connotazione, si riferisce al contenuto di significato di un termine, gli attributi o le qualità che gli possono essere attribuiti, alle «possibilità che si immaginino o si giudichino essere realizzate» in quegli individui (MS200:49,1907). La parola non solo costringe una mente interpretante a riconoscere la cosa, il fenomeno, l’evento o la relazione da essa indicata o designata, ma viene anche formata e influenzata dal suo designatum, o oggetto; e, infine, «Tutto deve essere compreso o più rigorosamente tradotto con qualcosa (W1:333,1865). Si noti, tuttavia, che i due aspetti non sono ugualmente importanti: «Ogni simbolo denota connotando» (W1:272,1865), ha scritto Peirce, e «La denotazione è creata dalla connotazione» (W1:287,1865). Mentre entrambi gli aspetti della parola sono essenziali, la profondità, in quanto si riferisce all’azione che arricchisce il segno, ha priorità rispetto all’ampiezza, l’aspetto indicativo del segno. Come Peirce ha affermato successivamente (in una lettera non pubblicata alla sua ex allieva Christine Ladd-Franklin), «La profondità del segno non sembra essere altro che il suo sé migliore. Il segno è legato alla sua profondità . . . come un’idea a un ideale, come la memoria all’allucinazione vivida. . .» (MSL237:187,1902).

L’ampiezza logica fa a sua volta riferimento all’oggetto e la profondità logica nell’altro senso all’interpretante. Questi elementi duali nel segno producono quella che

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Peirce ha chiamato «informazione»xiv. Ogni qual volta un segno viene interpretato, «produce sempre un aumento dell’estensione [denotazione, ampiezza] o della comprensione [connotazione, profondità] senza una corrispondente diminuzione dell’altra quantità» (W1:464, 1866). Per informazione Peirce intendeva la«quantità della comprensione [connotazione, profondità] che un simbolo ha e i limiti della sua estensione [denotazione, ampiezza]» (W1:287,1865). E aumento dell’informazione di un segno si risolve in «un incremento del numero di termini equivalenti a quel termine» (W1:287,1866). Ciò accade ogni volta che viene prodotto un nuovo equivalente; in altre parole, in ogni atto di traduzione/interpretazione del segno è generata nuova conoscenza (ossia, Terzità)xv.

Il seguente passo da Peirce, preso da un’opera successiva, può servire a chiarire quanto appena analizzato:

Un simbolo, una volta in essere, si diffonde tra i popoli. Nell’uso e nell’esperienza, il suo significato cresce. Parole quali forza, diritto, ricchezza, matrimonio hanno per noi significati molto diversi da quelli che avevano per i nostri antenati barbari. (CP:2.302,c.1895)

Prendiamo, ad esempio, l’occasione in cui, nella giurisprudenza, un giudice prende una decisione che crea un nuovo precedente in un certo tipo di caso; oppure, quando, nel diritto romano, si aggiunge una nuova legge al corpus delle leggi. Ciò che si verifica allora è un aumento delle informazioni. Il termine «diritto» può essere applicato a un nuovo oggetto, ma le sue caratteristiche di base rimangono le stesse. Di conseguenza, è aumentato in ampiezza, senza però aumentare in profondità. O immaginiamo una sposa novella convertita all’Islam rinchiusa in un harem. Il suo concetto di «matrimonio» ha probabilmente subito un cambiamento notevole. Sebbene l’istituzione matrimoniale sia la

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stessa che conosceva prima, ad essa è stata aggiunta una serie di nuove caratteristiche. Il termine «matrimonio» è rimasto costante nell’ampiezza, ma la sua profondità è aumentata. Anche in questo caso, le informazioni sono aumentate. «Diffondendosi tra i popoli» (CP:2.302,c.1895) (ossia, venendo interpretate, tradotte), le caratteristiche semiotiche dei simboli (parole, concetti ecc.) si sono sviluppate e ampliate.

L’equivalenza significazionale

Ispirato da questi pensieri e da altri simili, Peirce ha “inventato” il concetto di interpretante come lo vedeva lui:

Il processo di ottenere un equivalente da un termine è proprio un’identificazione di due termini precedentemente diversi. È, di fatto, il processo di nutrizione di termini mediante il quale questi ottengono tutta la loro vitalità e il loro vigore e producono un’energia quasi creativa – poiché essa ha l’effetto di ridurre il caos dell’ignoranza al cosmo della scienza. Ciascuno di questi equivalenti è la spiegazione di ciò che è avvolto in quello primario – sono i surrogati, gli interpreti del termine originario. Sono nuovi corpi, animati da quella stessa anima. Io li chiamo gli interpretanti del termine. E definisco la quantità di questi interpretanti informazione o implicazione del termine. (W1:464-465,1866)xvi

Dal punto di vista della logica evolutiva di Peirce, ogni traduzione rende l’implicito più esplicito, implicando così maggiori informazioni. Ciò è espresso chiaramente dalla sua affermazione «un segno è qualcosa conoscendo il quale si conosce qualcosa in più» (PW:31-32,1904). La crescita della conoscenza è accompagnata dall’aumento dell’ampiezza o della profondità. Non influisce sui fatti significati, né sui caratteri a essi attribuiti, che potrebbero essere veri o falsi (NEM:241,c.1904). Ma quando due segni sono equivalenti, denotano le stesse cose e hanno la stessa ampiezza logica. Possono dipendere, per il loro valore di verità, da una particolare profondità connotativa (come accadeva con l’interpretazione) oppure solo da quest’ampiezza denotativa.

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L’interpretante dovrebbe indicare le stesse cose o gli stessi fatti del segno primario e significare quelle cose e asserire quei fatti in modo simile. Ma è poco probabile che entrambe le relazioni rimangano costanti e invariate nel corso del tempo – in altre parole, nel corso di una serie di eventi semiosici di natura inferenziale. L’equivalenza, nel senso più

stretto, tra segno e interpretante è quindi logicamente impossibile: soffocherebbe la crescita della conoscenza, e questa crescita è esattamente il succo della produzione e dell’uso dei segni. Essendo per Peirce il nostro intero universo umano «perfuso, se non composto esclusivamente, di segni» (CP:5.448,n.1,1905), comunichiamo mediante segni, di cui produciamo un flusso costante di nuovi interpretanti, che interpretiamo ancora, e così via. Durante quest’infinito processo inferenziale vengono costantemente proposte, provate, soppesate, accettate, negoziate, difese, ignorate, tenute di riserva, rifiutate, ecc. nuove significazioni (e quindi nuovi valori di verità)xvii. Perciò all’oggetto è aggiunta nuova conoscenza. Conformemente alla massima pragmatica di Peirce, lo scopo ultimo di quest’esercizio rimane tuttavia ottenere una conoscenza totale del significato di un segno. Per riuscirci bisogna perseverare nel creare sempre nuove interpretazioni/traduzioni del segno, in modo da accedere, mediante il segno e il suo oggetto immediato, alla prima causa del segno, l’oggetto dinamico. Nell’ultima analisi, la traduzione, linguistica o di altro tipo, riguarda il mondo in cui viviamo, reale o immaginario, e le miriadi di modi in cui ne ricaviamo un senso creando equivalenti significazionali suoi e delle sue partixviii.

Il processo traduttivo

Vediamo un altro esempio di un problema della teoria della traduzione per cui è possibile trovare una soluzione inserendolo nella cornice della teoria

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peirciana dei segni. Il processo traduttivo stesso è stato spesso ma discutibilmente ipotizzato come uno scenario cronologico che comprende tre dei quattro stadi. Sarebbe interessante esaminare la natura e il ruolo di questi stadi alla luce del processo interpretativo di Peirce, da lui sistematicamente descritto come un processo di ragionamento triplice consistente nella produzione di tre successivi interpretanti.

In riferimento agli studi del processo traduttivo in sé, Toury avanza le seguenti con-

siderazioni che invitano alla cautela:

Poiché sappiamo molto poco dei meccanismi psicologici interni implicati nella traduzione, ogni singolo atto di questo tipo di attività assume la posizione di “scatola nera”, ossia un sistema aperto la cui struttura interna può essere indovinata o ricostruita per tentativi solo sulla base delle relazioni tra le entità stabilite come suoi input e output. (Toury 1986:1114)

Ora, più che un segno di umiltà intellettuale, le precedenti considerazioni mi sembrano richiedere un approccio peirciano verso il fenomeno della traduzione. È risaputo che Peirce, il logico, si opponeva radicalmente allo psicologismo – intendendo con ciò la dipendenza della semiotica dalla psicologia. Secondo lui, lo studio dell’azione dei segni non richiede una conoscenza dell’esatto meccanismo della mente umana. Questo non significa che Peirce ritenesse che la mente in quanto agente pensante (cioè, processore del segno) fosse irrilevante per la sua logica; piuttosto, è vero il contrario. «I am using mind», ha scritto Peirce tra il serio e il faceto,

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. . . as synonym of Representation; and mind that this mind is not the mind that the psychologists mind if they mind any mind. I think they mainly talk about consciousness, in the sense of the first category, and hypothetical arrangements in the brain3. (MS478:157,1903)

Invece della Primità, Peirce, il logico, ha studiato la Terzità; «Non il processo psicologico, ma la funzione logica» (MSL237:126,c.1900); non i contenuti della ‘scatola nera’, ma i processi inferenziali che portano dalle premesse alle conclusioni. Questi processi sono stati da lui chiamati i «modi di azione dell’anima umana» (CP:6.144,1892). Per Peirce, ogni pensiero intende mostrare come un segno porti razionalmente a un altro, significando così crescita e sviluppo. Essendo questo il principale oggetto di studio di Peirce, difficilmente egli avrebbe teso a imbarcarsi in seri studi sul fallimento, il deragliamento o la paralisi dei processi mentali, come sarebbe stato d’interesse per uno psicologoxix.

Ai fini della presente argomentazione è fondamentale ricordare che la semiotica così come la concepiva Peirce concerne la relazione logica tra un particolare segno da un lato, e il suo interpretante o segno tradotto dall’altro; e anche che questa relazione si può definire abduttiva, induttiva o deduttiva. Poiché il processo traduttivo è un processo mentale non aperto allo scrutinio diretto, Toury sembra sostenere (almeno nella suddetta citazione) che possa essere spiegato con l’abduzione. Mentre questa costituisce un’affermazione assolutamente valida, per Peirce sarebbe probabilmente stato un modo “pessimistico” di trattare i fatti della materia. Nonostante si basino sulle congetture istintive, le ipotesi abduttive sono spesso giustissime nelle loro spiegazioni dei fatti, pertanto il loro valore di verità non dovrebbe essere considerato troppo alla leggera. Inoltre, sbalzi abduttivi richiedono la verifica induttiva, la ricerca dei fatti mediante «esperimenti che portano alla luce i fatti stessi cui l’ipotesi alludeva» (CP:7.218,1901). Infine, l’induzione prepara il terreno per la deduzione, dato che lo sviluppo delle leggi regola i fatti e dà loro uno «scopo

3 Questo passo è stato lasciato in inglese affinché non venisse meno il gioco di parole con «mind» [NdT]. 68

o una fine» (MS292:13,c.1906). Per l’argomento in questione, le questioni sollevate da Toury sono tempestive, perché i tre tipi di ragionamento dipendono direttamente dalle categorie e devono essere considerati gli equivalenti, nella relazione logica dei segni, dei tre tipi di interpretanti logici che corrispondono alle tre fasi del processo traduttivo. Questo argomento sarà discusso nei paragrafi successivi.

Introduciamo prima, punto per punto, alcune delle idee riguardo alle fasi della traduzione, come profferite da diversi studiosi. In uno spirito molto orientato verso la prassi, Koller (1992:203-204) distingue tra tre «Arbeitsstufen4»: la «Rohübersetzung5» o traduzione a vita breve, l’«Arbeitsübersetzung6» o traduzione a vita media e la «druckreife Übersetzung7» o traduzione a vita lunga. I criteri di Koller sono qualitativi e corrispondono a una scala crescente di «Genauigkeit, Richtigkeit und Adäquatheit», accuratezza, correttezza e adeguatezza (Koller 1992:204). Come spiegato da Koller, la prima fase produce una prima stesura della traduzione a scopo e uso limitato. Il suo focalizzarsi sulla «Genauigkeit» o accuratezza significa che ci deve essere «Identität des Inhaltes8», ma in questa fase vengono ancora accettate violazioni delle regole morfologiche, sintattiche, fraseologiche, lessicali, stilistiche ecc. In una seconda fase della traduzione, vengono richieste «Genauigkeit und Richtigkeit», accuratezza e correttezza; può non contenere errori grammaticali, lessicali o stilistici. Infine, la traduzione «pronta per la stampa» di Koller è caratterizzata dalla triade «Genauigkeit, Richtigkeit und Ädequatheit» – accuratezza, correttezza e adeguatezza. Prodotto di solida ricerca e seria riflessione, è tesa a soddisfare le più alte norme e aspettative. Bisogna notare, tuttavia, che la progressione da, per così dire,

4 «Livelli di lavoro» [NdT]
5 «Traduzione appena abbozzata» [NdT]
6 «Traduzione di servizio» [NdT]
7 «Traduzione pronta per la stampa» [NdT] 8 «Identità del contenuto» [NdT]

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fedeltà all’originale ad accordo con il codice ricevente e infine accordo del tipo di testo tra prototesto e metatesto, imposta priorità singolarmente relative. Le tre fasi proposte da Koller per descrivere la qualità del lavoro del traduttore possono essere definite solo in relazione l’una con l’altra. Qui mancano criteri esterni di valutazione. Ciò riduce sensibilmente l’utilità del processo trifasico di Koller all’infuori della pura pratica della traduzione e della pedagogia.

Con alcune “speculazioni teoriche” necessarie, Toury propone una rappresentazione schematica della traduzione composta da quattro fasi:

(1) un’indispensabile scomposizione dell’entità iniziale fino a un certo livello variabile e l’assegnazione dei suoi costituenti a questo livello dello stato di “caratteristiche”;
(2) una selezione delle caratteristiche da mantenere, ossia l’assegnazione di rilevanza ad alcune parti delle caratteristiche dell’entità iniziale, da un punto di vista o un altro;

(3) il trasferimento delle caratteristiche rilevanti selezionate verso (un o più di un) confine semiotico più o meno definito.
(4) la (ri)composizione di un’entità risultante attorno alle caratteristiche trasferite, assegnando loro allo stesso tempo lo stesso o un altro livello di rilevanza. (Toury 1986:1114)

A differenza della proposta pratica di Koller che descrive la qualità del prodotto finito, il programma di Toury è altamente teorico e orientato verso un processo. Prerequisito di ciò è che il testo ab quo possa essere diviso in unità discrete, alcune delle quali possono quindi essere considerate pertinenti «da un punto di vista o un altro» (significative, in gergo semiotico) mentre altre non pertinenti (in quanto non significative). Solo le prime vengono quindi transcodificate, mentre il destino delle altre unità, evidentemente eliminabili, nella proposta di Toury rimane piuttosto oscuro.

Mi sembra quasi che nessuna parte del segno di un testo possa essere camuffato 70

senza praticare alcuna forma di erosione, mediante la quale la sostanza semiotica, nelle successive semiosi a cui è sottoposta, viene assottigliata anziché diventare sempre più ricca di contenuto, come vorrebbe Peirce. La nozione di pertinenza brandita da Toury è davvero un’arma pericolosa e indiscriminata. Potendo avere sia una deformazione ideologica, sia una intuitiva, o anche entrambe, lo scenario di Toury sembra più adatto a rispondere ai bisogni retorici che a portare al summum bonum, la verità così come la vedeva Peircexx.

In After Babel, Steiner propone un quadruplice «movimento ermeneutico, l’atto di elicitazione e di trasferimento appropriativo del significato» (Steiner 1975:296), che nella sua descrizione consiste in realtà in tre fasi e in una quarta fase illusoria. Nella prima fase c’è, secondo Steiner, «fiducia iniziale» nella significatività dell’«‘altro’ come alterità di affermazione non ancora sperimentata e mappata» (Steiner 1975:296) nel testo da tradursi. Tale «fiducia» «sarà normalmente istantanea e non controllata, ma ha una base complessa» (Steiner 1975:296). Dopo quella che assomiglia alla descrizione della Primità di Peirce, Steiner procede alla seconda fase della traduzione, in cui la fiducia iniziale è messa alla prova con il confronto, e la «manovra della comprensione [diventa] esplicitamente invasiva ed esaustiva» (Steiner 1975:298). Il testo è ora attaccato, per così dire, nella sua “alterità”, in un atto di aggressione in cui «‘rompiamo’ il [suo] codice . . . lasciando il guscio in frantumi e gli strati vitali spogliati» (Steiner 1975:298). Ora, ciò assomiglia notevolmente alla Secondità di Peirce. «La terza mossa» continua Steiner «è incorporante, nel senso forte della parola . . . incorporazione . . . [A]rriviamo a incarnare energie e risorse del sentire alternative» (Steiner 1975:298-299). Quest’ultimo processo di «appropriazione globale» può determinare un «addomesticamento completo, un sentirsi a casa» della traduzione nella sua nuova situazione; oppure la traduzione potrebbe avere acquisito in tale situazione una «stranezza e [una] marginalità permanente» (Steiner 1975:298). Il fatto che una traduzione possa funzionare sia come «assunzione sacramentale», sia come il suo contrario – un’«infezione» (Steiner 1975:299) – significa,

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per il critico, che manca ancora della

. . . sua quarta fase, il colpo del pistone, per così dire, che completa il ciclo. Il movimento a priori della fiducia ci fa sbilanciare. Ci “sporgiamo” verso il testo che ci viene incontro . . . Accerchiamo e invadiamo cognitivamente. Torniamo a casa carichi, ossia di nuovo sbilanciati, avendo causato squilibrio in tutto il sistema portando via dall’“altro” e aggiungendo, anche se forse con conseguenze ambigue, al nostro. Il sistema è ora squilibrato. L’atto ermeneutico deve compensare. Se è autentico, deve mediare nello scambio e restaurare la parità. (Steiner 1975:300)

Avendo raggiunto questo nuovo stato di sintesi, il modello di Steiner è di nuovo al punto di partenza. Sebbene Steiner non si porrebbe sicuramente sotto l’insegna dei semiotici – nessuna –, il suo «movimento ermeneutico» assomiglia molto alla semiosi, e il suo

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scenario a fasi descritto sopra è curiosamente reminescente, concettualmente e sotto altri aspetti, della successione peirciana di tre momenti interpretativi che si manifestano nel primo (interpretanti immediati/emozionali), nel secondo (interpretanti dinamici/energetici) e nel terzo (interpretanti finali/logici) – quest’ultimo a sua volta suddiviso, secondo Short (1986a:115), in un interpretante logico «non definitivo» e in uno definitivoxxi.

La traduzione, almeno nelle sue varietà linguistiche, tratta di segni interpretabili con interpretanti logici; è un processo “pragmatico” per dare un senso a concetti intellettuali, o segni di Terzità. La soluzione di problemi mentali, della quale la traduzione sarebbe un caso esemplare, avviene secondo Peirce in tre fasi , forse parzialmente sovrapposte, a cui si è giunti deduttivamente, che mostrano un crescente grado di «hardness» o solidità di convinzionexxii. Quando incarnato in una traduzione vera (e quindi osservabile), tangibile (e quindi controllabile), questo concetto può fungere da norma di qualità vagamente simile ai sopraccitati tre gradi di «accuratezza, correttezza e adeguatezza» (Koller 1979:94) di Koller. Questa difficilmente è una coincidenza, poiché la logica di Peirce è una scienza normativa (Ransdell 1981:201-202n;Fisch 1986:269ff.) – benché in un senso più “tecnico” rispetto a quello inteso da Koller – e la traduzione considerata nei suoi aspetti non descrittivi diretti alle prestazioni è ugualmente processuale e, allo stesso tempo, governata da norme.

Primo, secondo e terzo interpretante logico

Il primo della serie degli interpretanti logici emerge nel momento in cui ci troviamo di fronte a situazioni problematiche di natura intellettuale, come una convinzione fugace, una mera serie di sensazioni che nascono

. . . quando a un forte ma più o meno vago senso di bisogno si 73

sovrainduce una qualche esperienza involontaria di natura suggestiva; quell’essere suggestiva che ha una certa relazione occulta con la struttura della mente. Possiamo ipotizzare che sia lo stesso delle idee istintive degli animali; e le idee dell’uomo sono tanto miracolose quanto quelle dell’uccello, del castoro e della formica. Poiché una percentuale non indifferente di essi si sono rivelati le chiavi dei grandi segreti. (CP:5.480,c.1905).

Per risolvere o spiegare il problema viene formulata una congettura o ipotesi. Peirce ha fatto un felice parallelo tra questa prima fase euristica di indagine scientifica e il «Pure Play of Musement», o fantasticheria intellettuale (CP:6.452ff.,1908). Nel processo traduttivo ciò corrisponderebbe alla fase più istintiva che razionale quando il segno del testo penetra per la prima volta in una mente recettiva. La mente di un traduttore allenato inizierà allora, spontaneamente e con facilità, a generare un flusso di idee. Questa traduzione improvvisata potrà essere una bozza frammentaria e incerta, forse; eppure è un nuovo segno suscettibile di fungere da punto di partenza della semiosi successiva.

Mentre negli animali «le condizioni sono relativamente costanti e non c’è un ulteriore progresso» (CP:5.480,c.1905), negli umani i primi interpretanti ipotetici possono essere ulteriormente sviluppati, avviando un processo di crescita delle idee. L’interpretante logico successivo è un prodotto di ciò che Peirce chiamava «il pizzico di freddo dubbio che risveglia il sano giudizio del meditatore» (CP:5.480,c.1905), e si esprime nella sperimentazione, nel soppesare i pro e i contro. In questa fase le ipotesi di lavoro vengono testate e verificate mediante un giudizio fondato. Nella situazione traduttiva, le ipotesi più o meno felici vengono ora messe sul tavolo operatorio e analizzate a mente fresca. Il risultato è “una” traduzione che fornisce “una” soluzione al problema. Al meglio offre una buona soluzione, che è efficace nella situazione comunicativa intesa e ha un senso (ossia, è

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significante) nella cultura ricevente. Ma al peggio può essere presa con sentimenti contrastanti, shock o persino un rifiuto.

Con il tempo e il duro lavoro, una mente allenata produrrà un terzo interpretante logico come soluzione quasi perfetta mediante la quale la semiosi potrebbe giungere a tutti gli effetti a un punto morto (magari temporaneo). Tale traduzione ideale avrà trovato il proprio habitat naturale nella situazione ricettiva, perdendo così la sua «percussivity» acuta (NEM4:318,c.1906). Poiché la nuova configurazione non presenta più problemi ed è diventata più o meno armoniosa, la mente cessa di essere nello «stato [di] attività . . . mescolato alla curiosità» (NEM4:318,c.1906) dal quale è stimolata a trovare ulteriori segni- interpretanti.

Questo status quo ideale, tuttavia, non dovrebbe mai diventare un attraente rifugio in una qualche fissità artificiale. Il terzo interpretante logico esprime sì una solida convinzione, ma è comunque un pensiero-segno, e il suo scopo principale è quindi rimanere vivo e mantenere la propria efficacia comunicativa nel tempo. Ignorare il suo bisogno di crescita sarebbe una forma di “antichismo”. Il giudice della finalità di ogni interpretante deve sempre essere la comunità sociale, o communis opinio, le cui norme sono naturalmente modificabili. Sebbene a questo punto la semiosi possa aver perso la propria incisività, il processo traduttivo ha raggiunto un momento non ancora definitivo. La sua finalità apparente non è altro che una tappa intermedia.

Per questa ragione è possibile, anzi fondamentale, far compiere al processo semiosico un ulteriore passo cruciale e considerare che il fuoco semiosico è suscettibile di ravvivarsi in ogni momento, per quanto distante o utopico. Il segno verrebbe quindi chiamato ad adempiere all’esplosivo compito di generare la sola, infallibile abitudine con cui la semiosi giungerebbe definitivamente a termine. Quest’interpretante logico definitivo incarnerebbe la norma-verità finale e non verrebbe quindi più inserita nella relazione triadica che caratterizza il segno di Peirce. Una traduzione che pretendesse di dare risposte

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definitive, è, tuttavia, un allarmante ossimoro, un segno sicuro che la cultura stessa, ad esempio per un qualche evento catastrofico, è giunta alla finexxiii. Ciò renderebbe la vera produzione di una traduzione davvero definitiva una questione terminale, o un segno della morte del segno (CP:5.824=W2:224,1868).

Il ruolo del traduttore

Il prossimo e ultimo punto che verrà discusso è il ruolo del traduttore nel processo traduttivo. Spesso non si è dato il giusto peso al reale lavoro del traduttore, figura talvolta criticata e ridicolizzata, talaltra valorizzata e idealizzata. Il traduttore tecnico è stato essenzialmente visto come un artigiano, e il suo lavoro come una forma di abilità – difficile, forse, ma non una specializzazione impossibile da padroneggiare. Sull’altro piatto della bilancia, il traduttore letterario, e in particolare quello poetico, è stato elevato (o si è elevato) all’interessante status di artista creativo di diritto. Questa dicotomia ha creato un potente mito attorno alla figura del traduttore, che è stato investito, anzi infestato, con immagini quali il copista, l’accolito, lo schiavo, l’amanuense, l’appassionato di bricolage, il ricreatore, il mediatore o altre metafore atte a sminuire o a ingrandire la performance personale del traduttore.

Alla luce di questi ambigui giudizi sulla persona professionale e i talenti del traduttore e sul suo ruolo nel processo traduttivo, vorrei esaminare il traduttore in termini della semiotica di Peirce, per affermare che, nel complesso, l’impatto personale del traduttore sul processo traduttivo sembra forse essere stato soggetto a un’inflazione esagerata– sia “ascendente”, sia “discendente”. Questa è almeno la direzione (si spera più

realistica) in cui ci indirizza la dottrina dei segni di Peirce. 76

Il traduttore in quanto comunicatore ha un duplice ruolo. Incarna sia il destinatario (o uno dei destinatari) del messaggio originale, sia il destinatario del messaggio tradotto; sia l’interprete, sia l’enunciatore; sia il paziente che interpreta il segno primario, sia l’agente che enuncia il metasegno tradotto. In termini semiotici, al traduttore è assegnata sia la relazione “di stare per”, sia quella di “stare a”, e così monopolizza l’intero processo di manipolazione dei segni in cui la traduzione consiste. Le seguenti affermazioni di Peirce

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sembrano indicare implicitamente la situazione del traduttore: «. . . non sono necessarie due menti separate per il funzionamento di un segno . . . [D]ue menti in comunicazione sono, fino a una certa misura, ‘d’accordo’, cioè sono propriamente una sola mente in quella parte di esse» (MS283:107,1905-1906); «Nel Segno sono, per così dire, saldati» (CP:4.551,1906).

Ora è noto che Peirce considerasse che «né un enunciatore, né, forse, nemmeno un interprete sono essenziali per un segno, essendo entrambi caratteristiche del segno» (MS318:58,1907). Sebbene la semiosi sia per Peirce un’azione triadica ed egli non avesse esplicitamente incluso una quarta o quinta componente del genere oltre al segno, il suo oggetto e l’interpretantexxiv, ciò non significa che Peirce non abbia riconosciuto l’esistenza dell’uno o dell’altro. In realtà lo ha fatto ripetutamente, ad esempio quando ha affermato che nel momento in cui un segno (verbale) viene prodotto, «c’è davvero un parlante, uno scrivente o un altro produttore di segni che lo enuncia, e suppone che ci sia, o che ci sarà, un ascoltatore, un lettore o un altro interprete che lo riceverà» (CP:3.433,1896); o nella sua citatissima definizione del segno come «qualcosa che per qualcuno sta per qualcosa . . . Si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente . . .» (CP:2.228,1897); o quando Peirce si riferiva alla «conoscenza totale dell’enunciatore (ossia del parlante, dello scrivente, del pensante o di altri agenti simbolizzatori» (CP:5.455,1905).

Si rendono qui necessari degli avvertimenti. In primo luogo, Peirce non aveva in mente, pare, che l’enunciatore e l’interprete fossero esseri umani e nemmeno menti specifichexxv. Ha scritto: «Un segno è qualsiasi cosa possa esistere il cui intento è mediare tra un suo enunciatore e un suo interprete, essendo entrambi depositari di pensiero» (MS318:206,1907; enfasi di Peirce). Stava piuttosto pensando, in modo astratto, a ciò che chiamava «teatri della coscienza» (MS318:55,1907) o «quasi menti»: «i segni necessitano di almeno due Quasi menti; un Quasi parlante e un Quasi interprete» (CP:4.551,1906).

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Peirce affermava come parte centrale della sua teoria dei segni che la semiosi «non solo si verifica nella corteccia del cervello umano, ma deve verificarsi chiaramente in ogni Quasi mente in cui Segni di ogni tipo hanno una propria vitalità» (NEM4:318,c.1906). In secondo luogo, l’interprete pare essere più essenziale all’azione del segno rispetto all’enunciatore. Molti segni non hanno un enunciatore, o per lo meno non emanano da alcun produttore di segni personalizzato e conscio. Per illustrare ciò, Peirce ha citato «segni come sintomi di una malattia, segni del tempo atmosferico, gruppi d’esperienza che fungono da premesse ecc.» (MS318:56-57,1907). Ma un segno non è un segno a meno che non ci sia un interprete che lo interpreti come tale – «capace in qualche modo di ‘coglierlo’» (MS318:205,1907) – per lo meno potenzialmente. Un segno che per qualsiasi ragione non sia mai in grado di essere interpretato non potrà mai essere considerato un segno nel senso semiotico. Terzo, l’enunciatore e l’interprete all’interno della mente del traduttore sono impegnati in una relazione dialettica che si evolve nel tempo, un dialogo, metà interno e metà esterno, in cui il traduttore/enunciatore è subordinato al traduttore/interprete; tuttavia la performance di entrambi i “ruoli” da parte del singolo traduttore è chiaramente dominata da quella del segno-interpretante – cioè l’interpretante che si trasforma di nuovo in segno, o il segno che si trasforma in interpretante.

Al contrario della semiotica linguistica basata sulle teorie di Saussure, con enfasi sulla produzione del segno, la semiotica pragmatica (vale a dire la semiotica nella tradizione peirciana) procede al contrario e si manifesta prima di tutto ed essenzialmente come una teoria dell’interpretazione dei segni. Il segno così come Peirce lo concepisce, a differenza della sua controparte saussuriana, non definita in termini di un enunciatore e/o interprete bensì in termini delle sue relazioni – con sé stesso, con il suo oggetto, con il suo interpretante. Mediante la semiosi, il segno dispiega il suo significato; il suo significato pieno è così conoscibile, «sebbene possa trovarsi solo al termine ideale e infinitamente distante dell’indagine» (Savan 1983:6). L’azione e l’interpretazione dei segni non sono

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necessariamente determinate da un enunciatore o interprete umano: la semiosi di Peirce è un’azione triadica autogenerante. Come tutti i segni semiotici, il testo-segno è una forza vivente alla ricerca attiva della propria realizzazione attraverso una qualche mente interpretante piuttosto che in attesa passiva di essere da essa realizzato, come nel caso della semiotica linguistica. Una ragione per cui il concetto peirciano di testo-segno potrebbe a prima vista sembrare bizzarro è che riduce l’importanza del lettore/interprete/traduttore. In una semiotica del testo di ispirazione saussuriana, quest’ultimo è normalmente visto come il solo soggetto che produce un discorso, l’unica forza che fornisce al testo-segno il suo significato accoppiando signifiant e signifié. Passando invece a un paradigma pragmatico peirciano, la presenza di un interprete è in qualche modo inclusa ma allo stesso tempo privata della sua enfasi.

Ciò significa che il ruolo attivo di mediazione in quel tipo di azione semiosica solitamente chiamata traduzione è svolto non dal traduttore, come si crede comunemente, ma dall’azione autonoma stessa mediante la quale il segno giunge a comprendere il proprio significato. Riguardo al pensiero e alla persona pensante, Peirce ha scritto che è il pensiero che pensa nell’uomo piuttosto che l’uomo nel pensiero (CP:5.289,n.1=W2:227,n.4,1868), e

[L’]idea non appartiene all’anima; è l’anima che appartiene all’idea. L’anima fa per l’idea solo ciò che la cellulosa fa per la bellezza della rosa; vale a dire, [la cellulosa] dà la possibilità a essa [la bellezza]. (CP:1.216,1902)xxvi

Applicato alla teoria della traduzione, questo significa che il traduttore è solo strumentale nel rendere possibile l’azione del segno; è usato (ossia impiegato, influenzato) dal segno. Perciò sarebbe un’interpretazione erronea dei fatti sostenere, come accade generalmente, che il segno è tradotto dal traduttore, perché in realtà si traduce da séxxvii. Il traduttore non si rivolge al testo-segno; è il testo-segno che si rivolge al traduttore. E non gli si rivolge come

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a una persona in carne e ossa ma come a una mente (cioè un segno). Il segno si rivolge, nella memoria dell’interprete, a «un particolare ricordo o immagine» che è «l’equivalente mentale» di quel segno – in breve, al suo interpretante (W1:466,1866). «L’intera funzione della mente è di fare interpretare a un segno sé stesso in un altro segno» (MS1334:44,1905). Naturalmente il traduttore può essere un marxista, una donna, un italiano; ma al momento della traduzione è, se non semplicemente il «sito attraversato dalle parole» postulato da Barthes, sicuramente non un calcolo di sentimenti legati a un’ideologia, al sesso o alla nazionalità. Il testo-segno deve essere visto come un organismo vivente che per sopravvivere richiede una traduzione e che è alla ricerca attiva di una mente recettiva in grado di generare interpretanti; senza reazioni interpretative il testo-segno morirebbe e scomparirebbe.

La rilevanza di questa transazione semiotica per la traduzione automatica è ovvia. Anzi, nel 1905 Peirce ha immaginato la possibilità di una traduzione compiuta da una macchina – non umana ma programmata dalla mente umana. Ha scritto:

. . . se avessimo i macchinari necessari per farla [la traduzione], cosa che forse non avremo mai, ma che è assai concepibile, un libro in inglese potrebbe essere tradotto verso il francese o il tedesco senza l’intervento della traduzione nei segni immaginari del pensiero umano . . . Supponendo che ci fosse una macchina o anche un albero in crescita che, senza l’interpolazione di alcuna immaginazione continuerebbe a tradurre da una possibile lingua all’altra, . . . (MS283:97-98,1905)

Il traduttore è quindi per Peirce essenzialmente un medium passivo nell’attività traduttiva, che egli può influenzare (come «l’albero in crescita» di

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Peirce) solo marginalmente.
Poiché incarna l’idea (sopraccitata) che sia il pensiero a pensare nell’uomo piuttosto

che viceversa (CP:5.289,n.1=227,n.4,1868), il traduttore è «portato, suo malgrado, da

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un pensiero all’altro» (CP:1.384,1890-1891). La mancata enfasi di Peirce sull’interprete personale influisce sulla sua (ancora in parte misteriosa) equazione «l’uomo è un segno» (CP:5.314=W2:241,1868). Nell’aforisma semiotico di Peirce, l’uomo è considerato alla stregua di un simbolo, un processo di comunicazione, conoscenza e apprendimento, proprio come lo è il segno; di conseguenza, tutti i termini coinvolti nel processo semiosico sono segni. Né l’enunciatore, né l’interprete possono fungere da forze autonome sotto l’egida della semiosi. Sono segni convertibili l’uno nell’altro all’interno di questa relazione comunicativa tanto quanto il segno proferito e/o interpretato ha bisogno, in qualche modo, di loro per la sua esistenza. Per lo stesso motivo, segni di tutti i tipi si autointerpretano da soli, l’uomo interpreta l’uomo, l’uomo interpreta i segni e i segni l’uomo, il tutto in un sistema generativo auto-organizzante irreversibile che si rinnova costantementexxviii. Questo rende il processo pragmatico del portare idee (ossia segni-pensieri) in opposizione all’essere portato da esse, in una sorta di relazione contrattualexxix in cui

. . . uomini e parole si istruiscono reciprocamente; ogni aumento delle informazioni di un uomo implica un aumento corrispondente delle informazioni di una parola ed è da esso implicato. (CP:5.313=W2:241,1868)xxx

Mentre «[o]gni enunciato lascia naturalmente il diritto di un’ulteriore esposizione da parte dell’enunciatore» (CP:5.447,1905), allo stesso tempo l’interprete gode di ciò che Peirce ha significativamente chiamato il «privilegio di portare la sua [del segno] determinazione oltre» (CP:5.447,1905). Poiché un termine è incluso in un processo di segni triadico, al traduttore-segno è data solo una libertà limitata di azione interpretativa. Come ha affermato Peirce, «un segno che lascia che il suo interprete lo interpreti a suo piacimento non significherebbe nulla, a meno che il nulla sia il suo significato» (CP:5.448,n.1,1906). Con quest’osservazione sagace ma un po’ maliziosa Peirce non intendeva ovviamente solo dire

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che spesso e volentieri gli interpreti/traduttori, quando lasciati alle proprie risorse, producono assurdità. L’osservazione di Peirce che «la concezione barbara dell’identità personale deve essere ampliata» sottolinea il fatto che

Ogni comunicazione da mente a mente è attraverso la continuità dell’essere. Un uomo è capace di avergli assegnato un rôle – per quanto umile – a patto che si identifichi con il suo Autore. (CP:7.572,c.1892)

Un traduttore nello spirito intellettuale di Peirce conduce quindi un’«esistenza problematica» (CP:2.334,c.1895): non è tanto un individuo esperto che può pretendere di conoscere ogni risposta, quanto uno studente dedito a ciò che si manifesta nella semiosi a cui partecipa. Il vero traduttore peirciano è intrigato, affascinato o disorientato dal segno che ha di fronte, o ne è persino innamorato. Per questo motivo, la mente del traduttore deve essere aperta e incline alla semiosi – vale a dire, impegnata a crescere e coinvolta in un continuo processo di studio. Deve piegarsi incondizionatamente alla forza attrattiva del segno, ispirato da ciò che può essere giustamente chiamato «Amore creativo», in opposizione all’auto-amore (Henry James, padre di William James, citato in Murphey 1961:351;vedi anche CP:6.287,1893).

Le connotazioni erotiche di questo immaginario non sono certo una coincidenza. Servono a evidenziare il fatto che il traduttore sia, in parte, un patito del segno, uno il cui desiderio consiste nella resa incondizionata ai suoi [del segno, NdT] bisogni e desideri, piuttosto che nel cercare all’interno del testo-segno occasioni per dimostrare la propria abilità e il proprio talento. Secondo Peirce, mentre l’amore di sé è un semplice eufemismo dell’ingordigia (CP:6.291,1893), l’amore creativo corrisponde, conformemente all’agapastica teoria peirciana dell’evoluzione che ha le sue radici nel vangelo di Giovanni, al suo «amore evolutivo»,

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. . . che insegna che la crescita arriva solo dall’amore; non direi dall’autosacrificio, ma dall’impulso ardente di soddisfare il più alto impulso di un altro. Supponiamo, ad esempio, che io abbia un’idea che mi interessa. È la mia creazione. La mia creatura; . . . è una personcina. La amo, e mi butterò a capofitto nel suo perfezionamento. Non è infliggendo una fredda punizione al circolo della mie idee che posso farle crescere, ma nutrendole e occupandomi di loro come farei con i fiori che ho in giardino. La filosofia che traiamo dal vangelo di Giovanni è che è così che la mente si sviluppa . . . (CP:6.289,1893)xxxi

Anche questo è sinecismo, il principio evolutivo dell’indagine, che, applicato all’attitudine mentale del traduttore (o di qualsiasi altro studioso), si concentra suoi fatti non come fenomeni isolati, ma come un qualcosa che incarna «un vero continuum . . . le cui possibilità di determinazione non possono essere esaurite da nessuna moltitudine di individui» (CP:6.170,1902). In questo modo, allora, il traduttore prende parte a una cosmologia metafisica nella quale vengono stabilite le potenzialità di significato, le relazioni e le generalità del segno che rifuggirebbero una mente orientata atomicamente.

Spero di aver chiarito che in tandem con questa concezione del ruolo del traduttore come persona che compie disinteressatamente un lavoro d’amore, la traduzione come semiosi trova un’espressione completamente nuova ed emozionante.xxxii

Conclusioni

Un allontanamento dall’approccio linguistico alla traduzione e un ritorno (seguendo Peirce e in compagnia di Jakobson, Steiner e altri) a una prospettiva filosofica sul fenomeno della traduzione rendono la perenne discussione riguardante la «fedeltà» o l’«infedeltà» di una traduzione (come si dice spesso con un tono moralistico) ridondante, e getta una luce

85

completamente nuova sull’epistemologia della sua “verità”. Queste idee non sono più valide in una teoria della traduzione che non punta alla riproduzione del significato (senza, tuttavia,

perdere il suo carattere normativo e finalizzato) ma all’incarnazione e allo spiegamento del potenziale di significato di un segno.

I traduttori accetteranno questo ruolo remissivo e di essere considerati menti vuote ed anonime. Nell’epigrafe di questo capitolo ho citato il vecchio cliché, traduttore traditore9, e i tempestivi commenti di Jakobson in proposito. Forse traditore può essere qui preso positivamente, nel suo senso etimologico10 – che renderebbe il traduttore un trasmettitore neutrale del messaggio. E forse, i traduttori dovrebbero anche sapere e volere sabotare i loro ruoli “tradizionali”, mostrare un comportamento deviante e impegnarsi nel «paradosso» creativo o semplicemente ingannevole «del tradimento per aumento» (Steiner 1975:298), e anche nel tradimento per riduzione o distorsione. Altrimenti ciò che potrebbero produrre sarebbero traslitterazioni, repliche morte dell’originale. Nella misura in cui una traduzione è un mero simulacro serve solo a soffocare la semiosi, poiché tesse trame in cui la somiglianza, o persino la coincidenza, è un motivo ricorrente. La modellazione nella traduzione deve essere speculativa, suggerendo un’ipotesi. Parte dai fatti, ma senza, all’inizio, seguire una particolare teoria. Si prefigge di proporre la costruzione di un modello prognostico, ma deve farlo guidata da una “ragione” istintiva. Questo non è l’ossimoro che a prima vista sembrerebbe. Lasciatemi quindi proporre traduttore abduttore11 come nuovo adagio adatto a riflettere ciò che, in una filosofia

9 In italiano nell’originale [NdT]
10 Il latino «trado» (-is, -dĭdi, -dĭtum, -ĕre) significa «consegnare, affidare, tramandare» [NdT] 11 In italiano nell’originale [NdT]

86

peirciana dei segni, dovrebbe essere la preoccupazione principale del traduttore. Ciò rende forse la semiosi, traduttiva o di altro tipo, un gioco rischioso, ma mai una ricerca banale. Per la traduzione di testi è l’alito della vita.

87

Note

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92

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1
for instance, van den Broeck 1978 and Wills 1977:156-191.

On identity vs. difference, see also Chapter 7. On the problem of translational equivalence, see also,

2
emphasized in 1965 by Catford, thus: “The central problem of translation-practice is that of finding TL [target

The need to define, and thereby delimit, translation equivalence (both in theory and in practice) was

93

language] translation equivalents. A central task of translation-theory is that of defining the nature of conditions of translation equivalence” (Catford 1965:21).

3

Toury also speaks of “some informational core [which] is retained invariant under transformation”

(Toury 1986:1112-1113) and, more specifically, of an invariant core which “may be functional (ad hoc,

textual, or habitual, linguistic and/or text-typological)” or “formal, when . . . the invariant is the linguistic

substance itself” (Toury 1986:1117).

4

In the translational-theoretical context, this is a conclusion also arrived at by Frawley (from a

semiotic but non-Peircian point of view): “Thus, in an interlingual translation, for example, the matrix code

provides the phonological information, the morphological information, the syntactic information, and so on,

to be bound to different semiotic constraints. Hence the notion of identity is actually antithetical to the notion

of translation. There is no meaningful (meaningful ≠ semantic) information except that it is coded, and the

very fact of differential coding militates against ‘exact translation’ . . . [T]here is information only in

difference, and the differential coding, the recoding, is what allows the interlingual translation to produce any

information at all” (Frawley 1984a:168).

5 6

See Chapter 2, especially the section on “Semiotics and translation studies: generalities”.

Even Saussure, the champion of the arbitrary, conventional sign, recognized the existenc of

motivated (or, in his terminology, natural) signs. To address the form of language as having adopted, to some

degree, the form of external reality, is particularly momentous for the study of literature, where a completely

unmotivated sign concept would forbid all reference of the sign to its object. Interestingly, in this context,

Humboldt also composed an art theory, which must fall outside the scope of the present discussion.

7

This idea overlaps, at least to a certain point, with Nida’s principle of “equivalent effect”, which is “not so concerned with matching the receptor-language with the source-language message, but with the dynamic relationship between receptor and message [which] should be substantially the same as that which

existed between the original receptors and the message” (Nida 1964:159). Upon this principle Nida based his well-known dynamic-equivalence (as opposed to formal-equivalence) model.

8
translation; therefore it would be more adequate to use “codes” than “languages” here.

These remarks apply to the products of intralingual and interlingual, as well as intersemiotic

94

9

Jakobson argued that sequential use is made of equivalent units in two cases: “In poetry one syllable

is equalized with any other syllable of the same sequence; word stress is assumed to equal word stress, as

unstress equals unstress; prosodic long is matched with long, and short with short; word boundary equals

word boundary, no boundary equals no boundary; syntactic pause equals syntactic pause, no pause equals no

pause” (Jakobson 1971b:71). A translation of a poem must reproduce such equivalences across the language

barrier. Yet Jakobson continued: “It may be objected that metalanguage also makes a sequential use of

equivalent units when combining synonymic expressions into an equational sentence: A = A (“Mare is the

female of the horse”). Poetry and metalanguage, however, are in diametrical opposition to each other: in

metalanguage the sequence is used to build an equation, whereas in poetry the equation is used to build a

sequence” (Jakobson 1971b:71). Translation is, of course, a typical metalinguistic operation.

10 11

For details concerning Peirce’s concepts, see Chapter 3.

Since language is primarily a symbolic sign-system, this means that experiential knowledge is not

only linguistic but may also be non-linguistic. For Jakobson, however, “The meaning of the word ‘cheese’

cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance

of the verbal code. An array of linguistic signs needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not

teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in

general, or of any cheese, any milk product, any foodm any refreshment, or perhaps any box irrespective of

contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering,

slae, prohibition, or malediction?” (Jakobson 1971b:260-261). Jakobson’s contention here would gain in

clarity and scope by being placed in a broader framework – such as Peirce’s philosophy of signs – which does

not separate linguistic sign from non-linguistic signs, but places the different kinds of mental processes in a

continuum. This point is convincingly argued in Johansen (1993:235-244).

12

13

An expanded version of this lecture has been published in CP:2.391-2.430,1866.

In his earlier period Peirce, the logician, identified “sign” with thought-sign, his “symbol. Following

Peirce, I shall also use “term” in the general sense of “concept”, unrelated to Peirce’s specific understanding

of it, as an alternative to “rheme”.

14

Peirce used the term “information” as a measure of entropy – that is, similar to its modern use. He did 95

this long before the recent development of information theory, of which he must be considered a pioneer.

15
to the “essential”, “informed”, and “substantial” breadth and depth. See also Johansen 1993:147ff.

16 17 18

For a discussion of this crucial passage from a different perspective, see Chapter 5.
More on this in Chapter 10.
Having discussed, in the foregoing, semiotic equivalence in terms of the three elements of the

In reference to this, Peirce proposed three graded states of information, or knowledge, corresponding

semiosic sign-relation – sign-related, or qualitative equivalence; object-related, or referential equivalence; interpretant-related, or significational equivalence –, I need to respond briefly to Johansen’s view on this matter, since it differs somewhat from mine. Johansen (1988:26) includes in his list of partial equivalences, “extensional equivalence” and “significational (or intensional) equivalence”, in addition to what he calls “intentional equivalence” and “rhetorical equivalence”. That Johansen makes no explicit mention here of my qualitative equivalence, but includes instead the perspectives of respectively the utterer and the interpreter, is perhaps a reflection on the fact that he discusses one specific type of signs, namely literary signs. My own view on Johansen’s extension of Peirce’s triadic sign-relation, will become clear later in this Chapter. I may add here that, if I interpret Johansen’s list of four equivalences rightly, his extensional equivalence and my referential equivalence overlap, his intensional (or significational) equivalence corresponds to my own significational equivalence, while my qualitative equivalence seems included in his rhetorical equivalence (but without being identical to it).

19
For a detailed discussion of the relevance of Peirce’s semiotics to psychology, see Colapietro 1989:49ff. and

passim. 20

See also Chapter 10, particularly the section on “Utterer and interpreter in translational semiosis”.

See also Holmes 1988:89. Given the general and rather indeterminate character of Toury’s representation of the translation process here, I may perhaps venture an alternative interpretive suggestion. If by

relevancy is (implicitly) meant the opposite of redundancy in the information-theoretical sense, this makes the “irrelevant” units the non-informative relative waste of the message qua content. Seen from the point of typology, this would then refer to the invariants in the semiotic process – repeatable and thus superfluous.

96

This reductionist approach creates more problems than it solves, because in a semiotic context, invariance is not identical with insignificance, nor is variance the same as significance.

21

For Peirce’s different interpretants see also Chapter 3. Robinson’s (1991:294-296,n.24) criticism of

Steiner contains an interesting point: Steiner is accused of “unwillingness to take a stand on the theoretical

status of his movements”, of not stating clearly “whether they are psychohistorical phases in every translator’s

approach to a text, sociohistorical phases in a culture’s approach to foreign texts . . . or static logical

categories into which specific translations can be classified” (Robinson 1991:295,n.24).

22

clarity are interpreted as connected with the categories.

Peirce himself related to “three grades of clearness” in CP:3.456ff., 1897. See also his essay on “How to make your ideas clear” (W3:257-276,1878). Following Fisch (1986:290,327-329), the three grades of

23

Eco’s semiosic concept of culture as translation or an ongoing process of generating new

interpretants by a society of interpreters (Eco 1979:71) is incompatible with the idea of an ultimate logical

interpretant. I am indebted to Professor Eco for some of the stimulating ideas he put forward during his

lecture on “Drift and unlimited semiosis” at the Institute for Advanced Studies of Indiana University at

Bloomington on July 19,1989. A version of his lecture has been published in The limits of interpretation (Eco

1990:23-43).

24
element of semiosis (which for Morris was a relation between “sign”, “signification”, and “interpretant”).

26

It was not Peirce but Charles W. Morris who first spoke (1938:3) of the interpreter as a fourth

25
PW:81,1908). This issue is also discussed in Chapter 10.

This is also demonstrated by Peirce’s repeated remarks on the “sop to Cerberus” (see, for example,

Liszka (1981:47) affirms that “for Peirce, unlike Kant, the mind is not primarily synthetic, but analytic (1.384), i.e., mind does not constitute experience, but merely analyzes it. The mind gets synthesized rather than serving as the synthesizing agent: ‘Real synthesis occurs when we are carried in spite of ourselves from one thought to another’ (1.384)”.

27
upon similar ideas. The art of archery, for instance, is wholly an affair of “finding one’s cosmic center”.

Eastern martial arts, in which Zen-Buddhist and other meditation systems are an integral part, build

97

Paradoxically to the Western mind, it is not the archer who shoots the arrow: once the “tao”, or moment of inner balance, has been found, the arrow is simply shot from the bow. As the metaphor goes, it leaves the bow as the ripe fruit falls from the tree. Coincidentally or not, Peirce used the same image when he described “that ultimate . . . , definitive, and final interpretant” as “the ripe fruit of the thought”, “attaining the purpose” (MS298:24,1906). And he added: “But this perfect fruit of thought can hardly itself be called thought, since it has no signification and does not belong to the faculty of cognition at all; but rather to the character” (MS298:24,1906). Transposed to a different artistic key, the music is in the instrument, and the player needs only to make him- or herself available to it, for the music to come out.

28 29 30

For a particularly lucid, learned, and provocative study of this, see Merrell 1991.
See Chapter 10.
The same idea, viewed from the side of man as interpreter, is implied in the following quotation: “In

any case, such a Sign [Pheme] is intended to have some sort of compulsive effect on the Interpreter of it . . . It [The Delome] is a Sign which has the Form of tending to act upon the Interpreter through his own self- control, representing a process of change in thoughts or signs, as if to include this change in the Interpreter” (CP:4.538,1906). Note, however, Peirce’s “as if” in the last sentence, which, again, seems to limit the active role of the interpreter in semiosis.

31
horticultural metaphors.

32

In a previous article (Gorlée 1987) I addressed more specifically the meaning of Peirce’s

This concept of the translator displays a striking similarity to the purport of Walter Benjamin’s essay on “The task of the translator”: see Chapter 7. For a full, if more “conservative” discussion of the role of the translator in the translation process, see Wills 1988:41-59. Finally, Bellett (1978) places “translation as personal mode” vis-à-vis” the translator as nobody in particular”: “Both are ploys, impersonations, heuristic deceptions”, this writer argues (Bellett 1978:30), and “The operative word is faith and not fidelity” (Bellett 1978:39). Although these statements sound remarkably Peircian, Bellett refers here to the (un)faithfulness of the translator to the author of the original, not to the translator’s relation to the original
text, nor to the translation process – as Peirce would have it.

i
van den Broeck 1978 e Wilss 1977:156-191.

Su identità/differenza vedi anche cap. 7. Sul problema dell’equivalenza traduttiva vedi anche, p.e.,

ii
pratica) è stato enfatizzato nel 1965 da Catford: «Il problema centrale della pratica della traduzione è trovare

Il bisogno di definire, e quindi di delimitare, l’equivalenza traduttiva (sia nella teoria, sia nella

98

gli equivalenti traduttivi della lingua ricevente. Uno dei compiti fondamentali della teoria della traduzione è definire la natura delle condizioni dell’equivalenza traduttiva» (Catford 1965:21).

iii

Toury parla anche di «un nucleo informativo [che] è mantenuto invariato nella trasformazione»

(Toury 1986:1112-1113) e, più specificatamente, di un nucleo invariante che «potrebbe essere funzionale (ad

hoc, testuale o abituale, linguistico e/o della tipologia testuale)» o «formale quando . . . a essere invariata è la

sostanza linguistica stessa» (Toury 1986:1117).

iv

All’interno della teoria della traduzione, questa è una conclusione a cui è arrivato anche Frawley (da

un punto di vista semiotico ma non peirciano): «Così, in una traduzione interlinguistica, ad esempio, il codice

matrice fornisce le informazioni fonologiche, quelle morfologiche, quelle sintattiche e così via, da legare a

diversi vincoli semiotici. Pertanto il concetto di identità è in realtà antitetica a quella di traduzione. Non ci

sono informazioni significative (significative ≠ semantiche) eccetto che è codificata, e che proprio il fatto del

codificare differenziale è in contraddizione con l’‘esatta traduzione’ . . . [C]i sono informazioni solo nella

differenza, e il codificare differenziale, il ricodificare, è proprio ciò che permette alla traduzione

interlinguistica di produrre informazioni» (Frawley 1984a:168).

v vi

Vedi cap. 2, in particolare la sezione Semiotica e studi sulla traduzione: generalità.

Persino Saussure, il campione del segno arbitrario e convenzionale, ha riconosciuto l’esistenza dei

segni motivati (o, usando il suo termine, naturali). Dedicarsi alla forma di linguaggio come qualcosa che ha

adottato, fino a un certo punto, la forma della realtà esterna, è particolarmente importante per lo studio della

letteratura, in cui un concetto di segno completamente immotivato vieterebbe ogni riferimento del segno al

suo oggetto. In questo contesto, Humboldt ha anche formulato una teoria artistica che prescinde dall’intento

della presente discussione.

vii

tori originali e il messaggio» (Nida 1964:159). Su questo principio Nida ha basato il suo celebre modello di equivalenza dinamica (in opposizione a ll’equivalenza formale).

Quest’idea coincide, almeno fino a un certo punto, con il principio di Nida dell’«effetto equivalente», che non si occupa tanto dell’abbinamento della lingua-ricevente con quello originale quanto della relazione dinamica tra recettore e messaggio [che] dovrebbe essere sostanzialmente la stessa esistente tra i recet-

viii

Queste osservazioni valgono per i prodotti di una traduzione intralinguistica, interlinguistica e

intersemiotica; pertanto qui sarebbe più adeguato usare «codici» al posto di «lingue».

ix

Jakobson ha affermato che l’uso sequenziale consiste in unità equivalenti in due casi: «In poesia una 99

sillaba è equiparata a un’altra sillaba della stessa sequenza; ad accento tonico corrisponde accento tonico e ad atonia atonia; in prosodia, a una lunga corrisponde una lunga, a una corta una corta; ai limiti di una parola corrispondono i limiti di una parola, nessun limite a nessun limite; a pausa sintattica è fatta corrispondere pausa sintattica, a nessuna pausa nessuna pausa» (Jakobson 1971b:71). La traduzione poetica deve riprodurre tali equivalenze attraverso la barriera della lingua. Jakobson ha continuato: «Si potrebbe obiettare che anche il metalinguaggio fa un uso sequenziale di unità equivalenti combinando espressioni sinonimiche in una frase equazionale: A = A («la cavalla è la femmina del cavallo»). La poesia e il metalinguaggio, però, sono diametricalmente opposti l’uno all’altra: nel metalinguaggio la sequenza viene usata per costruire un’equazione, mentre nella poesia viene usata per costruire una sequenza» (Jakobson 1971b:71). La traduzione è, naturalmente, una tipica operazione metalinguistica.

x xi

Per dettagli sui concetti di Peirce vedi cap. 3.

Poiché la lingua è primariamente un sistema di segni simbolici, ciò significa che la conoscenza data

dall’esperienza non è solo linguistica ma può anche essere non linguistica. Per Jakobson, tuttavia, «il

significato della parola ‘formaggio’ non può essere inferito da una conoscenza non linguistica di cheddar o

camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola non familiare è necessaria una serie di

segni linguistici. Il semplice indicare col dito non ci dirà se «formaggio» è il nome specifico di quel

formaggio, della confezione di camembert, del camembert in generale o di tutti i formaggi, di tutti i latticini,

di tutti i cibi, di ogni ristoro o forse di tutte le confezioni indipendentemente dal loro contenuto. Infine, una

parola nomina semplicemente la cosa in questione o implica un significato quale un’offerta, una vendita, un

divieto o una maledizione?» (Jakobson 1971b:260-261). Il pensiero di Jakobson guadagnerebbe qui in

chiarezza e portata se fosse messo in una cornice più ampia – come la filosofia peirciana dei segni – che non

separa il segno linguistico dai segni non linguistici, ma pone i diversi tipi di processo mentale in un

continuum. Questo punto è argomentato in modo convincente in Johansen (1993:235-244).

xii

xiii

Una versione ampliata di questa lezione è stata pubblicata in CP:2.391-1.430,1866.

Quand’era ancora agli inizi, Peirce, il logico, identificava «segno» con pensiero-segno, il suo

«simbolo». Seguendo Peirce, dovrei usare anch’io «termine» nel senso generale di «concetto», non legato alla

comprensione specifica di Peirce riguardo a esso, come un’alternativa a «rema».

xiv
quello odierno. Questo molto prima del recente sviluppo della teoria dell’informazione, di cui deve essere

Peirce usava il termine «informazione» come misura dell’ entropia – ossia, ne faceva un uso simile a

100

considerato un pioniere.

xv
all’ampiezza e alla profondità «essenziale», «informata» e «sostanziale». Vedi anche Johansen 1993:147ff.

xvi xvii xviii

Per una discussione di questo importantissimo passaggio da una prospettiva diversa vedi cap. 5. Ulteriori informazioni nel cap. 10
Avendo discusso, precedentemente, l’equivalenza semiotica in termini dei tre elementi della

Riguardo a ciò Peirce ha proposto tre gradi di informazione, o conoscenza, corrispondenti

relazione semiosica tra segni – relativa al segno, o qualitativa; relativa all’oggetto, o referenziale; relativa all’interpretante, o significazionale – , è necessario che risponda brevemente alla visione di Johansen in materia, poiché è in qualche modo diversa dalla mia. Johansen (1988:26) include nella sua lista di equivalenze parziali l’«equivalenza estensionale» e quella «significazionale» (o intensionale), oltre a quelle da lui chiamate «equivalenza intenzionale» ed «equivalenza retorica». Che Johansen non citi esplicitamente la mia equivalenza qualitativa ma includa invece la prospettiva di, rispettivamente, parlante e interprete, è forse indice del fatto che egli considera un tipo specifico di segni, e cioè i segni letterari. La mia posizione sull’estensione di Johansen della relazione segnica triadica di Peirce verrà chiarita più avanti in questo capitolo. Potrei aggiungere che, se interpreto correttamente la lista di Johansen di quattro equivalenze, la sua equivalenza estensionale e la mia equivalenza referenziale coincidono, la sua equivalenza intensionale (o significazionale) corrisponde alla mia equivalenza significazionale, mentre la mia equivalenza qualitativa sembra inclusa nella sua equivalenza retorica (senza tuttavia esserne identica).

xix
discussione dettagliata dell’importanza della semiotica di Peirce per la psicologia vedi Colapietro 1989:49ff. e

Vedi anche cap. 10, in particolare la sezione «Parlante e interprete nella semiosi traduttiva». Per una

passim. xx

intende (implicitamente) il contrario di ridondanza in senso informativo-teorico, ciò rende le unità “irrilevan- ti” lo scarto relativo non-informativo del messaggio in quanto contenuto. Dal punto di vista della tipologia, questo si riferirebbe quindi agli invarianti nel processo semiotico – ripetibili e perciò superflui. Questo approccio riduzionista crea più problemi di quanti ne risolva, poiché in un contesto semiotico l’invarianza non

Vedi anche Holmes 1988:89. Dato il carattere generale e piuttosto indeterminato della rappresentazione di Toury del processo traduttivo, potrei azzardare un’interpretazione alternativa. Se con «rilevanza» si

101

è identica all’insignificanza, così come la varianza non equivale alla significatività.

xxi

Per i diversi interpretanti di Peirce vedi anche cap. 3. La critica di Robinson (1991:294-296,n.24) a

Steiner contiene un punto interessante: Steiner è accusato di «riluttanza a prendere una posizione riguardo allo

status teorico delle sue mosse», di non dichiarare apertamente «se sono monofasi psico-storiche presenti in

ogni approccio del traduttore verso il testo, fasi socio-storiche nell’approccio di una cultura verso testi

stranieri . . . o categorie statiche logiche in cui traduzioni specifiche possono essere classificate» (Robinson

1991:295,n.24).

xxii

chiarezza sono interpretati come connessi con le categorie.

Peirce stesso si è riferito ai «tre gradi di chiarezza» in CP:3.456ff., 1897. Si veda anche il suo saggio «How to make your ideas clear» (W3:257-276,1878). Secondo Fisch (1986:290,327-329), i tre gradi di

xxiii

Il concetto semiosico di Eco della cultura come traduzione o un processo continuo di generazione di

nuovi interpretanti da parte di una società di interpreti (Eco 1979:71) è incompatibile con l’idea di un

interpretante logico definitivo. Sono in debito con il Professor Eco di alcune delle idee stimolanti che ha

proposto durante la conferenza «Drift and unlimited semiosis» tenuta a Bloomington all’Institute for

Advanced Studies dell’Indiana University il 19 luglio 1989, una versione della quale è stata pubblicata in The

Limits of Interpretation (Eco 1990:23-43).

xxiv

Non è stato Peirce ma Charles W. Morris il primo a parlare (1989:3) dell’interprete come del quarto

elemento della semiosi (che secondo Morris era una relazione tra «segno», «significazione» e

«interpretante»).

xxv
(vedi p.e. PW:81,1908). Questo tema è discusso anche nel cap. 10.

xxvi

xxvii

Questo è dimostrato anche dalle ripetute osservazioni di Peirce riguardo al «dolcetto per Cerbero»

Liszka (1981:47) afferma che «per Peirce, a differenza di Kant, la mente non è soprattutto sintetica, ma analitica (1.384), vale a dire la mente non costituisce l’esperienza, ma si limita ad analizzarla. La mente viene sintetizzata piuttosto che fungere da agente sintetizzante: ‘La sintesi reale avviene quando siamo portati, nostro malgrado, da un pensiero a un altro’ (1.384)».

Le arti marziali orientali, di cui il Buddismo-Zen e altri sistemi di meditazione sono parte integrante, si basano su idee simili. L’arte del tiro con l’arco, ad esempio, è tutta questione di «trovare il proprio centro cosmico». Cosa paradossale per la mentalità occidentale, non è l’arciere che tira la freccia: una volta che il «tao», o il momento di equilibrio interiore, è stato trovato, la freccia viene semplicemente tirata dall’arco.

102

Metaforicamente, lascia l’arco così come il frutto maturo cade dall’albero. Per coincidenza o no, Peirce ha usato la stessa immagine descrivendo «quell’interpretante ultimo . . . , definitivo e finale» come «il frutto maturo del pensiero», «che raggiunge lo scopo» (MS298:24,1906). E ha aggiunto: «Ma questo frutto perfetto del pensiero non può essere definito pensiero, poiché non ha significato e non appartiene affatto alla facoltà della cognizione; ma piuttosto al carattere» (MS298:24,1906). Detto in un’altra chiave artistica, la musica è nello strumento, e il musicista deve solo rendersi disponibile affinché venga fuori.

xxviii xxix xxx

Per uno studio particolarmente lucido, istruttivo e provocatorio in proposito, vedi Merrel 1991.
Vedi cap. 10.
La stessa idea, vista dal lato dell’uomo come interprete, è implicita nella citazione seguente: «In ogni

caso, un Segno [Pheme] tale dovrebbe avere una sorta di effetto compulsivo sul suo Interprete . . . [The Delome] è un Segno avente la forma che tende a fare uso dell’Interprete mediante il proprio autocontrollo, rappresentando un processo di cambiamento nei pensieri o nei segni, come per includere questo cambiamento nell’Interprete» (CP:4.538,1906). Si noti, tuttavia, il «come per» di Peirce nell’ultima frase, che, di nuovo, sembra limitare il ruolo attivo dell’interprete nella semiosi.

xxxi
metafore orticolturali di Peirce.

xxxii

In un articolo precedente (Gorlée 1987) mi sono occupata più specificamente del significato delle

Questa concezione del traduttore mostra un’incredibile somiglianza con le idee espresse da Walter Benjamin nel saggio su «Il compito del traduttore»: vedi cap. 7. Per una discussione completa e, se vogliamo, più “conservatrice” del ruolo del traduttore nel processo traduttivo vedi Wills 1988:41-59. Infine, Bellett (1978) pone la «traduzione come un modo personale» vis-à-vis con «il traduttore come nessuno in particolare»: «Entrambi sono espedienti, impersonificazioni, inganni euristici», sostiene lo scrittore (Bellett 1978:30), e «Il termine effettivo è fiducia e non fedeltà». Sebbene queste affermazioni sembrino molto peirciane, Bellett si riferisce qui alla (in)fedeltà del traduttore verso l’autore dell’originale, non alla relazione del traduttore
con il testo originale o al processo traduttivo – come avrebbe fatto Peirce.

103

Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments By Dinda L. Gorlée Emilia de candia

Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments

By Dinda L. Gorlée

 

Emilia de candia

 

 

Université Marc Bloch

Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales

Dipartimento di Lingue – SCM

Istituto Superiore Interpreti Traduttori

Corso di Specializzazione in Traduzione

 

Primo supervisore: professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: professor Ludwig CONISTABILE

 

Master: Langages, Cultures et Sociétés

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence

Parcours: Traduction littéraire

estate 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Dinda L. Gorlée, 2007

 

© Emilia de Candia per l’edizione italiana, 2008

 

 

Abstract

 

This thesis consists of the partial translation into Italian of the essay Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments by Dinda L. Gorlée. This essay analyzes the fragments of Peirce’s papers that have been collected in the Collected Papers by some editors after the death of the American philosopher. A commentary on the translation and its contents is also included.

 

 

 

 Sommario

Abstract 3

1. Traduzione con testo a fronte. 6

Riferimenti bibliografici 107

2. Analisi traduttologica. 120

2.1 Dinda Gorlée studiosa di Peirce. 121

2.2 Broken Signs 121

2.3 Charles Sanders Peirce. 123

2.4 La traduzione saggistica. 124

2.5 Tradurre Peirce in italiano. 126

2.6 Musement e amusement 129

2.7 Le citazioni 131

2.8 Conclusione. 135

Riferimenti bibliografici 136

 


 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


Broken Signs: The Architectonic Translation of Peirce’s Fragments

 

Dinda L. Gorlée

Mazes intricate. Eccentric, interwov’d, yet regular.

The most, when most irregular they seem.

(John Milton’s Description of the Mystical Angelic

Dance, see epigraph Peirce, CP: 4.585, 1908)

 

Pragmatism is the principle that every theoretical judgment

is a confused form of thought … (Peirce, CP: 5.18, 1903)

 

 

 

 

 

Segni incompiuti: la traduzione architettonica dei frammenti di Peirce

 

Dinda L. Gorlée

Labirinti intricati. Eccentrici, intrecciati, eppure regolari.

Di più, quanto più irregolari sembrano.

(John Milton, Description of the Mystical Angelic

Dance, si veda l’epigrafe in Peirce, CP: 4.585, 1908)

 

Il pragmatismo è il principio per cui ogni giudizio teorico è una forma confusa di pensiero… (Peirce, CP: 5.18, 1903)

 

 

 

 

Tricks and truth in Peirce’s labyrinths

The eight-volume volumes edition of Charles S. Peirce’s collage-like Collected Papers, other collections of Peirce’s works, and his unpublished entire manuscripts, are preserved for scholarship only in their radical fragmentariness. The broken fragments are conveyed in their collective gathering of all kinds of terms, phrases, statements, paragraphs, drafts, maxims, verses, letters and papers, all of them written in different places and at different times, and here interweaved and assembled under the ‘architectural’ roof of the publicized and editorial volumes (following Peirce’s building instructions are written in his first article in The Monist, called ‘The Architecture of Theories,’ CP: 6.7-6.34, 1891). Architectonics means ‘the process of ordering the elements of a work of art as to give them meaning only through the organism, in the companionship of the whole’ (Shipley 1972: 29). Is philosophical discourse a good design, but also an artistic genre?

According to Charles Hartshorne and Paul Weiss, the first editors of Peirce’s works, the original fragments tend to ‘represent all stages of incompleteness’ (1931: iv). Hartshorne and Weiss describe their theorical intent and practical purposes as follows:

 


Inganni e verità nei labirinti di Peirce

 

L’edizione in otto volumi dei Collected Papers di Charles S. Peirce, sotto forma di collage, le altre raccolte delle opere di Peirce e tutti i suoi manoscritti inediti sono disponibili al mondo accademico solo nella loro frammentazione estrema. La discontinuità dei frammenti è data dal fatto che si tratta di una raccolta realizzata a più mani di termini, frasi, asserzioni, paragrafi, bozze, massime, versi, lettere e studi, tutti scritti in posti diversi e in tempi diversi, e qui assemblati e riuniti sotto l’etichetta “architettonica” dei volumi editoriali (seguendo le istruzioni di Peirce riportate nel suo primo articolo in The Monist, intitolato The Architecture of Theories, CP: 6.7-6.34, 1891). «Architectonics» significa: «ordinare gli elementi di un opera d’arte per conferire loro un significato solo attraverso l’organismo, in sintonia con l’intero» (Shipley 1972: 29). Il discorso filosofico è un buon modello? Ma è anche un genere artistico? Secondo Charles Harsthorne e Paul Weiss, i primi curatori delle opere di Peirce, i frammenti originali tendono a «rappresentare tutti gli stadi di incompletezza» (1931: iv). Hartshorne e Weiss descrivono il loro intento teorico e i risultati pratici come segue:


Frequently there is no date or title, and many leaves are out of place or altogether missing. Some of them were written as many as a dozen times: it is often evident that Peirce himself was not able to select the final form. Some are clearly identifiable as earlier drafts of his published papers; others one may assume to have been such drafts, although they differ from the published papers so much as to make this a matter of doubt. Often these unpublished studies contain passages or longer portions, which impress those who have examined them as being of greater worth or clarity than those of the published articles. There are, likewise, a number of studies, often incomplete and of considerable length, and yet plainly unrelated to any which were printed. Sometimes they can be identified, through contemporary correspondance, as definite projects for publication which for one or another reason, never came into fruition. Often, however, there is no indication of such definite intent; he seems to have written merely from the impulse to formulate what was on his mind. (Hartshorne and Weiss 1931: iv)


Molto spesso non c’è né la data, né il titolo, e molti fogli sono fuori posto o del tutto mancanti: spesso è evidente che lo stesso Peirce non fu capace di scegliere la forma finale. Alcuni sono chiaramente identificabili come prime stesure dei suoi studi pubblicati; altri si può pensare fossero prime stesure, sebbene siano così diverse dagli studi pubblicati da far venire un dubbio. Spesso questi studi non pubblicati contengono passi o parti più lunghe, che impressionano coloro che li hanno esaminati perché di maggior valore o chiarezza rispetto a quelli presenti negli articoli pubblicati. Ci sono, inoltre, alcuni studi spesso incompleti e di considerevole lunghezza, e tuttavia chiaramente senza alcun rapporto con quelli stampati. A volte possono essere identificati, attraverso la corrispondenza contemporanea, come progetti definiti per la pubblicazione che per un motivo o per l’altro, non si sono realizzati. Spesso non c’è nessuna indicazione di tale intento definito; sembra che [Peirce] abbia scritto in preda unicamente all’impulso di formulare quello che aveva in testa. (Hartshorne and Weiss 1931: iv)


There seems to remain a hard core of history in Peirce’s edited work, both fragments and whole. Despite the ‘great variety of forms’ (CP: 1.iv, 1931), they refer back to a variety of his writings published in the Collected Papers (CP) (and other collections of the immense volume of Peirce’s writings) where, ‘[l]ecture series were broken apart and published in separate volumes, single papers were cut in two, and under a single title might appear excerpts from writings composed more than thirty years apart’ (Houser 1992: 1262). The fragmentary collection has virtues and vices, particularly since the jigsaw fragments falsely create ‘an impression of Peirce as a philosopher of threads and patches — and one who needs to be threaded and patched by outside hands’ (Gallie 1952: 43). The academic ‘tinkering’ of later generations of editors and translators of the collection, in the original English and transposed to many guises and languages, generates the desire and will to compose a genuine wholeness out of the fragments by publishing the materials, including footnotes with glossary references by the editors.

The raw material of Peirce’s writings has become a startling collection of separate documents, one that confounds through its size and magnitude all preconceived notions about the nature of scholarly inquiry. This ‘piecemeal pluralism’ (Rosenthal 1994: ix) has turned the whole of Peircean scholarship into a quixotic exploration with a heterogeneous and fragmentary nature. The ‘definitive critical edition, in chronological arrrangement, of a wide selection of Peirce’s writings’ (Houser 1992:1264) Nell’opera curata di Peirce, sia nei frammenti sia nel tutto, sembra rimanere il nocciolo duro della storia. Nonostante la «grande varietà di forme» (CP: 1.iv, 1931), questi rimandano a una varietà di suoi scritti pubblicati nei Collected Papers (CP) (e ad altre raccolte dell’immensa mole degli scritti di Peirce) in cui, «le serie di conferenze sono a parte e pubblicate in volumi separati, i singoli fogli sono tagliati in due parti, e sotto un unico titolo compaiono citazioni prese da scritti composti a più di trent’anni di distanza l’uno dall’altro» (Houser 1992: 1262). La raccolta frammentaria ha pregi e difetti, in particolare poiché i frammenti creano «la falsa immagine di Peirce filosofo “taglia e cuci” – che ha bisogno di essere tagliato e cucito da mani esterne» (Gallie 1952: 43). L’“armeggiare” accademico delle ultime generazioni di curatori e traduttori della raccolta, nella lingua originaria inglese e trasposta sotto molte sembianze e in varie lingue, ha fatto nascere il desiderio e la volontà di comporre un’integrità vera e propria usando i frammenti, pubblicando i materiali, comprese le note a piè pagina con riferimenti dei curatori al glossario. Il materiale non elaborato degli scritti di Peirce è diventato una raccolta sorprendente di documenti diversi che, per ampiezza e importanza, mette in crisi tutte le opinioni preconcette sulla natura della ricerca accademica. Questo «pluralismo frammentario» (Rosenthal 1994: ix) ha trasformato tutti gli studi accademici su Peirce in un’impresa titanica di natura frammentaria ed eterogenea. L’«edizione critica definitiva, disposta cronologicamente, di un’ampia selezione di scritti di

has now provided six volumes of the Writings (1982-2000, further volumes forthcoming). The volumes embrace Peirce’s juvenalia (1857-1890) and convey, in their fragments, the time-bound wholeness of his early vision. Peirce’s whole philosophy consists of a number of related theories, discussed in the publications of Peircean scholarship. The theories or pseudo-theories are intellectual or physical efforts, interrelated so as to generate a unity out of the assembled fragments. The mazes of Peirce’s web of methodologies are these: Among the most characteristic of Peirce’s theories are his pragmaticism (or ‘pragmaticism,’ as he later called it), a method of sorting out conceptual confusions by relating meaning to consequences; semiotics, his theory of information, representation, communication, and the growth of knowledge; objective idealism, his monistic thesis that matter is effete mind (with the corollary that mind is inexplicable in terms of mechanics); fallibilism, the thesis that no inquirer can ever claim with full assurance to have reached the truth, for new evidence or information may arise that will reverberate throughout one’s system of beliefs affecting even those most entrenched; tychism, the thesis that chance is really operative in the universe; synechism, the theory that continuity prevails and that the presumption of continuity is of enormous methodological importance for philosophy; and, finally, agapism, the thesis that love, or sympathy, has real influence in the world and, in fact, is ‘the great evolutionary agency of the universe.’ The last three doctrines are part of Peirce’s comprehensive evolutionary

Peirce» (Houser 1992: 1264) ha prodotto ora sei volumi dei Writings (1982-2000, altri volumi sono imminenti). I volumi comprendono gli scritti giovanili di Peirce e trasmettono, nella loro frammentarietà, la provvisoria integrità delle sue prime idee. L’intera filosofia di Peirce consta di varie teorie collegate, discusse nelle pubblicazioni dei ricercatori. Le teorie o pseudoteorie sono tentativi fisici o intellettuali interrelati così da creare un’unità attraverso i frammenti assemblati. I labirinti della rete di metodologie di Peirce sono i seguenti:

Tra le più importanti caratteristiche delle Teorie di Peirce ci sono il pragmatismo (o “pragmaticismo” come l’ha poi chiamato), un metodo per uscire dalla confusione mentale collegando il significato alle conseguenze; la semiotica, la sua teoria dell’informazione, rappresentazione, comunicazione, e aumento della conoscenza; l’idealismo oggettivo, la tesi monadica il cui argomento è la mente indebolita (con il corollario per cui la mente è inspiegabile in termini di meccanica); il fallibilismo, la tesi per cui nessun investigatore possa mai dichiarare con piena sicurezza di aver scoperto la verità, poiché possono presentarsi nuove evidenze o informazioni che risuoneranno attraverso il proprio sistema di credenze andando a intaccare anche le più arroccate; il tychism, la tesi secondo cui il caso è davvero operativo nell’universo; il sinecismo, la teoria per cui la continuità prevale e la presunzione di continuità è di un’importanza metodologica enorme per la filosofia; e infine, l’agapismo, la tesi secondo cui l’amore, o la simpatia, ha una reale influenza nel mondo e, infatti, è «la maggior causa evolutiva dell’universo». Le ultime tre dottrine fanno parte dell’esauriente cosmologia evoluzionaria di Peirce (Houser e Kloesel 1992: xxii, corsivo di Peirce).


cosmology. (Houser and Kloesel 1992: xxii, Peirce’s emphasis)

The inquiry into Peirce’s ‘great works, or individual mental products’ (MS 1135: 25, [1895]1896) must, technically, still be considered a structure of spatiotemporal wholism united in fragments, provided with all systems of clues, interpretations and meanings, including those linked to the fragmentary translations. The Peircean study is the use (and abuse) of bricolages and paraphrases, splitting apart the fragments and whole existing in the common experiment of reading and interpreting, in order to reveal to the readers (including the translators) how interconnected everything in so-called unity is. Peirce’s adage was that, ‘All that you can find in print of my work on logic are simply scattered outcroppings here and there of a rich vein which remains unpublished. Most of it I suppose has been written down; but no human being could ever put together the fragments. I could not myself do so’ (epigram CP: 2.xii, 1903). The lost and preserved fragments seem to stand well on their own and appear to provide a reliable, but still provisional, guide to Peirce’s thought and knowledge, which sporadically and episodically reflect the pragmatic effects of ‘some amazing mazes’ (title of CP: 4.585 and note, 1908) in the labyrinth of whole-part relations in his works (Gorlée 2004: 18f.).


L’indagine delle «grandi opere, o dei singoli prodotti mentali!» (MS 1135: 25, [1895]1896) di Peirce tecnicamente va ancora considerata una struttura di olismo spaziotemporale unita in frammenti, provvista di tutti i sistemi di indizi, interpretazioni e significati, compresi quelli legati alla frammentarietà dei testi tradotti. Lo studio peirciano è l’uso (e abuso) di bricolage e parafrasi che separano i frammenti e il tutto, nella pratica comune di leggere e interpretare, così da rivelare ai lettori (compresi i traduttori) come ogni cosa sia interconnessa nella cosiddetta unità. La massima di Peirce era:

Tutto ciò che si può trovare stampato del mio lavoro sulla logica sono semplicemente affioramenti sparsi qua e là di una vena ricca che resta inedita. Penso che perlopiù sia stata scritta; ma nessun essere umano potrebbe mai mettere insieme i frammenti. Non ci sono riuscito nemmeno io (epigramma CP: 2.xii, 1903 [mia traduzione]).

I frammenti persi e quelli preservati sembrano avere senso anche da soli e costituiscono un’affidabile, ma ancora provvisoria, guida al pensiero e alla conoscenza di Peirce, che sporadicamente ed episodicamente riflette gli effetti pragmatici di «alcuni labirinti sorprendenti» (titolo di CP: 4.585 e nota, 1908) nel labirinto delle relazioni tra il tutto e le parti presenti nelle sue opere (Gorlée 2004: 18f.).


By engaging readers in the hermeneutic activity of interpreting these hidden connections in Peirce’s World Wide Web, one finds that the ‘providence, foreknowledge, will, and fate’ of the discussions are characterized by ‘fixed date, free will, foreknowledge absolute … [which] found no end in wandering mazes lost’ (Milton’s Paradise Lost, Book 2, lines 558-561, quoted from Milton 1972: 103). Peirce wrote that by following ‘this labyrinthine path it is possible to attain evidence’ and such ‘evidence belongs to every necessary conclusion’ (quoted in Eysele 1979: 241). As Peirce’s first editors have showed, the original fragmentariness was a ‘tragedy which cannot be set right’ (CP: 1.v, 1931) by the hazarded guesses and choices made in the edited versions, where ‘[i]lluminating passages of great interest must be passed by because [they are] inextricably connected with other material the inclusion of which is not justified’ (CP: 1.v, 1931). The publishers clearly have perceived that ‘[o]n the other hand, because the doctrines they present are too important to be omitted, papers and fragments must often be included although one is sure that the author would not have printed them in their present condition,’ while ‘[o]ften there are alternative drafts of the same study, one distinctly superior in some portion or respect; the other, in some other portion or respect’ (CP: 1.v, 1931). In such editorial cases ‘a choice is necessary, although any choice is a matter of regret’ (CP: 1.v, 1931).


Coinvolgendo i lettori nell’attività ermeneutica di interpretare queste connessioni nascoste nel world wide web di Peirce, si può scoprire che «la provvidenza, la prescienza, la volontà e il fato» delle discussioni sono caratterizzate da «date fisse, libero arbitrio, prescienza assoluta [la quale] non ha fine interrogandosi sulla perdita dei labirinti» (Milton, Paradise Lost, Libro 2, versi 558-561, citazione da Milton 1972: 103). Peirce scrisse che seguendo «questo sentiero labirintico è possibile conseguire l’evidenza» e tale «evidenza fa parte di ogni conclusione necessaria» (citato in Eysele 1979: 241). Come hanno mostrato i primi curatori di Peirce, la frammentazione originaria era una «tragedia a cui non si può porre rimedio» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]) con le congetture azzardate e le scelte fatte nelle versioni curate, in cui «i passi illuminanti di grande interesse vanno ignorati perché [sono] inestricabilmente connessi con altri materiali la cui inclusione non è giustificata» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]). Gli editori si sono chiaramente resi conto che: «d’altro canto, poiché le dottrine che presentano sono troppo importanti per essere omesse, gli scritti e i frammenti spesso vanno inclusi sebbene si sia certi che l’autore nella loro presente condizione non li avrebbe dati alle stampe», «[s]pesso ci sono bozze alternative dello stesso studio, una distintamente superiore in alcuni parti o per alcuni aspetti» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]). In casi editoriali simili «è necessaria una scelta, sebbene ogni scelta sia un rimpianto» (CP: 1.v, 1931 [mia traduzione]).


Perceiving Peirce’s published works as things fully grown is a misunderstanding or misconstruction. Peirce’s oeuvre is a construct of thought and writing that has changed, irretrievably over time and space. In my view, all of its processes were embraced in established alternatives which the editors have fallen back on, or denied or rejected, as the case may be. The intercourse with Peirce’s whole thinking is realized by the interconnectedness of the variety of fragments to fully interpret the soul and essence of Peirce’s framework during his active working life in Victorian times. The contents of the broken fragments can perhaps be unbroken in order to construct the whole text (or textuality) and provide, through its interconnectedness, source material for modern scholars, despite the isolationist trends in linguistics (Gorlée 2004: 17-98). Experimentation with new modes of interdisciplinary expression offers multiple paths in linking broken and unbroken segments into new varieties. The quantum physicist David Bohm stated that ‘[o]ne is led to a new notion of unbroken wholeness which denies the classical idea of analyzability of the world into separately and independent existing parts,’ adding that: We have reversed the usual classical notion that the independent ‘elementary parts’ of the world are the fundamental reality, and that the various systems are merely particular contingent forms and arrangements of these parts. Rather, we say that inseparable quantum interconnectedness of the whole universe is the fundamental reality, and that relatively independently behaving parts are merely particular and
Considerare le opere pubblicate di Peirce come qualcosa di compiuto è un fraintendimento o un equivoco. L’opera di Peirce è un costrutto di pensieri e scritti irrimediabilmente cambiato nel tempo e nello spazio. Dal mio punto di vista, tutti i processi insiti nell’opera contemplavano determinate alternative che i curatori a seconda dei casi hanno scartato, negato o rifiutato. La relazione con tutto il pensiero di Peirce è realizzata dall’interconnessione della varietà dei frammenti per interpretare pienamente l’anima e l’essenza della struttura di Peirce durante la sua vita lavorativa in epoca vittoriana. I contenuti dei frammenti discontinui forse possono essere resi più continui così da costruire il testo intero (o una testualità) e offrire, attraverso l’interconnessione, materiale originale per gli studiosi contemporanei, nonostante la tendenza all’isolamento che c’è nella linguistica (Gorlée 2004: 17-98).

La sperimentazione con nuove modalità di espressione interdisciplinare offre varie possibilità di correlare segmenti discontinui e continui in nuove varietà. Il fisico quantistico David Bohm affermò:

Si è condotti a una nuova concezione di totalità ininterrotta che nega l’idea classica della possibilità di analizzare il mondo in parti esistenti in maniera separate e indipendente […] Abbiamo rovesciato la consueta concezione classica secondo la quale le “parti elementari” indipendenti del mondo sono la realtà fondamentale e i vari sistemi sono solo forme e disposizioni particolari e contingenti di tali parti. Anzi, diciamo che la realtà fondamentale è l’inseparabile interconnessione quantistica di tutto l’universo e che le parti che hanno un comportamento relativamente indipendente sono solo forme particolari e contingenti dentro a questo tutto (Bohm 1975, citato in Capra 1989: 157).


contingent forms within this whole. (Bohm 1975 quoted in Capra 1976: 141-142). Peirce was aware of this interconnectedness. Following him, Robert Cummings Neville’s book The Truth of Broken Symbols stated, for example, that all religious symbols which convey to mankind ‘something’ about the elusive God should be recognized as broken symbols (2000: passim). Bread, wine, cross, fire, heaven, desert, storm, and other images are finite and flexible fragments referring to the boundaries of the infinite, and understood by humans if we combine faith and intellect (see Gorlée 2005a). Their reference and meaning are both practical (i.e., integrity of the religious community) and representational (i.e., praise to the divine) forms of religious interpreting, but the real limitations of the larger story — focused on Peirce’s general truth — remain for the moment unknown and untrue. The semio-logical, or better semiosis-directed, remedy which is suggested to evidence the web of interrelations is the use of Peirce’s elementary building blocks of the categories First, Second, and Third, embodied in varying forms, shapes, and effects. The linguistic and metalinguistic unities and arrangements based on the patterns of the categories are projected in the fragments with a view to constructing the whole verbal meaning. Peirce wrote that as ‘a bird trusts to its wings without understanding the principle of aerodynamics according to which it flies, and which show why its wings may be trusted, we might venture to say that there must be an intelligence behind that chance’ (MS 318: 25, 1907).
Peirce era consapevole di questa interconnessione. Il libro di Robert Cummings Neville, The Truth of Broken Symbols, si rifà a Peirce e afferma, per esempio, che tutti i simboli religiosi che comunicano al genere umano “qualcosa” riguardo a un Dio elusivo dovrebbero essere considerati simboli discontinui (2000: passim). Il pane, il vino, la croce, il fuoco, il paradiso, il deserto, la tempesta e altre immagini sono frammenti finiti e flessibili che si riferiscono ai limiti dell’infinito e sono compresi dall’uomo combinando la fede con l’intelletto (si veda Gorlée 2005a). Il loro riferimento e il loro significato sono pratici (ossia, integrità della comunità religiosa) e rappresentano la realtà (ossia, preghiera alla divinità), forme di interpretazione religiosa, ma le vere limitazioni della storia a livello più ampio – concentrate sulla verità generale di Peirce – per il momento rimangono sconosciute e false.

Il rimedio semio-logico, o meglio ancora semiosi-diretto che viene suggerito per dimostrare la rete di interrelazioni è l’applicazione dei componenti elementari delle categorie First, Second, Third, realizzate in varie forme, strutture e effetti. Le unità linguistiche e metalinguistiche e le disposizioni basate sui modelli delle categorie sono proiettate in frammenti allo scopo di costruire l’intero significato verbale. Peirce scrisse che come:

un uccello si affida alle sue ali senza capire il principio di aerodinamica secondo il quale può volare, e che illustra perché ci si possa affidare alle ali, possiamo azzardarci a dire che ci deve essere dell’intelligenza dietro a quel caso (MS 318: 25, 1907 [mia traduzione]).

In scientific study, without the function of Peirce’s categories, the elementariness of individual fragments would remain a suggestion and thereby converted in some unscientific and unsound items. Translation, the multilingual subject of this essay, remains a paradox of bizarre duality, since it is considered a ‘process of passage — the transferring of textual matter between different locations, different peoples, and therefore different languages’ (Montgomery 2000: 10). Translation, considered now as a triadic discipline, tends to give to Peirce’s speaking and reading community of interpreters in all countries numerous copies and variants in translated and retranslated forms, but the translational phenomenon still affords, at its basis, chances without pure security (defined in Gorlée 1994: 40ff. and discussed further in Gorlée 2004).

The contents of all fragments and the whole interconnected text adapt the mixture of all three categories in order to form an intimate as well as public meaning of the proposed whole. In a Peircean key, translation must include Firstness, Secondness and Thirdness, representing reference, meaning, and interpretation, and variants of Peirce’s icons, indices, and symbols. The connected consciousness of fragmentariness — with reference to Michail M. Baxtin’s ‘elementariness’ (under his ideological nom de guerre, Vološinov 1973: 110) — operates on all those tracks at the same time, first privately and subsequently with public extensions.


Nello studio scientifico, senza la funzione delle categorie di Peirce, l’elementarità dei singoli frammenti rimarrebbe un suggerimento e verrebbe perciò trasformata in dati non scientifici e poco attendibili. La traduzione, il soggetto multilingue di questo saggio, rimane un paradosso di dualità bizzarra, poiché è considerata un «processo di passaggio – il trasferimento di materiale testuale tra diversi luoghi, diverse persone, e quindi diverse lingue» (Montgomery 2000: 10). La traduzione, considerata ora una disciplina triadica, tende a dare alla comunità degli interpreti di Peirce di tutti i paesi in forma orale o scritta numerose copie e varianti in forme tradotte e ritradotte, ma il fenomeno traduttivo offre ancora, di fatto, possibilità senza una reale sicurezza (definito in Gorlée 1994: 40 e seguenti  e successivamente discusso in Gorlée 2004). I contenuti di tutti i frammenti e l’intero testo interconnesso adattano il miscuglio di tutte e tre le categorie così da formare un significato intimo e allo stesso tempo pubblico del tutto che viene proposto. In chiave peirciana, la traduzione deve comprendere Firstness, Secondness, Thirdness corrispondenti a riferimento, significato e interpretazione, e varianti delle icone, degli indici e dei simboli di Peirce. La consapevolezza della frammentarietà collegata a ciò – facendo riferimento all’«elementarità» di Mihail Bahtin (con il suo ideologico nom de guerre, Vološinov 1973: 110) – opera allo stesso tempo su tutte queste tracce, prima in privato e di conseguenza anche in pubblico.


The constant transitions are not exhausted in a single fragment but appear in consistency with distinctive features. As we shall see in this article, this process of multitracking focuses on details, on surfaces, on parts, and afterwards on discontinuous experiences and fleeting reactions.

In Peirce’s terminology, fragments-in-print are quasi-propositions, meaning that they are quasi-improvisatory Firsts or Seconds, arriving as a mediating set of rules (Third) in the unfragmented whole. The referential signs of vocabulary, phraseology, and textology (Scheffler 1967: 37f. and Gorlée 2004: 197f., discussed further in this article) are interpreted and translated into relevant and pertinent whole units as existing as entities in different languages (see Lohmann 1988 for extensive bibliography). In the inquiry we shall discover that mere vocabulary encompasses the image of words alone and gives no real communication. Real meaning would reach from groups-of-words building on sentences to construct an actual and meaningful message. Textology produces statements about (pseudo)standardized meaning, and no more. This (sub)division is crucial for the translation of verbal messages of all kinds and exists in various kinds in all languages. Semio-translation (announced in Gorlée 1994: 226-232, further developed in Gorlée 2003, 2004a) is a Peirce-oriented use of the interpretation applied particularly to translation. In his last book, Surrogates (2002), Paul Weiss stated that his general term — ‘surrogates’ — could stand for the interpreted and translated fragments:


Le transizioni costanti non si esauriscono in un singolo frammento ma appaiono in armonia con i tratti distintivi. Come possiamo vedere in questo articolo, il processo di multitracking si focalizza su dettagli, superfici, parti e successivamente su esperienze discontinue e reazioni momentanee. Secondo la terminologia di Peirce, i frammenti in-stampa sono quasi-proposizioni, ossia sono First o Second quasi-improvvisati, che arrivano come serie di norme di mediazione (Third) nel tutto non frammentato. I segni referenziali del vocabolario, la fraseologia e la testologia (Scheffler 1967: 37 e seguenti, e Gorlée 2004: 197 e seguenti, successivamente discussi in questo articolo) sono interpretati e tradotti in unità rilevanti e pertinenti in quanto esistenti in qualità di entità in diverse lingue (per una bibliografia più ampia vedi Lohmann 1988 ). Nella ricerca scopriremo che il mero vocabolario racchiude l’immagine delle sole parole e non produce un’effettiva comunicazione. Il significato effettivo si ottiene creando frasi con gruppi di parole per attualizzare un messaggio significativo. La testologia produce affermazioni riguardo al significato (pseudo)standardizzato, e nient’altro. Questa (sub)divisione è cruciale per la traduzione di messaggi verbali di ogni genere ed esiste sotto varie forme in tutte le lingue. La semio-traduzione (definita in Gorlée 1994: 226-232, successivamente sviluppata in Gorlée 2003, 2004a) è un uso basato sul pensiero di Peirce dell’interpretazione applicata in particolare alla traduzione. Nel suo ultimo libro, Surrogates (2002), Paul Weiss afferma che il suo termine generale – «surrogati» – potrebbe valere per i
Readers of difficult texts try to find surrogates in other expressions that preserve the meaning of the original. Translators go further, trying to retain all the virtues of the original in the languages they know so well, but which have nuances that the original does not have’ (Weiss 2002: 32).

 

The logical implications of semiosis are a confrontational paradigm for sign translation from one language to another, and sign translation exemplifies in its turn the dynamic activity of semiosis, or sign action. The sign includes the object (its idea potentiality) and must be interpretable or translatable to be intelligible or meaningful: it is represented by a developed sign, its growing interpretant. The original and translated semiotic sign itself is ‘something which stands for something in some respect or capacity’ (CP: 2.228, c.1897). Peirce added that it ‘addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign’ (CP: 2.228, c.1897), thereby providing a ‘mechanical’ activity to the ‘reasoning machines’ of translation and interpreting as qualities of semiosis. In the three-fold interpretive relation to its object (which is ficticious or real), translational semiosis would include signifying, dynamic and identifying the fragmentary signs, integrating all characters, media, and codes as available, including linguistic and extralinguistic ones.


frammenti interpretati e tradotti:

I lettori di testi difficili cercano di trovare surrogati in altre espressioni che preservino il significato dell’originale. I traduttori vanno più lontano, cercando di mantenere tutte le virtù dell’originale nelle lingue che conoscono bene, ma che hanno sfumature che l’originale non ha (Weiss 2002: 32).

Le implicazioni logiche della semiosi sono un paradigma di confronto per la traduzione segnica da una lingua a un’altra, e la traduzione segnica esemplifica, a sua volta, l’attività dinamica di semiosi, o azione segnica. Il segno comprende l’oggetto (la sua potenzialità ideale) e per essere intelligibile o significativo deve essere interpretabile o traducibile: è rappresentato da un segno sviluppato, il suo interpretante sviluppato. Il segno semiotico originale e tradotto è «qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità» (CP: 2.228, circa 1897 [mia traduzione]). Peirce aggiunse che «si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato» (CP: 2.228, circa 1897 [mia traduzione]), procurando quindi un’attività “meccanica” alle “macchine che ragionano” della traduzione e dell’interpretazione in quanto qualità della semiosi. Nella relazione interpretativa triadica con l’oggetto (che è fittizio o reale), la semiosi traduttiva implica significare, dinamizzare e identificare i segni frammentari, integrare tutti i caratteri, i media e i codici disponibili,

The three translational dimensions are based on the categories and generate a complex terminology. Its categorial branches (qualisign-sinsign-legisign, immediate-dynamical-general object, immediate-dynamical-final interpretants) and its logical dimensions (abduction-induction-deduction, icon-index-symbol, rheme-proposition-argument, instinct-experience-form and many other terms) yield an evolutionary triadic model, giving in the process of semiosis an endless and infinite series of interpretants – that is, a potential succession of interactive signs produced by signs and translating signs that ‘gives rise to more bewilderment and misunderstanding’ (Gallie 1952: 126). In practical (and translational) life, the infinite growth of interpretants is inevitably cut short, as ‘unecomic’ waste, and reduced to one final statement according to a single ‘direction, point, and purpose’ (Gallie 1952: 126-127). This single focus seems puzzled with worries and uncertainties.

Using in the available semio-translations the isolated and collective meaning(s) of isolated fragments, groups of words, and entire documents, now replaced into the specific sense(s) of new target languages, the translations create a variety of suggestive or interrogative, indicative and imperative modalities of pragmatic mediation. Translational mediation is, in principle, a regulative principle, but the final truth remains a questionable affair for the translators, the original authors, and the whole future readership.


compresi quelli linguistici e quelli extralinguistici.

Le tre dimensioni traduttive si basano sulle categorie e generano una terminologia complessa. Le sue diramazioni categoriali (qualisegno-sinsegno-legisegno, oggetto immediato-dinamico-generale, interpretanti immediato-dinamico-finale) e le sue dimensioni logiche (abduzione-induzione-deduzione, icona-indice-simbolo, rema-asserzione-argomento, istinto-esperienza-forma e molti altri termini) producono un modello triadico evolutivo, producendo serie infinite di interpretanti nel processo di semiosi: ossia una successione potenziale di segni interattivi prodotti da segni e da segni traducenti che «dà adito a ulteriore confusione e fraintendimento» (Gallie 1952: 126). Nella vita pratica (e traduttiva), lo sviluppo infinito degli interpretanti è inevitabilmente troncato in quanto spreco “antieconomico”, e ridotto a una dichiarazione finale in armonia con “direzione, punto e scopo” singoli (Gallie 1952: 126-127). Sembra che questa singolarità sia accompagnata da preoccupazioni e incertezze.

Usando nelle semio-traduzioni disponibili i significati collettivi e isolati dei frammenti isolati, di gruppi di parole, e di documenti interi, ora sostituiti dal senso specifico attualizzato nelle nuove lingue, le traduzioni creano una varietà di modalità di mediazione pragmatica suggestive o interrogative, indicative o imperative. La mediazione traduttiva è, in teoria, un principio regolativo, ma la verità finale rimane una questione discutibile per i traduttori, gli autori dell’originale, e tutti i futuri lettori.
The personalized, doubting and questioning acts of mediation to translation mean that the translators use the three-fold ways of the private translational processuality to achieve their public translational event. The translators interlingually and intersemiotically exchange source words, paraphrases, and definitions, and (re)question their status in terms of truth, consistency, or evidential warrant against the target language and culture. Peirce stated that the act of translation would be:

… a method for ascertaining the real meaning of any concept, doctrine, proposition, word or other sign. The object of a sign is one thing; its meaning is another. Its object is the thing or occasion, however indefinite, to which it is to be applied. Its meaning is the idea which it attaches to that object, whether by way of mere supposition, or as a commend, or as an assertion. (CP: 5.6, c.1905). This semiotic method is the object of this article. The method is applied in the practical examples, where various translations of (ir)regular fragments written in Peirce’s later years, around the year 1900, are discussed to construct the pragmatically and metaphorically expressed wholeness of Peirce’s work on the categories. Isolated fragments such as the ones about ‘lithium’ and (to a certain degree) Peirce’s term ‘musement,’ replicated fragments such as the ‘decapitated frog’ paragraphs, and the versions of the ‘pragmatic maxims,’ all of them remain fallibly and fallaciously translated into fields of scripture composed in various languages.

Gli atti di mediazione alla traduzione, che possono essere personalizzati, porre dubbi o domande, significano che i traduttori usano la triadicità della processualità traduttiva privata per ottenere il loro risultato traduttivo pubblico. I traduttori a livello interlinguistico e intersemiotico scambiano parole, parafrasi, e definizioni, e (ri)mettono in discussione il loro status in termini di verità, coerenza, o evidenza confrontandosi con la lingua e la cultura ricevente. Peirce affermò che l’atto traduttivo sarebbe:

[…] un metodo per accertare il vero significato di qualsiasi concetto, dottrina, proposizione, parola o altro segno. L’oggetto di un segno è una cosa; il suo significato è un’altra. L’oggetto è la cosa o occasione, per quanto indefinita, alla quale esso viene applicato. Il significato è l’idea che attribuisce a quell’oggetto, o per mera supposizione, o come commento o come affermazione (CP: 5.6, circa 1905 [mia traduzione]).

L’oggetto del presente articolo è questo metodo semiotico. Il metodo semiotico viene applicato in esempi pratici, in cui vengono discusse svariate traduzioni di frammenti (ir)regolari scritti da Peirce negli ultimi anni, intorno al 1900, per costruire l’interezza pragmatica e metaforica dell’opera di Peirce sulle categorie. I singoli frammenti quali «lithium» e (in una certa misura) il termine di Peirce «musement», frammenti ripetuti come i paragrafi sulla «decapitated frog», e le versioni delle «massime pragmatiche», tutti questi rimangono tradotti fallibilmente e fallacemente in campi di scrittura composti in diverse lingue.


Fragments and whole

In verbal messages, the whole is fragmentized, but without the possibility of some fragments there is no whole (Koch 1989). As Roman Jakobson argued, a whole conveys a ‘multistory hierarchy of wholes and parts’ without an ‘autonomous differential tool’ (1963: 158). In his article ‘Parts and Wholes in Language,’ Jakobson confronted the vague status of frontiers somewhere between unity and disunity, adding that: ‘From a realistic viewpoint, language cannot be interpreted as a whole, isolated and hermetically sealed, but it must be simultaneously viewed both as a whole and as a part’ (Jakobson 1963: 159). According to him, the ‘artificial separation’ between the structure of a fragment and its whole is a misconstruction, since both parties have the same ‘morphological constituents’ as well as ‘informationally pointless fragments’ (Jakobson: 1963: 160). Both do basically the same things, but they do not cohere and no semiosis takes place. The level of the whole varies greatly, yet the verbalized events possess the same positive and negative particularities: unity and disunity, closure and disclosure, and finite and infinite contrasts possess a factual similarity. Signum and signans are crystallized together in the original text-sign. A fragment is a brief reaction, which can be prolonged in reference to a change in context and code (or subcode) (Jakobson 1963: 161). In Jakobson’s view, design and token, larger and smaller, and invariant and variant are overlapping multiplications written in verbal code.

I frammenti e il tutto

Nei messaggi verbali, il tutto viene frammentato, ma senza la possibilità di certi frammenti non c’è il tutto (Koch 1989). Come dimostrato da Roman Jakobson, un’unità veicola una «gerarchia a vari livelli di unità e parti» senza uno «strumento differenziale autonomo» (1963: 158). Nell’articolo «Parts and Wholes in Language», Jakobson ha confrontato lo status vago dei confini a mezza strada tra unità e disunità, aggiungendo che: «Da un punto di vista realistico, il linguaggio non può essere interpretato come un tutto, isolato ed ermeticamente sigillato, ma vanno visti allo stesso tempo tutto e parte» (Jakobson 1963: 159). Secondo Jakobson, la «separazione artificiale» tra la struttura di un frammento e il tutto è un equivoco, poiché le due parti hanno gli stessi «costituenti morfologici» così come «frammenti inutili a livello informativo» (Jakobson: 1963: 160). Fondamentalmente fanno le stesse cose, ma non sono coerenti e non ha luogo nessuna semiosi. Il livello del tutto varia molto, tuttavia gli eventi verbalizzati hanno le stesse particolarità negative e positive: unità e disunità, chiusura e apertura, e contrasti finiti e infiniti hanno una somiglianza fattuale. Signum e signans sono cristallizzati insieme nel testo-segno originale. Un frammento è una breve reazione, che può essere prolungata con riferimento a un cambiamento nel contesto e nel codice (o sottocodice) (Jakobson 1963: 161). Secondo il punto di vista di Jakobson, progetto e occorrenza, grande e piccolo, e invariante e variante sono moltiplicazioni sovrapposte scritte in codice verbale.

Jakobson stated that a ‘rich scale of tensions between wholes and parts is involved in the constitution of language, where pars pro toto and, on the other hand, totum pro parte, genus pro specie, and species pro individuo are the fundamental devices’ (Jakobson 1963: 162, his emphasis). These meaningful figures take place in the acquisition of language: Jakobson’s knowledge of the laws of phonology, grammar, child language, and aphasic disorder (Jakobson 1971, 1980 and other publications), where ‘structuration, restructuration, and destructuration of language’ (Jakobson and Waugh 1979: 237) are the key points (see Pharies 1985: 77-81). Yet the figure-ground distinctions of encoding and decoding seem to transpire in different ways in the ‘recoding, code switching, briefly the various faces of translation’ (Jakobson 1961: 250), happening from one verbal code into the next one. The process of translation has thereby moved away from a single-language learning process to become a code-switching meta-activity with a special (and specialized) developing strategy of general and specific mindsets. This fallible (and never infallible) being-and-becoming process adheres to rules as well as creations of translators (Gorlée 2004: 198 ff.). A verbal sign written in any language, an original and translated general sign, ‘denotes any form of expression assigned to translate an ‘idea’ or a ‘thing’ … as a stock of ‘labels’ to be attached to preexisting objects, as a pure and simple nomenclature’ (Greimas and Courtès 1982: 297).


Jakobson affermò che una «ricca scala di tensioni tra tutto e parti è insita nella costituzione della lingua, i meccanismi fondamentali sono pars pro toto e, dall’altro lato, totum pro parte, genus pro specie, e species pro individuo » (Jakobson 1963: 162, suo corsivo). Tali figure significative si verificano durante l’acquisizione della lingua: la conoscenza da parte di Jakobson delle leggi di fonologia, grammatica, linguaggio infantile, e disturbo afasico (Jakobson 1971, 1980 e altre pubblicazioni), in cui i punti chiave sono «strutturazione, ristrutturazione, e destrutturazione della lingua» (Jakobson e Waugh 1979: 237) (si veda Pharies 1985: 77-81). Tuttavia le distinzioni figura-sfondo tra codifica e decodifica sembrano trasparire in modo diverso nella «ricodifica, nel code switching, insomma nei vari aspetti della traduzione» (Jakobson 1961: 250), che avvengono da un codice verbale all’altro. Il processo traduttivo è perciò passato dal processo di apprendimento di una sola lingua a una meta-attività di code switching con una strategia speciale (e specializzata) che sviluppa le attitudini mentali generali e specifiche. Tale processo in essere e in divenire è fallibile (e mai infallibile), e aderisce alle regole così come le creazioni dei traduttori (Gorlée 2004: 198 e seguenti).

Un segno verbale scritto in qualsiasi lingua, un segno generale originale e tradotto, «denota qualsiasi forma di espressione destinata a tradurre un’“idea” o una “cosa” […] come uno stock di “etichette” da assegnare a oggetti preesistenti, in qualità di nomenclatura pura e semplice» (Greimas e Courtès 1982: 297).

Saussure’s dyadic rules, with their opposition between perfect vs. imperfect signs, was basically followed by Jakobson (Jakobson and Waugh 1979: 233-237) and further developed by Henri Quéré’s (1988) discussion of the inside and outside of the fragment. Quéré points, by metaphors, to patterns of categorical meaning of fragmentariness in the ‘puzzle,’ the ‘iceberg,’ and the ‘syncope’ (1988: 54). The oppositional duality, the emblem of semiology (also called: structuralism) has moved away to enter the different, triadic realm of Peirce’s semiosis, where the semiotic sign, its object and the interpretant are dynamically interfaced and resurfaced in the tripartite concept of fragmentariness with its variety of reference(s), meaning(s), and interpretation(s). Jakobson’s dual oppositions of signum and signans are united with perfect and imperfect signs in the company of intermediate values between perfection and imperfection. Peirce’s semiosis adds to the structuralist double values of signum and signans in the company of Jakobson’s ‘signatum, that is, with the intelligible, translatable, semantic part of the total signum’ (1963: 157, Jakobson’s emphasis). In the triadic process of semiosis, we deal with fragmentary and whole ‘signs produced by signs and producing signs, with no absolute starting point and no absolute stopping point’ (Ransdell 1980: 165). Semiosis seems to start from a ‘stopping-place [which] is also a new starting-place for thought’ (CP: 5.397 = W: 3: 263, 1878).


Le regole diadiche di Saussure, con l’opposizione segno perfetto versus segno imperfetto, erano fondamentalmente state seguite dalla discussione di Jakobson (Jakobson e Waugh 1979: 233-237), e ulteriormente sviluppate dal discorso di Henri Quéré sull’interno e sull’esterno del frammento. Quéré si riferisce metaforicamente a modelli del significato categoriale della frammentarietà in «puzzle», «iceberg», e «syncope» (1988: 54). La dualità in opposizione, emblema della semiologia (anche chiamato: strutturalismo) si è spostata per entrare nel regno triadico della semiosi di Peirce, in cui il segno semiotico, il suo oggetto e l’interpretante sono interfacciati dinamicamente nel concetto tripartito di frammentarietà con le sue varietà di riferimento(i), significato(i), e interpretazione(i). Le opposizioni diadiche di Jakobson tra signum e signans sono unite da segni perfetti e imperfetti insieme a significati intermedi tra perfezione e imperfezione. La semiosi di Peirce aggiunge ai valori doppi signum e signans dello strutturalismo il signatum di Jakobson, “che è la parte semantica intelligibile e traducibile del signum nella sua interezza” (1963: 157, corsivo di Jakobson). Nel processo triadico della semiosi, trattiamo la frammentarietà e il tutto, «segni prodotti da segni e che producono segni, con nessun punto di partenza in assoluto e nessun punto di arrivo» (Ransdell 1980: 165). Sembra che la semiosi inizi da un «punto di arrivo, [che] è anche un nuovo punto di partenza per il pensiero» (CP: 5.397 = W: 3: 263, 1878).


Peirce denoted the translational processuality, steadily generating new thought, in the figurative phrases of a proverb: ‘The life we lead is a life of signs. Sign under Sign endlessly’ (MS 1334: 46, 1905).

This Heraclitean rapprochement broadens the ‘ordinary’ concept of translation, in order to encompass Jakobson’s intralingual, interlingual and intersemiotic types of translation (1959). Intralingual translation or ‘rewording is an interpretation of verbal signs by means of signs of the same language,’ and interlingual translation or ‘translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language,’ whereas intersemiotic translation or ‘transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal systems’ (Jakobson 1959: 233, his emphasis). Intralingual translation is monadic because of its single-language equivalence; interlingual translation is dyadic, since it involves two-language-orientation. Interlingual translation is some kind of warfare, struggle or at least a rivalry between Saussurean language and parole, signifying a (re)encounter between textual and verbal reality. Intersemiotic translation is sequentially triadic (or more complex systems), since it involves the union (or unification) of intermedial translations into an embedded translation. The three kinds of translation were still rather narrowly defined by Jakobson, who appears unconcerned with the reverse operation, the translation of nonlinguistic into linguistic signs (Gorlée 1994: 147-168, see Gorlée 2005a: 33ff.).

Peirce descrisse la processualità traduttiva, che genera costantemente un nuovo pensiero, con la figuratività di un proverbio: «La vita che conduciamo è una vita fatta di segni. Segno sotto Segno all’infinito» (MS 1334: 46, 1905 [mia traduzione]). Questo rapprochement eracliteo amplia il concetto “ordinario” di traduzione, così da racchiudere i tipi di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica di Jakobson (1959). La traduzione intralinguistica o «riformulazione è un’interpretazione di segni verbali attraverso i segni di una stessa lingua», e la traduzione interlinguistica o «traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali attraverso qualche altra lingua», mentre la traduzione intersemiotica o «trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali attraverso segni di sistemi non verbali» (Jakobson 1959: 233 corsivo suo). La traduzione intralinguistica è monadica per l’equivalenza con la sua stessa lingua; la traduzione interlinguistica è diadica dal momento che riguarda l’orientamento tra due lingue. La traduzione interlinguistica è una sorta di guerra, lotta o almeno una sorta di rivalità tra langue e parole di Saussure, vale a dire un (re)incontro tra realtà testuale e verbale. La traduzione intersemiotica è sequenzialmente triadica, dal momento che implica l’unione (o unificazione) di traduzioni intermedie in una traduzione subordinata. I tre tipi di traduzione sono ancora definiti da Jakobson in modo limitato, poiché sembra indifferente all’operazione inversa, la traduzione del nonverbale in segni verbali (Gorlée 1994: 147-168, si veda Gorlée 2005a: 33 e seguenti).

Translators busy themselves with essential Thirdness, in the company of factual Secondness and fictive Firstness. These categories are enshrined in terms suitable for use by interlingual and intercultural translators and interpreters according to their knowledge expertise, skill, and know-how – being equivalent terms for Thirdness, Secondness, and Firstness. Jakobson’s types of translation can be focused pairwise to the triad of Peirce’s categoriology (Gorlée [forthcoming]), though they are not identical with the categories and may vary with the communicational instantiations and the varieties of textual network.

Jakobson treated poetic devices like metaphor, alliteration, and archaism, associated with literary language (Werlich 1976). At the same time, he referred to Saussurian and at times Peircean terms and terminology (Liszka 1981 and Short 1998). Together, these different ways clear the path from the collection of fragments to the genuine whole. Jakobson pointed to the imaginative images involved in both divisions: ‘It is necessary to see the forest and not just the trees, and in the given case to see the whole network of distinctive features and their simultaneous and sequential interconnections and not just an apparent mosaic of unrelated acquisitions’ (Jakobson and Waugh 1979: 166).


I traduttori hanno a che fare con l’essenziale Thirdness, insieme alla fattuale Secondness e alla fittizia Firstness. Queste categorie sono conservate in termini idonei all’uso di traduttori e interpreti interlinguistici e interculturali in base alle loro conoscenze, competenze e al loro knowhow, equivalenti a Thirdness, Secondness, e Firstness. I tipi di traduzione di Jakobson possono essere associati alla triade di Peirce (Gorlée [in corso di pubblicazione]), sebbene non siano identici alle categorie e possano variare con le varietà della rete testuale e le specificità comunicative.

Jakobson trattò gli artifici poetici, quali metafore, allitterazioni e arcaismi, associati con il linguaggio letterario (Werlich 1976). Allo stesso tempo, fece ricorso ai termini e alla terminologia saussuriani e a volte peirciani (Liszka 1981 e Short 1998). Insieme, questi approcci diversi spianano la strada dalla raccolta dei frammenti al tutto vero e proprio. Jakobson parlò delle immagini fantasiose implicite in entrambi gli approcci: «è necessario vedere la foresta e non solo gli alberi, e nel caso specifico vedere l’intera rete di tratti distintivi e le loro interconnessioni simultanee e sequenziali e non solo un apparente mosaico di acquisizioni non collegate» (Jakobson e Waugh 1979: 166).


Abstracted from Jakobson’s metaphorical application of linguistics to literary discourse, Peirce stated in his general and philosophical essay ‘Some Amazing Mazes, Fourth Category’ (MS 200, publicized in fragments CP: 6.318-6.348, c.1909, CP: 4.647-4.681, c.1909) that, from a logical point of view, both forest and trees seem to belong to

 

… one universe … as for example between the cells of a living body and the whole body, and often times between the different singulars of a plural and the plural itself. … Speaking collectively, the one logical universe, to which all the correlates of an existential relationship belong, is ultimately composed of units, or subjects, none of which is in any sense separable into parts that are members of the same in the universe’ (CP: 6.318, c.1909, with Peirce’s emphasis).

Therefore, the fragments and the whole seem to build together the metaphorical and literal ecosystem of the labyrinthine universe with its factual similarity of and difference between the three interactive poles sign, object, and interpretant. These energies are destined to lead through a mazed path along multiform tracks to clear the way for future study (or just lecture) of signs and their multiple functions (see CP: 7.189ff., 1901, where Peirce avoids using semiotic terminology, so as not to be misunderstood by his audience).

Peirce, lungi dall’applicazione metaforica jakobsoniana della linguistica al discorso letterario, enunciò nel suo saggio filosofico e generale «Some Amazing Mazes, Fourth Category» (MS 200, pubblicato in frammenti CP: 6.318-6.348, circa 1909, CP: 4.647-4.681, circa 1909) che, da un punto di vista logico, sia la foresta, sia gli alberi sembrano appartenere a:

[…] un universo […] come per esempio tra le cellule di un corpo vivente e tutto il corpo, e spesso tra i diversi singolari di un plurale e il plurale stesso […] parlando a livello collettivo, l’unico universo logico, a cui appartengono tutti i termini di correlazione di una relazione esistenziale, è alla fine composta da unità, o soggetti, nessuno dei quali è in alcun senso separabile in parti che sono membri dello stesso universo (CP: 6.318, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]).

 

Dunque, sembra che i frammenti e il tutto formino l’ecosistema metaforico e letterale dell’universo labirintico con la sua somiglianza fattuale tra i i tre poli interattivi: segno, oggetto e interpretante, e la loro differenza. Queste energie sono destinate a condurre attraverso un percorso labirintico lungo sentieri multiformi per spianare la strada a futuri studi (o solo lezioni) dei segni e delle loro funzioni multiple (si veda CP: 7.189 e seguenti, 1901, in cui Peirce evita di usare la terminologia semiotica, in modo da non essere frainteso dal pubblico).

The intertwined triangles along the course figuratively (re)present together the enterprises of fragments and the larger whole through the relational conjunction of the distinctive values (or features) of the sign(s), its object(s) and its interpretant(s). The triangular dynamic organisation, integrating Jakobson’s dyadism, enters into the recursive processes of Peirce’s infinite semiosis. Semiosis (both ordinary semiosis and translational semiosis) is repeated at more or less regular intervals and in the process growing stronger in sign interpretation and sign translation. The fragments of Peirce’s writings are no random bits of symbol-fragments, since all words are symbolically related to their objects, but are retraceable signs taken from Peirce’s manuscripts in continuous time and space, rooted in the turning points of his scientific topology. The history of Peirce’s manuscripts characterize fragments as ‘imparting form to the welded whole’ (CP: 6.330 = MS 200: 36, c.1909). Fragments are ‘instantaneous impulses’ (CP: 6.330 = MS 200: 36, c.1909) and form integrated elements of the still unfirm yet unbreakable connection with the supposed whole. The fragments ‘balance the probabilities’ defined as providing access to ‘plausibility and verisimilitude’ (CP: 8.224-225, c.1910), whereas the aggregate of all fragments would tend to reach the ultimate object, the truth. Fragments in themselves would ‘in philosophy and practical wisdom’ invite within their fuzzy outlines a degree of ‘vagueness and confusion’ (CTN: 2: 161, 1898; see 1: 168-169, 1892),


I triangoli intrecciati lungo il percorso a livello figurativo rap(presentano) insieme lo spirito dei frammenti e il tutto attraverso la congiunzione relazionale dei valori (o tratti) distintivi del segno(i), del suo oggetto(i) e del suo interpretante(i). L’organizzazione dinamica triangolare, che integra il diadismo di Jakobson, entra nei processi ricorsivi dell’infinita semiosi peirciana. La semiosi (sia quella ordinaria sia quella traduttiva) viene ripetuta a intervalli più o meno regolari e così facendo si rafforza nell’interpretazione e nella traduzione del segno.

I frammenti degli scritti di Peirce non sono parti casuali di frammenti-simbolo, poiché tutte le parole sono simbolicamente correlate ai loro oggetti, ma sono segni riconducibili ai manoscritti di Peirce, in un tempo e in uno spazio continui, radicati nei punti focali della sua topologia scientifica. La storia dei manoscritti di Peirce descrive i frammenti come «conferenti forma al tutto saldato» (CP: 6.330 = MS 200: 36, circa 1909 ). I frammenti sono «impulsi istantanei» (CP: 6.330 = MS 200: 36, circa 1909 ) e costituiscono elementi integrati della connessione ancora instabile e tuttavia indistruttibile con il presunto tutto. I frammenti «bilanciano le probabilità» che sono definite come ciò che dà accesso a «plausibilità e verosimiglianza» (CP: 8.224-225, circa 1910), laddove l’insieme di tutti i frammenti tenderebbe a raggiungere l’oggetto ultimo: la verità. I frammenti in sé indurrebbero nei loro profili indefiniti, «nella filosofia e nella saggezza pratica» un grado di «vaghezza e confusione» (CTN: 2: 161, 1898; si veda 1: 168-169, 1892),

yet their transformation to fragmentary continuity grows into the continuous wholeness. Peirce’s manuscripts and other miscellaneous documents are still emerging from known and unknown sources; fragments and the whole are broken and unbroken at the same time. Significant portions of the whole have now been edited for publication, since the editors and scholars tend to struggle with ambiguous fragments in order to compose the full writings. The whole of Peirce’s writings is today a true but still vague repository of ideas. Both fragment and whole opened up the possibility of (im)perfectibility, the ability to innovate and react to them in novel ways in new situations, Peirce’s habituality, as we clearly see in the old and new translations of Peirce’s writings.

Fragments and wholeness are broken signs; they are distinguished but not divided (CNT: 1: 168, 1892). If we retrace the archeology of the sign, we discover the original sense of the vocable. As can be ascertained from the Oxford English Dictionary (OED), ‘fragment’ was adopted from the Latin fragmentum by way of the sixteenth Century French fragment, meaning ‘a part broken off or otherwise detached from a whole,’ figuratively used to refer to a ‘detached, isolated, or incomplete part’ as an ‘extant portion of a writing or composition which as a whole is lost’ (OED 1989: 6: 137).


tuttavia la loro trasformazione in una continuità frammentaria cresce fino a diventare un tutto continuo. I manoscritti di Peirce e altri documenti miscellanei stanno ancora emergendo da fonti conosciute e sconosciute; i frammenti e il tutto sono continui e discontinui allo stesso tempo. Per pubblicare alcune parti significative del tutto, sono state prima modificate, poiché per comporre gli scritti completi i curatori e gli studiosi hanno la tendenza a eliminare le ambiguità dei frammenti. L’insieme degli scritti di Peirce è una vera e propria miniera di idee, tuttavia ancora vaghe. Sia i frammenti, sia il tutto aprono un varco alla possibilità della (im)perfettibilità, alla capacità di innovarli e reagirvi in nuovi modi e in nuove situazioni come possiamo vedere chiaramente nelle nuove e vecchie traduzioni delle opere di Peirce.

I frammenti e il tutto sono segni discontinui; sono distinti ma non divisi (CNT: 1: 168, 1892). Se ripercorressimo la storia del segno, scopriremmo il senso originario del vocabolo. Come si può constatare dall’Oxford English Dictionary (OED), «fragment» deriva dal latino fragmentum; nel Cinquecento fragment, significava «una parte staccata dal tutto»; a livello figurativo la si usava per riferirsi a «una parte distaccata, isolata, o incompleta» come una «porzione ancora esistente di un testo o di una composizione il cui tutto è andato perso» (OED 1989: 6: 137).


A whole is ‘free from damage or defect’ and ‘unbroken, untainted, intact’ (OED 1989: 20: 291). A fragment refers to a disconnected and negligible fraction, especially as something broken off the wholeness. The broken off fragment belongs to an equally incomplete or destroyed whole. There is no real perfection and imperfection, nor unity and disunity, since both fragments and wholeness are pregnant with absurdity and (self)contradiction: which is what? Peirce wrote to a friend, the psychologist William James, about the emergence of his work in pragmatics: ‘… I seem to myself to be the sole depository at present of the completely developed system, which all hangs together and cannot receive any proper presentation in fragments’ (CP: 8.255, 1902). The virtual study of fragments (and no more than that) is perfected in Peircean scholarship by the application of readily intelligible and controllable mechanisms of (re)versing the steps of their semiosic process, through the process of Peirce’s three-dimensional categories. By this token of the complex fabric woven of ‘Feeling, Reaction, Thought’ (CP: 8.256, 1902), Peirce ‘secretly’ continued the categorical inquiry of the archeological fragments in order to achieve his own architectual wholeness.


Il tutto è «privo di danni o difetti» e «intero, puro e intatto» (OED 1989: 20: 291). Un frammento si riferisce a una frazione staccata e irrilevante, in particolare a qualcosa di distaccato dal tutto. Il frammento appartiene a un tutto altrettanto incompleto o distrutto. Non c’è una vera perfezione o imperfezione, o un’unità o disunità, poiché sia i frammenti, sia il tutto sono pieni di assurdità e si contraddicono da soli: chi è cosa? Peirce scrisse a un amico, lo psicologo William James, a proposito dell’emergere della pragmatica nella sua opera: «Al momento mi sembra di essere l’unico depositario del sistema completamente sviluppato, che sta tutto insieme e non può avere alcuna presentazione propria nei frammenti» (CP: 8.255, 1902). Lo studio virtuale dei frammenti (e non più di questo) viene perfezionato dagli studiosi di Peirce con l’applicazione di meccanismi prontamente intelligibili e controllabili per rovesciare i passaggi del loro processo semiotico, attraverso il processo delle categorie tridimensionali di Peirce. Attraverso questo segno con una struttura complicata intessuta di «Impressione, Reazione, Pensiero» (CP: 8.256, 1902), Peirce “segretamente” continuò l’indagine categorica dei frammenti archeologici così da ottenere il proprio tutto architettonico.


The concept of the fluid ‘fragments,’ demonstrated by Peirce’s writings, himself the interdisciplinary laboratory scholar avant la lettre, lie in his endeavour to reach the widest pragmaticism within various branches. He focuses on them according to his categorial scheme: firstly, mathematics; secondly, philosophy, with the three branches of categories, normative science (aesthetics, ethics) and metaphysics; and thirdly, special sciences (fields of inquiry such as linguistics, history, archeology, optics, crystallography, chemistry, biology, botany, and astronomy) as well as other, non-scientific pursuits or folk wisdom, in which we possess maxims such as: the whole is greater that the parts and the whole is simpler than its parts. The study of the fragment follows Peirce’s order: originally it is a mathematical concept, where ‘the contemplation of a fragment of a system to the envisagement of the complete system’ (CP: 4.5, 1898) and ‘one of the number of fragmentary manuscripts [is] designed to follow the present articles’ (CP: 4.553, n.2, c.1906) belonging to the whole. As opposed to Peirce’s frequent use of ‘part’ in the literal and non-technical sense (see list in CTN: 4: 129), fragment is a mathematical ‘remaining’ fraction (CP: 8.86, c.1891) of an unknown whole. It is used literally and figuratively in Peirce’s theory of pragmaticism, and applied to ‘all areas of man’s thought except in the formulation of conjecture and in the processes of logical analysis’ (Eisele 1979: 237ff.).


Il concetto di «frammenti» fluidi, dimostrato dagli scritti di Peirce – essendo Peirce stesso uno studioso da laboratorio interdisciplinare ante litteram, sta nel suo sforzo di conseguire il pragmatismo più ampio possibile nelle varie branche del sapere. Si focalizza su queste secondo il suo schema categoriale: primo, matematica; secondo, filosofia, con le tre branche di categorie, scienze normative (estetica, etica) e metafisica; e terzo, le scienze speciali (settori di ricerca come la linguistica, la storia, l’archeologia, l’ottica, la cristallografia, la chimica, la biologia, la botanica e l’astronomia) così come altre suddivisioni ascentifiche e di saggezza popolare in cui abbiamo massime quali: il tutto è più grande delle parti e il tutto è più semplice delle parti. Lo studio del frammento segue l’ordine di Peirce: originariamente è un concetto matematico, in cui «la contemplazione del frammento di un sistema fino alla previsione del sistema completo» (CP: 4.5, 1898) e «uno dei manoscritti frammentari [è] pensato per seguire i presenti articoli» (CP: 4.553, n.2, c.1906) che appartengono al tutto. Diversamente dall’uso frequente di Peirce di «parte» in senso letterale e non tecnico (si veda l’elenco in CTN: 4: 129), il frammento è un frazione matematica «rimanente» di un tutto sconosciuto. Viene usato letteralmente e figurativamente nella teoria del pragmatismo di Peirce, e applicato a «tutte le aree del pensiero umano, tranne che alla formulazione di congetture e nei processi di analisi logica» (Eisele 1979: 237 e seguenti).


Fragmentariness is applied by Peirce, a mathematician turned generalized research scientist, in order to face the hidden and invented analogue of God’s mind: ‘a fragment of His Thought, as it were the arbitrary figment’ (CP: 6.502-6.503, c.1906). Abstracted from fragments within theology, we found fragments in science, biology, psychology, logic, and cosmology (CP: 8.86, c.1891; CP: 6.283, c.1893; CP: 3.527, 1897; CP: 7.503, c.1898; CP: 8.117, n.12, 1902). Fragments are characterized as mere ‘sundries, as a forgotten trifle’ (CP: 6.6, 1892). Peirce refers to the fluid intuition of fragments, their general but vague quality of Firstness, and their ‘superficial and fragmentary’ sign (CP: 1.119, c.1896), which tends to give ‘possible information, that might take away the astonishing and fragmentary character of the experience by rounding it out’ (CP: 8.270, 1902). Peirce, the logician, thought it necessary to add that ‘we want later to get a real explanation’ (CP: 8.270). Firstness has a weak sign-quality of a ‘rudimentary fragment of experience as a simple feeling’ (CP: 1.322, c.1903), definitely away from the struggle of real life governed by logical rules. An example is given by the attempt

.. to give an account of a dream, [where] every accurate person must have felt that it was a hopeless undertaking to attempt to disentangle waking interpretations and fillings out from the fragmentary images of the dream itself … Besides, even when we wake up, we do not find that the dream differed from reality, except by certain marks, darkness and fragmentariness’ (CP: 5.216-5.217, 1868, Peirce’s emphasis).

La frammentarietà viene applicata da Peirce, matematico diventato scienziato ricercatore su scala generale, così da far fronte all’analogo inventato e nascosto della mente di Dio: «un frammento del Suo Pensiero, come se fosse finzione arbitraria» (CP: 6.502-6.503, c.1906). Senza considerare i frammenti presenti in teologia, ne troviamo in scienza, biologia, psicologia, logica e cosmologia (CP: 8.86, circa 1891; CP: 6.283, circa 1893; CP: 3.527, 1897; CP: 7.503, circa 1898; CP: 8.117, nota 12, 1902). I frammenti sono definiti come semplici «generi diversi, come un’inezia dimenticata» (CP: 6.6, 1892). Peirce si riferisce alla fluida intuizione dei frammenti, alla loro qualità generale ma vaga di Firstness, e al loro segno «superficiale e frammentario» (CP: 1.119, circa 1896), che è diretto a dare un’«informazione possibile, che può togliere il carattere frammentario e sorprendente dell’esperienza arricchendola» (CP: 8.270, 1902). Peirce, il logico, ritenne necessario aggiungere che «vogliamo dare più tardi una vera spiegazione» (CP: 8.270). La Firstness ha un inconsistente segno-qualità di un «rudimentale frammento dell’esperienza come semplice impressione» (CP: 1.322, c.1903), staccata in maniera definitiva dalla lotta per la vita vera retta da regole logiche. Un esempio è dato dal tentativo:

[…] cercando di raccontare un sogno, ogni persona attenta deve avere spesso avvertito il tentativo di districare le interpretazioni e le integrazioni fatte da svegli dalle immagini frammentarie del sogno stesso. […] D’altronde anche quando ci svegliamo, troviamo che il sogno differiva dalla realtà solo per certe marche: oscurità e frammentarietà (CP: 5.216-5.217, 1868, corsivo di Peirce).

Fragmentariness, expressive and meaningful iconicity, is the first sign of Peirce’s ‘musement.’ ‘Musement’ requires ‘an ungrudging study of the conditions of a healthy exploration’ (PW: 65, 1908) to gain access to sign-directed inquiry through its beginning Firstness. Unbroken Firstness is strengthened by broken Secondness; from single and undivided feeling the sign takes on ‘Reaction as the be-all’ (CP: 8.256, 1902). The textual sign in our daily reality triggers the balance between action and reaction, and its meaning becomes rooted in our time and space fragments ‘composed of units, or subjects, none of which is in any sense separable into parts’ (CP: 6.318, c.1909), although ‘this continuous Time and Space merely serve to weld together while imparting form to the welded whole’ (MS 200: 36, c.1909). Secondness is the temporal-spatial topology of indexicality, stated by Peirce in fragments: ‘If the sign be an Index, we may think of it as a fragment torn away from the Object, the two in their Existence being one whole or a part of that whole’ (CP: 2.230, 1910). In the index, fragments and whole are separate but still integrated together. The whole is ‘broken up and thrown away’ (CP: 6.325, c.1909) in indexical fragments, but ‘it is an easy art to learn to break up such problems up into manageable fragments’ (CP: 4.369, 1911). Indexical fragments are a ‘serviceable’ (CP: 6.325, c.1909) and ‘manageable’ (CP: 4.369, 1911) strategy to build up a categorical theory (or pseudo-theory) in order to describe different versions of the indexicality (see CP: 2.358, 1901). This echoes the opportunity to reach logical Thirdness.

La frammentarietà – l’iconicità espressiva e significativa – è il primo segno del musement di Peirce. Il musement richiede «un generoso studio delle condizioni di una sana esplorazione» (PW: 65, 1908) per ottenere l’accesso all’indagine imperniata sul segno attraverso la Firstness iniziale. La Firstness continua è rafforzata dalla Secondness discontinua; da feeling singolo e non diviso il segno assume la «reazione da tutto» (CP: 8.256, 1902). Il segno testuale nella realtà quotidiana provoca l’equilibrio tra azione e reazione, e il suo significato si radica nei nostri frammenti spaziotemporali «composti di unità, o soggetti, nessuno dei quali è in nessun senso divisibile in parti» (CP: 6.318, circa 1909), sebbene «questo Tempo e Spazio continuo serva meramente a unire insieme e non a dare una forma al tutto unito» (MS 200: 36, circa 1909). La Secondness è la topologia dell’indicalità spazio-temporale, enunciata da Peirce nei frammenti: «Se il segno è un indice, possiamo pensarlo come un frammento staccato dall’Oggetto, Oggetto e Indice essendo rispettivamente un intero o una parte di tale intero» (CP: 2.230, 1910). Nell’indice, i frammenti e il tutto sono separati ma tuttavia integrati tra loro. Il tutto è «spezzettato e buttato via» (CP: 6.325, circa 1909) nei frammenti indicali, ma «è un’arte facile imparare a spezzare tali problemi in frammenti gestibili» (CP: 4.369, 1911). I frammenti indicali sono una strategia «utile» e «gestibile» per costruire una teoria (o pseudoteoria) categoriale così da descrivere versioni differenti dell’indicalità (si veda CP: 2.358, 1901). Questo fa da eco alla possibilità di arrivare alla Thirdness logica. Semiotically, this virtual division can be illustrated by the indexical example of the single footprint in the sand that was to the Romantic fictional hero Robinson Crusoe a strange intermingling of signs from all three categories. In Peirce’s words, in his The Monist article (1906), the impression of the foot was ‘an Index to him that some creature was on his island, and at the same time, as a Symbol, called up the idea of a man. Each Icon partakes of some more or less overt character of its Object’ (CP: 4.531, 1906). The shocking discovery of the ‘print of a man’s naked foot on the shore’ was for Robinson Crusoe, marooned on the desert island, a ‘thunderous’ sign (Defoe [1719]1995: 117-118). It clearly (and unclearly) represented for the shipwrecked sailor, his own human fragmentariness and its referral to the whole of mankind. Crusoe, Daniel Delfoe’s adventurer, described his circumstances thus:

… I fancied it must be the devil, and reason joined in with me upon this suppositions; for how should any other thing in human shape come into the place? Where was the vessel that brought them? What marks was there of any other footsteps? And how was it possible a man should come there? But then to think of Satan should take human shape upon him in such a place, where there could me no manner of occasion for it, but to leave the print of his foot behind him, and that even for no purpose too, for he could not be sure I could see it; this was an amusement the other way. (Defoe [1719]1995: 118)

A livello semiotico, questa divisione virtuale può essere illustrata dall’esempio indicale di un’unica impronta sulla sabbia che, per Robinson Crusoe immaginario personaggio romantico, era uno strano miscuglio di segni di tutte e tre le categorie. Secondo le parole di Peirce, nell’articolo del The Monist (1906), l’impronta del piede era «per lui un Indice che c’era una creatura sull’isola, e nello stesso tempo, in quanto Simbolo, richiamava l’idea di un uomo. Ogni Icona partecipa di un qualche carattere più o meno manifesto del suo Oggetto» (CP: 4.531, 1906). La scoperta scioccante dell’«impronta di un piede umano nudo sulla battigia» fu per Robinson Crusoe, abbandonato sull’ isola deserta, un segno «minaccioso» (Defoe [1719]1995: 117-118). Questo segno rappresenta chiaramente (e non chiaramente) per il marinaio naufragato, la sua frammentarietà umana e il suo riferimento all’umanità tutta. Crusoe, l’avventuriero di Daniel Defoe, descrive così le sue condizioni:

[…] A volte ero indotto a pensare che quella fosse l’orma del demonio, e la ragione sembrava confortare una siffatta ipotesi: com’era possibile, infatti, che un essere umano fosse giunto in un luogo simile? Dov’era la nave che lo aveva portato sin lì? E come mai c’era quell’unica impronta? D’altra parte l’eventualità che Satana assumesse forma umana in un luogo simile, dove non aveva altra possibilità se non quella, appunto, di lasciare la propria orma impressa sulla sabbia (e anche questa senza uno scopo apprezzabile, perché non poteva essere certo ch’io la vedessi) appariva per un altro verso incongrua e ridicola (Defoe [1719]1976: 165) .


The contents of both the fragments ‘torn away from’ (CP: 2.230, 1910) the whole text (referring to the outside pictorial and linguistic world) includes the meaning of all categories. Shapewise, the sign was an iconic impression of some isolated human foot, symbolizing in its nature the hidden feelings of the voyageur sur la terre about the possible and real opportunity to attain human friendship through divine intervention. The fictional protagonist of the first-person novel, Robinson Crusoe, sees the isolated sign in its stream-of-consciousness structure of time and place, bringing his present being into the future. This strange Robinsonade, ‘borrowed’ from the preserved and revered marks left by feet of saints and holy men (see Psalms 89: 50-51 and Ezek. 43: 7) was, in the vision of Defoe’s Crusoe, an existential trace suggesting, embodying and interpreting the sign with oppressive, even devious, significations to trick his readers into believing his fictions as truth.

Peirce wrote that the shape of Firsts were just iconic ‘pictures or diagrams or other images … used to explain the signification of words’ while their aspect of symptoms (Second) will signify ‘the denotations of subject-thought’ (CP: 6.338 = MS 200: 43, c. 1909), here personified in the feelings and attitudes of the novel’s protagonist.the denotations of subject-thought’ (CP: 6.338, c.1909), here personified in the feelings and attitudes of the novel’s protagonist.


 

I contenuti di entrambi i frammenti «staccati da» (CP: 2.230, 1910) il testo intero (che si riferiscono al mondo linguistico e pittorico esterno) comprendono il significato di tutte le categorie. Dal punto di vista della forma, il segno era un’impressione iconica di un piede umano isolato, che nella sua natura simboleggiava i sentimenti nascosti del voyageur sur la terre riguardo alla reale possibilità di ottenere l’amicizia umana attraverso l’intervento divino. Il protagonista immaginario del romanzo in prima persona, Robinson Crusoe, vede il segno isolato nel suo flusso di coscienza spazio-temporale, proiettando il suo essere presente nel futuro. Questa strana Robinsonade, “presa in prestito” dalle impronte conservate e venerate lasciate dai piedi dei santi (si veda Psalms 89: 50-51 e Ezek. 43: 7) era, nella visione del Crusoe di Defoe, una traccia esistenziale che suggeriva, incarnava e interpretava il segno con significati oppressivi e persino devianti, per ingannare i lettori facendo passare la finzione per realtà.

Peirce scrisse che la forma dei Firsts era solo iconici «dipinti o diagrammi o altre immagini […] usate per spiegare il significato delle parole» mentre il loro aspetto di sintomi (Seconds) significherà «le denotazioni del soggetto-pensiero» (CP: 6.338 = MS 200: 43, c. 1909), qui personificate nelle sensazioni e negli atteggiamenti del protagonista del romanzo.


The first-person narrative of The Life and Adventures of Robinson Defoe; Written By Himself is composed into forms and shapes of dialogic interaction, channeling together the inner and outer speech in the mixture of the major indices of the sign, coming from the voices of the real author, Defoe, and his alter ego, the fictional Robinson Crusoe. The footprint was possibly (First) and actually (Second) left by some other, a supposedly ‘savage’ man later baptized with the day of the human encounter, Friday (Third). The other, unknown sign is to be perceived and interpreted by the voice of the known, ‘intellectual’ Robinson Crusoe. In the picaresque art of applied semiotics, the Firstness of Peirce’s musement has thereby overflowed into a narrative form of amusement of otherness, as we read Robinson Crusoe’s eye-witness account. To show the dynamic interaction of Peirce’s triadic truism, namely amusement (which is not the opposite of musement), as mentioned in his miscellaneous manuscripts (MS 1521-1539, n.d., Robin 1967: 161-162) and illustrated in Robinson Crusoe’s ‘autobiography,’ would be the effect of a semiotic art, game, or science, both private and public, and include the intermingling intermediate diversions. In Peirce’s view, amusement is an ‘occupation calling the mind into activity for the sake of excitement,’ adding that ‘[i]t is not necessarily light or hilarious; and though it is pleasurable, that is not the essence of it. Its true motive is the impulse to live actively’ (MS 1135: 118, [1895]1896).


Il narratore in prima persona di The Life and Adventures of Robinson Crusoe; Written By Himself è composto in forme e strutture di interazione dialogica, canalizzando insieme il discorso interiore ed esteriore nella mescolanza dei maggiori indici del segno, risultanti dalle voci dell’autore reale, Defoe, e dal suo alter ego, l’immaginario Robinson Crusoe. L’impronta probabilmente (First) e realmente (Second) è stata lasciata da qualcun altro, un presunto uomo “selvaggio” in seguito battezzato con il nome del giorno in cui ha incontrato Robinson, Venerdì (Third). L’altro segno sconosciuto viene percepito e interpretato dalla voce del conosciuto, “intellettuale” Robinson Crusoe. Nell’arte picaresca della semiotica applicata, la Firstness del musement di Peirce è perciò sfociata in una forma narrativa di amusement della altruità, mentre leggiamo di ciò che vedono gli occhi testimoni di Robinson Crusoe. Mostrare l’interazione dinamica del truismo triadico di Peirce, vale a dire l’amusement (che non è l’opposto del musement), come menzionato nei suoi manoscritti miscellanei (MS 1521-1539, non datati, Robin 1967: 161-162) e illustrato nell’“autobiografia” di Robinson Crusoe sarebbe l’effetto di un’arte, un gioco, o una scienza semiotica, allo stesso tempo privata e pubblica, e comprende le diversioni intermedie che si intrecciano tra loro. Nella visione di Peirce, l’amusement è «un’occupazione che attiva la mente per raggiungere l’eccitazione» aggiungendo che «non è necessariamente divertente e ilare; e nonostante sia piacevole, non è l’essenza del piacere. La sua vera ragione è l’impulso a vivere attivamente» (MS 1135: 118, [1895]1896).

Further, social amusement is a pastime or hobby ‘to which the stimulus is the desire to accomplish for the execution of ‘these amusements of other people, but merely as playthings’ (MS 1135: 103, [1895]1896). In Peirce’s lists of amusement (MS 1135: 99-121 [1895]1896), amusement is basically a Second — card games, picnics, coin-collecting, catching butterflies, letter writing — flowing back into First — amateur cookery, horticulture, embroidery, swimming — and overflowing into Third — diplomacy, chess as well as other games of calculations, mathematical problems, and logical games such as word scrambles, crosswords, puzzles and existential graphics (Peirce’s examples). Robinson Crusoe’s bizarre amusements on his desert island illustrated the ‘Adventures With Personal Danger,’ ‘Contests Between a Man and a Brute’ approximating the ‘Pursuit of Strange Experiences’ (MS 1135: 102, 104, [1895]1896). The central tension which the story of Crusoe clarifies is that between ‘intellectual’ and ‘savage’ ways of thought, wherein lies a secret code fashionable in Defoe’s (and Peirce’s) days, with a hidden message. Defoe tries to square the circle by both recording events in both ways of thinking and shaping them to intellectually determine the readership’s responses then and today. The novelistic struggle between different pictures is ultimately inconclusive, as of course semiosis has to be.


Inoltre, l’amusement sociale è un passatempo o hobby «il cui stimolo è il desiderio portare a compimento» questi amusement di altra gente, ma come meri giocattoli» (MS 1135: 103, [1895] 1896). Nella lista di amusement di Peirce (MS 1135: 99-121 [1895]1896), l’amusement fondamentalmente è un Second – giochi di carte, picnic, collezione di monete, caccia alle farfalle, stesura di lettere – che rifluisce nel First – cucina amatoriale, orticultura, ricamo, nuoto – che straripa nel Third – diplomazia, scacchi così come altri giochi di calcolo, problemi matematici, e giochi di logica come anagrammi, parole crociate, puzzle e grafici esistenziali (esempi di Peirce). Gli strani amusement di Robinson Crusoe sull’isola deserta illustravano le «Avventure Con Pericolo Personale», «Contenuto tra un Uomo e un Bruto» che si accosta alla «Ricerca di Strane Esperienze» (MS 1135: 102, 104, [1895] 1896). La tensione centrale che la storia di Crusoe chiarifica è che tra i modi di pensare «intellettuale» e «selvaggio» si trova un elegante codice segreto ai giorni di Defoe (e Peirce), con un messaggio nascosto. Defoe cerca di far quadrare il cerchio sia registrando secondo entrambe le modalità di pensiero, sia dando loro forma per determinare intellettualmente le risposte dei lettori di allora e di oggi. Lo scontro romanzesco tra immagini diverse in definitiva non si conclude mai, come certo deve succedere anche alla semiosi.


 Bricolage, paraphrase, manuscript

 

The contents of both fragments and the whole include the dynamic dialectic of the interactive categories. The ‘wild romance’ (Chesterton 1985: 79) of First, Seconds, and Thirds transforms the textual units of sentence, paragraph, and section (Werlich 1976: 192ff.) into Peirce’s intertextual categories (Almeida 1979), utilizing the fragmentary and fluid tools of bricolage, paraphrase, and manuscript. The few luxurious comforts of Robinson Crusoe enable him to survive by transformation on his island, accomodating seen for unseen and old for new:

Every kitchen tool becomes ideal because Crusoe might have dropped it in the sea. It is a good exercise, in empty or ugly hours of the day, to look at anything. The coal-scuttle or the book-case, and think how happy one could have brought it out of the sinking ship on to the solitary island. But it is as better exercise still to remember how all things have had this hair-breath escape: everything has been saved from a wreck. … Men spoke in my boyhood of restricted or ruined men of genius: and it was common to say that many a man was a Great Might-Have-Been. To me it is a more solid and startling fact that any man in the street is a Great Might-Not-Have-Been. (Chesterton 1985: 79)


Bricolage, parafrasi, manoscritto

I contenuti sia dei frammenti sia del tutto comprendono la dialettica dinamica delle categorie interrative. Il «wild romance» (Chesterton 1985: 79) di First, Second, e Third trasforma le unità testuali di frase, paragrafo e sezione (Werlich 1976: 192 e seguenti) nelle categorie intertestuali di Peirce (Almeida 1979), usando gli strumenti frammentari e incompleti del bricolage, della parafrasi, e del manoscritto. I pochi comfort di lusso di Robinson Crusoe gli permettono di sopravvivere sulla sua isola mediante trasformazione, adattandosi tra visto e non visto, tra vecchio e nuovo:

Ogni utensile da cucina diviene ideale perché Crusoe avrebbe potuto lasciarlo cadere nel mare. È un buon esercizio nelle ore vuote o cattive del giorno stare a guardare qualche cosa, il secchio del carbone o la cassetta dei libri, e pensare quante sarebbe stata la felicità di averli salvati e portati fuori dal vascello sommerso sull’isolotto solitario. Ma un miglior esercizio ancora è quello di rammentare come tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio. […] Sentivo parlare, quand’ero ragazzo, di uomini di genio rientrati o mancati sentivo spesso ripetere che più d’uno era un grande «Avrebbe-potuto-essere». Per me, un fatto più solido e sensazionale è che il primo che passa è un grande «Non-avrebbe-potuto-essere» (Chesterton 1955: 89).


The model of Peirce’s laboratory experiment and the tools and materials utilized in the survival-machine of the progressive technique of the words, sentences, and text (Gorlée 2000) are in accord with the lesson on the cumulative and complex acts of translation, which ‘may be broken down into a doing interpretive of the ab quo text and a doing of the ad quem text’ (Greimas and Courtès 1982: 352, their emphasis). This two-way interfacing of adaption and adjustment of verbal units leads from perception of the three-way known item to possible knowledge of the unknown item. Translated into Peirce’s three-way continuity cum discontinuity, translation is basically a creative manipulation of different levels of language: Secondness and Firstnesss in dynamic accord with its essential Thirdness. These stages of concern are also implicit in the virtual ‘laboratory’of the translator who is provided with a suitably qualified, workmanlike (or workwomanlike) mind, one who can be no idealistic know-it-all of the fragments, but whose duties is to create from the known textual units a unknown but knowable ones ‘living’ in a different verbal code.

Fragmentariness, Peirce’s quality of Firstness, is what Claude Lévi-Strauss famously called bricolage in French. In La pensée sauvage (1966: 16-36, trans. from 1962), Lévi-Strauss indicated a first fragment belonging to a whole, crystallized in a situation of bricolage, the material sign derived from the Old French bricole, meaning ‘trifle.’

Il modello dell’esperimento da laboratorio di Peirce e gli strumenti e i materiali usati nella macchina della sopravvivenza della tecnica progressiva di parole, frasi, e testo (Gorlée 2000) sono in accordo con la lezione sugli atti di traduzione cumulativi e complessi, che «possono essere frammentati in un fare interpretativo del testo ab quo e un fare del testo ad quem» (Greimas e Courtès 1982: 352, corsivo degli autori). Questo interfacciarsi biunivoco di adattamento e aggiustamento delle unità verbali porta dalla percezione dell’oggetto triadico noto alla conoscenza possibile dell’oggetto sconosciuto. Tradotta nel triadico continuità cum discontinuità di Peirce, la traduzione è fondamentalmente una manipolazione creativa di livelli diversi del linguaggio: Secondness e Firstness in accordo dinamico con l’essenziale Thirdness. Questi gradi di interesse sono anche impliciti nel “laboratorio” virtuale del traduttore che è fornito di una mente artigianale adeguatamente qualificata, che può non essere la conoscenza idealistica di tutti i frammenti, ma il cui compito è creare dalle unità testuali conosciute altre unità sconosciute ma conoscibili “viventi” in un codice verbale diverso.

La frammentarietà, la qualità di Firstness di Peirce, è ciò che Claude Lévi-Strauss chiamava in francese, come è noto, bricolage. Nel Pensiero selvaggio (1968: 16-36), Lévi-Strauss indicava un primo frammento che apparteneva al tutto, cristallizzato in una situazione di bricolage, il segno materiale derivato dal francese antico bricole, che significava «inezia».

A bricolage gives a false assumption without real seriousness, trivial guesswork hazarded in some haste to construct with the combination of the old word-signs something new and exciting for the new receivers. Lévi-Strauss changed the quality of the original signs and their function to accommodate it to the function of the new word-sign. Peirce had anticipated the bricolage situation in his ‘forgotten trifle’ (CP: 6.6, 1892) where he took up a ‘rudimentary fragment of experience as a simple feeling’ (CP: 1.322, c.1903). Thereby he illustrated an First example of ‘weak’ type of logic. The handyman or makeshift tinkerer (Fr. bricoleur) makes use of his (her) ‘savage thought’ – also called by Lévi-Strauss the product of ‘“prior” rather than “primitive” … speculation’ (1966: 16). The new and changed construction is made or put together with whatever happens to be at hand, available and/or left over. Bricolage shows the free activities of the amateur and professional artisan, both engaged in a manual craft, a technical trade, or a cultural handicraft, and maybe integrating some imaginative aspects of engineers and artists. Jean-Paul Dumont revealed that

 

Anyone who has ever turned an empty Chianti bottle into a lamp, ‘liberated’ milk-crates to transform them into book-shelf supports, or ruined a table knife in trying to loosen the screws of a door-knob can appreciate the quintessence of ‘bricolage.’ …

Un bricolage dà una presupposizione falsa senza una reale serietà, una congettura banale azzardata in fretta per costruire grazie alla combinazione di vecchie parole-segno qualcosa di nuovo ed eccitante per i nuovi destinatari. Lévi-Strauss cambiò la qualità dei segni originali e la loro funzione per adattarla alla funzione del nuova parola-segno. Peirce aveva anticipato la situazione bricolage nella sua «inezia dimenticata» (CP: 6.6, 1892) in cui prese in considerazione un «frammento rudimentale dell’esperienza come semplice percezione» (CP: 1.322, c.1903). Perciò illustrò un primo esempio di tipo di logica “debole”. Il tuttofare o l’improvvisato aggiustatutto (francese bricoleur) fa uso del suo «pensiero selvaggio» detto anche da Lévi-Strauss prodotto della «speculazione» a priori più che «primitiva» (1968: 16). La costruzione modificata e nuova è fatta o messa insieme con qualsiasi cosa sia a portata di mano, disponibile e/o rimasta. Il bricolage mostra le attività libere dell’artigiano amatore o professionale, entrambi impegnati in un lavoro manuale, un mestiere tecnico, o un artigianato culturale, e che forse integrano alcuni aspetti immaginativi degli ingegneri e degli artisti. Jean-Paul Dumont rivelava che:

Nessuno che non abbia mai fatto diventare un bottiglia vuota di Chianti una lampada, una cesta del latte “liberata” una libreria, o rovinato un coltello da tavolo cercando di allentare le viti del pomo di una porta, può apprezzare la quintessenza del bricolage […].


No need of fancy projects: jotting, at lunch, a phone number on a paper napkin or using, on one’s desk, a yogurt pot as a pencil holder are already akin to bricolage. In fact, knowingly or not, by taste or perforce, with more or less success, willy-nilly, we are all ‘bricoleurs’ and thus all of us participate in savage thought … (Dumont 1985: 29-30)

 

The domesticated ‘science of the concrete’ (Lévi-Strauss 1966: 16) can grow into a complex mechanism in its scope responding to the tasks of a gardener, an interior decorator, a storyteller, a sculptor, or chef, disengaging from their actual function to fabricate something new and unexpected cultural sign, creative and new but still ‘pregnant with historical contingencies’ (Dumont 1985: 31) (see Peirce’s incomplete sketch in MS 1135: 144, [1895]1896, itself a bricolage). Some intellectual or scientific examples are also possible (a trained engineer and a judge), in order to interface Peirce’s provisional, strictly ad hoc feelings with logical and rational responses (Colapietro 1993: 56, Gorlée 2005b).

Lévi-Strauss characterized the arrangement of mending and making bricolages as ‘in French “des bribes et des morceaux,” or odds and ends in English,’ in order to describe the broken word-signs as ‘fossilized evidence of the history of an individual or a society’ (1966: 22).


Nessun bisogno di progetti elaborati: annotando, a pranzo, un numero di telefono su un tovagliolo di carta o usando, sulla propria scrivania, un vasetto di yogurt come portapenne si è già vicini al bricolage. In realtà, consapevoli o no, per gusto o per forza, con più o meno successo, volenti o nolenti siamo tutti bricoleur e quindi partecipiamo tutti al pensiero selvaggio […] (Dumont 1985: 29-30).

La «scienza del concreto» addomesticata (Lévi-Strauss 1968: 16) può diventare un meccanismo complesso che nel suo campo d’azione risponde ai compiti di un giardiniere, di un decoratore d’interni, di un cantastorie, di uno scultore, o di un cuoco, liberandoli dalla loro funzione attuale di fabbricare segni culturali nuovi e un inaspettati, creativi e nuovi ma sempre «ricchi di contingenze storiche» (Dumont 1985: 31) (si veda l’abbozzo incompleto di Peirce in MS 1135: 144, [1895]1896, esso stesso un bricolage). È possibile fare anche qualche esempio intellettuale o scientifico (un ingegnere o un giudice), così da interfacciare le percezioni provvisorie e strettamente ad hoc di Peirce con risposte logiche e razionali (Colapietro 1993: 56, Gorlée 2005b).

Lévi-Strauss ha definito la pratica del rammendare e fare bricolage come «in francese “des bribes et des morceaux”, o “odds and ends” in inglese, così da descrivere le parole-segno frammentate come evidenza fossilizzata della storia di un individuo o di una società» (1968: 22).


A bricolage is a mix of bits and pieces, yet inspired by the desire to compose an ideological bric-à-brac impression of the whole, where ‘the signified changes into the signifying and vice versa’ (Lévi-Strauss 1966: 21). This creative event is, in Peirce’s terminology, a discovery (research) of the first element in search of the discovery of the categorical ‘ideas, lying upon the beach of the mysterious ocean’ (MS 439: 9, 1898). Bricolages are compared to a few shells on the beach; in the discoverer’s view they are simple building bricks (Peirce’s sign-ideas) in order to mend or arrange for a new sign construction. The discovery ‘between design and anecdote’ (Lévi-Strauss 1966: 25) includes transmogrifying the keys, flexibility and function, see Peirce’s observation and performance of the original sign. Both ‘being’ and ‘becoming’ (Lévi-Strauss 1966: 25) are conjoined by trained skill. The surprise is ruled by the spontaneity of chance and probability, treating imaginary and correct quantities in utter random order. No definite conclusion can exist in the improvised fabric of bricolages.

Translation is, equally, a creative ‘construction [which] begins with a destruction’ (Dumont 1985: 41). The fabric woven of translation is also an indirect transformation of previous signs to create something new. The ‘black box’ transforming the translator’s mind seems to work on a text-sign in a system of ideas ‘on the lookout for that other message’ (Lévi-Strauss 1966: 20, his emphasis).

Un bricolage è un mix di pezzi e bocconi, tuttavia ispirati dal desiderio di comporre un’impressione ideologica bric-à-brac del tutto, in cui «il signifié cambia nel signifiant e viceversa» (Lévi-Strauss 1968: 21). Questo evento creativo nella terminologia di Peirce è una scoperta (ricerca) del primo elemento in cerca della scoperta delle categoriche «idee, che giacciono sulla spiaggia dell’oceano misterioso» (MS 439: 9, 1898). I bricolage sono paragonati a qualche conchiglia sulla spiaggia; dal punto di vista dello scopritore sono semplici mattoni da costruzione (i segni-idea di Peirce) così da aggiustare e sistemare una nuova costruzione segnica. La scoperta «tra progetto e aneddoto» (Lévi-Strauss 1968: 25) comprende il convertire le chiavi, flessibilità e funzione; si veda l’osservazione e la performance sul segno originale di Peirce. Sia «essere» che «divenire» (Lévi-Strauss 1968: 25) hanno in comune abilità esercitate. La sorpresa sta nella spontaneità della fortuna e della probabilità, trattando le quantità immaginarie e corrette in ordine completamente casuale. Non esiste una conclusione definita nella struttura improvvisata dei bricolage. La traduzione è, allo stesso tempo, una creativa «costruzione [che] comincia con una distruzione» (Dumont 1985: 41). Il tessuto di una traduzione è anche una trasformazione indiretta di segni preliminari per creare qualcosa di nuovo. La “scatola nera” che trasforma la mente del traduttore sembra lavorare a un testo-segno in un sistema di idee «pronte a captare that other message» (Lévi-Strauss 1966: 20, corsivo suo).

The code is a ready-made linguistic code, which is in itself a rule but still creative cryptotext. The bricoleur is the intuitive, technical and cultural text-operator who interprets and translates, guided by his or her own flexibility and function. The bricolages are the new life as effects of the bold experiments in the composition of reconverted signs. The translational strategy generates new but equivalent signs in the new cryptotext. The interpretable and translatable signs are analyzed by the translator as integrating Peirce’s triadic categories:

… be it of the nature of a significant quality, or something that once uttered is gone forever, or an enduring pattern, like our sole definite article; whether it professes to stand for a possibility, for a single thing or [happening] event, or for a type of things or of truths; whether it is connected with the thing, be it truth or fiction, that it represents, by imitating it, or by living an effect of its object, or by a convention or habit; whether it appeals merely to feeling, like a tone of voice, or to action, or to thought; whether it makes it appeal by sympathy, by emphasis, or by familiarity; whether it is a single word, or a sentence, or is Gibbon’s Decline and Fall; whether it is of the nature of a jest [scrawled on an old enveloppe], or is sealed and attested, or relies upon artistic force; and I do not stop here because the varieties of signs are by any means exhausted. Such is the definition which I seek to fit with a rational, comprehensive, scientific, structural definition, – such as one might give of ‘loom,’ ‘marriage,’ ‘musical cadence;’ aiming, however, let me repeat, less

Il codice è un codice linguistico bell’e pronto, che è in sé stesso una regola ma anche un criptotesto creativo. Il bricoleur è l’operatore testuale intuitivo, tecnico e culturale che interpreta e traduce, guidato dalla sua propria flessibilità e funzione. I bricolage sono la nuova vita in qualità di effetti degli esperimenti audaci nella composizione dei segni riconvertiti. La strategia traduttiva genera segni nuovi ma equivalenti nel nuovo criptotesto. I segni interpretabili e traducibili sono analizzati dal traduttore come integranti le categorie triadiche di Peirce:

[…] che sia della natura di una qualità significativa, o qualcosa che una volta pronunciato e andato per sempre, o uno schema ricorrente, come il nostro articolo determinativo; che professi di stare per una possibilità, per una cosa singola o per un evento [che succede], o per un tipo di cosa o di verità; che sia connesso con la cosa, che sia verità o funzione, che rapapresenti, per imitazione, o vivendo un effetto del suo oggetto, o per convenzione o abitudine; che faccia appello solo alla percezione, come un tono di voce, o all’azione, o al pensiero; che vi faccia appello per simpatia, per enfasi o per familiarità; che sia una singola parola, o una frase, o Declino e caduta dell’impero romano di Gibbon; che sia della natura dell’annotazione scherzosa [scarabocchiata su una vecchia busta], o che sia sigillata e attestata, o si basi sulla forza artistica; e non mi fermo qui perché le varietà dei segni siano esaurite, affatto. Tale è la definizione che io cerco di adattare a una definizione razionale, comprensiva, scientifica, strutturale, come la si potrebbe dare di «loom», «marriage», «musical cadence»; avendo tuttavia come scopo, lasciatemelo ripetere, meno di quanto convenzionalmente significhi un definitum, che quanto nell’ipotesi ottimale ragionevolmente deve significare (MS 318: 52-54, 1907, le prime versioni e quelle cancellate di Peirce del manoscritto tra parentesi [mia traduzione]).

at what the definitum conventionally does mean, than at what it were best, in reason, that it should mean. (MS 318: 52-54, 1907, Peirce’s earlier and deleted versions of this manuscript placed in brackets)

The new meanings in the translatable fragment-signs and text-signs exist really and pragmatically in the translator’s mind, a mysterious way to explain a polyphonic structure of iconic-indexical forms of language which is produced and then interpreted, concentrating on the material for the next discovery of ‘symbols, like words’ (CP: 6.340, c.1909), the habitat or home of translatable and translated text-signs or thought-signs: Consequently, all thinking is conducted in signs that are mainly of the same structure as words; those which are not so, being of the nature of those signs of which we have need now and in our converse with one another to eke out the defects of words, or symbols. These non-symbolic thought-signs are of two classes. …The Icons chiefly illustrate the significations of predicate-thoughts, the Indices the denotations of subject-thoughts. (CP: 6.338 = MS 200: 43-44, c.1909, Peirce’s emphasis) The vocabulary, that is only the fragment of irreducible words by themselves, sticks to the bricolage-like images and meaning-pictures of loose words, unrestrained at first by concerns for logic and accuracy. The simple feeling of the function of word-signs, such as the possible functions imposed on the words such as ‘seeing,’ ‘simple,’ ‘with,’ ‘bank,’ ‘hi,’ ‘last,’ ‘heaven’ are a false guess, relatively easy to interpret and translate. The guesses spring from the human awareness of the existence of the terms, but their meaning is only a simple speculation ‘unattached to any subject, which is merely an atmospheric possibility, a possibility floating in vacuo, not rational yet capable of rationalization’ (CP: 6.342, c.1909. Peirce’s emphasis).

I nuovi significati nei frammenti-segni traducibili e nei testi-segni esistono realmente e pragmaticamente nella mente del traduttore, un modo misterioso per spiegare una struttura polifonica di forme iconiche-indicali di linguaggio che viene prodotto e poi interpretato, concentrandosi sul materiale per la successiva scoperta di «simboli, come parole» (CP: 6.340, c.1909), l’habitat o la casa dei testi-segni o dei pensieri-segni traducibili e tradotti: Di conseguenza, tutto il pensiero è condotto in segni che perlopiù sono della stessa struttura delle parole; quelli che non lo sono, essendo della natura di quei segni di cui abbiamo bisogno ora e nella nostra relazione reciproca per superare i difetti delle parole, o simboli. Questi pensieri-segni non simbolici sono di due classi […]. Le icone perlopù illustrano i significati dei pensieri-predicati, gli indici le denotazioni del pensieri-soggetti. (CP: 6.338 = MS 200: 43-44, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]). Il vocabolario, che è solo il frammento di parole in sé irriducibili, aderisce alle immagini-bricolage e ai significati-immagine delle parole staccate, libere al principio da preoccupazioni per la logica e per l’esattezza. La semplice percezione della funzione delle parole-segno, così come le funzioni possibili imposte a parole come «vedendo», «semplice», «con», «banca», «ciao», «ultimo», «paradiso» sono false

Good examples of such ‘diagrams or other fabricated instances’ (MS 200: 43, 1907) are given in Peirce’s own titles – ‘The Third Curiosity” (MS 199, 1907), “The Fourth Curiosity” (MS 200, 1907), “Some Amazements of Mathematics’ (MS 202: c.1908) (see Robin 1967: 21-22). The titles include separate and unrestrained words, such as ‘some,’ ‘amazements,’ ‘mazes,’ ‘fourth,’ and ‘curiosity.’ Peirce argues that the words

 

… involve the calling up of an image … as ordinary common nouns and verbs do; or it may require its interpretation to refer to the actual surrounding circumstances of the occasion of its embodiment, like such words as that, this, I, you, which, here, now, yonder, etc.’ (CP: 4.447, c.1903, Peirce’s emphasis).

 

Peirce clearly states that ‘verbs or portions of verbs, such as adjectives, common nouns, etc.’ (CP: 4.157, 1897), including the use of quotation marks, are the (ab)use of separate interjections and exclamations provided with unclear meanings. Meaningfully, all words remain as loose ‘phrase[s] like most of the terminology of grammar’ (CP: 3.458, 1897).


supposizioni, relativamente facili da interpretare e tradurre. Le supposizioni nascono dalla consapevolezza umana dell’esistenza dei termini, ma il loro significato è solo una semplice speculazione «non collegata ad alcun soggetto, che è mera possibilità atmosferica, possibilità fluttuante in vacuo, non razionale né capace di razionalizzazione» (CP: 6.342, circa 1909, corsivo di Peirce [mia traduzione]).

Buoni esempi di tali «diagrammi o altri esempi inventati» (MS 200: 43, 1907) sono presenti nei titoli stessi di Peirce «The Third Curiosity» (MS 199, 1907), «The Fourth Curiosity» (MS 200, 1907), «Some Amazements of Mathematics» (MS 202: circa 1908) (si veda Robin 1967: 21-22). I titoli comprendono parole separate e libere, come «some», «amazements», «mazes», «fourth», e «curiosity». Peirce argomenta che le parole

[…] comprendono il richiamo di un’immagine […] come fanno i nomi comuni ordinari e i verbi; o può richiedere che la sua interpretazione si riferisca alle effettive circostanze dell’occasione della sua incorporazione, come in parole quali quello, questo, io, tu, quale, qui, ora, là, eccetera (CP: 4.447, c.1903, corsivo di Peirce).

Peirce afferma chiaramente che «verbi o parti dei verbi, come aggettivi, nomi comuni, eccetera» (CP: 4.157, 1897), compreso l’uso di virgolette, sono l’(ab)uso di interiezioni ed esclamazioni distinte dotate di significati poco chiari. Significativamente, tutte le parole restano come
Characterized as soft, bricolage-like instances with no perfect equivalence of meaning, the translation of words deals with ‘the problem (at times a pseudo-problem) of how certain frequently twinned parts of speech – noun and verbs – ‘ (Sebeok 1986: 7, see also ff.) as well as the syllables used, negative pronouns, personal pronouns, conjunctions, and category terms for past and present participles, indefinite articles, attributive pronouns, genitive cases, adverbial adjuncts, and punctuation symbols seem to function in isolation as ‘indecomposable’ signs (CP: 1.562, c.1905) emphasized in linguistic form, structure, and matter (see CP: 1.288f., c.1908).

In a text-sign, a bricolage-like sign is a zero element, a ‘negative of quantity … and in a sense as itself a special grade of quantity’ although ‘[t]his is no violation of the principle of contradiction: it is merely regarding the negative from another point of view’ (MS 283: 109, 1905-1906) (developed by Jakobson 1971a and 1971b; see Lange-Seidl 1986, Kevelson 1998, Kurzon 1997 and others, generally Rotman 1987, part. 97 ff.). The zero sign is a sign of emptiness, but it points in some discontinuous direction. Bricolage is both unrestrained and restrained. Nothingness will stay muted in reasoning until ‘existing.’ Secondness will be added to the ‘imagined’ Firstness (CP: 8.357, 1908; see Peirce’s ‘imaginable or imageable’ relation [PW: 70, 1908], Peirce’s emphasis).


sciolte «frasi come la maggior parte della terminologia della grammatica» (CP: 3.458, 1897). Definita come casi precari di bricolage senza nessuna equivalenza perfetta di significato, la traduzione di parole ha a che fare con «il problema (a volte uno pseudoproblema) di come alcune parti del discorso frequentemente abbinate – nomi e verbi –» (Sebeok 1986: 7, si vedano anche le pagine seguenti) così come le sillabe usate, i pronomi negativi, i pronomi personali, le congiunzioni, e i termini di categoria per i participi passati e presenti, articoli indefiniti, pronomi attributivi, casi genitivi, attributi, e la punteggiatura sembrano funzionare isolati come segni «indecomponibili» (CP: 1.562, c.1905) enfatizzati nella forma linguistica, nella struttura e nel contenuto (si veda CP: 1.288 e seguenti, circa 1908).

In un testo-segno, un segno bricolage è un elemento zero, un «negativo di quantità […] e in un certo senso in quanto esso stesso un grado speciale di quantità» sebbene «non si tratti di violazione del principio di contraddizione: riguarda solo del negativo da un altro punto di vista» (MS 283: 109, 1905-1906 [mia traduzione]) (approfondito da Jakobson 1971a e 1971b; si veda Lange-Seidl 1986, Kevelson 1998, Kurzon 1997 e altri, generally Rotman 1987, in particolare 97 e seguenti). Il segno «zero» è un segno di vuoto, ma punta in direzioni discontinue. Il bricolage è sia limitato che illimitato. Il nulla resterà muto nel ragionamento finché «esistente». La Secondness verrà aggiunta alla «imagined» Firstness (CP: 8.357, 1908; si veda la relazione «imaginable o imageable» di Peirce [PW: 70, 1908], corsivo di Peirce).

Pure Firstness ‘signifies a mere dream, an imagination unattached to any particular occasion’ (CP: 3.459, 1897), whereas practical Secondness serves to ‘denominate things, which things he identifies by the clustering of reactions, and such words are proper names, and words which signify, or mean, qualities’ (CP: 4.157, 1897, Peirce’s emphasis). The repeated meaning of the simple lexical form, Peirce’s iconic replica, tends to harden the soft and controversial separation and connection, difference and sameness, while accomodating to the jointure of one category to another (see the items mentioned for vocabulary in OED as well as their common and technical uses, their Firstness and Secondness decided to join brick and mortar). With Peirce’s architectural framework, the logical meaning of vocabulary depends on its practical use to enlighten the specific pragmatic contextualization. Then, within the real context, the simple unit would become an actual ‘building’ message.

The upgrading ‘grounding’ sign-shades of qualisign, sinsign, or legisign (CP: 2.243f., also called tone, token, or type) includes ‘a mere idea or quality of feeling,’ an ‘individual existent’ until a ‘general type … to which existents may conform’ (MS 914: 3, c.1904) in accordance with the order of the three categories. Tone (qualisign) is the mere sign itself, token (sinsign) is the object-oriented sign, and type (legisign) is the law-like sign (see Savan 1987-1988: 19-24, Gorlée 1994: 51-53).
La Firstness pura «significa una mera fantasticheria, una rappresentazione non collegata ad alcuna particolare circostanza» (CP: 3.459, 1897), mentre la Secondness pratica serve a «denominare le cose, cose che identifica attraverso il raggruppamento di reazioni, e tali parole sono nomi propri, e parole che vogliono dire, o significare, qualità» (CP: 4.157, 1897, corsivo di Peirce). Il significato ripetuto della semplice forma lessicale, riproduzione iconica di Peirce, tende a indurire la separazione e la connessione, la differenza e la somiglianza controverse e labili, mentre si adatta alla giuntura di una categoria con un’altra (si vedano gli esempi citati come vocabolario nell’OED e i loro usi comuni e tecnici, la loro Firstness e Secondness, «to join brick and mortar»[1]). Con la struttura architettonica di Peirce, il significato logico del vocabolario dipende dal suo uso pratico per chiarire la contestualizzazione specifica, pragmatica. Poi, all’interno del contesto reale, l’unità semplice diventerebbe un messaggio «costruttivo» vero e proprio. I segni-ombra «grounding» che aggiornano, del qualisegno, sinsegno o legisegno (CP: 2.243 e seguenti, anche chiamati tone, token, o type) comprendono «una mera idea o qualità di percezione», un «singolo esistente» fino ad arrivare a un «modello generale […] a cui gli esistenti si possono conformare» (MS 914: 3, circa 1904) in armonia con l’ordine delle tre categorie. Il tone (qualisegno) è il
Scattered throughout Peirce’s works are numerous references to and discussions of discourse in the form of written ‘simple’ signs of all kinds, from isolated word-signs to complex verbal structures. For instance, the words ‘witch’ (MS 634: 7, 1909), ‘Hi!’ (MS 1135: 10, [1895]1896), ‘runs’ (MS 318: 72, 1907) and ‘whatever’ (CP: 8.350, 1908) are for Peirce bricolage-like signs. Peirce considered as a semiotic sign ‘[a]ny ordinary word, as “give,” “bird,” “marriage”‘ (CP: 2.298, 1893) and combinations of words, such as the upgraded forms ‘all but one, one or two, a few, nearly all, every other one, etc.’ (CP: 2.289-2.290, c.1893); so is the tone-token ‘the word “man” [which] as printed, has three letters; these letters have certain shapes, and are black’ (W: 3: 62, 1873; cf. MS 9: 2, 1904). Thereby we leave the ‘clusters of acts’ (CP: 4.159, 1897) immediately experienced by reading individual fragments, with the specific wish to achieve the more sophisticated ‘cluster or habit of reactions’ or an expressive ‘centre of forces’ (CP: 4.157, 1897).

This paraphrastic experiment brings together a group of words, connecting the two categories that were originally separated and brought together in the first bricolages. A paraphrase is still a fragmentary unit, but is like a bounded line of bricolages, and represents a meaningful phraseological unit meant ‘to stimulate the person addressed to perform an act of observation’ (CP: 4.158, 1897).


mero segno stesso, il token (simsegno) è il segno orientato all’oggetto, e il type (legisegno) è il segno regolativo (si veda Savan 1987-1988: 19-24, Gorlée 1994: 51-53).

Sparsi in tutte le opere di Peirce sono vari riferimenti a, e discussioni di, discorso sotto forma di segni scritti «semplici» di tutti i tipi, dalle parole-segno isolate a strutture verbali complesse. Per esempio le parole: «strega» (MS 634: 7, 1909), «Ciao» (MS 1135: 10, [1895]1896), «corse» (MS 318: 72, 1907) e «qualunque» (CP: 8.350, 1908) sono per Peirce segni-bricolage. Peirce considerava un segno semiotico bricolage– «Ogni parola ordinaria, come «dare», «uccello», «matrimonio» (CP: 2.298, 1893) e le combinazioni di parole come le forme aggiornate «tutti tranne uno, uno o due, pochi, quasi tutti, ogni altro, eccetera» (CP: 2.289-2.290, c.1893); così è la tono-token «la parola “man” [che] stampata, ha tre lettere; queste lettere hanno certe forme, e sono nere» (W: 3: 62, 1873; cf. MS 9: 2, 1904). Quindi lasciamo i «clusters of acts» (CP: 4.159, 1897) esperiti immediatamente, leggendo frammenti singoli, con il desiderio preciso di conseguire i più sofisticati «cluster or habit of reactions» oppure un «centro di forze» espressivo (CP: 4.157, 1897).

Questo esperimento parafrastico mette insieme un gruppo di parole, connettendo le due categorie che originariamente erano separate e messe insieme nei primi bricolage. Una parafrasi è ancora un’unità frammentaria, ma è come una linea connessa di bricolage, e rappresenta
A bricolage would mediate between images and concepts and would, as Milton wrote, become a ‘sad task and hard, for how shall I relate to human sense the invisible exploits of warring spirits’ (Paradise Lost, Book 5, lines 563-565, quoted from Milton 1975: 82). Milton continued: ‘I shall delineate so, by likening spiritual to human forms, as may express them best’ (Paradise Lost, Book 5, lines 572-574, quoted from Milton 1975: 83). The primary images, ‘which is sometimes in my thought, sometimes in yours, and which has no identity than the agreement between its several manifestations’ (CP: 3.460, 1897) belong to the individual idea of isolated Firstness. The specific concepts refer to the common ground in Secondness to empower a sign, simple and complex, so that it ‘can be a sign in representing its object in its intellectual character as informing the sign’ (MS 1334: 60, 1905). The outward index, Peirce held, ‘may require its interpretation to refer to the actual circumstances of the occasion of its embodiment’ (CP: 4.447, c.1903). The universe of indexical discourse is the center of the internal world of icons, and there seems to be no sharp line between outward cause and immediate image. They hold together in the semiotic sign, as occurred in Robinson Crusoe’s strange footprint in the sand. See Peirce’s common word ‘love’ which is gradually transmogrified through the connectives ‘self-love,’ ‘no love,’ ‘love of mankind,’ and ‘creative love’ into Peirce’s own kind, ‘evolutionary love’ (CP: 6.287, 1893 and following paragraphs) with its specific meaning.


un’unità fraseologica significativa che intende «stimolare la persona a cui ci si rivolge a compiere un atto di osservazione» (CP: 4.158, 1897).

Un bricolage medierebbe tra immagini e concetti e diventerebbe, come scriveva Milton «ardua, trista è l’impresa; or come io posso raccontar degli eserciti celesti le invisibile prove al vostro senso» (Paradiso Perduto, Libro 5, versi 563-565, citato da Milton 1863: 172). Milton continuava: «e misurando le corporee forme colle spirtale, a quanto i sensi eccede» (Paradiso Perduto, Libro 5, versi 572-574, citato da Milton 1863: 172-173). Le immagini primarie «che è talora nella mia mente talora nella vostra, e che non ha altra identità che l’accordo fra le sue differenti manifestazioni» (CP: 3.460, 1897) appartengono all’idea individuale di Firstness isolata. I concetti specifici si riferiscono al terreno comune nella Secondness per rafforzare il segno, semplice e complesso, così che «possa essere un segno perché rappresenta il suo oggetto nel suo carattere intellettuale perché informa il segno» (MS 1334: 60, 1905 [mia traduzione]). L’indice esterno, Peirce pensava, «può richiedere che la sua interpretazione si riferisca alle effettive circostanze dell’occasione della sua incorporazione» (CP: 4.447, circa 1903). L’universo del discorso indicale è il centro del mondo interno delle icone, e sembra non esserci nessun confine netto tra causa esterna e immagine immediata. Queste rimangono insieme nel segno semiotico, come succede con la strana impronta nella sabbia di Robinson Crusoe. Si veda la parola comune di Peirce «amore» che magicamente viene trasformata per gradi attraverso i connettivi «amor proprio», «non amore», «amore
The OED teaches that ‘paraphrase’ tends to ‘express the meaning of a word, phrase, passage, or work in other words, usually with the object of fuller and clearer exposition’ (OED 1989: 11: 204). Paraphrase was a term for the socalled free translation (Gorlée 2005a: 31ff, 90f). Historically (for a survey of historical interpretation, see Robinson 1998a), this term was originally a linguistic term arising from classical rhetorical style and borrowed in modern semiolinguistics. The information given by paraphrase became popular in the tradition of Chomsky’s generative grammar as the transformation of syntactic rules from surface sentence as extended paraphrase of the deep sentence with the basic meaning (Harris), as well as in the formalizations of text linguistics and pragmalinguistics (Petöfi, van Dijk, and others) (criticized in Gorlée 2001). Beyond grammar in applied translation studies, the semantics of paragraphs includes the information conveyed by the sentence as a communicative combination of words (Nolan 1970, Fuchs 1982, and others). The meaning relations, conveyed by structuralist semioticians, possess individual meanings involving problems concerning sameness of shapes and forms (synonymy, contradictoriness, anomaly, tautology) to give meaning to the ambiguous combination of their semantic features in sentence meaning outside the original remnants of fossilized vocabulary (Hendricks 1973: 11-47).


dell’umanità», e «amore creativo» nella categoria personale di Peirce, «amore evolutivo» (CP: 6.287, 1893 e i paragrafi successivi) con il suo significato specifico.

L’OED insegna che la «parafrasi» tende a «esprimere il significato di una parola, frase, passo, o opera in altre parole, di solito allo scopo della più completa e più chiara esposizione» (OED 1989: 11: 204). «Parafrasi» era un termine per la cosiddetta traduzione libera (Gorlée 2005a: 31 e seguenti, 90 e seguenti). Storicamente (per una ricerca di interpretazione storica si veda Robinson 1998a), questo termine originariamente era un termine linguistico che deriva dallo stile retorico classico ed è stato preso in prestito dalla semiolinguistica moderna. L’informazione data dalla parafrasi divenne popolare nella tradizione della grammatica generativa di Chomsky come trasformazione di regole sintattiche dalla frase superficiale come parafrasi estese della frase profonda con il significato di base (Harris) così come nella formalizzazione della linguistica e della pragmalinguistica del testo (Petöfi, van Dijk, e altri) (presi in esame in Gorlée 2001). Oltre alla grammatica negli studi traduttivi applicati, la semantica dei paragrafi comprende l’informazione trasmessa dalla frase come combinazione comunicativa di parole (Nolan 1970, Fuchs 1982, e altri). Le relazioni di significato, trasmesse dai semiotici strutturalisti, possiedono significati individuali che implicano problemi che riguardano la somiglianza di forme e strutture (sinonimo, contraddittorietà, anomalia, tautologia) per dare significato alla combinazione ambigua delle loro
In general translation studies and particularly its source, Biblical translation studies, linguistic terms discussed the keyword of sameness of equivalence, in Umkodierung and Neukodierung, to refer to the replacement of the paraphrases and their diagnostic components from the canonical notations (Nida 1975: 65. n. 17) in sacred writings transposed to other genres.

These bridges tend to overcome the linear order of grammar of words and parts of words, which were discussed as linguistic twists or cultural turns (Robinson 1991) and transferred into semiotic (that is, a Peircean) terminology:

 

The sign-interpretant series is not a simple linear chain. It is rather to be thought of as a complex of initially independent sequences which join with one another, branch, join with still others, branch, and so on, such that by the end of the process all have ultimately contributed (like contributing rivers) to a final resultant interpretant. (Ransdell 1980: 175)

The semiosis of interpreting and translating signs generates a flow which goes back to the changing river statements by Heraclitus and used in semiotic theory as well as translation theory (see Sebeok’s discussion of semiosis as the ‘serendipitous yet comfortable confluence of sundry rivulets’ [1986: xii]).

caratteristiche semantiche nel significato della frase al di fuori dei residui originari del vocabolario fossilizzato (Hendricks 1973: 11-47).

Negli studi traduttologici generali e particolarmente nella loro fonte, gli studi traduttologici della Bibbia, i termini linguistici trattavano la parola chiave di «sameness of equivalence», in Umkodierung e Neukodierung, per riferirsi alla sostituzione delle parafrasi e dei loro componenti diagnostici dalle notazioni canoniche (Nida 1975: 65, nota 17) negli scritti sacri trasposti in altri generi.

Questi ponti tendono a superare l’ordine lineare della grammatica delle parole e delle parti delle parole, che sono state trattate come variazioni linguistiche o cambiamenti culturali (Robinson 1991) e trasferite nella terminologia semiotica (ossia peirciana):

La serie segno-interpretante non è una semplice catena lineare. Va semmai pensata come complesso di sequenze inizialmente indipendenti che si uniscono, si ramificano, si uniscono con altre ancora, si ramificano e così via, di modo che alla fine del processo tutte hanno dato un contributo definitivo (come i fiumi immissari) all’interpretante finale che ne risulta (Ransdell 1980: 175).

 

La semiotica dei segni interpretanti e traducenti genera un flusso che risale alle affermazioni di Eraclito sul fiume che cambia e usate nella teoria The semiotic sign is recodified as having an object which can be commented on, reworked or enlarged into a different-but-equivalent language. This translational use (abuse, disuse, reuse) of the linguistic, paralinguistic and non-linguistic functions of signs connects the paraphrase to Peirce’s use of interpretants as ‘the capacity of the system to specify any part of the system in a more analytic fashion’ (Nida 1975: 65), that is the temporary varieties at sentence level, beyond the limits of paraphrastic translation. Ransdell stated that in the three-way ‘branching and joining aspects’ of verbal elements, ‘Signs are not “logical atoms,” that is, ultimate units of analysis, and there are no absolutely “simple” signs; hence, what counts as a constituent sign is a matter of what it is profitable to regard as such, given one’s particular analytic aims (e.g., a word, a phrase, a sentence, a paragraph, or whatever)’ (1980: 176).

Pieces of discursive writing — that is, sentences — are complex signs. They may be exemplified by the syllogism, a constantly used example in Peirce’s writings. A syllogism is a compound sign that is built up, logically as well as linguistically, of three subsigns, which are in turn divisible, and which lead to a conclusion: ‘All conquerors are But­chers / Napoleon is a conqueror / Napoleon is a butcher’ (W: 1: 164, 1865), ‘It neither rains or it doesn’t rain / Now it rains/ It doesn’t rain’ (PW: 82, 1908) and many other syllogisms.


semiotica così come nella teoria traduttologica (si veda la discussione di Sebeok sulla semiotica come la «fortuita eppure comoda confluenza di diversi fiumicelli» [1986: xii]).

Il segno semiotico viene ricodificato come avente un oggetto che può essere commentato, rilavorato o esteso in un linguaggio diverso-ma-equivalente. Questo uso (abuso, disuso, riuso) traduttivo delle funzioni linguistiche, paralinguistiche e non linguistiche dei segni connette la parafrasi all’uso peirciano degli interpretanti come «la capacità del sistema di specificare ogni parte del sistema in modo più analitico» (Nida 1975: 65), ossia le varietà provvisorie a livello della frase, oltre i limiti della traduzione parafrastica. Ransdell ha affermato che negli «aspetti che diramano e riuniscono» triadici degli elementi verbali, «i Segni non sono “atomi logici”, ossia, unità sostanziale di analisi, e non c’è assolutamente nessun segno “semplice”; perciò quello che conta come segno costituente è un problema di cosa sia utile considerare tale, dati gli obiettivi analitici di ciascuno (per esempio, una parola, una locuzione, una frase, un paragrafo, o altro)» (1980: 176).

Le parti di scritti discorsivi – vale a dire, le frasi – sono segni complessi. Possono essere esemplificati dal sillogismo, un esempio costantemente usato negli scritti di Peirce. Un sillogismo è un segno composto che è formato, logicamente e linguisticamente, da tre sottosegni, che sono a loro volta divisibili, e che portano a una

The theater directory and the weather forecast published in the newspaper are, to Peirce, predictive signs (MS 634: 23, 1909); so are ‘the books of a bank’ (MS 318: 58, 1907) and ‘an old MS. letter … which gives some details about … the great fire of London’ (MS 318: 65, 1907). As a further verbal text-sign, Peirce even mentions ‘Goethe’s book on the Theory of Colors … made up of letters, words, sentences, paragraphs, etc.’ (MS 7: 18, 1904). In his writings, Peirce moreover presented and analyzed many sentence-signs, both grammatically complete or elliptic, such as Peirce’s favorite fragment about the pragmatic effects of the ‘blocking the road of inquiry’ (CP: 6.273, c.1893, CP: 6.64, 1892, CP: 1.153, 1.156, 1.170, 1.175, 1893). Other examples mentioned: ‘Napoleon was a liar’ (MS 229C: 505, 1905), ‘King Edward is ill’ (MS 800: 5, [1903?]), ‘Fine day!’ (MS 318: 69, 1907) (including the bricolage-like meaning of the exclamation point), ‘Let Kax denote a gas furnace’ (CP: 7.590 = W: 1: 497, 1866, with Peirce’s emphasis), ‘Any man will die’ (MS 318: 74, 1907), and ‘Burnt child shuns fire’ (CP: 5.473 = MS 318: 154-155, 1907). By the same token, Peirce wrote that ‘among linguistic signs, as ‘“If — then — ,” “— is — ,” “— causes —,” “— would be —,”— is relative to — for —,” “Whatever” etc.’” (CP: 8.350, 1908, see PW: 71, 1908) they contain a few blanks (bricolages) to be filled. Blanks are ‘among linguistic signs’ (CP: 8.350, 1908, see PW: 71, 1908) but are also silent messages without reference (Jakobson 1963: 159).

 

conclusione: «Tutti i conquistatori sono Macellai / Napoleone è un conquistatore / Napoleone è un macellaio» (W: 1: 164, 1865), «Né piove, né non piove, Ora piove, Non piove» (PW: 82, 1908) e molti altri sillogismi.

L’elenco dei cinema e le previsioni meteo pubblicate sul giornale sono, secondo Peirce, segni predittivi (MS 634: 23, 1909); così sono «i registri di una banca» (MS 318: 58, 1907) e «una vecchia lettera manoscritta […] che dà alcuni dettagli riguardo […] al grande incendio di Londra» (MS 318: 65, 1907). Peirce cita come ulteriore testo-segno verbale: «il libro di Goethe sulla Teoria dei Colori […] fatta di lettere, parole, frasi, paragrafi, eccetera» (MS 7: 18, 1904). Nei suoi scritti, Peirce inoltre presentava e analizzava molte frasi-segno, sia complete grammaticalmente sia ellittiche, quali il frammento preferito di Peirce riguardo agli effetti pragmatici dell’«ostacolare la strada della ricerca» (CP: 6.273, circa 1893, CP: 6.64, 1892, CP: 1.153, 1.156, 1.170, 1.175, 1893). Altri esempi: «Napoleone era un bugiardo» (MS 229C: 505, 1905), «Re Edoardo è malato» (MS 800: 5, [1903?]), «Bella giornata!» (MS 318: 69, 1907) (compreso il significato bricolage del punto esclamativo ), «Poniamo che Kax sia una fornace a gas» (CP: 7.590 = W: 1: 497, 1866, con corsivo di Peirce), «Qualsiasi uomo morirà» (MS 318: 74, 1907), e «Il bambino scottato evita il fuoco» (CP: 5.473 = MS 318: 154-155, 1907). Dallo stesso simbolo, Peirce scrisse che «tra i segni linguistici, quali: ”Se — allora — ,” “— è — ,” “— causa —,” “— sarebbe —,”— è relativo a — per —,”

Peirce’s favorite examples of sentence-signs were perhaps, chronologi­cally, ‘This stove is black’ (CP: 1.548, 1,551, 1867), ‘There is a [great] fire’ (CP: 8.112, c.1900, 2.305, 1901, 2.357, 1902), the mili­tary command ‘Ground arms!’ (e.g., CP: 5.473, 5.475, 1907, MS 318: 37, 175, 214, 244, 1907, CP: 8.176, 8.315, 1909) (with exclamation mark, terminating the emphasis) and ‘Cain killed Abel’ (CP: 1.365 = W: 6: 177, 1887-1888, CP: 2.230, c.1897, CP: 2.316, c.1902, PW: 70f., 1908, NEM: 3: 839, 1909, CP: 2.230, 1910). All of these sentences — Seconds including their First punctuation — were repeatedly used over the years to serve as illustrative examples in Peirce’s scholarly writings and their replications as practical examples in his correspondence. Their meaningful aspect of such replicas is particularly highlighted in Peirce’s figurative language and, paradoxically, the replicas integrated within his semio-logical writings. See the fragmentary but meaningful replicas concerning ‘Truth, crushed to earth, shall rise again’ (CP: 5.408 = W: 3: 274, 1878, CP: 1.217, 1902, MS: L75D: 234, 1902), Ralph Waldo Emerson’s verse ‘Of thine eyes I am eyebeam’ taken from his poem ‘The Sphinx’ (CP: 7.591 = W: 1: 498, 1866, CP: 7.425, c.1893, CP: 2.302, c.1895, CP: 1.310, 1907). The quoted effusions are poeticisms mentioned by Peirce, in fictional quoting: namely, without naming Shakespeare as their actual source, and at times without placing quotation marks to enclose the direct words or phrases ‘secretly’ borrowed.


“Qualsiasi cosa” eccetera» (CP: 8.350, 1908, si veda PW: 71, 1908) contengono alcuni spazi vuoti (bricolage) che devono essere riempiti. Gli spazi vuoti sono «tra i segni linguistici» (CP: 8.350, 1908, si veda PW: 71, 1908) ma sono anche messaggi silenziosi senza relazione (Jakobson 1963: 159).

Gli esempi preferiti di Peirce di frasi-segno forse erano, cronologicamente, «Questa stufa è nera» (CP: 1.548, 1,551, 1867), «è un [grande] fuoco» (CP: 8.112, circa 1900, 2.305, 1901, 2.357, 1902), il comando militare «Armi a terra!» (e.g., CP: 5.473, 5.475, 1907, MS 318: 37, 175, 214, 244, 1907, CP: 8.176, 8.315, 1909) (con tanto di punto esclamativo) e «Caino uccise Abele» (CP: 1.365 = W: 6: 177, 1887-1888, CP: 2.230, circa 1897, CP: 2.316, circa 1902, PW: 70 e seguenti , 1908, NEM: 3: 839, 1909, CP: 2.230, 1910). Tutte queste frasi — i Second che comprendono la punteggiatura dei First — venivano usate ripetutamente nel corso degli anni e servivano da esempi illustrativi negli scritti accademici di Peirce e le loro repliche come esempi pratici nella sua corrispondenza. L’aspetto significativo di tali repliche è particolarmente evidenziato nel linguaggio figurativo di Peirce e, paradossalmente, le repliche erano incorporate nei suoi scritti semio-logici. Si vedano le repliche frammentarie ma significative che riguardano «La verità, prostrata a terra, risorgerà ancora» (CP: 5.408 = W: 3: 274, 1878, CP: 1.217, 1902, MS: L75D: 234, 1902), il verso di Ralph Waldo Emerson «Dell’occhio tuo io sono il raggio» tratto dalla sua poesia «The Sphinx» (CP: 7.591 = W: 1: 498, 1866, CP: 7.425,

The paraphrase provides ‘a local habitation and a name’ (CP: 3.459, 1897, CP: 6.455, 1908) and is an indirect quotation from a passage in The Midsummer Night’s Dream; see the ubiquitous phrase in Peirce’s discourse about man’s ‘glassy essence’ (CP: 7.580 = W: 1: 491, CP: 7.585 = W: 1: 495, 1866, CP: 5.317 = W: 1: 242, 1868, CP: 6.238-6.271 title, 1892, CP: 6.301, 1893, CP: 8.311, 1897, CP: 5.519, c.1905) taken from Measure for Measure (Gorlée 2004a: 231f., 2005b: 266). All of these poetical lines, fictive and real, are meant as monitory illustrations, meant to enlighten the readers to the puzzlements in Peirce’s logico-semiotic terminology. These ‘grammatical emphatics’ (Weiss 2000: 3-5) add different ‘translatants’ to Peirce’s philosophical speech (Savan 1987-1988: 41, Gorlée 1994: 120) and provide the readers/interpreters with a balanced whole consisting of dramatic — lyric, factual, and logical — interpretants.The interpreted-translated meaning of groups of words is meaningful in the context of human reality, even taking into account the external and internals worlds in all of the proverbially thousand tongues.


circa 1893, CP: 2.302, circa 1895, CP: 1.310, 1907). Questi passi ripetuti sono poeticismi menzionati da Peirce nelle citazioni finzionali, vale a dire, senza nominare Shakespeare come la loro vera fonte, e a volte senza mettere le virgolette per racchiudere le parole o le frasi testuali «segretamente» prese in prestito.

La parafrasi fornisce «un’abitazione locale e un nome» (CP: 3.459, 1897, CP: 6.455, 1908) ed è una citazione indiretta da un passo in The Midsummer Night’s Dream; si veda la frase onnipresente nel discorso di Peirce sulla «vitrea essenza» dell’uomo (CP: 7.580 = W: 1: 491, CP: 7.585 = W: 1: 495, 1866, CP: 5.317 = W: 1: 242, 1868, CP: 6.238-6.271 titolo, 1892, CP: 6.301, 1893, CP: 8.311, 1897, CP: 5.519, circa 1905) presa da Measure for Measure (Gorlée 2004a: 231 e seguenti, 2005b: 266). Tutte queste linee poetiche, fittizie o reali, sono intese come illustrazioni ammonitrici, che vogliono illuminare i lettori sulle perplessità della terminologia logico-semiotica di Peirce. Queste «grammatical emphatics» (Weiss 2000: 3-5) aggiungono diversi «translatant» al discorso filosofico di Peirce (Savan 1987-1988: 41, Gorlée 1994: 120) e offrono ai lettori/interpreti un tutto bilanciato e formato da interpretanti drammatici, lirici, fattuali e logici. Il significato interpretato-tradotto dei gruppi di parole è significativo nel contesto della realtà umana, anche prendendo in esame i mondi interni ed esterni in tutte le proverbiali mille lingue[2].


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2. Analisi traduttologica


2.1 Dinda Gorlée studiosa di Peirce

L’autrice di questo saggio, Dinda L. Gorlée, è una studiosa olandese di linguistica e semiotica. Tra le sue numerose pubblicazioni figurano: Semiotics and the Problem of Translation: With Special Reference to the Semiotics of Charles S. Peirce (Rodopi, 1994), Grieg’s Swan Songs (in Semiotica 142 1/4:153-210, 2002), On Translating signs: Exploring text and Semio-Translation (Rodopi, Amsterdam-New York 2004).

La Gorlée ha fondato la Norwegian Association for Semiotic Studies; è inoltre membro del comitato esecutivo all’interno della IASS (International Associaton for Semiotic Studies) in rappresentanza dei Paesi Bassi.

Ha collaborato come ricercatrice presso numerose università, tra cui l’Indiana University, le università di Amsterdam, Vienna e Ouagadougou (Burkina Faso). Si interessa di traduzione biblica e legale (la sua agenzia a L’Aia si occupa proprio di traduzione giuridica).

2.2 Broken Signs

Questo testo in particolare è dedicato ai frammenti di Peirce, il frammento è una «porzione ancora esistente di un testo o di una composizione il cui tutto è andato perso» (OED 1989: 6: 137), vale a dire alle parti dei suoi scritti che non sono state pubblicate nelle raccolte delle sue opere, e anche quelle che vi figurano, in quanto la loro compilazione è necessariamente arbitraria.

Esiste in particolare una raccolta “ufficiale” dei suoi scritti, ma questa è frammentata e risulta molto complicato consultarla. Il saggio è suddiviso in capitoli, la mia traduzione ha riguardato i primi tre capitoli: Inganni e verità nei labirinti di Peirce, I frammenti e il tutto e Bricolage, parafrasi e manoscritto.

L’intento dell’autrice è quello di dimostrare che la raccolta degli scritti di Peirce è frammentata a causa della realizzazione a più mani dell’edizione di tutto ciò che il semiotico ha scritto nell’arco della sua vita. Come ci dice la Gorlée, non si possono considerare le opere pubblicate di Peirce come qualcosa di finito. L’autrice sostiene che i curatori e traduttori della raccolta abbiano ignorato determinate alternative che gli scritti di Peirce contemplavano. Gli stessi primi curatori dei Collected Papers, Charles Harsthorne e Paul Weiss, affermano che sembra quasi che lo stesso Peirce fosse incapace di scegliere una forma finale per i suoi scritti i quali, molto spesso, erano senza data e titolo. La massima del filosofo a proposito dei suoi scritti era proprio questa:

Tutto ciò che si può trovare stampato del mio lavoro sulla logica sono semplicemente affioramenti sparsi qua e là di una vena ricca che resta inedita. Penso che perlopiù sia stata scritta; ma nessun essere umano potrebbe mai mettere insieme i frammenti. Non ci sono riuscito nemmeno io (epigramma CP: 2.xii, 1903 [mia traduzione]).

Si ha dunque la riprova di quanto complesso sia stato e sia ancora il lavoro per i curatori: «poiché le dottrine che presentano sono troppo importanti per essere omesse, gli scritti e i frammenti spesso vanno inclusi sebbene si sia certi che l’autore nella loro presente condizione non li avrebbe dati alle stampe».

 

2.3 Charles Sanders Peirce

Peirce, nonostante sia uno dei più grandi filosofi americani, in vita non pubblicò neanche un libro, tutti i suoi scritti sono apparsi su giornali e riviste; moltissimi sono rimasti inediti. Proprio per questo motivo la diffusione del suo pensiero ne viene ostacolata. I Collected Papers sono la prima raccolta dei suoi scritti e vennero pubblicati dalla Harvard University tra il 1931 e il 1958. Charles Sanders Peirce (1839-1914) è stato un importante studioso e padre della moderna semiotica (o teoria del segno, inteso come atto che consenta la possibilità di una comunicazione). Negli ultimi decenni il suo pensiero è stato fortemente rivalutato fino a porlo tra i principali innovatori in molti campi, specialmente nella metodologia della ricerca e nella filosofia della scienza.

Ma Peirce è anche il fondatore del «pragmatismo», a cui cambierà poi il nome in «pragmaticismo» per differenziarsi dall’amico William James, importante psicologo. Infatti Peirce rimproverava a James di aver impoverito il pragmatismo attraverso l’esclusione del suo fondamento logico-semiotico, che per Peirce è parte integrante di una teoria della conoscenza. Secondo Peirce, nella concezione semiotica, i segni sono le parole ma sono anche tutti gli oggetti che vengano percepiti come segni. Da qui, ogni processo semiotico ha tre punti focali: un oggetto (segno), un pensiero o idea che fa da tramite (interpretante) e il significato del primo segno (oggetto) a cui si arriva tramite il processo sopraccitato. (Osimo, 2002: 65-66)

 

2.4 La traduzione saggistica

La traduzione di questo saggio ha presentato alcune criticità a causa della lingua, l’autrice è infatti di madrelingua olandese ma il testo è stato redatto in inglese.

Tuttavia, questo aspetto è uno tra i più marginali; le difficoltà vere e proprie sono sorte a causa della terminologia specifica a cui è stato necessario fare riferimento. Trattandosi di un saggio scientifico non divulgativo ma destinato a un pubblico specializzato, è stato necessario usare termini tipici delle semiotica. All’interno di questa disciplina – come peraltro accade in pressoché tutte le discipline – esistono poi sottocodici che rappresentano la visione concettuale condivisa soltanto da alcuni ricercatori. In questo caso, si notano come minimo due sottocodici: quello della semiotica peirciana e quello tipico proprio dell’autrice del saggio stesso.

Riuscire, però, a stabilire una giusta definizione di «testo tecnico» e «testo narrativo» è un compito decisamente arduo, soprattutto perché il testo saggistico condivide alcune caratteristiche sia con l’una, sia con l’altra categoria. Per spiegare questa suddivisione riporto la tabella di Osimo (2006: 26), precisando che con «scientifico» si indicano anche i testi “tecnici”.

 

poetico narrativo teatrale filmico saggistico scientifico
finzionalità non fiction
eleganza formale non eleganza formale
assenza di tecnicismi tecnicismi
uso libero della parola uso non libero della parola
non terminologia terminologia
tono non necessariamente serio (es. ironia) serietà del tono
obiettivo non necessariamente serio serietà dell’obiettivo

 

Dalla tabella si evince che il testo saggistico rappresenta un vero territorio di frontiera: il testo saggistico divulgativo ha uno stile diretto di modo che possa essere accessibile a un pubblico vasto, il testo saggistico scientifico si rivolge a un pubblico più specializzato e, per farlo, usa molti termini tecnici, tipici di un certo settore. Per «termine» intendiamo:

[…] una parola utilizzata in un contesto tecnico-settoriale con un significato preciso. Esistono contesti simili in tutti gli àmbiti specifici, specialistici. La straordinaria libertà di linguaggio che caratterizza l’espressione normale qui è assente. Nel contesto specialistico, la dominante del discorso è sempre la precisione di riferimento. Dato che il linguaggio naturale è per sua natura impreciso e polisemico e connotativo, e si presta a molteplici interpretazioni, negli àmbiti settoriali quest’ampiezza espressiva viene fortemente limitata in modo artificiale. Si stabilisce – spesso in contesti tecnici, con incontri internazionali tra tecnici di un determinato settore – la terminologia settoriale, dalla quale chiunque voglia farsi intendere con precisione non deve mai discostarsi (Osimo 2004: 83).

2.5 Tradurre Peirce in italiano

Nel testo ricorrono molto spesso i termini «Firstness», «Secondness» e «Thirdness» e derivati. Questi tre lemmi sono stati coniati da Peirce che li definisce così:

Firstness is the mode of being of that which is such as it is, positively and without reference to anything else. Secondness is the mode of being of that which is such as it is, with respect to a second but regardless of any third. Thirdness is the mode of being of that which is such as it is, in bringing a second and third into relation to each other (A Letter to Lady Welby, CP 8.328, 1904).

 

La ricerca di traducenti in italiano non sarebbe complessa, ma si è scelto di lasciare il termine in inglese, scelta peraltro condivisa anche da alcune pubblicazioni e tesi dottorali:

 

Il segno peirciano riceve una tale importanza da determinare sia lo statuto delle nostre idee («anche le idee sono segni») che il valore conoscitivo degli oggetti. Con la sua divisione basale (firstness, secondness e thirdness) riesce a gerarchizzare i segni, per esempio, a seconda delle loro determinazioni oggettive (il «simbolo» è un segno della thirdness, in cui sono inscatolate la firstness e la secondness). Dopo Peirce, nessuno può ancora negare la pertinenza filosofica del segno (Verdru 1987).

 

Massimo Bonfantini nelle Opere ha deciso di proporre una traduzione: «Primità», «Secondità», «Terzità», ho scelto però di mantenere i termini in inglese perché questi termini sono usati esclusivamente nell’ambito della semiotica peirciana, i cui specialisti sono necessariamente in grado di capire i tre termini tanto in inglese quanto in italiano. Ho inoltre preferito creare un metatesto che fosse adeguato e non accettabile.

Lo scienziato della traduzione Toury ha ben distinto questi due aspetti della traduzione. Una traduzione adeguata è una traduzione che mantiene le caratteristiche culturali del prototesto, il traduttore è un mediatore che aiuta il lettore ad avvicinarsi al prototesto, senza però modificarlo cercando di far passare il metatesto per un originale. Per illustrare meglio la differenza riporto le tabelle di Osimo (2001: 80):

 

Prototesto Cultura altrui  
Distanza cronotopica <—————– <—Senso della mediazione
Metatesto Cultura altrui nella propria

 

Una traduzione accettabile è una traduzione che adatta il prototesto alla cultura ricevente, “normalizzando” gli aspetti culturali estranei, i realia vengono o sostituiti con realia della cultura ricevente, oppure standardizzati (Osimo 2001:82).

 

Prototesto (autore) Cultura altrui  
Distanza cronotopica —————–> <—–Senso della mediazione
Metatesto (lettore) Appropriazione della cultura altrui

 

 

 2.6 Musement e amusement

L’autrice, nel testo, “gioca” con la definizione di musements di Peirce, accostandola all’idea di amusements sebbene specifichi che:

 

Mostrare l’interazione dinamica del truismo triadico di Peirce, vale a dire l’amusement (che non è l’opposto del musement)…

 

Peirce chiama il gioco delle libere associazioni mentali play of musement e lo considera un’attività disinteressata che «non richiede alcuno scopo eccetto quello di mettere da parte ogni scopo serio». Il pensiero, liberatosi da ogni compito specifico, può vagare indisturbato da interpretante a interpretante. Il musement non ha un vero e proprio scopo, però può rivelarsi molto utile ai fini della riflessione scientifica. L’interprete può quindi sentirsi libero di abbandonare i sentieri interpretativi, relativamente più sicuri, per percorrere e scoprire piste più insolite, per formulare concetti inconsueti, ipotesi improbabili, supposizioni azzardate. Solitamente, quando si mettono a confronto con l’evidenza empirica tutte queste meditazioni incontrollate, esse vengono falsificate. «Ma può anche capitare che, a forza di intrecciare segni senza un ordine preciso, ci si imbatta in un’abduzione creativa la quale, successivamente, rivelerà tutto il proprio valore euristico».

«La funzione del musement è di porre l’interprete in stato di massima apertura nella fase di ideazione delle ipotesi». Ma, come osserva Bonfantini:

 

questa procedura per l’ideazione poteva essere raccomandata, anziché giudicata eccessivamente rischiosa e dispendiosa, solo sulla base dell’assunto che fra tutte le ipotesi così liberamente prospettate se ne offrissero un buon numero di approssimativamente vere. Ora a Peirce sembrava che in questo inventivo “tirare a indovinare” spesso fosse effettivamente capitato all’uomo di indovinare giusto (Bonfantini, 1987: 72).

 

L’amusement è:

amusement

noun

1 [U] the feeling of being entertained or made to laugh:

She looked at him with amusement.

I looked on in amusement as they started to argue.

Carl came last in the race, (much) to my amusement.

I play the piano just for my own amusement (= to entertain myself not other people).

 

2 [C] an activity that you can take part in for entertainment:

There was a range of fairground amusements, including rides, stalls and competitions.

 

Per Peirce, come dice la Gorlée, l’amusement è «un’occupazione che attiva la mente per raggiungere l’eccitamento» e «non è necessariamente divertente e ilare; e nonostante sia piacevole, non è l’essenza del piacere. La sua vera ragione è l’impulso a vivere attivamente» (MS 1135: 118, [1895]1896).

 

Nella traduzione ho, quindi, scelto di mantenere il gioco di parole, tradurre amusement con: «divertimento», «passatempo», non avrebbe permesso al lettore italiano di percepire l’intento dell’autrice nel prototesto.

 

2.7 Le citazioni

L’autrice nel suo saggio fa ricorso a numerose citazioni sia da Peirce, sia da altri autori. La maggior parte dei libri da cui sono tratte non sono stati tradotti in italiano; ho quindi deciso di proporre una mia traduzione. Per quanto riguarda le citazioni da Peirce, il discorso si fa leggermente più complesso, l’unica opera in italiano sul semiotico statunitense è: Opere, a cura di M. A. Bonfantini, che raccoglie parte degli scritti di Peirce usciti come Collected Papers; poiché si tratta di una raccolta “frammentata” – nella scelta di questo aggettivo mi ispiro all’autrice del saggio che ho tradotto – non è possibile riuscire a trovare tutte le citazioni e anche in questo caso ho proposto una mia traduzione, segnalandolo, però, all’interno del testo.

Nel caso specifico della traduzione della citazione dal Paradise Lost di John Milton, a pagina 20, ho deciso di proporre una mia traduzione sebbene esista una traduzione italiana “ufficiale”.

 

‘providence, foreknowledge, will, and fate’ of the discussions are characterized by ‘fixed date, free will, foreknowledge absolute … [which] found no end in wandering mazes lost’ (Milton’s Paradise Lost, Book 2, lines 558-561, quoted from Milton 1972: 103).

“la provvidenza, la prescienza, la volontà e il fato” delle discussioni sono caratterizzate da “date fissi, libero arbitrio, prescienza assoluta … [la quale] non ha fine interrogandosi sulla perdita dei labirinti’ (Paradise Lost, di Milton, Libro 2, versi 558-561, citazione da Milton 1972: 103).

 

La parola chiave in questo testo è appunto «mazes», che è presente anche in Peirce: «Some amazing mazes» (title of CP: 4.585 and note, 1908) che si è scelto di tradurre:  «alcuni labirinti sorprendenti» (titolo di CP: 4.585 e nota, 1908); il concetto espresso dalla Gorlée è proprio quello della difficoltà di relazione tra il tutto e le parti, presenti nelle opere di Peirce. Nella traduzione italiana esistente in commercio non compare la traduzione di «mazes» come «labirinti», quindi, per non creare un residuo, la scelta è stata di privilegiare il messaggio veicolato dal prototesto.

Per quanto riguarda le citazioni di Milton presenti a pagina 92, si è scelto di mantenere la traduzione italiana esistente, in quanto non c’era nessuna “parola chiave” che fosse necessario preservare per salvaguardare il rimando intratestuale.

 

Nell’ultima frase del testo l’autrice parla di «proverbially thousand tongues»; a un primo approccio alla traduzione non mi era molto chiaro cosa intendesse nello specifico, e darne una semplice traduzione letterale non avrebbe reso comprensibile il testo. Dopo una ricerca su internet, ho scoperto che è una citazione tratta da un inno sacro scritto da Charles Wesley, un pastore metodista vissuto nel Settecento in Inghilterra, il quale durante la sua vita ha scritto più di seimila inni sacri. Con il fratello John fondarono il movimento dei Metodisti. I suoi inni sono stati spesso utilizzati negli incontri di dialogo tra chiesa romana e chiese metodiste, soprattutto per quel che riguarda i concetti teologici dell’universalità della chiesa, della vita sacramentale e della santificazione. Il verso è tratto da un suo inno apparso in Hymns and Sac­red Po­ems, raccolta di inni sacri pubblicata nel 1740:

 

O for a thousand tongues to sing My great Redeemer’s praise, The glories of my God and King, The triumphs of His grace!

 

Per il lettore italiano la citazione non è per nulla ovvia, quindi senza questa mia spiegazione metatestuale si creerebbe un residuo comunicativo, in particolare una certa perplessità davanti all’aggettivo «proverbiale». Al contrario, per il lettore anglosassone c’è meno difficoltà a capire il riferimento poiché Charles Wesley è molto noto, e da qui il significato dell’aggettivo.

 

A pagina 90 della traduzione è stato necessario aggiungere una nota che spiegasse al lettore italiano l’espressione «to join brick and mortar», quest’espressione è stata coniata dall’autrice del saggio ed è ispirata al filosofo viennese Wittgenstein, letteralmente significa: «unire mattoni e cemento». La Gorlée ne fa un uso metaforico, per brick intende il segno in quanto tale, invece il mortar è l’oggetto a esso unito.

 

 

2.8 Conclusione

Questo lavoro, per la sua complessità, ha costituito per me una vera e propria sfida. Sono state messe alla prova non solo le mie abilità traduttive in senso strettamente interlinguistico, ma anche quelle di trasposizione interculturale (tipiche soprattutto delle versioni narrative) e quelle terminologiche (tipiche soprattutto delle versioni settoriali). L’aspetto più gratificante e emozionante è stato, però, tradurre le parole di Peirce, le citazioni per cui ho proposto una mia traduzione poiché in Opere non comparivano.


Riferimenti bibliografici

 

Osimo B. La traduzione saggistica dall’inglese. Guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3741-X.

Osimo B. Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Seconda edizione, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203-3269-8.

Osimo B. Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.

Osimo B. Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002, ISBN 88-203-3073-3.

Osimo B. Traduzione e qualità. La valutazione in ambito accademico e professionale, Milano, Hoepli, 2004, ISBN 88-203-3386-4.

Peirce C. S. Charles Sanders Peirce, Opere, a c. di Massimo A. Bonfantini con la collaborazione di Giampaolo Proni, Milano, Bompiani il pensiero occidentale, 2003, ISBN 88-452-9216-9.

Peirce C. S. 1866-1913 The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, vol. 1-6 a c. di Paul Weiss, vol. 7-8 a c. di Arthur W. Burks, Cambridge (Massachusets), Harvard University Press 1931-1935, 1958.

Popovič A. La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2006, ISBN 88-203-3511-5. (Teória umeléckeho prekladu, Bratislava, Tatran 1975.)

Verdru H. Il rasoio di Eco, tesi di dottorato discussa presso l’Università di Leuven sotto la supervisione di Franco Musarra, 1987. Disponibile in internet all’indirizzo http://users.pandora.be/henk.verdru/il_rasoio_di_Eco/, consultata nell’aprile 2008.

Pisanty  V., Conoscenza e interpretazione, 2000. Disponibile in internet all’indirizzo: http://www.sssub.unibo.it/master/programmi/peirce.htm, consultato nel maggio 2008.



[1] Rimando a un’espressione del filosofo austriaco Wittgenstein (1889-1951), rielaborata da Dinda Gorlée, per la quale «brick»: (mattone) è il segno in quanto tale, e «mortar» (cemento) è l’oggetto, in quanto miscuglio di cemento per unire i mattoni [NdT].

[2] Citazione di un inno sacro di Charles Wesley, pastore metodista vissuto in Inghilterra, nel Settecento. [NdT]

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess Ksenia Elisseeva

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots

Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess

Ksenia Elisseeva

Université Marc Bloch
Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales Scuole Civiche di Milano
Corso di Specializzazione in Traduzione

primo supervisore: professor Bruno OSIMO
secondo supervisore: professoressa Antonella RICCIARDI

Master: Langages, Cultures et Sociétés
Mention: Langues et Interculturalité
Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence Parcours: Traduction littéraire
estate 2008

© The Johns Hopkins University Press 1977
© Ksenia Elisseeva per l’edizione italiana 2008

2

Abstract

This thesis proposes a translation of two articles by two famous Soviet semioticians, Boris Egorov and Isaak Revzin. The scientific article by Egorov regards the cartomantic reading of a person’s life as the creation of a plot in literature. Egorov’s goal is to use the cartomantic system as a rudimentary model for the analysis of literary plots. The article by Revzin pursues Saussure’s analogy between language and chess. By comparing language and chess, he seeks to show that the human intellect uses similar constructions, elements, relations of elements and rules to solve the various tasks of processing information. The second part of this thesis provides a commentary on the translation, the strategy used and the main translational problems.

3

Sommario

Abstract………………………………………………………………………………………. 3 Sommario …………………………………………………………………………………… 4 Traduzione con testo a fronte ………………………………………………………… 5

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots……………… 6 Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci……………………… 7 Language as a Sign System and the Game of Chess…………………… 34 La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi……………….. 35

References ……………………………………………………………………………….. 50 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 51 Analisi traduttologica…………………………………………………………………… 54

Fonte, autori, argomento. …………………………………………………………. 55 Egorov Boris Fedorovič ………………………………………………………… 56 Revzin Isaak Iosifovič …………………………………………………………… 57

Analisi traduttologica ……………………………………………………………….. 58 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 62

4

Traduzione con testo a fronte

5

Chapter 6

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots1.

B. F. Egorov

The exceptionally stormy development of semiotics has naturally brought with it study of the most diverse sign systems, and even cartomancy, fortune- telling with playing cards, has proven to be an object of research. M. L Lekomceva and B. A. Uspenskij’s innovative and intelligent essay has provided us with many valuable and interesting formulations (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). However, the present study does not in fact accept one of their essay’s main theses, that the system of fortune-telling «contains the potential for several interpretations» and the fortune-teller «always possesses several degrees of freedom».

In the essay mentioned, emphasis is put on studying the pragmatics of the “game” for the fortune-teller and for the person having his fortune told. “Professional” fortune-telling is definitely presupposed, in which a fortune-teller conducts a game of divining past and present with his naive victim. But in such a “game”, particularly when the victim does not look at the cards or understands nothing about them, one can speak not of several but of infinite degrees of freedom. For the “professional” fortune-teller, the cards are a pure fiction, and information is received not from the cards but from the external and internal appearance of the person having his fortune told and from his reaction to the fortune-teller’s words. Even the prediction of the future is usually not obtained from the cards: a future is constructed for the victim that is capable of achieving the most “mercenary” effect, and it is based on a study of his character.

1 This article appeared also in Russian as «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

6

Capitolo 6

Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci1.

B. F. Egorov

Lo sviluppo eccezionalmente rapido della semiotica ha naturalmente favorito lo studio dei diversi sistemi segnici, e anche la cartomanzia, divinazione mediante le carte da gioco, è diventata oggetto di studio. L’articolo innovativo e brillante di M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij ci ha fornito una serie di formulazioni valide e interessanti (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). Tuttavia nel presente saggio una delle più importanti tesi espresse dagli studiosi, secondo i quali il sistema della cartomanzia «è un terreno soggetto a varie interpretazioni» e il cartomante «ha sempre parecchi gradi di libertà», viene respinta.

Gli autori dell’articolo pongono l’accento sullo studio della pragmatica del “gioco” della cartomante e di chi vi si rivolge. Viene utilizzato il metodo “professionale” di divinazione, in cui la cartomante conduce con la sua ingenua vittima il gioco volto a indovinare il passato e il futuro. Trattandosi di un “gioco”, soprattutto quando la vittima non guarda le carte o non ne capisce molto, si può dire che i gradi di libertà sono, più che parecchi, infiniti. Per la cartomante “professionale”, le carte sono oggetto di pura finzione, e le informazioni non vengono apprese dalle carte stesse ma dall’apparenza esterna e interna del cliente e dalla sua reazione alle parole della cartomante. Nemmeno la predizione del futuro avviene tramite la lettura delle carte: il futuro della vittima viene rappresentato in modo tale da poter ottenere il massimo effetto “mercenario” ed è basato sullo studio del carattere della persona interessata.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

7

Such a method of fortune-telling does not belong in general to scientific study as a sign system because it is susceptible to an infinite number of degrees of freedom and accordingly to infinite probable outcomes. However, it can be of great interest for game theory and for psychologists.

On the contrary, “honest” fortune-telling, which is most prevalent inside a circle of acquaintances and in telling one’s own fortune, is as a rule a rigid system almost devoid of freedom of choice. In this system, each card has one unique meaning that can vary only in strictly stipulated, isolated instances; various nuances of meaning are created only in the context of the entire distribution of cards, as is discussed below. Obviously such a system is elaborated during a centuries-long developmental process in which the most significant and diverse actions and consequences are selected, and in this form it attracts our attention as a system of plots.

I shall take as my example one of the systems of fortune-telling which is widespread in Petersburg-Leningrad1. This system is only one variant of Russian methods of fortune-telling; of course fortune-telling as a “serious” attribute of everyday Iife is now almost extinct in our country, and has been preserved mainly as an amusement.

Depending on the person whose fortune is being told, an appropriate face card is chosen from among the cards; in this system, kings and queens are the only face cards used. In personal, direct fortune-telling, the queen of spades naturally loses validity for ethical reasons, but in indirect, impersonal fortune- telling, it is theoretically possible to utilize the queen of spades, especially if the fortune-teller has grounds for thinking that a woman is a “villainess”.

1 There are a great many systems of cartomancy, and the literature describing the various methods is extremely extensive. We shall mention only a few books in the Russian language: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Moscow, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Moscow, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

8

Tale metodo di divinazione non può essere considerato un sistema segnico e di conseguenza un oggetto di studio scientifico poiché suscettibile a un numero infinito di gradi di libertà e quindi di esiti possibili, ma può essere interessante per la teoria del gioco e la psicologia.

Al contrario, la cartomanzia “onesta”, quella praticata tra persone che si conoscono, e l’auto-cartomanzia, di norma costituiscono un sistema rigido, quasi privo di ogni libertà di scelta. In questo sistema, ogni carta ha un unico significato che può variare solo in casi isolati, rigorosamente specificati; le varie sfumature di significato sono create nel contesto della completa distribuzione delle carte. Questo caso verrà esaminato successivamente. Questo sistema ha evidentemente subìto nei secoli un lungo processo evolutivo nel quale sono state selezionate diverse azioni e conseguenze significative. Concentreremo la nostra attenzione su questa forma del sistema in quanto sistema di intrecci.

In qualità di esempio analizzerò uno dei sistemi di divinazione diffuso a Pietroburgo-Leningrado1, uno dei tanti metodi di cartomanzia usati in Russia. La cartomanzia, intesa come attributo “serio” della vita di ogni giorno, nel nostro paese si è quasi estinta; è sopravvissuta intesa meramente come gioco.

A seconda dell’oggetto di divinazione [di cui viene predetto il futuro; N.d.T.] dalle carte figure ne viene scelta una appropriata; nel sistema in questione vengono usate solo le figure del re [K] e della donna [Q]. Nella divinazione personale, diretta, la donna di picche [Q♠] viene esclusa per motivi etici; mentre nella divinazione indiretta, impersonale, soprattutto se il soggetto di divinazione [la persona che interessa all’oggetto o, nel caso dell’autocartomanzia, la persona che la cartomante ha in mente; N.d.T.] è una donna considerata “malvagia”, può essere scelta la donna di picche.

1 Vi sono svariati sistemi cartomantici e la letteratura che descrive i vari metodi è estremamente vasta. Accenniamo solo ad alcuni dei libri in lingua russa sull’argomento: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Mosca, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Mosca, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

9

The following table lists the meanings of the face cards and of the predicate cards that denote a state or action. A deck of thirty-six cards is used in the fortune-telling.

10

Nella tabella riportata di séguito vengono elencati i significati delle carte figure e delle carte predicato, cioè quelle di stato e di azione. [Nella tabella e in tutto il saggio i nomi delle carte verranno abbreviati secondo il sistema usuale: A♣ – asso di fiori, K♠ – re di picche, Q♥ – donna di cuori, J♦ – fante di quadri, 10♣ – 10 di fiori e così via; N.d.T.]. In questo sistema di divinazione si usa il mazzo contenente trentasei carte.

11

Suit Denomination

Clubs ♣

Spades ♠

Hearts ♥

Diamonds ♦

Ace (A)

bank (+ K♣ + Q♣ – their house)

blow (+ K♠ + Q♠ – their house)

family house (+ K♥ + Q♥ – their house)

receipt of a letter

King (K)

“financial” (employee, elderly man or widower)

soldier

married man, not old

unmarried person

Queen (Q)

elderly lady or widow (+ K♣ – his lady)

villainess (+ K♠ – his lady)

married woman, not old (+ K♥ – his lady)

girl

Jack (J)

troubles in connection with the bank (+ K♣ + Q♣ – their troubles)

unpleasant, unjust troubles (+ K♠ – his troubles)

domestic troubles (+ K♥ + Q♥ – their troubles)

pleasant, amusing troubles

10

great change

unpleasantness, illness (+ K♠ – interest toward the person)

domestic card

large amount of money

9

change (+ 10♣ – very great change; + K♣ + Q♣ – affectionate attitude toward the person)

unpleasantness, illness (+ 10♠ – very bad; + K♠ + Q♠ – affectionate attitude towards the person; + Q♠ – villainous intent)

domestic love (+ K♥ + Q♥ – their love for someone)

small amount of money (+ 10♦ – very large amount of money)

8

financial conversation

unpleasant conversation (+ K♠ – conversation with him)

domestic conversation

cheerful conversation

7

financial meeting

late meeting (+ K♠ – meeting with him)

quick meeting

cheerful meeting

6

financial journey

long journey

short journey

early, pleasant journey

12

Seme Valore

Fiori ♣

Picche ♠

Cuori ♥

Quadri ♦

Asso (A)

edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro casa)

colpo (+ K♠ e Q♠ – loro casa)

casa (+ K♥ e Q♥ – loro casa)

recapito di una lettera

Re (K)

uomo (impiegato) “pubblico”, anziano o vedovo

soldato

uomo sposato, non anziano

uomo celibe

Donna (Q)

donna anziana o vedova (+ K♣ – sua donna)

donna malvagia (+ K♠ – sua donna)

donna sposata, non anziana (+ K♥ – sua donna)

donna nubile

Fante (J)

faccende legate a un edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro faccende private)

faccende inutili (spiacevoli) (+ K♠ – sue faccende private)

faccende famigliari (+ K♥ e Q♥ – loro faccende private)

faccende divertenti

10

grande cambiamento

dispiacere, malattia (+ K♠ – interesse per il soggetto)

carta di famiglia

molto denaro

9

cambiamento (+ 10♣ – grande cambiamento; + K♣ e Q♣ – relazione sentimentale con il soggetto)

dispiacere, malattia (+ 10♠ – molto grave; + K♠ e Q♠ – relazione sentimentale con il soggetto; + Q♠ – cattive intenzioni)

affetto tra membri della famiglia (+ K♥ e Q♥ – loro amore per qualcuno)

poco denaro (+ 10♦ – moltissimo denaro)

8

conversazione formale

conversazione spiacevole (+ K♠ – conversazione con lui)

conversazione in famiglia

conversazione divertente

7

incontro formale

incontro successivo (+ K♠ – appuntamento con lui)

incontro imminente

incontro divertente

6

viaggio per scopi non personali

viaggio lontano

viaggio non lontano

viaggio di piacere a breve

13

It is evident that as a rule the majority of cards have a single meaning. Only in particular cases do some cards acquire special meanings or nuances, and here context begins to play an essential role.

Cartomancy proceeds in the following manner. Pairs of cards are drawn consecutively from the deck until the card appears that is the basis for the fortune-telling and constitutes the person’s card. The card paired to it is “next to” and “close to” the person. The person’s card (1) is placed in the center, the rest of the cards are gathered into the deck again and reshuffled, and then the cards are laid down. We shall omit the details of laying out the cards as essentially unimportant and shall describe only the result of the distribution. Two cards (2, 3), and then four more (4-7), are placed on the person’s card; they are what the person has “on his heart”. The other cards are arranged in eight groups around the center in the following way:

16, 17 1 18, 19

Nine cards obviously remain outside the distribution; they are discarded and do not take part in the fortune-telling. Cards 8-15 describe the person’s past (“what was”), cards 16-19 describe the present (“what is”), and cards 20-27 describe the future (“what will be”).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

14

13, 14 15

È evidente che di norma la maggioranza delle carte ha un solo significato. Solo in casi particolari alcune carte acquisiscono un significato o una sfumatura speciale e il contesto comincia a esercitare un ruolo fondamentale.

La cartomanzia avviene nel modo seguente. Coppie di carte vengono consecutivamente estratte dal mazzo fino quando esce la carta che rappresenta l’oggetto di divinazione. La carta-compagna indica quello che è «accanto» o «vicino» alla persona. La carta dell’oggetto (1) vene collocata al centro, le carte rimanenti vengono di nuovo raccolte nel mazzo, mescolate e distribuite. Ometteremo i dettagli della distribuzione in quanto privi d’importanza essenziale e descriveremo solo i risultati. Due carte (2, 3) e dopo altre quattro (4-7) vengono collocate sopra la carta dell’oggetto e rappresentano quello che l’oggetto «ha nel cuore». Le altre carte vengono collocate in otto gruppi attorno alla carta centrale come segue:

16, 17 1 18, 19

È evidente che nove carte restano escluse dalla distribuzione; queste carte vengono scartate e non partecipano alla divinazione. Le carte 8-15 caratterizzano il passato dell’oggetto («quel che c’era»), le carte 16-19 – il presente («quel che c’è»), le 20-27 – il futuro («quel che ci sarà»).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

15

13, 14 15

“Reading” the cards takes place in this sequence: initially the cards that the person has “on his heart” are read (at first 2-3, then 4-7), then come “what was”, “what is”, and “what will be”. The order of the cards within a group can be significant for all groups except the center. The positions of the cards in relation to the center, the person, are important because reading takes place from the center to the periphery in a sequence such as 1-17-16 or 1-(13, 14)-15. The person “acquires” the last card by and through the intermediate card or cards. For example, if card 16 stands for the journey and card 17 is an individual, then the person whose fortune is being told turns out to be on a journey because of this individual; if, on the contrary, 16 is an individual and 17 is the journey, then this individual will come on a journey to the person whose fortune is being told. Clearly the sentences, “a meeting due to money” and “money due to a meeting”, have different meanings. In short, the syntax in reading all eight peripheral groups requires a “direct” order of words from the center to the last card and does not permit inversion. The order of the cards is neutral only in isolated cases; for example, 9♣ + K♣ + Q♣ signify an affectionate attitude toward the person whether they are in extreme or middle position. As a result, a structure is created in which the sum, so to speak, of simple elements generates a complex whole whose overall meaning is changed substantially by varying correlations of elements.

After the reading of the entire distribution of cards comes the divination of “what remains to the person”, what the final result of this or another period of the person’s life will be. It is also possible to make subsequent distributions of the cards on themes such as “what will soothe”, “for you”, “for the home”, and “for the heart”. Only very primitive sentences are created by these divinations, which are limited in number to between three and nine cards, together with the predivination that determines the person’s card by the paired card “next to” it. Therefore we can omit them from consideration without detriment, and henceforth shall only consider the basic distribution of cards.

Reading this distribution generates an entire “history” of the person’s life and thus creates a plot. There are an extraordinarily great, though finite, number of plots.

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La “lettura” delle carte avviene come segue: prima di tutto si leggono le carte «nel cuore» dell’oggetto (prima le 2-3, dopo le 4-7), poi «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà». L’ordine delle carte all’interno di ogni raggruppamento può essere significativo per tutti i gruppi a accezione di quello centrale. È fondamentale il posizionamento delle carte rispetto al centro, l’oggetto; la lettura avviene partendo dal centro verso la periferia, cioè in questo ordine: 1→17→16 oppure 1→(13, 14)→15. L’oggetto “acquisisce” la carta esterna tramite la/e carta/e intermedia/e e grazie a esse. Se, per esempio, la carta 16 significa «viaggio» mentre la 17 è una figura, l’oggetto farà a breve un viaggio grazie all’individuo rappresentato dalla figura 17; se invece 16 sta per un individuo e 17 è un viaggio, l’individuo 16 sta per arrivare da lontano verso l’oggetto. È chiara la differenza tra le affermazioni «incontro a causa di denaro» e «denaro a causa di incontro». In breve, la sintassi nella lettura di tutti gli otto gruppi periferici richiede l’ordine “diretto” delle parole, dal centro alla carta esterna, e non ammette inversioni. L’ordine delle carte è neutro solo in casi isolati; per esempio, 9♣ accanto a K♣ e Q♣ sia nella posizione laterale che in quella centrale significa «relazione sentimentale con il soggetto». In séguito si crea una struttura nella quale la somma degli elementi, supponiamo, semplici genera un insieme complesso il cui senso generale cambia notevolmente variando le correlazioni tra gli elementi.

Alla lettura dell’intera distribuzione delle carte segue la divinazione di «quel che resta» all’oggetto, di quale risultato finale del periodo di vita attuale o immaginato lo attende. Sono inoltre possibili le successive distribuzioni delle carte sul tema «quel che conforterà», «per te» [per l’oggetto], «per la casa» [per la famiglia], «per il cuore». Siccome in questi tipi di divinazione, e anche nella fase iniziale in cui dalla carta-compagna della carta dell’oggetto si predice «quel che è accanto», si usa un numero limitato di carte (da 3 a 9) e vengono generate delle frasi primitive, le si può considerare meno rilevanti per la nostra ricerca, quindi ci occuperemo prevalentemente della distribuzione principale.

La lettura di questa distribuzione ci porta a conoscere l’intera “storia” dell’oggetto creando un intreccio. Il numero degli intrecci è estremamente alto, ma finito.

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Even if we disregard the variants generated by the order of the cards within the group and consider only the possibility that cards in the deck have of being the person’s card, or of being in groups like “on the heart”, “what was”, “what is”, or “what will be”, then according to the formula of combinations the number of plots will be equal to 12•1022. Taking into account all the variants arising from diverse arrangements or permutations of cards within each of the peripheral groups, this number must be multiplied yet another one hundred times and becomes twelve septillions or 12•1024. If the three billion inhabitants of the terrestrial globe were each to make a new distribution of cards every minute, they would exhaust all the variants after ten billion years of uninterrupted labor; but it is calculated that the solar system will only last approximately another eight billion years, and certainly people will find themselves more interesting and important pursuits during this period.

Moreover, the enormous number of plots are created by thirty-six cards, a very limited set of signs. Hence arises one of the cardinal questions of the theory of plots, that of the “primary element”. On the basis of the material of folklore and of ancient and medieval literature, the academician A. N. Veselovskij suggested that the primary plot element is the motif, «the simplest narrative unit which responds figuratively to the diverse inquiries of the primitive mind or of everyday observation» (Veselovskij 1940: 500). An eclipse of the sun and abduction of a girl are typical motifs. V. Â. Propp later set himself the goal of creating a complete list of motifs of fairy tales by analyzing one hundred plots from Afanas’ev’s collection of tales. He defined his primary elements more exactly as functions and obtained thirty-one such functions, including “a member of the family leaves home”, “a ban is imposed on the hero”, “a ban is broken”, and so on (Propp, 1968: 25-65). It seems that functions can be divided into even smaller units such as “hero”, “departure”, “ban”, “antagonist”, “deception”, and “struggle”, which would turn out to be at least half as few functions as thirty-one. But the fact remains that such units do not aid us at all in understanding the essence of the fairy tale, for they cannot be freely correlated with each other: to wit,

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Anche se ignoriamo le varianti originate dall’ordine delle carte all’interno del gruppo e consideriamo solo la possibilità che ogni carta del mazzo ha di diventare la carta dell’oggetto, la carta del gruppo «nel cuore», «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà», secondo il calcolo combinatorio il numero degli intrecci è approssimativamente pari a 12•1022. Calcolando tutte le varianti derivanti dalla diversa disposizione o permutazione degli elementi all’interno di ogni gruppo periferico, questo numero va ulteriormente moltiplicato per 100 e diventa dodici settime potenze di un milione, cioè 12•1024. Se ognuno dei tre miliardi di abitanti del globo terrestre facesse una nuova distribuzione ogni minuto, si esaurirebbero tutte le varianti in dieci miliardi di anni di lavoro ininterrotto; è stato calcolato però che il sistema solare durerà solo altri otto miliardi di anni e le persone, sicuramente, nel frattempo troveranno di meglio da fare.

Inoltre, questo grande numero di intrecci è creato da sole trentasei carte, un numero molto limitato di segni. Da qui deriva una delle questioni cardinali dell’intrecciologia, quella dell’“elemento primario”. Sulla base del materiale folcloristico e della letteratura antica e medievale, l’accademico A. N. Veselovskij ha supposto che l’elemento primario dell’intreccio sia il motivo, «la più elementare unità narrativa che risponde figurativamente a diverse indagini della mente primitiva o delle osservazioni quotidiane» (Veselovskij 1940: 500). Alcuni dei motivi tipici sono l’eclissi solare e il rapimento della fanciulla. Successivamente V. Â. Propp si era posto l’obiettivo di completare un elenco dei motivi della fiaba attraverso l’analisi di cento intrecci dalla raccolta di fiabe di Afanas’ev. Per essere precisi, ha definito i suoi elementi primari come «funzioni» e ne ha individuate trentuno tra cui: «un membro della famiglia va via di casa», «all’eroe viene posto un divieto», «un divieto viene violato» e così via (Propp, 1968: 25-65). Le funzioni potrebbero essere suddivise ulteriormente in unità ancora più piccole, come «eroe», «partenza», «divieto», «antagonista», «inganno», «lotta» e diventare perciò la metà del numero proposto da Afanas’ev, ma queste unità non facilitano affatto la comprensione dell’essenza della fiaba poiché non possono essere liberamente correlate tra loro, vale a dire:

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the ban is imposed on the hero, and not on the antagonist or donor; the antagonist is precisely the one who is properly punished (the thirtieth function) and not the hero or his helper. Syncretic thought operated by using integral segments that themselves represented short plots and that passed undivided from tale to tale, and therefore further differentiation of Propp’s functions would be senseless.

The increasing complication of life and the emergence of an elemental dialectics in thought led to a more flexible and free correlation in the artist’s consciousness between the separate elements of a function, as well as to the appearance of many completely new elements and functions. It would be very valuable to analyze the process of disassociation of motif-functions into more minute units and the emergence of new motif-functions as it takes place over the course of many centuries; for instance, the plot of Puškin’s Ruslan i Lûdmila could be compared, by using Propp’s method, with traditional fairy tale plots. A characteristic feature of modern literature is the disassociation of motifs into their component parts or submotifs, which enter into free interactions with each other as subjects and predicates. Growth in the number of elements increases proportionally to the number of ties between them, which in turn complicates the structure as a whole. Therefore, attempts to reduce all the diversity of world dramaturgy to three dozen or so plots are naïve (see Polty 1895).

Although the origin of cartomancy dates from extreme antiquity, contemporary cartomantic systems are the fruit of a new era. In them, each card is not a motif or “little plot”, but an element that only generates a plot in conjunction with other elements. In turn, each element or card cannot be divided further, and all thirty-six cards are indivisible elements. It is very difficult to classify these elements without taking into consideration the common division into subjects (face cards) and predicates (actions or states). No hierarchy based on suit or denomination, aesthetic or ethical categories, can be observed in our system. The feebly outlined opposition in face cards between the sexes, and the contrast in suits between old and young, married and unmarried, is entirely absent in predicates. Predicates can be conventionally grouped in twelve categories,

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il divieto è posto all’eroe e non all’antagonista o al donatore; è l’antagonista che viene punito a dovere (la trentesima funzione), non l’eroe o il suo aiutante. Il pensiero sincretico ha agito attraverso segmenti interi che di per sé rappresentavano intrecci brevi che passavano intatti di fiaba in fiaba; di conseguenza un’ulteriore suddivisione delle funzioni di Propp non avrebbe senso.

Le condizioni di vita in peggioramento e la nascita della dialettica spontanea nel pensiero hanno portato a una correlazione più flessibile e libera nella coscienza dell’artista tra i vari elementi di una funzione e inoltre hanno portato alla comparsa di molti elementi e funzioni completamente nuovi. Sarebbe molto utile analizzare il processo di disintegrazione di motivi-funzioni in unità più piccole e la comparsa di elementi nuovi che avviene nel corso di molti secoli; per esempio l’intreccio di Ruslan i Lûdmila di Puškin può essere paragonato, secondo il metodo di Propp, agli intrecci tradizionali della fiaba. Un aspetto caratteristico della letteratura moderna è la disintegrazione dei motivi nelle parti integranti, sottomotivi o soggetti e predicati che entrano in relazioni libere tra loro. La crescita del numero degli elementi aumenta proporzionalmente al numero dei legami tra loro, e questo a sua volta complica la struttura in generale. Sono perciò ingenui i tentativi di limitare tutta la diversità della drammaturgia mondiale a una trentina di intrecci (si veda Polty 1895).

Nonostante le origini della cartomanzia risalgano alla più remota antichità, i sistemi cartomantici contemporanei sono frutto di una nuova epoca. Ogni carta qui non è un motivo o un “piccolo intreccio”, ma un elemento che genera un intreccio se collegato ad altri elementi. Ogni elemento o carta a sua volta non può essere divisa ulteriormente; tutte le trentasei carte sono perciò elementi indivisibili. È molto difficile classificare questi elementi senza prendere in considerazione la suddivisione comune in soggetti (carte figure) e predicati (azioni o stati). Nel nostro sistema è assente ogni suddivisione in base a semi e valori, categorie etiche ed estetiche. La contraddizione poco evidente, nelle carte figure, tra sessi, e il contrasto nei semi tra anziano e giovane, sposato e non sposato è del tutto assente nei predicati. I predicati possono essere formalmente raggruppati in dodici categorie

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and many denominations have a common type of meaning for all or some suits:

1. change;
2. troubles;
3. illness;
4. receiptofmoney; 5. love;

6. family;
7. conversation;
8. meeting;
9. journey;
10. blow;
11.receipt of a letter; 12.sojourn in some house.

These twelve groups of predicates acquire a more specific meaning in context; some groups, at least two, seven, eight, and nine, are four variants of the same meaning. Almost all meanings in group classification are ethically and aesthetically neutral. Figure cards remain neutral as a rule even in the substitution of suits; Q♠ is an exception, but only in the absence of her cavalier, since the auxiliary status of K♠ frees Q♠ from any condemnation or even ethical suspicion. The groups of predicates one, two, six, seven, eight, nine, eleven, and twelve are neutral in themselves. Only four and five convey a clearly positive meaning, while three and ten are negative; due to their uniqueness, as a rule these groups include only one card, or more rarely two cards. Predicates of the majority of groups are evaluated only when their suit and value are specified, as in unpleasant troubles (J♠), amusing troubles (J♦), unpleasant conversation (8♠), cheerful conversation (8♦). It turns out that the second part of a card’s conventional meaning, its value or denomination, designates, as it were, the state or action itself, while the first part, its suit, introduces something qualitative, evaluative, or attributive.

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e molti valori hanno lo stesso significato per tutti i semi o per alcuni:

1. cambiamento,
2. faccende,
3. malattia,
4. riscossionedidenaro, 5. amore,

6. famiglia,
7. conversazione,
8. incontro,
9. viaggio,
10. colpo,
11.recapito di una lettera, 12.permanenza in un edificio.

Questi dodici gruppi di predicati acquisiscono un significato più specifico nel contesto; alcuni gruppi – il secondo, il settimo, l’ottavo e il nono – sono le quattro varianti dello stesso significato. Quasi tutti i significati nella classificazione di gruppo sono eticamente ed esteticamente neutrali. Normalmente le carte figure restano neutrali nonostante il significato generale del seme: la donna di picche ne è l’eccezione solo quando il suo “cavaliere” è assente dato che la posizione “ufficiale” di K♠ libera Q♠ da qualsiasi condanna o sospetto di carattere etico. I gruppi dei predicati uno, due, sei, sette, otto, nove, undici e dodici sono neutri. Soltanto il quattro e il cinque esprimono un significato chiaramente positivo, mentre il tre e il dieci sono negativi; e proprio grazie alla loro unicità questi gruppi comprendono di solito solo una o al massimo due carte. I predicati della maggioranza dei gruppi diventano positivi o negativi a seconda del seme e del valore: faccende spiacevoli (J♠), faccende divertenti (J♦), conversazione spiacevole (8♠), conversazione divertente (8♦). Risulta che la prima parte della denominazione convenzionale della carta – il suo valore – significa lo stato, l’azione, invece la seconda parte – il seme – introduce una caratteristica qualitativa, valutativa o attributiva.

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However, it is significant that a number of predicates do not specify a precise meaning even with substitution of suit and value; a long journey or financial meeting tell us nothing or almost nothing by themselves. This pertains particularly to 10♣ and 9♣, which constitute group one of predicates. “Change” is such a broad term that in fact it embraces all the other groups of predicates, any of which introduces change into the person’s life. It would surely be tempting to adopt an order of reading that passes from the less informative to the more informative cards, for instance from 10♣ to A♠ or 9♦1, but in our system the amount of information conveyed by a card does not influence the order of reading. Possibly, therefore, “change” should not be considered as including all the other signs of the system, but rather all the rest of the possible predicates not contained in the table of meanings. Strictly speaking, it is impossible to measure abstractly a relative amount of information or even to establish a hierarchical scale, since the informational meaning of a card can increase considerably in any specific context; and moreover, the person whose fortune is being told, whether a listener or viewer of the process of distribution and reading, could experience various subjective reactions to any card. For a certain person, a card that in context is more informative may prove to be far less quantitatively and qualitatively informative than a supposedly rather uninformative card, and vice versa. As in perceiving a work of art, subjective associations cannot be avoided, and therefore several, if not an infinitely great number, of referential variants can correspond to the sign’s meaning. But also as in art, there exists none the less an objective system of rudimentary symbols that can be transcribed by “formulae” (the cards’ conventional signs), by distribution in a quadrant, or more conveniently,

1 For example, this is how M. I. Lekomceva and B. A. Uspenskij describe the system known to them, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

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Tuttavia è significativo che alcuni predicati non specifichino né generalizzino il significato neanche nel caso della sostituzione del seme o del valore; un viaggio lontano o un incontro formale di per sé non ci dicono niente o quasi niente. Questo riguarda in particolar modo 10♣ e 9♣, facenti parte del primo gruppo di predicati. «Cambiamento» è un termine talmente vasto che in effetti comprende tutti gli altri gruppi di predicati, ognuno dei quali introduce un cambiamento nella vita dell’oggetto. Sarebbe sicuramente stato allettante adottare un ordine di lettura tale da analizzare le carte meno informative prima di quelle più informative, partendo per esempio da 10♣ per arrivare a A♠ o 9♦1, ma nel nostro sistema di divinazione la quantità d’informazioni contenute in una carta non influisce sull’ordine di lettura. È probabilmente per questo motivo che la categoria «cambiamento» non va considerata un contenitore di tutti gli altri segni del sistema, ma piuttosto tutti gli altri possibili predicati vanno esclusi dalla tabella dei significati. A rigor di termini, è impossibile misurare in modo astratto una quantità relativa di informazioni o anche stabilire una scala gerarchica, poiché il significato informativo di una carta può diventare considerevolmente più intenso in un contesto specifico; e inoltre l’oggetto di divinazione, essendo un ascoltatore o uno spettatore del processo di distribuzione e di lettura, può sperimentare diverse reazioni soggettive a qualunque carta. Una carta più informativa nel contesto può risultare per una persona quantitativamente e qualitativamente molto meno informativa di quanto non lo sia una carta presumibilmente poco informativa e viceversa. Così come nella percezione di un’opera d’arte una persona non può evitare associazioni soggettive, così al significato di un segno possono corrispondere diversi, se non innumerevoli, varianti referenziali. Tuttavia, esattamente come nell’arte, esiste un sistema oggettivo di simboli univoci che può essere trascritto da “formule” (denominazioni convenzionali delle carte) o attraverso la distribuzione in un quadrante o, più comodamente,

1 Per esempio, è così che M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij descrivono un sistema che gli è noto, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

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by an “unraveled” line that retains the order of reading cards by groups and arranges the cards within each group in the order in which they should be read. Here, for example, is the transcription of a distribution, showing the card of the person whose fortune is being told (Q♥) and separating the groups within each temporal stratum with semicolons: Q♥, on her heart 7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦, what was K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣, what is A♣, K♦; 9♥, K♥, what will be 7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠.

Thus we can describe the plot of cartomancy conventionally and unambiguously, as with a game of chess, so that any reader can interpret its factual and emotional details. It is far more difficult to analyze the plots of works of art. A writer writes down a complete text by drawing upon the enormous reservoir of poetic vocabulary and saturates it with his ideas, emotions, and associations. The subsequent inclusion of the reader’s subjectivity is wholly natural and analogous, though also more complex, to reading the distribution of the cards. Here “formulization” does not entail a simple ruling of a table into four suits by nine denominations, with inscription of the corresponding meanings of the cards, but rather an extremely difficult examination of how to elaborate the very principles of classification. Some principles will be needed by the researcher interested in plot syntax, plot grammar, and the dialectics of correlating plot elements; other principles will be needed by the historian of plots. Special scales must be created in each instance, and we literary scholars unfortunately do not yet possess a “Mendeleev’s table” of plots. The necessity of creating such tables during the next few years hardly needs to be demonstrated1.

1 True, there are still opponents of typology in literary scholarship in general who say that it destroys the specificity and unique individuality of artwork and writer. For some reason they do not protest against the classification, let us say, of characters in psychology or of types in anthropology. In those cases, systematics obviously does not suppress the distinctiveness of individuals. But why then is it contraindicated in literary scholarship?

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in forma “dettagliata”, in una linea che mantiene l’ordine di lettura delle carte per gruppi e dispone le carte all’interno di ogni gruppo secondo l’ordine in cui vanno lette. Qui di seguito, per esempio, è riportata la trascrizione di una distribuzione in cui gli strati temporali vengono contrassegnati e divisi da parentesi di diversa forma: «nel cuore» – {}, «quel che c’era» – <>, «quel che c’è» – [], «quel che ci sarà» – (). I gruppi all’interno di ogni stato possono essere separati da punto e virgola. La carta dell’oggetto verrà contrassegnata dal corsivo. La trascrizione risulta quindi: Q♥ {7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦}, <K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣>, [A♣, K♦; 9♥, K♥], (7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠).

È quindi possibile descrivere l’intreccio della cartomanzia in modo convenzionale e univoco, come nel gioco degli scacchi, in modo che ogni lettore possa interpretare i suoi dettagli fattuali ed emotivi. È molto più difficile invece analizzare gli intrecci di un’opera letteraria. Il processo di stesura dell’opera richiede l’uso del vasto vocabolario poetico e contiene idee, emozioni e associazioni dell’autore. Vi si aggiunge naturalmente l’interpretazione soggettiva del lettore, in un modo analogo alla lettura delle carte, ma assai più complesso. Qui la “formulizzazione” non si limita a tracciare una tabella con quattro colonne per i semi e nove per i valori e a compilarla con i corrispettivi significati delle carte, ma consiste piuttosto in uno studio estremamente difficile per elaborare i princìpi stessi di classificazione. Un ricercatore interessato alla sintassi, alla grammatica dell’intreccio, alla dialettica delle relazioni tra gli elementi dell’intreccio, usa princìpi diversi da quelli applicati da, supponiamo, uno storico dell’intrecciologia. In ogni caso sarà necessario creare una tabella diversa. Noi studiosi di narratologia purtroppo non disponiamo ancora di una “tavola periodica di Mendeleev” degli intrecci. Il fatto che simili tabelle dovranno essere create nei prossimi anni è indubbio1.

1 È vero che esistono ancora critici di tipologia generale nella narratologia secondo i quali la tipologia distrugge la specificità e l’individualità irripetibile di un’opera d’arte o di uno scrittore. Per una strana ragione non protestano contro la classificazione, diciamo, di caratteri in psicologia o di tipi in antropologia. In quei casi la sistematica, evidentemente, non reprime la particolarità degli individui. Ma per quale ragione allora è controindicata per la narratologia?

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Comparative study of literatures, epochs, writers, and schools is greatly impeded by the lag in plot analysis, and plot theory remains in a petrified state although there is more than sufficient preliminary material. Researchers of literary plots could already be profiting from the services of contemporary computers1, but they cannot do so until a rigorous and exact system of classification is elaborated.

Plot analysts can be aided by plot systems already in existence, such as the cartomantic system that we have examined. Except for simple systems like the detective story (see Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), the literary scholar does not treat two or three dimensions like the fortune-teller’s suit, denomination, and time group, and thus we must create multidimensional tables. But the main dimensions of the cartomantic system enter into literary scholarship as a particular case. Denomination, conventionally speaking, remains a principal dimension for the literary scholar and fabulist, and includes persons, actions, and states as well as the grouping of topics and concepts. Suit is analogous to a plot-table of distinctive traits and evaluations that are ethical-aesthetic and qualitative. This series is particularly important so that we can transmit in our formulae evaluations by the author of the events and characters he has depicted. Scales of time and space are also possible. In the cartomantic system, the majority of “circumstantial” categories of place, cause, and effect, are expressed by the predicates themselves; in literary scholarship, they can be included in the scales of actions and states, or of topics and concepts, by adding categories such as time and purpose.

To be sure, a limited set of signs threatens to impoverish the diversity of plot connections and meanings, and hence our task is to discover units that would reflect in totality all the essential features necessary for this research. Even the most detailed plot formula

1 The broad dissemination of teaching and examining machines during the next few years will render the problem of the “formulization” of plots even more acutely urgent.

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Lo studio comparato di letterature, epoche, scrittori e correnti è fortemente ostacolato dall’arretratezza dell’intrecciologia; la teoria dell’intreccio si trova in uno stato pietrificato nonostante il materiale preliminare sia più che sufficiente. Gli studiosi degli intrecci narrativi avrebbero già potuto servirsi dei computer contemporanei1, ma questo non sarà possibile finché non sarà elaborato un sistema rigido ed esatto di classificazione.

D’aiuto agli intrecciologi può essere il sistema degli intrecci esistente, in particolar modo il sistema di cartomanzia che abbiamo analizzato nel presente saggio. A eccezione dei sistemi semplici, come quello di un giallo (si veda Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), il narratologo non si accontenta di due o tre dimensioni come il seme, il valore, e il gruppo temporale nel presente sistema di divinazione, ma necessita di una tabella pluridimensionale. Ma le principali dimensioni del sistema cartomantico fanno parte di questa tabella come caso particolare. Il valore resta la dimensione principale per il narratologo-fiabista e comprende oltre alle figure e alle azioni-stati la categoria di cose e concetti-idee. Nella tabella degli intrecci, al posto della categoria dei semi, compare la categoria del tratto distintivo e della valutazione, ossia la categoria etico-estetica e qualitativa. Questi criteri sono fondamentali soprattutto per trasmettere con le nostre formule la valutazione che l’autore dell’opera attribuisce agli eventi e ai personaggi. Sono possibili anche i criteri del tempo e dello spazio. Nel sistema della cartomanzia la maggior parte delle categorie “circostanziali” di luogo, causa ed effetto sono espresse dai predicati stessi; e possono far parte delle categorie di stati-azioni o cose-concetti insieme alle categorie di tempo e scopo.

È chiaro che una sequenza limitata di segni rischia di impoverire la diversità dei legami e dei significati dell’intreccio, ed è proprio questa la difficoltà: trovare unità capaci di riflettere nella sua totalità tutti gli aspetti essenziali per questo studio. Persino la formula dell’intreccio più dettagliata non

1 La grande diffusione di macchine-insegnanti e macchine-esaminatori dei prossimi anni renderà ancora più attuale il problema della “formulizzazione” degli intrecci.

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can certainly never take the place of the text itself in its entirety as a work of art, just as no opus of literary scholarship can become a substitute for the object being examined. When the necessary methods of “segmentation” have been elaborated, a reliable system of classification will be created rapidly by means of dichotomies and antinomies.

Twentieth-century literature, which is exceptionally allusive, associative, and often both metaphorical and metonymical, makes ciphering very complex. Metaphors and metonyms do not in themselves create insuperable difficulties, for what is implied can be given in brackets or as a denominator or denominators. It is immeasurably more difficult to show with formulae the meaning of an entire, complex system in which the terms receive a somewhat or totally new meaning not according to the ordinary rules known to the reader (as when Q♠ acquires various meanings in different contexts) but according to some utterly peculiar movements of authorial thought. The new meaning in such a system does not arise automatically from the context, but requires special designation and can consist either of an addition to the sum of existing terms or of a partial or total replacement of existing terms by something new. The problem of how complex structures arise from simple elements is of special interest to the analyst of plot grammar, who must create special signs to describe the different modes of interrelation between the elements, by using L. Hjelmslev’s linguistic “algebra”, for instance (Hjelmslev 1960: 264-389).

Many questions remain to be resolved. The researcher encounters extraordinary difficulty in attempting to reflect extratextual connections with the text in formulization of poetic plots. The problem of the detail and criteria of proportion for ciphering the plot in each specific research method must be considered attentively, along with a dozen great and small problems that are the urgent tasks of the immediate future. In conclusion, we must point out to those who would discredit our approach that formalization in general, the mathematization of literary processes for the purpose of more exact, conclusive analysis, has nothing in common with

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potrà mai sostituire il testo nel complesso in quanto opera d’arte, così come nessuna opera letteraria potrà sostituire l’oggetto dello studio. Nel momento in cui verranno elaborati i necessari metodi di “segmentazione”, verrà creato rapidamente un sistema compatto di classificazione tramite dicotomia e antinomia.

La letteratura del Novecento, straordinariamente allusiva, associativa e spesso sia metaforica che metonimica, rende la cifratura molto complessa. Metafore e metonimie di per sé non creano difficoltà irrisolvibili poiché le informazioni sottointese possono essere rese tra parentesi o sotto forma di denominatore/i. Il compito di gran lunga più difficile è esprimere il senso di un sistema intero, complesso, nel quale i componenti acquisiscono qualcosa di nuovo, un significato completamente diverso e non secondo le regole usuali che il lettore conosce (ne è un esempio Q♠, che acquisisce significati diversi nei contesti diversi), ma secondo un ordine particolare del pensiero dell’autore. Il significato nuovo in tale sistema non deriva automaticamente dal contesto, ma richiede una designazione speciale e può consistere sia nell’aggiunta alla somma dei termini esistenti sia nella sostituzione totale o parziale di termini esistenti con qualcosa di nuovo. Il problema dell’origine di strutture complesse da elementi semplici interessa in modo particolare lo studioso nel campo della grammatica dell’intreccio il quale deve creare segni speciali per descrivere diversi metodi di interrelazione tra gli elementi, con l’aiuto, per esempio, dell’“algebra” linguistica di L. Hjelmslev (1960: 264-389).

Vi sono ancora tanti problemi da risolvere. Lo studioso il cui cómpito sarà quello di raffigurare i legami extratestuali con il testo e di “formulizzare” gli intrecci poetici, si troverà di fronte a un’enorme difficoltà. Sarà necessario valutare attentamente il problema del dettaglio e dei criteri di proporzione per cifrare l’intreccio per ogni metodo di ricerca. Nel prossimo futuro dovranno essere risolte questa e altre decine di difficoltà maggiori o minori. Per concludere, facciamo notare ai possibili critici del nostro approccio che la formalizzazione in generale e la matematizzazione di processi letterari allo scopo di un’analisi più esatta, conclusiva, non ha niente in comune con il

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formalism. The scholar will not operate according to our method by using “naked form”, but by employing the elements that are most rich in content, whether it is a matter of analyzing plot, style, or any other category or aspect. This mathematization should aid literary scholarship by opposing scientific analysis to the unsubstantiated talk of subjectivists of all kinds. «Thought, in rising from the concrete to the abstract, does not deviate from the truth if it is correct … but approaches it. … all scientific (correct, serious, nonabsurd) abstractions reflect nature more profoundly, truthfully, completely» (Lenin 1936: 166).

32

formalismo. Lo studioso non dovrà applicare il nostro metodo usando la “nuda forma”, ma gli elementi ricchi di contenuto, che si tratti di analisi dell’intreccio, dello stile o di qualunque altra categoria o aspetto. Questa matematizzazione deve contrapporre l’analisi scientifica precisa alle chiacchiere non comprovate dei soggettivisti. «Il pensiero che parte dal concreto per arrivare all’astratto non si discosta, se è corretto […], dalla verità, ma ci si avvicina […]. Tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) riflettono la natura in modo più profondo, realistico e completo» (Lenin 1936: 166).

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Chapter 7

Language as a Sign System and the Game of Chess1.

I. I. Revzin

Language is a system that has its own arrangement. Comparison with chess will bring out the point. In chess, what is external can be separated relatively easily from what is internal. The fact that the game passed from Persia to Europe is external; against that, everything having to do with its system and rules is internal. If I use ivory chessmen instead of wooden ones, the change has no effect on the system; but if I decrease or increase the number of chessmen, this change has a profound effect on the “grammar” of the game.

F. de Saussure 1.1 It will be beneficial for the development of semiotic theory to pursue Saussure’s analogy (Saussure 1933: 45). This is all the more timely because cybernetic model-building has encountered fundamental difficulties in relation not only to the game of chess but to linguistic tasks such as machine translation, apparently for similar reasons: in both cases man essentially uses his intuition, while model-building in terms of complete mastery has been

unsuited to solving such problems.

1.2. We have proposed the following comparisons on the basis of structural, not external, traits. It would have been possible in particular to regard the chess match as a dialogue or even an argument, in which each pair of sentences is linked by an adversary relationship, but we do not do this.

1 This article also appeared in Russian as «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

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Capitolo 7

La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi1.

I. I. Revzin

La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio. Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tale caso è relativamente facile distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno, ed è interno, al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se sostituisco dei pezzi in legno con dei pezzi in avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se diminuisce o aumenta il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la “grammatica” del gioco.

F. de Saussure 1.1 Per lo sviluppo della teoria semiotica sarebbe utile continuare l’analogia di Saussure. È attuale tanto più che la modellizzazione computerizzata non solo del gioco degli scacchi ma anche di processi linguistici, la traduzione automatica per esempio, ha riscontrato alcune fondamentali difficoltà per ragioni evidentemente simili: in entrambi i casi l’uomo usa molto la propria intuizione, mentre la modellizzazione con il calcolo

completo delle mosse possibili è inadatta per risolvere queste difficoltà.

1.2 I raffronti riportati in seguito sono basati su fattori strutturali, non esterni. In particolare si sarebbe potuto considerare la partita a scacchi un dialogo o una discussione in cui in ogni coppia di proposizioni c’è un nesso di carattere avversativo, ma non lo facciamo.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

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If the 2.12. move in the chess match is compared below with the lexical morpheme, the smallest significant unit in the sentence, this is not done in order for a sentence to be considered as a gradual, “move by move”, accumulation of morphemes either clarifying or negating the meaning of the preceding sentence (Hockett 1961: 220-236) – this is a very common notion – but in order for these elements to occupy a similar position in the structure of the whole.

1.3. Comparing a chess match with dialogue is only useful when we are involved in both cases with two participants who are alternately active and passive and who pursue a definite goal: winning at chess or achieving understanding in the act of communication. Achieving understanding is considered somehow self-evident, but in fact the participants have to overcome a substantial amount of “noise” having to do with nonconvergence of their semantics and nonconvergence of their grammar and phonology, which is also theoretically possible1. Moreover, situations are possible in which the speaker deliberately tries to conceal his meaning. This stance brings him closer to the position of the chess player, who as a rule tries to hide the meaning of a move, although in chess as well there are quite a few moves whose meaning is obvious to the other participant. Thus we are concerned with goal-directed activity in both objects of study; let us now examine the means of achieving the goal.

2.0. We shall consider both objects of study as structures, collections of elements with fixed relations between them.

1 See following pages.

36

Se la mossa 2.12. nella partita a scacchi è paragonata a un morfema lessicale, unità minima della proposizione significativa, lo si fa non perché una proposizione sia considerata un accumulo graduale, “mossa per mossa”, di morfemi che chiarificano o cancellano il senso della proposizione precedente (Hockett 1961: 220-236) – un’opinione molto diffusa – ma perché questi elementi occupano posizioni vicine nella struttura dell’insieme.

1.3. Il confronto di una partita di scacchi con il dialogo è utile solo se disponiamo in entrambi i casi di due partecipanti passivi e attivi a rotazione e che perseguono uno scopo preciso: vincere nel gioco e farsi comprendere nell’atto di comunicazione. Farsi comprendere è considerato un fattore evidente; in realtà i partecipanti devono superare una considerevole quantità di “rumore” causato dalla divergenza tra le loro abitudini semantiche e, teoricamente è possibile, grammaticali e fonologiche1. Inoltre, possono esservi casi in cui un parlante nasconda di proposito le proprie intenzioni. Tale atteggiamento si avvicina a quello dello scacchista che cerca di solito di mascherare il senso di una mossa, nonostante negli scacchi vi siano molte mosse il cui significato è ovvio all’altro giocatore. In entrambi gli oggetti di studio dunque siamo di fronte a un’attività finalizzata; cerchiamo ora di esaminarne gli strumenti per raggiungere lo scopo.

2.0. Prenderemo in considerazione entrambi gli oggetti di studio come strutture, insiemi di elementi con interrelazioni fisse.

1 Si veda le pagine successive.

37

2.1 Elements.

Chess

Language

2.1. The square.

2.1. Some nonsign background.

2.1.1. A very small set of pieces, sixteen in all, of which six are different. The first significant elements are

2.1.1. A very small set of auxiliary morphemes: affixes, inflections, grammatical prepositions, and in generaI “empty words”.

2.1.2. a finite number, however large, of moves, i.e., of three elements: initial position, new position, chess piece. The move has a very broad meaning which is realized differently each time in

2.1.2. The first significant element is the lexical morpheme; there is a finite number, however large, of morphemes. It is still a potential meaning which is realized in the elements of

2.1.3. a finite number of configurations of pieces, each of which is characterized by its own traits: pawn chain, center, copula, weak point, squares of a given color, opposition, check, zugzwang, etc. The number of such traits is finite; from these configurations is formed

2.1.3. a finite set of words, each of which is characterized by a finite set of traits (Revzin 1969: 63-74): the word’s differential traits, semes, and semantic valences. From these words is formed

2.1.4. an infinite set of positions: the arrangement of all the pieces on the chessboard at a given moment of time t. The positions can be divided into correct and incorrect positions; it is impossible to arrive at an incorrect position by a correct play from initial position. There is an intermediate class of positions that can only be arrived at by completely ignoring the game’s principles and that are meaningless from the standpoint of the player’s practice but not from that of the theoretician.

2.1.4. an infinite set of sentences, which can be subdivided into sentences that are correct, incorrect, and an intermediate class.

2.1.5. Match

2.1.5. Text

2.1.6. Outcome: winning, draw, losing

2.1.6. Understanding, incomplete understanding, lack of understanding

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2.1. Elementi.

Scacchi

Lingua

2.1.0. Scacchiera

2.1.0. Un contesto non semiotizzato

2.1.1. Un numero molto piccolo di pezzi, sedici in tutto, ma solo sei tipi diversi. I primi elementi significativi sono:

2.1.1. Un numero molto piccolo di morfemi ausiliari: affissi, flessioni, preposizioni grammaticali e “parole vuote” in generale.

2.1.2. un numero finito, ma grande, di mosse, cioè di tre elementi: posizione iniziale, nuova posizione, pezzo. La mossa ha un significato molto generale che si attualizza ogni volta in modo diverso con

2.1.2. La prima unità significativa è il morfema lessicale; vi è un numero finito, ma grande, di morfemi. È anche il significato potenziale attualizzato negli elementi

2.1.3. un numero finito di configurazioni di pezzi, ognuna di quali è caratterizzata dai tratti particolari: catena di pedoni, centro, copula, punto debole, case di un certo colore, opposizione, scacco, zugzwang ecc. Il numero di questi tratti è finito: da queste configurazioni si formano

2.1.3. della quantità finita di parole, ognuna caratterizzata da una quantità finita di tratti (Revzin 1969: 63-74): tratti differenziali di parole, semi e valenze semantiche. Da queste parole si forma

2.1.4. innumerevoli posizioni (la disposizione di tutti i pezzi sulla scacchiera in un tempo t). Le posizioni possono essere suddivise in posizioni corrette e scorrette; è impossibile giungere a una posizione scorretta con un gioco corretto dalla posizione iniziale. Esiste una classe intermedia di posizioni alle quali si può arrivare ignorando completamente i princìpi di gioco, ma le quali sono prive di significato, secondo il punto di vista dello scacchista ma non del ricercatore.

2.1.4. un’infinita quantità di proposizioni, che possono essere suddivise in corrette, scorrette e di una classe intermedia.

2.1.5. Partita

2.1.5 Testo

2.1.6. Risultato: vincita, patta, perdita

2.1.6. Comprensione, comprensione incompleta, incomprensione

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2.2. Relations.

Chess

Language

2.2.1. The interaction between the pieces: the correlation between the strength and number of attacking and defending pieces, “the coefficient of tension” in the main zones of play, the saturation of valence1

2.2.1. Syntagmatics: valent connections between words

2.2.2. Recollection of previous moves, for instance in connection with the rule about threefold repetition of a position, and especially of possible future positions. The question is not so much that of the positions themselves as of their configurational traits. (See 2.1.3.)

2.2.2. Paradigmatics: recollection of connections between words and sentences not present in the text

2.2.3. A specific instance of the preceding is the relation between abridging the position and isolating support configurations: the pawn backbone, open lines, pawn superiority on the flank, bishops of opposite colors, etc. Ability to abridge the position makes it possible to foresee the situation for many moves in advance, which is not possible with a full set of pieces.

2.2.3. Abridging sentences to initial words, usually to the predicate, is a special type of relation in a sentence, as is abridging each dependent cluster to a single word, usually a pronoun. This abridgment makes it possible to reduce all the diverse formations of the sentence to a finite number of equivalent classes, and thus, according to Donald Michael’s theorem, to conceive of language as the product of a finite automaton.

2.3. Operations.

Applying the relations mentioned in 2.2. and other possible relations in order to achieve an objective makes it possible to speak of combinations of relations.

1 The valence of a chess piece means the number of squares that it can attack; the valence is saturated if sufficiently valuable pieces of the opponent stand on these squares. From our viewpoint, it was precisely valences that were formalized in previously proposed models of the game of chess.

40

2.2. Relazioni.

Scacchi

Lingua

2.2.1. Interazione tra pezzi: correlazione tra potenza e numero di pezzi che attaccano e/o si difendono, “coefficiente di tensione” nelle principali aree di gioco, saturazione della valenza1.

2.2.1. Sintagmatica, ossia legami valenti tra le parole

2.2.2. Memoria delle mosse precedenti, in relazione alla regola della triplice ricorrenza della posizione, e soprattutto delle possibili posizioni future. Non si tratta tanto delle posizioni stesse quanto delle loro caratteristiche configurazionali (si veda 2.1.2.).

2.2.2. Paradigmatica, ossia la memoria dei legami assenti nel testo tra parole e proposizioni.

2.2.3. Il caso specifico dell’affermazione precedente è la relazione tra la circoscrizione della posizione e l’individuazione delle configurazioni d’appoggio: catene di pedoni, posizioni aperte, superiorità dei pedoni sul fianco, alfieri di colore contrario, ecc. La capacità di circoscrivere la posizione permette di prevedere la situazione per molte mosse future, ciò che è impossibile fare attraverso il calcolo completo delle mosse possibili.

2.2.3. Un tipo specifico delle relazioni nella proposizione è la relazione tra la circoscrizione della proposizione alle parole iniziali, solitamente in funzione di predicato, e nel contempo la circoscrizione di ogni gruppo dipendente a una singola parola, solitamente al pronome. Questo permette di limitare la moltitudine di componenti di una proposizione a un numero finito di classi equivalenti e di conseguenza, in base al teorema di Colin Mayhill, di concepire il linguaggio come generato da un meccanismo finito.

2.3. Operazioni.

L’applicazione delle relazioni menzionate nel 2.2 (e non solo) per raggiungere l’obiettivo permette di parlare dell’insieme di operazioni.

1 Per «valenza» di un pezzo si intende il numero delle case che essa può attaccare; la valenza è saturata se su quelle case sono esposti pezzi importanti dell’avversario. Dal nostro punto di vista sono proprio le valenze a essere state formalizzate nei modelli precedenti del gioco degli scacchi.

41

Chess

Language

2.3.1. “Tactics”: making a decision on the basis of logical reasoning, (“calculation”, as chess players say) or on the basis of traits of type 2.1.3.

2.3.1. Ascertaining meaning by means of transformational analysis = logical deduction, or with the support of the differential traits of words.

2.3.2. “Strategy”: ascertaining a position’s strong elements by means of mental abridgment (See 2.2.3).

2.3.2. Ascertaining the phrase’s structural skeleton by means of abridgment (See 2.2.3).

Note. At this point it can be shown that the comparison works precisely the other way around, for while in chess “strategy” is most important, in linguistic analysis preference is given to the equivalent of “tactics”, as in the characteristic distinction between “deep” and “surface” structure. However, it appears that both types of operations are equally important in their respective instances.

3. Let us now analyze the types of rules applied to our objects of comparison.

3.1. First and foremost, there are rules that constitute the system itself; it is precisely these that Saussure had in mind, at least as applied to chess.

Chess

Language

Rules determining the possible moves for each piece in certain configurations

Rules determining the use of auxiliary morphemes given the sentence’s structural meaning

Forbidden

Permitted

Forbidden

Permitted

It is prohibited, for example, to pIace the king on a threatened square.

All the remaining rules

Violation of certain types of grammatical agreement

Usually a rule has this form: to express such – and- such a meaning it is permitted to use one or another format.

42

Scacchi

Lingua

2.3.1 “Tattica”: arrivare a una decisione basandosi sul ragionamento logico (o «calcolo» come dicono gli scacchisti) oppure sui tratti del tipo 2.13.

2.3.1. Accertamento del senso attraverso l’analisi trasformazionale (inferenza logica) o l’appoggio sui tratti distintivi di parole.

2.3.2. “Strategia”: accertamento degli elementi fondamentali della posizione attraverso la circoscrizione dei pensieri (si veda 2.2.3).

2.3.2. Accertamento della struttura della frase attraverso la circoscrizione (si veda 2.2.3).

Nota. A questo punto è possibile dimostrare che il raffronto si verifica esattamente “al contrario” dato che nel gioco degli scacchi la “strategia” è più importante, mentre nell’analisi linguistica la preferenza viene attribuita alla “tattica” (per esempio nella distinzione tipica tra struttura “profonda” e “superficiale”). Nonostante ciò entrambi i tipi di operazioni sono importanti per entrambi gli oggetti in questione.

3. Passiamo all’analisi dei tipi di regole applicabili agli oggetti confrontati.

3.1. Innanzitutto, esistono regole che costituiscono il sistema stesso; è proprio queste regole che intendeva Saussure, se dovessimo applicarle al gioco degli scacchi.

Scacchi

Lingua

regole che determinano le possibili mosse per ogni pezzo in date configurazioni

regole che determinano l’utilizzo dei morfemi ausiliari avvalendosi del significato strutturale prestabilito della proposizione.

Proibito

Permesso

Proibito

Permesso

è proibito per esempio posizionare il re sulla casa a rischio

tutte le altre regole

violare certi tipi di concordanze

solitamente la regola ha la seguente forma: per esprimere un certo significato è permesso usare un certo formante

43

Note. “Agreement” means a rule for connecting auxiliary morphemes. The regimen governing the connection between the auxiliary morphemes of one word and the lexical morphemes of another generally does not possess a very high degree of interdiction.

3.2. Another type of rule is aimed at achieving the maximum effect within a given system. These rules can be divided into two groups.

3.2.1. Rules of a general nature, i.e., general organizational principles for the text or match.

Chess

Language

Principles for the development of pieces, i.e., “one piece is not moved twice in the opening”; for capturing the center in the opening; or for the movement of pawns opposite which there are no hostile pieces in the endgame.

Ivanov’s postuIate (Ivanov 1963: 156-178) about the inadmissibility of different objects’ having an identical meaning within a single situation; the principle of the availability of common semes, “supplementary valence”; in words which are directly linked syntactically or in a more general form, the principle of redundant encoding.

3.2.2. Rules based on knowledge of a specific precedent.

Chess

Language

Recommendations for openings; for example, “how Botvinnik pIayed against …“; reference to basic endgame schemes, and in the middle game even to individual matches, i.e., “a construction similar in many ways to the well-known match between Braunschweig, Duke of Morfì, and Count Isoire”1.

Orientation on the basis of a set of model sentences (Revzin 1966: 3- 15).

1 This report was written under the strong influence of D. Bronstejn’s commentaries on the matches at the Zurich tournament of aspirants, from which this phrase is taken.

44

Nota. Per «concordanza» s’intende una regola di accordo morfologico tra i morfemi ausiliari. Le reggenze, che determinano l’accordo tra i morfemi ausiliari di una parola e i morfemi lessicali dell’altra, normalmente non possiedono un alto grado di proibizione.

3.2. Un altro genere di regole riguarda il raggiungimento del massimo effetto all’interno di un certo sistema. Queste regole possono essere suddivise in due gruppi.

3.2.1. Regole di carattere generale (princìpi generali di organizzazione del testo e, di conseguenza, della partita).

Scacchi

Lingua

Princìpi di sviluppo dei pezzi («un pezzo non viene mai mosso due volte nella fase d’apertura del gioco»), occupare il centro nella fase d’apertura oppure promuovere il pedone che non ha un pedone avversario nella fase finale.

Il postulato del linguista russo Ivanov (Ivanov 1963: 156-178) secondo il quale è inammissibile che gli oggetti differenti vengano denotati in modo identico in una stessa situazione; il principio di esistenza dei semi generali o “valenza supplementare” nelle parole collegate tra loro sintatticamente o più generalmente il principio di codificazione ridondante.

3.2.2. Regole basate sul rimando a un precedente specifico.

Scacchi

Lingua

Consigli per la fase d’apertura, (per esempio: «in questo modo Botvinnik ha sfidato …»), rimandi agli schemi usuali di fase finale, mentre nel mediogioco si può ricorrere ai rimandi alle partite famose («situazione, molto simile alla nota sfida Paul Morphy vs Duca Von Braunschweig e Conte Isouard»)1.

Orientamento su proposizioni-modello (Revzin 1966: 3-15).

1 Questo articolo è stato fortemente influenzato dai commenti di D. Bronštejn sulle partite al torneo degli aspiranti giocatori di Zurigo. Questa frase è presa da quel contesto.

45

3.3. Finally, there are rules that pertain to the system’s external use.

4. There are completely different violations for each of the types of rules cited, which witnesses indirectly to the differences between them.

4.1. Rules of the 3.1. kind generally cannot be violated, for their violation results in violation of the system. It is true, as pointed out in the note to 3.1., that there are intermediate cases in language, such as grammatical government, whose violation brings us to 3.2.

4.2.1. Rules of the 3.2.1. kind can of course be violated, most of all because, generally speaking, it is possible for the different participants to make use of them to a different extent. However, violation of these rules does not necessarily lead to reduced effectiveness. On the contrary, in chess, as in language, the creative but by no means unpremeditated violation of the 3.2.1. rules can exert a very powerful effect, as happened with hypermodernism in chess of the 1920s.

4.2.2. Violation of the 3.2.2. rules is involved where orientation on the basis of mode1s plays a different role according to various inclinations2.

4.3. Violation of the 3.3. rules can go unpunished if it is not noticed by the other participant and does not affect achievement of the goal set by the speaker or player; let us note that in the case of language the goal here is precisely to deceive the hearer; see 1.3.

1 From our viewpoint, such rules do not pertain to the postulates of language but rather to the postulates of good sense; see Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. For another viewpoint, see Wheatley 1970: 34, according to which language contains a semantic rule of the type, “A says: I promise X, entails: A intends X”.

2 The author has devoted a special study to this question.

Chess

Language

The rule “remove a piece after capturing it”; the time-limit, etc.

The requirement that the speaker really believe what he says1.

46

3.3. Infine, esistono regole riguardanti l’aspetto puramente esterno del gioco.

4. Per ognuno di questi tipi di regole ci sono diversi tipi di violazioni, una testimonianza indiretta della loro differenza.

4.1. Le regole del tipo 3.1. non possono essere violate poiché la loro violazione comporta la violazione dell’intero sistema. Anche se nella lingua, come precisato nella nota in 3.1., vi sono regole intermedie (è il caso delle reggenze) la violazione delle quali ci porta a 3.2.

4.2.1. Le regole del tipo 3.2.1., s’intende, possono essere violate soprattutto perché i giocatori possono applicarle in misura diversa. Tuttavia la loro violazione non necessariamente porta all’abbassamento dell’efficacia che si può ottenere. Al contrario, sia negli scacchi sia nella lingua la violazione artistica (non quella calcolata) delle regole 3.2.1. può avere una forte influenza sull’esito (si veda l’ipermodernismo negli scacchi negli anni Venti).

4.2.2. Lo stesso avviene per le regole del tipo 3.2.2., dove l’orientamento verso i modelli nelle correnti diverse svolge un ruolo differente2.

4.3. La violazione delle regole 3.3. può rimanere impunita nel caso il giocatore avversario non dovesse notarlo e non incidere sul raggiungimento dello scopo posto dal parlante (o giocatore). Bisogna precisare che nel caso della lingua lo scopo è proprio quello di ingannare l’ascoltatore (si veda 1.3.).

1 Dal nostro punto di vista, tali regole non riguardano i postulati della lingua, ma i postulati del buon senso; si veda Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. Per un altro punto di vista, si veda Wheatley 1970: 34, secondo cui nella lingua opera la regola semantica del tipo: “A dice: prometto X, comporta: A intende X”.

2 L’autore ha dedicato un studio speciale a questo argomento.

Scacchi

Lingua

la regola «se tocchi un pezzo con la mano devi eseguire la mossa con quel pezzo», i limiti temporali e così via.

il parlante deve intendere quello che dice1

47

If the violation is noticed, this disclosure obviously leads to punishment in the case of chess; punishment is not always obvious in the case of language, although the violation affects the hearer’s notion of the speaker’s morals.

5.1. The goal of this report has been to show that the human intellect seems to make use of similar constructions to solve different tasks pertaining to the processing of information, and therefore it is advisable to describe them in a single system.

5.2. Also, examining possible systems and types of rules is useful in considering any modeling systems having to do with rules and norms.

48

Se, invece, la violazione viene rilevata, si ricorre alla punizione – ovvia nel caso degli scacchi e non altrettanto ovvia nella lingua (la violazione incide sull’opinione che l’ascoltatore ha della morale del parlante).

5.1. Lo scopo di questa comunicazione è dimostrare che l’intelletto umano, evidentemente, usa costrutti simili per la soluzione di problemi diversi che riguardano l’elaborazione delle informazioni e che è quindi opportuno descriverli in un unico sistema.

5.2. D’altra parte lo studio dei sistemi e dei tipi di regole possibili è utile per lo studio di qualsiasi sistema modellizzante che abbia a che fare con regole e norme.

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51

Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

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Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

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Analisi traduttologica

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Dedicherò questa parte della mia tesi all’analisi degli articoli la cui traduzione è riportata sopra. L’argomentazione si strutturerà secondo lo schema classico dell’analisi traduttologica con l’individuazione del lettore modello e delle dominanti. Inoltre, illustrerò brevemente in un capitolo a parte la strategia traduttiva e i problemi di traduzione.

Ma prima di cominciare l’analisi vorrei concentrare la mia attenzione sugli autori degli articoli in questione e sugli articoli stessi.

Fonte, autori, argomento.

«The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» e «Language as a Sign System and the Game of Chess» sono due articoli tratti dal volume Soviet Semiotics a cura di Daniel Peri Lucid (The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1977). Nel libro sono raccolti numerosi saggi scientifici di autori appartenenti alla scuola sovietica di semiotica, come Boris Uspenskij e Ûrij Lotman.

La semiotica è la scienza dei segni linguistici e non linguistici, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto simbolico. Una semiotica moderna si profila già con Peirce, che pone le basi di una teoria filosofica in cui hanno forte rilievo, tra l’altro, la nozione di «semiosi illimitata» e la suddivisione di tre tipi diversi di segni, ossia icone, indici e simboli, a seconda che il rapporto con il referente sia di similarità, come nelle icone, di contiguità o convenzionale. Ma è soprattutto con Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev che si afferma la teoria semiotica moderna. È chiarito lo statuto formativo del significante e del significato; è proposta la nozione di «funzione segnica» e altre nozioni ancora hanno validità generale e appaiono di straordinaria importanza per lo sviluppo della semiotica, come quelle di codice e di commutazione, di rapporti sintagmatici e di rapporti associativi, di sincronia e di diacronia, di sistema come meccanismo produttivo di segni, di unità minime differenziali dal significante, di senso e di atto semico. Su queste basi la semiotica, insieme con la linguistica e

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l’estetica, ha conosciuto un vasto sviluppo al quale hanno contribuito a vario titolo e con diverse prospettive teoriche – non sempre coincidenti con quelle di Saussure e Hjelmslev – Tynânov, Âkobson, Lotman e Uspenskij. Lotman e Uspenskij appartengono alla scuola sovietica di semiotica e sono stati i primi a teorizzare l’analisi dei «sistemi modellizzanti secondari», cioè di tutti quei sistemi semiotici, diversi dalle lingue, in cui si esprimono specifici modelli di concezione del mondo e di elaborazione umana della realtà (dai miti al folclore, dalle religioni all’arte).

Egorov Boris Fedorovič (nato nel 1926), narratologo russo, ricercatore in scienze filologiche (1967), docente universitario (dal 1978 presso l’Università della storia russa; RAN). Argomenti di cui Egorov si occupa sono: tratti peculiari della critica russa dell’Ottocento e il posto che occupano nella letteratura e nella cultura nazionali, slavofilismo, social-utopisti, critica estetica. Ha pubblicato: O masterstve literaturnoj kritiki (1980), Bor’ba èstetičeskih idej v Rossii serediny XIX veka (1982, 1991), Očerki po istorii russkoj kul’tury XIX veka (1996). Dal 1978 al 1991 – vicepresidente e dal 1991 presidente del comitato di redazione dell’accademia russa delle scienze «Literaturnye pamâtniki».

Nel suo articolo «The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» Egorov argomenta contro Lekomceva e Uspenskij per aver dato troppa importanza alla pragmatica del gioco nel quale una cartomante professionale dispone di una libertà illimitata nella lettura delle carte. Egorov insiste sull’oggettività della descrizione semiotica e paragona la lettura da parte della cartomante della vita di una persona alla creazione di un intreccio, in una maniera prestabilita, variando solo la posizione del segno all’interno di un gruppo limitato di segni, le carte nel mazzo. Lo scopo dello studioso è usare il sistema di divinazione mediante le carte da gioco come modello primitivo per l’analisi dell’intreccio letterario (oggetto della narratologia). Sia il sistema cartomantico che quello degli intrecci è basato su una serie di elementi primari e su dati metodi di distribuzione. Egorov mette in evidenza il fatto che il sistema semiotico della letteratura abbia una sintassi che potrebbe essere classificata in

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un’eventuale «tavola periodica di Mendeleev» degl’intrecci. Dall’interrelazione di elementi semplici nascono strutture testuali complesse.

Revzin Isaak Iosifovič (1923—1974), linguista, ricercatore in scienze filologiche (1964), membro dell’Istituto di lingue straniere. Pubblicazioni nel campo di linguistica strutturale (teoria generale della modellizzazione, fonologia, grammatica), di semiotica e di poetica. Revzin ha creato, con Rozencvejg, un modello dei tipi di traduzione in Linguistica strutturale contemporanea. Problemi e metodi, del 1977. Ha definito cinque tipi di traduzione: interlineare o parola per parola, letterale, semplificante, precisa e adeguata.

L’articolo «Language as a Sign System and the Game of Chess» di Revzin approfondisce l’analogia di Saussure tra la lingua e il gioco degli scacchi. Mettendo a confronto il sistema linguistico e il sistema di gioco il linguista russo cerca di dimostrare che l’intelletto umano usa nel processo di elaborazione delle informazioni costruzioni simili a quelle di un programma computerizzato che fa la previsione delle mosse possibili nel gioco. In entrambi i sistemi Revzin segnala un numero limitato di elementi – pezzi negli scacchi e morfemi nella lingua – che generano numerose posizioni nel primo caso e vocaboli e proposizioni nel secondo. A livello di relazioni tra componenti, le connessioni tra parole assomigliano alle relazioni tra pezzi sulla scacchiera. Tattica e strategia del gioco vengono paragonate alla struttura superficiale e profonda della lingua. Inoltre, entrambi i sistemi sono costruiti con quelle regole che costituiscono il sistema stesso e altre che mirano a un effetto massimo all’interno del sistema. Il gioco degli scacchi sembra un sistema molto meno complesso di quello della lingua, ma l’approccio di Revzin consistente nel trovare similitudini tra questi sistemi completamente diversi permette il tentativo di creare un unico modello generale.

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Analisi traduttologica

Entrambi gli articoli di cui ho proposto una traduzione sono testi prevalentemente argomentativi, destinati non solo a un pubblico colto e già esperto in materia, ma anche a un appassionato di semiotica e di linguistica (lettore modello). Sono due testi dal taglio piuttosto professionale, ma non eccessivamente accademico, e neanche di saggistica divulgativa, con l’utilizzo di una terminologia settoriale (a volte spiegata nelle note e nel corpo del testo) e numerosi rimandi a testi e saggi delle varie discipline. Lo stile degli autori è abbastanza lineare, piano, sobrio, spesso difficile non perché la sintassi sia contorta, ma per la complessità dei concetti espressi. Inoltre, sono presenti alcune caratteristiche proprie dei testi scientifici, quali l’uso del passivo e dello universal we.

Dal punto di vista traduttologico la dominante di entrambi i testi è quella informativa per cui ho prestato molta attenzione al lessico adeguato e pregnante, all’esattezza terminologica che mi ha portato a un lavoro preliminare di ricerca, sicuramente più tramite il web che su testi cartacei, per familiarizzarmi con concetti e termini chiave. Oltre che dei concetti semiotici e linguistici gli articoli si avvalgono di una terminologia specifica del gioco degli scacchi in Revzin e della cartomanzia in Egorov. Ho consultato, come accennato prima, dizionari, testi paralleli di riferimento, internet affinché la traduzione fosse il più aderente possibile al testo. Ho ritenuto corretto verificare su fonti elencate nei riferimenti bibliografici informazioni, date, nomi contenuti nei testi. Questa è stata la mia strategia traduttiva.

Per la traslitterazione dei nomi scritti in cirillico mi sono servita delle norme ISO 9 del 1995 in cui ad ogni simbolo cirillico corrisponde un solo simbolo latino. La tabella riportata in seguito rappresenta il metodo di traslitterazione attualmente in uso e uno di quelli precedenti in cui a un carattere cirillico possono corrispondere più caratteri latini, come nel caso delle lettere Ч, Ш, Ц ecc.

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Russo

GOST 7

ISO 9

А, а

A, a

A, a

Б, б

B, b

B, b

В, в

V, v

V, v

Г, г

G, g

G, g

Д, д

D, d

D, d

Е, е

JE, je

E, e

Ё, ё

JO, jo

Ë, ë

Ж, ж

ZH, zh

Ž, ž

З, з

Z, z

Z, z

И, и

I, i

I, i

Й, й

J, j

J, j

К, к

K, k

K, k

Л, л

L, l

L, l

М, м

M, m

M, m

Н, н

N, n

N, n

О, о

O, o

O, o

П, п

P, p

P, p

Р, р

R, r

R, r

С, с

S, s

S, s

Т, т

T, t

T, t

У, у

U, u

U, u

Ф, ф

F, f

F, f

Х, х

KH, kh

H, h

Ц, ц

CZ, cz

C, c

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Ч, ч

CH, ch

Č, č

Ш, ш

SH, sh

Š, š

Щ, щ

SHH, shh

Ŝ, ŝ

Ъ, ъ

Ы, ы

Y’, y’

Y, y

Ь, ь

Э, э

È, è

È, è

Ю, ю

JU, ju

Û, û

Я, я

JA, ja

Â, â

La maggiore difficoltà traduttiva dei due saggi è stata quella terminologica: trovare il corrispondente giusto, verificare che il contesto in cui lo trovavo fosse affidabile. Analizzerò ora con un esempio la strategia traduttiva che ho usato per risolvere questa difficoltà:

− traduzione di «language» nell’articolo di Revzin: lingua versus linguaggio.

Il vocabolario Traccani definisce in questo modo la parola «lingua» (ometto significati impertinenti):

lingua s. f. [lat. lĭngua (con i sign. 1 e 2), lat. Ant. dingua]. […]. 4 a Sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfeme), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione o lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche […]. b. Usato assol., con riferimento generico: la grammatica, la sintassi, il lessico o vocabolario d’una l.; il carattere (e ormai ant. l’indole, il genio) d’una l.; la storia, l’evoluzione della l. […].

Ecco invece come viene definita la parola «linguaggio» nello stesso vocabolario:

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linguaggio s. m. [der. di lingua]. – 1. Nell’uso ant. o letter., e talora anche nell’uso com. odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità […]. 2. a In senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli essere umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di inforrmare altri essere sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di una sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingua storicamente determinate). […]. b. estens. Facoltà di esprimeresi attraverso altri segni, sia gesti, sia simboli. In partic., l’insieme dei mezzi espressivi e stilistici, diversi dalla parola, che sono peculiare della varie arti. […]

Analizzando bene le definizioni mi sono resa conto che il loro campo semantico è molto simile, ma che la parola «lingua» è più adatta per il saggio in questione perché è quella usata da Saussure (l’argomento del saggio di Revzin approfondisce l’analogia tra la lingua e gli scacchi tracciata da Saussure) e dai linguisti in generale. Per verificare quest’ultima affermazione ho inserito nel motore di ricerca il nome del linguista svizzero accanto alla parola «lingua» e successivamente accanto a «linguaggio» e ho notato che nel caso della prima combinazione di parole vi sono molte più occorrenze nei siti affidabili di linguistica e scienza della traduzione.

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Riferimenti bibliografici
Egorov, B. F., «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy

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Lucid, D. P., Soviet Semiotics, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1977.

Osimo, B., La traduzione saggistica dall’inglese: guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2007

Osimo, B., Manuale del traduttore: Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2004

Osimo, B., Propredeutica della traduzione: Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001

Osimo, B., Storia della traduzione: riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002

Revzin, I. I., «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970, 1970, Tartu, Tartu University Press, 177- 185.

Saussure, F. de, Corso di linguistica generale, Bari, Editori Laterza, 1972 Torop, P., Total’nyj perevod, Tartu, Tartu Ülikooli Kirjastus, 1995. Traduzione

italiana La traduzione totale, a cura di B. Osimo, Modena, Logos 2000.

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Il meccanismo di realizzazione della traduzione: Lûdskanov Aleksand ̋r LÛDSKANOV, Le mécanisme de réalisation de la traduction FRANCESCA PICERNO Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Il meccanismo di realizzazione

della traduzione: Lûdskanov Aleksand ̋r LÛDSKANOV, Le mécanisme de réalisation de la traduction

FRANCESCA PICERNO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica estate 2006

© Aleksand ̋r Lûdskanov & Association Jean-Favard pour le développe- ment de la linguistique quantitative 1969

© Francesca Picerno per l’edizione italiana 2006

Abstract in italiano

L’obiettivo di questa tesi è tradurre e analizzare la terza parte del libro Traduction humaine et traduction mécanique scritto dal traduttologo e semiotico bulgaro Aleksand ̋r Lûdskanov nel 1969. L’opera è un’indagine sul meccanismo di realizzazione del processo traduttivo effettuato da un traduttore umano e della nascente traduzione meccanica. Nel primo capi- tolo viene effettuata un’analisi degli aspetti peculiari del prototesto. In primo luogo si mette in luce il fatto che l’autore scrive in una lingua di- versa dalla sua lingua madre (il francese) e si illustrano le conseguenze che ne derivano, soprattutto l’imprecisione lessicale, e quindi le difficoltà di comprensione e il conseguente residuo traduttivo. Si evidenzia poi la difficoltà di coniugare una concezione nuova e moderna del processo tra- duttivo con quella di coniare una terminologia adeguata e coerente con tale concezione. L’analisi traduttologica prende in esame la dominante del testo, il lettore modello, la strategia traduttiva e il residuo traduttivo. In chiusura vengono presentati esempi di calchi francesi sul bulgaro e termini che sono risultati problematici nella resa italiana. Il secondo ca- pitolo contiene la traduzione in italiano con il testo a fronte dell’originale di cui si è voluto mantenere la peculiare forma editoriale, ossia la stampa anastatica del testo originale redatto con la macchina da scrivere.

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Résumé en français

L’objectif de ce mémoire est de traduire et analyser la troisième partie du livre Traduction humaine et traduction mécanique écrit par le chercheur bulgare en traductologie et sémiotique Aleksand ̋r Lûdskanov en 1969. Cet ouvrage présente une enquête sur le mécanisme de réalisation de l’opération traduisante effectuée par un traducteur humain et de la nais- sante traduction automatique. Dans le premier chapitre on a effectué une analyse des traits caractéristiques du texte source. Tout d’abord on fait remarquer que l’auteur s’exprime dans une langue différente de sa langue maternelle et on met en lumière les consequences qui en découlent, sur- tout l’imprécision lexicale et donc les difficultés de compréhension et le résidu traductif. En suite on souligne le problème de conjuguer une conception nouvelle et moderne de la traduction avec la nécéssité de for- ger un vocabulaire convenable et cohérent avec cette conception. L’ana- lyse traductologique examine la dominante du texte, son lecteur modèle, la stratégie traductive et le résidu traductif. À la fin du chapitre on pro- pose des exemples de calques français sur le bulgare et des termes qui on posé des problèmes de traduction. Le deuxième chapitre contient la tra- duction en italien avec le texte original en regard dont on a conservé l’aspect typographique caractéristique, c’est-à-dire la reproduction anas- tatique du texte original tapé à la machine.

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English abstract

The object of this dissertation is the translation and analysis of the third part of the book Traduction humaine et traduction mécanique written in 1969 by the Bulgarian translation theorist and semiotician Aleksand ̋r Lûdskanov. The work carries out a study on the mechanism of human translation and the emerging automatic translation. The first chapter of the dissertation provides an analysis of the main features of the source text. First of all it highlights the fact that the book is written in a different language from the author’s mother tongue and shows its consequences, such as lexical inaccuracy and therefore comprehension difficulties and translation loss. Then it points out the difficulty in combining a new and modern view of translation with the creation of a proper and coherent vo- cabulary. The analysis of the text’s translatability considers its dominant, the target reader, the translation strategy and the translation loss. At the end of the chapter some examples illustrate loan-words and calques from Bulgarian and some vocabulary problems. The second chapter includes the Italian translation and the French source text maintaining its peculiar form, i.e. the anastatic reproduction of the original typewritten copy.

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Sommario

Abstract in italiano …………………………………………………………………………………………. 3 Résumé en français…………………………………………………………………………………………. 4 English abstract ……………………………………………………………………………………………… 5 Sommario ………………………………………………………………………………………………………. 6 1 – Prefazione………………………………………………………………………………………………….. 7

1.1 Analisi traduttologica ………………………………………………………………………………. 9 1.2 I calchi sul bulgaro ………………………………………………………………………………… 12 1.3 Problemi di terminologia ………………………………………………………………………… 15 1.4 Legenda delle sigle ………………………………………………………………………………… 17 1.5 Riferimenti bibliografici …………………………………………………………………………. 19

2 – Traduzione con testo a fronte……………………………………………………………………. 21 2.0 Terza parte – Alcuni problemi della traduzione tradizionale………………………… 22 2.1 Capitolo 1 – La traduzione tradizionale …………………………………………………….. 22 2.2 Capitolo 2 – Il meccanismo di realizzazione della traduzione da una lingua naturale a un’altra ……………………………………………………………………………………….. 26

2.2.1 L’informazione necessaria alla traduzione …………………………………………. 26 2.2.2 Il principio funzionale ……………………………………………………………………… 32 2.2.3 L’approccio linguistico e letterario……………………………………………………. 40

2.3 Riferimenti bibliografici …………………………………………………………………………. 45

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1 – Prefazione

Questa tesi consiste nella traduzione e l’analisi di un passo del libro Traduction humaine et traduction mécanique scritto da Aleksand ̋r Lûdskanov, già professore all’Università di Sofia e direttore del Progetto di traduzione meccanica e di linguistica matematica, presso l’Istituto di matematica dell’Accademia Bulgara delle Scienze. L’opera, dapprima scritta in bulgaro, (Preveždat čovekat i mašinata, Sofia, Nauka y Izkustvo, 1968), fu successivamente tradotta dall’autore stesso in lingua francese e pubblicata nel 1969 dalla casa editrice parigina Dunod. Ne esistono inoltre una tradu- zione tedesca e una polacca.

L’estratto da me tradotto corrisponde alla parte terza (capitoli 1 e 2) del secon- do volume dell’opera.

La peculiarità di questo testo, e dell’intera opera da cui è tratto, risiede nel fatto che è stato redatto in una lingua diversa dalla lingua madre dell’autore, il che comporta non solo imprecisioni e talvolta veri e propri errori di tipo ortografico, grammaticale ecc., ma soprattutto difficoltà nella comprensione di alcune espressioni e termini, e nella loro traduzione, poiché la precisione terminologica – fondamentale trattandosi di un testo settoriale, un saggio scientifico – è qui compromessa dalla non totale padro- nanza della lingua da parte di chi scrive. La difficoltà di comprensione di alcune e- spressioni talvolta è stata superata ricostruendo il probabile significato risalendo alla

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lingua bulgara (attraverso la consultazione di un dizionario bulgaro-francese), il che ha permesso di svelare calchi francesi sulla lingua bulgara. Altre volte l’imprecisione terminologica e le inesattezze lessicali sono state superate analizzando il significato e riformulando in italiano secondo il canone di questo genere e secondo la terminologia propria della traduttologia (si vedano gli esempi pratici).

Un altro tratto peculiare del testo di Lûdskanov è rappresentato dal suo aspetto editoriale: l’opera è stata infatti redatta con la macchina da scrivere e la stampa è ana- statica, le conseguenze sono evidenti: scarsa qualità grafica del testo, limiti di impagi- nazione e una serie di imprecisioni redazionali (mancanza delle parentesi, del carattere corsivo, impossibilità di inserire le note a piè di pagina ecc.). Questo aspetto è in evi- dente contrasto con l’importanza teorica delle argomentazioni esposte nell’opera, so- prattutto se si considera l’epoca in cui il volume è stato pubblicato.

Non dimentichiamo infatti la novità rappresentata dai concetti elaborati da Lû- dskanov nella sua opera. Nella prima metà del Novecento gli studi relativi alla tradu- zione sono caratterizzati da una divisione, una scarsa comunicazione tra i ricercatori occidentali e quelli dei paesi “socialisti”. In questi anni, proprio nei paesi dell’Europa dell’est, che sono stati in un certo senso precursori dei progressi fondamentali conse- guiti dalla moderna disciplina della traduzione, si va definendo il nuovo concetto di «scienza della traduzione» (in opposizione alla precedente teoria della traduzione); gli studi sulla traduzione non vengono più intesi come una branca della linguistica ma bensì orientati verso la semiotica. Negli anni Settanta-Ottanta verrà riconosciuto mag- giormente l’aspetto extralinguistico e culturale della traduzione e postulato l’anisomor-

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fismo delle lingue naturali. La traduzione non viene più intesa come la sostituzione di materiale con del materiale equivalente, un reperimento di corrispondenze, ma bensì come un lavoro di trasposizione che deve necessariamente tenere conto di elementi e- xtralinguistici e culturali. Di conseguenza è in questo momento che si va coniando e poi traducendo da una lingua all’altra una serie di termini nuovi nel campo della tradu- zione (a volte mutuati dall’inglese), tra i quali ad esempio source language e target language, e lo stesso termine di «scienza della traduzione». Lûdskanov ne utilizza al- cuni arrischiando delle traduzioni francesi talvolta arbitrarie (si veda negli esempi lan- gue de départ e langue d’arrivée); altri vocaboli, allora nuovi, sono poi entrati stabil- mente a far parte del lessico proprio della traduttologia e sono stati canonizzati nelle diverse lingue.

1.1 Analisi traduttologica

Traduction humaine et traduction mécanique è un testo tecnico, settoriale, ca- ratterizzato dal lessico e il registro propri delle pubblicazioni scientifiche, si distingue quindi per la ricchezza di termini tecnici (soprattutto terminologia semiotica), per la precisione terminologica e i lunghi periodi argomentativi. È annoverabile fra i cosid- detti «testi chiusi» (Eco 1979), i cui termini hanno valore puramente denotativo e in- formativo e il cui scopo è trasmettere delle informazioni precise a un lettore modello preciso; è un testo che non ammette molteplici possibilità interpretative. Tuttavia, per quanto normalmente il linguaggio settoriale possa essere definito quasi isomorfo se pa-

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ragonato a quello dei testi aperti, in questo caso, a causa del fatto che l’autore si espri- me in una lingua diversa dalla sua lingua madre, questo isomorfismo è intaccato dalla sua conoscenza linguistica imperfetta (si vedano gli esempi). Di qui le difficoltà di comprensione di alcuni passi del testo e di alcuni termini tecnici usati a volte impro- priamente.

La dominante del prototesto – ovvero la componente essenziale attorno alla quale è focalizzato un testo e che ne assicura l’integrità (Jakobson) – è dunque di tipo informativo ed è esplicitata fin dal titolo: si tratta di un testo tecnico che approfondisce il tema della realizzazione della traduzione umana e della neonata traduzione automati- ca. La funzione informativa prevale senza dubbio su quella estetica, cioè la forma, che è qui assolutamente secondaria, e anzi talvolta rappresenta un ostacolo alla compren- sione del testo.

Allo stesso modo, il lettore modello del testo di Lûdskanov è senza dubbio un “addetto ai lavori”, uno specialista del settore, uno studioso di traduttologia. È ipotiz- zabile anche uno studente di un corso avanzato di traduttologia. Inoltre la scelta di scrivere in francese è riconducibile alla volontà dell’autore di raggiungere con la sua opera un pubblico più vasto di quello raggiungibile con la versione originale in bulgaro, e più precisamente un pubblico occidentale. Come si è già detto, in questi anni gli studi sulla traduzione avevano preso corsi diversi nei paesi dell’Europa dell’est e in quelli occidentali, e probabilmente l’intenzione dell’autore era quella di rendere note le sue indagini anche fra i ricercatori occidentali.

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Se la mia traduzione fosse finalizzata alla pubblicazione (e non fosse la mia tesi di laurea), il lettore modello postulato potrebbe essere lo stesso del prototesto, cioè uno scienziato della traduzione o uno studente ad alti livelli. Tuttavia, non bisogna trascu- rare che una traduzione effettuata dopo un lasso di tempo così ampio dalla comparsa dell’originale (quasi quarant’anni), visti gli enormi cambiamenti e i progressi conse- guiti nell’ambito della scienza della traduzione, comporta un cambiamento quantome- no parziale del lettore modello e della strategia traduttiva. Come si è detto sopra, nella seconda metà del secolo scorso la terminologia della disciplina traduttologica si è evo- luta e infine definita nelle diverse lingue ed è assolutamente necessario tenere conto di questi cambiamenti. Inoltre la traduzione in italiano implica un restringimento del nu- mero dei possibili lettori empirici ai soli studiosi italiani. E in secondo luogo una tesi ha come lettore modello i docenti della Commissione di Laurea.

Il residuo comportato dalla mia traduzione in italiano è essenzialmente imputa- bile ai problemi di comprensione di alcune espressioni e alla difficoltà di renderle in i- taliano utilizzando un lessico corretto e coerente con il linguaggio semiotico in uso og- gigiorno. Inoltre il francese di Lûdskanov, caratterizzato da periodi lunghi, contorti, e- laborati, spesso ridondanti, non agevola certo la comprensione globale del prototesto. Del resto il residuo prodotto dalla traduzione in italiano non è altro che una conse- guenza ulteriore dell’uso da parte dell’autore di una lingua diversa dalla sua lingua madre. Questo fatto di per sé ha già comportato un primo residuo nella stesura del pro- totesto, ovvero la perdita di tutto quel materiale che l’autore non è riuscito a convoglia-

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re nel suo scritto a causa della conoscenza incompleta della lingua francese. La tradu- zione di una traduzione poi non può che comportare un’ulteriore perdita di senso.

Un altro aspetto che rientra nel residuo traduttivo è costituito dagli esempi di corrispondenza tra parole bulgare, russe e francesi che Lûdskanov porta a sostegno delle sue argomentazioni (si veda ad esempio la tabella a pagina 36) e che ho deciso di non tradurre per non alterare la loro valenza autonimica. Il lettore che non conosca tali lingue non ha la possibilità di comprendere gli esempi e di conseguenza ne deriva una nuova perdita di senso.

1.2 I calchi sul bulgaro

CONDITIONNELLEMENT

A una prima lettura l’avverbio conditionnellement (pagina 70 del testo francese) risultava alquanto incomprensibile; per tradurlo correttamente in italiano si è reso dun- que necessario effettuare una ricerca. Consultando il world wide web eurodict.com ho reperito i seguenti traducenti bulgari per la parola francese conditionnel:

conditionnel, le

adj. et m. (lat. conditionalis)
1 условен, зависещ от условие; mode ~ условно наклонение; réflexe ~ псих.,

физиол. условен рефлекс;

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2 m. грам. условно наклонение. ◊ Ant. absolu, catégorique, formel, incondi- tionnel, net.

Ecco ora i significati francesi che ho trovato cercando la parola bulgara условен (quel- la che viene riportata come primo significato di conditionnel):

условен

прил

  1. 1  conditionné, e; условни рефлекси réflexes conditionnés;
  2. 2  convenu, e; ~ сигнал signal convenu;
  3. 3  грам conditionnel, elle; условно наклонение mode conditionnel; условна пр- исъда condamnation avec sursis.In questo modo ho potuto verificare con certezza che, come già intuibile dal

contesto della frase in cui si presentava il termine in questione, nella lingua bulgara la parola corrispondente al francese conditionnel possiede anche l’accezione di convenu (si veda il significato 2), che in italiano vuol dire convenuto, stabilito, e quindi con- venzionale.

A questo punto ho potuto tradurre l’avverbio conditionnellement con la parola italiana convenzionalmente:

«[…] ce que nous avons désigné conditionnellement par le terme d’analyse extralin- guistique».
«[…] quello che abbiamo definito convenzionalmente con il termine analisi extralin- guistica».

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CARACTÉRISTIQUE

«La similitude générique de ces deux notions d’opérations traduisantes (en d’autres termes la caractéristique par le genus proximum de Lin→ Ljn) réside […]»
(pagina 51 del testo francese).

In questa frase il sostantivo caractéristique risultava incomprensibile e appa- riva evidente non solo che non era traducibile con l’italiano «caratteristica» ma che an- che in francese era scorretto in quanto seguito dalla preposizione par (per mezzo di, at- traverso, mediante). Nuovamente è sorto il dubbio di un possibile calco sul bulgaro e inferendo dal contesto si è ipotizzato che caractéristique stesse in realtà per il sostanti- vo dalla stessa radice caractérisation. Nel sito http://sa.dir.bg/sa.htm si è consultato il dizionario inglese-bulgaro SA Dictionary 2005 e cercando il termine characterization si sono reperiti i seguenti traducenti bulgari:

characterization

  1. 1  характеристика, охарактеризиране;
  2. 2  обрисовка на характер в роман, пиеса и пр.

Cercando poi il primo significato di characterization sul dizionario bulgaro-francese ho trovato la seguente definizione:

характеристика

ж
caractéristique f; (атестация) références fpl; имам добра ~ avoir de bonnes références.

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In questo modo ho avuto la conferma che caractéristique può essere un calco involon- tario sul bulgaro e ho deciso di tradurre la frase in questione come segue:

«La similitudine generica fra questi due tipi di processo traduttivo (in altre parole, la caratterizzazione in base al genus proximum di Lin→ Ljn) risiede […]».

1.3 Problemi di terminologia

LANGUE D’ENTRÉE, LANGUE DE DÉPART LANGUE DE SORTIE, LANGUE D’ARRIVÉE

Come si è detto, fino agli anni Settanta la traduzione era intesa come un repe- rimento di equivalenti e il loro trasporto dal testo originale a quello di destinazione. Quest’idea era consolidata dalla metafora dello spostamento nello spazio, del “traslo- co”, rappresentata dall’utilizzo delle espressioni «lingua di partenza» e «lingua d’arrivo» (Osimo 2004b).

Se l’opera di Lûdskanov è innovativa per la concezione della traduzione che propugna (intesa in termini semiotici e non linguistici, come processo di trasposizione di un’informazione invariante, che deve tener conto del contesto extralinguistico), non lo è tuttavia sul fronte della terminologia francese. Nel testo infatti sono presenti i ter- mini langue d’entrée e de départ e langue de sortie e d’arrivée, che sono molto proba- bilmente traduzioni imprecise ma molto diffuse dell’inglese source e target language e che sembrano accreditare la concezione della traduzione come trasporto.

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Coerentemente con la strategia traduttiva messa in atto, queste espressioni sono state tradotte con «emittente» e «ricevente»; questi termini, nati con l’avvento della moderna scienza della traduzione, tengono infatti conto dell’aspetto extralinguistico e culturale del processo traduttivo. Altrettanto coerenti con questo aspetto sono i termini «prototesto» (cioè il testo originale, il testo della cultura emittente, da cui si avvia il processo traduttivo) e «metatesto» (cioè il testo della traduzione, il testo della cultura ricevente, a cui si giunge mediante il processo traduttivo) coniati dal testologo slovac- co Anton Popovič nel 1976 e entrati ormai a pieno titolo nel gergo della moderna tra- duttologia.

SIGNIFIANT/SIGNIFIÉ; SIGNIFICATION

Nel prototesto occorrono spesso i termini signifiant e signifié. Tali vocaboli (coniati dal linguista svizzero Saussure nel 1906) sono entrati stabilmente a far parte della terminologia della linguistica. Il signifié è la parte del segno linguistico che per Saussure coincide con il concetto, mentre il signifiant costituisce l’aspetto grafico o fonico, la manifestazione materiale di una parola, che insieme al signifiant costituisce il segno linguistico.

Si è deciso di non tradurre questi termini con le parole italiane «significato» e «significante» perché si è tenuto conto del fatto che in francese esistono due vocaboli: signifié e signification (anch’esso presente nel testo) che possiedono un unico tradu- cente italiano: «significato» e si è voluto evitare che «significato» coincidesse sia con

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signifié che con signification. Nella terminologia infatti è assolutamente necessario che non ci siano confusioni di questo tipo tra termini e parole. Signifié si riferisce esclusi- vamente al termine saussuriano che significa una parte del signe e quindi ha una valen- za prettamente settoriale. Signification invece è la parola generica usata in ambito an- che linguistico per indicare quello che Peirce chiama «oggetto».

1.4 Legenda delle sigle

Nel testo di Lûdskanov sono presenti numerose sigle e abbreviazioni, eccone una lista con relativa illustrazione:

I

q (t)

I (Tn)

I (Td)

L

Li (i = 1,2,3…)

L1 Ln

Lni (i = 1,2,3…)

Ln1 La

Lai (i = 1,2,3…)

La1 Lint

Linti (i = 1,2,3…)

informazione;
quantità d’informazione;
informazione necessaria alla traduzione;
informazione necessaria alla traduzione, disponibile;
codice in generale (concetto sovraordinato);
un codice qualunque;
un codice dato;
lingua umana naturale in generale (concetto sovraordinato);
una lingua umana naturale qualunque;
una lingua umana naturale data;
linguaggio artificiale;
un linguaggio artificiale qualunque;
un linguaggio artificiale dato;
linguaggio d’intermediazione in generale (concetto sovraordina- to);
un linguaggio d’intermediazione qualunque;

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Lint1 un linguaggio d’intermediazione dato;
Li→Lj concetto generale di traduzione da un codice qualunque a un al-

tro codice qualunque;
L1→L2 traduzione da un codice dato a un altro codice dato;

Lni→Lnj concetto generale di traduzione da una lingua umana naturale qualunque a un’altra lingua umana naturale qualunque;

Ln1→Ln2 traduzione da una lingua umana naturale data a un’altra lingua umana naturale data;

Lai→Laj concetto generale di traduzione da un linguaggio artificiale qua- lunque a un altro linguaggio artificiale qualunque;

La1→La2 traduzione da un linguaggio artificiale dato a un altro linguaggio artificiale dato.

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1.5 Riferimenti bibliografici

ANGELOV S. B ̋lgarskiât kompûteren rečnik. SA Dictionary 2004-2005. Disponibile in internet all’indirizzo http://sa.dir.bg/sa.htm. Consulta- to nel maggio 2006.

ECO U. 1979 Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani.

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EURODICT 2004 – Eurodict Free Online Dictionary Bulgarian English Turkish, Varna (Bulgaria), KoralSoft, 2004. Disponibile in internet all’indirizzo http://www.eurodict.com/. Consultato nel maggio 2006.

JAKOBSON R. 1959 On linguistic aspects of translation, in Jakobson 1987: 428-435. Traduzione: Aspetti linguistici della traduzione, 1959, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966: 56- 64.

LÛDSKANOV A. 1969 Traduction humaine et traduction mécanique, Parigi, Dundod.

OSIMO B. 2001 Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2002 Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2004a Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario. Seconda edizione, Milano, Hoepli.

OSIMO B. 2004b La traduzione totale: spunti per lo sviluppo della scienza della traduzione, Udine, Forum.

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POPOVIČ A. 2006 La scienza della traduzione. Aspetti metodologici – La comunicazione traduttiva, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

TOROP P. 1995 Total ́nyj perevod, Tartu, Tartu University Press; trad. it. La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo, Modena, Logos, 2000.

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2 – Traduzione con testo a fronte

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2.0 Terza parte – Alcuni problemi della traduzione tradizionale

Quanto abbiamo illustrato nella parte precedente ci ha permesso di constatare l’analogia di principio esistente fra tutti i tipi di processo traduttivo indipendentemente dai codici da e verso i quali si traduce, dal genere di messaggio e dalla natura del sog- getto che effettua questa operazione – un uomo o una macchina. In questa parte, limi- tando per necessità la nostra trattazione, tenteremo, naturalmente senza alcuna pretesa di esaustività, di descrivere alcuni aspetti specifici del meccanismo linguistico della traduzione tradizionale (TT) di testi scritti (ovvero la traduzione dalla forma scritta di una lingua naturale alla forma scritta di un’altra lingua naturale – Lni → Lnj – realizzata da un traduttore umano), di analizzare alcuni momenti essenziali della realizzazione di questo tipo di processo traduttivo e di formulare alcune riflessioni sulla polemica acce- sissima nell’ambito della traduzione letteraria fra i fautori dell’approccio linguistico e quelli dell’approccio letterario. Lo studio di questi problemi e soprattutto del carattere creativo del processo traduttivo ci permetterà di descrivere in modo più chiaro la gene- si e la natura dei problemi linguistici fondamentali della TA.

2.1 Capitolo 1 – La traduzione tradizionale

Il concetto di traduzione da una lingua naturale a un’altra, effettuata da un tra- duttore umano (indipendentemente dal genere testuale che si traduce – scientifico, giornalistico, letterario o politico) non è, come si è già visto, che un tipo, una specie,

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un caso particolare del concetto generico di traduzione da un codice qualsiasi e a un altro codice qualsiasi (Li → Lj ). La similitudine generica fra questi due tipi di pro- cesso traduttivo (in altre parole, la caratterizzazione in base al genus proximum di Lni → Lnj) risiede , come si è già visto, nella loro natura semiotica comune, nel fatto che, sempre e in tutti i casi, queste operazioni consistono in trasformazioni e sostitu- zioni di segni che conservano un’informazione invariante. Ma è evidente che il pro- cesso traduttivo Lni → Lnj, proprio in quanto specie, deve definirsi non soltanto in ba- se al genus proximum ma anche in base alla differentiam specificam. Dalla defini- zione generica di traduzione (Li → Lj) e dalla classificazione proposta sopra risulta che ogni tipo di traduzione o piuttosto di processo traduttivo si distingue per i tratti specifici dei codici (le lingue) tra i quali viene effettuato. La traduzione Lni → Lnj consiste in un passaggio da una lingua naturale data a un’altra lingua naturale data e di conseguenza è logico desumere i suoi tratti specifici proprio dai tratti specifici delle lingue umane naturali (Ln). Dal punto di vista che ci interessa il modo migliore di met- tere in luce questi tratti specifici delle lingue naturali (Ln) è confrontarle con i linguag- gi artificiali (La).

Gli elementi degli La si fondano su una convenzione totale, ovvero il significato di ognuno di essi è preliminarmente e rigorosamente determinato. Gli La si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca – ogni signifié è riconducibile a uno e un solo signifiant e viceversa; ne consegue che i loro elementi (che non hanno mai valore con- notativo) non possono essere polisemici; inoltre non possono essere né omonimici né sinonimici. D’altronde, in teoria, il sistema di queste lingue non è strutturato in diversi livelli. Questi tratti specifici degli La semplificano al massimo la comprensione dei messaggi concretizzati nei loro segni e di conseguenza anche i processi di analisi, pro- duzione e sintesi. Secondo la definizione adottata nella seconda parte della nostra trat- tazione, la comprensione di un messaggio presuppone l’identificazione univariante dei

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significati attualizzati degli elementi linguistici. Ma, come abbiamo già fatto notare, gli elementi degli La (così come le relative regole grammaticali) hanno sempre uno e un solo significato, il quale è del tutto indipendente dal contesto. D’altronde, poiché abbiamo a- dottato il punto di vista secondo il quale i significati delle espressioni linguistiche (o piut- tosto le loro descrizioni) coincidono con le loro traduzioni (le corrispondenze), è evidente che la comprensione dei messaggi formulati nei termini degli La si riduce all’identificazione della corrispondenza di ogni elemento. Di conseguenza, la compren- sione degli elementi di questi linguaggi combinati in un messaggio coincide con la loro traduzione. Tenendo a mente che i significati, le corrispondenze, degli elementi degli La sono sempre determinati preliminarmente (nella memoria dell’uomo o nel cosiddetto «codice»), non è difficile giungere alla conclusione che la loro comprensione, così co- me il processo traduttivo di cui possono essere oggetto, si riduce a una sostituzione meccanica (cioè a una scelta preliminarmente regolamentata – si veda la quarta parte) di un elemento con un altro secondo le regole del codice. In virtù del fatto che le corri- spondenze sono stabilite dal codice e che sono la descrizione degli unici significati che possiedono gli elementi del messaggio immesso, questa sostituzione permette di otte- nere in uscita la stessa informazione veicolata dal corrispondente messaggio immesso. Così, se abbiamo a disposizione un codice nel quale ad ogni lettera dell’alfabeto bulga- ro viene fatta corrispondere una cifra intera decimale seguendo la successione delle let- tere dell’alfabeto (a – 0, b – 1, v – 2 ecc.), possiamo “tradurre” ogni parola bulgara in codice decimale con una semplice sostituzione meccanica delle lettere secondo quanto indicato dal codice; così la parola kibernetika verrà tradotta 10 8 1 5 16 13 5 18 8 10 0.

Non è necessario sottolineare che questi problemi si porranno in modo comple- tamente diverso nel caso delle lingue naturali: esse infatti non sono (e non possono es- sere) fondate sul principio della corrispondenza biunivoca; la maggior parte dei loro elementi (che possono avere valore connotativo) sono polisemici e si distinguono per omonimia, sinonimia e talvolta per una convenzionalità imperfetta, e i loro sistemi so-

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no strutturati in vari livelli. Inoltre, il confronto fra due lingue naturali da un punto di vista formale, cioè della corrispondenza dei signifiant, mostra che una data lingua na- turale può disporre di elementi che non esistono nell’altra, che hanno strutture diverse ecc. Osserviamo anche i casi di diversa segmentazione della realtà a seconda delle lin- gue. In conseguenza di tutti questi tratti specifici delle lingue naturali, la comprensione di un messaggio concretizzato nella forma di una qualsiasi Lni e i processi di analisi, sintesi, produzione e traduzione differiscono profondamente dagli stessi processi quando hanno per oggetto un messaggio concretizzato nella forma di un qualsiasi Lai, e presuppongono un’identificazione preliminare dei significati attualizzati (cioè i signifié) degli elementi linguistici del messaggio immesso, nel corso del processo di compren- sione (analisi), e dei corrispondenti mezzi d’espressione (cioè i signifiant), durante il processo di produzione (sintesi). Ma poiché è possibile che un signifiant possa avere più signifié e viceversa, questa identificazione presuppone che la scelta del signifié o del signifiant attualizzato venga realizzata facendo riferimento a un linguaggio di in- termediazione dato (si veda di seguito) e al contesto.

Abbiamo evidenziato sopra che il processo di comprensione e il processo tra- duttivo che hanno per oggetto messaggi concretizzati nei termini degli La non presup- pongono scelte preliminarmente non regolamentate e hanno carattere meccanico. Al contrario, in virtù dello specifico delle Lni, il processo di comprensione e il processo traduttivo che hanno per oggetto messaggi concretizzati nei termini di queste lingue presuppongono una scelta di questo tipo (si veda di seguito una trattazione più appro- fondita nel capitolo IV). Designeremo con il termine «creativo» (in opposizione a meccanico) qualsiasi processo che presupponga una o più scelte preliminarmente non regolamentate (si veda la quarta parte). Il tratto più specifico del processo traduttivo Lni→ Lnj consiste appunto nel suo carattere creativo. Vedremo in seguito che i principali problemi della TA sono condizionati dalla necessità di formalizzare e automatizzare

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proprio il carattere creativo del processo traduttivo fra due lingue naturali.
Muovendo dalla definizione generica Li → Lj proposta e dai tratti specifici delle Ln menzionati, possiamo precisare che la traduzione tradizionale Lni → Lnj consiste in un insieme di trasformazioni creative che un traduttore umano effettua dai segni del messaggio immesso a quelli di un’altra lingua naturale, conservando un’informazione

invariante rispetto a un sistema di riferimento dato.
Quanto abbiamo detto finora mostra che il tratto più caratteristico della tradu-

zione tradizionale è costituito dalla sua natura linguistica creativa. Alcuni aspetti di questo problema sono oggetto del capitolo successivo.

2.2 Capitolo 2 – Il meccanismo di realizzazione della traduzione da una lingua naturale a un’altra

Il modo più razionale di mettere in evidenza la natura linguistica e creativa del processo traduttivo Lni → Lnj consiste nell’analizzare il meccanismo di realizzazione di tale operazione da parte di un traduttore umano nelle sue due fasi – l’analisi e la sintesi. Alcuni dei problemi che si incontrano durante la realizzazione di queste due fasi sono oggetto dei tre paragrafi di questo capitolo.

2.2.1 L’informazione necessaria alla traduzione

Muovendo dai tratti specifici delle lingue naturali, introdurremo qui un concet- to di capitale importanza sia per la teoria della traduzione tradizionale che per quella della traduzione automatica (che, per quanto ne sappiamo, finora non è mai stato for- mulato dalla letteratura teorica): il concetto di informazione necessaria alla traduzio- ne – I (Tn ) (si veda Lûdskanov 1964: 310).

Chiunque si sia trovato a effettuare una traduzione (così come è sempre stato messo in luce da coloro che hanno trattato i problemi della traduzione) sa bene che nel-

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la maggior parte dei casi un’espressione linguistica o un mezzo linguistico è in sé in- traducibile fuori dal contesto. Cerchiamo di osservare ciò che sta dietro a questa verità elementare. Per tradurre un messaggio61 concretizzato nella forma di una data Lni in un’altra lingua naturale data, tale messaggio deve essere compreso. Questa compren- sione (in altre parole l’identificazione del senso, dell’informazione veicolata dal mes- saggio, inclusi tutti i fattori di tipo emozionale, stilistico ecc. – livello l1) che presup- pone un’analisi e dei passaggi successivi dal livello più superficiale a quello più pro- fondo della lingua data, si riduce in ultima istanza a un’identificazione univariante (u- na scelta) dei significati attualizzati degli elementi linguistici del messaggio immesso. Questa scelta, che non è stata preliminarmente regolamentata (si veda di seguito la quarta parte), presuppone, come d’altronde qualsiasi scelta, non solo la conoscenza de- gli elementi (dei dati) tra i quali verrà operata e delle relative regole, ma innanzitutto la presenza di una certa informazione, la quale deve permettere di effettuare la scelta data attenendosi alle regole date.

Ed è proprio alla luce di questo fatto che è possibile comprendere l’importanza dell’affermazione comune secondo la quale gli elementi delle Ln sono intraducibili fuo- ri dal contesto: nella maggior parte dei casi sono intraducibili fuori dal contesto (nel senso più ampio del termine) poiché, se analizzati singolarmente e indipendentemente dagli altri, generalmente non permettono di estrapolare una quantità sufficiente di in- formazione necessaria a effettuare la scelta corrispondente e di conseguenza alla loro comprensione e traduzione. Se si opera un confronto con i linguaggi artificiali è possi- bile osservare in modo ancora più chiaro questo aspetto fondamentale del processo tra- duttivo tra le lingue naturali.

Supponiamo che un dato individuo conosca il bulgaro, il linguaggio Morse e il russo. Di conseguenza sa che alla lettera a dell’alfabeto bulgaro corrisponde . – del lin-

61 Per semplificare il nostro lavoro, con l’espressione messaggio immesso intenderemo una frase. Ma pur ammettendo questa semplificazione, non dobbiamo dimenticare che molto spesso, e soprattutto quando oggetto del processo traduttivo sono testi letterari, la comprensione di una data frase dipende dalla comprensione del paragrafo, dell’intero capitolo dell’opera, dei suoi legami col mondo esterno, ecc.

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guaggio Morse (ovvero il significato di a = . -) e che la parola bulgara d ̋rvodelec ha due significati in russo: stolâr (falegname) e plotnik (carpentiere). Nel primo caso l’in- formazione che si ricava analizzando il singolo elemento (cioè lo stabilire o il sapere che a = . -) è sufficiente per poterlo comprendere e tradurre (in quanto non si pone nes- suna scelta) in virtù del fatto che gli La si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca e non sono mai polisemici. Ma nel secondo caso le cose stanno diversamen- te: l’informazione ricavata dall’analisi del singolo elemento (ovvero lo stabilire o il sa- pere che d ̋rvodelec → stolâr o plotnik) non è sufficiente per effettuare la scelta neces- saria, cioè per stabilire se il vero significato è rappresentato dalla prima o dalla seconda corrispondenza. Se teniamo a mente questo fatto, non è difficile constatare che per es- sere in grado di operare la scelta necessaria e quindi di capire e tradurre una data e- spressione linguistica, il traduttore deve disporre di (o essere in grado di estrapolare) una quantità di informazione maggiore di quella che può essere ricavata dall’elemento corrispondente stesso. Indicheremo l’insieme di informazioni su un’espressione o su una data struttura linguistica che il traduttore umano deve essere in grado di accumula- re per poterla comprendere e quindi tradurre con il termine «informazione necessaria alla traduzione» – I (Tn). La quantità e la composizione di questa I (Tn) sono sempre condizionate dai tratti peculiari di una coppia di lingue naturali date (per esempio Ln1 e Ln2 ) e di conseguenza variano per le diverse coppie di lingue, così come per la tradu- zione dei diversi tipi di testo da una lingua naturale data a un’altra lingua naturale data (si veda anche Lûdskanov 1964).

Detto questo è opportuno porsi la seguente domanda: in che modo e da che fon- te il traduttore umano può accumulare l’I (Tn)? Muovendo da quanto affermato sopra in merito al problema della determinazione dei significati delle espressioni linguistiche, possiamo a grandi linee rispondere come segue: il traduttore può accumulare tale in- formazione attraverso un’analisi linguistica, facendo riferimento in primo luogo al

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contesto linguistico dell’espressione da tradurre nel messaggio immesso, e in secondo luogo riferendosi al sistema della lingua stessa del messaggio impressa nella sua me- moria (in questo caso il Lint1, cioè il sistema di riferimento, coincide con la Ln1). Tutta- via (come si mette in evidenza sempre e a ragione nei trattati dedicati ai problemi della traduzione letteraria), talvolta l’informazione ricavata attraverso l’analisi linguistica non è sufficiente, in quanto la scelta del traduttore deve essere condizionata anche dal- la conoscenza dell’epoca, dei tratti peculiari dell’opera, del punto di vista letterario e estetico dell’autore, ecc. In tutti questi casi si usa dire, in modo non del tutto esatto, che il traduttore compie un riferimento alla realtà. Questo tipo di riferimento è un ele- mento imprescindibile della cosiddetta «analisi extralinguistica».62

Quanto abbiamo affermato finora ci permette di tracciare le seguenti linee generali del meccanismo linguistico del processo traduttivo: la realizzazione della pri- ma fase di questa operazione – l’analisi – è finalizzata a estrapolare l’informazione veicolata dal messaggio immesso; tale estrapolazione presuppone la comprensione. Il processo di comprensione consiste in un’identificazione univariante (una scelta) dei si- gnificati attualizzati degli elementi linguistici del messaggio immesso. Grazie allo spe- cifico delle lingue naturali (e soprattutto al fatto che esse non si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca), questa identificazione, o meglio questa scelta, che è di natura creativa, può essere effettuata soltanto disponendo di una serie di dati com- plementari. L’insieme dei dati che è possibile ricavare dall’analisi del singolo elemento linguistico, di questi dati complementari (compresa la conoscenza della coppia di lin-

62 Non dimentichiamo che il modo in cui stiamo descrivendo i fatti è ancora molto semplificato perché in verità il traduttore non opera un confronto direttamente con la realtà stessa, bensì con le sue cono- scenze sulla realtà, le quali possono esistere nella sua memoria solo nella forma di un dato codice. Di conseguenza, anche qui ci troviamo di fronte a un’analisi linguistica. D’altra parte, il traduttore si trova talvolta obbligato a sforzarsi di “vedere”, di immaginare i fatti a cui ha assistito l’autore, e questo pro- cesso d’immaginazione è di fatto una traduzione dal secondo sistema di segni al primo e viceversa. Infi- ne, nel caso in cui tale procedimento non dia i risultati sperati, il traduttore può vedersi obbligato a esa- minare le “cose” stesse. Di conseguenza, l’analisi che abbiamo definito «extralinguistica» presuppone dei riferimenti non solo alla realtà stessa ma anche ai due sistemi di segni.

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gue naturali date), costituisce l’informazione necessaria alla traduzione I (Tn). In virtù dello specifico delle lingue naturali tale I (Tn) può in teoria essere ricavata attraverso due tipi di analisi – l’analisi linguistica e l’analisi extralinguistica. Per quanto concerne l’ana- lisi linguistica, può basarsi soltanto sui signifiant (analisi linguistica formale) e/o sui si- gnifié (analisi del contenuto). La realizzazione di questi due tipi di analisi presuppone passaggi successivi tra i vari livelli della lingua data e riferimenti a un linguaggio d’intermediazione dato Lint1 che è impresso nella memoria del traduttore (o che si concre- tizza sotto forma di vocabolario, manuali, regole ecc.). Questo linguaggio d’intermedia- zione contiene in primo luogo la Ln1 nella quale sono espressi i significati degli elementi linguistici del messaggio immesso (per un lettore che non conosce altre lingue è la lingua dell’originale, mentre per il traduttore sono la lingua del messaggio immesso e la lingua ricevente messe in relazione da un sistema semiotico sovrastante) e in secondo luogo un insieme di dati sulla realtà, codificati attraverso il primo e il secondo sistema di segni. L’immagine che abbiamo appena delineato è sicuramente molto semplificata, cionono- stante, da un lato è in grado di dare un’idea dell’ampiezza e la complessità dei problemi che la teoria della traduzione dovrebbe ma non ha finora affrontato, e dall’altro permette di formulare delle considerazioni di grande importanza per la teoria della traduzione u- mana e per la teoria della TA: la necessità di realizzare nel corso del processo traduttivo l’analisi linguistica ed extralinguistica è condizionata dalla natura stessa delle lingue na- turali e della traduzione medesima; la determinazione della quantità, della composizione e degli elementi costitutivi dell’I (Tn) per delle coppie di lingue date deve rappresentare una delle preoccupazioni fondamentali di qualsiasi teoria non generale della traduzione; la formalizzazione dell’analisi extralinguistica e la “trasformazione” dell’analisi lingui- stica fondata sui signifié in analisi linguistica formale costituiscono la conditio sine qua non della TAe ne determinano i problemi linguistici fondamentali.63

63 Dobbiamo notare che l’introduzione del concetto di I (Tn) permette di formulare

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Questa sommaria descrizione di alcuni degli aspetti del meccanismo di analisi ci ha permesso di constatare che il carattere creativo del processo traduttivo tra due lingue naturali si manifesta nella necessità di effettuare delle scelte preliminarmente non regolamentate tra i significati (signifié) attualizzati degli elementi linguistici del messaggio immesso. A questo punto ci apprestiamo ad esaminare in che modo tale problema si pone durante il processo di sintesi.

un’ipotesi che dovrebbe essere oggetto di un’analisi approfondita. Per semplificare le cose possiamo affermare che l’I (Tn) comprende tutto quello che il traduttore deve sa- pere per realizzare una comunicazione totale, cioè per essere in grado di individuare, sia durante il processo di comprensione sia durante il processo traduttivo, un’informa- zione invariante (ovviamente nella misura in cui questo è possibile). Tuttavia può ac- cadere che per diverse ragioni il traduttore non sia in grado di estrapolare l’I (Tn) (a causa della scarsa conoscenza delle lingue, della realtà ecc.) e che nel corso dell’analisi egli estrapoli una quantità minore d’informazione. Questo fatto evidente, a cui inoltre sono imputabili gli innumerevoli e deplorevoli insuccessi nella pratica della traduzione, ci obbliga a vedere, oltre al lato soggettivo, il lato oggettivo del problema, e ci porta a formulare la seguente conclusione: lo studio del meccanismo linguistico del processo traduttivo tra due lingue naturali condiziona non solo l’introduzione del concetto di I (Tn), ma anche del concetto di «informazione traduttiva disponibile» – I (Td). L’introduzione e l’analisi logica di questo concetto prospettano le seguenti possibilità: si dovrebbero ricercare le cause dell’intraducibilità fra due lingue date proprio nel rap- porto fra l’informazione necessaria e l’informazione disponibile. È possibile variare in modo consapevole la quantità e la composizione dell’I (Td) e ottenere di conseguenza delle traduzioni aventi gradi di approssimazione diversi. È soprattutto il caso della co- siddetta traduzione scolastica, della traduzione parola per parola ecc. Allo stesso modo, è proprio alla luce di queste considerazioni che si dovrebbe ricercare la spiegazione te- orica dei numerosi e ben noti casi di pratica della traduzione nei quali, per motivi di ti- po sociale (si veda Meteva 1963), il traduttore si allontana più o meno dal testo origi- nale. Analogamente constatiamo l’esistenza di rapporti diversi tra l’informazione ne- cessaria e quella disponibile nel cosiddetto approccio 95% della teoria e della pratica della TA, nei diversi tipi di traduzione automatica semplificante ecc.

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2.2.2 Il principio funzionale

La realizzazione della prima fase del processo traduttivo, cioè l’analisi (analisi linguistica formale, del contenuto e extralinguistica, passaggi successivi dal livello su- perficiale a quello profondo, riferimento al Linti dato) deve permettere al traduttore di effettuare le scelte necessarie, di individuare i significati da attualizzare (signifié) degli elementi linguistici del messaggio immesso, in altri termini, di comprenderlo, ricavar- ne l’informazione che veicola e raccogliere di conseguenza l’I (Tn). È evidente che l’informazione che il traduttore ha estrapolato dal messaggio immesso, come del resto qualsiasi altra informazione, esiste soltanto nella forma di un dato codice. Questa con- statazione ci induce a formulare un’altra importante conclusione: il Linti dato serve so- litamente non solo da sistema di riferimento nel processo di comprensione, ma anche da codice nei cui simboli l’informazione che il traduttore ha estrapolato dal messaggio immesso si concretizza nella sua memoria. Di conseguenza, la prima fase del processo traduttivo tra due lingue naturali date può essere rappresentato come Lni → Linti, ovvero come una traduzione dalla lingua naturale emittente a un linguaggio d’intermediazione dato, come una scelta dei signifié degli elementi linguistici del messaggio immesso e la loro rappresentazione attraverso i mezzi del Lint dato.

Ci accingiamo ora ad analizzare alcuni aspetti della seconda fase del processo traduttivo Lni → Lnj, cioè la sintesi.64 È evidente che se è possibile rappresentare la fase

64 È opportuno sottolineare ancora una volta che nella mente del traduttore queste due fasi non si susseguono in una successione lineare ideale come le abbiamo descritte so- pra. Tenendo conto di questa osservazione dobbiamo constatare l’esistenza di un pro- blema molto importante (che fino ad ora non è mai stato oggetto di indagini scientifi- che) – il fatto che il processo di realizzazione di queste due fasi, o piuttosto il processo di realizzazione di ognuna di esse in particolare, si suddivide ulteriormente nei diversi livelli della comunicazione e nei livelli delle strutture delle rispettive lingue. Il che sol- leva inoltre un altro problema di grande interesse e rilevanza per la teoria della TA – quello di determinare la successione dei diversi tipi di analisi linguistica nel processo

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di analisi come Lni → Linti, la fase di sintesi può essere rappresentata in modo inverso come Linti → Lnj, cioè come una traduzione dal linguaggio d’intermediazione dato alla lingua naturale ricevente, come una scelta dei signifiant degli elementi di questa lingua. Nella parte precedente della nostra trattazione abbiamo preso in esame alcuni aspetti del pro- cesso di codifica, produzione e sintesi di un messaggio linguistico, e abbiamo osservato che in linea di principio questi processi sono analoghi ai processi di analisi, decodifica e comprensione, ma avvengono in senso inverso. Anche durante il processo di sintesi il tra- duttore fa riferimento al linguaggio d’intermediazione dato, effettua passaggi successivi dal livello più profondo a quello superficiale e sceglie i signifiant (livello l5) degli ele- menti della lingua ricevente per comporre il messaggio d’uscita. Bisogna osservare che normalmente, durante la realizzazione del processo traduttivo tra due lingue naturali date, il Linti impiegato come sistema di riferimento durante la comprensione (l’analisi) coincide con il Linti impiegato durante la sintesi. Inoltre ne consegue che, come abbiamo già detto (si veda lo schema a pagina 30 e Mounin 1964), il linguaggio d’intermediazione impiega- to nel processo traduttivo deve essere un sistema semiotico sovraordinato che metta in re- lazione i mezzi e le strutture delle due lingue naturali date e che rifletta i loro modi diversi di segmentare la realtà. A questo punto non ci occuperemo più di queste questioni e prenderemo in esame un altro aspetto del meccanismo linguistico di sintesi.

Supponiamo che attraverso l’analisi il traduttore abbia estrapolato l’informazio- ne veicolata dal messaggio immesso e che adesso debba esprimere tale messaggio at- traverso i mezzi della lingua naturale ricevente (Lnj). Una delle tesi fondamentali della filosofia marxista materialista dimostra che non esistono contenuti senza forma e quin- di contenuti inesprimibili. Ma tale tesi, in linea teorica incontestabile, solleva una serie di problemi pratici nell’ambito della traduzione che sono stati a lungo causa di equivo- ci. Il traduttore legge il messaggio immesso, lo comprende e incomincia a tradurlo. Ma come dimostra lo studio del lavoro pratico del traduttore, dopo aver letto il messaggio

della TA – l’analisi lessicale, morfologica e sintattica (si veda per esempio Ânakiev 1963).

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immesso, ad esempio un libro (ammesso che si sia preso la briga di leggerlo prima), il traduttore non lo chiude e inizia a scrivere indipendentemente dal prototesto, ma parte dai mezzi linguistici di questo testo, dalle frasi, le costruzioni, le parole, gli elementi grammaticali ecc., in altre parole sostituisce gli elementi linguistici del messaggio im- messo con elementi linguistici (o combinazioni di elementi) della lingua ricevente. Ed è proprio in questo momento e proprio al livello della forma degli elementi linguistici (signifiant) che si pone il seguente problema: in che modo il traduttore può svolgere il suo compito nella consapevolezza che gli elementi delle due lingue date non coincido- no, che una di esse può disporre di elementi che l’altra non possiede, che il numero e i campi dei loro significati sono diversi, così come sono diverse le loro valenze connota- tive e stilistiche, il modo in cui esse segmentano il mondo esterno, ecc. (si veda Lû- dskanov 1963, 1959, 1958a, 1958b in cui questo problema è esaminato in modo detta- gliato e si introducono i concetti di «equivalenza funzionale» e «principio funzionale»).

È evidente che questo problema non può essere risolto al livello della forma (l5) degli elementi linguistici, dei signifiant, ma a livelli più profondi e più precisamente al livello dei significati degli elementi linguistici (l1), dell’informazione che veicolano, cioè al livello dei signifié. Semplificando, possiamo descrivere la situazione nel se- guente modo: in virtù del suo signifié, ogni elemento linguistico veicola una certa in- formazione e possiede una certa funzionalità – quella di suscitare la comparsa di una serie di percezioni intellettuali e emozionali nella coscienza del soggetto percepente. Le stesse percezioni possono essere suscitate nella coscienza di un locutore di un’altra lingua attraverso altri mezzi linguistici che normalmente differiscono dai primi per la forma. Di conseguenza, una traduzione “mezzo linguistico per mezzo linguistico” a partire dal livello dei signifiant è impossibile (poiché generalmente essi non coincido- no), ma è invece possibile realizzare una traduzione funzionale determinando, nel cor- so dell’analisi, la funzionalità degli elementi linguistici del messaggio immesso e, a partire dai signifié determinati, è possibile esprimere questa funzionalità attraverso i

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mezzi della lingua ricevente (Lnj ), i quali differiscono dai primi dal punto di vista for- male. D’altra parte, è evidente che la funzionalità degli elementi linguistici del mes- saggio immesso è condizionata dall’informazione che devono trasmettere, ed è proprio su questo fatto evidente che si fonda il principio funzionale della traduzione, conside- rato uno strumento fondamentale per la realizzazione del processo traduttivo tra due lingue naturali, indipendentemente dal genere testuale che si traduce. Per essere in gra- do di stabilire che l’elemento B di Lnj corrisponde all’elemento A di Lni si deve partire da qualcosa che le due lingue hanno in comune, ossia un invariante. Questo invariante deve essere cercato nella funzionalità degli elementi linguistici, nell’informazione che veicolano, ed è a questo livello che è possibile trovare una soluzione al problema che si era posto.

Osserviamo un altro aspetto di questo problema. A causa del loro diverso svi- luppo storico, le differenze tra degli elementi linguistici dati, appartenenti a coppie di lingue naturali diverse, non sono le stesse. In altre parole, la barriera linguistica fra due lingue date differisce dalla barriera linguistica che separa altre due lingue date. Analo- gamente, da un punto di vista formale, la differenza tra gli elementi appartenenti a li- velli diversi e a sottocodici diversi (livelli stilistici) di una stessa lingua non è la stessa. Per esempio, è risaputo che la differenza tra il lessico terminologico di due lingue na- turali date è molto inferiore alla differenza tra i loro elementi connotativi; questo per- mette di distinguere diversi tipi (classi) di corrispondenze sulla base della loro “distan- za” formale (al livello dei signifiant) dai rispettivi elementi immessi (si veda Lûdska- nov 1963, 1958).65 Non è difficile constatare che, vista la diversa “distanza” dai rispet- tivi elementi immessi, l’individuazione, durante il processo traduttivo, delle corrispon-

65 Così per esempio si può parlare di corrispondenze assolute (traktor – tracteur), di corrispondenze di- rette (Haus – maison), di corrispondenze indirette (stol – table), di corrispondenze ottenute attraverso sostituzioni, compensazioni e anche tramite la trasposizione di immagini letterarie, ecc.

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denze appartenenti alle diverse classi, presuppone quantità diverse di I (Tn), per esem- pio la quantità di I (Tn) di cui si deve disporre per stabilire una corrispondenza assoluta, mettiamo tracteur – traktor, è molto inferiore a quella necessaria a effettuare una “compensazione” in un’altra parte del testo e con altri mezzi, e che l’impiego di diversi tipi di corrispondenza crea l’illusione che esistano gradi diversi di fedeltà a seconda del generale testuale che si traduce (si veda una trattazione più dettagliata in Lûdska- nov 1959 e relativa bibliografia). A partire da questa impressione illusoria alcuni autori fanno il seguente ragionamento: poiché i diversi tipi di testo da tradurre si caratterizza- no per l’impiego di elementi linguistici di un certo tipo (per esempio i testi scientifici per l’impiego di elementi terminologici e i testi letterari per l’impiego di elementi con- notativi) e poiché questi tipi di elementi linguistici hanno diversi tipi di corrispondenza, il grado di fedeltà della traduzione dei diversi tipi di testo deve variare. Questo punto di vista, a nostro parere errato (si veda Lûdskanov 1959), così come il punto di vista secondo il quale il grado di libertà66 che il traduttore può permettersi varia secondo il

66 La pratica della traduzione dimostra che il traduttore gode di una certa libertà nella scelta dei mezzi linguistici. Questo ci obbliga a fare la seguente considerazione: può apparire paradossale, ma questa libertà è la conseguenza del fatto che le lingue naturali e i loro elementi non sono descritti in modo sufficientemente preciso. Quando le relati- ve scienze saranno in grado di fornire una descrizione esatta del sistema dei segnali degli elementi emozionali ed estetici e della loro percezione nel tessuto di un’opera let- teraria, così come dei rispettivi elementi linguistici e di tutti i fattori che determinano l’equivalenza o la non-equivalenza di questi mezzi linguistici, la libertà del traduttore si trasformerà, secondo l’espressione molto azzeccata di Engels, in una necessità con- sapevole. Quindi, se il traduttore sa che nel caso in cui trovi i fattori di equivalenza x, y, z, …, può e deve scegliere per l’elemento A di Lni l’elemento B di Lnj in quanto corri- spondenti, non deve fare altro che realizzare l’operazione logica x ^ y ^ z, ^, …, ^ n → B ed è evidente che in queste circostanze non avrà alcuna libertà di scelta. Se invece, in virtù della sinonimia degli elementi di Lnj potesse scegliere la corrispondenza C, ciò significherebbe che C è l’erede della stessa implicazione x ^ y ^ z, ^, …, ^ n → C, da cui consegue che B ≈ C, cioè che sono identici e che quindi anche in questo caso non si può parlare di libertà di scelta.

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genere testuale (per esempio libertà minima quando si traducono testi scientifici e li- bertà massima quando si traduce una poesia), sono la conseguenza delle apparenti dif- ferenze al livello della forma, dei signifiant, delle due lingue, e della mancata com- prensione del fatto che le differenze formali nascondono l’invariante comune che le unisce – la loro funzionalità comune, la stessa informazione che veicolano. Possiamo rappresentare graficamente quanto detto secondo il seguente schema:

Livelli formali (signifiant) degli elementi lin- guistici – l5

1

2

3

4

traktor

k ̋ŝa

kaka

t ̋p kato galoš

Livelli semantici (signifié) degli elementi lin- guistici

tracteur

maison

soeur ainée

bête à manger du foin

Livello della funzionalità invariante (informa- zione) veicolata dagli elementi linguistici – l1

1

2

3

4

Questo schema mostra in modo evidente che dal punto di vista dell’identità for- male (signifiant – l5) la corrispondenza di 1 è molto più vicina al rispettivo elemento lin- guistico di partenza di quanto non lo sia la corrispondenza dell’elemento 3 o dell’elemento 4. Queste differenze formali sarebbero ancora maggiori se avessimo preso in considerazione degli elementi d’immissione che esprimono simbolizzazioni letterarie o personificazioni, per esempio colori, forze della natura, venti ecc. (si veda Cary 1957 e Problèmes 1957). Eppure, nonostante le differenze formali più o meno grandi rispetto a- gli elementi immessi, i diversi tipi di corrispondenza hanno in linea teorica qualcosa in comune – il fatto di veicolare la stessa informazione dei rispettivi elementi immessi, di avere la stessa funzionalità, la quale rappresenta il loro invariante al livello l1. Possiamo

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definire la manifestazione di questi invarianti in una data lingua con il termine «equiva- lenza funzionale» (si veda Lûdskanov 1958), e la realizzazione della sintesi attraverso una scelta fra queste equivalenze con il termine «principio funzionale».

L’introduzione del concetto di principio funzionale e di equivalenza funzionale crea le condizioni preliminari per poter risolvere non solo i problemi evidenziati sopra, ma anche altri altrettanto importanti per la teoria della traduzione, quali la fedeltà, la tra- ducibilità e lo scopo della traduzione (si veda una trattazione più dettagliata in Lûdskanov 1959, 1963). Diversamente da quanto sostengono alcuni autori, la traduzione, in quanto strumento della realizzazione di qualsiasi comunicazione bilingue, non può avere uno scopo diverso da quello della comunicazione stessa, la quale, se si osservano le cose da un certo livello di astrazione, consiste sempre e in tutti i casi nel trasmettere un’informazione invariante. Allo stesso modo la traduzione non può che avere sempre e in tutti i casi lo stesso scopo – quello di trasmettere un’informazione invariante.67 Poiché il processo tra- duttivo, in tutti i casi e applicato a tutti i generi testuali, può avere soltanto uno scopo (tranne i casi in cui questo scopo venga consapevolmente modificato con l’introduzione dei sistemi di “riferimenti complementari”), anche il grado di fedeltà della traduzione de- ve essere sempre lo stesso e non varia in base al genere testuale che si sta traducendo né in base al lettore – si tratta sempre di una fedeltà funzionale. Nel processo di traduzione di testi di generi diversi, il grado di fedeltà resta invariato, ciò che cambia invece sono le strade e i mezzi che il traduttore impiega per conseguire questa fedeltà, utilizzando in al- cuni casi delle corrispondenze assolute che danno l’illusione di un grado di fedeltà mag- giore, e in altri delle corrispondenze indirette, delle compensazioni ecc. che danno l’illusione di un grado di fedeltà minore e di conseguenza l’illusione di una maggiore li- bertà.

67 Così in certi casi il testo originale, cioè il messaggio immesso, può avere lo scopo di suscitare perce- zioni intellettuali (per esempio un trattato scientifico) e in altri percezioni emozionali (per esempio una poesia lirica), ma lo scopo della traduzione dei due testi immessi sarà sempre lo stesso: trasmettere l’in- formazione contenuta nell’originale.

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Ma la constatazione che ci interessa maggiormente è la seguente: la realizza- zione della prima fase del processo traduttivo – l’analisi – nel corso della quale il tra- duttore passa dal livello dei signifiant a quello dei signifié, dal livello l5 al livello l1 di Lin (dalla forma grafica del messaggio immesso all’informazione che veicola e alla sua rappresentazione nei termini del linguaggio d’intermediazione dato – Liint), cioè com- prende il messaggio, presuppone, vista la natura specifica delle lingue naturali (poli- semia, omonimia, sinonimia, diversa segmentazione della realtà ecc.) una scelta fra i significati attualizzati (signifié) degli elementi linguistici del messaggio. Allo stesso modo, la realizzazione della seconda fase del processo traduttivo – la sintesi68 – nel corso della quale il traduttore passa dal livello dei signifié espressi nella forma del Liint al livello l5 di Ljn (dall’informazione rappresentata nei mezzi del linguaggio di interme- diazione al messaggio prodotto), ovvero produce il messaggio d’uscita che deve veico- lare un’informazione invariante rispetto a quella veicolata dal messaggio immesso, presuppone, in virtù dello stesso specifico delle lingue naturali, una scelta dei corri- spondenti elementi (signifiant) della lingua ricevente.

Di conseguenza, il meccanismo del processo di analisi e di sintesi, che costitui- scono le due fasi del processo traduttivo tra due lingue naturali date (Lin → Ljn ), pre- suppone la realizzazione di un dato numero di scelte.69 Non è difficile rendersi conto che la necessità di queste scelte è condizionata dalla natura stessa delle lingue natura-

68 Osserviamo che dal punto di vista linguistico uno dei problemi più interessanti del processo di sintesi è costituito dalla descrizione del meccanismo di una sintesi poliva- riante, cioè una sintesi che renda tutte le espressioni dell’informazione immessa con- template dalla lingua ricevente e la scelta della migliore variante dal punto di vista sti- listico (si veda Mel ́čuk, Žolkovskij 1968).

69 Tra l’altro, la constatazione che l’analisi e la sintesi sono due processi analoghi che avvengono in senso inverso deriva dalle stesse considerazioni che abbiamo fatto nella seconda parte del nostro saggio in relazione al processo di decodifica e di comprensio- ne da un lato, e del processo di codifica e di produzione dall’altro.

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li (inoltre questa constatazione è avvalorata dal fatto che operazioni analoghe applicate ai messaggi formulati nei termini degli Lia non presuppongono delle scelte di questo ti- po), e che, a causa dell’attuale stato della linguistica, della teoria della letteratura, della psicologia, dell’estetica ecc., queste scelte hanno carattere creativo (si veda di seguito la quarta parte) poiché non sono preliminarmente regolamentate né descritte da un punto di vista formale, così come non lo sono tutti i fattori di equivalenza e di non- equivalenza, le regole e i criteri delle relative scelte.

Quanto abbiamo detto ci permette di formulare la seguente conclusione: il meccanismo del processo traduttivo tra due lingue naturali date (Lin → Ljn) ha sempre, indipendentemente dal genere testuale che si traduce, un carattere creativo condizio- nato dalla natura linguistica di questa operazione e dallo specifico delle lingue natu- rali che presuppone scelte preliminarmente non regolamentate fra i signifié e i signi- fiant a tutti i livelli delle lingue naturali.

La descrizione del carattere linguistico creativo del processo traduttivo Lin → Ljn effettuato da un traduttore umano e la constatazione che sia il carattere creativo che la necessità dell’analisi linguistica, extralinguistica e dell’approccio funzionale (nel processo di traduzione di testi di qualsiasi genere) sono condizionati dalla natura lin- guistica stessa di questa operazione e non da cause esterne, ci permette di esprimere delle valutazioni su un altro tema molto discusso.

2.2.3 L’approccio linguistico e letterario

Come abbiamo già osservato nella nostra breve trattazione relativa allo svilup- po storico della pratica e della teoria della traduzione (si veda sopra la prima parte), i primi passi dei fautori della concezione linguistica della traduzione hanno incontrato

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una forte resistenza da parte dei sostenitori della concezione letteraria (soprattutto degli stessi traduttori), i quali contestavano la tesi della natura linguistica del processo tradutti- vo che, secondo loro, avrebbe carattere puramente (o almeno quasi puramente) letterario. Partendo da questo punto di vista, gli autori in causa fanno considerazioni di questo tipo:

«Purtroppo qui [cioè nel campo della traduzione letteraria] la situazione non è soddisfacente. Nella misura in cui vengono studiate, le questioni relative alla tra- duzione letteraria sono trattate in modo isolato rispetto ai grandi problemi che emergono nella letteratura del realismo socialista […] e d’altronde, per molti teo- rici della letteratura sovietica, nemmeno sussistono. Così per esempio, nelle ope- re di L. Timofeev, G. Abramovič e altri, non si trova una sola parola sulla tradu- zione letteraria […], il che dimostra una certa esitazione da parte loro di fronte a questi problemi. Analogamente, le opere degli esperti in traduzione, del resto po- co numerosi, non apportano sufficiente chiarezza in questo campo. Per esempio, A.V. Fëdorov considera la traduzione una forma di attività creativa nell’ambito della lingua e l’analizza da un punto di vista prettamente linguistico, senza mai accennare al fatto che la traduzione letteraria sia un’attività creativa nell’ambito della letteratura. La traduzione letteraria è un fenomeno della nostra letteratura nazionale e di conseguenza l’approccio ai suoi problemi deve essere letterario» (si veda Lejtes 1955: 103 e Rossel ́s 1955: 190 e sg).

L’essenza di questo tipo di punti di vista può essere riassunta come segue: poiché la traduzione letteraria è una specie, un tipo di attività letteraria, presuppone e necessita un approccio letterario, mentre l’approccio linguistico, necessario nell’ambito della tra- duzione non letteraria, se applicato alla traduzione letteraria non può che condurre al for- malismo (osserviamo che a questo proposito esistono posizioni più moderate che ammet- tono la necessità di entrambi gli approcci, ma «con un ruolo preponderante di quello lette- rario»). Opinioni di questo tipo hanno dato vita al dibattito sulla priorità dell’approccio letterario nell’ambito della traduzione letteraria. Pur non potendo qui analizzare in modo

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approfondito la questione (si veda Lûdskanov 1963), dobbiamo sottolineare che dal no- stro punto di vista queste convinzioni sono inaccettabili. Nonostante affermino in modo categorico la necessità dell’approccio letterario, questi autori di solito non ne chiariscono l’essenza. Un’analisi dei loro scritti permette di affermare che a loro avviso l’approccio letterario avviene nel seguente modo: traducendo un’opera letteraria, ovvero scegliendo in ultima istanza gli elementi di Ljn che permetteranno al messaggio prodotto di suscitare le stesse percezioni estetiche nella coscienza del lettore (in altre parole realizzando le scelte necessarie dei signifié e dei signifiant), il traduttore deve tenere conto di un vasto numero di fatti extralinguistici. E poiché questi fatti extralinguistici sono solitamente di natura letteraria – lo stile, il credo letterario, il contesto emozionale ecc. – l’approccio ri- ceve il nome «letterario». È assolutamente incontestabile che il traduttore debba tenere conto di tutti questi fatti e di molti altri ancora. Ma affermare che ciò sia condizionato dal- la natura specifica della traduzione letteraria è un errore. In fondo, il riferirsi a tutti questi fatti è un riferirsi a dei fatti extralinguistici o, in altre parole, costituisce quello che abbia- mo definito convenzionalmente con il temine «analisi extralinguistica». Ma come questa stessa analisi e la necessità di effettuarla, tali fatti sono condizionati dalla natura delle lin- gue naturali (è incontestabile che le opere letterarie esistono solo nella forma di una data lingua naturale). Di conseguenza, dobbiamo constatare che l’approccio letterario non è che una manifestazione della necessità generale di realizzare, durante il processo tradut- tivo, un’analisi extralinguistica; tale necessità è condizionata dalla natura linguistica di questo processo e si manifesta, sebbene in altre forme, durante la traduzione di tutti i ge- neri testuali. Pensiamo a quel punto di vista molto diffuso e in sé giusto secondo il quale il traduttore di testi scientifici (per esempio di un trattato di chimica organica o di zoologia) deve possedere delle conoscenze nei relativi ambiti scientifici. Queste conoscenze però sono necessarie unicamente alla realizzazione dell’analisi extralinguistica. Ma questo

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fatto incontestabile ci permette forse di affermare che la traduzione di testi scientifici di questo tipo ha una natura chimica o zoologica e richiede un approccio chimico o zo- ologico?

La necessità di fare riferimento alla realtà e di effettuare un’analisi extralingui- stica condizionata dalla natura stessa delle lingue naturali e del processo traduttivo, è una necessità generale che sussiste nella traduzione di tutti i generi testuali concretiz- zati nella forma delle lingue naturali. Questa necessità generale si manifesta in modo diverso nella traduzione dei diversi generi testuali, ma ciò non permette di concludere che la necessità dell’approccio letterario (manteniamo il termine solo per non scostarci dalla tradizione) sia condizionata da motivazioni letterarie e dalla natura “letteraria” di questo genere di traduzione.

Per non tornare più su questi problemi, ci sembra opportuno spendere qualche parola sull’aspetto estetico della traduzione letteraria. Quanto abbiamo enunciato fino ad ora, e soprattutto il punto di vista semiotico generale sulla traduzione che abbiamo proposto, potrebbe dare l’impressione che sottovalutiamo questo aspetto della tradu- zione letteraria. Una tale impressione sarebbe errata. Non si può negare che anche le emozioni estetiche più profonde che l’opera letteraria originale deve suscitare sono il risultato di una comunicazione emozionale, fondata su una comunicazione intellettuale (si veda sopra la seconda parte). Ne consegue che il punto di vista semiotico sulla tra- duzione non solo è lontano dal sottovalutare questo aspetto del problema della tradu- zione letteraria, ma anzi fornisce una base comune per la sua analisi scientifica. Pos- siamo parlare dell’influenza estetica dell’opera originale e soprattutto della sua tradu- zione senza conoscere il meccanismo di questa influenza? Inoltre questo punto di vista si afferma in quanto la teoria della letteratura (che secondo i fautori dell’approccio let- terario dovrebbe contemplare la teoria della traduzione letteraria) inizia a compiere tentativi sempre più sistematici di penetrare nella natura dell’atto letterario creativo e di descriverlo in modo esatto alla luce dei principi della semiotica, della teoria dell’informazione e della cibernetica.

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Ed è proprio il coordinamento degli studi funzionali della traduzione letteraria in quanto tipo di processo traduttivo, con gli studi tradizionali della traduzione lettera- ria in quanto prodotto, che permetterà di creare le condizioni necessarie allo sviluppo della scienza, ribadiamo della scienza, della traduzione letteraria in quanto ambito di applicazione della teoria generale della traduzione, il che esclude la negazione ingiusti- ficata degli uni come degli altri.

In questa parte abbiamo cercato di fornire una descrizione di alcuni aspetti del meccanismo linguistico del processo traduttivo fra due lingue naturali realizzato da un traduttore umano. Questa trattazione, sebbene sommaria e incompleta, mostra la com- plessità di questi problemi e fa intuire le indagini approfondite e di lunga durata neces- sarie a una loro descrizione esatta e spiegazione scientifica. Non è difficile rendersi conto che questi problemi diventano sempre più complessi e difficili da risolvere quando si intende affidare la realizzazione del processo traduttivo a una macchina, cioè realizzare una traduzione automatica. Alcuni dei problemi che la riguardano sono og- getto dell’ultima parte del nostro lavoro.

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2.3 Riferimenti bibliografici

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LINGUA, TRADUZIONE E CULTURA NEL PENSIERO HUMBOLDTIANO – Analisi dell’introduzione all’Agamennone di Eschilo – Elia Rigolio Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

LINGUA, TRADUZIONE E CULTURA NEL PENSIERO HUMBOLDTIANO

– Analisi dell’introduzione all’Agamennone di Eschilo –

Elia Rigolio

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE DI MILANO Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 Milano

Relatore: Prof. Bruno Osimo Correlatrice: Prof.ssa Elisabetta Potthoff

Diploma in Scienze della mediazione linguistica 24 novembre 2003

© Elia Rigolio, 2003

ai miei genitori a mio fratello

ABSTRACT

ENGLISH VERSION

This dissertation is an analysis of what Wilhelm von Humboldt wrote in the introduction (“Einleitung” in German) to his translation of Aeschylus’ Agamemnon, first published in 1816, about languages and translation, and about the limits and usefulness of the latter.

The candidate has explained in the introduction the reasons which led him to the choice of this subject, asserting that studying the ideas of a theorist of translation means having an opportunity to increase his knowledge not only of translation techniques, but also of the author’s native culture.

In order to broaden his knowledge and understanding of the subject the examinee has studied the history of translation by reading essays on the subject as well as an anthology of some of the most important texts ever written, ranging from Cicero to Walter Benjamin (20th century). Further information about the books used can be found in the bibliography. They have been a valuable source of information, and have helped in better understanding the possible implications of what was found in the original; they have also been used to give the reader a clear idea of how modern a certain concept is.

A short biography was included in chapter 1 in order to contextualise the work of the author in his own age and culture; in addition, a brief explanation of the most relevant ideas of Romantic culture was added. A short summary of the author’s life is also given in the appendix to this abstract.

The analysis of von Humboldt’s writing resulted in the formulation of three chapters (chap. 2, 3 and 4), in which the concepts expressed in the “Einleitung” have been reorganised and expanded. The examinee has tried to clarify the keynotes and to evaluate them on the basis of the theories and cognisance both of the author’s time and of more recent years. In the first of these three chapters (chap. 2.) the central point is the nature of language and the relationship between words and concepts; von Humboldt supports the idea that in every language it is possible to express anything; he also maintains that words are only arbitrary signs of the concept they

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convey, thus the impossibility of translating literally. In the following chapter the problem of “fidelity” and of its meaning is discussed; in these pages the examinee has stressed two different features of the “Einleitung”: on one hand its modernity, especially when the author criticises the habit of improving on the original and of disambiguating; on the other the vagueness of his idea of “fidelity”, the definition of which is still subject to personal interpretation. Chapter 4 deals with the utility of translating; despite its various and considerable limits, it still plays a very important role in human life, as it enables cultural exchange within the global system. In the same pages the author points out that translations can’t be eternal, and that the reader should compare a number of different versions, if he wants to have a clear idea of the original.

In the last chapter (chap. 5) the examinee has expressed his own point of view on the work analysed. After a brief comment on style and content, he subscribes to von Humboldt’s assertion when he emphasizes the importance of translations as a way for cultural intercourse: he also believes that the introduction of elements deriving from foreign cultures is the highest aim and most important advantage of the work of translating.

BIOGRAPHY

Wilhelm von Humboldt was born on 22nd June 1767 in Potsdam, where he was brought up by his father, an officer in the German army, who chose his son’s preceptors from the most brilliant personalities of the Berlin Enlightenment. He was taught the humanities, Greek, Latin and French, as well as political science and philosophy. After one semester at the university of Frankfurt an der Oder he moved to Göttingen, where he studied the humanities and classical philology, read Kant and made friends with Wilhelm Schlegel, Goethe and Schiller, who he would also assist in some of their work. Being an officer himself, he had contact with some of the leading politicians and intellectuals of Europe (among them Madame de Staël, A. W. Schlegel and S. T. Coleridge). He also studied the Basque language, which led to a breakthrough in developing his own view of language and translation. His major works deal with the problem of translating – he was a translator himself, mainly from

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Greek – and of the nature of language; he also wrote about the ancient Greek culture and took part in the political debate on the role of the state. A Liberal and Romantic, he was plenipotentiary in Rome and Vienna and Minister for Education; he was relieved of his charge when his liberal ideas clashed with a more conservative leadership. He devoted the rest of his life to research in the linguistic field.

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ABSTRACT

DEUTSCHE FASSUNG

Die vorliegende Diplomarbeit beinhaltet eine Untersuchung der 1816 von Wilhelm von Humboldt in der Einleitung seiner Übersetzung des Agamemnons von Aeschylos niedergeschriebenen Äußerungen über Sprache und Übersetzung, sowie über deren Grenzen und Nützlichkeit.

Der Kandidat hat in seinem Vorwort die Gründe seiner Themenwahl erörtert. In einer gründliche Analyse des Gedankenguts eines Sprach- und Übersetzungswissen- schaftlers sieht er eine gute Gelegenheit, die eigenen Kenntnisse in diesem Hinsicht zu erweitern und sich nicht nur auf dem Gebiet der Übersetzungstechnik ein genaueres Bild zu machen, sondern auch sich im Allgemeinen mit der Kultur des Autors auseinanderzusetzen.

Um den Autor in den jeweiligen Kontext einzufügen, wurde im ersten Kapitel eine Biographie hinzugefügt; außerdem wurden die wichtigsten Punkte die Romantik betreffend kurz dargelegt. Eine Zusammenfassung der Biographie ist am Ende dieser Darstellung zu finden.

Um sich einen Überblick über das Thema zu verschaffen, hat sich der Kandidat zum einen mit der Geschichte der Übersetzungswissenschaft auseinandergesetzt und zum anderen mit den Werken namhafter Autoren wie Cicero und Benjamin zum Thema der Übersetzungswissenschaft befasst. Genauere Hinweise dazu sind in der Bibliographie zu finden. Aus diesen Texten wurden viele Informationen entnommen, die sich im Laufe der Arbeit als sehr wertvoll erwiesen, und zwar sowohl für das Verständnis der in den geäußerten Ideen möglicherweise enthaltenen Implikationen als auch, um dem Leser die Modernität derselben nahe zu bringen.

Die Inhaltsanalyse wurde in drei Kapiteln dargelegt, in denen die wichtigsten Punkte von Humboldts Einleitung neu erfasst und vertieft wurden; Ziel der Arbeit ist die grundlegenden Begriffe zu verdeutlichen und gleichzeitig zu bewerten. Dies geschah auch unter Berücksichtigung der jeweiligen Kenntnisse und Theorien sowie aktueller Äußerungen zum Thema. Im ersten dieser drei Kapitel (Kap. 2) geht es um die Natur der Sprachen, um ihre Eigenschaften, und um die Beziehung zwischen

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Wort und Begriff. Von Humboldt hält es für möglich, daß alle Sprachen alles sagen können, und vertritt im Endeffekt die Theorie der Eigenmächtigkeit der Wörter, deren Folge die Unmöglichkeit einer wörtlichen Übersetzung ist. Im darauf folgenden Kapitel wird dann die Frage behandelt, was man unter „Treue“ zu verstehen hat; zwei Eigenschaften des Textes verdienen auf diesen Seiten betont zu werden: Einerseits die Modernität einiger Prinzipien, und zwar, im Grunde genommen, des Verbots jeder „Verbesserung“ und Monosemierung, und andererseits die Unbestimmtheit des Begriffs „Treue“, die immer noch zur persönlichen Interpretation überlassen wird. In Kapitel 4. ist dann von der Nützlichkeit der Übersetzung die Rede; trotz aller Grenzen und Schwierigkeiten, kommt ihr ein sehr hoher Stellenwert zu, da sie den kulturellen Austausch zwischen den Völkern ermöglicht. Gleichzeitig wird in diesem Kapitel gezeigt, dass die Übersetzung vergänglich ist, und dass ein Leser, um sich ein genaueres Bild vom Originaltext machen zu können, sich mit mehreren Übersetzungen des gleichen Textes befassen sollte.

Im letzten Kapitel äußert der Kandidat seine eigene Meinung über das Werk: nach einigen Bemerkungen über Stil und Inhalt, pflichtet er die Idee des kulturellen Austausches bei. Er vertritt ebenso die Meinung, dass die Einführung von fremden Weltanschauungen der höchste Zweck und größte Vorzug der Übersetzung sei.

BIOGRAPHIE

Am 22. Juni 1767 in Potsdam als Sohn eines Offiziers geboren, wurde Wilhelm vonHumboldt von Privatlehrern erzogen, die aus den bedeutendsten Persön- lichkeiten der Berliner Aufklärung ausgesuchten wurden. Nach dem Studium der Naturwissenschaften und der griechischen, lateinischen und französischen Sprache erhielt er eine Einführung in die Staatswissenschaften und die Philosophie. Nach einem Semester in Frankfurt an der Oder besuchte er für drei Semester die Universität Göttingen, studierte klassische Philologie und Naturwissenschaften, setzte sich mit Kant auseinander und freundete sich mit August Wilhelm Schlegel, Goethe und Schiller an, deren Mitarbeiter er wurde. Dank seiner Karriere im Staatsdienst unterhielt er Kontakte zu Intellektuellen und führenden Politikern ganz

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Europas (wie z.B. Madame de Staël, A. W. Schlegel und S. T. Coleridge). Er studierte auch das Baskische, was für ihn einen Durchbruch zu einer eigenen Sprachauffassung und Sprachwissenschaft bedeutete. Im Rahmen seiner politischen Tätigkeit muss sein Engagement für die Modernisierung des Staates durch liberale Reformen sowie seine Rolle als Bevollmächtigter in Rom, Wien und Berlin erwähnt werden. Gerade wegen seiner liberalen Ideen entstehen Auseinandersetzungen mit führenden Köpfe des Staates, weswegen er 1819 aus dem Staatsdienst ausscheidet.

Wilhelm vom Humboldt widmet sich von da an bis zu seinem Tod am 8. April 1835 seinen wissenschaftlichen Studien in der Ruhe des Familienbesitzes in Tegel.

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Il linguaggio è così il mezzo, se non assoluto, almeno sensibile, per il quale l’uomo dà forma allo stesso tempo a se stesso e al mondo, o, piuttosto, diviene cosciente di se stesso proiettando un mondo fuori di sé.

W. von Humboldt, Lettera a Schiller, 1816 (citato in Berman, 183)

SOMMARIO

Abstract – English version
Abstract – Deutsche Fassung
Nota introduttiva – Scelta dell’argomento e metodo di lavoro
1. Biografia e contestualizzazione storico-filosofica
2. I concetti base: lingue, oggetti e segni
3. La fedeltà
4. Utilità e limiti della traduzione
5. Conclusioni
Appendice – Il frontespizio e alcune pagine dall’edizione del 1816 Bibliografia

p. III p. VI p. 11 p. 14 p. 20 p. 27 p. 35 p. 41 p. 46 p. 57

Nota introduttiva
SCELTA DELL’ARGOMENTO E METODO DI LAVORO

L’interesse per le lingue e le culture dei Paesi stranieri e la voglia di tradurre si sono sempre accompagnate in me al timore di non saper riconoscere il limite – per citare vonHumboldt – «varcato il quale [la traduzione] diventa un errore inequivocabile», illegittima ri-creazione del traduttore. Mosso dalla volontà di approfondire l’argomento, ho voluto cogliere l’opportunità della tesi di diploma, scegliendo di analizzare il pensiero di un autore che mi permettesse di addentrarmi nella materia.

Ritengo che l’aspetto teorico della traduzione e il dibattito che si è sviluppato nei secoli siano di grande importanza per ogni professionista, data la loro utilità nello svolgimento dell’attività pratica, non solo per le risposte che offrono, ma anche per le domande che pongono; la conoscenza dei diversi modi di avvicinarsi all’attività traduttiva e la consapevolezza delle problematiche affrontate e delle soluzioni individuate dai diversi autori del passato portano infatti a una migliore coscienza delle possibili pecche del proprio lavoro, a una maggiore attenzione e, si spera, a una più alta qualità del risultato finale.

L’arricchimento derivante dallo studio di questi temi non è però solo tecnico, ma anche più generalmente culturale. Le tesi esposte nel corso della storia sono infatti specchio dei tempi, della cultura dell’autore, delle epoche che hanno segnato lo sviluppo della nostra civiltà, e affrontarle significa comprendere meglio, almeno in una certa misura, le dinamiche con cui il pensiero si è evoluto. Un piccolo tassello che si aggiunge nella comprensione dell’evoluzione storica.

La scelta è caduta su un autore romantico tedesco; per la precisione, sulle considerazioni che Wilhelm von Humboldt, intellettuale e politico d’inizio ‘800, pose a introduzione della sua versione tedesca dell’Agamennone d’Eschilo, pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1816. Ho preferito un autore di una lingua

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curriculare per poter affrontare il testo nella versione originale e per poter muovere da un contesto culturale già conosciuto, almeno in parte: non ho ritenuto di accollarmi un lavoro eccessivo, sobbarcandomi l’analisi di un pensatore di una cultura a me più lontana, come avrebbe potuto essere quella di un autore russo o spagnolo, né di autori dalla produzione troppo vasta e vastamente affrontata nella letteratura specialistica, per non scadere nell’ovvio o in un’analisi eccessivamente superficiale. Spero d’altronde di non aver peccato di presunzione lanciandomi in una materia complessa e che certamente non padroneggio. Si tratta qui di un semplice lavoro di ricerca e analisi, senza alcuna pretesa di esaustività né di dare una valutazione obbiettiva e illuminante. Altri hanno scritto, meglio e più approfonditamene, sulla materia. Ad essi si rimanda nella bibliografia.

Non essendo il testo in esame un saggio scientifico ma l’introduzione alla traduzione di un’opera, in esso il discorso sulla teoria del tradurre è inserito nel quadro dell’opera stessa. V on Humboldt inizia con una descrizione dei pregi dell’Agamennone, descrizione che si protrae sino all’affermazione che la complessità e la bellezza del dramma lo rendono «intraducibile per sua peculiare natura»; da qui prende l’avvio tutta una serie di considerazioni sulle lingue e la traduzione, che costituisce il tema della mia analisi. È da queste pagine che ho tratto tutti i passi citati in seguito, mentre le prime, così come le ultime, relative alle scelte eminentemente tecniche di traduzione dei versi dal greco, sono assai meno rilevanti ai miei fini. Per quanto riguarda le citazioni, ho provveduto personalmente alla loro traduzione, tenendo ben presente che centro del mio lavoro, e quindi mia dominante, non è la riproduzione dello stile humboldtiano, quanto l’esplicitazione e il commento della sua teoria. Ho comunque cercato di evitare ogni disambiguazione o modifica inopportuna, poiché il commento che, di volta in volta, ne ho fatto, mi ha consentito di esprimere il mio punto di vista in merito.

Nell’affrontare il testo sono partito dall’analisi dell’originale, cui è seguita la lettura di una traduzione italiana contenuta in una raccolta di testi sulla teoria della traduzione, anch’essi esaminati. Nello stesso volume ho rintracciato preziose informazioni per una prima collocazione storica dello scritto e per una ricostruzione generica della storia del pensiero sulla traduzione. A questa analisi è seguita una

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destrutturazione del testo e una riorganizzazione dei contenuti che ne rendesse meglio fruibili e analizzabili i concetti, la cui trattazione è quindi stata suddivisa in tre capitoli corrispondenti ai grandi nuclei del pensiero humboldtiano (cap. 2, 3, 4).

Per poterlo meglio inquadrare e al fine di individuarne con certezza i caratteri di novità, ho poi ritenuto necessario, prima di procedere alla stesura effettiva dei capitoli di cui sopra, affrontare in modo più sistematico l’intero discorso della teoria della traduzione e della sua storia; i dati ricavati dalle letture effettuate sono stati estremamente utili per fornire al lettore una corretta idea del grado di sviluppo del pensiero traduttologico a inizio Ottocento e per meglio comprendere le possibili implicazioni di quanto von Humboldt scrive.

Ho ritenuto inoltre utile fornire una biografia dell’autore e inserirla in un’analisi, per quanto sommaria, del contesto storico e culturale nel quale il suo pensiero si è sviluppato (cap. 1).

Chiude questa trattazione un capitolo di osservazioni personali, con le quali ho voluto dare il mio punto di vista, assolutamente personale e opinabile – come d’altronde non può non essere ogni analisi, essendo ogni procedimento di lettura oggetto di un’interpretazione conscia e “aconscia”, o meglio di una traduzione vera e propria. Ma perché questi concetti vengano formulati dovremo aspettare ancora quasi un secolo…

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Capitolo 1
BIOGRAFIA E CONTESTUALIZZAZIONE STORICO-FILOSOFICA

LA VITA

Friedrich Wilhelm Christian Karl Ferdinand Freiherr von Humboldt nasce il 22 luglio 1767 a Potsdam. Figlio di un ufficiale dell’esercito prussiano, cresce nella dimora di famiglia, Palazzo Tegel. La sua istruzione primaria avviene tra le mura domestiche, ad opera di insegnanti privati scelti tra i rappresentanti dell’illuminismo di Berlino.

Insieme al fratello Alexander si iscrive, nel 1787, all’università di Frankfurt an der Oder, dove frequenta però solo un semestre, per trasferirsi poi all’università di Göttingen; qui studia filologia classica e scienze naturali, oltre al greco, al latino e al francese, e si dedica brevemente alle scienze politiche, che gli saranno necessarie nella futura carriera, e alla filosofia. Nel contempo legge Kant e Leibniz e stringe amicizia con August Wilhelm Schlegel.

Nel 1789 visita la Parigi rivoluzionaria, la Renania e la Svizzera. La sua carriera di funzionario pubblico inizia nel 1790 come consigliere di legazione, carica che lascerà poco più di un anno dopo.

Nel 1794, dopo aver vissuto per alcuni anni in Turingia, nei possedimenti della moglie Caroline von Dacheröden, figlia di un consigliere della corte suprema prussiana, si trasferisce a Jena, dove entra in contatto con i più alti rappresentanti della cultura romantica; diviene consigliere critico e collaboratore di Friedrich von Schiller (che seguirà nell’elaborazione degli Ästethische Schriften e della Gedankenlyrik) e di Johann Wolfgang von Goethe, che assiste nella stesura dell’Hermann und Dorothea, su cui scriverà anche un saggio, Über Goethe’s Hermann und Dorothea, pubblicato nel 1799. Collabora con la rivista di Schiller Horen e lavora al saggio Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des

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Staates zu bestimmen. Insieme al fratello Alexander e a Goethe frequenta lezioni di anatomia comparata.

Nel novembre 1797 si trasferisce con la famiglia a Parigi, spinto sia dall’opportunità di proseguire in quella città i suoi studi, sia dall’interesse per l’evolversi della situazione sociale francese, dati i suoi contatti con i più importanti politici e intellettuali parigini.

È nel 1801, a conclusione di un lungo viaggio in Spagna, che si reca nei paesi baschi, dove scopre e studia la lingua basca, che lo porterà a sviluppare una concezione personale delle lingue e della linguistica.

Tornato nel 1803 al pubblico ufficio, fino al 1808 rappresenta la Prussia presso la Santa Sede a Roma; in questo periodo fa della sua residenza, Villa Gregoriana, il punto d’incontro della comunità di artisti e intellettuali, tra i quali vanno ricordati Madame de Staël, August Schlegel e Samuel Taylor Coleridge. Si occupa, tra l’altro, della lingua dei nativi d’America e inizia a tradurre dal greco.

Dopo il collasso dell’impero prussiano fa ritorno in Germania, per essere nominato, nel 1809, Direttore della Sezione per la cultura e l’istruzione del Ministero degli Interni, nel cui àmbito elabora una riforma radicale dell’istruzione pubblica, con la creazione di un ciclo completo e continuo dalla scuola elementare fino al livello universitario, con l’intento di favorire a tutti gli strati della popolazione l’accesso alle strutture educative.

Nel 1811 viene inviato a Vienna in qualità di delegato, e contribuisce in modo determinante alla partecipazione austriaca alla coalizione antinapoleonica. Prende parte come plenipotenziario al Congresso di Vienna, durante il quale si batte con successo per il riconoscimento dei diritti civili in favore degli ebrei; vani resteranno invece i suoi sforzi per dotare la Confederazione germanica di una costituzione liberale.

Tra il 1815 e il 1819 ricopre diversi incarichi politici, tra cui quelli di plenipotenziario prussiano presso la Dieta di Francoforte, direttore di una commissione per la riforma fiscale e legato prussiano a Londra. Torna poi a Berlino come Ministro degli affari corporativi; a seguito della sua opposizione ai Karlsbäder

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Beschlüsse1 e dei tentativi di imporre una costituzione liberale alla Prussia, nonché di conflitti con alcune alte personalità dello Stato, nello stesso anno viene sollevato da tutti i suoi incarichi, col conseguente blocco definitivo di tutte le riforme.

Si ritira quindi con la famiglia a Tegel, dove vive dedicandosi agli studi di linguistica fino alla morte, avvenuta il giorno 8 agosto del 1835.

VON HUMBOLDT, INTELLETUALE ROMANTICO

L’attività traduttiva di von Humboldt si colloca in un periodo storico di grande fermento filosofico, letterario e politico. Nella Germania tra fine Settecento e inizio Ottocento è molto vivo il dibattito sul problema del tradurre, affrontato però nell’ampia ottica dei problemi ermeneutici e filosofico-linguistici. Oltre all’attività pratica – Schleiermacher traduce Platone, A.W.Schlegel traduce Shakespeare, Cervantes e Petrarca, von Humboldt traduce, oltre a Eschilo, Sofocle e Pindaro – si ha quindi anche una produzione consistente di trattati teorici, i più importanti dei quali sono Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens di Friedrich Schleiermacher, del 18132 e il saggio di Goethe Noten und Abhandlungen zu besserem Verständnis des Westöstlichen Divans del 1819.3

Questa intensa produzione riflette la tendenza tipica della cultura tedesca a valorizzare l’incontro con l’altrui come fonte di accrescimento della propria lingua e della propria cultura. Tendenza tanto più forte in quanto sostenuta da una concezione storica e ideologica come quella romantica, che, a partire dal tardo Settecento, diffonde l’amore per il diverso, frutto dell’anelito verso l’infinito e del conseguente

1 Conferenza dei Ministri indetta a seguito delle iniziative liberali promosse dalle leghe studentesche, e in particolare a seguito della festa organizzata da queste a Wartburg nel 1817, terzo centenario della Riforma e quarto anniversario della sconfitta di Napoleone a Lipsia, durante la quale vennero bruciati gli atti della Confederazione germanica, ritenuti troppo conservatori. I Karlsbäder Beschlüsse decisero l’istituzione di una polizia unitaria con sede a Magonza, lo scioglimento delle leghe studentesche, la sorveglianza delle università, la limitazione della libertà di stampa e la persecuzione dei “demagoghi”,

ovvero di quelle personalità della cultura dalle idee troppo liberali 2

Traduzione italiana in Etica e ermeneutica, a cura di Giovanni Moretto, Napoli, Bibliopolis, 1985,

p. 85-120, col titolo di Sui diversi modi del tradurre

3 Trad. it. in Divan occidentale-orientale, a cura di Giorgio Cusatelli, Torino, Einaudi, 1990, p. 364-

367, col titolo di Note e saggi sul divan orientale-occidentale

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bisogno di evasione.1 È proprio il viaggio (altro topos, con la figura del viandante, della letteratura romantica) nei paesi baschi a scatenare in von Humboldt quell’amore per lo studio delle lingue e delle culture straniere che lo porterà a coltivare con tanta intensità l’attività di ricerca nelle materie della filologia e della linguistica, e a dire: «Die Sprache ist das bildende Organ des Gedankens»,2 formulando così un principio che, implicando che è anche la lingua a forgiare la cultura, e non solo viceversa, anticipa un pensiero che avrà grande fortuna in tempi più moderni, secondo cui la traduzione non è trasposizione di parole o frasi, ma di culture, ognuna con una sua visione del mondo.

Idee simili, pur nella diversità delle modalità espositive e degli approcci alla trattazione, si possono ritrovare nelle opere citate di Goethe e di Schleiermacher; si tratta infatti di un pensiero in perfetta sintonia con la visione romantica della storia: a seguito del fallimento della Rivoluzione francese e degl’ideali che sembravano animare l’epoca e l’impresa napoleonica, i romantici sono portati a pensare che il soggetto della storia non sia l’uomo, evidentemente incapace di gestirla, ma una potenza extra-umana e sovra-individuale. Essendo quindi la storia frutto di un soggetto provvidenziale assoluto, anche il tentativo illuministico di giudicarla è del tutto improponibile, addirittura anti-storicista. Innanzitutto perché rifiutare alcuni momenti storici, condannandoli, equivale in questa visione mistica a intentare un processo a Dio; inoltre perché tutti gli avvenimenti storici sono elementi costitutivi di un disegno divino, e come tale necessariamente positivi; in terzo luogo perché tentare un giudizio usando come metro i valori del presente «significa misconoscere l’individualità e l’autonomia delle singole epoche, che hanno ognuna una specifica ragion d’essere in relazione alla totalità della storia, e che perciò si sottraggono ad ogni giudizio critico e comparativo nei loro confronti».3

1 L’attività traduttiva nella Germania sei-settecentesca fu così forte da far ritenere a Goethe che la sua nazione avesse raggiunto, in virtù appunto delle tante e ottime traduzioni che aveva prodotto, un grado elevatissimo di cultura; essendo questo corpus di traduzioni un compendio di quelle di tanti altri Paesi sarebbe bastato esplorarlo per trarre gli stessi vantaggi dello studio delle singole letterature nazionali. (vedi Berman, 22)

2 «Il linguaggio è l’organo costitutivo del pensiero», citato da Steiner (1975, tr. it.: 79). 3 Da N. Abbagnano, G. Foriero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino.

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Altro elemento tipicamente romantico riscontrabile nella bibliografia di von Humboldt è l’interesse per la civiltà greca. Spiccano infatti nella sua produzione, a fianco dei numerosi saggi di linguistica e di un solo trattato in materia di politica, diverse traduzioni dal greco e una Geschichte des Verfalls und Untergangs der griechischen Freistaaten (Storia della caduta e della rovina delle repubbliche greche). Si tratta di un amore riconducibile all’idea di “armonia perduta” o “immediatezza felice”, di lontana derivazione rousseauiana, secondo cui l’uomo avrebbe vissuto, in una qualche epoca più o meno remota e determinata, in uno stato di perfetta identificazione con la madre natura, da cui sarebbe poi stato allontanato a causa della società e dell’intelletto, che lo avrebbero costretto schiavo di convenzioni alienanti e reso infelice e inautentico.1 Da qui l’antitesi schilleriana tra naive Dichtung (la poesia ingenua) e sentimentalische Dichtung (poesia sentimentale), «ove la prima è propria degli artisti antichi, che erano natura, mentre la seconda è tipica degli artisti moderni, per i quali la natura è solo oggetto di ricordo, di riflessione e di aspirazione sentimentale»:2 «Il poeta o è natura o la cercherà».3 Sarà Hölderlin a collocare nell’era classica quest’epoca di perfetta unione con il Tutto della Natura;4 compito del poeta, messaggero degli dèi, essere superiore all’uomo comune, è quello di vegliare e aspettare – e riprendo qui una metafora di Novalis – nella mezzanotte del mondo, le prime luci dell’alba, che porteranno al recupero della primitiva purezza. L’arte stessa è pura, perché creatura originale, messaggio dettato dagli dèi nella sua forma perfetta; per questo le opere degli artisti romantici tentano di riprodurre – a volte, paradossalmente, attraverso un lungo labor limae5 – un carattere il più possibile spontaneo e immediato. La funzione del traduttore non può

1 Se ci si limita all’àmbito delle lingue però, l’idea di un’antica perfezione non è appannaggio della cultura romantica. Steiner, in After Babel (59-76), sottolinea che «no civilization but has its version of Babel.» Indipendentemente dalle varie spiegazioni adottate per giustificare la diaspora linguistica, tutte le culture avrebbero in comune l’idea di una lingua unica, perfetta, derivata da Dio. Per quanto riguarda la cultura giudaico-cristiana Steiner vede nella cacciata dall’Eden la prima caduta: la lingua umana perde il potere creativo che possedeva nel paradiso terrestre, in cui egli dava nomi agli esseri viventi; a questa seguirà una seconda punizione divina, quella di Babele appunto, che costringerà gli uomini alla muta incomprensione.

2 Da N. Abbagnano, G. Foriero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino.
3 Da Schiller, Poesia ingenua e poesia sentimentale, 1976.
4 Per un’analisi più dettagliata di questo punto, vedi Berman, 64-67.
5 Esemplare in questo senso è l’opera di Clemens Brentano e Achim von Armir Des Knabens Wunderhorn; presentata dagli autori come raccolta di opere popolari essa è in realtà frutto di un lungo lavoro di rielaborazione.

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essere troppo diversa; egli, rendendo fruibili a un pubblico vasto le opere di quest’epoca di perfezione, adempie il suo compito di vate e avvicina il momento del nuovo meriggio. In questo senso è sufficiente ricordare come Schlimann partirà proprio dall’analisi della traduzione di Omero, considerata per la prima volta documento storico nel senso più stretto, per rintracciare i resti dell’antica città di Troia.

Vale infine la pena di sottolineare come l’impegno politico di von Humboldt si sia sempre identificato con la prima fiammata romantica filo-rivoluzionaria, che mutua il suo carattere dallo Sturm und Drang e che tende a un marcato liberalismo, pregno di istanze individualistiche se non anti-statalistiche. Il suo pensiero, la fedeltà al quale lo porterà in ultimo al sollevamento dagli incarichi affidatigli, si contrappone alla successiva ondata di ritorno di tradizionalismo e conservatorismo, elaborata nell’àmbito di una concezione storica sempre più provvidenzialistica; essa vedrà nella Chiesa e nell’Autorità l’unico rimedio al caos prodotto dal disordine delle forze umane, finendo così per porgere il fianco alla Restaurazione.

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Capitolo 2
I CONCETTI BASE: LINGUE, OGGETTI E SEGNI

«A study of translation is a study of language»1

Alla base di ogni concezione della traduzione c’è sempre una serie di idee riguardanti la lingua, il rapporto tra segno e oggetto, il rapporto tra le lingue e le culture differenti, che investono in modo estremamente rilevante lo sviluppo delle diverse teorie, in tutte le loro parti. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di argomenti, in particolare per quanto concerne la diatriba sulla convenzionalità delle parole, che poco hanno a che fare con la traduzione, argomento di studio di linguisti e filologi, ma non pertinenti all’argomento qui trattato. In realtà – e il fatto che von Humboldt li inserisca nell’àmbito di queste sue osservazioni ne è la prova – essi costituiscono il fondamento di ogni teoria sulla traduzione. Idee diverse in merito alle parole, al loro rapporto con la realtà, alla significazione (ovvero al modo in cui esse smettono di essere segni per assumere nella nostra mente un significato) conducono necessariamente a conclusioni diverse in merito alla possibilità, all’utilità e al modo di tradurre. Senza di esse non solo sarebbe molto complesso comprendere appieno il contenuto del pensiero in materie più strettamente legate all’attività traduttiva, ma sarebbe anche impossibile comprendere come l’autore sia addivenuto a quelle conclusioni.

Inoltre, come anche Berman2 rileva, la teoria del linguaggio costituisce un punto di estrema importanza nel pensiero humboldtiano, che lo differenzia dagli altri poeti e traduttori della sua epoca. La sua posizione, dice Berman, è differente, perché differente è la sua idea di linguaggio: non più «postulato»

1 Steiner, p. 49
2 Berman, p. 113, 183, 184

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(Novalis) del pensiero, non più strumento, ma ambiente, in cui l’uomo vive e da cui viene plasmato. In questo capitolo affronterò quindi un’analisi dei concetti basilari da cui muove tutto il pensiero humboldtiano.

CAPACITÀ ESPRESSIVA DELLE LINGUE

V on Humboldt sostiene che tutte le lingue posseggono le stesse capacità espressive, che sono un mezzo attraverso il quale si può esprimere qualsiasi concetto, qualsiasi sfumatura. Ciononostante rifiuta di trarre da questa considerazione la conseguenza che sembrerebbe più naturale, ovvero l’equivalenza, da un punto di vista qualitativo, delle lingue.

Es ist nicht zu kühn zu behaupten, dass in jeder [Sprache], auch in den Mundarten sehr roher Völker, die wir nur nicht genug kennen, (womit aber gar nicht gesagt werden soll, dass nicht eine Sprache ursprünglich besser, als eine andre, und nicht einige andren auf immer unerreichbar wären) sich Alles, das Höchste und Tiefste, Stärkste und Zarteste ausdrücken lässt.

Non è troppo arrischiato affermare che in ogni [lingua], anche nei dialetti di popoli molto rozzi, che semplicemente non conosciamo abbastanza, (col che non si deve intendere che una lingua non sia originariamente migliore di un’altra, e che certe altre non siano per sempre irraggiungibili) si può esprimere tutto, ciò che è più alto e ciò che è più profondo, più forte e più delicato.

In realtà, come spiega nelle righe immediatamente precedenti, si tratta di una capacità potenziale, non attualizzata pienamente; ogni lingua compirebbe insomma una sorta di cammino che la porta da uno stato di semplicità iniziale, in cui basta «agli usi comuni della vita», a uno superiore, in cui queste capacità vengono elaborate, «per poter essere elevate all’infinito dallo spirito della nazione». Si tratta evidentemente di una visione romantica, forse dettata più da convinzioni filosofiche che non linguistiche – ma la linguistica è spesso influenzata dalla filosofia –, che cerca di conciliare la pari dignità delle culture con la superiorità di una civiltà passata in perfetta armonia con il Tutto. Entrambi i concetti ritorneranno ancora nei passaggi finali dell’introduzione; vedremo nel quarto capitolo come confluiranno e troveranno compimento nella tesi dell’utilità della traduzione. Intanto però è necessario chiarire qualche altro concetto base.

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IL RAPPORTO TRA SEGNO E OGGETTO; LE EQUIVALENZE

VonHumboldt si inserisce nel dibattito tra convenzionalisti (secondo cui il rapporto tra segno e oggetto è del tutto arbitrario, dettato esclusivamente dalle convenzioni) e naturalisti (che sostenevano che nel segno si celasse una correttezza intrinseca che lo collega per natura all’oggetto) con una posizione più vicina alla seconda teoria, ma pregna di misticismo romantico:

Alle Sprachformen sind Symbole, nicht die Dinge selbst, nicht verabredete Zeichen, sondern Laute, welche mit den Dingen und Begriffen, die sie darstellen, durch den Geist, in dem sie entstanden sind, und immerfort entstehen, sich in wirklichem, wenn man es so nennen will, mystischen Zusammenhange befinden, welche die Gegenstände der Wirklichkeit gleichsam aufgelöst in Ideen enthalten, und nun auf eine Weise, der keine Gränze gedacht werden kann, verändern, bestimmen, trennen und verbinden können.

Tutte le forme linguistiche sono simboli,1 non le cose in sé, non segni convenuti, ma suoni, che con le cose e i concetti che rappresentano stanno, attraverso lo spirito in cui sono nati e ininterrottamente nascono, in un vero, se così lo si può chiamare, mistico rapporto, e che contengono gli oggetti della realtà come disciolti in idee, e che quindi possono modificare, definire, dividere e collegare in un modo che possiamo concepire illimitato.

Parole e oggetti stanno quindi in un rapporto misterioso, sembrano prescindere dalla volontà umana. Il dibattito in materia è di vecchia data, tanto che la prima testimonianza scritta nella nostra cultura risale addirittura a Platone, che, nel Cratilo (360 a.C. circa), mette Socrate nel ruolo di mediatore tra le due teorie, e assume una posizione estremamente aperta, secondo cui esiste sì un legame naturale tra oggetto e parola, ma non sufficiente per «giungere alla correttezza dei nomi»: sarebbe quindi necessaria anche una componente di arbitrarietà, il tutto relativizzato dalla possibilità di cambiamento insita nell’idea di moto, dinamismo della realtà. Passando per Dante e William of Ockham, che nel XIV secolo sosterranno, più o meno esplicitamente, il partito dei convenzionalisti, si dovrà arrivare a Peirce, nel 1900, per giungere a una teoria che reimposti il dibattito su più ampie basi. Allargato il concetto di segno a

1 Oggi ci è possibile ravvisare una somiglianza con l’accezione di “simbolo” usata da Francis Bacon nel De dignitate et augmentis scientiarum (1605); in modo speculare rispetto alla semiotica moderna “simbolo” indica anche qui «una relazione di parziale analogia con l’oggetto». (Osimo 2002: 26)

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tutto ciò che come tale viene percepito, Peirce distinguerà tre gradi di arbitrarietà (simbolo, indice e icona, dal più al meno arbitrario), e li inserirà in una concezione di interpretazione individuale dell’oggetto, passibile di differenze anche sostanziali a seconda delle culture personali di chi entra in contatto con il segno, e persino per lo stesso individuo, a distanza di tempo. Quasi uno sviluppo del pensiero platonico, a cui forse von Humboldt non arriva; ma nelle pagine dell’introduzione non mancano affermazioni molto moderne sul tema segno/oggetto. Vediamo fin dove si spinge in quest’affermazione:

Ein Wort ist so wenig ein Zeichen eines Begriffs, dass ja der Begriff, ohne dasselbe nicht entstehen, geschweige denn festgehalten werden kann; […]

Una parola è così poco il segno di un concetto, che già il concetto senza di essa non può nascere, per tacere della possibilità di essere fissato.

In queste poche parole si realizza una visione decisamente nuova, le cui conseguenze hanno una portata più che considerevole. Von Humboldt sostiene qui una tesi postulata per la prima volta nel 1651 da Hobbes,1 ma poi poco seguita, secondo cui le parole fungono nella nostra mente da etichette della realtà, ovvero ci mettono in grado, una volta richiamato il segno nella nostra memoria, di risalire alla categoria corrispondente; va anzi ancora più in là, suggerendo che non solo le parole ci servono per catalogare concetti già formati, ma addirittura che esse sono uno dei sistemi per riconoscere la realtà, per interpretare il mondo che ci circonda. Se non si è dato un nome a una certa entità, questa non è stata in realtà individuata come soggetto a sé, come categoria, non esiste come concetto. Riconoscimento dell’oggetto e formazione del segno che lo significa sono atti contemporanei.

E d’altronde è impossibile pensare che in questa catalogazione del mondo circostante l’uomo non sia influenzato dalle esperienze precedenti, dalla sua personalissima visione e dalla lingua che parla. Non è soltanto la realtà che forgia la lingua, ma è anche la lingua a forgiare la realtà, imponendo la propria struttura, la catalogazione del mondo percepito insita nella sua natura di sistema.

1 Thomas Hobbes, Leviathan, 1651

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Non credo sia sbagliato individuare in questa concezione un riflesso delle teorie kantiane,1 riprese anche da Schleiermacher e da tanta parte degli studi novecenteschi. Non c’è possibilità di una percezione neutra, perché tutte le immagini vengono adattate a schemi soggettivi interni già acquisiti; la percezione è un sistema di assimilazione di percezioni nuove a modelli vecchi. (Osimo 2002: 39) Diversamente da Kant però, von Humboldt ritiene possibile la formazione di categorie del tutto nuove, che cioè non sorgono per derivazione da schemi già presenti nella nostra mente, da cui dovrebbero distaccarsi in base a determinate caratteristiche che le rendano peculiari, ma nascono in modo originario. Ecco cosa dice:

Wenn man sich die Entstehung eines Worts menschlicher Weise denken wollte, so würde dieselbe der Entstehung einer idealen Gestalt in der Phantasie des Künstlers gleich sehen. Auch diese kann nicht von etwas Wirklichem entnommen werden, sie entsteht durch eine reine Energie des Geistes, und im eigentlichsten Verstande aus dem Nichts.

Se si volesse pensare al nascere di una parola in modo umano, allora esso assomiglierebbe alla nascita di una figura ideale nella fantasia dell’artista. Anche questa non può essere desunta da qualcosa di reale, nasce da una pura energia dello spirito, e, nel senso più vero, dal nulla.

Torna il concetto di spirito come legame naturale tra parola e oggetto. In un pensiero complesso, che tratta anche della natura della lingua come «prodotto di contemporanea interazione» tra i due soggetti tra cui avviene la comunicazione, von Humboldt sembra quasi divertirsi a mischiare le carte; quello “spirito” che poco prima era il luogo della nascita del legame tra suoni e oggetti diviene qui impalpabile, sfuggente, tanto che lo si può identificare con il nulla. Il misticismo di cui sopra si risolve quindi esclusivamente in chiave estemporanea, non ha alcun effetto sulla realtà. Il passo seguente procede ancora più chiaramente in questa direzione:

1 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, 1781

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Wie könnte daher je ein Wort, dessen Bedeutung nicht unmittelbar durch die Sinne gegeben ist, vollkommen einem Wort einer andren Sprache gleich seyn?

Come mai perciò potrebbe una parola, il cui significato non è dato direttamente dai sensi, essere completamente uguale alla parola di un’altra lingua?

Ecco che, accantonato lo spirito nel suo spazio mistico, appaiono i sensi, che soli potrebbero stabilire un legame di equivalenza tra le lingue. In realtà non c’è contraddizione in questa dicotomia spirito/sensi, l’importanza degli uni non svilisce il valore assoluto dell’altro. L’uomo, essere finito, può solo tendere all’infinito, mai raggiungerlo. La realtà che egli vive e in cui quindi la lingua si muove è quella dei sensi, del materiale, del finito. Altro è il luogo della generazione della lingua, patria dello spirito e dell’Assoluto. Sciolto il nodo filosofico possiamo continuare nella trattazione e, insieme a von Humboldt, trarre la conseguenza logica delle premesse date: se non c’è percezione neutra, se non c’è corrispondenza tra parola e oggetto insita nella realtà, è impensabile che esista una qualsiasi forma di equivalenza tra le lingue.

Verschiedene Sprachen sind in dieser Hinsicht nur ebensoviel Synonymieen, jede drückt den Begriff etwas andres, mit dieser oder jener Nebenbestimmung, eine Stufe höher oder tiefer auf der Leiter der Empfindungen aus

Diverse lingue sono, sotto quest’aspetto, solo altrettante sinonimie: ognuna esprime il concetto un po’ diversamente, con questa o quella determinazione secondaria, un gradino più in alto o più in basso sulla scala delle sensazioni.

Svanisce quindi l’illusione di poter tradurre parola per parola, ricalcando strutture e lessico dell’originale.1 La traduzione si carica così di un valore ulteriore, trasformandosi in mediazione tra culture, e non solo tra lingue. Analizzerò più approfonditamente questo aspetto nel capitolo 5. È una posizione, questa che sottolinea l’importanza dell’aspetto culturale e rifiuta le equivalenze, che avrà grande

1 Bisogna tener presente però la distinzione, esplicitata per la prima volta da Benedetto Croce nell’Estetica del 1902, tra la terminologia scientifica e le parole comuni, dal più ampio spettro semantico e quindi più difficilmente traducibili. Von Humboldt non si dilunga in merito, e si limita a scrivere che, parlando di equivalenze, bisogna astrarre «dalle espressioni designanti semplicemente oggetti fisici».

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fortuna nel corso di tutto il XX secolo, ma che ancora oggi, a quasi due secoli di distanza, è troppo spesso negletta da tanti traduttori, specialmente da quelli che mancano di una formazione specifica, convinti di raggiungere il proprio scopo semplicemente ricalcando l’originale. Una convinzione inaccettabile e assolutamente deleteria, contro cui lo stesso von Humboldt si schiererà.

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Capitolo 3 LA FEDELTÀ

Il dibattito sulla fedeltà è sempre stato centrale nella storia della traduzione. Ma se l’idea generale è unanimemente accettata come positiva, c’è invece grande disaccordo sulla definizione di tale concetto, poiché non dà in realtà nessuna indicazione pratica che permetta di capire quali norme seguire, quali criteri rispettare. «La fedeltà non è letteralità né alcun artificio tecnico per rendere lo “spirito”. L’intera formulazione, come l’abbiamo trovata ripetutamente nel dibattito sulla traduzione, è disperatamente vaga» (Steiner: 318). Se la teoria di von Humboldt da un lato rispecchia questa vaghezza, cosicché il limite oltre il quale non è consentito andare rimane personalissima interpretazione del traduttore, d’altra parte egli enuncia a chiare lettere alcuni princìpi molto più pratici che, in alcuni casi, sono ancora oggi di grande attualità.

CONTRO LA PEDANTERIA E PER LA COERENZA TESTUALE

Incomincerò la mia analisi proprio da uno di questi princìpi. Von Humboldt ha appena finito di dire che è impossibile che esista uguaglianza tra parole di lingue diverse. La considerazione che ne trae è la seguente:

Man kann sogar behaupten, dass eine Uebersetzung um so abweichender wird, je mühsamer sie nach Treue strebt. Denn sie sucht alsdann auch feine Eigenthümlichkeiten nachzuahmen, vermeidet das bloss Allgemeine, und kann doch immer nur jeder Eigethümlichkeit eine verschiedene gegenüberstellen.

Si può addirittura affermare che una traduzione è tanto più fuorviante quanto più tenta faticosamente di essere fedele. Perché cerca di imitare anche le più sottili particolarità, evita ciò che è semplicemente comune e tuttavia può sempre opporre a ogni particolarità solo una particolarità differente.

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Sono due i grandi concetti qui accennati dall’autore. Per prima cosa si rifiuta ogni forma di traduzione che, per eccessiva pedanteria, tenda a ricalcare l’originale senza altra accortezza se non quella di essergli vicino. Questo modo di lavorare, pur animato dalle migliori intenzioni, ha spesso il difetto di travisare il senso dell’originale, o quantomeno di trasformarlo secondo l’interpretazione del traduttore. Scovando nel prototesto tutte le sfumature e i sottintesi e cercando di avvicinarvisi, questi sarà tentato di utilizzare forme meno consuete, che hanno l’enorme difetto di presentare a loro volta sfumature e implicazioni differenti e di non rispettare il carattere generico – o meno – dell’originale. Il traduttore, confuso dalla sua ricerca del dettaglio, perde di vista il significato primo delle parole e la diversità semantica delle parole nelle lingue, e crea un testo, per assurdo, non fedele:

Wenn man die besten, sorgfältigsten, treuesten Uebersetzungen genau vergleicht, so erstaunt man, welche Verschiedenheit da ist, wo man bloss Gleichheit und Einerleiheit zu erhalten suchte.

Se si confrontano attentamente le traduzioni migliori, più accurate, più fedeli, ci si stupisce nel constatare quale differenza ci sia dove si è cercato di raggiungere semplicemente l’uguaglianza e l’uniformità.

L’altra idea insita nel pensiero sopra riportato è quella del testo come unità minima di riferimento. Certo, von Humboldt non la formula esplicitamente, ma non credo di esagerare vedendo nelle sue parole un richiamo alla coerenza del metatesto; perché il grande rischio insito in uno studio minuzioso del particolare è proprio che il senso e lo stile del prototesto sfuggano al traduttore, e che quindi la sua opera sia fedele alle singole parole, ma non fedele al testo come entità unica.

CONTRO OGNI MODIFICA

Sulla stessa linea si collocano anche molte altre osservazioni humboldtiane circa la necessità di rispettare l’originale evitando ogni intromissione, conscia o inconscia, dello stile, delle idee e dell’interpretazione del traduttore. In pagine che meriterebbero ancora oggi di essere studiate da chi si appresta ad affrontare un lavoro di traduzione, il nostro ci mette in guardia contro tutte queste tendenze, cominciando

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da quella di appiattire ciò che risulta estraneo, e di trasformarlo in un elemento noto alla cultura ricevente.

Man hörte wohl sonst sagen, dass der Uebersetzer schreiben müsse, wie der Originalverfasser in der Sprache des Uebersetzers geschrieben haben würde (ein Gedanke, bei dem man nicht überlegte, dass, wenn man nicht bloss von Wissenschaften und Thatsachen redet, kein Schriftsteller dasselbe und auf dieselbe Weise in einer andren Sprache geschrieben haben würde).

Si è peraltro spesso sentito dire che il traduttore dovrebbe scrivere come l’autore dell’originale avrebbe scritto nella lingua del traduttore (un pensiero in cui non si è considerato che, se non si parla di scienze o fatti concreti, nessuno scrittore avrebbe scritto la stessa cosa e nello stesso modo in un’altra lingua).

Niente trasformazione degli elementi culturospecifici dunque, che impedirebbero innanzitutto la fruizione del testo originale nella sua versione più integra, e, fattore forse ancora più importante nella visione humboldtiana, impedirebbero quell’interscambio culturale che è il prodotto migliore dell’atto traduttivo. (Tratterò più a fondo questo argomento nel corso del prossimo capitolo. Si può notare frattanto come il passo sopra citato rimandi all’idea per cui l’uomo è prodotto della sua cultura e della sua lingua, dal che si deduce quanto la traduzione sia una traduzione di culture.)

Discorso analogo vale per la riproduzione del ritmo e delle forme metriche, cui von Humboldt dice di aver prestato particolare attenzione. Egli individua nel metro della poesia greca il «fondamento d’ogni bellezza» e per questo sostiene l’importanza di riprodurlo il più esattamente possibile, senza adattarlo agli usi nazionali e senza indugiare in scelte che semplificherebbero sì il lavoro del traduttore e renderebbero forse la lettura più sciolta, ma che non sarebbero altrettanto testimoni dello splendore originale. È l’orecchio degli ascoltatori che deve essere addomesticato alle inflessioni straniere, non viceversa.

A latere di queste considerazioni ve ne sono due che riguardano proprio la questione del ritmo e che sono comunque rilevanti nel nostro discorso. La prima riguarda la superiorità della lingua greca in fatto di ritmica e espressività. Nessun’altra lingua è in grado di eguagliare questa in quanto a forma, secondo il principio già citato più volte della perfezione della cultura greca rispetto a tutte

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quelle seguenti. Credo possa essere interessante far notare, lasciando il giudizio in merito a chi più è addentro alla questione, una dichiarazione dell’autore secondo cui solo il tedesco, tra le lingue moderne, avrebbe le qualità per avvicinarsi a riprodurre tanta bellezza.

Der Rhythmus, wie er in den griechischen Dichtern, und vorzüglich in den dramatischen, denen keine Versart fremd bleibt, waltet, ist gewissermassen eine Welt für sich, auch abgesondert vom Gedanken, und von der von Melodie begleiteten Musik. Es stellt das dunkle Wogen der Empfindung und des Gemüthes dar, ehe es sich in Worte ergiesst, oder wenn ihr Schall vor ihm verklungen ist. Die Form jeder Anmuth und Erhabenheit, die Mannigfaltigkeit jedes Charakters liegt in ihm, entwickelt sich in freiwilliger Fülle, verbindet sich zu immer neuen Schöpfungen, ist reine Form, von keinem Stoffe beschwert, und offenbart sich an Tönen, also an dem, was am tiefsten die Seele ergreift, weil es dem Wesen der inneren Empfindung am nächsten steht.

Il ritmo, com’esso domina nei poeti greci, e specialmente nei drammatici, a cui nessun tipo di verso è estraneo, è in certo qual modo un mondo a sé, distinto anche dal pensiero e dalla musica accompagnata dalla melodia. Rappresenta l’oscuro ondeggiare del sentimento e del temperamento, prima che esso sgorghi in parole o quando il loro suono si è spento. La forma di ogni grazia e nobiltà, la multiformità di ogni carattere vi è presente, si sviluppa in spontanea pienezza, si collega a creazioni sempre nuove, è pura forma, non appesantita da alcuna sostanza, e si manifesta in suoni, ovvero in ciò che più profondamente tocca l’anima, poiché è il più vicino all’essenza del sentimento interiore.

Questo breve paragrafo contiene anche una prima indicazione del valore della musica nella cultura romantica. Come un secolo più tardi per gli astrattisti, la musica, in special modo quando non è accompagnata dal canto, è considerata in questo tempo l’arte suprema, la più pura, perché non è appesantita dalla forma, dalla referenzialità; libera, immacolata manifestazione del sentimento interiore, tocca l’anima e trascende la materialità delle cose. La lingua non è altro che uno strumento che deve essere suonato in tutte le sue potenzialità; per questo sarebbe ingiusto ogni adattamento di una composizione alle orecchie degli ascoltatori, perché, oltre a non rispettare l’originale, mutilerebbe le capacità espressive della lingua.

Ma l’attenzione di von Humboldt si dirige non solo alla generalizzazione, bensì a tutti quei procedimenti che tendono a trasformare il prototesto, e, con la motivazione di renderlo meglio fruibile, ne fanno una creatura del traduttore, che diviene così colpevole di appropriazione, se così si può dire, indebita. Tre sono le categorie di

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trasformazione citate dall’autore, quasi tre variazioni dello stesso principio: semplificazione, commento (o disambiguazione, come diremmo oggi) e «ornamentazione estranea» all’originale.

Le prime due indicano la tendenza a semplificare il testo ove questo appaia oscuro o di difficile lettura, sostituendo magari alle forme complesse un’interpretazione delle stesse; una cosa è però evitare in ogni modo quei problemi di lettura che derivano solo dalla trasposizione in un diverso codice linguistico, atto certamente giustificato e anzi necessario; altra cosa è banalizzare ciò che è particolare, e rendere chiaro ciò che non lo è.

[Man muss] nicht verlangen, dass das, was in der Ursprache erhaben, riesenhaft und ungewöhnlich ist, in der Uebertragung leicht und augenblicklich fasslich seyn solle.

[Non bisogna] pretendere che quanto nella lingua originale è sublime, portentoso e insolito debba essere nella traduzione leggero e immediatamente comprensibile.

Anche perché spesso la qualità di una produzione risiede proprio nel modo particolare in cui l’autore ha fatto uso delle regole e delle possibilità espressive offertegli dal codice che usa, a volte tralasciando dei passaggi logici, a volte infrangendo le norme retoriche o perfino le regole grammaticali stesse; sono questi gli elementi che rendono personale uno stile e che, se ben utilizzati, lo nobilitano e contribuiscono a fornire alla lingua nuove capacità espressive. Essi non sono quindi errori, non stonano, bensì riflettono il sentimento più vero. Quasi una teorizzazione dello stream of consciousness:

Die Dunkelheit, die man in den Schriften der Alten manchmal findet, und die gerade der Agamemnon vorzüglich an sich trägt, entsteht aus der Kürze, und der Kühnheit, mit der mit Verschmähung vermittelnder Bindesätze, Gedanken, Bilder, Gefühle, Erinnerungen und Ahndungen, wie sie aus dem tief bewegten Gemüthe entstehen, an einander gereiht werden.

L’oscurità che talvolta si trova negli scritti degli antichi, e che proprio l’Agamennone presenta in modo esemplare, deriva dalla concisione e arditezza con le quali, con sprezzo delle proposizioni coordinative, vengono allineati in successione pensieri, immagini, sentimenti, ricordi e presentimenti così come sgorgano dalla profonda commozione dell’animo.

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Semplificazione e esplicitazione dei costrutti più complessi si accompagnano poi spesso alla smania di ritoccare il prototesto per migliorarlo, magari nel goffo tentativo di compensare altre bellezze che non si è riusciti a rendere adeguatamente.

Das Unvermögen, die eigenthümlichen Schönheiten des Originals zu erreichen, führt gar zu leicht dahin, ihm fremden Schmuck zu leihen, woraus im ganzen eine abweichende Farbe, und ein verschiedener Ton entsteht.

L’incapacità di raggiungere le bellezze proprie dell’originale porta fin troppo facilmente a conferirgli un’ornamentazione estranea, cosicché nell’insieme ne viene una coloritura fuorviante e un tono diverso.

Si può intravedere qui una sorta di estremismo conservatore, nel senso che von Humboldt si schiera contro quella concezione di “economia del testo”, che sebbene non sia stata ancora formulata esplicitamente, è conseguenza diretta del principio, da lui stesso in qualche modo avanzato, per cui il testo è l’unità minima di riferimento. Questo principio è quindi per lui veritiero solo nella misura in cui serve a comprendere il senso generale dell’opera, a evitare di tradire, per amore del particolare, la visione generale; rifiuta invece in toto l’idea di poter recuperare in un punto vicino del testo ciò che è stato impossibile mantenere altrove. Ci si può chiedere però se davvero la sua critica sia così intransigente da non permettere l’applicazione di questo principio almeno in piccola misura, attenendosi comunque al carattere del prototesto.

È qui che la teoria humboldtiana incappa nel suo grande problema, quello della vaghezza, cui si è fatto cenno anche nell’introduzione a questo capitolo. Von Humboldt vieta infatti ogni abbellimento eccessivo, che svii dal tono originale, ma non può non lasciare l’interpretazione di questo limite al singolo. Tutta questa esposizione di saggi princìpi – i primi due sono in effetti assolutamente ineccepibili ed evidentemente moderni – approda infatti a un’equivalenza tra fedeltà e semplicità che, se da una parte è certo veritiera, risulta dall’altra troppo indefinita per poter assurgere a principio tecnicamente valido. Vediamo i passaggi più significativi:

Mit dieser Ansicht ist freilich nothwendig verbunden, dass die Uebersetzung eine gewisse Farbe der Fremdheit an sich trägt, aber die Gränze, wo dies ein nicht abzuläugnender Fehler wird, ist hier sehr leicht zu ziehen. Solange nicht die Fremdheit, sondern das Fremde gefühlt wird, hat die Uebersetzung ihre höchsten

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Zwecke erreicht; wo aber die Fremdheit an sich erscheint, und vielleicht gar das Fremde verdunkelt, da verräth der Uebersetzer, dass er seinem Original nicht gewachsen ist. Das Gefühl des uneingenommenen Lesers verfehlt hier nicht leicht die wahre Scheidelinie.

A questa visione è necessariamente legato il fatto che la traduzione rechi in sé un certo tono di estraneità, ma la soglia ove ciò diviene un errore incontestabile è qui molto facile da determinare. Finché non viene percepita l’estraneità, ma l’estraneo, la traduzione ha raggiunto i suoi più alti scopi; ma dove l’estraneità stessa appare, e magari addirittura oscura l’estraneo, lì il traduttore tradisce di essere inferiore al suo originale. Alla sensibilità del lettore non prevenuto difficilmente sfuggirà la vera linea di demarcazione.

e ancora:

Dieser hier eben geschilderten Einfachheit und Treue habe ich mich […] zu nähern gesucht. Bei jeder neuen Bearbeitung habe ich gestrebt immer mehr von dem zu entfernen, was nicht gleich schlicht im Texte stand.

Ho cercato di avvicinarmi alla semplicità e alla fedeltà testé descritte. […] È stata mia ambizione prendere sempre più le distanze da quanto il testo non conteneva in modo evidente.

Può essere interessante inoltre notare che il raggiungimento di tanta perfezione non deve però essere frutto di continui rimaneggiamenti, ma di una «prima felice ispirazione», concezione sicuramente influenzata dal pensiero romantico della spontaneità dell’atto artistico.

Al di là di questa osservazione, il fattore decisivo è quindi l’aderenza all’originale, che si manifesta sostanzialmente attraverso «il rigore storico» (e qui von Humboldt apre una polemica contro quei traduttori che, non seguendo un principio filologico coerente, scelgono arbitrariamente tra le diverse interpretazioni critiche e le soluzioni proposte), «l’abnegazione e la serietà con sé stessi» nel non cedere a semplificazioni e cambiamenti impropri, tesi a migliorare la leggibilità, il «semplice e non pretenzioso amore dell’originale» e lo «studio che ne segue». Sono tutti princìpi sicuramente validi, ma la cui definizione stenta a raggiungere una scientificità, un’obbiettività sufficiente a renderli soluzione dell’annoso problema.

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Non può d’altronde non essere così, perché manca in vonHumboldt la formulazione del concetto di “dominante”,1 senza la quale qualsiasi tentativo di approccio analitico al problema della fedeltà è necessariamente destinato a naufragare. Perché la nostra trattazione di questo argomento non si concluda con un’apparente giudizio complessivo negativo, vale la pena di ricordare quanto il pensiero humboldtiano sia improntato alla conservazione degli elementi specifici del prototesto, a un decisa tendenza all’adeguatezza2 assolutamente moderna.

1 L’intuizione prima risale a Žukovskij, traduttore russo che nel saggio Sulle traduzioni in generale e in particolare sulle traduzioni poetiche (1810) ne fa implicitamente la base dell’analisi traduttologica; è però difficilmente immaginabile che il trattato avesse conosciuto già nel 1816 diffusione in Europa, e, se anche ciò fosse avvenuto, che gli eventuali lettori d’allora fossero riusciti a estrapolarla dalla sua formulazione implicita. Ad esclusione del Berchet (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, 1817), nessun altro farà riferimento esplicito a un simile principio fino al XX secolo, e solo negli anni ‘30 si avrà una sua definizione scientifica. (Jakobson, 1935: 41)

2 Toury, 57

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Capitolo 4
UTILITÀ E LIMITI DELLA TRADUZIONE

Ma qual è dunque lo scopo di una traduzione? Ha senso tentare di riprodurre un testo sapendo che è impossibile stabilire delle equivalenze tra le lingue? Si può trarre un qualche vantaggio effettivo da questa complicata attività, o essa si riduce a un inutile tentativo di riproduzione, una brutta copia di qualcosa che non potrà mai essere presentato nella sua interezza ai lettori della traduzione?

Abbiamo visto infatti come von Humboldt metta in guardia, oltre che dai tentativi di migliorare il testo originale, anche dal ritenere possibile una traduzione che, basandosi essenzialmente su criteri filologici e di analisi delle minuzie del prototesto, arrivi a trasmettere l’interezza del messaggio. L’abbiamo anche sentito dire che le “migliori” traduzioni possono differenziarsi in modo consistente, tanto che è possibile ravvisare tra loro disuguaglianze tali da compromettere, nell’una o nell’altra versione, il significato del testo originario. Ma che senso ha allora tradurre?

L’autore, conscio delle pessimistiche conclusioni che da tali considerazioni si potrebbero trarre, ci viene subito in soccorso chiarendo che queste osservazioni circa le numerose difficoltà insite nel processo traduttivo non devono distogliere dal tradurre.

Das Uebersetzen, und gerade der Dichter, ist vielmehr eine der nothwendigsten Arbeiten in einer Literatur, theils um den nicht Sprachkundigen ihnen sonst ganz unbekannt bleibende Formen der Kunst und der Menschheit, wodurch jede Nation immer bedeutend gewinnt, zuzuführen, theils aber, und vorzüglich, zur Erweiterung der Bedeutsamkeit und der Ausdrucksfähigkeit der eigenen Sprache.

La traduzione, in special modo dei poeti, è anzi uno dei compiti più necessari per una letteratura, in parte per fornire a coloro che non conoscono la lingua forme dell’arte e dell’umanità che altrimenti resterebbero loro estranee, dal che ogni nazione trae sempre cospicuo vantaggio, ma in parte – specialmente – per accrescere l’importanza e la capacità espressiva della propria lingua.

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Sono due le considerazioni che ritengo utile fare su questo passo. La prima, di fondamentale importanza, è quella dell’interazione tra le culture, che von Humboldt vede sempre in una luce estremamente positiva, e della traduzione come fenomeno culturale. Non si importano solo «forme dell’arte», ma anche «dell’umanità»: ciò significa che attraverso la traduzione il lettore entra in contatto con mondi diversi dal proprio, e dalla conoscenza di questi trae vantaggio in quanto approda a una migliore conoscenza di sé. È infatti principalmente attraverso l’esperienza del diverso che si diventa coscienti delle proprie peculiarità, che si riconosce la propria diversità, che è poi l’identità di ciascuno. Questo tipo di pensiero è d’altronde in linea con la filosofia romantica di equiparazione delle culture cui ho accennato più volte, tanto che sarà postulato in termini simili anche da Žukovskij, nel 1810, e da Leopardi nello Zibaldone (1820). In modo più vago l’idea di fecondità dello scambio culturale insito nella traduzione è però già presente dall’antichità, tanto che Aristotele, in Della poetica (Peri poietikes, 350 a.C. circa) si pronuncia a favore dei «barbarismi», cioè di un «elemento esotico [che] produrrà il carattere non pedestre»; sarà poi san Gerolamo, nel Liber de optimo genere interpretandi (390 circa), a entrare più specificamente nel merito, e a pronunciarsi per il mantenimento degli elementi altrui.

L’altro punto d’interesse del passo citato è quello per cui la traduzione accresce le possibilità espressive della lingua. In base a questa affermazione è possibile comprendere appieno il valore di quanto esposto nei capitoli precedenti, sia quando von Humboldt si riferiva alla lingua come a uno strumento che deve essere suonato in tutte le sue possibilità, e che quindi deve ricevere degli stimoli esterni per ampliare le proprie capacità espressive, sia quando si batteva contro la semplificazione, la disambiguazione e ogni forma di modifica che rendesse la traduzione più facilmente accessibile, ma per questo meno aderente al prototesto. Si tratta infatti di espedienti che tendono a disconoscere il valore della diversità, che tentano di spacciare il prodotto della creatività altrui per prodotto della propria cultura, rendendo così un pessimo servigio non solo all’autore dell’originale, ma anche alla cultura ricevente, che viene privata di un importante stimolo alla crescita. È l’interscambio culturale che fa progredire l’uomo, e lo sviluppo della lingua non è che un sintomo di questa evoluzione; per questo è tanto importante mantenere tutti gli elementi

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culturospecifici. (cap. 3) Ho detto nel terzo capitolo come la lingua cresca seguendo un cammino che la porta dapprima a bastare alle esigenze più comuni, e poi a esprimere più alti concetti; questo miglioramento avviene ad opera dello «spirito delle nazioni», ovvero della capacità delle singole culture di recepire gli impulsi provenienti dall’esterno.

[Der Geist der Nation] bearbeitet [die Sprachen, die dadurch] bis ins Unendliche hinzu einem höheren, und immer mannigfaltigeren [Gebrauch] gesteigert werden können. […] so wird die Sprache, ohne eigentlich merkbare Veränderung, zu einem höheren Sinne gesteigert; zu einem mannigfaltiger sich darstellenden ausgedehnt. Wie sich aber der Sinn der Sprache erweitert, so erweitert sich auch der Sinn der Nation.

[Lo spirito della nazione] elabora [le lingue, che così] possono essere elevate all’infinito verso un uso più alto e sempre più multiforme. […] e così la lingua, senza sensibile mutamento, viene elevata a un significato più alto, viene estesa a un significato capace di raffigurarsi in modo più vario. Ma come si amplia il senso della lingua, così si amplia il senso della nazione.

Il che significa appunto che, data la reciproca influenza esistente tra lingua e realtà, insieme alla prima si modifica anche il modo di intendere la seconda, di comprendere gli altri, e, di conseguenza, sé stessi. Ecco quindi che le modificazioni della cultura non sono solo per gli eruditi, ma per tutti, perché è l’intera comunità a essere investita dalle innovazioni provenienti dall’esterno.

Wie hat, um nur dies Beispiel anzuführen, nicht die Deutsche Sprache gewonnen, seitdem sie die Griechischen Silbenmasse nachahmt, und wie vieles hat sich nicht in der Nation, gar nicht bloss in dem gelehrten Theile derselben, sondern in ihrer Masse, bis auf Frauen und Kinder verbreitet, dadurch entwickelt, dass die Griechen in ächter und unverstellter Form wirklich zur Nationallecture geworden sind?

Per fare solo un esempio, quanto vantaggio non ha tratto la lingua tedesca da quando imita la metrica greca e quanto non si è sviluppato nella nazione – non solo nella sua parte dotta, ma nella massa, fino a estendersi alle donne e ai bambini – da che i greci sono diventati, in una forma vera e priva di alterazioni, davvero lettura nazionale?

Ritorna qui il concetto di superiorità della cultura greca, per cui, attraverso la traduzione delle opere dell’antichità ellenica e l’inserimento di elementi tipici di tale civiltà, si porta grande vantaggio alla metacultura. Sembra di intravedere nel passo

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citato una prefigurazione delle teorie di Lotman,1 semiotico della seconda metà del XX secolo, che paragona la semiosfera, ovvero l’universo della significazione, a un organismo, di cui le singole culture – nazionali, locali, personali – costituiscono le cellule, che hanno bisogno, per sopravvivere, di uno scambio di informazioni. Il rapporto proprio/altrui è quindi sempre apportatore di benefici, anzi, la sua mancanza ha conseguenze negative in termini di mancato sviluppo, di atrofia quasi.

Von Humboldt entra infatti in polemica con le traduzioni francesi di quel periodo, colpevoli secondo lui di aver sottratto alla nazione un possibile stimolo di crescita. Il riferimento qui è alle belles infidèles, ovvero a quel tipo di traduzioni, molto in voga appunto nella Francia sei-settecentesca, che eliminavano ogni intralcio alla comprensione naturalizzando tutti quegli elementi che sarebbero risultati estranei alla cultura ricevente. Nell’applicazione di tale principio si andò così in là da mantenere a volte in comune col prototesto solo l’argomento, per poi modificare la forma secondo il proprio gusto: l’originale non era altro che un pretesto per una nuova creazione.

A chi volesse confutare il suo giudizio negativo, von Humboldt chiede:

Denn woher käme es sonst, dass, da doch alle Griechen und Römer im Französischen, und einige in der gegebenen Manier sehr vorzüglich übersetzt sind, dennoch auch nicht das Mindeste des antiken Geistes mit ihnen auf die Nation übergangen ist, ja nicht einmal das nationelle Verstehen derselben (denn von einzelnen Gelehrten kann hier nicht die Rede seyn) dadurch im Geringsten gewonnen hat?

Perché come si spiegherebbe altrimenti, dato che tutti i greci e i romani sono stati tradotti in francese, e alcuni in modo eccellente secondo le modalità precisate, il fatto che ciononostante nemmeno la più piccola parte dello spirito antico sia stato trasmesso attraverso di essi alla nazione, e che neppure la comprensione nazionale degli stessi (ché qui non ci si può riferire a singoli eruditi) ne abbia tratto il minimo vantaggio?

Il compito del traduttore invece è proprio quello di mettere in comunicazione i due mondi, permettendo la reciproca fecondazione. È facile individuare in questa assunzione di responsabilità una certa somiglianza con la figura del poeta-vate. Egli vigila nel buio della notte, uomo eletto che solo può favorire, con la sua opera, l’avvicinarsi del nuovo giorno. Similmente il traduttore, essendo una particolare

1 Lotman, 1985

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specie di artista e conoscendo più lingue, ovvero diversi universi culturali, è chiamato a portare nel buio del presente un po’ di quella luce che promana dagli scritti degli antichi. Si spiega così anche la ragione per cui von Humboldt traduce solo dal greco, lingua dell’“armonia perduta”.

D’altronde è anche perfettamente conscio dei limiti della traduzione, e non solo per i motivi tecnici che abbiamo visto. Al contrario delle opere originali, le traduzioni non possono essere eterne, perché sono solo l’attualizzazione momentanea di un’idea; se la seconda, pur nella diversità delle interpretazioni, vive finché è ricordata, la traduzione perde tutta la sua importanza nel momento in cui la lingua in cui è stata elaborata si modifica. Col decadere di un’espressione, con l’acquisizione nella lingua standard di costrutti o vocaboli precedentemente recepiti come marcati, la traduzione necessita di un rifacimento, perché la sua vitalità non vada persa. Ma proprio per questo è anche uno strumento importantissimo al fine di valutare lo stato di una lingua nel suo cammino evolutivo; la caducità delle traduzioni è in fondo un elemento positivo, poiché testimonia il fatto che la lingua, e con essa la cultura, di cui è specchio, è in continuo progresso. La traduzione è poi un atto assolutamente personale, dato che ogni traduttore opera, al di là del tentativo – da parte di alcuni – di non lasciarsi influenzare dalle idee proprie, secondo la sua interpretazione del testo, secondo la sua comprensione degli elementi che compongono l’originale. Dalla fusione delle idee di «residuo» (implicitamente espressa da von Humboldt quando scrive del tentativo di colmare con aggiunte proprie «l’incapacità di raggiungere le singole bellezze dell’originale») e di «soggettività dell’interpretazione» egli forgia, se così si può dire, quella di “soggettività della traduzione”: non c’è traduzione perfetta perché ognuno dovrà effettuare delle scelte che per forza di cose escludono determinati aspetti, ne salvano o ne amplificano altri, e forniscono dell’originale solo un’idea parziale. Anche per questo le traduzioni vanno ripetute e sono necessarie al lettore più versioni per arrivare a comprendere meglio il contenuto e la forma del prototesto.

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[Die Uebersetzungen] sind ebensoviel Bilder desselben Geistes; denn jeder giebt den wieder, den er auffasste, und darzustellen vermocht; der wahre ruht allein in der Urschrift.

[Le traduzioni] sono altrettante immagini dello stesso spirito, poiché ognuno rende quel che ha potuto comprendere e rappresentare: il vero spirito riposa soltanto nel testo originale.

La luce irradiata da una traduzione è in realtà solo un riflesso, oscurato dalle difficoltà linguistiche e culturali e dalla limitatezza dell’uomo traduttore. Se l’Arte trascende questi limiti grazie alla sua originalità e purezza, riuscendo a raggiungere l’eterno e illuminando di luce propria il mondo, la traduzione ne è invece prigioniera, perché non è un’opera originale e perché è troppo legata alla realtà contingente della lingua e della cultura. Essa assolve il suo compito quando mostra almeno una parte di quello slancio verso l’infinito che è l’Arte; è, in perfetta armonia con lo spirito romantico, il tentativo di riprodurre ciò che vuole ascendere alla perfezione, è desiderio del desiderio.1

1 Berman tratta ampiamente questo tema. Di particolare interesse a questo proposito, sono i capitoli 6 e 7. Mi limito qui a un’osservazione: Berman sottolinea più volte come la traduzione fosse ritenuta,per esempio da Novalis, superiore all’originale,in quanto libera ciò che nel testo è più vero, sciogliendolo dalla referenzialità al reale e rendendolo autoreferenziale. Che il testo perda così in leggibilità e chiarezza è, per i romantici, del tutto secondario; bisogna anzi ricordare come l’oscurità e il mistero fossero da loro elevati a «stato di grazia» (ancora Novalis), cosicché una minore chiarezza non è più un difetto, ma un cospicuo vantaggio.

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Capitolo 5 CONCLUSIONI

Ho già espresso nel corso dei capitoli precedenti l’alta considerazione per i molti e sapienti spunti offerti dalle pagine humboldtiane, e di aver evidenziato il principale difetto della sua trattazione. Vorrei ora trattare più ampiamente queste osservazioni, per poter dare una valutazione critica in relazione alle più moderne teorie e alle mie idee personali.

Già dalle prime letture del testo emergono chiaramente sia la sua modernità che la vaghezza nella definizione della fedeltà. In poche pagine – le osservazioni sulla teoria del tradurre occupano, nell’edizione originale, dieci pagine di un libro di piccole dimensioni – von Humboldt condensa una quantità davvero notevole di concetti relativi, come si è visto, non solo alla sua attività particolare o all’opera di cui queste pagine sono l’introduzione, ma all’attività del tradurre in generale. È già questa una scelta importante, poiché testimonia la coscienza di von Humboldt di non essere un semplice traduttore, ma un conoscitore dei sistemi linguistici in senso molto lato, tanto che sente necessario esporre quanto ha compreso ed elaborato.

È probabile che senta in qualche misura l’influenza del discorso che Friedrich Schleiermacher aveva letto solo tre anni prima all’Accademia Reale delle Scienze di Berlino, con cui gettava le basi per la moderna scienza della traduzione. Ma tale influenza sembra più di intenti che non di contenuti, nel senso che i concetti che si presentano simili in entrambe le trattazioni sono relativamente pochi. Von Humboldt si inserisce nel dibattito aperto dal collega, ma si addentra nell’argomento in modo molto più particolareggiato, scendendo più nel concreto, pur non disdegnando di affrontare problemi generali come quello dell’arbitrarietà del segno. L’approccio rimane normativo, e non descrittivo, come è d’altronde tipico di tutta la produzione fino a buona parte del XX secolo; von Humboldt cioè non si limita a descrivere funzioni e limiti delle diverse strategie traduttive, ma le giudica, bollando talune abitudini come inadeguate o fuorvianti.

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Un tale approccio è però destinato a fallire, come ho detto a suo tempo, in mancanza di una categoria come quella della «dominante», che aiuti a determinare come e dove porre un limite al lecito; von Humboldt tenta infatti di scendere nello specifico, di indicare quali procedimenti sono necessari e quali accettabili, ma, sebbene non lo ammetta mai esplicitamente, si può riscontrare un certo imbarazzo nel determinare quale sia il confine da non oltrepassare, imbarazzo che si muove sottopelle per buona parte della trattazione, fino a sfociare in un’affermazione quantomeno goffa:

Das Gefühl des uneingenommenen Leser verfehlt hier nicht leicht die wahre Scheidelinie.

Alla sensibilità del lettore non prevenuto difficilmente sfuggirà la vera linea di demarcazione.

È un’affermazione fatta di negazioni, quasi a testimonianza formale della vaghezza del contenuto cui fa riferimento. È certo un peccato perdonabile, dato che il concetto di dominante è assolutamente nuovo per l’epoca.1 Se proprio si dovesse trovare un difetto allo scritto humboldtiano, lo si potrebbe individuare nella scarsa organicità dei contenuti. La dissertazione è talvolta frammentaria, e spesso per estrapolare i concetti espressi e poterne godere nella loro complessità e completezza è necessario un lavoro non trascurabile di interpretazione. Con questo non voglio dire che il testo non sia di piacevole lettura, anzi: forse proprio a favore di una maggiore scorrevolezza von Humboldt ha sacrificato una certa scientificità nella struttura, conferendo all’argomentazione un tono molto discorsivo; mi sembra quasi che non si sia voluto soffermare nella spiegazione dei tanti concetti appena accennati, per timore di annoiare il lettore o per il pudore di non dilungarsi troppo in un àmbito

1 Per la datazione del concetto di «dominante» si veda la nota a p. 25. A proposito invece del problema della «linea di demarcazione» rilevo con interesse le osservazioni di Berman (p. 198-199), che sottolinea il valore dell’estraneo nella cultura romantica e la conseguente posizione privilegiata della traduzione in quanto luogo dello scambio interculturale; ma soprattutto Berman propone una lettura che credo meriti un’attenta riflessione (e che è purtroppo impossibile presentare qui per esteso); egli mette in risalto il paradosso di una cultura, quella romantica, che cerca sì la crescita delle nazioni nella conoscenza dell’estraneo, esaltandone i valori, ma che al contempo vuole proteggere la propria identità dalla «mozione violenta» dell’estraneo. Berman suggerisce addirittura (e non solo in queste pagine; si vedano le p. 174-178) che una tale posizione di rifiuto di ciò che è troppo diverso sia equiparabile alle traduzioni etnocentriche della Francia sei-settecentesca.

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– quello dell’introduzione a un libro – che forse non riteneva adatto a una trattazione più ampia.

Detto questo, è ineccepibile il fatto che von Humboldt apra nuovi orizzonti alla scienza della traduzione, dando un riferimento concreto a parte delle affermazioni che Schleiermacher aveva lasciato alla pura teoria. La sua posizione è talmente importante da poter essere considerata il punto di svolta nella storia della traduzione, almeno per quanto riguarda il concetto di fedeltà. Se il dibattito esisteva da tempo, poco si era avanzati fino a quel punto dalla posizione di Cicerone, dal suo «sdebitarsi in solido» del debito contratto col lettore del testo tradotto. Era una filosofia certamente adatta alla situazione dell’epoca, in cui le traduzioni erano più che altro un esercizio di retorica, dato che la maggior parte dei lettori di allora poteva affrontare senza fatica gli originali; ma trasportato millesettecento anni più tardi aveva condotto al fenomeno delle belles infidèles, alle traduzioni approprianti, ovvero a quanto di più lontano da una qualsiasi idea di fedeltà e di utilità della traduzione; ed era d’altronde diffusa l’idea per cui il traduttore dovesse immedesimarsi nell’autore e dargli nuova vita, idea che von Humboldt rigetta con vigore. Se però si può insinuare che abbia ricalcato questo rifiuto dal discorso di Schleiermacher, non si può invece negare che sia il nostro traduttore a entrare nel dettaglio, esprimendo concretamente quei princìpi di cui ho già sottolineato la grande attualità. Il divieto di inserire chiarimenti, ornamenti e di effettuare qualsiasi modifica allo stile e agli elementi culturospecifici sono tanto più validi oggi in quanto così spesso ancora vengono ignorati.

Un altro punto interessantissimo è, a mio parere, quello relativo alla caducità delle traduzioni. Per quanto sia riuscito a sapere dalle mie ricerche, nessuno prima di lui aveva teorizzato in modo così chiaro un concetto tanto importante; solo Benjamin, nel 1923,1 riprenderà proprio da von Humboldt l’idea – e non solo questa, se, come credo di poter dire senza timore di esagerare, sono più d’uno i punti in cui Benjamin ha tenuto presente la lezione humboldtiana, pur rielaborandola nella sua personalissima visione – secondo cui la grande differenza tra traduzione e originale è

1 Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, 1923, comparso per la prima volta come introduzione alla sua traduzione di Tableaux parisiens di Baudelaire.

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che il secondo può aspirare all’eternità, mentre la prima è immancabilmente destinata a perdere di valore. Una tale visione s’inserisce certo perfettamente nei canoni del pensiero romantico, secondo cui l’arte è in perenne divenire, ma soprattutto è la conseguenza diretta e coerente di quanto esposto nella parte relativa alla natura della lingua: se la lingua segue un percorso che la deve portare dal bastare alle cose più semplici al poter esprimere le più grandi e complesse, è evidente che è anche insito in lei un processo di invecchiamento, per cui determinate espressioni, costruzioni o modi d’uso cambiano il loro valore nel tempo. È un ulteriore esempio di come von Humboldt sia in grado di dare concretezza alle idee da lui espresse sul piano teorico.

Ma ciò che più trovo interessante e degno di attenta riflessione sono i passaggi in cui von Humboldt si sofferma – qui sì in modo un po’ più esteso – sull’importanza dello scambio interculturale per la crescita di tutti gli elementi del sistema. Il messaggio humboldtiano è estremamente coerente: la lingua forgia la realtà e ne è forgiata, quindi non è possibile pensare di tradurre per equivalenti, e la traduzione deve conservare tutti gli elementi di estraneità per permettere alla nuova lingua di forgiare una nuova realtà. È un circolo virtuoso, quello che l’autore propugna, forte della sua convinzione di un costante progresso della civiltà dato dal fecondo interscambio culturale. Ed è una concezione assolutamente moderna (ho appositamente sottolineato la somiglianza del suo pensiero con la teoria di Lotman, p. 38) e più che mai attuale; in un mondo dominato dalla globalizzazione, anche linguistica, – e dall’abuso di questa parola – si giunge sempre più spesso all’emer- gere dei campanilismi, a loro volta anche linguistici; senza qui addentrarmi in un campo non mio, mi piace sottolineare come dei pensatori prima dei nostri giorni, e in particolare uno studioso così attento alla situazione sociale e alla realtà politica e culturale dei suoi tempi come von Humboldt, abbiano posto l’accento del loro lavoro sull’enorme vantaggio che deriva dagli scambi tra le diverse civiltà. Certo, non bisogna sottovalutare i limiti di tale interscambio: se la cultura ricevente non è preparata in alcun modo alla conoscenza dell’altrui, il rischio derivante dalla lettura di un testo che sia stato tradotto secondo il principio dell’adeguatezza è la sua difficile comprensione, fino alla compromissione, nei casi più estremi, della

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comunicazione; ma una cultura che sia debitamente istruita su come coprire la distanza cronotopica tra sé e l’autore, magari attraverso un metatesto che accompagni la traduzione, sarà infinitamente più ricca, più conscia di sé e più pronta ad adattarsi alle mutevoli situazioni storiche di una che abbia rifiutato gli elementi di diversità presenti nelle culture altrui. E se non esiste traduzione che possa trasmettere interamente il messaggio del prototesto, tanto da far dire a Nabókov che spera di generare nel lettore una sorta di frustrazione ottimale che lo porti a voler leggere il testo nella sua versione originale, ciò non sminuisce il valore di conoscenza dell’altrui insito nel processo traduttivo, tutt’altro: se una traduzione ci porta a voler conoscere l’originale, ci porta cioè a essere curiosi di un’altra realtà, ha adempiuto il proprio compito nel più alto dei modi. La traduzione è cultura del diverso, è zona di interscambio, membrana che permette l’osmosi tra l’interno e l’esterno, «modalità dell’esperienza di sé nell’esperienza dell’altro».1

1 Hans Robert Jauss, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt, Suhrkamp. (tr. it. Teoria e storia dell’esperienza estetica, Bologna, Il mulino, 1987)

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Appendice

IL FRONTESPIZIO E ALCUNE PAGINE DALL’EDIZIONE DEL 1816

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TOURY, GIDEON, Descriptive translation studies and beyond, Amsterdam, Benjamins, 1995

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Desidero innanzitutto ringraziare chi mi ha dato la possibilità di continuare fino a questo punto i miei studi; ai miei genitori e a mio fratello va anche un ringraziamento per il sostegno nelle fasi di stesura del lavoro.

Sono grato al Professor Osimo e alla Professoressa Potthoff per aver accettato il ruolo di relatore e correlatrice; le loro indicazioni pratiche e di metodo sono state indispensabili in ogni passaggio, dalla scelta dell’argomento all’impostazione della tesi fino alle ultime revisioni. Non di minore aiuto sono state la loro disponibilità e cortesia, che hanno reso la collaborazione tanto proficua e piacevole.

Un ringraziamento particolare va poi a Nina, per gli sforzi profusi in tanti modi e tante occasioni, e a Chiara: senza il suo aiuto per il reperimento del materiale il mio lavoro non sarebbe stato possibile.

Grazie infine a chi mi ha aiutato nella revisione delle bozze e in ogni altro modo, e a tutti quanti mi sono stati vicini in questi anni, sostenendomi e rendendo quest’esperienza di studio tanto feconda anche dal punto di vista umano.

Nikolaj Sergeevič Trubeckoj visto dagli occhi di Roman Jakobson ANNALISA FRANZI

Nikolaj Sergeevič Trubeckoj visto dagli occhi di Roman Jakobson

ANNALISA FRANZI

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore professor Bruno OSIMO
Correlatrice professoressa Elena BROSEGHINI

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
ottobre 2007

© Annalisa Franzi 2007, per la tesi

© eredi di Roman Jakobson 1939 per l’articolo in tedesco

ABSTRACT
La tesi si basa sulla traduzione di un articolo scientifico del semiotico russo Roman Jakobson. Il testo originale è in lingua tedesca e tratta della biografia di un altro illustre esponente dell’intelligenciâ russa vissuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo: Nikolaj Sergeevič Trubeckoj. Il lavoro traduttivo effettuato non si limita al semplice passaggio dalla lingua del prototesto a quella del metatesto: vi è sottesa, infatti, una ricerca concettuale e terminologica fondamentale per la comprensione del lessico utilizzato da Jakobson, caratterizzato da un’alta specificità settoriale e da uno stile peculiarissimo: in una trama tessuta con estrema precisione, infatti, in Jakobson ogni singola parola si intreccia a quella successiva creando un discorso finemente coeso e coerente. Durante la stesura della traduzione, questa struttura precisa e raffinata del testo originale ha rivelato la propria complessità, portando alla luce una serie di problemi traduttivi la cui analisi e risoluzione sono risultate cruciali per la compattezza e comprensione finali del metatesto.

ENGLISH ABSTRACT
This thesis is based on the translation of a scientific article written by the Russian semiotist Roman Jakobson. The original text is in German and concerns the biography of another prominent representative of the Russian intelligenciȃ who lived between the end of the nineteenth and the beginning of the twentieth century, Nikolaj Sergeević Trubeckoj. The translation work is not restricted to the elementary switch from the language of the prototext to the language of the metatext, but implies terminological and conceptual research essential for the understanding of the vocabulary used by Jakobson, which is characterized by a highly specific technical language and an absolutely distinctive style. In fact, every single word chosen by Jakobson is weaved one with the other into a finely cohesive and coherent discourse, like in a spider’s web. While drafting the translation, the precise and sophisticated structure of the original text revealed its own complexity, bringing to light a series of translation problems, the analysis and solution of which turned out to be basic and extremely important for the final cohesion and comprehension of the metatext.

ABSTRACT AUF DEUTSCH
Inhalt meiner Diplomarbeit ist ein wissenschaftlicher Artikel, dessen Autor der russische Semiotiker Roman Jakobson ist. Der ursprüngliche Text ist deutsch geschrieben, es handelt sich hierbei um die Biografie eines anderen vorzüglichen Vertreters der russischen Intelligenz, Nikolaj Sergeevič Trubeckoj, der am Ende des 19. und zu Beginn des 20. Jahrhunderts lebte. Die Übersetzungsarbeit beschränkt sich nicht nur auf das Übertragen von einer Sprache in die andere, das heisst von der Sprache des Urtextes zu der Sprache des Metatextes, sondern sie impliziert eine terminologische und konzeptuelle Untersuchung, die grundsätzlich ist, um den besonders spezifischen Fachwortschatz und den selten eigenartigen Stil von Jakobson zu verstehen. Wie in einem sorgfältig geflochtenen Spinnennetz ist jedes einzelne Wort mit dem folgenden verknüpft, so dass ihr Zusammenhang eine Rede mit feiner Kohäsion und Konsequenz erschafft. Während des Verfassens der Übersetzung hat diese genaue und feine Struktur des ursprünglichen Textes ihre eigene Komplexität gezeigt, wobei eine Reihe von Übersetzungsproblemen aufgetaucht ist, deren Analyse und Lösung für die definitive Geschlossenheit und Verständnis des Metatextes entscheidend gewesen sind.

Sommario

0 Sommario 4
Ringraziamenti 6
1 1. Prefazione 7
1.1 Terminologia 7
1.1.1 Schnaderhüpfel 8
1.1.2 Bylina 9
1.1.3 Systemzwang 9
1.1.4 Steingeburtssagen 10
1.1.5 ur-/Ur- 11
1.1.6 Und-Verbindung 12
1.2 Riferimenti bibliografici 13
2 2. Traduzione con testo a fronte 14

Ringraziamenti

I miei ringraziamenti vanno in particolare alla Professoressa Elena Broseghini, i cui consigli e il cui sostegno sono stati provvidenziali per la riuscita di questa “opera prima”. Un grazie speciale dunque a lei, che, con grande disponibilità, mi ha dedicato il Suo tempo e la Sua pazienza.
Ringrazio anche il Professor Bruno Osimo.
Non poteva però mancare un ringraziamento personale, non dovuto, ma voluto e sentito: GRAZIE a Voi, Mamma e Papà, perché, malgrado tutto, mi siete sempre stati accanto.

1. Prefazione

Questa tesi consiste nella traduzione e nell’analisi di un saggio biografico sul linguista russo Nikolaj Sergeevič Trubeckoj, sulle preziose esperienze e drammatiche vicissitudini legate alla sua vita, al suo pensiero e al suo vastissimo lavoro di studioso e ricercatore.
Questa biografia, scritta nel giugno 1939 a Charlottenlund, Danimarca, e pubblicata successivamente in quello stesso anno in Acta Linguistica, rivista specializzata nel settore linguistico, si deve a un autore d’eccezione, non solo in quanto illustrissima figura all’interno dell’universo semiotico, ma anche in quanto collega e amico molto stretto di Trubeckoj. I due erano entrambi di madrelingua russa, entrambi uniti da analoghe vicende di fuga ed esilio ed entrambi accomunati dalla stessa passione per i fatti linguistici, oggetto di innumerevoli e approfonditi studi da essi condotti. Entrambi, inoltre, sono da considerarsi tra i maggiori esponenti del Circolo linguistico di Praga che fu fondato nel 1926, sviluppando l’analisi testuale strutturalista e ispirandosi alla teoria della lingua quale sistema unitario e rigoroso di segni legati da relazioni di stretta interdipendenza.
1.1 Terminologia

L’articolo di Jakobson è stato pubblicato su una rivista scientifica ed è un testo altamente specialistico, caratterizzato da una terminologia puntuale e dai tecnicismi settoriali della linguistica. Il lettore modello tanto dell’originale tedesco quanto del metatesto italiano è uno specialista o uno studente di livello molto avanzato di glottologia, linguistica o filologia.
Nella traduzione mi sono attenuta quanto più possibile a un rigore terminologico, evitando il ricorso a “sinonimi” o simili forme perifrastiche, preferendo invece restituire le ripetizioni volute del prototesto dovute al suo carattere scientifico specializzato.
Pur avendo dotato il testo di note del traduttore per permettere al lettore di continuare la lettura anche in presenza di termini russi e tedeschi ostici, in questo apparato metatestuale riporto alcuni dei termini principali a mio parere più difficili – o impossibili – da tradurre, insieme con una spiegazione del loro significato tecnico e/o storico.
1.1.1 Schnaderhüpfel

Il termine in questione si riferisce ai componimenti regionali popolari appartenenti alla tradizione locale del Tirolo, della Baviera e della Stiria. Sono epigrammi costituiti da una strofa che vengono improvvisati e cantati seguendo una precisa melodia: due persone o dei gruppi di persone si alternano improvvisando delle strofe cantate. Generalmente si tratta di argomenti scherzosi e, a volte, canzonatòri.
Nella lingua italiana è impossibile trovare un traducente per «Schnaderhüpfel». All’interno del panorama poetico italiano, questo tipo di componimento potrebbe venire paragonato agli stornèlli o alle tenzoni, ma, seppur simili, anche questi generi popolari presentano delle caratteristiche tali da differenziarli dal soggetto in questione, proprio per la culturospecificità della parola, che si configura come appartenente alla categoria che in traduttologia è definita – con una parola latina che però curiosamente ci giunge attraverso il russo – «realia».
Come già accennato in precedenza, gli Schnaderhüpfel, inoltre, si riferiscono a un genere diffuso esclusivamente entro confini ben delimitati e l’utilizzo del termine è decisamente ristretto.
Proprio per questa peculiarità, se avessi cercato di adattare la parola utilizzata da Jakobson alla cultura ricevente, l’impossibilità di trovare un traducente nella lingua italiana mi avrebbe posto davanti alla problematica e inevitabile questione del forte residuo traduttivo. Di conseguenza, mi è sembrato consono mantenere il termine tedesco anche nella traduzione italiana, accompagnandolo però da alcune note, al fine di renderlo più familiare al mio lettore e di offrirne una comprensione più immediata.

1.1.2 Bylina

Ho esteso lo stesso discorso al termine russo bylina, e, nonostante quest’ultimo abbia un uso più diffuso e, probabilmente, una maggiore possibilità di comprensione, anche in questo caso mi è sembrato utile fornire un breve chiarimento terminologico e storico all’interno della traduzione stessa, evitando di renderlo con una parola che ne desse solo approssimativamente il senso omologico, privandola del suo essenziale contesto russo.
1.1.3 Systemzwang

La traduzione esatta italiana del sostantivo Systemzwang potrebbe essere «obbligo di sistema», o una traduzione esplicativa potrebbe essere «sistema vincolato», considerando la definizione che ne viene data all’interno del monolingue tedesco, «gebundenes System». Malgrado l’assenza di un preciso traducente nella cultura italiana di tale termine, una traduzione letterale in questo caso non risulterebbe efficace né di grande incisività.
A questo punto, il mio cómpito è stato quello di ricercare, all’interno della lingua italiana, un concetto che potesse corrispondere in modo quantomeno approssimativo a quello espresso dal composto tedesco utilizzato da Jakobson.
Ho individuato la soluzione al mio problema nell’espressione «sistema modulare», concetto che appartiene al campo dell’architettura e che fa riferimento, in modo particolare, all’architettura romanica. Il sistema modulare, difatti, consiste nel legame che si crea fra le dimensioni di un insieme, nel momento in cui queste vengono subordinate a un’unica misura comune, ovvero, il modulo, che, stabilendo delle relazioni precise tra i vari blocchi dell’edificio, apporterà un’armonia ritmica alla composizione stessa.
Ho ritrovato il termine Systemzwang, nella sua forma tedesca, anche all’interno di vari testi di linguistica.
Dopo queste osservazioni, «sistema modulare» è stato il traducente per il quale ho optato, poiché l’ho ritenuto il più adatto in quanto riconducibile sia a un àmbito architettonico, quindi al retaggio del nonno di Trubeckoj, sia a un àmbito linguistico, quindi alla peculiarità del pensiero strutturalista di Trubeckoj stesso.
1.1.4 Steingeburtssagen

La traduzione del termine Steingeburtssagen è stata uno dei nodi traduttivi più difficili da sciogliere e, solo dopo una lunga ricerca e un pizzico di fortuna, mi si sono presentate diverse interpretazioni, tutte plausibili e molto suggestive, che mi appresto a illustrare qui di séguito. Devo puntualizzare, però, che proprio per la varietà del materiale e per la mancanza di dati più precisi e dettagliati, la scelta meno fallibile mi è sembrata quella di mantenere una certa genericità semantica e utilizzare la forma «nascite ex petra», traduzione esatta del termine tedesco, anche per evitare la possibilità di incappare in un errore interpretativo dovuto al desiderio di estrema specificità e connotatività.
– La prima interpretazione della parola Steingeburtssagen mi è stata offerta da Jacob Grimm nella sua opera Mitologia tedesca. Secondo quanto egli scrive, le Steingeburtssagen sarebbero delle saghe antichissime in cui si narra che gli antenati del popolo tedesco avrebbero avuto origine da elementi naturali, piante e rocce, quindi, che gli esseri viventi nascerebbero da un regno semi-vivente e che, attraverso il legame tra questo regno e gli uomini, verrebbe rafforzata l’inviolabilità delle foreste e delle montagne primigenie.
Lo stesso Grimm continua nell’analisi del termine Steingeburt e riporta un’altra saga nella quale la pietra appare nuovamente come generatrice di vita, la saga di Deucalione. In séguito a un diluvio scatenato da Giove per distruggere la stirpe umana, degenerata nella corruzione, il giovane Deucalione, figlio di Prometeo, e sua moglie Pirra, grazie alla propria purezza d’animo, sono gli unici sopravvissuti alla punizione divina. Ai due viene data la possibilità di esprimere un ultimo desiderio: alla richiesta di ripopolare la terra, ai due venne ordinato di gettare dietro di sé «le ossa delle proprie madri» (in realtà, le pietre, ossa della Madre Terra). Fu così che dalla pietra lanciata da Deucalione nacquero gli uomini e dalla pietra di Pirra nacquero le donne.
– Un’altra interpretazione di Steingeburt è offerta dal Vangelo in Matteo 3, 9. [«E non pensate di dir dentro di voi: Abbiamo per padre Abramo; perché io vi dico che Iddio può da queste pietre far sorgere de’ figliuoli ad Abramo».]
– Ma l’ultima ipotesi è forse quella più suggestiva, tenuto conto dell’interesse di Trubeckoj per la letteratura avestica: il rapporto intercorrente fra la nascita ex petra e il mito del dio Mitra. Mitra, secondo una leggenda, sarebbe uscito da una pietra, armato di una daga in una mano e impugnando una fiaccola nell’altra. La sua incarnazione sarebbe volta alla sconfitta del male cosmico e morale e, grazie al suo eroico operato, avrebbero avuto origine il mondo vegetale e quello animale, uomini compresi.
Di origine persiana, presente nella cultura dei Veda e degli Avesti, il mistero del mito di
Mitra potrebbe essersi diffuso con facilità anche nei paesi caucasici, a causa dei molteplici
contatti tra le due culture.

1.1.5 ur-/Ur-
Il prefisso ur-/Ur-, a seconda che sia anteposto ad aggettivi o a sostantivi, presenta, all’interno della lingua italiana, vari traducenti semanticamente collegati. Nel primo caso, la particella ur- può svolgere una funzione rafforzativa e assumere il significato di «molto, completamente». Qualora il prefisso Ur- si trovasse davanti a un sostantivo, il traducente italiano verrebbe ad assumere una connotazione temporale che denota lo stato iniziale e primigenio del sostantivo a cui fa riferimento.
In italiano, la parola tedesca in questione può essere tradotta con molteplici aggettivi: originario, primigenio, atavico, etc. Il traducente generalmente più utilizzato, forse sia per corrispondenza semantica che sintattica, è comunque il prefisso italiano «proto-», che denota anteriorità temporale, una fase iniziale e l’appartenenza a uno stadio remoto e unitario.
Con una frequenza crescente, l’utilizzo della particella ur- si sta diffondendo anche all’interno del vocabolario italiano e, di conseguenza, ho pensato che, anche nella traduzione del termine da me affrontata, avrei potuto lasciare il prefisso tedesco scelto da Jakobson; seguendo queste osservazioni e consapevole di chi sia il mio lettore modello, nella mia versione si ritrovano così, alternativamente, sia la traduzione italiana del termine, che il termine tedesco originario.
1.1.6 Und-Verbindung
Anche a una persona con conoscenze elementari della lingua tedesca, appare immediatamente comprensibile, nella sua semplicità, il significato della parola Und-Verbindung. Se, da una parte, la chiarezza sembra facilitarne la traduzione, dall’altra, apre le porte a molteplici possibilità. Infatti, a causa dell’impossibilità di trovare questa espressione all’interno di dizionari monolingui, tanto meno di quelli bilingui, ho dovuto spostare il campo di ricerca a un àmbito più ristretto, sperando di individuare la parola tedesca in analisi all’interno di testi ad argomento linguistico. I risultati hanno dimostrato che Und-Verbindung non è un termine appartenente alla linguistica, ma che, probabilmente, è stato coniato da Trubeckoj e riutilizzato da Jakobson per indicare un concetto legato alla fonologia, la quale, come scrive l’autore, sarebbe «[…] un’unità, una Gestalt ordinata e improntata a delle regole […]» e non un insieme di elementi meccanicamente legati tra loro. Così, non avendo trovato un traducente italiano e prendendo spunto dalla descrizione offerta da Jakobson, ho preferito lasciare l’espressione tedesca anche nel testo italiano, includendo, come nota del traduttore, una traduzione che ne dia il senso omologico e che, eventualmente, possa dissipare qualsiasi dubbio al lettore.

1.2 Riferimenti bibliografici

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2. Traduzione con testo a fronte

NIKOLAJ SERGEEVIC TRUBETZKOY
(16. April 1890 – 25. Juni 1938)

Beim ersten internationalen Linguistenkongress sagte Meillet auf Trubetzkoy hinweisend: “Er ist der stärkste Kopf der modernen Linguistik”. – “Ein starker Kopf”, bestätigte jemand. – “Der stärkste”, widerholte nachdrücklich der scharfsichtige Sprachforscher.
In der Geschichte des hohen russischen Adels haben recht wenige Geschlechter so merkliche und dauernde Spuren im öffentlichen und geistigen Leben des Landes hinterlassen. Der Vater des Verstorbenen, Fürst Sergej Trubetzkoy (1862-1905), Professor und Rektor der Moskauer Universität, war ein hervorragender, tiefdenkender Philosoph. Der Gedanke des Logos in seinem historischen Werden und Wandeln ist sein Grundthema. Einem aufmerksamen Beobachter wird der intime Zusammenhang zwischen dieser Lehre und der Frage des Sohnes nach dem inneren Sinne der Sprachumgliederung kaum entgehen. Der Bruder des Philosophen und ebenfalls Philosoph, Evgenij Trubetzkoy, schildert kunstvoll in seinen Erinnerungen (Iz prošlogo, Wien, s. a.) das Gemeinsame und das Unterscheidende an drei Generationen seines Geschlechtes: “von einem Gedanken und einem Gefühl restlos erfasst, legt man in diesen Gedanken eine Temperaments- und Willenskraft hinein, die keine Hindernisse kennt und deshalb unbedingt das Ziel erreicht”.
Aber der Inhalt des dominierenden Gedankens wechselt mit jeder Generation. Der Urgross¬vater von Nikolaj Trubetzkoy war von selbstgenügsamen architektonischen Linien beherrscht, sein Alltag wurde ihrem strengen Stil unterworfen, “und deswegen gab es im Leben keinen grösseren Systematiker”. Im Sein des Grossvaters “verinnerlichte sich die Baukunst und verwandelte sich in eine anderartige, magische Architektur, die der Klänge” – es kam die Tonkunst. In der nächsten Generation “trat als Tochter der Musik die Philosophie auf”. Und schliesslich, fügen wir hinzu,

NIKOLAJ SERGEEVIČ TRUBECKOJ
(16 Aprile 1890 – 25 Giugno 1938)

In occasione del primo Congresso internazionale dei linguisti, Meillet si espresse nei confronti di Trubeckoj con le seguenti parole: «È la testa più brillante e tenace della linguistica moderna». «Una testa brillante e tenace», assentì qualcun altro. «La più brillante e tenace», ripeté con enfasi l’acuto linguista.
In tutta la storia dell’aristocrazia russa solo pochissime casate hanno realmente influenzato in modo così significativo e duraturo la vita pubblica e intellettuale del paese. Il padre dello scomparso, il principe Sergej Trubeckoj (1862-1905), professore e rettore all’Università di Mosca, fu un filosofo straordinario dalla grande profondità di pensiero. Il tema principale da lui affrontato è l’idea di logos, nel suo divenire e nelle sue trasformazioni storiche. Un osservatore attento non mancherà di notare l’intimo rapporto che lega la teoria del padre all’interrogativo formulato dal figlio sul significato profondo del ristrutturarsi del linguaggio. Nelle sue memorie, il fratello del filosofo, Evgenij Trubeckoj, a sua volta filosofo, tratteggia con grande maestria (Iz prošlogo, Vienna, sine anno) ciò che accomunava e divideva tre generazioni della sua stirpe: «afferràti da un unico, esclusivo pensiero e sentire, viene profusa in questi pensieri una passionalità e una volontà tali da abbattere ogni ostacolo e raggiungere, di conseguenza, senza fallo la meta».
Ma il contenuto del pensiero dominante cambia di generazione in generazione. Il bisnonno di Nikolaj Trubeckoj era profondamente attratto dalle linee architettoniche autosufficienti; tutta la sua quotidianità iniziò a ruotare intorno al loro stile severo «e, proprio per questo motivo, non esistette un sistematico più grande». Nell’esistenza del nonno, invece, «l’architettura si interiorizzò e si trasformò in un’architettura di altro tipo, un’architettura magica, l’architettura degli accordi» e divenne così arte musicale. Nella generazione successiva, «emerse come figlia della musica, la filosofia». In fine, soggiungiamo noi, nel mondo creativo di Trubeckoj, l’idea ultraterrena di logos

wird in der schöpferischen Welt Nikolaj Trubetzkoy’s die überirdische Idee des Logos durch die verkörperte, empirische Wortsprache ersetzt. Und wenn auch der Sprachgelehrte sich von jedem allzuabstrakten Philosophieren entschieden lossagte, findet man kaum in der gegenwärtige Linguistik eine andere Lehre, die dermassen von wahrem philosophischen Geist durchdrungen ist und so ergiebig die Philosophie fördert. Mit dem aufrührerischen Neuerungsgeist vereinigt Trubetzkoy eine urwüchsige Kraft der Tradition; ja es lebt in seinem Lebenswerke nicht nur die Logosproblematik seines Vaters, sondern auch der ererbte Musikgeist, der ihn zur Kunstsprache, zum Vers und zwar ausschliesslich zum Singvers lockt und seine feinen Beobachtungen über die Wechselbeziehungen zwischen dem sprachlichen und musikalischen Rhythmus lenkt. Die russischen Bylinen und Schnaderhüpfel, das mordwinische und polabische Volkslied, Puškins Nachklänge der serbischen Epen und die altkirchenslavische Hymne enthüllen ihm ihre Schallgesetze. Aber auch die architektonische Einstellung des Urahns lebt in N. S. Trubetzkoy fort. Sie kommt in Form und Inhalt zum Vorschein: einer¬seits in seinem klassisch klaren Still und besonders in der durchsichtigen, harmonischen Komposition, andererseits in seiner seltenen Klassifizier¬ungskunst, die einen genialen und leidenschaftlichen Systematiker offenbart. Man könnte nicht diesen “Systemzwang” als Grundsatz seines Schaffens genauer beschreiben, als es Trubetzkoy selbst gemacht hat. In seinem Buch K probleme russkogo samopoznanija (1927) mahnt er jeden Volksgenossen zur persönlichen und nationalen Selbsterkenntnis und insbesondere zum Anerkennen und Begreifen des turanischen Einschlags, den der Verfasser als einen massgebenden Bestandteil der russischen Geschichte und Psychologie hervorhebt (vgl. bes. seine unter den Initialen I. R. herausgegebene Broschüre Nasledie Čingisxana, Berl. 1925), und er schildert diesen “turanischen Geist” mit einer geradezu introspektiven Überzeugungskraft, die Meillet so bewundert hat:
Der turanische Mensch unterwirft jeden Stoff einfachen und schematischen Gesetzen, die ihn zu einer Ganzheit zusammenschmelzen und dieser Ganz¬heit eine gewisse schematische Klarheit und Durchsichtigkeit verleihen. Er grübelt nicht gerne an überfeinen und verwickelten Einzelheiten und

venne sostituita dalla linguistica empirica incarnata. E se anche il linguista abbandonò recisamente i filosofismi troppo astratti, nella linguistica contemporanea si faticherebbe a individuare un’altra dottrina compenetrata in ugual misura da uno spirito filosofico autentico e capace, in modo tanto fecondo, di promuovere la filosofia. Allo spirito innovativo e sovvertitore, Trubeckoj unisce la forza naturale primigenia della tradizione; nella sua opera, opera di tutta una vita non si ritrova unicamente la problematica del logos affrontata dal padre, ma anche il retaggio dello spirito musicale che lo porta ad avvicinarsi al linguaggio letterario e ai versi – per essere più precisi esclusivamente al verso melodico – e che lo guida verso osservazioni acute sulle correlazioni tra il ritmo della lingua e quello musicale. Le byliny [componimenti dell’epos popolare russo; N.d.T.] e gli Schnaderhüpfel [epigrammi canori di carattere scherzoso; N.d.T.], i canti popolari in lingua mordvina e polaba, gli echi puškiniani delle epopee serbe e gli inni ecclesiastici paleoslavi gli rivelano le proprie leggi foniche. Ma in N. S. Trubeckoj sopravvive l’approccio architettonico dell’antenato, sia nella forma che nel contenuto: per un verso nel suo stile classico e nitido e, in particolar modo, nella composizione limpida e armonica, per l’altro nella sua arte classificatoria fuori del comune, che rivela in lui la natura di un geniale e passionale sistematico. Nessuna definizione di sistema modulare quale principio fondante della sua creatività risulterebbe più appropriata di quella fornita da Trubeckoj stesso. Nel suo libro K probleme russkogo samopoznaniâ [Il problema dell’autoconoscenza russa; N.d.T.] (1927) Trubeckoj esorta tutti i connazionali alla conoscenza di sé e della nazione e, in modo particolare, al riconoscimento e alla comprensione dell’influenza turanica, indicata dall’autore come elemento determinante per la storia e la psicologia russe (cfr. soprattutto la sua brochure Nasledie Čingishana [L’eredità di Gengis Khan.], pubblicata a Berlino nel 1925 con lo pseudonimo «I. R.») e, in quest’opera, descrive tale «spirito turanico» con una persuasività tanto amata da Meillet persino introspettiva:
L’uomo turanico riesce a padroneggiare ogni dato di conoscenza per mezzo di leggi semplici e schematiche, che, a mo’ di crogiolo, lo riportano a un’integrità/totalità e conferiscono a detta totalità una certa chiarezza e befasst sich lieber mit deutlich wahrnehmbaren Gebilden, die er in klare und schlichte Schemata gruppiert. […] Diese Schemata sind kein Ergebnis einer philosophischen Abstraktion. […] Sein Denken und seine ganze Wirklichkeitsauffassung finden spontan in den symmetrischen Schemata eines sozusagen unterbewussten philosophischen Systems Platz. […] Es wäre aber ein Fehler zu denken, der Schematismus dieser Mentalität lähme den breiten Schwung und Ungestüm der Phantasie. […] Seine Phantasie ist weder dürftig, noch feig, sie hat im Gegenteil einen kühnen Schwung, aber die Einbildungskraft ist nicht auf den minuziösen Ausbau und nicht auf das Auftürmen von Einzelheiten gerichtet, sondern sozusagen auf die Entwick¬lung in Breite und Länge; das derartig aufgerollte Bild wimmelt nicht von mannigfaltigen Farben und Ubergangstönen, sondern ist in Grundtönen, in breiten, bisweilen riesenhaft breiten Pinselstrichen gemalt. […] Er liebt die Symmetrie, die Klarheit und das stabile Gleichgewicht.
Trubetzkoy sah ein, dass dieser Geist der allumfassenden strengen Systematik für die ursprünglichsten Errungenschaften der russischen Wissenschaft und für sein eigenes Schaffen im besonderen höchst ken¬zeichnend ist. Er besass eine seltsame und leitende Fähigkeit, in allem Wahrgenommenen das Systemartige aufzudecken (so hat er, schon tod¬krank, wenige Wochen vor dem Ende, auf den ersten Blick die Phonemen¬reihen des Dunganischen und des Hottentottischen treffend erraten, welche für die angesehenen Fachkenner dieser Sprachen unnachgiebig blieben). Auch sein merkwürdiges Gedächtnis war stets auf das Systemar¬tige gerichtet, die Tatsachen lagerten sich als Schemata ab, die sich ihrerseits zu wohlgestalteten Klassen ordneten. Nichts war ihm dabei fremder und unannehmbarer als eine mechanische Katalogisierung. Das Gefühl eines inneren, organischen Zusammenhangs der einzuteilenden Elemente verliess ihn nie, und das System blieb nie, von der übrigen Gege¬benheit gewaltsam entrissen, in der Luft hängen. Im Gegenteil erschien ihm die gesamte Wirklichkeit als ein System der Systeme, eine grossartige hierarchische Einheit von vielfachen Übereinstimmungen, deren Bau seine Gedanken bis zu den letzten Lebenstagen fesselte. Er war für eine ganzheitliche Weltauffassung innerlich vorausbestimmt, und einzig im Rahmen der strukturalen Wissenschaft hat er sich selbst tatsächlich vollständig gefunden. Gleich empfindlich für sprachliche Fakta und für neue sprachwissenschaftliche Gedanken, fühlte er mit Scharfblick die für seinen folgerichtigen und eigenartigen Systemaufbau geeignet waren.

limpidezza schematiche. Non ama rimuginare su sottigliezze e dettagli intricati e, quando pensa, di preferenza si occupa di configurazioni mentali palesemente percettibili, che raggruppa secondo schemi chiari ed elementari. […] Questi schemi non sono il risultato di un processo di astrazione filosofica. […] Il suo pensiero e la sua concezione intera della realtà si collocano spontaneamente all’interno degli schemi simmetrici di un sistema filosofico, per così dire, subconscio. […] Ma sarebbe un errore pensare che lo schematismo di questa mentalità paralizzi gli slanci e l’irruenza della fantasia. […] La sua fantasia non è stenta né pavida, al contrario è animata da un empito ardito, sebbene tale forza immaginativa non sia rivolta a un’elaborazione minuziosa e all’accumulo verticale di particolari, ma, si potrebbe dire, allo sviluppo in ampiezza ed estensione; così il quadro dispiegato non brulica di miriadi di colori o di sfumature, ma presenta le tonalità fondamentali, con ampie pennellate che, a volte, diventano gigantesche. […] Ama la simmetria, la chiarezza, l’equilibrio e la stabilità.

Trubeckoj si rese conto che questo spirito di una severa sistematica di ampio respiro caratterizza in modo estremamente peculiare le conquiste iniziali della scienza russa e, in particolar modo, la sua stessa creatività. Egli possedeva una capacità unica e dominante che gli permetteva di scoprire l’elemento sistematico nella congerie di tutti i fenomeni percepiti (in questo modo, alcune settimane prima della sua morte, quando era già in fin di vita, al primo sguardo scoprì, cogliendo nel segno, la serie fonematica dell’idioma di Dungan e ottentotto, che rimane una pietra miliare per i più autorevoli specialisti di queste lingue). Anche la sua straordinaria memoria era sempre rivolta all’elemento sistematico e i fatti reali si disponevano come schemi che a loro volta si inserivano in classi ben ordinate. Non esisteva nulla a lui più estraneo e inaccettabile di una catalogazione meccanica. Non lo abbandonò mai il sentimento di un legame interno e organico tra gli elementi classificabili, e, per lui, il sistema non rimaneva mai campato in aria e strappato con violenza dal sostrato fattuale. Al contrario, la realtà nella sua totalità gli appariva come un sistema dei sistemi, una grandiosa unità gerarchica formata da molteplici corrispondenze la cui struttura avvinse i suoi pensieri fino all’ultimo giorno di vita. Aveva un’intima predisposizione per una concezione olistica del mondo e solamente all’interno della corrente strutturalista si sentì completamente a suo agio. Con la stessa sensibilità per i fenomeni della lingua e per le concezioni linguistiche nuove, con

In einer unveröffentlichten und unbeendeten autobiographischen Skizze erzählt Trubetzkoy: „Meine wissenschaftlichen Interessen erwachten sehr früh, noch im Alter von 13 Jahren, wobei ich ursprünglich hauptsächlich Volks- bzw. Völkerkunde studierte. Ausser der russischen Volksdichtung interessierte ich mich besonders für die finnougrischen Völker Russlands. Seit dem Jahre 1904 besuchte ich regelmässig alle Sitzungen der Moskauer Ethnographischen Gesellschaft, mit derem Präsidenten Prof. V. F. Miller (dem bekannten Forscher auf dem Gebiete des russischen Volksepos und der ossetischen Sprache) ich in persönliche Beziehungen trat.“ Es war eine Blütezeit der russischen Volkskunde und Folkloristik, von der ruhmvollen historischen Schule Millers geleitet. Die ungemein lebens¬kräftige, archaische und vielsprachige Volksüberlieferung Russlands, ihre altertümlichen ethnischen Kreuzungen, ihre bunten und eigenartigen Formen, ihr ständiger Einfluss auf das Schrifttum und ihr reicher histo¬rischer und mythologischer Gehalt boten den Forschern eine uner¬schöpfleche Quelle. Dieser Problematik widmete sich begeistert der heran¬wachsende Trubetzkoy; der Mittelschulbesuch blieb ihm erspart, er studierte zu Hause, gewann dadurch viel freie Zeit für seine wissenschaft¬lichen Erstlingsversuche und war mit fünfzehn Jahren ein reifer Forscher. Er veröffentlichte im Organ der erwähnten Gesellschaft “Ètnografičeskoe Obozrenie” ab Jahr 1905 eine Reihe bemerkenswerter Studien über die Spuren eines gemein-ugrofininschen Totenkultritus im westfinnischen Volksliede, über eine nordwestsibirische heidnische Göttin in den alten Reiseberichten und im Volksglauben der heutigen Vogulen, Ostjaken und Votjaken, über die nordkaukasischen Steingeburtssagen usw. Auch das Sprachstudium ist für Trubetzkoy nur ein Hilfsmittel der historischen Ethnologie und besonders der Religionsgeschichte. Diese Fragen haben ihn übrigens auch später stets angelockt, wie es beispiels¬weise seine Bemerkungen über die Spuren des Heidentums im polabischen Wortschatz (ZfsIPh I, 153 ff.) oder über die Iranismen der nordkauka¬sischen Sprachen (MSL XXII, 247 ff.) verraten, und noch im letzten Lebensjahr plante er, anlässlich des neusten, seiner Überzeugung nach ganz widersinnigen Versuches, die Echtheit des Igorliedes zu bestreiten, eine Studie über die heidnischen Namen
perspicacia avvertì quelle che erano adatte alla logicità e all’originalità della sua struttura sistematica.
In un abbozzo autobiografico incompiuto e inedito, Trubeckoj afferma:
I miei interessi scientifici si sono manifestati molto presto, già all’età di tredici anni, quando io, in origine, mi dedicavo principalmente allo studio del folclore e dell’etnologia. Al di là della poesia popolare russa, nutrivo un interesse particolare per i popoli ugrofinnici della Russia. Dal 1904 presi regolarmente parte a tutti gli incontri della Società etnografica di Mosca, entrando in rapporto stretto con il Presidente, il professor V. F. Miller (famoso ricercatore nel campo dell’epica russa e della lingua osseta).
Era un’epoca fiorente per l’etnologia e il folclore russi, campi di studio in cui la gloriosa e storica scuola di Miller aveva avuto una funzione di guida. Le tradizioni popolari incredibilmente vitali, arcaiche e multilinguistiche della Russia, le sue antiche ibridazioni etniche, la sua policromia e le sue forme peculiari, la sua influenza costante sulla letteratura e la sua ricchezza storica e mitologica rappresentarono una fonte inesauribile per i ricercatori. Il Trubeckoj adolescente si dedicò a questa tematica con crescente entusiasmo; fu dispensato dal frequentare la scuola secondaria, studiò a casa, riuscendo così a conquistare molto tempo libero da profondere nei suoi primi esperimenti scientifici. All’età di quindici anni era un ricercatore formato. A partire dal 1905, sulla rivista della scuola sopra citata, che recava il titolo Ètnografičeskoe obozrenie [Rassegna etnografica; N.d.T], Trubeckoj iniziò a pubblicare una serie di studi cospicui sulle tracce di un rito funerario delle comunità ugrofinniche testimoniato nei canti popolari dei finni occidentali, su una dea pagana della Siberia nord-occidentale descritta negli antichi resoconti di viaggio e nelle credenze popolari degli odierni Voguli, degli Ostâki e dei Vostâki, sulle saghe delle nascite ex petra di origine nord-caucasica e così via. All’inizio, anche lo studio della lingua fu solo un espediente per lo studio dell’etnologia storica e, soprattutto, per la storia della religione. Queste problematiche, tra l’altro, continuarono ad attrarlo anche in seguito come rivelano, per esempio, le sue osservazioni sulle tracce del paganesimo nel lessico polabo (Zeitschrift für slavische Phylologie I, 153 sgg.) o sugli iranismi delle lingue nord-caucasiche (Mémoires de la Société de linguistique, XXII, 247 sgg.); ancora, negli ultimi anni della
dieses wertvollen Denkmals (den Gottesnamen Dažьbogъ legte er als ein archaisches Compositum mit der Bedeutung “gib Reichtum” aus und gleichfalls die parallele Bildung St[ь]ribogъ).
Zum Studium der kaukasischen Sprachen wurde der junge Trubetzkoy von Miller angeregt und unter dem Einfluss des Ethnographen und Archäologen S. K. Kuznecov begann er sich mit den finnisch-ugrischen und paläosibirischen Sprachen zu befassen und gewann dabei allmählich ein unmittelbares Interesse für die vergleichende und allgemeine Sprach¬wissenschaft. Er stellte auf Grund der alten Reiseberichte ein Wortver¬zeichnis nebst einem kurzen grammatischen Abriss der gegenwärtig aussterbenden kamtschadalischen Sprache auf und entdeckte kurz vor seiner Matura “eine Reihe von auffallenden Entsprechungen zwischen dem Kamtschadalischen, Tschuktschisch-Korjakischen einerseits und dem Samojedischen andererseits, nämlich auf dem Gebiete des Wortschatzes”. Seine Arbeit brachte ihn in einen lebhaften wissenschaftlichen Brief¬wechsel mit den drei Pionieren der ostsibirischen Volks- und Sprach¬kunde, Joxel’son, Šternberg und besonders Bogoraz; als der letzte aber aus Petersburg nach Moskau kam und seinen gelehrten Korrespondenten persönlich kennen lernte, war er direkt beleidigt zu erfahren, es handle sich um einen Schulknaben!
Trubetzkoy trat 1908 an die historisch-philologische Fakultät der Moskauer Universität ein. Ursprünglich hatte er die Völkerkunde im Auge, da sie aber im Lehrprogramm dieser Fakultät fehlte, wählte er, um “haup¬sächlich Völkerpsychologie, Geschichtsphilosophie und die methodolo¬gischen Probleme zu studieren”, die philosophisch-psychologische Ab¬teilung; als er aber sah, dass er sich hier nicht einlebe, und dass ihn der linguistische Interessenkreis immer fester halte, ging er im dritten Semes¬ter, zur aufrichtigen Betrübnis seiner bisherigen Lehrer und Kollegen, die in ihm die grosse Hoffnung der russischen Philosophie begrüssten, in die sprachwissenschaftliche Abteilung über. Doch blieb ihm für das ganze Leben eine gediegene philosophische Schulung und ein hegelianischer Einschlag, den besonders die suggestive Wirkung seines geistvollen Kollegen

sua vita, egli organizzò, in occasione del più recente e, a detta sua, totalmente assurdo tentativo di contestare l’autenticità del Canto della schiera di Igor [è in questo contesto che, per la prima volta, si incontra il termine byliny, nonostante questo sia stato poi introdotto nel 1840 nella terminologia scientifica per designare il canto epico orale sorto nell’antica Russia in ambienti popolari nel secolo IX; N.d.T.], una ricerca sui nomi pagani di questo prezioso monumento letterario (Trubeckoj interpretò il nome del dio Dažъbogъ come un nome arcaico composto, avente il significato di «donatore di ricchezza» e, allo stesso tempo, la formazione parallela St[ъ]ribogъ).
Fu Miller a incoraggiare il giovane Trubeckoj allo studio delle lingue caucasiche e, sotto l’influsso dell’etnografo e archeologo S. K. Kuznecov, Trubeckoj iniziò ad occuparsi degli idiomi ugrofinnici e paleosiberiani e, in questo modo, a nutrire a poco a poco un interesse diretto per la linguistica generale e comparata. Sulla base di vecchi resoconti di viaggio, stilò un glossario insieme a un breve compendio grammaticale della lingua oggigiorno in estinzione della Kamčatka e, poco prima di finire il liceo, scoprì «una serie di corrispondenze vistose tra il gruppo delle lingue čukotko-kamčatke da una parte e quello delle lingue samoiede dall’altra, per l’appunto nel campo del lessico». Il suo lavoro lo portò a instaurare una vivace corrispondenza scientifica con tre pionieri del folclore e della linguistica della Siberia orientale, Iohel´son, Šternberg e, soprattutto, Bogoraz; ma non appena quest’ultimo si recò da Pietroburgo a Mosca e conobbe il suo erudito corrispondente di persona, rimase particolarmente offeso di scoprire che si trattava di un ragazzetto che non aveva ancora terminato gli studi!
Nel 1908 Trubeckoj iniziò a frequentare la facoltà di storia e filologia dell’Università di Mosca. All’inizio pensava di studiare folclore, ma, dato che non compariva tra gli insegnamenti previsti, scelse il dipartimento di filosofia-psicologia per poter «studiare principalmente la demopsicologia, la filosofia della storia e i problemi metodologici». Ma non appena vide che lì non riusciva ad adattarsi e che la sfera linguistica continuava ad avvincerlo sempre più, durante il terzo semestre si trasferì al dipartimento di linguistica con sincero dispiacere da parte di coloro che, fino
und Freundes, des frühverstorbenen Samarin, befestigt hat. Auch die Grundfragen der Völkerpsychologie, Soziologie und Historio¬sophie haben nie aufgehört, den Forscher zu beschäftigen. Die seit den Schuljahren geplante Trilogie über die Kulturproblematik, -wertung, -entwicklung und über ihre nationale Fundierung, mit besonderer Rücksicht auf die russischen Verhältnisse, wurde teilweise in der spannen¬den, auch ins Deutsche und Japanische übersetzten Monographie Europa und die Menschheit (Evropa i čelovečestvo, 1920) verwirklicht, teils in den Studien der erwähnten russischen Sammelschrift Zum Problem der russischen Selbsterkenntnis. Diesen Arbeiten folgte eine Reihe Aufsätze über Nationalitätenfrage, über Kirche und über Ideokratie, von denen nur ein Teil veröffentlich wurde, und das Meiste zugrundegegangen ist. Die Erwägungen Trubetzkoys, gegen jede naturalistische (sei es biolo¬gische oder geradlinig evolutionistische) Auffassung der Geisteswelt und gegen jeden überlegenen Egozentrismus scharf gerichtet, wurzeln zwar in der russischen ideologischen Tradition, brachten aber viel Persön¬liches und Bahnbrechendes und wurden besonders durch die reiche sprachwissenschaftliche Erfahrung des Verfassers und durch seine enge, beinahe zwanzigjährige Mitarbeit mit dem hervorragenden Geographen und Kulturhistoriker P. N. Savickij vertieft und zugespitzt. Die Lehre der beiden Denker über die Eigenart der russischen (eurasischen) geographi¬schen und historischen Welt gegenüber Europa und Asien wurde zur Grundlage der sogen. eurasischen ideologischen Strömung.
Trubetzkoy absolvierte Anfang 1913 das Programm der sprachwissen¬schaftlichen Abteilung. Die Fakultät billigte seine Arbeit über die Bezeich¬nungen des Futurums in den wichtigsten indogermanischen Sprachen, deren Nachklang (“Gedanken über den lateinischen a-Konjunktiv”) in der Festschrift Kretschmer zu finden ist, und nahm seine Angliederung an das Universitätslehrkorps zwecks Vorbereitung zur akademischen Lehr¬tätigkeit einstimmig an.

ad allora, erano stati i suoi insegnanti e colleghi, coloro che vedevano in lui una grande speranza per la filosofia russa. Nonostante ciò, gli rimase per tutta la vita una solida preparazione filosofica e un’impronta hegeliana, rafforzata soprattutto dall’influenza e dalle suggestioni esercitate dal suo arguto collega e amico Samarino, morto in giovane età. Ma anche le questioni fondamentali relative alla demopsicologia, sociologia e storiosofia non hanno mai smesso di interessare il ricercatore. La trilogia progettata sin dagli anni scolastici sulla problematica, sul valore e sullo sviluppo delle culture e sui loro fondamenti nazionali, con un particolare riguardo per le vicende russe, venne realizzata in parte nell’affascinante monografia L’Europa e l’umanità. La prima critica all’eurocentrismo (Evropa i čelovečestvo, 1920), saggio tradotto anche in tedesco e in giapponese, e in parte negli studi della raccolta russa già menzionata Zum Problem der russischen Selbsterkenntnis [Il problema dell’autocoscienza russa; N.d.T.]. Delle opere che fecero seguito a questi lavori, riguardanti il problema della nazionalità, la chiesa e l’ideocrazia, solo alcune vennero pubblicate e la maggior parte è andata distrutta. Le riflessioni di Trubeckoj, aspramente dirette contro ogni concezione naturalistica del mondo dello spirito (sia essa biologica o piattamente evoluzionistica) e contro ogni egocentrismo arrogante, affondavano sì le proprie radici nella tradizione ideologica russa, ma erano permeate di elementi fortemente personali e pionieristici e si approfondirono e affinarono sempre più soprattutto grazie alla ricca esperienza linguistica dell’autore e grazie alla stretta collaborazione, durata quasi vent’anni, con il brillante geografo e studioso della storia della civiltà, P. N. Savickij. Le dottrine di entrambi i pensatori sulla peculiarità del mondo storico e geografico russo (eurasiatico) rispetto all’Europa e all’Asia divennero le fondamenta della cosiddetta corrente ideologica «eurasiatica».
All’inizio del 1913, Trubeckoj si laureò alla facoltà di linguistica, che approvò il suo lavoro sui caratteri distintivi del tempo futuro all’interno delle più importanti lingue indoeuropee, la cui risonanza («pensieri sulla forma congiuntiva in -a latina») si può trovare nella Festschrift
“Der Umfang”, schreibt Trubetzkoy, “und die Richtung des Unterrichtes in der sprachwissenschaftlichen Abteilung befriedigte mich nicht: mein Hauptinteresse lag ausserhalb der indoger¬manischen Sprachen. Wenn ich mich aber doch für diese Abteilung entschloss, so tat ich es aus folgenden Gründen: Erstens war ich schon damals zur Überzeugung gekommen, dass die Sprachwissenschaft der ein¬zige Zweig der “Menschenkunde” sei, welcher eine wirkliche wissenschaft¬liche Methode besitzt, und dass alle anderen Zweige der Menschenkunde (Volkskunde, Religionsgeschichte, Kulturgeschichte usw.) nur dann aus der “alchemischen” Entwicklungsstufe in eine höhere übergehen können, wenn sie sich in Bezug auf die Methode nach dem Vorbilde der Sprach¬wissenschaft richten werden. Zweitens wusste ich, dass die Indogermanis¬tik der einzige wirklich gut durchgearbeitete Teil der Sprachwissenschaft ist und dass man eben an ihr die richtige sprachwissenschaftliche Methode lernen kann. Ich ergab mich also mit grossem Fleisse den durch das Programm der sprachwissenschaftlichen Abteilung vorgeschriebenen Studien, setzte aber dabei auch meine eigenen Studien auf dem Gebiete der kaukasischen Sprachwissenschaft und der Folkloristik fort. Im Jahre 1911 forderte mich Prof. V. Miller auf, einen Teil der Sommerferien auf seinem Gute an der kaukasischen Küste des Schwarzen Meeres zu ver¬bringen und in den benachbarten tcherkessischen Dörfern die tscherkes¬sische Sprache und Volksdichtung zu erforschen. Ich leistete dieser Aufforderung Folge und setzte auch im Sommer 1912 meine tscher¬kessischen Studien fort. Es gelang mir, ein ziemlich reichhaltiges Material zu sammeln, dessen Bearbeitung und Veröffentlichung ich bis nach der Absolvierung der Universität verschieben musste. Grossen Nutzen bekam ich bei meiner Arbeit vom persönlichen Verkehr mit Prof. Miller, dessen Ansichten über Sprachwissenschaft freilich etwas altmodisch waren, der aber als Folklorist und als tüchtiger Kenner der ossetischen Volkskunde mir viele wertvolle Ratschläge und Anweisungen gab.”
Die Fortunatovsche Schule, die damals beinahe alle linguistischen Lehrstühle der Moskauer Universität beherrschte, wurde von Meillet sehr richtig als die höchste Verfeinerung und philosophische Vertiefung des junggrammatischen Verfahrens bezeichnet.

Kretschmer e poi, all’unanimità, egli fu ammesso nel corpo dei docenti universitari per prepararsi all’attività didattica a livello accademico.
Trubeckoj scrisse:
L’ambito e l’orientamento delle lezioni al dipartimento linguistico non soddisfacevano le mie esigenze: il mio interesse principale non si limitava certo alle lingue indoeuropee. Ma quando decisi di iscrivermi a questo indirizzo, lo feci per i seguenti motivi: innanzitutto, già allora ero arrivato alla convinzione che la linguistica fosse l’unico settore dell’“antropologia” basato su un vero metodo scientifico, e che tutti gli altri rami di questa scienza (folclore, storia della religione, storia della civiltà ecc.) potessero fare un salto da uno stadio evolutivo “alchemico” a uno più elevato, solo nel momento in cui si fossero conformati alla metodologia sulla scorta della linguistica. Inoltre sapevo che l’indoeuropeistica era l’unico settore della linguistica realmente studiato a fondo e che proprio sulle orme di questa disciplina si poteva imparare il giusto metodo linguistico. Mi dedicai quindi con grande impegno alle materie di studio previste dal programma del dipartimento di linguistica, ma, contemporaneamente, proseguii i miei studi nel campo della linguistica caucasica e del folclore. Nel 1911, il professor V. Miller mi invitò a trascorrere una parte delle vacanze estive nella sua tenuta sulla costa caucasica del Mar Nero e a portare avanti delle ricerche sulla lingua e la poesia popolare circasse. Io accolsi il suo invito e proseguii i miei studi sul circasso anche nell’estate del 1912. Riuscii a raccogliere una quantità di materiale abbastanza ricco, di cui dovetti rimandare la revisione e la pubblicazione a dopo la laurea. Trassi grandi vantaggi dal mio rapporto personale con il professor Miller che, nonostante avesse delle opinioni abbastanza antiquate sulla linguistica, mi diede consigli e istruzioni preziose in veste di folclorista e di abile conoscitore della demologia osseta.

La scuola di Fortunatov, che allora aveva il controllo di quasi tutte le cattedre linguistiche dell’Università di Mosca, venne giustamente indicata da Meillet come il massimo raffinamento e approfondimento filosofico del metodo neogrammatico.

Die Gesetzmässigkeit jedes sprachlichen Geschehens, die Form als das massgebende Sprach¬spezifikum und die Notwendigkeit, jede einzelne Sprachebene als ein autonomes Teilganzes zu betrachten wurden hier folgerichtig bis zu Ende gedacht, wenn auch dabei die Begriffe der mechanischen Kausalität und der genetischen Psychologie ihre Geltung stets bewahrten, und die Auffassung der sprachlichen Empirie wie ehedem rein naturalistisch blieb. Die Universitätslehrer Trubetzkoys – der strenge Komparatist W. Porzeziński, der feinfühlende, künstlerisch veranlagte Slavist V. N. Ščepkin und der klassische Philologe M. M. Pokrovskij waren durchwegs unmittelbare Schüler Fortunatov’s die die Lehre und die hohe linguisti¬sche Technik des grossen Denkers und Forschers treu übermittelten, aber was für sie ein unabänderliches Dogma war, wurde für den freisinnigen Schüler zum Ausgangspunkt einer gründlichen, mitunter vernichtenden Kritik. Nichtsdestoweniger bleibt Trubetzkoy ein wahrhafter Forsetzer der Moskauer Schule, er behält im wesentlichen ihre Auswahl der For¬schungsprobleme und ihre Kunstgriffe, er sucht während der ersten Periode seiner sprachwissenschaftlichen Tätigkeit ihren Gesichtskreis zu erweitern und ihre Prinzipien genauer zu fassen und fortzubilden, – er steigert die Aktiva der Schule und sucht dann im letzten Lebensdezen¬nium sich von ihren obenangedeuteten Passiva Schritt für Schritt zu befreien.
Schon als Student versuchte Trubetzkoy die vergleichende Methode in der Fortunatovschen Prägung aus der Indogermanistik auf die nord¬kaukasischen Sprachen zu übertragen. Im Früjahr 1913 hielt er am Tifliser Kongress der russischen Ethnologen zwei Vorträge über mytholo¬gische Relikte im Nordkaukasus und einen über den Bau des ostkauka¬sischen Verbums, und er arbeitete eifrig an der vergleichenden Grammatik der nordkaukasischen Sprachen, die die Urverwantdschaft der beiden nordkaukasischen Zweigen – des ost- und westkaukasischen, ausführlich begründen sollte, während die Frage der vermeintlichen Verwandtschaft dieser Sprachfamilie mit den kartvelischen Sprachen ihm als vorläufig unlösbar erschien.

In questo contesto, la regolarità di tutti gli avvenimenti linguistici, la forma quale specifico linguistico fondamentale e la necessità di considerare ogni singolo piano della lingua come un tutto parziale autonomo, vennero portate alle loro ultime conseguenze, nonostante rimanesse in piedi il valore dei concetti di causalità meccanica e di psicologia genetica, e, come in passato, la concezione di empirismo linguistico conservasse la sua matrice puramente naturalistica. I docenti universitari di Trubeckoj – il severo comparatista W. Porzeziński, lo slavista V. N. Ŝepkin, dotato di un temperamento sensibile e artistico, e il filologo classico M. M. Pokrovskij – furono senza eccezione quegli allievi diretti di Fortunatov che, fedelmente, trasmisero gli insegnamenti e le più sofisticate tecniche linguistiche dell’autorevole pensatore e ricercatore, ma ciò che per loro fu un dogma inamovibile, per lo studente libero pensatore divenne un punto di partenza per una critica radicale e, a volte, demolitoria. Nonostante ciò, Trubeckoj rimase un autentico continuatore della scuola di Mosca, ne mantenne sostanzialmente le varie tematiche di studio e gli accorgimenti utilizzati, durante il primo periodo della sua attività linguistica cercò di allargarne l’orizzonte e di definire e approfondire i suoi princìpi in modo ancora più preciso; accrebbe i lati positivi della scuola e in séguito, nel suo ultimo decennio di vita, cercò a poco a poco di liberarsi dei limiti sopra accennati.
Già da studente, Trubeckoj tentò di applicare alle lingue nord-caucasiche il metodo comparativo utilizzato per l’indoeuropeistica che caratterizzava la scuola di Fortunatov. Nella primavera del 1913, durante il congresso di Tbilisi degli etnologi russi, tenne due conferenze sulle vestigia mitologiche nel Caucaso del nord e una sulla formazione del verbo nel Caucaso dell’est. Lavorò inoltre con assiduità alla grammatica comparativa delle lingue nord-caucasiche, la quale avrebbe dovuto gettare le basi delle affinità originarie tra i due rami nord-caucasici, quello nord-orientale e quello nord-occidentale, mentre, per il momento, gli sembrava ancora insolubile la questione della parentela putativa tra questa famiglia linguistica e le lingue cartveliche.

Diese Arbeit und seine reichhaltigen sprachlichen und folkloristischen Aufzeichnungen aus dem Nordkaukasus, bes. aus dem Tscherkessenland, gingen leider in Moskau während des Bürgerkrieges, zusammen mit zahlreichen Studien aus der altindischen, ostfinnischen und russischen Verslehre, verloren, und nur einen kleinen Teil seiner kaukasologischen Erfahrung gelang es dem Sprachgelehrten wieder¬herzustellen. Trotzdem arbeitete er auch im Ausland auf diesem ver¬wickelten Gebiet unermüdlich weiter, veröffentlichte in den Fachzeit¬schriften eine Reihe bahnbrechender Studien, und seinem ursprünglichen Misstrauen zuwider musste er dabei unvermeidlich, unter dem Druck des eigenartigen Forschungsstoffes, auf die Frage der “typologischen Ver¬wandtschaft” und derjenigen der Nachbarsprachen im besonderen stossen. So kam er zum Problem der “Sprachbunde” (s. Evraijsk. Vremennik III, 1923, 107 ff. und die Akten des I., II. und III. Linguistenkongresses), dessen Tragweite ihm immer deutlicher wurde (vgl. Sbornik Matice slovenskej XV, 1937, 39 ff. und Proceedings des III. Kongresses für phonet. Wissenschaften, 499).
Von der fremden Sprachwissenschaft war es die deutsche, die in den Gesichtskreis der Moskauer Schule stets gehörte, und Trubetzkoy wurde gemäss der Tradition nach Leipzig geschickt, wo er im Wintersemester 1913-1914 die Vorlesungen von Brugmann, Leskien, Windisch und Lind¬ner besuchte, das Altindische und Avestische intensiv studierte und mit den rhythmisch-melodischen Studien Sievers’ sich kritisch auseinander¬setzte. Von Leskien behielt er den Eindruck einer gewaltigen Persönlich¬keit, der das Geleise der junggrammatischen Doktrin allzueng wurde; überhaupt kehrte der junge Gelehrte mit der Vorstellung einer gewissen hemmenden Müdigkeit der deutschen Linguistik zurück, stellte ihr entschlossen die Antriebskraft der neuen französischen Sprachwissen¬schaft gegenüber, bewunderte auch die Frische der Gedanken in den Princi¬pes de linguistique psychologique von J. van Ginneken, und diese neuen, abweichenden Strömungen befestigten seinen Kritizismus und spornten sein Suchen an.

Purtroppo, questo lavoro e la consistente quantità di appunti sulla lingua e il folclore della regione nord-caucasica, in particolar modo, della Circassia, andarono persi durante la guerra civile a Mosca, insieme a innumerevoli studi sulla metrica nell’indo dei Veda, nel finnico dell’est e nel russo, e il grande linguista riuscì a ricomporre solo una piccola parte della sua esperienza caucasologica. Tuttavia, anche all’estero, continuò a dedicarsi instancabilmente allo studio di questo complesso settore, pubblicò diverse ricerche pionieristiche su riviste specialistiche e, contrariamente alla sua iniziale diffidenza, spinto dalla natura stessa del materiale di studio, si trovò inevitabilmente a dover affrontare il problema della “parentela tipologica” e, soprattutto, quello delle lingue affini. Così arrivò a trattare il nodo dello “Sprachbund” [“lega linguistica”; N.d.T.], (si veda Evraz-sk. Vremennik III, 1923, 107 sgg. e gli atti di I, II e III Congresso di linguistica), la cui portata gli divenne sempre più chiara (cfr. Sbornik Matice slovenskej XV, 1937, 39 sgg. e Proceedings del III Congresso delle scienze fonetiche, 499).
Tra le linguistiche straniere, quella tedesca aveva sempre fatto parte dell’orizzonte della Scuola di Mosca e, secondo la tradizione, Trubeckoj venne mandato a Lipsia, dove, nel primo semestre dell’anno accademico 1913-1914, seguì le lezioni di Brugmann, Leskien, Windisch e Lindner, studiò in modo intensivo l’indo dei Veda e l’avestico, e si confrontò in modo critico con gli studi ritmico-melodici di Siever. Di Leskien egli riportò l’impressione di una personalità potente, che sentiva troppo limitative le linee-guida della dottrina neogrammatica. Il giovane studioso ritornò con l’idea di una linguistica tedesca caratterizzata da una certa qual faticosità paralizzante, cui, con fermezza, contrappose la forza propulsiva della nuova linguistica francese; ebbe inoltre la possibilità di apprezzare la freschezza dei pensieri espressi in Principes de linguistique psychologique di J. van Ginneken, e queste correnti nuove e divergenti consolidarono il suo criticismo e stimolarono la sua attività di ricerca.

Diese beiden Elemente waren für ihn naturgemäss verbunden, und er betonte ständig, der Kritizismus müsse konstruktiv sein, sonst entarte er unvermeidlich in eine selbstgenügende anarchische Zerstörungsarbeit, die der Forscher direkt hasste. Die beiden öffentlichen Probevorlesungen, mit denen die Habilitationsprüfungen Trubetzkoy’s 1915 abgeschlossen wurden – Die verschiedenen Richtungen der Veda¬forschung und Das Problem der Realität der Ursprache und die modernen Rekonstruktionsmethoden – wurden zu programmatischen Erklärungen eines schöpferischen Revisionismus, und die ersten konkreten Schritte auf diesem Wege liessen nicht auf sich warten.
Im akademischen Jahre 1915-1916 hielt Trubetzkoy als neu approbier¬ter Privatdozent für vergleichende Sprachwissenschaft an der Moskauer Universität Vorlesungen über Sanskrit und beabsichtigte im nächsten Jahr Avestisch und Altpersisch vorzutragen. Er befasste sich damals, wie er selbst erzählt, hauptsächlich mit iranischen Sprachen, weil diese von allen indogermanischen am meisten auf die kaukasischen Sprachen eingewirkt hatten, welche doch sein Hauptinteresse heranzogen; plötzlich aber traten für ihn die slavischen Sprachen in den Vordergrund. Den Anlass gab das neue Buch des führenden russischen Slavisten A. A. Šaxmatov Abriss der ältesten Periode in der Geschichte der russischen Sprache (1915). Der persönlichste Schüler Fortunatov’s mit einer breiten Tatsachenkenntnis und einer seltenen Intuition ausgerüstet, versuchte hier zum ersten Mal die Summe seiner eigenen Forschung und derjenigen der ganzen Schule zu ziehen und die Lautentwicklung des Urslavischen in seinem Umbau ins Russische als ein Ganzes systematisch aufzudecken. Aber gerade bei dieser synthetischen Fassung trat die ungenügend strenge, allzumechanische Rekonstruktionsweise Šaxmatov’s zu Tage.
A suo parere, questi due elementi erano collegati naturalmente, e, come non mancava mai di sottolineare, il criticismo doveva essere costruttivo, altrimenti sarebbe inevitabilmente degenerato in un’opera di distruzione anarchica e paga di sé stessa, che il ricercatore odiava profondamente. Entrambe le due prolusioni sperimentali e ufficiali, con cui, nel 1915, Trubeckoj terminò gli esami di abilitazione, Die verschiedenen Richtungen der Vedaforschung [I diversi orientamenti della ricerca sui Veda; N.d.T] e Das Problem der Realität der Ursprache und die modernen Rekonstruktionsmethoden [Il problema della realtà della protolingua e i moderni metodi di ricostruzione; N.d.T.], si trasformarono in dichiarazioni programmatiche di un revisionismo creativo e i primi passi concreti in questa direzione non si fecero attendere.
Durante l’anno accademico 1915-1916, presso l’università moscovita, Trubeckoj tenne delle lezioni sulla lingua sanscrita come libero docente appena abilitato nel campo della linguistica comparata e, per l’anno successivo, progettò di tenere delle conferenze sulla lingua avestica e persa antica. Come lui stesso racconta, all’epoca si occupava principalmente delle lingue iraniche, poiché, tra tutte quelle indoeuropee, avevano esercitato la maggiore influenza sulle lingue caucasiche, proprio quelle che attiravano il suo interesse precipuo; ma, sorprendentemente, furono le lingue slave ad accamparsi in primo piano. Lo spunto gli fu offerto dalla pubblicazione del libro Abriss der ältesten Periode in der Geschichte der russischen Sprache [Compendio del periodo più antico nella storia del russo; N.d.T.] (1915), il cui autore era l’eminente slavista russo A. A. Šahmatov. In quest’opera, lo studente più vicino a Fortunatov dotato di una profonda conoscenza dei fatti linguistici e di una rara intuizione, cercò per la prima volta di trarre le fila della sua stessa ricerca e di quella dell’intera scuola e di mettere in luce, come un tutto sistematico, lo sviluppo fonetico del protoslavo nel suo ristrutturarsi entro la lingua russa. Ma proprio durante questa stesura sintetizzante, il metodo di ricostruzione di Šahmatov si rivelò insufficientemente rigoroso e troppo meccanico.

Es brach eine Zeit der Gärung und der Umwertung im Nachwuchs der Moskauer Schule an, eine Zeit der Verfeinerung und Steigerung der methodologischen Forderungen, und man wetteiferte im Aufsuchen und in der Aufklärung der Fehlgriffe des Abrisses, ja ein ganzes Kolleg des jüngsten Schülers Fortunatov’s, N. N. Durnovo, wurde der Besprechung des neuen Buches gewidmet. Doch das wesentlich Neue am lebhaft bestrittenen und von der jüngeren Generation völlig anerkannten Vortrage über die Šaxmatovsche sprachgeschichtliche Konzeption, welchen Trubetzkoy im damaligen Zentrum des Moskauer linguistischen Lebens, in der Dialektologischen Kommission gehalten hat, lag in der durchdringenden Tragweite dieser kritischen Analyse: sie zeigte, dass manche grundsätzliche Fehler Šaxmatov’s schon im Verfahren Fortuna¬tov’s wurzeln, nämlich in seinen Entgleisungen von den eigenen Grund¬prinzipien. Trubetzkoy suchte diese Widersprüche zu beseitigen und die Grundsätze der Schule methodologisch genau und folgerichtig, ja genauer als ihr Urheber selbst, anzuwenden. “Ich fasste”, sagt Trubetzkoy, “den Plan, ein Buch unter dem Titel Vorgeschichte der siavischen Sprachen zu schreiben, worin ich mit Hilfe einer perfektionierten Rekonstruktions¬methode den Vorgang der Entwicklung der slavischen Einzelsprachen aus dem Urslavischen und des Urslavischen aus dem Indogermanischen zu schildern beabsichtigte.”
Als Trubetzkoy nach den stürmischen Erlebnissen der Revolutionszeit nach abenteuerlichem und lebensgefährlichem Wandern durch den Kaukasus des Bürgerkrieges zerlumpt und verhungert beim Rektor der Rostover Universität, trotz dem harten Widerstand der Diener gegenüber dem verdächtigen Vagabunden, erscheint und dort (1918) Professor der slavischen Sprachen wird, ergibt er sich vollständig seinem Buche, beendet im wesentlichen die Lautgeschichte und skizziert die Formenlehre, doch Ende 1919 muss er wieder jählings die Flucht ergreifen, und seine ganze Arbeit geht wiederum im Manuskript verloren.

Per le giovani leve della Scuola di Mosca ebbe inizio un periodo di fermento e sovvertimento dei valori, un periodo di crescita e raffinamento delle esigenze metodologiche e si assistette a una competizione nella ricerca e delucidazione dei passi falsi contenuti nell’Abriss: un intero seminario del più giovane studente di Fortunatov, N. N. Durnovo, fu dedicato infatti alla discussione del nuovo libro. Ma la novità sostanziale della relazione, soggetta a continue discussioni e, senza dubbio, apprezzata dalla generazione più giovane, relazione che verteva sulla concezione storico-linguistica di Šahmatov e che fu tenuta da Trubeckoj nel centro della vita linguistica moscovita di quel tempo, la Commissione dialettologica, risiedeva nella portata di questa analisi critica penetrante: mostrava che alcuni errori basilari di Šahmatov affondavano le proprie radici già nel metodo di Fortunatov, vale a dire nelle sue brusche deviazioni dai propri princìpi di fondo. Trubeckoj cercò di eliminare queste contraddizioni e di applicare le leggi fondamentali della scuola in modo metodologico preciso e consequenziale, con maggiore precisione di quanto non avesse fatto il suo stesso fondatore. Lo stesso Trubeckoj afferma:
Avevo in progetto la stesura di un libro dal titolo Vorgeschichte der slavischen Sprachen [Preistoria delle lingue slave; N.d.T.], in cui, grazie a un metodo di ricostruzione affinato, mi proponevo di illustrare le fasi di sviluppo delle singole lingue slave derivanti dal protoslavo e le fasi di sviluppo del protoslavo dall’indoeuropeo.
Dopo le esperienze turbolente del periodo rivoluzionario e dopo aver errato attraverso il Caucaso in cui era in atto una guerra civile, tra avventure e pericoli insidianti la sua stessa vita, un Trubeckoj affamato e vestito di stracci si presentò al rettore dell’Università di Rostóv, nonostante la forte resistenza del domestico nei confronti del vagabondo sospetto, e lì divenne professore in lingue slave (1918). In questo periodo si dedicò completamente al suo libro, portò a termine – nelle sue linee essenziali – la storia fonologica e approntò uno schizzo sulla morfologia, ma, alla fine del 1919, dovette improvvisamente riprendere la fuga e tutto il suo lavoro in forma di manoscritto andò perso ancora una volta.

Er steht in Konstantinopel vor der tragisch-grotesken Wahl, Schuhputzer zu werden oder weiter heldisch und von seiner heldischen Frau unterstützt, trotz allen Ränken des Schicksals wieder um die Wissenschaft zu kämpfen. Es gelingt ihm, sich in Sofia als Dozent für vergleichende Sprachwissenschaft niederzusetzen, und zwei Jahre später (1922) wird er, besonders dank dem klar¬sehenden Gutachten Jagić’s, Professor der slavischen Philologie an der Universität Wien.
Mit der Beharrlichkeit eines Glaubeneiferers sucht Trubetzkoy seine eingebüsste Vorgeschichte wiederherzustellen, ja er baut sie um und erwei¬tert sie. Folgende Grundgedanken lenken die Arbeit: es ist ebenso verfehlt die urslavischen Vorgänge auf eine Zeitebene zusammenzuwerfen, wie die Eroberungen Cäsars und Napoleons als synchronisch auffassen zu wollen; das Urslavische hat eine lange und verwickelte Geschichte, und mittels einer relativchronologischen Analyse ist die vergleichende Sprach¬wissenschaft imstande, sie aufzudecken und aufzuzeichnen; die gleich¬zeitigen sowie die nacheinanderfolgenden Ereignisse müssen in ihrem inneren Zusammenhange untersucht werden, und hinter den Einzelbäumen darf man nicht den Wald als Ganzes, die Leitlinien der Entwick¬lung übersehen. Fortunatov lehnt zwar im Grundsatz die naturalistische Stammbaumtheorie entschieden ab, doch bleiben trotzdem ihre Überreste in seiner sprachhistorischen Forschungsarbeit und eigentlich in der üb¬lichen komparatistischen Praxis überhaupt vorhanden, wogegen Trubetz¬koy die Schleichersche sprachgenealogische Auffassung zugunsten der Wellentheorie restlos und konsequent aufgibt; demzufolge betrachtet er die einzelnen slavischen Sprachen in ihrer Anfangsperiode als blosse Mundarten innerhalb des Urslavischen; die Anfänge seiner Differenzie¬rung erklärt er geistreich durch die “Unterschiede im Tempo und in der Richtung der Verbreitung gemeinurslavischer Lautveränderungen” und durch die daraus folgende verschiedenartige Reihenfolge dieser Verände¬rungen in den einzelnen Dialekten. Das Urslavische als “Subjekt der Evolution” lebt, wie Trubetzkoy überzeugend zeigte, bis zur Schwelle unseres Jahrtausends, als der letzte gemeinslavische Lautwandel, der Verlust der schwachen Halbvokale, sich zu verbreiten anfing.

A Costantinopoli si trovò davanti alla scelta tragico-grottesca di diventare un lustrascarpe o ancora, eroico e sostenuto da una moglie altrettanto eroica, di continuare a lottare per la scienza, nonostante tutti gli scherzi del destino. Gli riuscì di ottenere una cattedra a Sofia come docente di linguistica comparata e, due anni più tardi (nel 1922), divenne professore di filologia slava all’Università di Vienna, soprattutto grazie alla chiaroveggente expertise di Jagić.
Con la tenacia propria di uno zelante fanatico, Trubeckoj cercò di ricostruire la propria Vorgeschichte, andata persa, e anzi la ristrutturò e ampliò. A guidare il suo lavoro furono i seguenti concetti fondamentali: è altrettanto erroneo pensare a un accostamento sincronico ai diversi stadi di sviluppo del protoslavo, di quanto lo sarebbe l’interpretazione sincronica delle conquiste di Cesare e Napoleone; l’Ur-slavo ha una storia lunga e intricata e, all’interno di un’analisi cronologica relativizzante, la linguistica comparata è in grado di individuare e tracciare tale storia; gli avvenimenti contemporanei, così come quelli sequenziali, devono venire studiati nel loro contesto intrinseco e non si possono ignorare le linee-guida dello sviluppo, analogamente a come, dietro ai singoli alberi, non si può ignorare il bosco nella sua totalità. Tra i suoi princìpi, Fortunatov rifiuta sì con risolutezza la teoria naturalistica dell’albero filogenetico, ma, nel suo lavoro di ricerca storico-linguistica, ne rimangono comunque dei residui, in realtà molto presenti nel consueto metodo comparativo, al contrario di Trubeckoj che abbandona definitivamente e con fermezza l’interpretazione storico-genealogica di Schleicher a favore di un modello a onde; di conseguenza guarda ai singoli idiomi slavi nelle loro fasi iniziali come a semplici dialetti all’interno del protoslavo. Trubeckoj illustra con grande arguzia i princìpi della differenziazione dello slavo attraverso le «diversità, quanto a velocità e direttrici di propagazione, della diffusione dei mutamenti fonici del protoslavo comune« e attraverso la diversificata sequenza che tali mutamenti originano nei singoli dialetti. Come Trubeckoj dimostrò in modo convincente, l’Ur-slavo visse quale “soggetto dell’evoluzione”, fino alla soglia del nostro millennio, quando poi iniziò a diffondersi l’ultimo cambiamento fonico della matrice slava, la perdita delle semivocali deboli.
Es erschienen in den slavistischen Zeitschriften der zwanziger Jahre bloss einzelne, wenn auch ausgezeichnet zusammenfassende Bruchstücke des lautgeschichtlichen Teils der Vorgeschichte, und doch darf man sagen, es gebe kaum in der Weltliteratur eine junggrammatische Schilderung der Sprachdynamik, die dermassen ganzheitlich vorgehe. Selbst die offenbaren fremden Einflüsse, wie z. B. die Lehre Meillets von den ursprachlichen Dialekten oder die Gedanken Bremers und Hermanns über die relative Chronologie, sind hier so tief und organisch bis zu den feinsten logischen Folgerungen verarbeitet, dass das Werk eine selten persönliche Prägung behält. Weshalb wurde dieses Buch nie vollendet? Kaum war da ein Zufall, wenn auch mehrere zufällige Hindernisse im Wege standen.
Am Anfang der Arbeit war für Trubetzkoy (ähnlich wie für Fortunatov und Leskien) die indogermanische Erbschaft im Urslavischen das bemer¬kenswerteste, und Spuren der versunkenen morphologischen Kategorien hier zu suchen blieb stets seine grosse Vorliebe und Kunst (vgl. Slavia I, 12 ff. und ZfslPh IV, 62 ff.). Doch musste er in Wien die einzelnen slavi¬schen Sprachen und Literaturen vortragen, und seine Lehrpflichten nahm er, der geborene und vollkommene Lehrer, bis zu einer asketischen Opfer¬willigkeit ernst (vgl. den Nachruf seines besten linguistischen Schülers A. V. Isačenko in der Slav. Rundsch. X). Er stellte sich zur Aufgabe, jede dieser Sprachen in ihrer Entwicklungsgeschichte selbständig durch¬zuprüfen. So bekam in seinen Vorlesungen die Vorgeschichte der slavischen Sprachen ihre gesetzmässige Fortsetzung, die auch auf die prähistorischen Stufen mehrmals ein neues Licht warf und auch für diesen Fragenkreis Ergänzungen und Korrekturen forderte. Auch auf die Entwicklung der einzelnen slavischen Sprachen wendet Trubetzkoy das streng vergleichende Verfahren an; dem Fortunatovschen Gedanken treuer als Fortunatov selbst, betont er bei seiner bahnbrechenden Dar¬stellung der russischen Lautgeschichte (Zfs1Ph I, 287 ff.), die komparatis¬tische Methode spiele hier naturgemäss “eine grössere Rolle als die rein¬philologische”,

Nelle riviste slave degli anni Venti apparvero solo alcuni, per quanto eccellenti, frammenti riassuntivi della sezione storico-fonica della Vorgeschichte, e tuttavia si può dire che si stenterebbe a trovare nella letteratura mondiale una descrizione neogrammatica delle dinamiche linguistiche che proceda con una tale coesione unitaria. In questi scritti, gli influssi manifesti di altri linguisti – come, per esempio, la dottrina di Meillet sui protodialetti linguistici o le tesi di Bremer e Hermann sulla cronologia relativizzante – vengono elaborati in modo così profondo e organico fino alle loro ultime implicazioni logiche, che l’opera conserva un’impronta personalissima. Ma perché questo libro non è mai stato portato a compimento? Non è stato un caso, anche se molteplici impedimenti ne intralciarono la completa stesura.
All’inizio, per Trubeckoj (come anche per Fortunatov e Leskien) nell’Ur-slavo la cosa più rimarchevole era il retaggio indoeuropeo e la sua più grande passione e maestria continuò a essere la ricerca, all’interno di tale eredità, delle tracce di categorie morfologiche estinte (cfr. Slavia I, 12 sgg. e Zeitschrift für slavische Phylologie IV, 62 sgg.). Ma a Vienna le sue lezioni dovevano vertere sulle singole lingue e letterature slave e Trubeckoj assunse così seriamente il suo dovere di docente – un docente nato, un docente per eccellenza – da giungere all’abnegazione ascetica (cfr. il necrologio del suo migliore allievo, il linguista A. V. Isačenko, nella Slavische Rundschau X). Trubeckoj si pose come c¬ómpito quello di passare al setaccio ognuna di queste lingue, prese singolarmente nel contesto della loro storia evolutiva. Così, nelle sue lezioni, la protostoria delle lingue slave trovò una propria continuazione logica che, da un lato, gettava continuamente nuova luce sugli stadi più antichi e, dall’altro, esigeva completamenti e correzioni a questa problematica. Trubeckoj estese il severo metodo comparativo anche allo sviluppo delle singole lingue slave; più fedele al pensiero di Fortunatov dello stesso Fortunatov, con una esposizione fortemente innovativa della storia fonica russa (Zeitschrift für slavische Phylologie I, 287 sgg.), Trubeckoj sottolineò come, in modo naturale, il metodo comparativo giochi, all’interno di questo discorso, «un ruolo di maggiore rilievo rispetto a quello della filologia pura, e, di conseguenza, arrivò a comprendere
und folgerichtig erfasst er die den rechtgläubigen Kom¬paratisten sonderbarerweise entgangene Notwendigkeit, das Altkirchen¬slavische durch den Vergleich seiner čechischen und bulgarischen Rezen¬sion wiederherzustellen. Nur Weniges von diesen durchdachten Studien ist im Drucke erschienen, und erst wenn seine Aufzeichnungen zu den sprachhistorischen Vorlesungen herausgegeben werden, und wenn es uns hoffentlich gelingt, seine zahl- und inhaltreichen linguistischen Briefe (Trubetzkoy’s Lieblingsgattung!) zu veröffentlichen, wird die Tiefe, Breite und Originalität seiner Forschungsbeute noch anschaulicher her¬vortreten.
Einerseits erweiterte sich das Programm der Vorgeschichte, andererseits wurde seine Verwirklichung durch literarhistorische Vorlesungen und kulturwissenschaftliche Studien verzögert. Doch waren die einen wie die anderen auch für die Linguistik ergebnisreich. Die Probleme der dichte¬rischen Sprache, in der heimatlichen wissenschaftlichen Tradition mannigfaltig vertreten, von F. E. Korš (einem der ruhmvollen “Moskauer” neben seinen Mitgenossen Fortunatov und Miller) geistvoll gepflegt und von den russischen Wortkünstlern unseres Jahrhunderts praktisch und theoretisch zugespitzt, mündeten um die Revolutionsjahre in der Fassung der jungen Sprach- und Literaturforscher Russlands in ein harmonisches System der streng linguistisch (bzw. semiotisch) fundierten Poetik (bzw. Ästhetik). Trubetzkoy, den die Fragen der linguistischgeprüften Metrik von Jugend an lockten, näherte sich allmählich den Prinzipien dieser (in den slavischen Ländern heutzutage einflussreichen) “formalistischen Schule”, verstand ihre mechanistischen Entgleisungen zu überwinden, zeigte das Schaffen Dostoevskijs in einem ungewohnten doch für die Dichtung als solche massgebenden, rein linguistischen Aspekt und legte vor allem die Grundsteine zur Untersuchung der alt¬russischen Wortkunst, – eine Tat, die nicht nur eine unbekannte Welt eigenartiger und erhabener Kunstwerte wissenschaftlich entdeckt, sondern zugleich die methodologisch wichtige Frage der Werthierarchien im allgemeinen aufrollt.

la necessità, stranamente sfuggita ai comparativisti ortodossi, di ricostruire il paleoslavo ecclesiastico attraverso il confronto con le sue forme ceche e bulgare fino ad allora recensite. Di questi studi elaboratissimi, solo pochi furono pubblicati e solamente quando verranno divulgati i suoi appunti sulle lezioni storico-linguistiche e quando, auspicabilmente, ci riuscirà di far conoscere le sue numerose lettere di carattere linguistico tanto dense di contenuto (il genere preferito di Trubeckoj!), la profondità, l’ampiezza e l’originalità del suo prezioso materiale di studio appariranno ancora più perspicui.
Se da un lato il programma della Vorgeschichte acquistò maggiore corposità, dall’altro la sua realizzazione venne rallentata a causa delle lezioni storico-letterarie e degli studi scientifico-culturali. Ma anche per la linguistica, tutte queste occupazioni furono in eguale misura feconde. Intorno agli anni della rivoluzione, i problemi relativi al linguaggio poetico, rappresentati in svariati modi nella tradizione scientifica del proprio paese, coltivati in modo arguto da F. E. Korš (uno dei gloriosi “moscoviti” accanto ai suoi sodali Fortunatov e Miller) e portati all’estrema conseguenza, sia sotto l’aspetto pratico che teorico, dagli artisti russi della parola contemporanei, sfociarono – nelle formulazioni dei giovani ricercatori russi in campo linguistico e letterario – in un sistema armonioso di una poetica (ovvero di una estetica) dalle rigorose fondamenta linguistiche (ovvero semiotiche). Trubeckoj, che fin da giovane era attratto dagli interrogativi sulla metrica analizzata sulle basi di leggi linguistiche, si avvicinò in modo graduale ai princìpi di questa “scuola formalistica” (oggigiorno molto influente nei paesi slavi), ne seppe superare le deviazioni meccanicistiche, analizzò le opere di Dostoevskij da un punto di vista sicuramente inusuale, ossia prettamente linguistico e tuttavia determinante per la poetica stessa, e, soprattutto, gettò le fondamenta per un esame dell’antica arte russa della parola, un’impresa che non solo portò alla luce in modo scientifico un mondo sconosciuto dal valore artistico peculiare e sublime, ma che, al tempo stesso, delucidò la questione, basilare per la sfera metodologica, riguardante la scala dei valori in generale.

Die kulturwissenschaftlichen Skizzen Trubetzkoy’s brachten ihm die Problematik der Schriftsprache nah und bereicherten die Sprachwissenschaft durch seine schöne Studie über die Rolle des Kirchenslavischen für das Russische, eine der glänzendsten Leistungen des Gelehrten, die für das Problem des hybriden Sprachbaus von grund¬sätzlicher Bedeutung ist und in der Frage der Radiationszone des cyrilli¬schen Alphabets sich geradezu als prophetisch erwies (s. K probleme russkogo samopoznanija). Für die schöpferische Entwicklung Trubetzkoys waren die Gebiete der Wortkunst und der Sprachkultur besonders dadurch wichtig, dass sie ihn unmittelbar vor die Fragen des synchronischen Systems und der Zielstrebigkeit stellten.
Je mehr sich der Forscher mit der Lautgeschichte befasste, desto klarer sah er ein, dass “die Lautentwicklung wie jede andere historische Entwicklung ihre innere Logik besitzt, die zu erfassen die Aufgabe des Lauthistorikers ist”, doch letzten Endes trat das teleologische Prinzip in einen unversöhnlichen Konflikt mit der herkömmlich naturalistischen Behandlung der lautlichen Geschehnisse. Die Vorgeschichte wuchs in die Vereinung ihrer eigenen Grundlage um. Trubetzkoy war durch und durch historisch eingestellt, und solange das Problem des Phonems und der Phonemsysteme sich auf die Synchronie beschränkte, liess es ihn, wie ehemals auch Fortunatov und seine Schüler, kühl und passiv. Die Lehren Saussure’s, Baudouin de Courtenay’s und Ščerba’s lagen ausser¬halb seiner Problematik, da sie “sich einfach von der Sprachgeschichte abwandten”. Er billigte zwar (Slavia II, 1923, 452ff.; BSL XXVI, 3, 1925, 277ff.) meinen Versuch einer phonologischen Prosodie, gleich wie die Untersuchung N. F. Jakovlev’s über den kabardinischen Phonembestand, aber einzig die Frage der panchronischen prosodischen Gesetze lässt eine Spur in seiner eigenen Arbeit.
Gli schizzi storico-culturali intrapresi da Trubeckoj lo avvicinarono alla problematica della lingua scritta e arricchirono la linguistica grazie a un suo bellissimo studio sul ruolo dello slavo ecclesiastico all’interno della lingua russa, una delle opere più brillanti dello studioso, tale da rivestire un significato fondamentale per la trattazione del problema riguardante la struttura, basata sull’ibridazione, della lingua e da rivelarsi addirittura profetica quanto all’investigazione dell’ambito della zona di irradiamento dell’alfabeto cirillico (si veda la già citata K probleme russkogo samopoznaniâ). Particolarmente significativi per lo sviluppo della creatività di Trubeckoj furono i campi dell’arte della parola e della cultura linguistica, poiché lo posero immediatamente davanti ai problemi relativi al sistema sincronico e ai processi governati da finalismo.
Quanto più il ricercatore si occupava della storia fonematica, tanto più capiva che «lo sviluppo fonetico, analogamente a tutti gli altri sviluppi storici, possiede una propria logica intrinseca, la cui individuazione è cómpito dello studioso di fonologia», ma, in ultima analisi, il principio teleologico entrò in un conflitto irrisolvibile con la trattazione naturalistica tradizionale dei fenomeni fonematici. La Vorgeschichte crebbe intorno al fondersi dei suoi stessi princìpi fondamentali. Trubeckoj aveva un’impostazione radicalmente storica e, fintantoché il problema dei fonemi e del sistema fonemico si limitava alla sincronia, egli rimaneva freddo e indifferente, come già prima Fortunatov e i suoi allievi. Gli insegnamenti di Saussure, Baudouin de Courtenay e Ŝerba erano alieni alla sua problematica, poiché «semplicemente si allontanavano dalla storia della lingua». Egli si trovò però d’accordo (Slavia II, 1923, 452 sgg.; BSL XXVI, 3, 1925, 277 sgg.) con il mio tentativo di una prosodia fonologica, proprio come con la ricerca intrapresa da N. F. Âkovlev sul patrimonio fonetico cabardinico, ma solo il problema delle leggi prosodiche pancroniche lasciò un segno nel suo lavoro.

Erst als das phonologische Problem auf das Gebiet der Sprachgeschichte übergeht und ihn Ende 1926 ein aufgeregter langer Brief erreicht, der die Frage aufwarf, ob es nicht geeignet wäre, die naturwidrige Kluft zwischen der synchronischen Analyse des phonologischen System einerseits und der “historischen Phonetik” andererseits dadurch zu überbrücken, dass jeder Lautwandel als ein zweckbedingtes Ereignis unter dem Gesichtspunkt des gesamten Systems untersucht werden soll, bringt diese Frage den Empfänger, nach seinem eigenen Ausdruck, aus dem Konzept. Er gesteht bald zu, es gebe hier keinen Mittelweg. Und als Trubetzkoy meine Thesen für den Haager Linguistenkongress (Korrelationsbegriff, allgemeine Solidaritäts¬gesetze, historische Phonologie) zugesandt bekam, schrieb er, er füge gern auch seine Unterschrift hinzu, bezweifle aber, dass die Fragestellung verstanden wird. Indessen erwies es sich im Haag, dass in der jungen Linguistik verschiedener Länder ein unabhängiges und doch konvergentes Streben nach einer strukturalen Auffassung der sprachlichen Sychronie und Diachronie losbricht; das wirkte freudig ermunternd, und wenige Monate später schrieb Trubetzkoy, er habe in den Sommerferien unter anderm über Vokalsysteme nachgedacht, zirka vierzig aus dem Gedächt¬nis untersucht und manches Unerwartete habe sich dabei herausgestellt. Es war in nuce die Untersuchung “Zur allgemeinen Theorie der phonolo¬gischen Vokalsysteme” (TCLP I, 1929, 39 ff.). Man vermutete zwar schon, das phonologische System wäre keine mechanische “Und-Verbindung”, sondern eine geordnete gesetzmässige Gestalteinheit, aber erst er baute einen wesentlichen Abschnitt dieser Systemlehre konkret auf. Er zeigte, dass die Vielheit der Vokalsysteme auf eine beschränkte Anzahl sym¬metrischer, durch einfache Gesetze bestimmter Modelle hinausläuft, und stellte ihre Typologie fest. Karl Bühler sagt mit Recht, Trubetzkoy habe “für die Vokalphoneme einen Systemgedanken vorgelegt, der an Trag¬weite und einleuchtender Einfachheit dem Systemgedanken seines Landsmannes, des Chemikers Mendeleev, gewachsen sein dürfte”.
Im Geiste eines wirklichen kollektiven Schaffens, in dem Trubetzkoy eine russische Erbschaft sah, wurde dann an der neuen Disziplin gearbei¬tet. Er pflegte unsere Zusammenarbeit mit

Secondo quanto lui stesso affermò, Trubeckoj cadde in confusione solo quando il problema fonologico trapassò al campo della storia della lingua e quando, alla fine del 1926, ricevette una lunga lettera concitata, che sollevava il quesito se non fosse opportuno superare la spaccatura innaturale tra l’analisi sincronica del sistema fonologico da una parte, e la “fonetica storica” dall’altra, così che ogni mutamento fonetico venisse studiato come un evento finalistico dal punto di vista dell’intero sistema. Immediatamente, egli ammise che, in questo caso, non poteva esistere una via di mezzo. E quando Trubeckoj ricevette per posta le mie tesi formulate per il Congresso dei linguisti dell’Aia (concetti di correlazione, leggi generali di solidarietà, fonologia storica), mi rispose che avrebbe apposto con grande piacere anche la sua firma, ma che dubitava che la formulazione del quesito potesse essere capita. Per contro, all’Aia si dimostrò che, nella linguistica più recente dei diversi paesi, si stava facendo strada una tendenza indipendente, e tuttavia convergente, verso un’interpretazione strutturale della sincronia e diacronia linguistica; questo fatto ci rallegrò e incoraggiò e, dopo pochi mesi, Trubeckoj scrisse che, durante le vacanze estive, aveva riflettuto, tra le altre cose, sui sistemi vocalici, studiandone circa quaranta attingendo alla propria memoria e che, nel fare questo, qualcosa di inatteso era venuto alla luce. Era in nuce lo studio «Sulla teoria generale del sistema fonologico vocalico» (TCLP I, 1929, 39 sgg.). Si presupponeva già che il sistema fonologico non fosse una “Und-Verbindung” [un collegamento basato sulla mera giustapposizione; N.d.T.] meccanica, ma un’unità, una Gestalt ordinata e improntata a delle regole, però lui fu il primo a erigere in modo concreto un capitolo fondamentale di questa dottrina sistematica. Egli dimostrò che la molteplicità dei sistemi vocalici finiva col corrispondere a un numero limitato di modelli simmetrici determinati da leggi elementari e ne fissò la tipologia. Karl Bühler affermò a ragione che «Trubeckoj ha messo appunto un sistema concettuale per i fonemi vocalici, che, per portata e illuminante semplicità, può definirsi all’altezza del sistema concettuale del suo connazionale, il chimico Mendeleev».
Quindi, nello spirito di un processo creativo reale e collettivo, in cui Trubeckoj ravvisava un
einem Staffellauf zu vergleichen. Bald erhielt dieser Aufbau eine noch breitere Grundlage – die gemein¬samen Anstrengungen des Prager linguistischen Cercle. “Die verschiede¬nen Entwicklungsstufen des Cercle, – schreibt Trubetzkoy, – die ich mit ihm gemeinsam erlebte, tauchen in meinem Gedächtnis auf – erst die bescheidenen Versammlungen beim Vorsitzenden (V. Mathesius), dann die heroische Zeit der Vorbereitungen zum ersten Slavistenkongress, die unvergesslichen Tage der Prager phonologischen Konferenz und viele andere schöne Tage, die ich in der Gesellschaft meiner Prager Freunde erlebt habe. Alle diese Erinnerungen sind in meinem Bewusstsein mit einem seltsamen erregenden Gefühl verbunden, denn bei jeder Berührung mit dem Prager Cercle erlebte ich einen neuen Aufschwung der schöp¬ferischen Freude, die bei meiner einsamen Arbeit fern von Prag immer wieder sinkt. Diese Belebung und Anregung zum geistigen Schaffen ist eine Äusserung des Geistes, welcher unserer Vereinigung eigen ist und aus der kollektiven Arbeit der befreundeten Forscher entsteht, die in einer gemeinsamen methodologischen Richtung gehen und von gleichen theoretischen Gedanken bewegt sind.” Hier möchten wir aber vor allem den massgebenden persönlichen Beitrag Trubetzkoys in knappen Worten zum Gedächtnis bringen.
Glücklich verband er den Korrelationsbegriff mit der Lehre Saussure’s über die phonologische Gegenüberstellung eines Vorhandenseins und Nichtvorhandenseins und entwickelte mit Martinet den damit eng zusammenhängenden Begriff der Oppositionsaufhebung (TCLP VI); Jakovlevs treffenden Anregungen folgend, vollbrachte er eine scharfe Analyse aller konsonantischen Korrelationen (TCLP IV) und baute eine tragfähige Systematik der Grenzsignale auf (Proceedings II); er machte den ersten, tastenden Versuch einer Einteilung der phonologischen Oppositionen (Journ. de Psych. XXXIII); er besprach eingehend die Technik der phonologischen Sprachbeschreibungen (Anleitung zu phonologischen Beschreibungen, 1935) und gab einige mustergültige Bei¬spiele: das Konsonantenverzeichnis der ostkaukasischen Sprachen (Cau¬casica VIII), die Morphonologie des Russischen (TCLP V, 2) und die

retaggio russo, si cominciò a lavorare alla nuova disciplina. Era solito paragonare la nostra collaborazione a un gioco di staffetta. Presto questa costruzione poté contare su una base ancora più ampia: gli sforzi di tutto il Cercle linguistico di Praga. Scrive Trubeckoj:
I diversi stadi di sviluppo del Circolo, attraverso cui sono passato di persona insieme agli altri membri, riaffiorano alla mia memoria: prima le modeste riunioni in casa del presidente (V. Mathesius), poi il periodo eroico del lavoro di preparazione per il primo congresso degli slavisti, i giorni indimenticabili della conferenza sulla fonologia a Praga e ancora molti altri momenti che ho vissuto nella cerchia delle mie amicizie praghesi. Tutti questi ricordi sono legati, nella mia consapevolezza, da un sentimento particolare ed entusiasmante, poiché a ogni contatto con il Circolo di Praga sono stato travolto da un nuovo slancio di gioia feconda che svaniva immancabilmente quando invece mi dedicavo al mio lavoro solitario lontano da Praga. Questo stimolo vivificante all’operare creativo di natura intellettuale è un’espressione dello spirito che caratterizza il nostro sodalizio e che nasce da un lavoro comune di ricercatori legati da amicizia, ricercatori che condividono lo stesso approccio metodologico e che sono mossi dalle stesse concezioni teoriche.
Ma più di tutto, vorremmo qui brevemente ricordare il determinante contributo personale di Trubeckoj.
Con successo creò un legame tra il concetto di correlazione e la dottrina di Saussure sul raffronto fonologico tra entità esistenti e non esistenti, e sviluppò con Martinet l’idea a ciò strettamente connessa di un superamento delle opposizioni (TCLP VI); sulla scorta dei felici impulsi di Âkovlev, completò un’acuta analisi di tutte le correlazioni consonantiche (TCLP IV) e costruì una solida sistematica dei segnali limite (Proceedings II); fece il primo tentativo volto a sondare il terreno in vista di una classificazione delle opposizioni fonologiche (Journal de Psychologie XXXIII); in modo dettagliato discusse la tecnica delle descrizioni fonologiche della lingua (Anleitung zu phonologischen Beschreibungen [Introduzione alle descrizioni fonologiche; N.d.T.], 1935) e ne diede alcuni esempi magistrali: la registrazione delle consonanti nelle lingue del Caucaso orientale (Caucasica VIII), la morfofonologia del russo (TCLP V, 2) e le esaustive

erschöpfenden Monographien über das Polabische (Sitzb. Ak Wiss. Wien, phil-hist. Kl., CCXI, Abh. 4) und das Altkirchenslavische. Zur letzteren sind bisher nur die Vorstudien veröffentlicht, aber hoffentlich erscheint bald auch das beinahe fertiggeschriebene Handbuch . Es ist interessant, dass die beiden Monographien tote Sprachen behandeln, deren Phonembestand erst durch eine sorgfältige Analyse des Schrift¬systems in seinem Verhältnis zum phonologischen System festgestellt wird, und auch in diesem Sinne sind die beiden Arbeiten wirkliche Meis¬terstücke, die die Fortunatovsche Tradition fortsetzen und würdig krönen: das Problem der Wechselseitigkeit zweier autonomen Systeme – der Schriftnorm und der Lautnorm lockte stets die Aufmerksamkeit der Moskauer Schule; die polabische Spielart dieses Problems fesselte schon Porzeziński sowie Ščepkin, und Trubetzkoy beabsichtigte, seine Pola¬bischen Studien dem Andenken des ersten zu widmen; der altkirchen¬ slavischen Schrift und Orthographie gelten die feinsten Beobachtungen Fortunatov’s und in der neueren Zeit die ursprünglichsten Erwägungen Durnovos, an die Trubetzkoy anknüpft; “Alphabet und Lautsystem” wird ihm zum Ausgangspunkt seiner phonologischen Forschung, und er glaubt, eine autonome Graphemenlehre nach dem Vorbild der Phonemenlehre entstehen zu sehen (Slovo a Slovesnost I, 133).
Die Phonologie der beiden toten Sprachen ist zwar bei Trubetzkoy streng synchronisch gefasst, doch die Projektion des statischen Quer¬schnittes in die Vergangenheit ist für ihn offenkundig eine Vorstufe der diachronischen Forschung. Als Anthithese der historischen Phonetik, welche die erste Etappe seines Schaffens beherrschte, trat in der weiteren Etappe die synchronische Phonologie ein, die Diachronie wurde von jetzt an nur in zwei episodischen Beiträgen angetastet (Festschrift Miletič 1933, 267 ff. und Księga referatów des II. Slavistenkongresses 1934, 133 ff.), und doch bleibt die Lautgeschichte die verborgene Triebkraft seines Suchens, und Trubetzkoy strebt zur historischen Phonologie als dialektischer Synthese.

monografie sull’idioma polabo (Sitzungberichte der Akademie der Wissenschaften, Wien, philos.-histor. Kl., CCXI, Abh. 4) e paleoslavo ecclesiastico. Di questa ultima monografia, sono stati pubblicati fino ad ora solo gli studi preparatori, ma ci si augura che sia presto disponibile anche il manuale , la cui stesura era quasi completa. È interessante notare come entrambe le monografie tràttino di lingue morte, il cui patrimonio fonematico viene stabilito ancora attraverso un’analisi scrupolosa del sistema grafico nella sua relazione con quello fonologico, e anche in questo senso entrambe le opere rappresentano due autentici capolavori che proseguirono e coronarono degnamente la tradizione di Fortunatov: il problema della reciprocità di due sistemi autonomi, la norma grafica e fonica, che aveva sempre suscitato l’interesse della Scuola di Mosca; la peculiarità che questo problema assume all’interno della lingua polaba aveva già catturato Porzeziński come anche Ŝepkin, e Trubeckoj si ripropose di dedicare i suoi Polabischen Studien [Studi sul polabo; N.d.T.] alla memoria di Porzeziński; le osservazioni più fini di Fortunatov e, negli ultimi tempi, le primissime riflessioni di Durnovo, furono rivolte alla scrittura e ortografia del paleoslavo ecclesiastico e proprio a queste si riallaccia Trubeckoj; «alfabeto e sistema fonico» divennero il punto di partenza della sua ricerca fonologica ed egli credette di vedere la nascita di un’autonoma dottrina dei grafemi sulla base della dottrina fonematica (Slovo a Slovesnost I, 133).
La fonologia di entrambe le lingue morte venne sì affrontata da Trubeckoj in modo scrupolosamente sincronico, ma la proiezione del profilo statico nel passato fu per lui, in modo manifesto, uno stadio preliminare della ricerca diacronica. In antitesi alla fonetica storica che aveva dominato la prima fase del suo lavoro, subentrò, nella seconda fase, la fonologia sincronica, e da qui in poi la diacronia venne trattata di sfuggita in due saggi episodici (Festschrift Miletič 1933, 267 sgg. e Księga referatów del II Congresso di slavisti del 1934, 133 sgg.). E tuttavia, la storia della fonetica rimase la molla segreta della ricerca di Trubeckoj, che tese alla fonologia storica come a una sintesi dialettica.

Er weiss, wie grosse und grundsätzlich neue Aufgaben hier den Forscher erwarten, wie eingehend das Rekonstruk¬tionsverfahren sich ändern muss, wie viele Überraschungen der weitere Fortschritt der phonologischen Geographie, bes. ein entsprechender Weltaltlas, beibringen kann, und wie selbst das Problem einer Ursprache, beispielsweise des Urindogermanischen, in einem wesentlich neuen Lichte hervortritt (vgl. Acta Ling. I, 81 ff.). In seinem Handbuch des Altkirchen¬slavischen versucht Trubetzkoy, die methodologische Erfahrung der Phonologie auch auf das Gebiet der Formenlehre zu erweitern (ausser dem Kasuskapitel hielt er diesen Teil des Werkes im grossen und ganzen für fertig). Der systematische Aufbau der strukturalen Morphologie, besonders einer Typologie der morphologischen Systeme kommt für ihn an die Reihe, sowie die gleichlaufende (in Mélanges Bally, 75 ff. angedeutete) syntaktische Problematik. Und endlich schwebte ihm eine strukturale Betrachtung des Wortschatzes als eines gesetzmässigen Systems immer deutlicher vor (vgl. TCLP I, 26 f.).
Doch das alles zu verwirklichen war ihm leider nicht mehr vergönnt, und er ahnte es. Unermüdlich schrieb er, mit dem Tode im Herze, an den Grundzügen der Phonologie (TCLP VII), seinem herrlichen Synthese¬buch, das er als den Etappeabschluss betrachtete und als eine fördernde Grundlage zu den sich immer mehrenden phonologischen Sprachbe¬schreibungen sowie zu einer weiteren sachlichen, fruchtbaren theoretischen Diskussion.
“Die Lebensfrist ist schon kurz, – schrieb einst Sergej Trubetzkoy, – und man muss sich beeilen, alles, was noch möglich, aus der geistigen Ernte einzuheimsen, – nur dass es nicht zu spät sei.” – “Dieses Vorgefühl täuschte leider nicht, – fügt sein Bruder hinzu, – das Herz hielt nicht aus […] und er verschied in der vollen Blüte seiner Kräfte […] Vor Entrüstung und Schmerz um der Anderen willen verschmachtete er und starb.”

Era consapevole dei grandi e fondamentalmente nuovi cómpiti che sarebbero spettati ai ricercatori in questo settore; di quanto in profondità si sarebbe dovuto spingere il processo di ricostruzione; di quante sorprese avrebbe potuto offrire un ulteriore progresso nel campo della geografia fonologica, in particolare un corrispondente atlante universale; e di come il problema stesso di una Ur-sprache, per esempio il protoindoeuropeo, si sarebbe presentato sotto una luce del tutto diversa (cfr. Acta Linguistica I, 81 sgg.). Nel manuale sulla lingua paleoslava ecclesiastica, Trubeckoj cerca di estendere l’esperienza metodologica della fonologia al campo della morfologia (nel complesso, eccetto il capitolo sui casi, egli considerò conclusa questa parte dell’opera). In un secondo momento si sarebbe presentata la costruzione sistematica della morfologia strutturale, in modo particolare di una tipologia di sistemi morfologici, come anche il parallelo problema sintattico (in Mélanges Bally, 75 sgg.). Infine, in modo sempre più chiaro, si delineò nella sua mente una riflessione di tipo strutturale riguardante il lessico quale sistema governato da proprie regole interne (cfr. TCLP I, 26 sg.).
Purtroppo, come lui stesso aveva presagito, non gli fu però più possibile realizzare tutto questo. Con uno spirito instancabile e la morte nel cuore, si mise a lavorare a Fondamenti di fonologia (TCLP VII), un magnifico lavoro di sintesi da lui considerato la tappa conclusiva e il punto di partenza che sarebbe servito da stimolo sia per le descrizioni di analisi linguistiche fonologiche vieppiù numerose, sia per un’ulteriore discussione teoretica, obiettiva e feconda.
«La vita è breve» scrisse una volta Sergej Trubeckoj, «e noi dobbiamo affrettarci, per quanto possibile, a fare incetta del raccolto spirituale prima che non sia troppo tardi». «Questo presentimento non era fallace», aggiunse suo fratello, «il suo cuore non resse […] e lui morì nel pieno delle sue forze […] mosso dall’amore per gli altri, si strusse e morì per lo sdegno e il dolore».

Das tragische Schicksal des Vaters wiederholte sich buchstäblich. Der Mensch, der das Zeitalter rühmte, in dem die gesamte Wissenschaft die atomisie¬rende Weltauffasung durch den Strukturalismus zu ersetzen suchte, und der zu seinen grössten und wackersten Vorkämpfern gehörte, scheute in seinem bewegten Leben einzig die seelenlose Vertilgung der Geistes¬werte.

Geschrieben in Charlottenlund (Dänemark), Juni 1939, und veröffentlicht in Acta Linguistica, I (1939).

Il tragico destino toccato al padre si ripeté letteralmente per il figlio. L’uomo che aveva celebrato l’epoca in cui una scienza complessiva tentava di sostituire la concezione atomizzante del mondo attraverso la teoria strutturalista, di cui lui era il più grande e valoroso precursore, nella sua vita movimentata nutrì un unico timore, l’arido annientamento dei valori dello spirito.

Scritto nel giugno 1939 a Charlottenlund (Danimarca) e pubblicato in Acta Linguistica, I (1939).

La comprensione nella semiosfera: testualità di Peeter Torop FRANCESCA POTITO

La comprensione nella semiosfera: testualità
di Peeter Torop

FRANCESCA POTITO

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento di Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2008

© Peeter Torop 2007
© Francesca Potito per l’edizione italiana 2008

ABSTRACT IN ITALIANO

La tesi contiene la traduzione italiana dell’articolo Semiospherical understanding: textuality di Peeter Torop, il più autorevole esponente della scuola semiotica di Tartu. L’importanza della semiotica sia nel campo della scienza che in quello della cultura è in costante aumento. Ma, come risultato della creolizzazione, cultura e natura, in quanto ambienti della vita umana, sono cambiate e questo ha a sua volta generato la necessità di capire come comprendere e spiegare questo cambiamento, ossia come definire epistemologicamente l’oggetto d’indagine. Dal momento, quindi, che la cultura, in quanto sistema di sistemi, è in continua evoluzione a causa delle interrelazioni che si instaurano costantemente tra le parti del tutto, la semiotica diventa non solo una risorsa metodologica ma anche una risorsa applicativa atta a garantire lo sviluppo delle singole scienze. In questo contesto, il suo compito diventa quello di descrivere la semiosfera e, per osservare e interpretare i meccanismi della cultura, si serve della testualità (che combina in sé il testo come artefatto ben definito e la testualizzazione come astrazione), della metatestualità (l’analisi delle relazioni tra prototesto e metatesto), e dell’intertestualità (l’analisi delle relazioni che un testo ha con gli altri testi). In definitiva, la testualità è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori e, nello stesso tempo, è una proprietà ontologica della cultura e un principio epistemologico per analizzare la cultura. Oltre alla traduzione, la tesi propone un approfondimento sul contesto semiotico e un’analisi traduttologica dell’articolo sopra citato.

ENGLISH ABSTRACT

The thesis consists in the translation into Italian of the article Semiospherical understanding: textuality by Peeter Torop, the most influential exponent of the Tartu School of Semiotics. The relevance of semiotics is increasing both in sciences and culture. But, due to the creolization, culture and nature, as the environment of human life, have changed and this, in turn, caused the necessity to understand how to comprehend and explain this changing, that is how to define epistemologically the object of inquiry. Therefore, since culture, as a system of systems, is an incessantly evolving order because of the interrelationships constantly established between the parts of the whole, semiotics becomes not only a methodological but also an applicational resource for securing the development of sciences. In this context, its task is to describe the semiosphere and, in order to observe and interpret the mechanisms of culture, it makes use of textuality (which combines in itself text as a well-defined artifact and textualization as an abstraction), metatextuality (the investigation of the relations between a prototext and a metatext), and of intertextuality (the investigation of the relationships between a text and the other texts). All things considered, textuality is a possibility that culture offers to its analyzers, and at the same time it is an ontological property of culture and an epistemological principle for investigating culture. Besides the translation, the thesis contains the analysis of the semiotic context and a translational analysis of the above mentioned article.

RESUMEN EN ESPAÑOL

La tesis consiste en la traducción al italiano del artículo Semiospherical understanding: textuality de Peeter Torop, el exponente más notable de la escuela de semiótica de Tartu. La importancia de la semiótica tanto en el sector de las ciencias como en el sector de la cultura aumenta constantemente. Pero, como resultado de la creolización, cultura y naturaleza, en cuanto entornos de la vida humana, han cambiado generando a su vez la necesidad de entender cómo comprender y explicar dicha transformación, es decir cómo definir epistemológicamente el objeto de investigación. Por consiguiente, dado que la cultura, en cuanto sistema de sistemas, es en continua evolución a causa de las interrelaciones que se establecen etre las partes y el todo, la semiótica se convierte no sólo en un recurso metodológico, sino también en un recurso aplicativo apto a garantizar el desarrollo de las mismas ciencias. En este contexto, su función es la de describir la semiosfera y, para observar e interpretar los mecanismos de la cultura, usa la textualidad (que combina en sí misma el texto como artefacto bien definido y la textualización como abstracción), la metatextualidad (la investigación de las relaciones entre prototesto y metatexto), y la intertextualidad (la investigación de las relaciones que un texto establece con otros textos). En resumidas cuentas, la textualidad es una posibilidad que la cultura ofrece a sus analizadores y, al mismo tiempo, es una propriedad ontológica de la cultura y un principio epistemológico para analizar la cultura. Además de la traducción, la tesis contiene un ahondamiento del entorno semiótico y un análisis traductológica del artículo mencionado.

Sommario

1. Prefazione 7
1.1. Biografia 8
1.2. La scuola di semiotica di Tartu-Mosca 8
1.3 L’evoluzionismo letterario di Ûrij Tynianov e le dinamiche lotmaniane 11
1.4. Strategia traduttiva 14
1.5. Analisi traduttologica 15
1.5.1. La gestione delle citazioni 21
1.5.2. L’abbondanza di connettori logici 22
Riferimenti bibliografici 23
2. Traduzione con testo a fronte 25
Riferimenti bibliografici 54

1. Prefazione

1.1. Biografia

Peeter Torop nasce in Estonia nel 1950. Allievo di Ûrij Lotman dal 1993 al 2007, si laurea all’università di Tartu e consegue un dottorato di ricerca, avendo come advisor prima Lotman e, dopo la sua morte, Uspenskij.
Dal 1993 ricopre il ruolo di capo del Dipartimento di Semiotica dell’Università, sostituendosi al maestro, fondatore dello stesso dipartimento. Sono questi gli anni più fecondi della sua carriera.
Il volume Total´nyj perevod, pubblicato in russo nel 1995 (è in corso di preparazione l’edizione èstone ampliata) e in italiano nel 2000, rappresenta il segno tangibile dell’interesse di Torop per la semiotica della traduzione. È questo libro a renderlo molto noto tra i ricercatori sulla traduzione.
Seguendo Roman Jakobson, Torop ha ampliato la portata dello studio semiotico della traduzione comprendendo la traduzione intratestuale, intertestuale ed extratestuale e sottolineando la produttività del concetto di «traduzione» nella semiotica generale.
Oggi è condirettore del prestigioso Sign Systems Studies (Σημειωτικη), la prima rivista scientifica internazionale di semiotica, all’interno della quale, nel 2003 (vol. 31.2), è stato pubblicato l’articolo di cui più avanti sarà fornita una traduzione con testo a fronte: Semiospherical understanding: Textuality.

1.2. La scuola di semiotica di Tartu-Mosca

Dal momento che Peeter Torop è uno dei più noti semiotici europei, risulta doveroso inquadrare l’autore nel contesto culturale in cui si inserisce, tanto più che si tratta di un terreno scientificamente assai fertile e di origini nobili: la scuola di semiotica di Tartu-Mosca.
Nel Novecento, l’evoluzione degli studi linguistici e letterari ha avuto tra i suoi punti focali tre paesi dell’Europa orientale: Russia, Cechia ed Estonia. Tra il 1914 e 1915, nasce il Circolo linguistico di Mosca, sotto l’egida dell’Accademia delle scienze russa, seguito a breve distanza (1917) dalla formazione a Pietroburgo dell’OPOÂZ, sigla della Società per lo studio del linguaggio poetico. Tra i due circoli si instaura una relazione dialettica molto feconda fondata sulla loro complementarità: i moscoviti, per formazione linguisti, si occupavano prevalentemente di critica letteraria e sono approdati alla semiotica proprio dalla linguistica. Successivamente alcuni di loro si sono occupati in modo più o meno professionale di letteratura, ma la base e gli interessi linguistici sono sempre rimasti al primo posto; i pietroburghesi, invece, per formazione studiosi della letteratura, dedicavano molta della loro attenzione al linguaggio poetico. Questo diverso background culturale si è rivelato molto fruttuoso, poiché i due gruppi si sono arricchiti reciprocamente, comunicandosi i rispettivi interessi. Così, l’incontro con la scienza letteraria ha determinato l’interesse dei moscoviti (linguisti) per il testo e il contesto culturale, cioè per le condizioni di funzionamento del testo. A sua volta, l’incontro con i linguisti ha orientato l’interesse degli studiosi di letteratura (i pietroburghesi) verso la lingua, per la sua capacità di generare e produrre testi. Inizialmente si proponevamo un obiettivo: guardare il mondo con gli occhi del linguista, trovare e descrivere una lingua ovunque fosse possibile. Secondo questi due circoli, infatti, la cultura appare un insieme di lingue eterogenee, relativamente più specifiche. In questo senso, la cultura comprende i linguaggi dell’arte (della letteratura, della pittura, del cinema), quello della mitologia, e così via. Il funzionamento di tali linguaggi è interrelato in modo complesso, e il carattere stesso dell’interrelazione è, in generale, determinato dalla cultura, cioè risulta diverso in situazioni storiche diverse. La cultura, in senso semiotico ampio, è dunque intesa come sistema di relazioni che si instaurano fra l’uomo e il mondo. Questo sistema da un lato regola il comportamento umano, dall’altro determina il modo in cui viene modellizzato il mondo. Ciò permette, tra l’altro, di guardare la storia in prospettiva semiotica: da un certo punto di vista il processo storico appare un sistema di comunicazione fra la società e la realtà che la circonda, in particolare fra le diverse società e, allo stesso tempo, come dialogo fra la personalità storica e la società. A questo proposito sono particolarmente interessanti le situazioni di conflitto in cui i partecipanti al processo comunicativo parlano lingue (culturali) diverse, cioè quando i medesimi testi vengono letti in modo diverso. Questo spiega anche il motivo per cui questa scuola pone testi culturali concreti come oggetto dei suoi studi semiotici.
Ma torniamo alle origini della scuola semiotica di Tartu-Mosca. Nella città di Mosca lavora inizialmente Romàn Jakobson, che in un secondo tempo diviene anche membro dell’OPOÂZ a Pietroburgo, per poi trasferirsi in Cechia nel 1920 (fino al 1939), e fondare il Circolo linguistico di Praga. A Pietroburgo lavorano, tra gli altri, Èjhenbàum, Tomaševskij, Bahtìn, Propp e Tynânov, il gruppo poi divenuto noto come «i formalisti russi».
Ma, per la nascita della scuola semiotica di Tartu, bisogna risalire agli anni Quaranta, a Pietroburgo, dove il giovane Ûrij Lotman si iscrive all’università, laureandosi in lettere nella facoltà dove insegnano molti dei docenti che, nel ventennio precedente, sono stati protagonisti del formalismo e dello strutturalismo, tra i quali citiamo Propp, a noi noto soprattutto per gli studi sul folclore e sulla fiaba.
Lotman comincia, quindi, la propria carriera universitaria a Tartu, interessandosi particolarmente ai metodi di analisi del «testo poetico» (termine con cui intende qualsiasi testo “aperto”, non settoriale) e alle ricerche sui modelli ideologici della cultura. Siamo negli anni Sessanta quando Lotman tiene il primo corso di poetica strutturale, che sarà poi pubblicato in Lezioni di poetica strutturale nel 1964. Due anni prima, nel 1962, viene organizzato a Mosca un simposio sullo studio strutturale dei sistemi di segni, nel corso del quale vengono lette relazioni di semiotica della lingua, di semiotica generale, di semiotica dell’arte, della comunicazione coi sordi, dei rituali. Tali relazioni saranno poi pubblicate nelle ormai famose Tesi.
Entrato in possesso delle tesi del simposio moscovita, Lotman va a Mosca per prendere contatti con i suoi colleghi russi e per proporre loro una collaborazione avente come base geografica proprio la città di Tartu. Nasce così, da questa collaborazione, la prestigiosa rivista Trudy po znakovym sistemam [Lavori sui sistemi segnici], che esiste e prospera tuttora (lo stesso Torop ne è direttore) e ha un titolo in altre tre lingue: Sign System Studies, Töid märgisüsteemide alalt (in èstone) e Semeiotikè. E sempre nel 1964 si tiene la prima conferenza della neonata “scuola” a Tartu. Il fatto che molti chiamino questa scuola semplicemente «scuola di Tartu» è dovuto proprio al fatto che in questa città ha sede la rivista che, uscendo con cadenza semestrale, costituisce uno dei punti di riferimento più importanti per la semiotica mondiale.
Nel 1992, un anno prima della morte di Lotman, il Dipartimento di letteratura russa di Tartu, fondato e reso celebre da Lotman, si scinde, e nasce il Dipartimento di semiotica (la denominazione ufficiale del corso di laurea è «Semiotica e teoria della cultura»). A capo di questo dipartimento sta proprio il professor Peeter Torop, uno degli studiosi più competenti per quanto riguarda la semiotica applicata allo studio della traduzione.

1.3 L’evoluzionismo letterario di Ûrij Tynianov e le dinamiche lotmaniane

In Semiospherical understanding, l’articolo pubblicato nel 2003 nella rivista Sign System Studies, Torop delinea quella che è l’importanza della semiotica non solo nel campo della scienza, ma anche in quello della cultura. Secondo l’autore, la semiotica è non solo un sostegno metodologico delle scienze stesse ma anche una risorsa applicativa atta a garantire lo sviluppo di queste ultime. Ma non solo; Torop sottolinea quello che è il valore, la funzione della semiotica (aiutarci a orientarci nella storia) e, per farlo, attinge all’epilogo di V. Ivanov, uno dei fondatori della scuola semiotica di Tartu. Ma Ivanov non è l’unico studioso di semiotica citato da Torop. Come precedentemente accennato, l’ambiente dell’Università di Tartu era particolarmente fecondo: numerose personalità entravano in contatto tra loro comunicandosi i reciproci interessi, le idee, le convinzioni, e l’articolo di Torop ne è la testimonianza. Per argomentare il suo discorso, infatti, l’autore cita diversi suoi colleghi, mutuandone il pensiero.
Una delle personalità che più emergono nell’articolo, oltre ovviamente al maestro per eccellenza di Torop, Lotman, è Ûrij Tynânov. Allievo di Vèngerov, un uomo il cui metodo era l’empirismo, Û. Tynânov scriveva in versi, e non si limitava ad accumulare i fatti; li selezionava, e sapeva vedere quello che sfuggiva agli altri. È forse il suo spirito di osservazione ad attrarre Torop.
Per Tynânov la storia della letteratura, dove per «letteratura» si intende un sistema di segni in correlazione con altri sistemi, non è la storia di un susseguirsi di errori, bensì quella di un avvicendarsi di sistemi grazie ai quali si conosce il mondo.
Ma cosa ha dato Tynânov alla storia della letteratura? Lo studioso cercava di esaminare ogni fenomeno, ogni fatto letterario, sia nella teoria, sia nella storia della letteratura, storicamente, riferendosi al contenuto concreto del fenomeno stesso e alla sua relazione con gli altri fenomeni. La sua concezione della letteratura lo ha portato a mettere in rilievo non il mutamento dei singoli fatti dell’opera, ma l’avvicendarsi dei sistemi. Tale avvicendarsi fa sì che la realtà letteraria si evolva, procedendo come a balzi, a passaggi che, per la loro bruschezza, provocano lo stupore dei contemporanei. Per «evoluzione letteraria», quindi, Tynânov intende l’alternanza di sistemi i cui elementi assumono nuove funzioni. Tali sistemi entrano in rapporto tra loro, instaurando sia rapporti di «sin-funzione» (relazioni tra elementi simili di sistemi diversi) sia di «auto-funzione» (relazioni tra elementi di uno stesso sistema). Ecco spiegata l’eterogeneità della realtà testuale, o meglio, per usare un termine di Torop, la «diacronia» della realtà testuale (Tynânov 1968).
A riflettere sulla cultura, anche Û. Lotman, spesso citato da Torop. Ûrij Michajlovič Lotman (1922-1993) è stato uno dei massimi studiosi di semiotica, nonché storico della letteratura e della cultura. Nato a Pietrobugo, dal 1963 è stato professore presso l’Università di Tartu, in Estonia, dove ha fondato la Scuola semiotica di Tartu.
Ideatore del concetto di «semiosfera», un continuum semiotico pieno di formazioni di tipo diverso, collocato a vari livelli di organizzazione e che rende possibile la vita sociale, di relazione e comunicazione, Lotman individua come oggetto della semiotica la «letteratura», che a questo punto si configura come una semiosfera densa di testi e metatesti che si richiamano e rigenerano gli uni con gli altri. Ecco, quindi, che i termini «testo» e «testualizzazione» diventano concetti fondamentali della semiotica: la testualizzazione è qui intesa come traduzione appropriativa del reale che, filtrato dai linguaggi, si trasforma in «testo». Siamo dunque davanti a una testualità allargata che finisce per comprendere tutte le forme culturali. Ora va detto che il singolo testo, rispetto all’insieme della semiosfera, può assumere il ruolo del frammento, del «ricordo» a partire dal quale ricostruire il tutto: ma, avverte Lotman, la ricostruzione necessaria alla decodifica di un testo porta sempre, in realtà, alla creazione di un nuovo linguaggio. L’idea della continua riformulazione del senso è un tratto ricorrente del pensiero lotmaniano, che accoglie la lezione strutturale accompagnandola a una grande attenzione per gli aspetti dinamici e quindi anche diacronici dei fenomeni studiati.
In Semiospherical Understanding Torop cita anche le dinamiche lotmaniane che si instaurano tra la parte e il tutto. Per spiegare i rapporti fra parti e intero, tra testo – sempre inteso come singolo organo rispetto a un organismo più complessivo, e non come parte di un meccanismo priva di un significato proprio – e sistema culturale, Lotman ricorre alla metafora dello specchio, che è il punto di partenza di una sua approfondita riflessione sulle leggi della simmetria, che paiono rappresentare una chiave di senso a livello “micro” quanto “macro”:

Come un volto che si riflette in uno specchio, si riflette anche un qualunque suo frammento, che appare così parte dello specchio e nel contempo tempo simile a esso (Lotman 1985: 66).

Fra le parti deve esserci però non solo un rapporto di somiglianza ma anche una qualche differenza, che renda possibile la dialogicità del sistema, così come nello scambio comunicativo è necessaria la presenza di due partner simili e allo stesso tempo diversi. Ogni elemento della semiosfera è quindi un partner del dialogo, mentre l’insieme della semiosfera è lo spazio del dialogo, la sua condizione di possibilità.
Questo rapporto fra ordini diversi di complessità si riscontra anche nello studio dei contatti fra le varie aree culturali, come fra Oriente e Occidente: perché il dialogo sia possibile è necessario che il testo trasmesso e quello ricevuto in sua risposta debbano formare, da un terzo punto di vista, un unico testo: «Il testo trasmesso, prevenendo la risposta, deve contenere gli elementi capaci di permettere la traduzione in un’altra lingua, altrimenti il dialogo è impossibile» (Lotman 1985: 68). I testi che trasmutano da una cultura all’altra si trasformano, recando in sé le tracce dei percorsi e dei tragitti che hanno compiuto: è la loro duttilità che permette lo scambio e l’arricchimento .
Ancora una volta torna, quindi, la concezione di una cultura feconda perché eterogenea e in continua evoluzione, dove ogni testo non solo assume il suo significato autonomo e dipendente dal suo funzionamento interno, ma acquisisce il suo significato anche attraverso le relazioni con gli altri testi, ossia, come parte di un tutto. Ecco perché la scienza ha bisogno di ricreare costantemente il suo oggetto di ricerca, perché nella cultura come organismo vivente emergono costantemente nuove relazioni e nuovi sistemi, e la testualizzazione è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori per analizzare la cultura stessa.

1.4. Strategia traduttiva

Semiospherical understanding viene pubblicato nel 2003, nel volume n. 31.2 della prestigiosa rivista di semiotica Sign Systems Studies, An international journal of semiotics and sign processes in culture and nature.
La rivista scientifica viene fondata nel 1964 da Ûrij Lotman, ed è per questo che è la più storica rivista internazionale di semiotica. Inizialmente (e fino al 1992) pubblicata esclusivamente in russo – lingua ufficiale dell’Unione sovietica –, è ora pubblicata anche e soprattutto in inglese, ed è diventata un’istituzione centrale nella semiotica della cultura. Dal 1998, la Sign Systems Studies viene pubblicata come rivista internazionale peer-reviewed sulla semiotica della cultura e biosemiotica. Pubblicata regolarmente, un volume all’anno, è presente nelle più importanti banche dati scientifiche.
Considerando, dunque, la portata della rivista in cui è stato pubblicato, il prototesto ha le caratteristiche di un saggio scientifico e, in quanto tale, ha come obiettivo principale quello di informare, di veicolare un’informazione a un pubblico sicuramente competente ed esperto in materia. Questo obiettivo si è concretizzato nello stile scelto dall’autore: argomentativo, rigoroso, scientifico e ricco di termini settoriali.
Il saggio è incentrato sull’importanza della semiotica sia nel campo della scienza che della cultura e solo un pubblico competente può comprendere i ragionamenti di Torop senza doversi specificamente documentare. Tuttavia, bisogna osservare la differenza tra il lettore modello del prototesto e un ipotetico lettore della mia proposta di metatesto: per la mia proposta di traduzione non è prevista nessuna pubblicazione in nessuna rivista scientifico-settoriale sulla semiotica, né tantomeno a leggerla sarà un pubblico di studiosi di semiotica. Ovviamente questo ha influito senza dubbio sulle scelte che ho dovuto fare per la stesura della versione italiana, benché la fluidità dei ragionamenti e il “tipo” di inglese utilizzato nel prototesto non siano risultati estremamente complessi.
In breve, posso dire di aver seguito il filo logico e lineare dell’autore, pur prestando attenzione al significato e ai vari traducenti delle parole, e pur coniando a volte anch’io neologismi sulla base dei neologismi proposti dall’autore stesso. Il tutto con l’obiettivo di ricreare una versione avente la stessa dominante del prototesto: informare un lettore specialistico.

1.5. Analisi traduttologica

Se, da una parte, l’inglese impiegato nel prototesto è un inglese abbastanza corretto (non va dimenticato che il prototesto è, a sua volta, stato scritto da una persona di madrelingua estone con una lingua B (il russo) fortissima, ma un inglese coltivato solo negli ultimi quindici anni), “semplice” e lineare, privo di balzi temporali o periodi subordinati eccessivamente lunghi, dall’altra una delle più grandi difficoltà nella stesura del metatesto è stata l’individuazione e la scelta del traducente di alcune parole polisemiche, primo fra tutte il termine inglese «language».
In un dizionario monolingue britannico, la definizione di «language» è la seguente:

Language /’lG1gwIdZ/
n
1. a system for the expression of thoughts, feelings, etc., by the use of spoken sounds or conventional symbols
2. the faculty for the use of such systems, which is a distinguishing characteristic of man as compared with other animals
3. the language of a particular nation or people
the French language
4. any other systematic or nonsystematic means of communicating, such as gesture or animal sounds
5. the specialized vocabulary used by a particular group (Collins 2008).

Sulla base di queste accezioni, i traducenti di «language» nel nostro metatesto possono essere i seguenti: «linguaggio» o «lingua». Ma su quale base operare la scelta?
Considerando le definizioni delle due parole italiane

Lin|guàg|gio
s.m.
1 AU capacità comune a tutti gli esseri umani di apprendere una o più lingue storico–naturali e di servirsene per ragionare, intendersi reciprocamente, comunicare sia oralmente sia, tra le popolazioni che conoscono la scrittura, graficamente, scrivendo e leggendo
TS ling., psic., facoltà umana ricca di elementi innati, universali, presenti in ogni lingua
3a TS semiol., capacità d’utilizzazione di qualunque tipo di codice che, pur diverso dalle lingue storico–naturali, sia in grado di ordinare la produzione e comprensione di segnali della più varia natura: linguaggi animali, studiati dalla zoosemiotica, l. delle api, dei delfini; linguaggi logici, simbolici, convenzionali | l. gestuale, in cui il significante è realizzato con gesti visibili per il destinatario, cui si possono ricondurre le lingue dei segni in uso tra i sordomuti
3c TS log., ling., inform., qualsiasi insieme di stringhe di simboli le quali siano generabili a partire da un vocabolario finito, non creativo, secondo un numero finito di regole sintattiche applicabili infinitamente, talché sia decidibile l’appartenenza di una stringa all’insieme

e

Lìn|gua
s.f.
3a FO parlata, idioma, ant. favella, loquela, talora linguaggio come facoltà umana; più spesso modo di parlare peculiare di una comunità umana, appreso dagli individui (in condizioni normali) fin dai primi mesi di vita, affiancato, per le popolazioni alfabetizzate, da modalità ortografiche e di stile connesse alla pratica dello scrivere e del leggere; […]
3c TS ling., insieme (cui spesso si attribuisce carattere di sistema) di morfi, il cui significante è costituito adoperando un insieme finito e poco numeroso di unità distintive asemantiche, dette fonemi; nei morfi in generale si riconoscono morfemi lessicali e morfemi grammaticali, che, combinati secondo regole sintagmatiche e regole di assegnazione di ruoli sintattici, consentono di generare (cioè descrivere in modo ordinato) un numero potenzialmente infinito di frasi (e, quindi, di discorsi o testi), ciascuna realizzabile in un numero indefinito di enunciazioni concrete (atti di parole, speech acts) consistenti in una espressione (fonica o grafica e simili) e di una significazione (o senso, riferimento), entrambe ricche di elementi (prosodici, sul versante dell’espressione fonica, pragmatici, sul versante della significazione) importanti nell’esecuzione, ma di più problematica attribuzione all’insieme in quanto sistema astratto […]. (De Mauro 2008)

e considerando il contenuto centrale del prototesto, sebbene la parola «lingua» sembri interscambiabile con il termine «linguaggio», nella scelta del traducente ho dovuto prestare molta attenzione al contesto in cui «language» si trovava. Sulla base di questa premessa, ho ritenuto opportuno utilizzare «linguaggio» ogni qualvolta «language» stava a significare «qualunque tipo di codice»; e «lingua» ogni qualvolta «language» significava un linguaggio naturale. Fatta questa prima distinzione, nel corso del saggio la parola «language» si trovava spesso in coppia con altri sostantivi, come ad esempio «description» o «object», i quali, specificando contestualmente la parola in questione, mi hanno aiutato nella scelta del traducente più idoneo.

Un altro caso, questa volta un traducente appartenente alla lingua italiana, in cui ho avuto la stessa difficoltà nell’identificazione della parola più idonea è stato quello di «genere». La lingua italiana ha un solo vocabolo, «genere» per l’appunto, per esprimere significati che in inglese sono veicolati da almeno tre parole diverse, vale a dire «genre», «gender» e «kind». Per non parlare dei diversi traducenti che ognuna di queste parole potrebbe avere col variare del contesto.
Infatti, le mie difficoltà sono cominciate quando mi sono trovata davanti la parola inglese «genre». Al momento della ricerca del traducente, che a prima vista era ovviamente «genere», mi sono resa conto che, nel contesto in cui si trovava la parola inglese (cito il prototesto),

Text of tradition, on the other hand, expresses explicit belonging to a movement, style, grouping or genre, as well as causal or typological relations with predecessors or successors.

il solo traducente italiano non bastava. Questo perché, come precedentemente sottolineato, «genere», nella lingua italiana, è una parola riccamente polisemica

Gè|ne|re
s.m.
1a FO insieme, raggruppamento concettuale di cose o individui che hanno caratteristiche fondamentali comuni; tipo, specie: non sono abituato a questo g. di cose, conoscere persone di ogni g., che g. di vita fai?; non mi piace questo g. di mobili, di abiti; scherzo di cattivo g., di cattivo gusto
2 TS zool., bot., biol., categoria sistematica superiore alla specie e inferiore alla famiglia: un g. comprendente due sole specie
3a CO forma di espressione, categoria in cui vengono tradizionalmente raggruppate opere artistiche con caratteristiche strutturali e contenutistiche simili: g. epico, narrativo; g. comico, tragico; g. strumentale, melodrammatico; g. poliziesco, horror
3b TS ret., ciascuno dei tre stili dell’oratoria classica, differenziato in base alla destinazione e allo scopo dell’orazione
4 TS ling., gramm., categoria grammaticale presente nelle lingue indoeuropee, semitiche e in molte altre famiglie linguistiche, in base a cui nomi, aggettivi, pronomi e alcuni numerali si distinguono in maschili e femminili (ad es. in italiano, francese, spagnolo) o maschili, femminili e neutri (ad es. in latino e tedesco): essa si manifesta attraverso l’opposizione di desinenze e attraverso i meccanismi dell’accordo e, a seconda delle lingue, può essere più o meno correlata col genere naturale di ciò che è designato dal vocabolo (abbr. g., gen.) | categoria grammaticale che in alcune lingue, come l’urdu, è riconoscibile anche nel verbo e che in italiano appare in forme analitiche del passato e del passivo
5 TS mus., una delle tre modalità della musica greca antica
6 CO spec. al pl., merce, prodotto, spec. alimentare: generi di prima necessità, di lusso, di importazione
7 TS mat., numero che esprime alcune proprietà analitiche e topologiche della curva algebrica (De Mauro: 2008)

e, in quel contesto, necessitava di un aggettivo per rendere il suo significato meno ambiguo. Ecco il perché della scelta dell’aggiunta dell’aggettivo «testuale», indispensabile, qui, per disambiguare l’attualizzazione.

Diverso è stato invece il caso del compound «album verse». Il problema non è stato tanto tradurre questa espressione, in quanto i due sostantivi, se presi singolarmente, sono molto semplici da tradurre. Il problema è stato, piuttosto, il loro accostamento. Nel prototesto i due termini li troviamo citati in questo modo:

Of course, the relations of cultural text and literary text are more complicated than that. Texts with prestige such as the Classics or the Bible function above all as cultural texts. On the other hand, cultural text can bring about the emergence of literary text, as can be witnessed in the case of salon literature or album verse.

In questo caso, a veicolarmi verso la traduzione più idonea dell’espressione sopra citata è stata la presenza, nello stesso passo, della locuzione «salon literature». Quest’ultima mi ha aiutato a focalizzarmi su un periodo ben preciso: tra Settecento e Ottocento. Allora ho intrapreso una ricerca sul portale di Google, nella speranza di trovare una minima spiegazione di cosa fosse un album verse. Ma niente mi ricollegava al significato della locuzione. La soluzione mi è stata, invece, fornita dal professor Torop in persona, contattato per email. Le sue parole sono state le seguenti:

Salonnaja literatura i al´bomnaja poezija javlenija dvorjanskoi kul´tury v Rossii. So vremjon Pushkina i Lermontova eti teksty voshli v literaturu kak vo vremja sentimentalizma dnevnik voshol v literaturu (do etogo byl bytovym kul´turnym
javlenijem). Al´bomnye stihi ochen´ chasto posvjasheny hozjaikam literaturnyh salonov itd. Eti stihi chitali gosti salona, no potom ih stali i pechatat´ v zbornikah avtorov .

Ovvero:

La letteratura da salotto e la poesia da album sono fenomeni della cultura nobiliare in Russia. Dai tempi di Puškin e Lermontov questi testi sono entrati nella letteratura come al tempo del sentimentalismo il diario era entrato nella letteratura (prima era un fenomeno della vita quotidiana). I versi da album molto spesso sono dedicati alla padrona di casa dei salotti letterari ecc. Questi versi li recitavano gli ospiti del salotto, ma poi si sono messi anche a pubblicarli nelle antologie degli autori.

Dunque, sulla base di questa esauriente spiegazione, ho optato per la seguente traduzione: poesia da album.

Il problema della scelta dei traducenti non è stato l’unico che ho dovuto affrontare. Come già precedentemente accennato, il prototesto presenta un alto uso di termini settoriali. Quando però il termine settoriale in questione è un neologismo, le decisioni traduttologiche da prendere sono diverse. In particolare, mi riferisco alle difficoltà incontrate con il termine «noosphere».
In Semiospherical understanding, la prima volta in cui viene menzionata la parola è nella citazione di Ivanov, assieme alla parola «semiosphere».

The task of semiotics is to describe the semiosphere without which the noosphere is inconceivable […] (Semiospherical understanding 2003: 1).

Per quanto la traduzione di «semiosphere» potesse essere chiara, così come era chiaro il concetto stesso di «semiosphere», quello che al momento risultava oscuro era il concetto di «noosphere» e, a questo punto, anche il suo traducente.
Il primo passo è stato quello di capire il significato della parola «noosphere» e, conseguentemente, cercare un traducente idoneo per quel concetto. Tra i lemmi di un dizionario monolingue britannico, la parola «noosphere» non era menzionata, così come non lo era tra i lemmi di un dizionario bilingue italiano-inglese. Fallita questa ricerca, il secondo passo è stato cercare il significato della parola nella Rete ma, nonostante l’aiuto degli operatori booleani, la ricerca non ha prodotto risultati soddisfacenti. Allora ho optato per la consultazione dell’enciclopedia libera Wikipedia, dove mi è stato possibile trovare il significato di «noosphere» (the “sphere of human thought” being derived from the Greek νους (“nous“) meaning “mind“) ma solo in lingua inglese. Nella lingua italiana, infatti, la parola inglese non aveva nessun traducente.
Più avanti, nel prototesto, la parola «noosphere» ricompare. Questa volta, però, ne viene fornita una spiegazione:

As noosphere is the future living environment of the humankind, created in mutual agreement and on rational principles, it follows from this definition that semiotics must assist mankind in understanding both history and future (Semiosherical understanding 2003: 12).

Sulla base di questa parafrasi, mi sono resa conto che la definizione di «noosphere» fornita da Wikipedia non poteva essere applicata al mio contesto e che, nonostante il dizionario di italiano non includesse tra i suoi lemmi la parola «noosfera», quest’ultima era il traducente più preciso per la parola inglese «noosphere». E così, ricalcando il neologismo dell’autore, anche nella mia versione del metatesto ho deciso di riproporre lo stesso neologismo.

1.5.1. La gestione delle citazioni

Tornando al concetto di «semiosfera», quel gigantesco macrosistema nel quale le singole culture interagiscono, arricchendosi reciprocamente, essa ha una forte influenza sulla genesi di qualsiasi enunciazione che facciamo, scritta o orale che sia. Essendo, infatti, ogni enunciazione inserita in un contesto (la semiosfera), più questo è arricchito dalla cultura altrui, più l’enunciazione può essere influenzata da quest’ultima. E lo stesso Lotman, autore e semiotico spesso citato da Torop, vedeva questo interagire, questo rapporto tra culture (la cultura propria e la cultura altrui) come una possibilità benefica, per la semiosfera stessa, di fecondarsi e quindi evolversi.
Partendo da questa dinamica proprio-altrui, le singole culture all’interno della semiosfera si sviluppano soprattutto grazie al confronto con l’altro. E allo stesso modo Torop ha sviluppato il suo percorso discorsivo grazie al confronto con i pensieri e le idee dei suoi contemporanei. Da qui la presenza, nel suo articolo, di numerose citazioni che nel corso del tempo hanno influenzato il suo pensiero. Esse, e il modo in cui sono state gestite, oltre a rivelare lo stile di Torop, sono in qualche modo la testimonianza degli studi fatti dall’autore nel campo della semiotica, il frutto delle consultazioni di scritti esistenti. Nel caso di Semiospherical understanding, la citazione guida il lettore nella comprensione del messaggio, ma guida anche l’autore nella stesura del suo stesso pensiero, lungi però dall’essere sterile e statica. In questo modo, il prototesto presenta tutte le caratteristiche per potersi considerare un saggio compilativo, ossia un intertesto.

L’«intertesto» è il testo che contiene una citazione, un rimando o un’allusione a un altro testo (Osimo 2005: 15).

Sulla base dei parametri di implicitezza-esplicitezza di un intertesto, oltre a essere un saggio compilativo in quanto prodotto della consultazione di opere già esistenti, il prototesto è un intertesto esplicito in quanto sia la citazione sia la sua fonte sono dichiarate. La costante presenza di delimitatori grafici, infatti, aiuta il lettore a comprendere che l’autore ha inserito una citazione; la presenza tra parentesi dell’autore della citazione stessa, d’altro canto, rende noto l’autore e il documento da cui è stata estrapolata la citazione. Il tutto per mantenere il lettore costantemente informato sul percorso argomentativo sviluppato dal professore stesso.
Un’ultima osservazione in merito alle citazioni riguarda la loro “provenienza”. Se la funzione della citazione nel nostro prototesto è prevalentemente quella di informare, o meglio, di arricchire l’informazione veicolata dal prototesto stesso o magari di giustificarla, individuarne la provenienza può aiutare ancora di più nella comprensione del messaggio. Analizzando gli autori citati da Torop, tutti studiosi di semiotica presso l’università di Tartu, si evince che le fonti delle citazioni fanno parte sia del patrimonio culturale dell’autore stesso sia della cultura emittente di quel periodo (gli anni Novanta) e, ancora una volta, non fanno altro che arricchire il prototesto.

1.5.2. L’abbondanza di connettori logici

Infine, un’ultima osservazione in merito all’uso dei «connettori logici», quella parte invariabile del discorso che unisce due unità sintattiche in un rapporto di coordinazione o subordinazione, in funzione della dominante del prototesto.
A testimoniare il fatto che il prototesto ha come funzione principale quella di veicolare un messaggio, un’informazione, Torop fa un uso direi quasi abbondante di connettori logici, in particolare di «congiunzioni coordinate conclusive». Queste “parole gancio”, come «hence», «thus» o «therefore», sono elementi grammaticali che svolgono la funzione di collegare due proposizioni, periodi o parti di un testo e, nel caso particolare delle conclusive, hanno l’obiettivo di unire tra loro due elementi di cui il secondo costituisce la logica conclusione del primo. Infatti, ogni qualvolta Torop usa, all’interno di un periodo, un connettore di questo tipo, lo fa perché vuole concludere il suo ragionamento, indirizzando il lettore verso la spiegazione più logica del concetto.
Ancora una volta, dunque, grazie all’uso di questi connettori, il prototesto risulta avere una maggiore chiarezza e coesione, oltre ad essere ben strutturato, testimonianza di uno stile lineare e preciso.

Riferimenti bibliografici

DELLINO, DARIO, Opere d’arte, Le porte per il divino, Bari, 2004, Università degli studi di Bari, http://www.lingue.uniba.it/plat/pagine/dipartimento/rassegna%20stampa/giugno%202004.htm
Il formalismo russo, Letteratour, consultato nel mese di dicembre 2007, http://www.letteratour.it/teorie/A05formal01.htm
LOTMAN, ÛRIJ, La Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985, 66, ISBN 88-317-4703-7
OSIMO, BRUNO, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001, ISBN 88-203-2935-2.
PEZZINI, ISABELLA e SEDDA, FRANCISCO, Semiosfera, Cultural Studies, consultato nel mese di dicembre 2007, http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/semiosfera_b.html
TOROP, PEETER, La traduzione totale, (a cura di) B. Osimo, Rimini, Guaraldi, 2000, ISBN 88-8049-195-4
TYNÂNOV, ÛRIJ, Avanguardia e tradizione, traduzione di S. Leone, Dedalo, 1968, ISBN 88-2200-104-4, disponibile all’indirizzo http://books.google.com/books?id=pFVMNZkhS5UC&dq=isbn:8822001044&hl=it
VITACOLONNA, LUCIANO, Qualcosa di semiotica, Theorèin, Nozioni di semiotica, Maggio 2004, http://www.theorein.it/letteratura/letita/vitacolonna/articoli/articolo%2002%20qualcosa%20di%20semiotica.html

2. Traduzione con testo a fronte

Semiospherical Understanding: Textuality

The relevance of semiotics is increasing both in science and in culture. On the one hand, semiotics offers methodological support to the sciences the development of which has been bound up with interdisciplinary dialogue with other sciences and which are in need of methodological innovation in order to locate their shifted borders. On the other hand, culture and nature as the environment of human life have also changed, and this, in turn, requires a new understanding of how to comprehend and explain this changed environment or, in other words, how to define epistemologically the object of inquiry. Thus, the disciplinary structure of sciences has changed, interdisciplinarity has given rise to new types of scientific dialogue in the form of multi-, cross- or transdisciplinarity, but at the same time also objects of sciences have changed. Especially in the humanities and in the social sciences, due to the (technological) development of media environment and due to the creolization and hybridisation of languages of culture, objects of research have changed so rapidly that semiotics has become both a methodological as well as an applicational resource for securing sustainable development of these sciences. Traditional science and traditional culture have arrived at a stage where fragmented understanding of culture, society and nature has reached a crisis of holism. Restoration of holistic approach presupposes that the methodological principles of applicational analysis of culture, of the sciences that investigate culture, and the principles of cultural autocommunication and identity education are fruitfully combined into a unified whole. Compared to other sciences, semiotics has great advantages in creating such symbiosis.
One of the founders of the Tartu-Moscow School of Semiotics, Vyatscheslav Vs. Ivanov, has concluded his study “The outlines of the prehistory and history of semiotics” with an epilogue where he emphasizes both the scientific as well as the social value of semiotics and defines the main task of semiotics: “The task of semiotics is to describe the semiosphere without which the noosphere is inconceivable. Semiotics has to help us in orienting in history. The joint effort of all those who have been active in this science or the whole cycle of sciences must contribute to the ultimate future establishment of semiotics” (Ivanov 1998: 792).

La comprensione nella semiosfera: testualità

L’importanza della semiotica è in costante aumento sia nel campo della scienza che in quello della cultura. Da un lato, la semiotica dà un sostegno metodologico alle scienze, il cui sviluppo è stato legato al dialogo interdisciplinare con altre scienze, che necessitano di un’innovazione metodologica al fine di individuare i loro nuovi confini. Dall’altro, anche cultura e natura, in quanto ambienti della vita umana, sono cambiate e questo, a sua volta, comporta capire nuovamente come comprendere e spiegare questo cambiamento “ambientale” o, in altre parole, come definire epistemologicamente l’oggetto di indagine. Perciò, la struttura disciplinare delle scienze è cambiata, l’interdisciplinarità ha dato luogo a nuovi tipi di dialogo scientifico sotto forma di multidisciplinarità, disciplinarità incrociata e transdisciplinarità, ma, allo stesso tempo, anche gli oggetti delle singole scienze sono cambiati. Soprattutto nelle scienze umanistiche e sociali, in séguito allo sviluppo (tecnologico) dell’ambiente mediatico e alla creolizzazione e ibridazione dei linguaggi della cultura, gli oggetti di ricerca sono cambiati così rapidamente che la semiotica non solo è diventata una risorsa metodologica, ma è anche una risorsa applicativa per garantire lo sviluppo sostenibile di queste scienze. La scienza tradizionale e la cultura tradizionale sono arrivate al punto in cui la concezione frammentata della cultura, della società e della natura ha messo in crisi la visione olistica. Il ripristino dell’approccio olistico presuppone che i princìpi metodologici dell’analisi applicativa della cultura, delle scienze che esaminano la cultura, e i princìpi dell’autocomunicazione culturale e della formazione d’identità siano proficuamente combinati in un insieme unitario. Rispetto ad altre scienze, la semiotica ha grandi vantaggi nel creare tale simbiosi.
Uno dei fondatori della scuola semiotica di Tartu-Mosca, Vâčeslav V. Ivanov, ha concluso il suo studio I lineamenti della storia e della preistoria della semiotica con un epilogo dove metteva in evidenza sia il valore scientifico che quello sociale della semiotica, definendo la funzione principale sella stessa: «La principale funzione della semiotica è quella di descrivere la semiosfera, senza la quale sarebbe inconcepibile la noosfera. La semiotica deve aiutarci ad orientarci nella storia. Lo sforzo comune di tutti quelli che si sono attivati per questa disciplina o per l’intero insieme di discipline deve contribuire all’istituzione definitiva della semiotica» (Ivanov 1998: 792).
The semiospheric approach to semiotics and especially to semiotics of culture entails the need of juxtaposing several terminological fields. Among the most important, the fields of textuality, chronotopicality, and multimodality or multimediality should be listed.
The field of textuality is related to the development of semiotics of culture, especially in view of the works of Y. Lotman; the field of chronotopicality originated in the works of Mikhail Bakhtin, and the field of multimodality (multimediality) is connected at its roots with the works of Roman Jakobson. It is the interweaving of these three terminological and conceptual fields that has brought about both methodological and metalinguistic interference, as a result of which we now have to speak about creolization and hybridisation of metalanguage. But the same processes take place also inside these fields and therefore it would be expedient to investigate the three fields first of all individually. The present paper is devoted to the first one of these, the field of textuality.
Textuality in this paper denotes a general principle with the help of which it is possible to observe and to interpret different aspects of the workings of culture. The concept of textuality is meant to bridge two poles between which the main problems of describing and explaining cultures are located. One pole is marked by the opposition statics – dynamics, the other by the opposition part – whole. These two pairs of concepts are in fact closely related and their separation into two poles is necessary only for observing temporal dynamics. Through the concept of textuality, also the productivity of cultural-semiotic way of reasoning and the ability of semiotics of culture to function as a foundation science for other disciplines studying culture will become apparent.
The concept of textuality merges several questions that are methodologically relevant for all the disciplines investigating culture. First of all, there is the question of models that are used to describe culture. There does not exist a general science of culture as a separate discipline, and therefore a general study of culture must take into account the different notions that different disciplines have of this universal research object, and to look for correlations between different models of culture.
Models of culture are methodologically designed and metalinguistically formulated by the disciplines that have created them, and therefore it is vital that

L’approccio semiosferico alla semiotica e, soprattutto, alla semiotica della cultura, implica il bisogno di giustapporre diversi campi terminologici. Tra i più importanti, vanno citati i campi della testualità, della cronotopicità e della multimodalità o multimedialità.
Il campo della testualità è legato allo sviluppo della semiotica della cultura, soprattutto in considerazione delle opere di Û. Lotman; il campo della cronotopicità è nato dalle opere di Mihail Bahtin; mentre le radici del campo della multimodalità (multimedialità) sono legate alle opere di Roman Jakobson. È l’intrecciarsi di questi tre campi terminologici e concettuali ad aver determinato un’interferenza metodologica e metalinguistica a un tempo. Come risultato di ciò, siamo costretti a parlare di creolizzazione e ibridazione del metalinguaggio. Ma gli stessi processi si verificano anche all’interno di questi campi; sarebbe, pertanto, opportuno analizzare i tre campi prima di tutto separatamente. Questo articolo è completamente dedicato al primo di questi campi, la testualità.
In questo articolo, la testualità rappresenta un principio generale con l’aiuto del quale è possibile osservare e interpretare i diversi aspetti dei meccanismi della cultura. Il concetto di testualità vuole collegare due poli, in mezzo ai quali sono localizzati i principali problemi di descrizione e spiegazione delle culture. Un polo è caratterizzato dall’opposizione statico-dinamico, l’altro dall’opposizione parte-tutto. In realtà, queste due coppie di concetti sono strettamente collegate e la loro separazione in due poli è necessaria solo per l’osservazione delle dinamiche temporali. Attraverso il concetto di «testualità», diventeranno evidenti anche la produttività del ragionamento semiotico-culturale e la capacità della semiotica della cultura di funzionare come scienza fondatrice delle altre discipline che studiano la cultura.
Il concetto di «testualità» raggruppa diversi principi metodologicamente importanti per tutte le discipline che studiano la cultura. Prima di tutto, emerge la questione dei modelli usati per descrivere la cultura. Non esiste una scienza generale della cultura come disciplina a sé stante; pertanto, uno studio generale della cultura deve prendere in considerazione le diverse concezioni che le diverse discipline hanno di questo oggetto di ricerca universale e deve cercare una relazione tra i vari modelli della cultura.
I modelli della cultura sono progettati metodologicamente e formulati metalinguisticamente dalle discipline che li hanno creati ed è perciò fondamentale che
a general treatment of culture identifies the autonomy and blending of description languages and takes into account the metalinguistic translation process. Besides the characteristics of the description language, deriving from the specificity of a particular cultural model, also the existence of prestige languages in culture and the tendency of several research areas to translate themselves into the prestige language should be taken into account. Therefore, in some cases there is no direct correspondence between the object described, the describing discipline and the description language used. This brings us to the issue of relations that a metalanguage has with the object described and with other metalanguages or a prestige language.
Between culture as a complex research object and culture as a functioning system, or, methodologically speaking, between description languages (metalanguages) of culture and (object language(s) of) the process of culture there is a linguistically heterogeneous sphere of culture’s self-description. In the self-description of culture, meta- and object levels are not usually easily discernible, as self-description is a dynamic autocommunicative process that is difficult to observe due to its mutability. An answer to the question of the observability of culture’s self-description can be sought, through the concept of textuality, foremost from the aspect of the relations between communication and metacommunication.
Another issue that arises in connection with a dynamic research object is the definition of research- or articulation units. Textuality combines in itself text as a well-defined artefact and textualization as an abstraction (presentation or definition as text). In culture, we can pose in principle the same questions both to a concrete and to an abstract text, although an abstract text is only an operational means for defining, with the help of textualization, a certain phenomenon in the interests of a holistic and systemic analysis. The practice of textualization in turn helps us to understand the necessity of distinguishing between articulation emerging from the textual material itself and articulation ensuing from textuality or textualization — the former provides for comparability between texts made from the same material, the latter makes comparable all textualized phenomena irrespective of their material.

una trattazione generale della cultura identifichi l’autonomia e la fusione dei linguaggi descrittivi, oltre a prendere in considerazione il processo di traduzione metalinguistica. Oltre alle caratteristiche dei linguaggi descrittivi, che derivano dalla specificità di un dato modello culturale, vanno prese in considerazione anche la presenza dei linguaggi di prestigio nella cultura e la tendenza di diverse aree di ricerca a tradursi in linguaggi di prestigio. Per questo, in alcuni casi, non c’è una corrispondenza diretta tra l’oggetto descritto, la disciplina che descrive e il linguaggio descrittivo usato. E ciò ci conduce alle relazioni che un metalinguaggio ha con l’oggetto descritto e con altri metalinguaggi o linguaggi di prestigio.
Tra la cultura come oggetto di ricerca complesso e la cultura come sistema di funzionamento o, metodologicamente parlando, tra i linguaggi descrittivi (metalinguaggi) della cultura e il (linguaggio(i) oggetto del) processo della cultura c’è una sfera dell’autodescrizione della cultura linguisticamente eterogenea. Nell’autodescrizione della cultura, il livello del metalinguaggio e quello del linguaggio oggetto di solito non sono facilmente distinguibili, dal momento che l’autodescrizione è un processo autocomunicativo dinamico difficile da osservare a causa della sua mutevolezza. Una risposta al quesito dell’osservabilità dell’autodescrizione della cultura può essere ricercata, mediante il concetto di «testualità», anzitutto nell’aspetto delle relazioni tra comunicazione e metacomunicazione.
Un altro problema che sorge in relazione all’oggetto di ricerca dinamico è la definizione delle unità di ricerca o articolazione. La testualità combina in sé il testo come manufatto ben definito e la testualizzazione come concetto astratto (presentazione o definizione come testo). Nella cultura, possiamo in teoria porci le stesse domande sia per un testo concreto sia per uno astratto, sebbene un testo astratto sia solo un mezzo operativo per definire, con l’aiuto della testualizzazione, un certo fenomeno, nell’interesse di un’analisi olistica e sistemica. A sua volta, la pratica della testualizzazione ci aiuta a comprendere la necessità di distinguere tra l’articolazione che emerge dal materiale testuale in sé e l’articolazione che deriva dalla testualità o dalla testualizzazione – la prima tiene conto della comparabilità tra i testi dello stesso materiale; la seconda rende tutti i fenomeni testualizzati paragonabili, indipendentemente dal loro materiale.

The question of textuality is also a question of understanding the ontology of text. Both the ontology of text and the stance toward it have gradually altered in relation to many changes in culture. First, there can be observed a decrease in logocentrism and increase in the role of visual and audiovisual perception, and consequently it has to be acknowledged that there has been a shift in the hierarchy of perception channels in culture. An early and intensive visual experience leaves its mark also on traditional spheres of culture, and therefore, with each successive generation, there is reason to speak about changed attitudes with respect to literature, theatre, cinema or art, and, accordingly, also about changes in the relationships between those areas in culture. Secondly, processes of culture are so intensive and so diffuse that perceptual processes have become complementary: the consumption of metatexts can precede the consumption of the texts themselves, or, in other words, the boundary between the properties of being primary or secondary is not always visible nor important. Another important feature is the perception of a single event in communities of different types — in intertextual, interdiscursive or intermedial spaces. This, in turn, brings about transformation in whole-part relationships: the diffuse existence of a whole causes the autonomy of parts, and on the principle of pars pro toto, the whole may be represented by very different parts, while the relationship of parts with the whole can be implicit, discernible only to an expert. Hence, also the expert’s mission in culture has changed, since the observing of a diffused whole and the uniting of diffused parts into a whole are becoming an important activity securing the coherence of culture, observing, diagnosing and making prognoses for the functioning of culture as a whole. The emergence of new processes in culture has created a double identity for texts: on the one hand, every text is a result of individual creation, while on the other hand, a text exists in culture as a diffuse mental whole and subsists in this form in the collective cultural memory. A mental text is an abstract whole the structure of which depends on the amount and types of textual transformations (including transformations of text’s parts) in a given culture or, more narrowly, in a given cultural situation. Following from the principle of textuality, investigation of a text means juxtaposing both individual and cultural ontologies, juxtaposing both in time and in space.

La questione della testualità è anche una questione di comprensione dell’ontologia del testo. Sia l’ontologia del testo sia l’atteggiamento nei suoi confronti si sono progressivamente alterati in relazione ai diversi cambiamenti avvenuti nella cultura. In primo luogo, è possibile osservare una diminuzione del logocentrismo e un aumento del ruolo della percezione visiva e audiovisiva, e bisogna poi ammettere che c’è stato un cambiamento nella gerarchia dei canali di percezione nella cultura. Un’esperienza visiva intensiva lascia il segno persino nelle sfere tradizionali della cultura e, quindi, per ogni generazione successiva, c’è motivo di parlare di cambio d’atteggiamento in merito alla letteratura, al teatro, al cinema o all’arte e, di conseguenza, di cambi nelle relazioni tra quelle aree della cultura. In secondo luogo, i processi della cultura sono così intensivi e diffusi che i processi percettivi sono diventati complementari: il consumo dei metatesti può precedere il consumo dei testi stessi o, in altre parole, il confine tra le proprietà dell’essere primario o secondario non è sempre visibile, tanto meno importante. Un’altra caratteristica rilevante è la percezione di un singolo evento nelle comunità di diverso tipo – negli spazi intertestuali, interdiscorsivi o intermediali. Questo, a sua volta, determina la trasformazione delle relazioni tra il tutto e le parti: l’esistenza diffusa di un tutto causa l’autonomia delle parti e, nel principio della pars pro toto, il tutto potrebbe essere rappresentato da parti molto differenti, mentre la relazione tra le parti con il tutto può essere implicita, percepibile solo dagli esperti. Pertanto, anche la missione degli esperti nel campo della cultura è cambiata, dal momento che l’osservazione di un tutto diffuso e l’unione delle parti diffuse in un tutto stanno diventando un’attività importante per assicurare coerenza alla cultura, osservare, diagnosticare e pronosticare il funzionamento della cultura come un tutto. L’emergere dei nuovi processi culturali ha generato una doppia identità dei testi: da un lato, ogni testo è il risultato della creazione individuale, mentre, dall’altro, un testo esiste nella cultura come un tutto mentale e diffuso e sussiste in questa forma nella memoria culturale collettiva. Un testo mentale è un tutto astratto la cui struttura dipende dalla quantità e dai tipi di trasformazioni testuali (comprese le trasformazioni delle parti dei testi) in una data cultura o, più precisamente, in una data situazione culturale. Dal principio di «testualità» discende che analizzare un testo significa giustapporre sia le ontologie individuali che quelle culturali, una giustapposizione temporale e spaziale a un tempo.

Synchrony and diachrony as statics and dynamics
Polemics with F. de Saussure has influenced the development of ideas of several disciplinary trends, including Russian formalism, Prague Linguistic Circle and Danish glossematics. F. de Saussure’s “Cours de linguistique générale” contrasts synchrony and diachrony, denying at the same time the possibility of panchronic analysis of concrete linguistic facts. The reason for this lies in the divergent nature of facts belonging to the diachronic order and to the synchronic order. It is characteristic that F. de Saussure deliberately avoids the term “historical linguistics” and he prefers, when contrasting the two linguistics, to use the term “evolutionary linguistics” to denote the branch investigating the succession of linguistic states, and the term “static linguistics” to denote the branch investigating the linguistic states themselves. In order to secure greater clarity in this contrast, F. de Saussure started calling anything related to statics, “synchrony”, and anything related to evolution, “diachrony” (Saussure 1977: 114).
One of the leading figures of Russian Formalism, in many ways yet undiscovered Y. Tynianov, wrote in his 1924 paper “Literary fact”: “Literary fact is [internally] heterogeneous, and in this sense literature is an incessantly evolutioning order” (Tynianov 1977: 270). A few years later in the paper “On literary evolution” (1927) he specifies that the study of literary history needs to address also the living contemporary literature. As Tynianov claims, historical studies of literature were until then occupied either with the genesis of literary phenomena or with the evolution of literary order (Tynianov 1977: 271). The question of literary order or system is for Tynianov inseparable from the question of function: “A literary system is first of all a system of the functions of the literary order which are in continual interrelationship with other orders. Systems change in their composition, but the differentiation of human activities remains. The evolution of literature, as of other cultural system, does not coincide either in tempo or in character with the systems with which it is interrelated. This is owing to the specificity of the material with which it is concerned. The evolution of the structural function occurs rapidly; the evolution of the literary function occurs over epochs; and the evolution of the functions of a whole literary system in relation to neighbouring systems occurs over centuries”(Tynianov 1977:277). In Tynianov’s system, we can observe the relatedness

Sincronia e diacronia: statica e dinamica
La polemica nei confronti di F. de Saussure ha influenzato lo sviluppo delle idee di diverse tendenze disciplinari, compreso il formalismo russo, il Circolo linguistico di Praga e la glossematica danese. Il Cours de linguistique générale di F. de Saussure mette a confronto la sincronia con la diacronia, negando allo stesso tempo la possibilità di un’analisi pancronica dei fatti linguistici concreti. La ragione di ciò sta nella natura contrastante dei fatti appartenenti all’ordine diacronico e a quello sincronico. È tipico di F. de Saussure evitare intenzionalmente la denominazione «linguistica storica» e preferire, quando si mettono a confronto le due linguistiche, l’uso del nome «linguistica evolutiva» per denotare la branca che analizza la successione degli stati linguistici e del nome «linguistica statica» per denotare la branca che analizza gli stati stessi della linguistica. Per rendere le cose più chiare in questo contrasto, F. de Saussure ha cominciato a chiamare ogni cosa che si riferisse alla statica «sincronico» e ogni cosa si riferisse al movimento «diacronico» (Saussure 1977: 114).
Una delle figure principali del formalismo russo, per molti aspetti ancora sconosciuto, Û. Tynânov, nel suo articolo Il fatto letterario del 1924 ha scritto: «La realtà letteraria è [al suo interno] eterogenea e, in questo senso, la letteratura è un ordine in continua evoluzione» (Tynânov 1977: 270). Pochi anni più tardi, nell’articolo Sulla evoluzione letteraria (1927) ha specificato che lo studio della storia letteraria ha bisogno di dedicarsi anche alla letteratura contemporanea. Come afferma Tynânov, gli studi storici della letteratura sino ad allora si occupavano o della genesi dei fenomeni letterari o dell’evoluzione dell’ordine letterario (Tynânov 1977: 271). Per Tynânov la questione dell’ordine o del sistema letterario è inseparabile da quella della funzione: «Un sistema letterario è prima di tutto un sistema di funzioni dell’ordine letterario, funzioni in constante interrelazione le une con le altre. I sistemi cambiano nella loro composizione, ma la differenziazione delle attività umane persiste. L’evoluzione della letteratura, come degli altri sistemi culturali, non coincide con i sistemi con cui è correlata né per ritmo né per carattere. Ciò è dovuto alla specificità del materiale di cui si occupa. L’evoluzione della funzione strutturale si verifica rapidamente; l’evoluzione della funzione letteraria si verifica nel corso di epoche; e l’evoluzione delle funzioni dell’intero sistema letterario in relazione ai sistemi vicini si verifica nell’arco di secoli» (Tynânov 1977: 277). Nel sistema di Tynânov, è possibile osservare la relazione

of literary order to other orders — with the order of everyday life, the order of culture, social order. Everyday life is correlated with literary order in its verbal aspect, and thus, literature has a verbal function in relation to everyday life. An author’s attitude towards the elements of his text expresses structural function, and the same text as a literary work has literary function in its relations to the literary order. The return influence of literature on everyday life, again, expresses social function. The study of literary evolution presupposes the investigation of connections first of all between the closest neighbouring orders or systems, and the logical path leads from the structural to the literary function, from the literary to the verbal function. This follows from the position that “evolution is the change in interrelationships between the elements of a system – between functions and formal elements” (Tynianov 1977:281; see also Torop 1995-1996). Hence, evolution is understood as the alternation of systems (at times, alternation is slow and continuous; at times, abrupt) where formal elements do not disappear but gain new functions. It is necessary to understand that a system is not a reciprocal influence of all the elements: some elements have greater import (dominant) and deform others, and it is through the dominant that a work gains its literary importance (Tynianov 1977: 277). The interpretation of the structural function coincides to a large extent with the interpretation of the dominant, since the relations between the elements of a work can be described in at least two ways. Every element of a work can be juxtaposed with other similar elements in other works-systems, even in other orders — this is called “synfunction” by Tynianov. At the same time, each element is related to other elements of its own system, which is called “auto-function” by Tynianov (1977: 272). Thus, each element has at least two functional parameters.
Better known in the modern reception of Tynianov’s works is the opposition genesis and tradition, originally presented in his earlier article “Tyutchev and Heine” (1922). Genesis of a literary phenomenon belongs to the sphere of accidental transferences from a language into another language, from a literature into another literature, while tradition refers to regularities taking place within one particular national literature (Tynianov 1977: 29). Thus, also genesis and tradition constitute two parameters of one phenomenon, and these two parameters need to be juxtaposed in order to

dell’ordine letterario con gli altri ordini – con l’ordine della vita di tutti i giorni, della cultura, con l’ordine sociale. La vita di tutti i giorni, nei suoi aspetti verbali, è collegata all’ordine letterario e, perciò, la letteratura ha una funzione verbale in relazione alla vita di tutti di giorni. L’atteggiamento di un autore verso gli elementi del testo esprime una funzione strutturale, e lo stesso testo come opera letteraria ha una funzione letteraria verso l’ordine letterario. E ancora: l’influenza di ritorno della letteratura sulla vita di tutti i giorni esprime una funzione sociale. Lo studio dell’evoluzione letteraria presuppone di indagare le connessioni prima di tutto tra gli ordini o i sistemi più vicini, e il sentiero logico porta dalla funzione strutturale a quella letteraria, dalla funzione letteraria a quella verbale. Da ciò discende la posizione secondo la quale «l’evoluzione è il cambiamento delle interrelazioni tra gli elementi del sistema – tra le funzioni e gli elementi formali» (Tynânov 1977: 281; vedi anche Torop 1995-1996). Pertanto, per «evoluzione» s’intende l’alternanza di sistemi (a volte l’alternanza è lenta e continua; a volte è brusca) dove gli elementi formali non scompaiono ma assumono nuove funzioni. È necessario comprendere che un sistema non è un’influenza reciproca di tutti gli elementi: alcuni elementi hanno un’importanza maggiore (la dominante) e deformano gli altri, ed è attraverso la dominante che un’opera acquisisce la sua importanza letteraria (Tynânov 1977: 277). L’interpretazione della funzione strutturale coincide in larga misura con l’interpretazione della dominante, dal momento che le relazioni tra gli elementi di un’opera possono essere descritte in almeno due modi. Ogni elemento di un’opera può essere giustapposto con altri elementi simili in altri sistemi di opere, persino in altri ordini – questo è ciò che Tynânov chiama «sin-funzione». Allo stesso tempo, ogni elemento è relazionato agli altri elementi del suo stesso sistema, ciò che Tynânov chiama «auto-funzione» (Tynânov 1977: 272). Pertanto, ogni elemento ha almeno due parametri funzionali.
Meglio conosciuta nella ricezione moderna delle opere di Tynânov è l’opposizione «genesi» e «tradizione», originariamente presentata nel suo primo articolo Tûtčev e Heine (1922). La genesi di un fenomeno letterario appartiene alla sfera dei trasferimenti casuali da una lingua a un’altra, da una letteratura a un’altra, mentre la tradizione si riferisce alle regolarità che hanno luogo all’interno di una data letteratura nazionale (Tynânov 1977: 29). Pertanto, anche la genesi e la tradizione costituiscono due parametri di uno stesso fenomeno, ed è necessario giustapporre questi parametri per
get a maximally multifaceted picture of reality. The distinction between genesis and tradition makes it possible, in the case of one and the same text, to speak about TEXT OF GENESIS and TEXT OF TRADITION. Text of genesis is an implicit system reflecting the subjectivity and the fortuitous nature of the creative process, a system that a researcher can reconstruct as unique. Text of tradition, on the other hand, expresses explicit belonging to a movement, style, grouping or genre, as well as causal or typological relations with predecessors or successors. A text exhibiting explicit characteristics of classicism or romanticism is certainly a text of tradition, but at the same time it does not lose its uniqueness, which remains present in the implicit authorial poetics and in which text of genesis can be discerned. Whether it is text of tradition, text of genesis or their symbiosis — what is searched for in a literary text depends on the epoch and on the reader.
The movement of Russian Formalism toward Prague Linguistic Circle is marked by a programmatic article “Problems of investigating literature and language” (1928), written jointly by Y. Tynianov and R. Jakobson. This short research program reveals already a direct polemics with F. de Saussure. The authors object to the opposition of synchrony and diachrony on the grounds that in reality these two cannot be studied in isolation: “History of a system is in turn a system. Pure synchronism now proves to be an illusion: every synchronic system has its past and its future as inseparable structural elements of the system…[…] The opposition between synchrony and diachrony was an opposition between the concept of system and the concept of evolution; thus it loses its importance in principle as soon as we recognize that every system necessarily exists as an evolution, whereas, on the other hand, evolution is inescapably of a systemic nature” (Tynianov 1977:282). Therefore, what is of foremost importance in this approach is the understanding that synchrony incorporates different time periods, that each cross-segment of synchrony may be related to most different epochs: “The concept of a synchronic literary system does not coincide with the naively envisaged concept of a chronological epoch, since the former embraces not only works of art which are close to each other in time but also works which are drawn into the orbit of the system from foreign literatures or previous epochs. An indifferent cataloguing of coexisting phenomena is not sufficient; what is important is

avere un quadro il più poliedrico possibile della realtà. La distinzione tra genesi e tradizione ci permette, nel caso di un testo, di parlare di «testo della genesi» e di «testo della tradizione». Il testo della genesi è un sistema implicito che riflette la soggettività e la natura fortuita del processo creativo, un sistema che un ricercatore può ricostruire in quanto unico. Il testo della tradizione, d’altro canto, esprime l’appartenenza esplicita a un movimento, uno stile, un’organizzazione o un genere testuale, così come le relazioni fortuite o tipologiche con i predecessori o successori. Un testo che mostra le caratteristiche esplicite del classicismo o del romanticismo è senza dubbio un testo della tradizione, ma allo stesso tempo non perde la sua unicità, che rimane presente nella poetica implicita dell’autore e dalla quale si può discernere il testo della genesi. Che sia il testo della tradizione, il testo della genesi o la loro simbiosi, ciò che si ricerca in un testo letterario dipende dall’epoca e dal lettore.
Rispetto al Circolo linguistico di Praga, il formalismo russo è caratterizzato da un articolo programmatico, I problemi di studio della letteratura e del linguaggio (1928), scritto in comune da Û. Tynânov e R. Jakobson. Questo breve programma di ricerca rivela già una polemica diretta contro F. de Saussure. Gli autori si oppongono alla contrapposizione sincronia-diacronia ritenendo che in realtà i due concetti non possano essere studiati isolatamente: «La storia di un sistema è a sua volta un sistema. La pura sincronia dimostra ora di essere un’illusione: ogni sistema sincronico ha il suo passato e il suo futuro, inseparabili elementi strutturali del sistema […] L’opposizione tra sincronia e diacronia era un’opposizione tra il concetto di sistema e quello di evoluzione; pertanto, in linea di principio, perde la sua importanza non appena si riconosce che ogni sistema esiste necessariamente come un’evoluzione, mentre, dall’altro lato, l’evoluzione è inevitabilmente di natura sistemica» (Tynânov 1977: 282). Pertanto, la cosa più importante in questo approccio è comprendere che la sincronia incorpora diverse epoche, che ogni segmento incrociato della sincronia può essere collegato alle epoche più diverse: «Il concetto di un sistema letterario sincronico non coincide con il concetto semplicemente immaginato di epoca cronologica, dal momento che il primo comprende non solo opere d’arte vicine nel tempo ma anche opere attratte nell’orbita del sistema dalle letterature straniere di epoche precedenti. Una catalogazione indifferente dei fenomeni coesistenti non è sufficiente; ciò che ha rilievo è
their hierarchical significance for the given epoch” (Tynianov 1977:283). On the other hand, it is emphasized that the identification of immanent regularities of literary history should be inseparably connected with the identification of the ways in which literary order and other historical orders (systems) relate to each other. Relatedness as a system of systems has its own structural laws that need to be identified. The authors caution us against isolated study: “It is methodologically detrimental to investigate correlation of systems without taking into account immanent laws of each individual system” (Tynianov 1977: 283). In the program of Y. Tynianov and R. Jakobson, it is possible to foresee the modern juxtaposition of TEXT OF HISTORY and TEXT OF CULTURE as parameters of a single text.
In linguistics, the same trend is continued during the 1930-1940ies by the Danish glossematician L. Hjelmslev. He starts out with an observation that humanities have neglected their most important task — to establish the investigation of social phenomena as a science. The description of social phenomena must choose between two possibilities.
The first possibility is poetic description; the second possibility lies in the combination of poetic and scientific treatment as two coordinate forms of description. The choice between the two possibilities should proceed from an answer to the question whether a process has an underlying system: “A priori it would seem to be a generally valid thesis that for every process [including historical processes] there is a corresponding system, by which the process can be analysed and described by means of a limited number of premisses. It must be assumed that any process can be analysed into a limited number of elements recurring in various combinations. Then, on the basis of this analysis, it should be possible to order these elements into classes according to their possibilities of combination” (Hjelmslev 1963: 9). In L. Hjelmslev’s view, it should be feasible to calculate the number of all possible combinations, and this would yield a much more objective description: “A history so established should rise above the level of mere primitive description to that of a systematic, exact, and generalizing science, in the theory of which all events (possible combinations of elements) are foreseen” (Hjelmslev 1963: 9). L Hjelmslev juxtaposes process as a relational (both-and function) hierarchy and system as a correlational (either-or function) hierarchy,

la loro importanza gerarchica per quella data epoca» (Tynânov 1977: 283). D’altro canto, si sottolinea che l’identificazione di regolarità immanenti della storia letteraria dovrebbe essere collegata in modo inseparabile all’identificazione dei modi in cui l’ordine letterario e gli altri ordini (sistemi) storici si relazionano gli uni con gli altri. La connessione in un sistema di sistemi ha le sue regole strutturali che è necessario identificare. Gli autori ci mettono in guardia contro uno studio isolato: «È metodologicamente dannoso analizzare la correlazione di sistemi senza prendere in considerazione le regole immanenti di ogni singolo sistema» (Tynânov 1977: 283). Nel programma di Û. Tynânov e R. Jakobson è possibile prevedere la giustapposizione moderna tra «testo della storia» e «testo della cultura» come parametri di un singolo testo.
Nella linguistica, la stessa tendenza è stata portata avanti nel corso degli anni Trenta e Quaranta dal glossematico danese L. Hjelmslev. Egli parte dall’osservazione secondo la quale le discipline umanistiche hanno trascurato il loro compito più importante: fare dell’investigazione dei fenomeni sociali una scienza. La descrizione dei fenomeni sociali deve scegliere tra due possibilità. La prima riguarda la descrizione poetica; la seconda consiste nella combinazione tra la trattazione poetica e quella scientifica come due forme coordinate di descrizione. La scelta tra le due possibilità dovrebbe procedere da una risposta alla domanda: «Un processo ha un sistema soggiacente?»: «A priori sembrerebbe una tesi valida a livello generale il fatto che per ogni processo [compresi i processi storici] ci sia un sistema corrispondente, attraverso il quale il processo può essere analizzato e descritto mediante un numero limitato di premesse. Bisogna supporre che ogni processo può essere analizzato in un numero limitato di elementi che ricorrono in varie combinazioni. Allora, sulla base di questa analisi, potrebbe essere possibile ordinare questi elementi in classi in base alle loro possibili combinazioni» (Hjelmslev 1963: 9). Nell’ottica di Hjelmslev, il numero di tutte le combinazioni possibili dovrebbe essere calcolabile, e ciò darebbe luogo ad una descrizione molto più oggettiva: «una storia così stabilita potrebbe superare il livello di una descrizione puramente primitiva fino a diventare una scienza sistematica, esatta e generalizzante, nella cui teoria sono previsti tutti gli eventi (combinazioni possibili di elementi)» (Hjelmslev 1963: 9). L. Hjelmslev giustappone il processo come gerarchia relazionale (funzione both-and) e il sistema come gerarchia correlazionale (funzione either-or),
associating these terms also with text and language, respectively. What is noteworthy here is not the association of this opposition with the treatment of paradigmatics and syntagmatics (especially in the works of R. Jakobson), but L. Hjelmslev’s aim to create separate metalanguages for investigating system and process. Thus, a process would be investigated in one metalanguage and the system underlying this process would be investigated in another metalanguage, although the two metalanguages would be correlated with each other. This is exactly the issue that is encountered by researchers who attempt to analyse e.g. a literary work as simultaneously a historical phenomenon and as a contemporary with a particular epoch. In such case, metalinguistic bilingualism would help to avoid mixed language. To extend this logic further, L. Hjelmslev’s innovative insight could be marked with the terminological pair TEXT OF SYSTEM and TEXT OF PROCESS, where text as system and text as process would manifest only as special cases of this opposition. Although to a different degree, the dimension of history would be present in both descriptions, similarly to the case of Y. Tynianov’s concepts of genesis and tradition.
Closer to the present time, among the manifestations of the same trend of thinking the New Historicist approach should be mentioned first, in whose vocabulary “historical context” has been substituted with “cultural system” and where relations between text and culture are seen as inherently intertextual, with intertextuality taking place between two types of text, text of literature and text of culture (see White 1989: 294). Any literary event is therefore a diachronic text of the autonomous history of literature and a synchronic text of the cultural system (White 1989: 301).
An example of the further development of the same line of thinking is provided by A. Assmann’s concept of cultural text. As a subsystem of culture, literature itself is also a cultural text; however, one and the same text has different properties as a literary text and as a cultural text. From the aspect of the relationship of identity, a literary text is a means of individual communication, while for a cultural text, a reader is foremost a representative of a group or a community. From the viewpoint of reception, between a receiver and a literary text there is an aesthetic distance, while in the case of a cultural text, there is an insistence on truth. From the aspect

associando questi termini, rispettivamente, anche al testo e al linguaggio. Ciò che qui è degno di nota non è l’associazione di questa opposizione con la trattazione della paradigmatica e della sintagmatica (soprattutto nelle opere di R. Jakobson), ma l’obiettivo di L. Hjelmsev di creare metalinguaggi separati per analizzare il sistema e il processo. Quindi, un processo potrebbe essere analizzato in un metalinguaggio e il sistema che sta alla base di questo processo in un altro metalinguaggio, sebbene i due metalinguaggi sarebbero correlati l’uno con l’altro. Questo è esattamente ciò che stanno affrontando i ricercatori che tentano di analizzare, per esempio, un’opera letteraria come fenomeno a un tempo storico e contemporaneo a una certa epoca. In questo caso, il bilinguismo metalinguistico aiuterebbe a evitare un linguaggio misto. Per estendere ulteriormente questa logica, l’intuito innovativo di L. Hjelmslev potrebbe essere contrassegnato con la coppia terminologica «testo di sistema» e «testo di processo», dove il testo come sistema e il testo come processo si manifesterebbero solo come casi speciali di questa opposizione. Anche se a un livello diverso, la dimensione della storia sarebbe presente in entrambe le descrizioni, analogamente al caso dei concetti di genesi e tradizione di Û. Tynânov.
Più vicino alla nostra epoca, tra le manifestazioni della stessa linea di pensiero, sarebbe necessario menzionare per primo il nuovo approccio stroricistico, nel cui vocabolario «contesto storico» è stato sostituito da «sistema culturale» e dove le relazioni tra testo e cultura sono viste come intrinsecamente intertestuali, dove l’intertestualità ha luogo tra due tipi di testo, il testo della letteratura e il testo della cultura (vedere White 1989: 294). Ogni evento letterario è, pertanto, un testo diacronico della storia autonoma della letteratura e un testo sincronico del sistema culturale (White 1989: 301).
Un esempio dell’ulteriore sviluppo della stessa linea di pensiero è dato dal concetto di «testo culturale» di A. Assmann. Come un sottosistema della cultura, la letteratura stessa è anche un testo culturale; ciononostante, uno stesso testo ha proprietà diverse in quanto testo letterario e testo culturale. Dal punto di vista del rapporto di identità, un testo letterario è un mezzo di comunicazione individuale, mentre per un testo culturale, il lettore è, soprattutto, un rappresentante di un gruppo o di una comunità. Dal punto di vista della ricezione, tra un destinatario e un testo letterario c’è una distanza estetica, mentre nel caso di un testo culturale, c’è un’insistenza sulla verità. Dal punto di vista
of innovation and canonicity, literary text strives toward innovation, while cultural text is associated with canonization. From the aspect of resistance to time, the background system for literary text is formed of history, of different readings done by different generations, while for cultural text, the background system is average tradition (Assmann 1995). Of course, the relations of cultural text and literary text are more complicated than that. Texts with prestige such as the Classics or the Bible function above all as cultural texts. On the other hand, cultural text can bring about the emergence of literary text, as can be witnessed in the case of salon literature or album verse.
The study of a text in culture is inseparable from the search for parameters in order to characterize the different functions of the text. Every text has its own history and at the same time it exists in general history; every text is contemporary and historical at the same time. Every text is a framed whole and as such, unchangeable. At the same time, each text is a part of culture (of cultural situation and of cultural history) and as such, ambiguous, multifunctional and changing. TEXT OF CULTURE and TEXT OF LITERATURE (or text of any other form of art) can be different forms of existence of the same text, they can be contained in each other as a part is contained in a whole, they can be autonomous wholes, temporal or atemporal, concrete or abstract, static or dynamic; however, with all these oppositions the boundary between the two sides will remain vague and ambivalent. Pure diachrony and synchrony or pure statics and dynamics are but idealized concepts. Therefore, in this context it would often be more accurate to speak not about texts, but about textuality, about complicated relations in time and space for the description of which it is convenient to use the operational term “text”. Becoming a text and being as text have to do in the analysis of cultural phenomena both with ontology and epistemology and help to understand culture as a hierarchy of (textual) identities.

Textuality, metatextuality and intertextuality
In parallel and in relation to the linguistically oriented developments there emerged similar issues also in the anthropological disciplines. At the end of the 1950ies, C. Lévi-Strauss wrote in his book “Structural Anthropology” (1958) about the necessity to describe rules of marriage and kinship systems as a kind of

dell’innovazione e della canonicità, il testo letterario tende verso l’innovazione, mentre il testo culturale è associato alla canonizzazione. Dal punto di vista della resistenza al tempo, il sistema di fondo del testo letterario è costituito dalla storia, da letture diverse di generazioni diverse, mentre per il testo culturale, il sistema di fondo è costituito dalla tradizione media (Assmann 1995). Sicuramente, le relazioni tra testo letterario e testo culturale sono molto più complesse di così. I testi prestigiosi come i classici o la Bibbia funzionano soprattutto come testi culturali. D’altro canto, il testo culturale può determinare l’emergere del testo letterario, come può essere dimostrato nel caso della letteratura da salotto o della poesia da album.
Lo studio di un testo nella cultura è inseparabile dalla ricerca di parametri per caratterizzare le diverse funzioni del testo. Ogni testo ha la sua storia e, nello stesso tempo, esiste nella storia generale; ogni testo è contemporaneo e storico a un tempo. Ogni testo è un tutto compatto e, come tale, invariabile. Nello stesso tempo, ogni testo è parte della cultura (di una situazione culturale e di una storia culturale) e, come tale, ambiguo, multifunzionale e mutevole. Il «testo della cultura» e il «testo della letteratura» (o il testo di qualsiasi altra forma d’arte) possono consistere in diverse forme d’esistenza dello stesso testo, possono essere contenuti l’uno nell’altro come una parte è contenuta in un tutto, possono essere dei tutti autonomi, temporali o atemporali, concreti o astratti, statici o dinamici; tuttavia, con tutte queste opposizioni, il confine tra le due parti rimarrà vago e ambivalente. La pura diacronia e la pura sincronia o la pura statica e la pura dinamica sono, però, concetti idealizzati. Quindi, in questo contesto, sarebbe spesso più preciso parlare non di testi ma di testualità, di complicate relazioni nello spazio e nel tempo per la descrizione delle quali è opportuno usare il termine operativo «testo». Diventare un testo ed esserlo ha a che fare, nell’analisi dei fenomeni culturali, sia con l’ontologia sia con l’epistemologia e ci aiuta a comprendere la cultura come una gerarchia di identità (testuali).

Testualità, metatestualità e intertestualità
Parallelamente e in relazione agli sviluppi a orientamento linguistico, sono emerse questioni simili anche nelle discipline antropologiche. Alla fine degli anni Cinquanta, C. Lévi-Strauss nel suo libro Antropologia strutturale (1958) ha scritto in merito alla necessità di descrivere i sistemi di regole matrimoniali e di parentela come un
language, serving as a means of communication between individuals and groups of individuals. In the year 1973 C. Geertz voices his objection to isolated descriptions that stem from ethnographic fieldwork. His book “The Interpretation of Cultures” provides an example of textualization of description of culture. Here, interpretative anthropology forms a parallel to semiotics of culture. C. Geertz’s concept of thick description refers to the ability of a researcher to explicate or reconstruct the whole on the basis of very heterogeneous, commingled or ambivalent data. In such approach, a foreign culture becomes an acted document that can be interpreted in communication. This document is comparable to a foreign and incoherent manuscript where graphic signs are replaced by examples of behaviour (Geertz 1993: 10). Such text of behaviour is one example of how a complex research object can be textualized.
Textuality as a methodological principle has a significant role also in the development of the Tartu-Moscow School of Semiotics. One of the most renowned members of the school, A. Pyatigorski, has post factum observed that this tradition started out with an undelimited research object. While in the first works at the beginning of the 1960ies the object of semiotics was “anything”, then after the publication of Y. Lotman’s first semiotic book “Lectures on Structural Poetics” (1964) the object became specified as literature: “In Lotman’s “Lectures”, a huge role was played by the introduction of the term “text” as a fundamental concept of semiotics and at the same time, as a neutral concept with respect to its object, literature. It was precisely the concept of “text” which made it possible for Yuri Mikhailovich to pass from literature over to culture as a universal object of semiotics” (Pyatigorski 1996: 54-55). “Theses on the Semiotic Study of Cultures” (1973), the programmatic work of the Tartu-Moscow School, defines semiotics of culture as a science investigating the functional correlation of different sign systems, which proceeds from the position that “none of the sign systems possesses a mechanism which would enable it to function culturally in isolation” (Theses 1973: 33). Text has been defined in “Theses” as a bridging link between a general semiotic and a concrete empirical investigation: “The text has integral meaning and integral function (if we distinguish between the position of the investigator of culture and the position of its carrier, then from the point of view of the former the text appears as the carrier of

linguaggio che funge da mezzo di comunicazione tra gli individui e i gruppi di individui. Nel 1973 C. Geertz esprime la sua obiezione nei confronti di descrizioni isolate che derivano dalla ricerca etnografica. Il suo libro Interpretazione di culture fornisce un esempio della testualizzazione della descrizione della cultura. Qui, l’antropologia interpretativa sta a fianco della semiotica della cultura. Il concetto di «descrizione densa» di C. Geertz si riferisce alla capacità dei ricercatori di spiegare nel dettaglio o ricostruire il tutto sulla base di informazioni molto eterogenee, miste o ambivalenti. In questo approccio, una cultura straniera diventa un documento attualizzato che può essere interpretato nella comunicazione. Questo documento è paragonabile a un manoscritto straniero e incoerente dove i segni grafici sono sostituiti da esempi di comportamento (Geertz 1993: 10). Tale testo-comportamento è un esempio di come possa essere testualizzato un oggetto di ricerca complesso.
La testualità come principio metodologico ha un ruolo significativo anche nello sviluppo della scuola semiotica di Tartu-Mosca. Uno degli esponenti più rinomati della scuola, A. Pâtigorskij, ha osservato post factum che questa tradizione era partita da un oggetto di ricerca non delimitato. Mentre nelle sue prime opere agli inizi degli anni Sessanta l’oggetto della semiotica era «qualsiasi cosa», dopo la pubblicazione del primo libro di semiotica di Û. Lotman, Lezioni di poetica strutturale (1964), l’oggetto è stato specificato come «letteratura»: nel libro di Lotman Lezioni, un ruolo importante è svolto dall’introduzione del termine «testo» come concetto fondamentale della semiotica e, nello stesso tempo, come concetto neutrale in merito al suo oggetto, la letteratura. È stato proprio il concetto di «testo» a permettere a Ûrij Mihailovič di passare dalla letteratura alla cultura come oggetto universale della semiotica (Pâtigorskij 1996: 54-55). Le Tesi sullo studio semiotico delle culture (1973), il lavoro programmatico della Scuola di Tartu-Mosca, definiscono la semiotica della cultura come scienza che indaga la correlazione funzionale dei diversi sistemi di segni, basandosi sulla posizione secondo la quale «nessuno dei sistemi di segni possiede un meccanismo in grado di permettergli di funzionare culturalmente in isolamento» (Tesi 1973: 33). Nelle Tesi, il testo è definito come ponte tra l’analisi semiotica generale e l’analisi empirica concreta: «Il testo ha un significato integrale e una funzione integrale (se distinguiamo tra la posizione di colui che analizza la cultura e la posizione del portatore della cultura stessa, allora dal punto di vista del primo il testo appare come il portatore di una
integral function, while from the position of the latter it is the carrier of integral meaning). In this sense it may be regarded as the primary element (basic unit) of culture. The relationship of the text with the whole of culture and with its system of codes is shown by the fact that on different levels the same message may appear as a text, part of a text, or an entire set of texts” (Theses 1973:38). In the tradition of the Tartu-Moscow School, the concept of text is, above all, dynamic: text can be an integral sign or a sequence of signs; it can be a part or a whole. On the other hand, a text can be a linguistically concrete TEXT OF LANGUAGE or a culturally concrete TEXT OF CULTURE: “In defining culture as a certain secondary language, we introduce the concept of a „culture text”, a text in this secondary language. So long as some natural language is a part of the language of culture, there arises the question of the relationship between the text in the natural language and the verbal text of culture” (Theses 1973:43). As three subtypes of this relationship there are mentioned cases where (1) a text in a natural language is not a text of a given culture (e.g. oral texts in a writing-oriented culture); (2) a text in a secondary language, i.e. a text of culture is at the same time also a text of language, i.e. a text in a natural language (e.g., a poem that is expressed simultaneously in a secondary, poetic language and in a primary language, for instance, in the poet’s mother tongue); (3) a verbal text of culture is not a text in a natural language (e.g., a Latin prayer for Slavs).
From the modern perspective, “Theses on the Semiotic Study of Cultures” written in 1973 touched upon an important aspect — virtuality: “The place of the text in the textual space is defined as the sum total of potential texts” (Theses 1973:45). Where J. Derrida would call this sum total “discourse”, Y. Lotman has used the term “homeostasis”. In his book “Universe of the Mind” (1990), expanding upon the ideas of F. de Saussure, he has claimed that synchrony is homeostatic and that diachrony is a sequence of external and accidental disturbances, reacting to which synchrony restores its integral wholeness (Lotman 1990: 6).
On the background of cultural homeostasis, the advance toward semiosphere appears as natural. Let us recall once again the already-quoted thought of V. Ivanov: “The task of semiotics is to describe the semiosphere without which

funzione integrale, mentre dal punto di vista del secondo è portatore del significato integrale). In questo senso, potrebbe essere considerato l’elemento primario (unità basilare) della cultura. La relazione che il testo ha con il tutto della cultura e con il suo sistema di codici è resa evidente dal fatto che a livelli diversi uno stesso stesso messaggio può apparire come testo, parte di un testo o un intero insieme di testi» (Tesi 1973: 38). Nella tradizione della Scuola di Tartu-Mosca, il concetto di «testo» è, soprattutto, dinamico: il testo può essere un segno integrale o una sequenza di segni; può essere una parte o un tutto. Dall’altro lato, un testo può essere «testo del linguaggio» linguisticamente concreto o «testo della cultura» culturalmente concreto. «Nel definire la cultura come linguaggio secondario indefinito, introduciamo il concetto di «testo culturale», un testo in questo linguaggio secondario. Nella misura in cui alcuni linguaggi naturali fanno parte del linguaggio della cultura, emerge la questione della relazione tra testo nella lingua naturale e testo verbale della cultura» (Tesi 1973: 43). Tre sottotipi di questa relazione sono i casi dove (1) il testo nel linguaggio naturale non è un testo della cultura data (per esempio testi orali in una cultura orientata verso la scrittura); (2) un testo in un linguaggio secondario, ossia un testo della cultura è allo stesso tempo anche un testo del linguaggio, ossia un testo in un linguaggio naturale (per esempio una poesia espressa contemporaneamente in un linguaggio secondario, poetico e in un linguaggio primario, ad esempio, nella lingua madre del poeta); (3) un testo verbale della cultura non è un testo in un linguaggio naturale (per esempio una preghiera in latino per gli slavi).
Dalla prospettiva moderna, le Tesi sullo studio semiotico delle culture, scritte nel 1973, trattano brevemente un importante aspetto – la virtualità: «Il luogo del testo nello spazio testuale è definito come somma totale di testi potenziali» (Tesi 1973: 45). Dove J. Derrida avrebbe chiamato questa somma totale «discorso», Û. Lotman ha usato il termine «omeostasi». Nel suo libro L’universo della mente (1990), sviluppando le sue idee nei confronti di F. de Saussure, ha affermato che la sincronia è omeostatica e che la diacronia è una sequenza di disturbi esterni e casuali, e reagendo a questi ultimi la sincronia ristabilisce la sua totalità integrale (Lotman 1990: 6).
Sulla base dell’omeostasi culturale, il progresso verso la semiosfera appare naturale. Ricordiamo ancora una volta il pensiero già menzionato di V. Ivanov: «La funzione della semiotica è descrivere la semiosfera, senza la quale
the noosphere is inconceivable” (Ivanov 1998: 792). As noosphere is the future living environment of the humankind, created in mutual agreement and on rational principles, it follows from this definition that semiotics must assist mankind in understanding both history and future. Hence, in addition to the relationship with the present, semiosphere has also its dimensions of history and future. What is more important, however, is that semiosphere establishes the dynamics between the part and the whole: “Since all the levels of the semiosphere — ranging from a human individual or an individual text to global semiotic unities — are all like semiospheres inserted into each other, then each and one of them is both a participant in the dialogue (a part of the semiosphere) as well as the space of the dialogue (an entire semiosphere)” (Lotman 1999: 33). This whole-part relationship is joined, in turn, by the dynamics between the subjective and the objective: “The structural parallelism between semiotic characteristics of a text and of a personality enables us to define any text on any level as a semiotic personality, and to regard any personality on any sociocultural level as a text” (Lotman 1999: 66).
The semiospherical perspective in the analysis of culture implies the establishment of textuality as an operational principle in which texts in the ordinary sense and phenomena described as texts in the interests of better comprehension exist together on equal terms. The question of their differentiation and comparability is a question of delimitation — in other words, a question of the boundaries of textuality. From the aspect of scientific accuracy, the only requirement that will stand is the traditional demand of cultural semiotics — that the position of the observer or the analyser must remain visible. This provides for the necessary degree of precision in the case where the units of analysis cannot be formalized and are not unequivocally clear-cut. Textualization should not be regarded as arbitrary delimitation but as identification of different levels in the holistic dimension in culture. The universality of and necessity for this method stems from the need to preserve the interrelations between different parts of a whole and the need to see that the whole itself exists also both as a part and as a division into parts. Each particular act of communication can be analysed as such, but it can also always be shown that the relations between a prototext and its metatext are not exhausted with the creation of the typology of metatexts. Usually, the prototext itself is also in some respect already a metatext — it is difficult to envision the existence of pure original texts in culture.

sarebbe inconcepibile la noosfera» (Ivanov 1998: 792). Dal momento che la noosfera è l’ambiente vivo e futuro dell’umanità, creato in accordo reciproco e su princìpi razionali, ne deriva la definizione secondo la quale la semiotica deve aiutare l’umanità a comprendere sia la storia sia il futuro. Quindi, oltre alla relazione con il presente, la semiosfera ha anche una dimensione della storia e del futuro. La cosa più importante, comunque, è che la semiosfera stabilisce le dinamiche tra la parte e il tutto: «Dal momento che tutti i livelli della semiosfera – dall’individuo o dal testo individuale alle unità semiotiche globali – sono come semiosfere inserite le une nelle altre, ognuna o qualunque di esse è sia partecipante al dialogo (parte della semiosfera) sia spazio del dialogo (l’intera semiosfera)» (Lotman 1999: 33). Questa relazione parte-tutto è condivisa, a sua volta, dalle dinamiche tra il soggettivo e l’oggettivo: «il parallelismo strutturale tra le caratteristiche semiotiche di un testo e di una personalità ci permette di definire ogni testo o ogni livello come una personalità semiotica, e ci permette di considerare testo ogni personalità a ogni livello socioculturale» (Lotman 1999: 66).
La prospettiva semiosferica nell’analisi della cultura implica l’affermazione della testualità come principio operazionale in cui il testo in senso ordinario e i fenomeni descritti come testi nell’interesse di una comprensione migliore coesistono a pari condizioni. La loro differenziazione e confrontabilità è questione di delimitazione – in altre parole, una questione di confini della testualità. Dal punto di vista della precisione scientifica, l’unico requisito importante è la domanda tradizionale di semiotiche culturali – dove la posizione dell’osservatore o dell’analizzatore devono rimanere visibili. Questo stabilisce il grado di precisione necessario nel caso in cui le unità di analisi non possano essere formalizzate e siano inequivocabilmente nitide. La testualizzazione non va considerata come delimitazione arbitraria ma come identificazione di livelli diversi nella dimensione olistica della cultura. L’universalità e la necessità di questo metodo derivano dal bisogno di preservare le interrelazioni tra le diverse parti del tutto e dal bisogno di vedere che il tutto esiste sia come parte sia come divisione in parti. Ogni singolo atto di comunicazione può essere analizzato in questo modo, ma può anche essere dimostrato che le relazioni tra prototesto e metatesto non sono esaurite dalla creazione di una tipologia di metatesti. Di solito, il prototesto stesso è anche, sotto alcuni aspetti, già un metatesto: è difficile immaginare l’esistenza, nella cultura, di testi puri e originali.

Textuality of culture is accompanied by the possibility to conduct analysis on many levels. A text can be investigated as autonomous and focused at by exploring its inner workings. At the same time, it can be investigated as participating in metacommunication and here, now regarded as a prototext, the text is seen as accompanied by a number of metatexts of different kinds (see also Torop 1999: 27-41). The bulk of textual transformations ranging from translations to annotations can, on the one hand, be described from the aspect of relations between the prototext and the metatext, but on the other hand each metatext belongs to its own discourse and can be analysed as a part of this. By investigating metatexts as a textual whole it is possible to analyse the ways in which a particular prototext exists in culture. This kind of investigation makes it also possible to reconstruct a missing prototext. History of theatre provides a good example of the need for metatexts in order to describe a missing prototext. It is possible to reconstruct old untaped theatre performances, but also hypothetical primal forms of different types of fairy tales (as invariants of the later variants) etc. In addition, the investigation of the relations between a prototext and metatexts makes it possible to talk about the capacity of a particular text to communicate with culture, with its audience, about the possible world of the ways the text can be interpreted and understood.
Related to this, but functioning in a completely different manner, is another unity — the intertextual association of texts, where each particular text gains its meaning through relations with other texts, that is, as a part of a whole. Such association can also be interdiscursive or intermedial. Unlike metatextuality, intertextual association is more difficult to delimit and its holistic dimension many not be as concrete.
Both the metatextual and the intertextual associations are subtypes of textuality and indicate that science needs to find possibilities first to define and then to give as multifaceted explanation as possible of the functioning of a complex cultural mechanism. A science investigating culture must constantly recreate its research object, must define and re-define its borders since in culture as a living organism there constantly emerge new relations and new systems. Culture changes, culture’s textuality is constant. Textuality is a possibility that culture offers to its analyser, and at the same time it is an ontological property of culture and an epistemological principle for investigating culture.

La testualità della cultura è accompagnata dalla possibilità di condurre analisi a diversi livelli. Un testo può essere analizzato come autonomo e focalizzato dall’esplorazione del suo funzionamento interno. Nello stesso tempo, può essere analizzato come partecipante a una metacomunicazione e qui, ora considerato come un prototesto, il testo può essere visto come accompagnato da un numero di metatesti di diverso tipo (vedere anche Torop 1999: 27-41). Il volume delle trasformazioni culturali, che varia dalle traduzioni alle annotazioni, può, da un lato, essere descritto partendo dalle relazioni tra prototesto e metatesto, ma dall’altro ogni metatesto appartiene al suo discorso e può essere analizzato come parte di questo. Analizzando i metatesti come un tutto testuale, è possibile analizzare i modi in cui un certo prototesto esiste nella cultura. Questo tipo di analisi rende possibile anche la ricostruzione di un prototesto mancante. La storia del teatro costituisce un buon esempio del bisogno di metatesti per la descrizione di un prototesto mancante. È possibile ricostruire vecchie interpretazioni teatrali non utilizzate, ma anche ipotetiche forme primitive di tipi diversi di fiabe (come invarianti delle ultime varianti) ecc. Inoltre, l’analisi delle relazioni tra prototesto e metatesto ci dà modo di parlare della capacità di un certo testo di comunicare con la cultura, con il suo pubblico, dei modi possibili in cui un testo può essere interpretato e compreso. In merito a ciò, ma con un funzionamento completamente diverso, esiste un’altra unità: l’associazione intertestuale di testi, dove ogni singolo testo acquisisce il suo significato attraverso le relazioni con gli altri testi, ossia, come parte di un tutto. Tale associazione può anche essere interdiscorsiva o intermediale. Diversamente dalla metatestualità, l’associazione intertestuale è più complicata da delimitare e la sua dimensione olistica potrebbe non essere così concreta.
Sia le associazioni metatestuali che quelle intertestuali sono sottotipi della testualità e dimostrano che la scienza ha bisogno di trovare delle possibilità prima per definire e poi per dare una spiegazione più sfaccettata possibile del funzionamento del complesso meccanismo culturale. Una scienza che analizza la cultura deve costantemente ricreare il suo oggetto di ricerca, deve definire e ridefinire i suoi confini dal momento che nella cultura come organismo vivente emergono costantemente nuove relazioni e nuovi sistemi. I cambiamenti culturali – la testualità della cultura – è costante. La testualità è una possibilità che la cultura offre ai suoi analizzatori e, nello stesso tempo, è una proprietà ontologica delle culture e un principio epistemologico per analizzare la cultura.

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Come Together Analisi testuale e culturale LOREDANA GENTILINI

Come Together
Analisi testuale e culturale

LOREDANA GENTILINI

Scuole Civiche di Milano
Fondazione di partecipazione
Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo
Correlatrice: professoressa Cynthia Bull

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica
primavera 2009

© Loredana Gentilini per l’edizione italiana 2009
Abstract in italiano
Questo lavoro parte dal concetto di «traduzione totale» elaborato da Torop nell’omonimo libro, in cui estende la concezione semiotica della traduzione di Jakobson, arrivando a definire come processo traduttivo qualsiasi trasferimento che da un prototesto porti a un metatesto. Attraverso l’analisi della canzone Come Together, esaminata sia da un punto di vista linguistico-testuale, fornendo anche una traduzione della canzone dall’inglese all’italiano, sia da un punto di vista culturale, analizzando gli aspetti culturali che si celano dietro le parole dell’autore, la candidata si propone di mostrare che anche una canzone può essere vista in termini traduttivi come metatesto, in quanto non è altro che la sintesi della cultura in cui viene prodotta.

English abstract
This work starts from the notion of “total translation” formulated by Torop. In his book, he develops the semiotic notion of “translation” by Jakobson, defining as “translating process” any transfer starting from a prototext and leading to a metatext. The song Come Together is examined both from a linguistic-textual point of view – providing a translation of the song from English into Italian – and from a cultural point of view – analysing the cultural aspects behind the author’s words. The candidate tries to show that a song can be seen in translation terms as a metatext, as a synthesis of the culture that produced it.

Deutsches Abstract
Der von Torop geprägte Begriff der „totalen Űbersetzung″ bildet die Grundlage dieser Arbeit. Torop erweitert in seinem gleichnamigen Buch den semiotischen Begriff der Űbersetzung von Jakobson und definiert jeden Transfer, der vom Prototext zum Metatext führt, als „Űbersetzungsprozess″. Das Lied Come Together wird sowohl vom sprachlich – textuellen als auch vom kulturellen Gesichtspunkt aus analisiert, wobei das Lied aus dem Englischen ins Italienische übersetzt wird und die kulturellen Aspekte des Liedtextes in Betracht gezogen werden. Diese Arbeit will zeigen, dass auch ein Lied als Metatext und als Synthese der Kultur, aus der es stammt, betrachtet werden kann.

Sommario

1. Prefazione 4
1.1 Premessa terminologica 6
1.2 Fonti utilizzate 7
2. Analisi del testo 9
2.1 Primo verso 11
2.1.1 Commento testuale 11
2.1.2 Commento culturale 13
2.2 Secondo verso 16
2.2.1 Commento testuale 16
2.2.2 Commento culturale 19
2.3 Terzo verso 21
2.3.1 Commento testuale 21
2.3.2 Commento culturale 21
2.4 Quarto verso 23
2.4.1 Commento testuale 23
2.4.2 Commento culturale 24
2.5 Quinto verso 25
2.5.1 Commento testuale 25
2.5.2 Commento culturale 25
2.6 Sesto verso 27
2.6.1 Commento testuale 27
2.6.2 Commento culturale 27
2.7 Settimo verso 29
2.7.1 Commento testuale 29
2.7.2 Commento culturale 29
2.8 Ottavo verso 31
2.8.1 Commento testuale 31
2.8.2 Commento culturale 31
2.9 Nono verso 33
2.9.1 Commento testuale 33
2.9.2 Commento culturale 33
2.10 Decimo verso 34
2.10.1 Commento testuale 34
2.10.2 Commento culturale 35
2.11 Undicesimo verso 36
2.11.1 Commento testuale 36
2.11.2 Commento culturale 36
2.12 Dodicesimo verso 38
2.12.1 Commento testuale 38
2.12.2 Commento culturale 38
2.13 Tredicesimo verso 41
2.13.1 Commento testuale 41
2.13.2 Commento culturale 42
3. Riferimenti bibliografici 43
4. Bibliografia 46
5. Ringraziamenti 49

1. Prefazione
Quasi tutto può essere visto in termini di traduzione, come afferma Torop nel suo libro del 1995 intitolato La traduzione totale. Nel libro egli riprende e amplia la concezione semiotica della traduzione elaborata da Jakobson in un articolo pubblicato nel 1959 dal titolo On linguistic aspects of translation, in cui divide la traduzione in tre tipi, definendo «traduzione» sia il trasferimento interlinguistico (da una lingua all’altra), sia quello intralinguistico (all’interno della stessa lingua), ma anche la trasmutazione intersemiotica, ovvero l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali. Torop estende ulteriormente questa concezione arrivando a definire come processo traduttivo qualsiasi trasferimento che da un prototesto (primo testo) porti a un metatesto (testo trasferito, testo successivo, testo ulteriore) (Osimo 2004: 9). È quindi ad esempio traduzione la fiaba popolare russa Pierino e il lupo che diviene una composizione musicale di Prokof’ev; è traduzione il romanzo di Tomasi di Lampedusa Il gattopardo che diventa un film di Luchino Visconti (Osimo 2004: 17-18) ed è un processo traduttivo una canzone, come nel mio specifico caso, in quanto è la traduzione – la sintesi – di una cultura.
Nella mia tesi ho analizzato la canzone Come Together dei Beatles sia da un punto di vista linguistico-testuale, fornendo anche una traduzione della canzone dall’inglese all’italiano, sia da un punto di vista culturale, esaminando gli aspetti culturali che si celano dietro le parole dell’autore, proprio perché una canzone non è altro che l’espressione della cultura in cui viene prodotta. È quindi possibile affermare che vi è un prototesto, costituito dalla cultura degli anni Sessanta in Gran Bretagna e in USA, e un primo metatesto costituito dalla canzone stessa, scritta in lingua originale, quella inglese. Vi è poi un altro metatesto costituito dalla canzone in lingua italiana, frutto di una traduzione interlinguistica, il cui prototesto è la canzone in lingua inglese.
Durante l’analisi della canzone, sono rimasta particolarmente colpita da come ogni singola parola, ogni verso e in generale ogni scelta creativa operata dall’autore esprima caratteristiche della cultura del tempo, del contesto culturale in cui è stata scritta, da cui è impossibile prescindere. Ad esempio, il verso he wear no shoe shine che ho tradotto con la frase «non porta scarpe lucidate», «non si lucida le scarpe», a prima vista potrebbe sembrare privo di connotazioni culturali e degno di poca considerazione. Infatti, Come Together è stata spesso descritta erroneamente come una canzone misteriosa, piena di nonsense, dal contenuto incomprensibile, nonostante sia stata una hit di grandissimo successo, cantata e ballata da milioni di persone in quegli anni, che forse non hanno saputo coglierne ogni significato. In realtà, il verso he wear no shoe shine ha un senso ben preciso che sintetizza un aspetto caratteristico della cultura degli anni Sessanta. Il fatto che l’autore dica che il personaggio non ha le scarpe lucide dovrebbe indurre il lettore/ascoltatore a pensare che sia un fatto insolito, perché altrimenti non ci sarebbe motivo di affermarlo. I ragazzi “perbene” dell’epoca, quelli che esprimevano la morale comune, erano soliti portare le scarpe ben lucidate, e il fatto di non averle lustre era considerato “anticonformista”, un segno di voluta rottura con la cultura dominante del tempo; segno che è poi sfociato nella moda delle scarpe Clarks, il cui modello più noto era costituito da scarponcini scamosciati (e perciò non lucidabili) divenuti poi uno dei tanti simboli della contestazione giovanile. O ancora, il verso I know you, you know me, apparentemente privo di connotazioni culturali particolari, e traducibile in italiano con l’espressione «io conosco te, tu conosci me», che di primo acchito potrebbe sembrare non voler dire nulla al di là del suo significato denotativo, in realtà nasconde un altro aspetto caratteristico di quegli anni: un modo molto aperto e diretto di approccio con l’altro, privo di inibizioni, soprattutto per quanto riguarda la sfera sessuale, tipico appunto della fine degli anni Sessanta. Mi riferisco a quel tipo di atteggiamento che porta poi all’esplosione della rivoluzione sessuale.
Anche il fatto che l’autore abbia scelto come caratteristica di tutto il testo di non coniugare i verbi alla terza persona – here come[-s] old flat top; he come[-s] grooving up slowly –, di ometterli – he [is] one holy roller –, di omettere il suffisso –s che denota la forma plurale – he got joo joo eyeball[-s]; he got hair down to his knee[-s] –, di omettere i soggetti – [he] [has] got to be a joker –, di utilizzare abbreviazioni – he [has] got toe jam football; he [has] got hair down to his knee – e, in generale, così facendo, di manifestare il rifiuto di seguire le regole – grammaticali e non – convenzionalmente in uso rispecchia la voglia di trasgredire e l’anticonformismo tipico delle culture “alternative” degli anni Sessanta.
1.1 Premessa terminologica
Durante l’analisi della canzone parlerò di «autore», riferendomi a John Lennon, e non di autori, benché la canzone Come Together (come molte altre, del resto) sia firmata da John Lennon e Paul McCartney. Infatti, nonostante i due componenti del gruppo siglassero, per un accordo commerciale, la paternità delle canzoni insieme, è noto che vi sono canzoni scritte esclusivamente da Paul e canzoni scritte esclusivamente da John e questa è tra quelle ascrivibili interamente a John.
1.2 Fonti utilizzate
Per realizzare la mia analisi e in particolare per tradurre la canzone dall’inglese all’italiano, ho utilizzato diverse fonti, da quelle più tradizionali, come dizionari monolingui e bilingui, (sia cartacei che telematici) a fonti meno “convenzionali”, tra cui il dizionario online Urban Dictionary, che mi è stato molto utile. Questo dizionario è stato creato nel 1999 e contiene definizioni in inglese scritte da utenti di tutto il mondo, che vengono poi controllate dagli utenti stessi. Il fatto che il dizionario sia costituito interamente da definizioni fornite da gente comune, che risiede in tutto il mondo, presenta sia aspetti negativi che aspetti positivi, su cui vorrei porre l’accento. Sicuramente, questo dizionario permette di trovare parole o espressioni che non è possibile trovare nei dizionari tradizionali, perché inevitabilmente non sono in grado di recepire tutte le novità e tutti gli usi. È altresì vero che, non essendoci nessun tipo di controllo, si potrebbe pensare che ognuno possa scrivere ciò che vuole, comprese informazioni non controllate. Per cercare di ovviare a questo problema reale, gli autori del sito hanno inserito un metodo per cui chi legge una definizione può esprimere il proprio parere al riguardo, “votando” mediante gli up (rappresentati visivamente dal pollice alzato) e i down (rappresentati dal pollice verso), a seconda che si condivida o meno la definizione fornita da un utente. Seguendo la logica introdotta da questo meccanismo di valutazione, è possibile affermare tendenzialmente che la definizione che detiene più up è la più condivisa. A seconda del numero di up attribuiti alle definizioni, queste vengono ordinate, affinché la prima definizione che appare nella pagina sia la più attendibile. Attraverso l’utilizzo di questo strumento, è già possibile farsi un’idea del significato della parola/espressione che si sta cercando. Proprio perché questo dizionario è “libero”, l’ipotesi formulata deve però essere poi controllata con l’ausilio di altre fonti, che possono smentire o avvalorare la definizione trovata nel dizionario. Ad esempio, la parola joo joo contenuta nel terzo verso della prima strofa della canzone non era presente nei principali dizionari bilingui e monolingui da me consultati durante la traduzione. Ho provato quindi a ricercare la parola nell’Urban Dictionary, dove ho trovato ben quattro definizioni, il che ne testimonia certamente un uso, trascurato dai dizionari da me consultati in precedenza. La prima definizione fornita dal dizionario è quella di karma, vibes (Mo’ Urban 2005), che presenta ben 39 up e 7 soli down e questo può essere interpretato già come un segnale positivo sull’attendibilità della fonte. Attraverso la consultazione del dizionario mi ero già fatta un’idea del possibile significato della parola, che ho poi appurato con l’ausilio di altre fonti: la moda della filosofia e della cultura orientale, soprattutto indiana, di quegli anni; il fatto che anche i Beatles si fossero avvicinati a quella cultura compiendo anche viaggi in India e l’usanza – tipica di quel periodo – di giudicare una persona in base alle vibrazioni che emanava (Norman 1981: 487), vibes appunto, mi hanno spinto a ritenere quella definizione veritiera e soprattutto adatta al contesto.
Anche Wikipedia è un’enciclopedia “libera” in cui ognuno può, a seconda delle proprie conoscenze, trattare un argomento, che può essere criticato e corretto dagli stessi utenti che, al momento della lettura, potrebbero riscontrare errori nelle trattazioni altrui. Anche Wikipedia è uno strumento utile, in quanto può fornire una prima “infarinatura”, anche superficiale, su un determinato argomento. Successivamente, come per l’Urban Dictionary, le informazioni vanno controllate e approfondite utilizzando altre fonti.
In conclusione, ritengo che anche queste fonti che possiamo definire “non ufficiali”, in quanto dispongono di un basso carattere di scientificità, possano essere utili, a patto che sull’informazione reperita vengano effettuati ulteriori controlli, utilizzando fonti primarie.

2. Analisi del testo

Here come old flat top
He come grooving up slowly
He got joo joo eyeball
He one holy roller
He got hair down to his knee.
Got to be a joker he just do what he please.

He wear no shoe shine
He got toe jam football
He got monkey finger
He shoot Coca Cola
He say I know you, you know me.
One thing I can tell you is you got to be free.

Come together right now over me.

He bag production
He got walrus gumboot
He got O-no sideboard
He one spinal cracker
He got feet down below his knee.
Hold you in his armchair you can feel his disease.

Come together right now over me.

He roller coaster
He got early warning
He got muddy water
He one Mojo filter
He say one and one and one is three.
Got to be goodlooking ‘cause he’s so hard to see.
Come together right now over me.
Come together.
Come together…

Autori: John Lennon/Paul McCartney
Anno: 1969

2.1 Primo verso
Here come old flat top
2.1.1 Commento testuale
Here svolge qui la funzione di avverbio (di luogo) e in questo specifico caso, dove è seguito dal verbo come, dà luogo alla locuzione here come[s], molto utilizzata nella lingua inglese e traducibile in italiano con l’espressione «ed ecco che arriva», «ed ecco arrivare». Questa espressione, sia per quanto concerne l’inglese che l’italiano, viene utilizzata all’inizio di una frase per attirare l’attenzione del lettore/ascoltatore. Procedendo alla ricerca del soggetto, lo si riscontra nella parola top e si nota subito che al verbo come, a cui il soggetto top si riferisce, manca il suffisso -s che in lingua inglese denota la terza persona singolare. Ritengo che la scelta da parte dell’autore di omettere il suffisso -s sia dettata da una questione di suoni, ma anche e soprattutto dal fatto che egli voglia liberarsi da ogni tipo di forma, legge o regola, anche grammaticale (Miccoli 1998). La parola top significa in questo contesto «testa» in quanto, come noteremo in seguito, si riferisce a una persona (he) e viene qui preceduta da due aggettivi: old e flat. Flat tra i vari significati presenta quello di «piatto», «schiacciato» (Ragazzini 2005). L’aggettivo old, «vecchio», che precede l’aggettivo flat potrebbe essere qui usato sia in senso dispregiativo: «ed ecco arrivare (il/un) vecchio con la testa piatta», sia in senso vezzeggiativo: in questo caso old assumerebbe dei toni amichevoli, in quanto l’autore si riferirebbe a una persona che conosce da tempo e l’espressione inglese potrebbe essere tradotta con: «ed ecco arrivare il vecchio testa piatta». Old flat top diverrebbe così un nickname, un soprannome. È possibile inoltre notare che il soggetto non è preceduto da nessun articolo, né determinativo (the), né indeterminativo (an) e questo potrebbe confermare la teoria secondo la quale old flat top potrebbe essere il soprannome con cui l’autore chiama il protagonista del testo perché altrimenti, considerando l’aggettivo old in un’accezione negativa, l’articolo a mio avviso sarebbe opportuno.

2.1.2 Commento culturale
Gli anni Sessanta sono gli anni del «movimento giovanile», che ha segnato uno dei più grandi cambiamenti di costume della storia del Novecento. Solitamente, la nascita del «movimento giovanile» si fa coincidere con gli anni Sessanta perché sono stati anni turbolenti, chiara espressione del disagio esistenziale dei giovani, considerato la scintilla che ha fatto esplodere tale movimento (Fenoglio 2009). In realtà, la manifestazione pubblica del disagio esistenziale giovanile ha un precedente verso la seconda metà degli anni Cinquanta, sviluppatosi in Europa e negli USA in due modi distinti: in Europa, soprattutto in Francia, ma non solo, si diffonde l’«esistenzialismo», espressione di una filosofia di crisi causata dal vuoto di certezze che ha seguìto la fine della Seconda guerra mondiale. Questo vuoto è dovuto al fatto che dopo la fine della Seconda guerra mondiale viene a mancare quella tensione ideologica che aveva prodotto e che trova il proprio fulcro nella contrapposizione nazifascismo/democrazia/comunismo. Si comincia così ad avvertire un rilassamento della vita, un vero e proprio «vuoto» che spinge l’individuo a vivere in una sorta di «vuoto esistenziale», in cui l’esistenza dello stesso viene considerata una mera possibilità (Fenoglio 2009). Questa sensazione di disagio si riflette immediatamente nella musica, considerata dal mondo giovanile il regno ideale per dare spazio alle emozioni e ai sogni, generando così una vera e propria moda che ha il suo centro a Parigi, ma che si diffonde ben presto in tutta Europa: quella dei Platters, la cui musica può essere definita come un mix di spiritual nero e rock, una sorta di “soft rock”. Per quanto riguarda invece gli USA, il segno del disagio giovanile è più forte, più aggressivo e trasgressivo e si traduce con il rock ‘n’ roll, in séguito contaminato da Elvis Presley con la musica country (Fenoglio 2009). Il rock ‘n’ roll, a partire dal movimento pelvico, rappresenta una vera e propria provocazione morale nei confronti del rigorismo puritano spesso incarnato nella figura dei genitori, con cui si apre un conflitto “generazionale” basato a sua volta su un conflitto di valori. Vi è poi un elemento particolarmente significativo che acuisce il disagio giovanile: la guerra del Vietnam, che comporta per i giovani statunitensi, ormai abituati al benessere e a una certa libertà (Fenoglio 2009), la coscrizione obbligatoria per combattere una guerra di cui non comprendono quasi le ragioni. Questo accentua la «drammaticità esistenziale» anche nella musica: è ormai finita la «giovinezza spensierata» e prende piede il pop statunitense “californiano” dei Beach Boys, caratterizzato da un suono più melodico e da un certo trasporto emotivo: è un rock “ingentilito”, da cui nasce la musica dei Beatles (Fenoglio 2009). I Beatles, a partire dal 1962, si fanno portavoce in Inghilterra di un’esplosione di liberazione istintuale generale rispetto al puritanesimo rigoroso che dominava in quegli anni. Diventano rappresentanti di una “liberazione” soprattutto emotiva, riguardante la sfera degli affetti e quella sessuale perché i giovani erano ormai stufi di sentirsi soffocati dal selfcontrol e dall’understatement della cultura britannica (Fenoglio 2009). Negli anni Sessanta in molti paesi, a partire dagli USA, i giovani sviluppano rapidamente un forte senso del collettivo, che li spinge a cercare una ben precisa identità di gruppo, che inizialmente si identifica nella contrapposizione al vecchio, nel conflitto generazionale, per poi estendersi al conflitto con le autorità, inserendo così una componente ideologica (Castaldo 1994: 86-87). «I giovani cominciano a percepire di essere portatori non solamente di un generico desiderio di autonomia, ma di veri e propri nuovi valori». Dalla ribellione del sabato sera, si passa così alla nascita di nuove forme di comportamento sociale, di vere e proprie posizioni in campo politico, soprattutto alla diffusa e totale adesione alle idee pacifiste. Già nel 1962 nascono alcuni movimenti giovanili altamente politicizzati che trattano temi pacifisti, antinucleari e in generale rivendicano un’estrema democratizzazione della partecipazione politica (Castaldo 1994: 87). Parallelamente, prende sempre più forma l’idea di un movimento studentesco, la cui data di nascita convenzionale viene fatta coincidere con la rivolta del campus della Berkeley, il 1° ottobre del 1964, e poi con la marcia su Washington del 1965. Attraverso tutto questo cresce un forte senso comunitario che trova il suo apice nei grandi raduni pop della fine degli anni Sessanta, rappresentazione dei nuovi modelli di vita (Castaldo 1994: 88).
La prima strofa, sull’onda di quella «liberazione istintuale» (Fenoglio 2009) a cui ho accennato prima, testimonia un modo molto diretto e aperto di approccio nei confronti dell’altro, tipico della cultura degli anni Sessanta, in contrapposizione con il modo di rapportarsi di oggi, in cui prevalgono invece la chiusura e un certo timore nei confronti di chi non si conosce o si conosce poco.
2.2 Secondo verso
He come grooving up slowly
2.2.1 Commento testuale
In questo secondo verso l’autore utilizza il pronome he, svelandoci così che il protagonista è un uomo. Si nota nuovamente la mancanza del suffisso -s nel verbo come, che denota la terza persona singolare. Questa sarà caratteristica di tutto il testo, a indicare il rifiuto totale da parte dell’autore di seguire ogni regola. Il verbo to groove up non è presente nei principali dizionari bilingui e monolingui, né nei principali dizionari monolingui di slang, probabilmente a causa del fatto che Lennon recepisce un uso in voga all’epoca. Se si analizza il verbo to groove, questo può essere sia transitivo che intransitivo. Se usato come transitivo significa: «incavare», «scanalare» (Ragazzini 2005), «fare solchi o scanalature in» (Picchi 2007), ma anche «incidere su disco», «godere», «apprezzare», «eccitare», «mandare (qualcuno) su di giri» (Ragazzini 2005), «fare o dare piacere» (Picchi 2007), «perfezionare (qualcosa) con la ripetuta pratica», «fare un lancio che raggiunge la metà campo della zona di strike (baseball)» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009); se usato invece come intransitivo significa «godersela», «andare su di giri», «essere in armonia», «andare d’accordo», «suonare bene» (Ragazzini 2005), «diventare schiavo di un’abitudine» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009). Se però si vanno a ricercare i significati del sostantivo groove, si trova tra gli altri anche quello di «ritmo avvincente» (Ragazzini 2005). Qui il verbo to groove è nella forma di gerundio (suffisso -ing) ed è seguito dall’avverbio slowly, «piano». Ritengo che in questo contesto l’autore, utilizzando l’espressione grooving up slowly, possa fare riferimento al modo di muoversi di questa persona, partendo dal concetto di groove, inteso come «ritmo», ma anche di groove, inteso come «solco» (Picchi 2007), da cui deriva il significato del verbo to groove «fare solchi o scanalature in» (Picchi 2007). Per quanto concerne la preposizione up che segue il verbo, ritengo che serva da rafforzativo. Alla luce di quanto detto sopra, He come grooving up slowly potrebbe essere tradotto con «arriva muovendosi lentamente» o ancora meglio «arriva trascinandosi», nella cui espressione si ritrova il concetto base della mia scelta traduttiva, che parte dal significato del verbo to groove «fare solchi» (Picchi 2007). Il fatto che il nostro personaggio arrivi trascinandosi potrebbe essere spiegato dal fatto che è stanco o affaticato. Vi è però a mio avviso un’altra chiave di lettura del verso, che parte dal significato del verbo to groove come «godere», «andare su di giri» (definizione tratta da American 2000). Uno dei significati del sostantivo groove è proprio quello di «un’esperienza molto piacevole» (definizione tratta da American 2000), «un’esperienza eccitante» (Ragazzini 2005) e se si va a ricercare il significato dell’aggettivo groovy si trovano tra gli altri particularly excellent, «particolarmente eccellente»; divine, «magnifico»; fabulous, «favoloso»; fantastic, «fantastico»; glorious, «splendido»; marvelous, «meraviglioso»; sensational, «sensazionale»; splendid, «splendido»; superb, «eccellente»; terrific, «favoloso»; wonderful, «meraviglioso» o ancora dandy, «eccellente», «di prima qualità»; dreamy, «fantastico»; ripping, «eccellente», «straordinario»; swell, «straordinario» e ancora cool, «che va forte», «grande», «figo»; hot, «alla moda», «popolare»; neat, «favoloso»; idiomatico out of this world, «fuori dal mondo» e very pleasing «molto piacevole», «molto gradevole» (definizione tratta da American 2000): il verbo ha a che vedere con qualcosa che dà piacere. Partendo proprio da questo concetto, il verso potrebbe essere letto in un altro modo: quel grooving up slowly potrebbe riferirsi al fatto che questa persona sta «avendo piacere piano», sta «godendo piano», «andando su di giri piano» e quindi potrebbe fare riferimento al fatto che il nostro personaggio ha assunto della droga e che questa piano piano stia facendo effetto. Il verso quindi potrebbe anche essere reso con «arriva mentre va pian piano su di giri».
2.2.2 Commento culturale
Durante gli anni Sessanta in Gran Bretagna e negli USA l’aggettivo groovy era molto in voga tra i giovani con il significato di «molto piacevole», «alla moda» (Ragazzini 2005), «splendido» (Ragazzini 2005), qualcosa di simile all’espressione odierna «figo». A testimonianza di ciò, cito una canzone di Simon and Garfunkel, noto duo folk statunitense, attivo durante gli anni Sessanta, il cui titolo è The 59th Street Bridge Song (Feelin’ Groovy), contenuta nell’album Parsley, Sage, Rosemary and Thyme del 1966.

Slow down, you move too fast,
You got to make the morning last
just kickin’ down the cobble stones
Lookin’ for fun and feelin’ groovy.
Ba da da da da da da feelin’ groovy.

Hello lamppost, whatcha knowin’,
I’ve come to watch your flowers growin’
Aintcha got no rhymes for me?
Dootin’ doo doo, feelin’ groovy.
Ba da da da da da da, feelin’ groovy.

Got no deeds to do, no promises to keep,
I’m dappled and drowsy and ready to sleep,
let the morning time drop all its petals on me.
Life, I love you, All is groovy.
Ba da da da da da da Ba da da da da

L’espressione feelin’ groovy, che ricorre più volte nel testo e che dà il titolo alla canzone, richiama proprio il sentirsi bene, il sentirsi in armonia con gli altri e con lo spazio che ci circonda, fino ad affermare – attraverso le parole Life, I love you, All is groovy – l’amore per la vita e che ogni cosa è meravigliosa.
Per i primi due versi di Come Together, come ha in séguito dichiarato lo stesso Lennon, egli si ispirò alla strofa di una canzone del 1956 di Chuck Berry, artista rock americano molto amato da Lennon, intitolata You Can’t Catch Me. Per questa ragione Lennon venne citato in tribunale da Morrys Levy, editore di Berry, con l’accusa di plagio. Come riparazione Lennon dovette incidere delle canzoni possedute da Levy che confluirono nel suo album del 1975 intitolato Rock ‘n’ Roll. Anche il fatto che i Beatles guardassero agli USA come un modello da seguire e imitare, a partire proprio dagli artisti rock da loro amati sin dall’adolescenza (Elvis Presley, Chuck Berry, Muddy Waters solo per citarne alcuni), può essere considerato un segno di anticonformismo per un’Inghilterra degli anni Sessanta molto chiusa in sé stessa. La ragione di questa particolare apertura nei confronti degli USA può in parte essere spiegata dalla natura della città di Liverpool, città natale dei Beatles, conosciuta assieme a Glasgow come «la città britannica della musica americana» (Castaldo 1994: 99) perché è una città portuale, a cui sin da quegli anni accedevano navi e transatlantici provenienti dagli USA. Infatti, i Cunard yanks, ovvero i marinai imbarcati sui mercantili atlantici, conoscevano le novità musicali prima di chiunque altro in Gran Bretagna e le diffondevano in città (Castaldo 1994: 99).
2.3 Terzo verso
He got joo joo eyeball
2.3.1 Commento testuale
Prosegue la descrizione del personaggio. He got è l’abbreviazione della forma completa del verbo «to have got» in terza persona singolare he has got. L’autore afferma che il personaggio ha joo joo eyeball. Anche la parola joo joo non è presente nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma il dizionario online Urban Dictionary definisce la parola joo joo come karma «karma», vibes «vibrazioni» (Mo’ Urban 2005). He got joo joo eyeball potrebbe essere tradotto con l’espressione «ha (gli) occhi da karma» e potrebbe riferirsi allo sguardo “fatto” dell’uomo in quanto avrebbe assunto della droga. Anche nella parola eyeball si riscontra la mancanza del suffisso -s che in questo caso denota il plurale: l’autore fa riferimento infatti a un solo occhio, non a tutti e due.
2.3.2 Commento culturale
Il karma è il concetto centrale della religione induista, a cui i Beatles, ma anche moltissime altre persone durante gli anni Sessanta, si sono avvicinate, compiendo anche, come gli stessi Beatles, viaggi in India. A partire dal 1966 la scoperta della cultura orientale diventa una vera e propria moda in Europa e negli USA. Secondo il principio del karma, le azioni del corpo, della parola e dello spirito (i pensieri) sono contemporaneamente causa ed effetto di altre azioni; niente è dovuto al caso: ogni avvenimento, ogni gesto, è legato da una rete di interazioni di causa/effetto. Secondo tale principio, se si produce sofferenza o si interferisce negativamente nel Dharma (legge universale) si produce karma negativo; se al contrario si fa del bene, si produce karma positivo e nella vita corrente e in quelle successive si pagherà o si verrà ripagati per le azioni compiute precedentemente (McDermott 2003). L’influenza esercitata dall’India e dalla religione induista negli anni Sessanta era talmente forte che una persona in quegli anni veniva giudicata sulla base delle vibrazioni, vibes, che emanava con la sua presenza e con il suo stato d’animo, a seconda che queste fossero «buone» o «cattive» (Norman 1981: 487). Questa strofa fa riferimento anche al grande consumo di droga del tempo, di marijuana ma anche di acidi, come LSD, di cui gli stessi Beatles, primo fra tutti John Lennon, facevano uso. Infatti, l’assunzione di queste sostanze causa la dilatazione e spesso l’arrossamento delle pupille: proprio da questa reazione potrebbe nascere l’espressione joo joo eyeball. Inoltre, il fatto che quest’uomo possa essere drogato può trovare conferma nel verso precedente, in cui, secondo la mia prima interpretazione, viene affermato che si trascina o comunque si muove lentamente, effetto tipico della droga, che rallenta le capacità percettive oppure, prendendo in considerazione la mia seconda ipotesi, per cui il nostro personaggio «sta andando pian piano su di giri», il verso troverebbe comunque conferma in quanto lo sguardo “fatto” non sarebbe altro che frutto dell’effetto della droga.

2.4 Quarto verso
He one holy roller
2.4.1 Commento testuale
Anche in questo verso vi è l’omissione del verbo essere (to be), più precisamente della terza persona singolare is. La definizione che i principali dizionari monolingui riportano di holy roller è quella di una parola utilizzata prevalentemente in senso dispregiativo che indica «qualunque membro di una confessione religiosa che esprima la propria devozione attraverso urla e gesti violenti» (definizione tratta da American 2000), addirittura «rotolandosi sul pavimento, sotto l’effetto dello Spirito Santo» (Mo’ Urban 2005), come riportano alcuni dizionari di slang. Ritengo però che tale definizione in questo contesto possa essere esclusa. Se quindi si analizzano separatamente le due parole, si nota che l’aggettivo holy oltre a significare «santo», «sacro», «consacrato», «devoto», «religioso» (Picchi 2007), viene utilizzato come rafforzativo con il significato di «vero» (Ragazzini 2005), «veramente», «vero e proprio». Se si analizzano i significati della parola roller, uno che a mio avviso potrebbe sembrare plausibile in questo contesto è quello di «chi deruba uno che dorme o è ubriaco» (Ragazzini 2005). Il verso He one holy roller potrebbe essere reso con l’espressione «è veramente uno che deruba gli ubriachi» e pertanto ricollegarsi alle affermazioni fatte nei versi precedenti ed essere un vagabondo drogato che vive derubando la gente in modo subdolo. Ma se si considera il verbo to roll, tra i vari significati vi è quello di «farsi una canna» (Mo’ Urban 2005) e partendo dal presupposto che il suffisso -er nella parola roller indica colui che compie l’azione di roll, l’espressione potrebbe essere resa con «è proprio uno che si fa un sacco di canne», che ritengo la traduzione migliore per questo contesto.
2.4.2 Commento culturale
La Cannabis sativa in quegli anni, come del resto la droga in generale, era molto in voga tra i giovani, soprattutto in certi ambienti alla moda, in cui aveva cominciato a prendere piede l’usanza di preparare una canna per poi «passarsela» (Norman 1981: 338-339). In Inghilterra, fino a quel momento, la marijuana e lo hashish, resina della canapa indiana, venivano usati soprattutto dagli immigrati delle Indie occidentali per alleviare la miseria in cui vivevano. Ora, come «erba» o «hash», erano diventate un oggetto fondamentale del comportamento sociale. Il fatto che la Cannabis fosse illegale non preoccupava nessuno, in quanto inizialmente non vi era controllo da parte delle autorità (Norman 1981: 338-339). Anche l’LSD era molto di moda e soprattutto accessibile: nel 1967 a Londra era infatti possibile comprare una pastiglia di LSD per meno di una sterlina (Norman 1981: 414).

2.5 Quinto verso
He got hair down to his knee.
2.5.1 Commento testuale
Ancora una volta si riscontra l’abbreviazione della forma completa del verbo to have got nella terza persona singolare e la mancanza del suffisso -s nella parola knee («ginocchio») che denota il plurale. Ci viene qui fornita dall’autore un’ulteriore indicazione sul nostro personaggio: ha i capelli lunghi sino alle ginocchia.
2.5.2 Commento culturale
Il protagonista del testo potrebbe essere quindi un ragazzo con i capelli lunghi, probabilmente un hippie, tra i quali all’epoca si registrava un forte consumo di droga. È opportuno inoltre ricordare che in quegli anni il fatto che un uomo portasse i capelli lunghi (fatto che oggi viene considerato del tutto normale) era una cosa inammissibile per la società istituzionale: in Inghilterra l’unico taglio di capelli presente e “consentito” per gli uomini era il taglio militare. Gli ultimi anni del decennio, in particolare, vengono anche ricordati per aver simboleggiato per un’intera generazione gli anni “dell’amore”, “della pace”, “della fratellanza”, “del potere dei fiori”. Gli hippie in quegli anni hanno dato vita a una vera e propria cultura, che ha avuto inizio negli USA quando un gruppo di beatnik (beats, membri della Beat Generation) si trasferì nel quartiere di Haight-Ashbury di San Francisco dove creò la prima comune. Gli hippie avevano i capelli lunghi, indossavano tuniche dai colori sgargianti, pantaloni a zampa di elefante, gilé, copricapi e bandane simbolo della cultura indiana, portavano sandali o camminavano a piedi nudi, si comportavano con estrema calma e tranquillità e, con ogni pretesto possible, si offrivano reciprocamente dei fiori. Avevano creato delle proprie comunità in cui ascoltavano rock psichedelico e abbracciavano la rivoluzione sessuale, la filosofia orientale, l’importanza dello spirito e delle droghe; respingevano invece con forza le istituzioni, criticavano i valori della classe media, erano contrari all’uso delle armi nucleari ed erano divenuti simbolo della protesta contro la guerra nel Vietnam, che aveva suscitato sdegno e biasimo in tutto il mondo e che si era tradotta in un’ondata di sentimenti pacifisti, facendo presa non solo fra le persone più eccentriche e i beatnik, ma anche tra i “normali” adolescenti, che andavano ad accrescere le diverse comuni hippie che stavano nascendo in tutto il mondo. Va inoltre ricordato che la marijuana per loro, come anche l’LSD, rappresentava il simbolo della fratellanza hippie, l’iniziazione alla credenza hippie, secondo la quale attraverso le droghe era possibile raggiungere un grado più elevato di saggezza e umanità (Iannaccone 2008) (Miles 2004) (Filippetti 1973) (Vidal 1972) (Bonaventura 1972) (Conti Guglia 1982) (Pivano 1972).

2.6 Sesto verso
Got to be a joker he just do what he please.
2.6.1 Commento testuale
Anche qui si riscontra l’omissione da parte dell’autore sia del soggetto, che resta sottinteso (he), sia della particella del verbo avere has. L’espressione got to be indica una certezza; la parola joker, se riferita come in questo caso a una persona, tra i vari significati presenta quello di «una persona che fa battute o scherzi» o, con un’accezione negativa, «una persona insolente», «noiosa», «incapace», «insignificante», «sgradevole» (definizione tratta da American 2000). In questo contesto ritengo che joker significhi «burlone» (Ragazzini 2005), nel senso che si tratta di una persona a cui piace scherzare e prendere le cose «alla leggera», dato che la seconda parte del verso può essere resa con «fa solo quello che gli piace». Il verso indica la presenza di uno “spirito libero”, che non segue nessuna regola imposta, ma che fa solamente ciò che gli dà piacere e lo diverte, incurante di ciò che, invece, sarebbe più sensato o opportuno fare (Miccoli 1998), secondo il pensiero comune. Ancora una volta si nota l’omissione da parte dell’autore del suffisso -s della terza persona singolare sia nel verbo please che nel verbo do, a indicare appunto il suo rifiuto delle regole imposte, in questo caso grammaticali.
2.6.2 Commento culturale
Come ho già accennato nell’introduzione, una delle caratteristiche degli anni Sessanta è un nuovo modo di rapportarsi, frutto della «libertà istintuale» che contraddistingue il nuovo atteggiamento dei giovani, ormai stufi di sentirsi soffocati da una sorta di autocontrollo, dettato dalla cultura precedente (Fenoglio 2009). Per «libertà istintuale» intendo che i giovani lasciano ora spazio ai propri istinti, fino a quel momento repressi, soprattutto per quanto concerne la sfera emotiva e sessuale. Ora non vogliono più avere paura di manifestare i propri sentimenti, non hanno più timore del giudizio altrui o della morale comune: vogliono solamente fare ciò che piace loro, come fa il joker descritto nel verso.

2.7 Settimo verso
He wear no shoe shine
2.7.1 Commento testuale
Anche in questo verso si nota la mancanza del suffisso -s nel verbo wear, che caratterizza la terza persona singolare. Prosegue la descrizione fisica del personaggio. Il verbo to wear significa qui «portare», «indossare», «vestire», «avere addosso» (Ragazzini 2005); la parola shoe shine, da cui si desume che al tempo si scriveva staccata, dove shoe significa «scarpa» e shine «lucentezza», «luccichio», «splendore» (Picchi 2007), è diventata poi parola unica (shoeshine) che significa «lustrata», «lucidatura» (Ragazzini 2005). Letteralmente quindi la strofa He wear no shoe shine significa «non indossa/porta lucidatura», che a mio avviso può essere meglio resa con «non porta scarpe lucidate», «non si lucida le scarpe».
2.7.2 Commento culturale
Anche il fatto di non portare scarpe lucidate era un segno di anticonformismo. Infatti, fino ad allora, i ragazzi erano soliti indossare scarpe ben lucidate. La moda delle scarpe Clarks, simbolo ancora oggi di comodità e di stile casual, esplode proprio in quegli anni: le Clarks diventano un’icona durante le contestazioni studentesche con i «regolari» che le sceglievano di camoscio chiaro o marrone e i «dropout» che invece le portavano con le stringhe rosse. La casa produttrice inglese delle Clarks viene fondata nel 1852 dai fratelli Cyrus e James Clarks. Nasce come fabbrica di pantofole in pelle di pecora, per poi passare alla produzione di tappeti e calze di lana d’agnello, e affermarsi infine nel 1950 con il lancio degli scarponcini Desert Boots, ideati da Nathan Clark (pronipote di James Clark) e ispirati ai comodi stivaletti scamosciati indossati dall’esercito inglese in partenza per la Birmania durante la Seconda guerra mondiale e portati al successo da Steve McQueen che le indossa nel film La grande fuga. In Italia arrivano nel 1968 e hanno subito un successo strepitoso che perdura ancora oggi (De Lucia Lumeno 2009) (Salza 2008-2009).

2.8 Ottavo verso
He got toe jam football
2.8.1 Commento testuale
Anche in questo verso si riscontra nuovamente l’abbreviazione del verbo «avere» alla terza persona singolare (he got anziché he has got). La parola toe jam football non è presente nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma la si trova all’interno di alcuni dizionari di slang come l’Urban Dictionary, il che ne attesta un certo uso. Secondo il dizionario, la parola toe jam football significa «to sit while picking funk from under your toenails or even in between them (it comes from after a long day on your feet); you produce this shit into a ball, then you try to fling a booger towards someone in the room you are in» (Mo’ Urban 2005), ovvero «sedersi mentre ci si pulisce lo sporco che si accumula sotto le unghie dei piedi o anche tra le dita (si forma tra le dita dei piedi dopo un’intera giornata) per poi formarne una pallina per lanciarla addosso a qualcuno». La parola toe jam, presente in molti dizionari di slang, viene infatti definita come «that grey-brown shit that accumulates between your toes. Primaly composed of dead skin cells, sock fluff and sweat» (Mo’ Urban 2005) ovvero «quella cosa dal colore grigio-marrone che si accumula tra le dita dei piedi, composta principalmente da cellule morte, pelucchi di calze e sudore; o ancora come black gunk under the toe nails or between the toes (Slang-Dictionary.org 2008), cioè «sostanza appiccicosa sotto le unghie o tra le dita dei piedi».
2.8.2 Commento culturale
L’uomo che ci viene descritto potrebbe essere una persona che si lava poco o che ha i piedi sporchi, molto probabilmente proprio perché si tratta di un hippie, solito a camminare scalzo e inevitabilmente a sporcarsi i piedi. Ovviamente parlare di queste cose, e i comportamenti stessi, sono elementi di trasgressione, anche se non collegata ad alcuna protesta politicizzata.

2.9 Nono verso
He got monkey finger
2.9.1 Commento testuale
Anche qui si ritrova l’abbreviazione della terza persona singolare del verbo «avere» e si nota di nuovo la mancanza del suffisso -s indicante il plurale nella parola finger. L’espressione «to have monkey finger», che inizialmente potrebbe sembrare una frase fatta, in realtà non lo è: infatti non compare nei principali dizionari monolingui e bilingui, ma se ne trova una definizione all’interno del dizionario Urban Dictionary, che è la seguente: «that digit which, having been withdrawn from an anus, is now dry and whose owner is inclined to sniff repeatedly and contentedly along the length of it» (Mo’ Urban 2005), ovvero «quel dito infilato precedentemente nell’ano e poi annusato ripetutamente e con soddisfazione per tutta la sua lunghezza».
2.9.2 Commento culturale
La bromidrophilia è una perversione nota alla letteratura medica, per cui una persona prova eccitazione o comunque piacere nell’annusare gli odori corporei. È alquanto evidente che l’autore in questo verso come in quello precedente desidera scandalizzare anche attraverso l’uso di contenuti forti, con l’intento di provocare il “borghese” benpensante che sicuramente si inorridirebbe a sentir parlare di mettersi le dita nel sedere per poi annusarle oppure, come sopra, fare delle palline con la sporcizia che si accumula tra le dita dei piedi e sotto le unghie per poi lanciarle addosso a qualcuno.
2.10 Decimo verso
He shoot Coca Cola
2.10.1 Commento testuale
Anche in questo verso si nota l’omissione del suffisso -s nel verbo shoot, che denota la terza persona singolare. Il verbo to shoot presenta diversi significati e può essere sia transitivo che intransitivo. Se usato come transitivo significa «sparare a (o con)» (Ragazzini 2005), «fare fuoco» (Picchi 2007), «andare a caccia (di)», «cacciare», «abbattere (con il fucile)», «colpire», «ferire», «uccidere (con un’arma da fuoco)», «scaricare (un’arma da fuoco)» (Ragazzini 2005), «fare scoppiare» (definizione tratta da Merriam-Webster 2009), mil. «fucilare», ind. min. «brillare», «sparare (una mina)» (Ragazzini 2005), «emettere (forme di energia)» (definizione tratta da American 2000), «gettare», «scagliare», «lanciare», «scoccare (arco)», «attraversare velocemente», falegnam. «piallare bene» (Ragazzini 2005), «iniettare», «iniettarsi (droga)», «bucarsi», bot. «germogliare», «spuntare», «tirare», «calciare verso la porta» (Picchi 2007), «sprecare» (definizione tratta da American 2000), «girare(film)», «determinare l’altezza di un astro» (Ragazzini 2005), «lanciare», «mandare», «muovere con rapidità, «scagliare», «passare velocemente», «superare rapidamente» (Picchi 2007). Se usato come intransitivo significa «sparare», «tirare (con un’arma da fuoco)», «andare a caccia (col fucile)» (Ragazzini 2005), «lanciarsi», «scagliarsi», «dirigersi a tutta velocità» (Picchi 2007), «apparire all’improvviso» (definizione tratta da American 2000), «parlare» o ancora «mettere le foglie», «germogliare» (Ragazzini 2005), «fotografare» (definizione tratta da American 2000), di film «girare», «riprendere» (Ragazzini 2005), di dolori «sentirsi a fitte», di luce «diffondersi», «irradiarsi» (Picchi 2007), «(volg.) eiaculare», «vomitare» (Ragazzini 2005). In questo caso il verbo è seguito dalla parola Coca Cola, nota bevanda analcolica statunitense. L’autore a mio avviso gioca qui con le parole: uno dei significati di shoot è quello di «bucarsi», «iniettarsi» (Picchi 2007), che presenta quindi un chiaro riferimento alla droga, come pure Coca Cola in quanto essa richiama la parola cocaine, «cocaina». Esiste infatti l’espressione to shoot cocaine e to shoot up cocaine poiché la cocaina, come l’eroina, si può iniettare, diluendola in acqua sterile. Si tratta però di un metodo molto rischioso perché attraverso l’iniezione si immette la droga direttamente nel sangue, provocando effetti istantanei e più intensi, rispetto ad altri metodi di assunzione della sostanza, e quindi se la sostanza non è pura aumentano i rischi di morte. Un’altra ipotesi potrebbe essere l’uso del verbo shoot con il significato di «sparare(si) una Coca Cola», nel senso di «bere», «farsi una Coca Cola», ma ritengo che in questo contesto sia più valida la prima interpretazione.
2.10.2 Commento culturale
La canzone venne bandita dalla BBC (Franzoni, Taormina 1992) proprio con la scusa del riferimento esplicito alla bevanda (o forse proprio a causa del riferimento esplicito alla droga), che venne considerato pubblicità.

2.11 Undicesimo verso
He say I know you, you know me.
2.11.1 Commento testuale
Qui l’autore riporta un discorso diretto e anche qui si nota che al verbo say manca il suffisso -s della terza persona singolare. Il verso può essere tradotto con: «dice io conosco te, tu conosci me».
2.11.2 Commento culturale
Indubbiamente la strofa testimonia ancora una volta un modo molto aperto e diretto di rapportarsi con gli altri, tipico di quegli anni, che in questo specifico caso riguarda la sfera sessuale. L’espressione I know you, you know me è un chiaro invito a fare sesso, del tipo «io conosco te, tu conosci me, quindi perché non dovremmo fare sesso?». Queste parole e soprattutto questo modo molto diretto di approccio nei confronti del sesso sono frutto della libertà sessuale che esplode negli anni Sessanta e che può essere riassunta dalle espressioni «amore libero» e «rivoluzione sessuale». La rivoluzione sessuale avviene proprio in quegli anni e produce un sostanziale cambiamento dei valori nel campo della sessualità, non tanto in termini di rottura rispetto ai costumi fino a quel momento in uso, bensì di una liberazione, dopo un periodo di forte chiusura tra gli anni Trenta e Cinquanta. Durante il periodo della guerra fredda negli USA vigeva un forte puritanesimo, che si scontrava con comportamenti sessuali del tutto naturali. Questo puritanesimo soffocante causa negli anni Sessanta quella ribellione culturale che si trasforma in rivoluzione sessuale e che produce profondi cambiamenti nel comportamento sessuale dei giovani, il che significa che essi praticavano sesso con maggiore frequenza, sperimentandone nuove forme, ma anche che se ne parlava più apertamente, senza timore di essere tacciati di malcostume. A testimonianza di ciò, cito un sondaggio svoltosi in Gran Bretagna, che ritengo particolarmente significativo per dimostrare il cambiamento di atteggiamento nei confronti del sesso avvenuto negli anni Sessanta. Secondo questo sondaggio, nel 1951 solamente il 51% delle donne intervistate aveva dichiarato che il sesso era molto importante all’interno del matrimonio, nel 1969 invece la percentuale era salita al 67% (Gorer 1970: 91).

2.12 Dodicesimo verso
One thing I can tell you is you got to be free.
2.12.1 Commento testuale
Anche qui viene riportato un discorso diretto, le parole pronunciate dal protagonista. È come se l’autore utilizzasse il protagonista del testo per comunicare al lettore/ascoltatore ciò che in realtà è un suo messaggio; è come se l’autore facesse parlare il protagonista del testo con le sue parole. È possibile inoltre notare nuovamente l’omissione della particella have del verbo «to have got». Il verso può essere tradotto con: una cosa che ti (vi) posso dire è che devi (dovete) essere libero(i). Come accennavo in precedenza, questo è chiaramente un messaggio di libertà che l’autore lancia a tutti i lettori/ascoltatori in modo esplicito. Qui viene dichiarato palesemente ciò che l’autore ci aveva già fatto intuire attraverso l’uso delle parole, attraverso cioè la volontà di non voler seguire le regole grammaticali comunemente in uso.
2.12.2 Commento culturale
Il messaggio di libertà contenuto nel verso si riallaccia al verso precedente e all’invito a fare sesso. Con l’avvento della rivoluzione sessuale si afferma una cultura maggiormente permissiva nei confronti della libertà e della sperimentazione sessuale: si comincia a parlare di «amore libero», anche grazie a importanti scoperte, tra cui lo sviluppo di antibiotici che rendevano possibile curare la maggior parte delle malattie veneree, attenuando così il pericolo di malattie sessualmente trasmissibili come la sifilide; l’avvento della contraccezione orale nel 1960, a partire dagli USA, (in Italia la pillola viene commercializzata solo a partire dal 1972) e quindi la possibilità di avere rapporti sessuali più liberi, ma anche importanti progressi nel campo della scienza, che hanno reso meno rischioso l’aborto. Anche per quanto concerne il cinema, si assiste a una progressiva liberazione sessuale: uomini e donne bellissime diventano vere e proprie icone, scritturate in film in cui vi sono scene d’amore romantiche. Era ormai diventato più accettabile mostrare segni d’affetto in pubblico e la presenza di almeno una scena d’amore in ogni film era considerata la norma. La nudità sugli schermi comincia a mostrarsi sempre di più, in concomitanza con una maggiore tolleranza della gente nei confronti della nudità parziale degli uomini e all’esibizione dei seni delle donne. Nasce un vero e proprio genere di attrici, famose perché particolarmente dotate di sex appeal: Mae West, Marilyn Monroe, Raquel Welch, Brigitte Bardot, solo per citarne alcune. Anche per quanto concerne la letteratura con contenuti erotici, vi è una vera e propria apertura tra il 1959 e il 1966, attraverso l’abolizione della censura fino ad allora applicata a libri dal contenuto particolarmente «piccante», tra cui L’amante di Lady Chatterley, Tropico del Cancro e Fanny Hill. In precedenza infatti erano stati attuati dei controlli molto rigidi su ciò che poteva o non poteva essere pubblicato e questi tre libri in particolare erano stati messi al bando negli USA e nella maggior parte dei paesi europei. Il romanzo L’amante di Lady Chatterley fu pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1928 e subito messo al bando in USA e in Europa: solo nel 1959 la casa editrice statunitense Grove Press ne pubblicò l’edizione integrale, che venne pubblicata in Gran Bretagna un anno più tardi, nel 1960 (Micorsoft 1997-2008). Per le stesse ragioni, il romanzo di Henry Miller Tropico del Cancro non poté essere pubblicato negli USA, ma l’edizione del romanzo pubblicata nel 1934 dalla Obelisk Press di Parigi, vi arrivò ugualmente di contrabbando. Negli USA venne pubblicato per la prima volta dalla Grove Press nel 1961 e scatenò una serie di denunce per oscenità, che accompagnarono Miller per tutta la vita e contribuirono a modificare per sempre la legislazione statunitense sulla censura. La pubblicazione del romanzo venne definitivamente permessa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti solamente dopo un estenuante iter giudiziario, quando la Corte Suprema cancellò l’accusa di oscenità mossa in precedenza, conferendo la natura di “opera d’arte” al romanzo di Miller, segnando così uno dei momenti cruciali della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta (Frati 2007); nel 1965 invece la Putnam pubblicò Fanny Hill di John Cleland, la cui prima pubblicazione risale addirittura al 1749. La decisione della Corte Suprema del 1966 di legalizzarne la pubblicazione integrale ebbe un effetto importantissimo: liberò gli scrittori dalla paura di azioni legali e cominciarono così ad apparire numerose opere riguardanti il sesso e la sessualità. Per quanto concerne il Regno Unito, i primi indizi di cambiamento si videro nel 1960, quando il governo cercò senza successo di perseguire per oscenità la Penguin Books per la pubblicazione de L’amante di Lady Chatterley, messo al bando fin dagli anni Venti.

2.13 Tredicesimo verso
Come together right now over me.
2.13.1 Commento testuale
È il ritornello del testo che può essere tradotto con: «vieni adesso insieme (a me), sopra di me». È un vero e proprio richiamo del protagonista, attraverso il quale invita energicamente e senza nessun tipo di inibizione la donna con cui vuole fare sesso a venirgli sopra. Questo verso non è altro che il culmine della discussione iniziata nei due versi precedenti dal nostro personaggio con un’ipotetica donna che desidera: nell’undicesimo verso si rivolge alla donna dicendole I Know you, you know me: un invito implicito a fare sesso; nel verso successivo con le parole One thing I can tell you is got to be free cioè, «una cosa che ti posso dire è che devi essere libero/a», è come se egli cercasse di convincerla ad andare assieme a lui; è come se la donna fosse un po’ titubante e lui stesse cercando di convincerla, invitandola a non pensare a nulla, ma a lasciarsi andare; in questo verso infine, attraverso le parole Come together right now over me, la richiama in modo molto esplicito, un po’ come se fosse stufo di parlare per cercare di convincerla e volesse passare ai fatti. L’espressione che utilizza richiama un’immagine molto forte, soprattutto nelle parole over me, «sopra di me». Va sottolineato inoltre che nell’espressione «vieni insieme» a cui l’autore richiama riecheggia l’allusione sessuale al verbo to come (Miccoli 1998). Questo ci conferma un altro aspetto del testo, nonché caratteristica peculiare del modo di scrivere di Lennon: quello del gioco, che nel testo si traduce nei pun, giochi di parole.
2.13.2 Commento culturale
Anche in questo verso si ritrova il tema della libertà sessuale, discusso nei due versi precedenti. Il ritornello fu ispirato a Lennon anche dalla campagna politica di Timothy Leary, psicologo licenziato dalla Harvard per aver condotto esperimenti sulle proprietà psichedeliche dell’LSD, per la sua candidatura a governatore della California, il cui slogan era Come together, join the party. Su richiesta di Leary, Come Together doveva essere la canzone politica che avrebbe accompagnato i suoi comizi contro Ronald Reagan, ma Leary venne arrestato per possesso di marijuana e sconfitto politicamente (The Beatles Bible 2008). John scrisse così un nuovo testo che propose ai Beatles, i quali registrarono subito la canzone.

3. Riferimenti bibliografici

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5. Ringraziamenti

Ringrazio i miei genitori, il mio ragazzo Mattia e la mia migliore amica Elisa per avermi supportato e “sopportato” nei momenti più difficili di questi tre anni.

Ringrazio Bruno Osimo, il mio relatore, e Cynthia Bull, la mia correlatrice, per la grande disponibilità dimostratami e per avermi seguita con passione e interesse nella stesura della tesi.

Un sentito grazie anche a Gaetana e a Nando, grandi fans dei Beatles, per il prezioso materiale messomi gentilmente a disposizione.

Montague Ullman Dreaming as a Metaphor in Motion Tesi di Maryam Romagnoli Sacchi

Montague Ullman Dreaming as a Metaphor in Motion Tesi di Maryam Romagnoli Sacchi

Fondazione Scuole civiche di Milano Istituto superiore interpreti e traduttori via A. Visconti 18 20151 Milano

Relatore: Professor Bruno Osimo Correlatore: Professor Vincenzo Bonini

Diploma di mediazione linguistica 17 ottobre 2002

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The Dream is a law to itself; and as well quarrel with a rainbow for showing, or for not showing, a secondary arch. The Dream knows best, and the Dream, I say again, is the responsible party.—De Quincey

THERE is a timely need for the revision of dream theory along the following lines: (1) away from metapsychological speculation about dream origins, functions, form, and structure; (2) toward seeing the dream as an aspect of a total behavioral response; (3) toward examining the formal characteristics of dream thought in their intimate association with the altered level of brain function occurring at the time; (4) toward an examination of content as derivative of a social existence that in turn has unknown as well as known dimensions; and (5) toward the development and application of techniques for translating the dream metaphor that are not derived from or limited by specific theoretical systems.

The first four points have been considered in earlier communications1234. This presentation will address itself, in the main, to the last point.

Since the properties of metaphor as revealed in the dream will be our concern, let us begin with a dictionary definition of the term:

Metaphor.—”A figure of speech in which one object is likened to another by asserting it to be that other or speaking of it as if it were the other” (Funk and Wagnall’s New Standard Dictionary of the English Language, 1928). The roots are from the Greek meta meaning over and phero, meaning bear. Brown5 refers to metaphor as “the name for the utterance that suggests its referent through a transfer of meaning.”

Langer writes of metaphor as an instrument of abstraction. It comes into play in situations where an idea is genuinely new. It has no name and there is no word to express it. “When new unexploited possibilities of thought crowd in upon the human mind the poverty of everyday language becomes acute.”6 A process of abstraction is necessary before meaning can be grasped

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as a thing apart from its concrete presentational aspects. Where the gap exists in situations of this sort it is through the use of metaphor that we can take a conceptual leap forward and establish an initial abstract position in relation to a new element in experience.

Langer7 also notes the paradoxical features of this kind of abstract thought and this is a point of crucial significance in connection with dreaming. She points out that the use of metaphor implies that abstract thinking is going on in a paradoxical sense. Metaphor is essentially a conceptualizing process but one that uses concrete imagery as the instrument for arriving at the abstraction.

If we extend the concept of metaphor to include the visual mode, we may restate its essential characteristics as follows as a first step in exploring its applicability to dream phenomena:
1. Metaphor involves the use of word or image in an improbable context.
2. This is done in order to capture and express a level of meaning that is freshly arrived at and in that sense new. (We are concerned with “live” metaphors rather than “faded” or “dead” ones referred to by linguists.)

3. The use of metaphor creates a greater impact and is more revealing of essential features than a literal statement.

Our main thesis is that dreaming involves rapidly changing presentational sequences which in their unity amount to a metaphorical statement (major metaphor). Each element (minor metaphor) in the sequence has metaphorical attributes organized toward the end of establishing in a unified way an over-all metaphorical description of the new ideas and relations and their implications as these rise to the surface during periods of activated sleep. In contrast to the brain-damaged patient in whom the power of abstraction is lost, the dreamer retains his abstracting ability. The physiologically altered brain milieu, however, does exert a limiting influence.

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The dreamer’s abstracting powers are limited to the manipulation of concrete images.

Let us now consider dreaming in the light of the three properties of metaphor described above.

Context.—In the dream images do appear in improbable contexts. In fact, this is one of the features distinguishing cognitive content during activated sleep from content recoverable during other phases of sleep. Incongruity of elements, inappropriate relations, displacement, are all well known attributes of dreams.

Newness.—The value of dreams in therapy lies in the fact that they do say something new or at least new in the sense of its unfamiliarity to waking consciousness. Unless this were so, dreams would hardly be worth pursuing. It is the nature of the newness that has to be defined. It is precisely around this question that classical psychoanalytic notions about dreaming have been challenged by a host of critical comment converging from such disparate sources as experimentalists on the one hand8 and phenomenologists on the other,9 as well as from within the ranks of psychoanalysts themselves.101112

Freud regarded the newness as emerging in the form of a compromise arising out of the dash of two intrapsychic systems, namely, unconscious and conscious. The model is that of energy transfer within a closed system with the dreamer limited in his expression of novelty to his own particular repertoire of artful camouflage. True novelty is drained out in the insistence on the role of unchanging instinctual energies linked to infantile wishes in accounting for the fact of dreaming. Followed to its logical conclusion what emerges is an image of man as an impotent reactor—”a complicatedly constructed and programmed robot, perhaps, but a robot nevertheless.”13

Transformation and change and, with them, the element of novelty, are just as much features of dream consciousness as they are of waking consciousness. To arrive at an understanding of how they come about during the dream state we have to replace metaphysical speculation with a more

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rigorous analysis of the psychological needs of the sleeping human organism and how the symbolic expression of these needs is influenced by the changes in brain milieu that occur during sleep. The former relate to the content of dreams, the latter to their form.

While asleep our brain is functioning differently and our psychological system is responsive to a different input and organized toward a different behavioral goal than in the waking state. When there are sufficient quantitative changes in brain milieu a qualitative change comes about that exerts a tremendously significant limiting influence on the articulating psychological system. Thought processes become bound to concrete presentations. The intact individual in the waking state is capable of thought processes reflecting events extended in time through a discursive mode of symbolic organization but he is at the same time capable of borrowing concrete expressions for intended metaphorical use. The brain-damaged patient cannot abstract and cannot employ metaphor. The closest he comes to it is in the use of unintended metaphor or quasimetaphor. The dreamer is somewhere in between. He has not lost the power of abstraction, but a sufficient alteration in brain milieu has occurred to influence the way in which the abstraction is arrived at and the way in which it gains expression. He is forced into a concrete sensory mode and, hence, the need to manipulate visual presentations toward the goal of a metaphorical explication of an inner state. I suggest that this necessity arises from physiological rather than psychological considerations. Under the conditions of sleep, behavior is not and cannot be directed toward the outside world. Input channels close down and normal motor effector pathways are inhibited. Consciousness, whether while dreaming or awake, cannot be divorced from the activity of the organism. The existence of a sensory mode of conscious expression does appear to be appropriate to the only effector system available to the sleeping organism, namely, the arousal mechanism or the reticular activating system (referred to as the vigilance system by Hernandez-Peon14). The behavioral

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response in this instance would be an internal one in the form of an influence upon the level of arousal.

To develop this point further requires emphasis on the intimate relationship of conscious experience at a given moment to the activity the individual is engaged in. Activity has a different complexion in the waking state than it has during activated sleep. In the former, the term refers to that segment of the individual’s social practice, ie, his ongoing behavior in a social context, which happens to be in focus at a particular time. In the case of the dreamer, activity has to do with internal change or, more exactly, the potential for internal change, namely the possibility of a change from a state of activated sleep to one of full arousal. In the waking state all new afferent stimuli carry a double message to the central nervous system, one mediated through the reticular system and exerting an arousal effect and the other, which has an informational effect, through the direct sensory pathways to the cortex. While the dreamer is awake the factor of arousal makes possible a more effective orientation to the informational aspects of the stimulus. The dual significance of afferent stimuli is preserved in the dreaming state but with two important differences. An internal source of afferent stimuli is mobilized out of experiential data and the relative importance of the informational and arousal aspects of the stimuli is reversed. In the dreaming state the informational aspects serve the need to sustain and modulate the arousal level and, if necessary, bring about a full arousal effect. The metaphor, through the properties of vividness, emphasis, incongruity, and dramatic presentation, is suited to do just that. The obscurity of the metaphor may be related to the complexity and degree of strangeness of the situation being represented. The movement of the metaphor is the result of attention-directing processes brought into operation once initial activation occurs. The feelings rising to the surface at this time are new in the sense of not having come clearly into focus during the waking state. They act as motivational processes,1516 exerting a further energizing or arousal effect serving to organize or direct further behavioral change. The task before the dreamer is to express relations he has never before experienced. The sensory effects streaming down to the arousal center employ the visual mode predominantly and as these generate further arousal new and relevant motivational systems or feelings are tapped.

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When we are awake we can tune out our feelings, but when we are asleep we have no choice but to express them should our nervous system become sufficiently aroused to allow us to do so. Feelings are, as Leeper emphasizes, processes capable of being touched off by very slight stimuli. In the case of the dreamer, such stimuli generally take the form of the day residue.

Other characteristics of feelings as a subclass of motives are also relevant to dreaming. These include:

1. Motives modify perceptual processes so that they become organized in a way that makes relevant items stand out forcefully. Elements appearing in dreams are selected on the basis of relevance. Beginning with an affective residue reexperienced at the onset of activated sleep, there is a heightened focal attention to the significant recent event responsible for this affective residue.

2. Motives initiate exploratory activity. The dreamer embarks upon a longitudinal exploration of relevant past data.

3. Motives act as regulatory mechanisms in the service of psychological homeostasis. As a consequence of the feelings initially evoked at the onset of dreaming and as further developed by the exposure of relevant past experiential data, the dreamer moves toward the resolution of any resulting psychological dysequilibrium, either by summoning up defenses or by the creative utilization of positive resources and growth potential.

The Use of Metaphor.—Under the conditions of activated sleep the concrete metaphorical mode is characteristic of this translation of felt reactions into conscious experience. It is in this sense that the dream is essentially a metaphor in motion. As indicated above, the dreamer has to concern himself with understanding new data. The reason a day residue serves as the precipitating mechanism for the subject matter of a dream is precisely because it is experienced as a faint beam of light playing upon shadowy, unknown, and sometimes rather frightening territory. The

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exploration of this territory — that is, the capacity to engage with the new — requires the power of abstraction. The dreamer, forced to employ a sensory mode, has to build the abstraction out of concrete blocks in the form of visual sequences. The resulting metaphor can be viewed as an interface phenomenon where the biological system establishes the sensory medium as the vehicle for this expression and the psychological system furnishes the specific content.

To appreciate more fully the need for metaphorical expression during periods of activated sleep we have to introduce the concept of social vigilance. This concept involves an orientation to and exploration of events that impinge on the human organism in a novel way and which are, therefore, capable of influencing or changing the current level of social homeostasis. For the human organism, events of this kind tend to assume a mediated and symbolic form rather than the immediate and physically intrusive form characterizing vigilance operations in lower animals. The individual’s equilibrium is upset in one of two ways by such an event. An area of ignorance may be uncovered which then serves as a stimulus to growth and mastery or an area of psychological vulnerability may be exposed in which case efforts at mastery may be handicapped by defensive operations with the result that false or mythic explanations may either color the picture or even predominate in shaping the response.

Vigilance theory can be linked to dreaming by conceiving of the activated sleep state as instigated by a built-in physiologically governed mechanism providing the organism with periodic opportunities throughout the night to process internal or external data in such a way that awakening can occur if necessary by bypassing the main cyclical and gradual variations in levels of sleep. In doing this the organism may be borrowing a mechanism that may or may not have been related to vigilance operations originally.

The essence of a workable vigilance mechanism, as the survival of any lower animal attests, lies in its enforced truthfulness. If information conveyed

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is false or its interpretation is inappropriate, the danger is enhanced. So it is with the dreamer. He is not at the mercy of deeper instinctual forces seeking to gain expression on the basis of fulfilling an infantile wish, but rather is dreaming of truer and more inclusive aspects of his own existence as partially exposed by a recent event in his life. He is concerned with such fundamental questions as: Who am I? What is happening to me? What can I do about it? The dreamer is making a very active attempt to reflect in consciousness the immediate aspect of his own existence. The dream in its totality is a metaphorical explication of a circumstance of living explored in its fullest implications for the current scene. To see the dream as an elaborate strategy to achieve gratification of a wish is to limit salience to one particular motive at the expense of the surging, forward-looking, exploring, chance- taking operations that also occur. The day residue, reappearing in the dream, confronts the individual either with new and personally significant data or forces a confrontation with heretofore unrecognized unintended consequences of one’s own behavior. There follows an exploration in depth with the immediate issue polarizing relevant data from all levels of one’s own past in an effort to both explore the implications of the intrusive event and to arrive at a resolution. What is unconscious in the presentations appearing in the dream are those aspects of his felt responses which cannot be accurately conceptualized, either because they have not heretofore been personally conceptualized, or because they are derivative of social relations that are not understood and hence cannot be conceptualized. When the personal or social unknown gains expression in the dream, it does so in a personal idiom and by as apt a metaphor as the individual can construct to describe what it feels like.

The following brief examples illustrate some of the points under discussion,

EXAMPLE I.—An architect, with schizoid tendencies, was under pressure to complete a set of drawings on time to meet a deadline. He was forced to devote four successive Sundays to the completion of this work. He had to isolate himself from

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the rest of his family which includes his wife and four children. His wife managed well for the first three weeks but on this fourth Sunday was in a fretful and irritable mood. He remained closeted in his room for the entire day. He was vaguely aware of his wife’s feelings and from time to time would hear her lose her temper at the children. He fell asleep for a short time and had the following dream:

“I was calling the weather bureau to ask if the hurricane was expected to hit the city that afternoon. As I was asking the question I began to feel embarrassed and guilty. I awoke as I was trying to terminate the call.”

He awoke with the dream in mind. The associations to the dream were as follows:

He had a growing feeling of uneasiness with regard to the burden he was placing upon his wife, but felt that it was necessary and unavoidable. He associated the metaphor of the hurricane to the recurrent blasts of his wife’s temper, particularly in view of the fact that if another hurricane were in reality to occur its name would have begun with the same initial as that of his wife’s name. The incidental event precipitating the dream was the occasional sounds of his wife’s quarrels with the children which reached his ears while he was intensely preoccupied with the work he was doing. The contradiction which was deepened and brought closer to full awareness was one arising from the discrepancy between the actual nature of his activity on the one hand — the arbitrary and absolute way in which he cut himself off from his family when under pressure — and the way in which this activity was reflected in consciousness — that this was simply a necessary but transitory interlude in his family life which the others owed it to him to countenance. The reactions of his wife, related to his actual activity rather than to his conceptualized version of it, induced uneasy feelings. These feelings were the first expression in consciousness of the growing recognition of his own responsibility. They arose in connection with the real although indirect protests by his wife. His rationalizations were being forced to give way before a more accurate reflection of the entire situation namely, that whatever pressure the work subjected him to, it did not justify the absolute

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kind of severance that he had effected with his family in total disregard of their needs.

EXAMPLE 2.—A dapper 63-year-old man, depressed over a period of several months, related a dream occurring several nights following his first visit:

‘I was the last guy in the world. There was nobody left. I found myself isolated. It woke me. I was very happy that I could get up and go to work.”

The patient had come for help at a point where all of his activities had become sharply curtailed and where he had become phobic about even leaving the house. He did, however, verbalize the hope that he could return to work. He appeared to need the active intervention and support of an outside authority to risk rejoining the world of other men and the world of business. The dream occurred in the context of feeling better following the first visit and a successful effort to mobilize himself to return to work. At the point where he began to move out of his depression he was able to create an image describing both the ultimate in hopeless alienation from all other men and at the same time one that lent itself to sudden termination by the simple process of awakening. The minor metaphor expresses an inexorable and utterly hopeless feeling of separation from all other men. To understand the major metaphor one has to take into account the behavioral effect of the dream, namely awakening, and with it the transformation of the feeling of hopelessness into its opposite. He is saying, in effect, “I can now relate to my illness as if it were a bad dream from which one awakens with relief.”

We have offered very little thus far concerning the laws governing the movement and development of the global or major metaphor of the dream. It is likely that the full exposition of the developmental aspects of the dream process will have to await further investigative effort using the new monitoring techniques at hand. Descriptively the dream evolves from the setting or presenting metaphor by extending its range horizontally through the elaboration of motivational process implied or alluded to in the setting and extending its scope longitudinally by introducing related motivational processes derived from earlier experience. The development is organized

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rather than haphazard and reintegrative efforts are made, resulting in a resolution which in terms of its affective intensity either is or is not compatible with the normal temporal parameters of the activated sleep period in which it is occurring. These ideas could be tested experimentally by systematically examining the relationship of hypnagogic imagery to dream sequences of the same night. Is the hypnagogic image simply the first step in dreaming, namely, the translation of the last remembered bit of cognitive data into a visual image? Does it lack subsequent development and enrichment and remain as a “forme fruste” of the dream because the period of cortical activation needed to produce a dream is too fleeting in nature during the initial descent into deep sleep? A comparison of the two phenomena highlights the lack in hypnagogic image of the developmental features that characterizes the dream. The latter by comparison tends to be more complex, more dynamic, more evocative of the past and more apt to go beyond the immediate antecedent content of consciousness. In the dream the initial translation is the starting point of an active exploratory process extending throughout the period of activated sleep. A further difference involves the behavioral effect. Full arousal is rarely the result of hypnagogic imagery but it not infrequently occurs during the dream. Perhaps the hypnagogic image can be likened to a word which, no matter how unique or colorful, cannot compare in richness and expressive potential to the fully developed sentence.

The Dream Mystique.—The failure to perceive the full significance of the expository role of metaphor in dream consciousness has had a number of unfortunate consequences for the theory and practice of psychotherapy. Once the puzzling nature and apparent mystery of the dream was equated with unconscious but purposeful efforts at self-deception powerful supports for an instinctivist psychology came into being. The sum of man’s complicated relations to his social milieu is reduced to intrapsychic conflicts directed toward the subjugation and control over his own biology. Chein,

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referring to this distorted view of man, writes: “Contemporary psychologists, it seems to me, tend to be rather obsessed with the corporeality of man and to be constantly diverted from the human being to the human body.” He further notes: “The emphasis on corporeality as the

essential quality of man is, of course, evident in the naïve — if persistent — effort to reduce psychological to bodily process. This is again a matter of philosophy dictating psychological theory.”

This point of view concerning man and the dream reflecting the struggle between instinctual wish and social prohibition has had a very limiting effect on the potential therapeutic application of dream interpretation. A relationship between dreaming and dream interpretation arose that was rather inappropriately and incongruously forced into a fixed medical model. The end-product more closely resembled the relationship between a patient, his heartbeat reflected in the electrocardiogram, and the physician who has the specialized knowledge needed to interpret the record. In the case of the dream, a universal phenomenon is dealt with as if it, too, were a special record decipherable only by an expert. […]

In the dream the visual image and the referent are linked by the element of similarity , hence the metaphorical quality . The view that has been expressed here is that this translation serves the same expressive purpose that figurative speech serves in the waking state. The other and traditional point of view de-emphasizes the metaphorical relation between referent and image and treats the image almost exclusively in terms of its associational connection with sex or aggression. As Bertalanffy17 points out, dream elements in a freudian sense are not true symbols, but rather what he terms free playing associations. Each element, by virtue of certain formal characteristics, stands for something else. Here the term “stands for” conveys a meaning opposite to metaphor, namely, one of obscuring, hiding, concealing. The end point of the latter development has been the evolution of a dream mystique whereby dream interpretation becomes a special tool in

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the hands of a few, safeguarded by caveats of all sorts, most of which point to the dangers of inexpert dream interpretation and of deep interpretation. As a consequence, all but psychoanalysts and analytically trained physicians and psychologists carefully eschew any pretense at utilizing dreams. The dream as a potential instrument for self-learning hardly comes into its own under these circumstances. An aspect of ourselves that, in subtle and dramatic ways, highlights movement change and the creative interplay of old patterns and newly evoked responses remains a refined tool in the hands of the few rather than a widely developed and broadly applied medium for self-understanding.

References

Il Sogno è una regola in sé; e litiga con l’arcobaleno per mostrare, o non mostrare, un secondo arco. Il Sogno ben sa e il Sogno, ripeto, è il solo responsabile.—De Quincey

È opportuno rivedere la teoria del sogno in base ai seguenti princìpi: 1. allontanandosi da speculazioni metapsicologiche riguardo a origini, funzioni forma e struttura del sogno; 2. in direzione di una visione del sogno come risposta totalmente comportamentale; 3. in direzione di un’analisi delle caratteristiche formali del pensiero onirico in rapporto alla loro stretta associazione con l’alterazione del grado di funzionamento del cervello durante il sonno; 4. in direzione di un’analisi del contenuto, il quale è determinato da un’esistenza sociale che, a sua volta, possiede aspetti sia noti sia sconosciuti; 5. in direzione dello sviluppo e dell’applicazione di tecniche per la traduzione della metafora onirica che non ha origine né è limitata da sistemi teorici specifici.

I primi quattro punti sono stati analizzati in studi precedenti1234. Questo articolo, in generale, è rivolto all’ultimo punto.

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Poiché ci occuperemo delle caratteristiche della metafora così come vengono rivelate dal sogno, partiamo da una definizione da dizionario del termine:

Metaphor. «A figure of speech in which one object is likened to another by asserting it to be that other or speaking of it as if it were the other»∗. (Funk and Wagnall New Standard Dictionary of the English Language, 1928). Il termine deriva dal greco meta, indicante «oltre» e fero che significa «portare». Brown5 definisce metafora «il nome dell’enunciazione che indica il proprio referente attraverso un trasferimento di significato».

La Langer descrive la metafora come strumento di astrazione. Entra in gioco in situazioni in cui si presenta un’idea assolutamente nuova. Non esiste nome o parola per esprimerla. «Quando nella mente umana si affollano nuove possibilità di pensiero non sfruttate, si acuisce la povertà del linguaggio di tutti i giorni»6. Prima che il significato possa essere afferrato indipendentemente dai suoi concreti aspetti apparenti è necessario un processo di astrazione. Quando esiste un divario in questo genere di situazioni, attraverso l’uso della metafora è possibile compiere un salto concettuale e stabilire una posizione astratta iniziale in relazione all’esperienza di un nuovo elemento.

La Langer7 nota anche le caratteristiche paradossali di questo tipo di pensiero astratto, punto di cruciale importanza in relazione all’attività onirica. Sottolinea che l’uso della metafora implica che il pensiero astratto procede in una direzione paradossale. La metafora altro non è che un processo di concettualizzazione che, però, ricorre a immagini concrete come strumento per giungere all’astrazione.

Se estendiamo il concetto di metafora alla modalità visiva, possiamo riportare le sue caratteristiche essenziali come primo passo per esplorare l’applicabilità della metafora ai fenomeni del sogno nel modo seguente:

∗ «Figura retorica attraverso cui un oggetto è paragonato a un altro affermando che quell’oggetto è l’altro o parlandone come se lo fosse» [N.d.T.].

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  1. La metafora comporta l’uso di una parola o immagine in un contesto improbabile.
  2. Questo ha lo scopo di catturare ed esprimere un livello di significato acquisito di recente e in questo senso nuovo. (Ci occupiamo di metafore «vive» piuttosto che di metafore «morte» o «spente» a cui fanno riferimento i linguisti.)
  3. L’uso della metafora crea un effetto maggiore e rivela in misura superiore le caratteristiche essenziali rispetto a un’affermazione letterale.

    La nostra tesi principale è che l’attività onirica comporta un rapido

cambiamento di sequenze descrittive, che nella loro totalità corrispondono a un’affermazione metaforica (metafora maggiore). Ogni elemento (metafora minore) della sequenza possiede attributi metaforici organizzati allo scopo di stabilire in maniera unitaria una descrizione metaforica complessiva delle nuove idee, relazioni e implicazioni quando esse emergono durante le fasi del sonno attivo. Contrariamente ai pazienti con lesioni cerebrali, il sognatore mantiene la capacità di astrazione. Tuttavia il milieu cerebrale, modificato a livello fisiologico, esercita un’influenza restrittiva. Le capacità di astrazione del sognatore sono ridotte alla manipolazione d’immagini concrete.

Analizziamo ora l’attività onirica alla luce delle tre suddette proprietà della metafora.

Contesto. Nel sogno le immagini in effetti si presentano in contesti improbabili. Di fatto questo è uno degli aspetti che contraddistingue il contenuto cognitivo degli intervalli di sonno attivo da quello recuperabile durante le altre fasi. Discordanza tra gli elementi, relazioni inadeguate e spostamento sono note caratteristiche dei sogni.

Novità. L’importanza dei sogni nella terapia sta nel fatto che, in effetti, svelano qualcosa di nuovo o, per lo meno, nuovo in relazione alla loro scarsa familiarità con la coscienza della veglia. Se così non fosse, non varrebbe la pena indagare i sogni. È la natura di novità che va definita. Proprio su questo

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punto le nozioni classiche della psicoanalisi riguardanti l’attività onirica sono state messe in discussione da numerosi commenti critici provenienti da fonti diverse: sperimentalisti da una parte8 e fenomenologisti dall’altra9, ma anche dalle schiere degli psicoanalisti stessi101112.

Freud riteneva che la novità fosse una forma di compromesso, risultato di un conflitto tra due sistemi intrapsichici, ossia inconscio e coscienza. Il modello è quello del trasferimento d’energia all’interno di un sistema chiuso in cui il sognatore vede limitata l’espressione di novità dal proprio repertorio di camuffamento artificioso. La vera originalità scompare con l’insistenza sul ruolo delle energie istintive invariate legate ai desideri infantili per spiegare l’attività onirica. Come conseguenza logica ciò che emerge è un’immagine dell’uomo come reattore impotente, «un robot, forse costruito e programmato in modo complesso, ma sempre un robot»13.

Trasformazione, cambiamento e, con essi, l’elemento di novità sono tutti aspetti sia della coscienza del sogno sia della coscienza vigile. Per comprendere come essi si realizzino durante lo stato onirico è necessario sostituire le speculazioni metafisiche con un’analisi più rigorosa dei bisogni psicologici dell’organismo umano dormiente e come l’espressione simbolica di questi bisogni sia influenzata dai mutamenti nel milieu cerebrale durante il sonno. I primi sono legati al contenuto dei sogni, la seconda alla loro forma.

Durante il sonno il cervello funziona diversamente e il nostro sistema psicologico risponde a un diverso input ed è organizzato verso un differente obiettivo comportamentale rispetto allo stato di veglia. Quando vi sono sufficienti cambiamenti quantitativi nel milieu cerebrale, si verifica un mutamento qualitativo che esercita una considerevole influenza restrittiva sul sistema psicologico di articolazione. A questo punto i processi di pensiero sono legati a presentazioni concrete. Durante la veglia il soggetto sano è in grado di compiere processi di pensiero che riflettono eventi prolungati nel tempo attraverso una modalità discorsiva di organizzazione simbolica ma, al tempo stesso, è anche in grado di ricorrere a espressioni concrete per

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utilizzarle metaforicamente. Il paziente con lesioni cerebrali non può ricorrere né all’astrazione né alla metafora. Può al massimo fare uso di una metafora non intenzionale, o quasimetafora. Il sognatore si trova a metà: non ha perso la capacità di astrazione, ma nel milieu cerebrale si è verificata un’alterazione tale da influenzare il modo in cui giunge all’astrazione e nel quale l’astrazione acquista espressione. Viene costretto in una modalità sensoriale concreta e quindi alla necessità di manipolare le rappresentazioni visive allo scopo di fornire una spiegazione metaforica di uno stato interiore. Ipotizzo che questa necessità abbia origini fisiologiche e non psicologiche. Alle condizioni del sonno, il comportamento non è, e non può essere, diretto al mondo esterno. I canali di input si chiudono e le normali vie motorie sono inibite. La coscienza, sia allo stato vigile sia durante il sonno, non può essere separata dall’attività dell’organismo. L’esistenza di una modalità sensoriale di espressione cosciente in effetti appare appropriata per l’unico sistema a disposizione dell’organismo durante il sonno, cioè il meccanismo di attivazione o sistema reticolare attivatore (che Hernandez Peon14 chiama «sistema di vigilanza»). In questo caso la risposta comportamentale sarebbe interna, sotto forma di un’influenza esercitata sul livello di attivazione.

Al fine di sviluppare questo punto più approfonditamente è necessario sottolineare la stretta relazione dell’esperienza conscia – in un momento preciso – con l’attività in cui l’individuo è impegnato. L’attività nella veglia possiede caratteristiche diverse da quelle nel sonno attivo. Nel primo caso il termine fa riferimento a quel segmento delle pratiche sociali dell’individuo, ad esempio il comportamento che assume in un determinato contesto sociale, che è focalizzato in quel momento. Nel caso del sognatore l’attività ha a che fare con cambiamenti interni o, più precisamente, con il potenziale di cambiamento interno, ossia, la possibilità di passaggio dal sonno attivo allo stato di eccitazione diffusa. Durante la veglia tutti i nuovi stimoli afferenti recano al sistema nervoso centrale un messaggio doppio: uno mediato dal sistema reticolare che provoca il risveglio e l’altro, con effetto informativo,

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dalle vie sensoriali dirette alla corteccia. Quando il sognatore è sveglio il fattore di attivazione rende possibile un più efficace orientamento sugli aspetti informativi dello stimolo. La duplice portata degli stimoli afferenti si mantiene durante lo stato onirico, ma con due differenze importanti. I dati esperienziali mobilitano una fonte interna di stimoli afferenti e si capovolge l’importanza relativa degli aspetti informativi e di quelli di attivazione. Nello stato onirico gli aspetti informativi servono a sostenere e a modulare il livello di attivazione e, se necessario, a produrre un effetto di eccitazione diffusa. Sicuramente la metafora si presta a tale scopo, grazie alle caratteristiche di vividezza, enfasi, incongruenza e teatralità che la contraddistinguono. L’oscurità della metafora può essere legata alla complessità e al grado di stranezza della situazione rappresentata. Il movimento della metafora è il risultato dei processi per dirigere l’attenzione che vengono avviati una volta verificatasi l’attivazione iniziale. Le sensazioni che emergono in questo momento sono nuove nel senso che durante la veglia non sono state messe bene a fuoco. Esse fungono da processi motivazionali1516 esercitando un effetto ulteriore che rafforza l’eccitazione diffusa. Questo serve a organizzare e a dirigere l’ulteriore cambiamento comportamentale. Il compito del sognatore è quello di esprimere relazioni che non ha mai sperimentato. Gli effetti sensoriali che fluiscono al centro di attivazione utilizzano soprattutto la modalità visiva, mentre questi ultimi attivano ulteriori sistemi motivazionali o sentimenti nuovi.

Quando siamo svegli possiamo anche non dare ascolto ai nostri sentimenti, ma mentre dormiamo non possiamo fare altro che esprimerli, a condizione che il sistema nervoso venga stimolato a sufficienza. Come sottolinea Leeper, le sensazioni sono processi che possono essere scatenati da stimoli leggerissimi; nel caso del sognatore tali stimoli assumono l’aspetto dei residui diurni.

Anche altre caratteristiche delle sensazioni, come sottoclasse di motivi, sono importanti per l’attività onirica. Tra queste figurano:

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1. I motivi che modificano i processi percettivi, così che essi vengono organizzati in modo da evidenziare efficacemente gli oggetti pertinenti. Gli elementi che appaiono nel sogno vengono selezionati in base alla loro pertinenza, cominciando con un residuo affettivo, riesperito all’inizio del sonno attivo, si intensifica l’attenzione focale su un recente evento significativo, responsabile di questo residuo affettivo.

  1. I motivi avviano l’attività esplorativa. Il sognatore si imbarca in un’esplorazione longitudinale dei dati pertinenti passati.
  2. I motivi agiscono da meccanismo regolatore al servizio dell’omeostasi psicologica. In conseguenza delle sensazioni suscitate all’inizio dell’attività onirica, ulteriormente sviluppate con i dati esperienziali pertinenti, il sognatore si muove verso la risoluzione di qualunque disequilibrio psicologico risultante, o facendo appello alle proprio difese o utilizzando creativamente le risorse positive e il potenziale di crescita.

L’uso della metafora. Nelle condizioni di sonno attivo la modalità metaforica concreta è tipica di tale traduzione delle reazioni sperimentate nell’esperienza conscia. È in questo senso che il sogno è una metafora in movimento. Come detto sopra il sognatore deve cercare di capire i dati nuovi. I residui diurni servono da meccanismo scatenante per il materiale onirico proprio perché vengono vissuti come un fioco raggio di luce su un terreno oscuro, ignoto e, a volte, piuttosto terrificante. Esplorare questo territorio – cioè la capacità di intraprendere il nuovo – richiede capacità di astrazione. Il sognatore, obbligato a impiegare una modalità sensoriale, deve costruire l’astrazione partendo da blocchi concreti sotto forma di sequenze visive. La metafora che ne risulta può essere vista come il fenomeno di interfaccia in cui il sistema biologico attribuisce a un medium sensoriale il ruolo di veicolo per questa espressione, mentre il sistema psicologico fornisce il contenuto specifico.

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Per comprendere pienamente la necessità di espressione metaforica durante le fasi del sonno attivo è necessario introdurre il concetto di vigilanza sociale. Questo concetto comporta un’esplorazione e un orientamento verso quegli eventi che si ripercuotono sull’organismo umano in una maniera nuova e, quindi, in grado di influenzare o cambiare il livello attuale di omeostasi sociale. Per l’organismo umano questo genere di eventi tende ad assumere una forma mediata e simbolica anziché la forma immediata e fisicamente intrusiva che caratterizza le operazioni di vigilanza degli animali inferiori. L’equilibrio dell’individuo viene alterato da tale evento in due modi possibili: uno consiste nello svelare un’area oscura che in seguito stimola la crescita e la capacità di controllo; il secondo consiste nel mettere a nudo un’area di vulnerabilità psichica e in questo caso gli sforzi per la capacità di controllo sono talora ostacolati dalle operazioni di difesa, con il risultato che spiegazioni false o mitizzate finiscono per dare una particolare tonalità o, addirittura, forma al quadro.

La teoria della vigilanza può essere collegata all’attività onirica immaginando che il sonno attivo sia provocato da un meccanismo interno regolato fisiologicamente che, durante la notte, fornisce più volte all’organismo la possibilità di elaborare dati interni o esterni in modo che il risveglio possa verificarsi, se necessario, aggirando le principali variazioni cicliche e graduali delle fasi del sonno. Facendo ciò l’organismo probabilmente ricorre a un meccanismo che in origine forse era legato alle operazioni dello stato di vigilanza.

La condizione essenziale di un meccanismo di vigilanza funzionale, come attesta la sopravvivenza degli animali inferiori, sta nella sua effettiva veridicità. Se l’informazione trasmessa è falsa o interpretata in modo non adeguato, il pericolo aumenta. Lo stesso accade al sognatore. Questi non è alla mercé di forze istintuali più profonde che cercano di acquistare espressione per appagare un desiderio infantile, ma sogna piuttosto aspetti più veri e comprensivi della propria esistenza, in quanto svelata da un

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evento recente nella vita del sognatore. Egli cerca risposte a domande esistenziali come: «Chi sono? Cosa mi succede? Cosa posso farci?» il sognatore si sforza attivamente di riflettere nella coscienza gli aspetti immediati della propria esistenza. Il sogno nella sua totalità è un’esplicitazione metaforica di una circostanza di vita, esplorata nelle sue implicazioni più profonde per il presente. Vedere il sogno come strategia elaborata per appagare un desiderio significa limitare l’importanza a un motivo in particolare, a scapito delle altre operazioni, travolgenti, lungimiranti, esplorative e rischiose che si verificano. I residui diurni, che riappaiono nei sogni, mettono l’individuo di fronte a nuovi dati per lui significativi o impongono un confronto con le conseguenze finora involontarie e non riconosciute del proprio comportamento. Segue un’esplorazione in profondità in cui la questione immediata polarizza i dati pertinenti da tutti i livelli del proprio passato nel tentativo sia di esplorare le implicazioni dell’evento intrusivo sia di arrivare a una soluzione. Ciò che è inconscio nelle rappresentazioni del sogno sono gli aspetti delle risposte individuali debitamente concettualizzabili, o perché finora non sono state concettualizzate personalmente, o perché derivano da relazioni sociali che non sono state comprese e pertanto non concettualizzabili. Quando l’inconscio o sociale acquista espressione nel sogno, questo avviene tramite un linguaggio idiomorfo e tramite una metafora che, a seconda della capacità dell’individuo, sarà più o meno appropriata per descrivere ciò che prova.

I due brevi esempi che seguono illustrano i punti presi in esame.

ESEMPIO 1. Un architetto, con tendenze schizoidi, era sotto pressione poiché doveva terminare una serie di disegni in tempo per rispettare una scadenza. È stato costretto a dedicarvi quattro domeniche consecutive. Ha dovuto isolarsi dalla moglie e dai quattro figli. Per le prime tre domeniche la moglie ha sopportato questa situazione, ma la quarta era nervosa e irascibile. Il marito era rimasto chiuso tutto il giorno nel suo studio. Egli era vagamente consapevole dei sentimenti della moglie e ogni tanto la sentiva arrabbiarsi con i figli. Si è addormentato per qualche minuto e ha fatto questo sogno:

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«Chiamavo l’ufficio meteorologico per sapere se era previsto che l’uragano si abbattesse quel pomeriggio sulla città. Mentre chiedevo l’informazione ho iniziato a sentirmi a disagio e in colpa. Mi sono svegliato mentre cercavo di troncare la telefonata».

Si è svegliato con in mente il sogno. Le associazioni con il sogno erano le seguenti:

Provava un crescente senso di disagio causato dal carico di lavoro a cui stava sottoponendo la moglie, tuttavia credeva che fosse necessario e inevitabile. Egli associava la metafora dell’uragano ai ricorrenti scatti d’ira della moglie, soprattutto in considerazione del fatto che se fosse venuto un uragano davvero, il suo nome sarebbe iniziato con la prima lettera del nome della moglie. L’evento accidentale che aveva provocato il sogno era il rumore occasionale delle sgridate della moglie ai figli che gli giungevano alle orecchie mentre era completamente immerso nel lavoro. La contraddizione, intensificata e portata quasi alla totale consapevolezza, aveva origine dalla discrepanza tra la vera natura della sua attività da una parte – la maniera assoluta e arbitraria con cui si isolava dalla famiglia quando era sotto pressione – e il modo in cui tale attività era riflessa nella coscienza: questa era semplicemente una parentesi necessaria, ma temporanea, della sua vita famigliare che gli altri dovevano sopportare. Le reazioni della moglie, legate alla vera natura della sua attività effettiva, e non a come lui se l’era immaginata gli causavano un senso di disagio. Era la prima espressione nella coscienza della crescente consapevolezza della propria responsabilità. Il disagio è emerso in rapporto alle proteste reali, sebbene indirette, della moglie. La razionalizzazione da lui operata doveva cedere di fronte a una riflessione più accurata dell’intera situazione: anche se il lavoro lo metteva sotto pressione, il distacco assoluto dai suoi famigliari, nel disinteresse totale dei loro bisogni, non era giustificabile.

ESEMPIO 2. Un elegante uomo di sessantatré anni che da alcuni mesi soffriva di depressione, raccontò un sogno ricorrente dopo la sua prima seduta:

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«Ero l’ultimo uomo sulla terra. Non era rimasto nessuno. Mi sono ritrovato solo. Questo mi ha fatto svegliare. Ero molto felice di potermi alzare e di andare a lavorare».

Questo paziente era venuto da me in un momento in cui tutte le sue attività si erano ridotte nettamente e in cui era diventato fobico anche solo all’idea di uscire da casa. Aveva in effetti verbalizzato la speranza di potere tornare al lavoro. Sembrava avere bisogno di un intervento e di un sostegno attivo da parte di un’autorità esterna per affrontare il rischio di ritornare al mondo degli uomini e a quello degli affari. Aveva fatto questo sogno in un momento in cui si sentiva meglio, in séguito alla prima seduta e al tentativo riuscito di impegnarsi per tornare al lavoro. Nel momento in cui iniziava a uscire dalla depressione è riuscito a creare un’immagine che descriveva sia l’apice dell’isolamento disperato dal resto dell’umanità e, al tempo stesso, un’immagine che si prestava a un troncamento improvviso, grazie al semplice processo del risveglio. La metafora minore esprime un sentimento inesorabile, estremamente disperato, di separazione dal resto dell’umanità. Al fine di cogliere la metafora maggiore è necessario prendere in considerazione l’effetto comportamentale del sogno, ossia il risveglio, e con quest’ultimo il mutamento della disperazione nel suo opposto. In realtà sta dicendo: «ora accetto la mia malattia come se fosse un brutto sogno da cui ci si può svegliare con sollievo».

Finora abbiamo fornito pochi elementi sulle leggi che regolano il movimento e lo sviluppo della metafora globale o maggiore del sogno. Probabilmente la descrizione completa degli aspetti evolutivi del processo onirico dovrà attendere ulteriori indagini, utilizzando le nuove tecniche di monitoraggio disponibili. A livello descrittivo il sogno si evolve da metafora introduttiva o di presentazione estendendo la propria portata in senso orizzontale attraverso l’elaborazione del processo motivazionale implicato, o a cui fa allusione, nell’introduzione, ed estendendo il proprio spazio in senso longitudinale introducendo processi motivazionali correlati, derivanti dall’esperienza passata. Lo sviluppo non è casuale ma organizzato, vengono

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inoltre compiuti dei tentativi di reintegrazione i quali determinano una risoluzione che in termini di intensità affettiva è, o non è, compatibile con i normali parametri temporali della fase di sonno attivo in cui si verifica. È possibile verificare tali idee in maniera sperimentale esaminando sistematicamente la relazione delle immagini ipnagogiche con le sequenze oniriche della stessa notte. L’immagine ipnagogica è solo il primo passo dell’attività onirica, cioè la traduzione dell’ultimo frammento ricordato dei dati cognitivi in immagine visiva? Manca forse di sviluppo successivo e arricchimento rimanendo come «forme fruste» del sogno poiché il periodo di attivazione della corteccia, necessario per produrre un sogno è di natura troppo breve durante la discesa iniziale verso il sonno profondo? Un confronto tra i due fenomeni mette in luce la mancanza nell’immagine ipnagogica degli aspetti evolutivi che caratterizza il sogno. Quest’ultimo al confronto tende ad essere più complesso, dinamico ed evocativo del passato e più incline ad andare oltre l’immediato contenuto precedente della coscienza. Nel sogno la traduzione iniziale è il punto di partenza di un processo esplorativo e attivo che si estende per tutto il periodo di sonno attivo. Un’ulteriore differenza riguarda l’effetto comportamentale. È raro che l’attivazione completa sia conseguenza di immagini ipnagogiche, ma non è raro che avvenga durante il sogno. È forse possibile paragonare l’immagine ipnagogica a una parola che, per quanto unica e multicolore, non può essere messa a confronto, in termini di ricchezza e potenziale espressivo, con la frase totalmente sviluppata.

La mistica del sogno. La mancata percezione di quanto sia significativo il ruolo espositivo della metafora nella coscienza del sogno ha avuto numerose conseguenze infelici per quanto riguarda la teoria e la pratica della psicoterapia. Dal momento che la natura enigmatica e misteriosa del sogno è stata equiparata a tentativi inconsci ma mirati di autoinganno, la psicologia istintivista ne ha avuto un forte sostegno. L’insieme delle complesse relazioni dell’individuo con il proprio ambiente sociale si riduce a conflitti

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intrapsichici, volti a dominare e controllare la propria biologia. Chein, a proposito di questa visione distorta dell’uomo, scrive: «Gli psicologi contemporanei, a mio parere, tendono ad essere piuttosto ossessionati dalla corporeità dell’uomo e a essere costantemente spinti lontano dall’essere umano e vicini al corpo umano». Osserva inoltre: «L’enfasi posta sulla corporeità come qualità essenziale dell’uomo è certamente evidente nell’ingenuo tentativo – se persistente – di ridurre i processi psicologici a processi fisici. Ancora una volta la filosofia vuole imporsi sulla teoria psicologica.

Tale punto di vista dell’uomo e del sogno come specchio della lotta tra il desiderio istintivo e i divieti sociali ha avuto un effetto fortemente limitante sulla potenziale applicazione terapeutica dell’interpretazione dei sogni. La relazione tra l’attività onirica e l’interpretazione dei sogni, è stata costretta in modo piuttosto inappropriato e inadeguato, all’interno di un modello medico fisso. Il prodotto finale assomigliava più che altro alla relazione tra un paziente, il suo battito cardiaco rivelato nell’elettrocardiogramma, e il medico che possiede la conoscenza specifica per interpretarlo. Nel caso del sogno, un fenomeno universale viene affrontato come se anch’esso fosse uno speciale tracciato, che solamente un esperto è in grado di decifrare. Pur ammettendo che gli approcci naturalistici, intuitivi o di senso comune possano in qualche modo essere fuoristrada, l’arte dell’interpretazione dei sogni è ormai troppo coperta da una corazza tecnologica, più adatta a mantenere il divario fra il significato apparente e quello effettivo, che a colmarlo. I problemi cruciali e di demarcazione prendono forma intorno alla questione di come venga considerata la qualità metaforica.

Nel sogno l’immagine visiva e il referente sono collegati dall’elemento della somiglianza: di qui la qualità metaforica. La concezione qui espressa è che questa traduzione ha lo stesso fine espressivo del discorso figurativo allo stato vigile. L’altra concezione, tradizionale, minimizza l’importanza della relazione metaforica tra referente e immagine e tratta l’immagine tenendo

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conto quasi esclusivamente della sua relazione associativa con sesso o aggressività. Come sottolinea Bertanlaffy17, gli elementi onirici, in senso freudiano, non sono veri e propri simboli ma piuttosto quello che definisce «associazioni libere». Ogni elemento, in virtù di certe caratteristiche formali, sta per qualcos’altro. Qui «sta per» trasmette un significato opposto a metafora, cioè quello di celare, nascondere, occultare. Il risultato di quest’ultima concezione è stata l’evoluzione di una mistica del sogno in cui l’interpretazione dei sogni diventa strumento specialistico in mano a pochi, con moltissime riserve, gran parte delle quali sottolineano i pericoli dell’interpretazione da parte di inesperti e dell’interpretazione profonda. Ne è risultato che tutti, tranne psicoanalisti, medici con formazione analitica e psicologi, abbandonano qualunque pretesa di utilizzare i sogni. In queste circostanze il sogno, come potenziale strumento per conoscere sé stessi, è poco diffuso Un aspetto di noi stessi che, in modo sottile e marcato, sottolinea il cambio le dinamiche evolutive e l’interazione creativa tra vecchi modelli e le risposte nuove, rimane uno strumento raffinato in mano a pochi anziché essere un medium sviluppato e largamente utilizzato per capire sé stessi.

Sommario

Il sogno è stato descritto come una comunicazione interiore data dalla rapida sovrapposizione di immagini che cambiano di continuo allo scopo di esprimere e analizzare le necessità della vigilanza dell’organismo umano dormiente. Le immagini visive si fondono producendo un effetto metaforico che possiede le caratteristiche specifiche della metafora e che facilita il processo di autoconfronto in atto. In queste condizioni, in cui l’effetto comportamentale implica l’alterazione di uno stato interiore, i processi di pensiero hanno le caratteristiche formali tipiche dei sogni. È pensiero in una

modalità sensoriale poiché è proprio l’effetto sensoriale ciò di cui ha bisogno.

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Abbiamo inoltre ipotizzato che le operazioni cognitive si verificano a servizio della vigilanza, termine che utilizziamo per denotare le possibili minacce o interferenze con i sistemi simbolici e di valore che legano l’organismo al proprio ambiente sociale. Le sensazioni suscitate all’inizio del sonno attivo hanno le caratteristiche dei processi motivazionali e in questo modo possono avere un effetto energizzante, organizzativo e di attivazione (arousal). Il sognatore è costretto ad esaminare questi elementi intrusivi, sia a livello dei legami che essi hanno col passato sia a livello delle implicazioni che avranno in futuro. L’artificio della metafora e l’assenza di rumori di sottofondo sottolineano la novità e la dimensionalità del problema. Ogni elemento onirico, così come il sogno nel suo complesso, possiede una qualità metaforica. Possiamo forse parlare di metafore all’interno di metafore.

Un grosso passo è stato compiuto verso l’inserimento dell’impotenza all’interno del sistema simbolico, quando la teoria psicoanalitica ha collegato la difficoltà di comprendere i sogni all’atto volontario di mascheramento. L’autoinganno diventa la tecnica più conveniente per soddisfare le proprie necessità. Gli impulsi derivati sono in qualche modo manipolati per non essere scoperti e al tempo stesso per acquistare espressione. In realtà le esigenze e i motivi evocati non esistono, lasciando così il sognatore senza alcuna alternativa se non quella di combattere le stesse vecchie battaglie in un’infinità di modi possibili. La teoria gli fornisce anche dei paraocchi interni che gli impediscono di identificare correttamente la relazione fra la propria difficoltà e il disordine in un ambiente sociale dove spesso le esigenze dell’individuo sono subordinate ai rapporti di forza. È il nuovo, le implicazioni del nuovo e la risoluzione del nuovo a preoccupare il sognatore ed è questa preoccupazione che rende la metafora il mezzo naturale che permette al nuovo di acquistare espressione. La modalità metaforica infatti costringe il sognatore a correre il rischio di affermare qualcosa di nuovo riguardo a sé stesso. Nella misura in cui una metafora colorisce una metafora

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non letta né compresa, il suo potere di incrementare l’autoconsapevolezza svanisce.

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