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SARA CARLA LAMPERTI Zelig di Woody Allen Analisi comparativa dei sottotitoli

Zelig
Analisi comparativa dei sottotitoli

SARA CARLA LAMPERTI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Aprile 2007

© 1983 Woody Allen, Zelig, Metro-Goldwin-Mayer Pictures Inc. © 2007 Sara Carla Lamperti per la tesi

ABSTRACT IN ITALIANO

In questo elaborato è stata effettuata l’analisi comparativa tra la versione in inglese e la versione in italiano di una parte dei sottotitoli di film del celebre regista americano Woody Allen. Il film in questione è Zelig (1983), un finto documentario di cui è protagonista il curioso Leonard Zelig, che sconvolge l’America degli anni ’20 e ’30 con la sua capacità di trasformarsi in chiunque gli stia accanto. Per eseguire il confronto tra prototesto (in inglese) e metatesto (in italiano) si è fatto ricorso ad un metodo di sintesi tra due differenti approcci: uno è il modello di Leuven-Zwart, che prima analizza i cambiamenti a prescindere dal contesto testuale specifico, per poi trarre conclusioni sul testo nell’insieme; l’altro è il modello cronotopico di Torop, che prima analizza il testo specifico e poi controlla quali sono i cambiamenti effettuati sulla poetica del testo stesso.

ENGLISH ABSTRACT
In this thesis a comparative analysis of a part of the English and the Italian subtitles of a film by the famous American director Woody Allen was carried out. The film is Zelig (1983), a mockumentary whose main character is Leonard Zelig. He is a curious man who has the ability to change his appearance to that of the people he is surrounded by and stirs American people with his story during the ‘20s and ‘30s. In order to make the comparison between the source and the target text (respectively, the English and the Italian version), a method that summarizes two different approaches was employed: one is the Leuven-Zwart model, which firstly analyses the changes leaving aside the specific textual context and then draws conclusions about the text as a whole; the other one is the chronotopic model by Torop, which firstly analyses the specific text and then controls the changes implemented on the text’s poetics.

ABSTRACT EN ESPAÑOL
En esta tesina llevamos a cabo el análisis comparativo entre la versión en inglés y la versión en italiano de una parte de los subtítulos de una película. La película en cuestión es Zelig (1983), del célebre director estadounidense Woody Allen. Se trata de un falso documental, cuyo protagonista es el curioso Leonard Zelig, un hombre que tiene la capacidad de convertirse en quienquiera se encuentre a su lado y que trastorna con su historia la sociedad estadounidense de los años 20 y 30. A fin de comparar el prototexto (en inglés) y el metatexto (en italiano), recurrimos a dos planteamientos distintos: uno es el modelo de Leuven-Zwart, que en primer lugar examina los cambios prescindiendo del contexto textual específico y luego saca conclusiones sobre el texto en su totalidad; el segundo es el modelo cronotópico de Torop, que en primer lugar estudia el texto específico y luego controla los cambios aportados en la poética del texto.

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Sommario

Abstract…………………………………………………………………………………………………………….. 3

Sommario …………………………………………………………………………………………………………. 4

Primo capitolo – Introduzione ……………………………………………………………………………… 5 1.1 Breve storia della nascita e dell’evoluzione del sottotitolaggio ……………………….. 5 1.1.1 L’avvento del DVD …………………………………………………………………………….. 6 1.2 I sottotitoli e la traduzione audiovisiva…………………………………………………………. 9 1.3 Tipi di sottotitoli ……………………………………………………………………………………….. 9 1.4 Il film …………………………………………………………………………………………………….. 11 1.4.1 Il DVD di Zelig ………………………………………………………………………………… 14 1.5 Il regista …………………………………………………………………………………………………. 15

Capitolo secondo – Metodologia del raffronto tra due testi ……………………………………. 18 2.1 Introduzione all’analisi comparativa ………………………………………………………….. 18 2.2 Il raffronto tra i due testi: un modello di sintesi …………………………………………… 22

Capitolo terzo – Analisi di una parte di Zelig ………………………………………………………. 24 3.1 Presentazione del materiale empirico …………………………………………………………. 24 3.2 Analisi comparativa vera e propria…………………………………………………………….. 24 3.3 Conclusioni…………………………………………………………………………………………….. 40

Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………. 42 Ringraziamenti ………………………………………………………………………………………………… 45

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Primo capitolo – Introduzione
1.1 Breve storia della nascita e dell’evoluzione del sottotitolaggio

Al momento della sua nascita, nel 1895, il cinema era muto. L’immagine, quindi, fu l’elemento preponderante delle prime produzioni cinematografiche. Alla fine degli anni ’20 però venne inventato il sonoro e la realtà cinematografica si ritrovò immersa nella dicotomia audiovisiva.

Tuttavia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro non avvenne in modo brusco: infatti, tra il 1919 e il 1930, il divenire argomentale dei film smise gradualmente di basarsi solo sull’immagine e iniziò a fare ricorso alla parola scritta per facilitare la comprensione. Tale materiale discorsivo era conosciuto con il nome di «intertitolo» (o «didascalia»), diretto precursore del sottotitolo. Si trattava di brevi sequenze di commenti descrittivo-esplicativi o di brevi dialoghi proiettati tra le scene di un film.

Il passaggio dagli intertitoli ai sottotitoli come li conosciamo oggi fu rapido: già dal 1917 gli intertitoli vennero spesso sovrapposti – e non più interposti – alle immagini, e nel 1927 sparirono definitivamente lasciando spazio al vero e proprio sottotitolo.

Sin dalla nascita, il processo di sottotitolaggio ha subìto molte trasformazioni, si è evoluto, è migliorato e si è affinato grazie all’ammodernamento delle tecniche coinvolte. Sull’evoluzione dei sottotitoli hanno avuto grande influenza anche i media: inizialmente ideati per il cinema, sono poi stati usati anche per la televisione. In breve tempo però ci si è resi conto che, a causa delle notevoli differenze tra i due mezzi, i sottotitoli preparati per il cinema non sono adatti per essere mandati in onda in televisione.

Nemmeno la ricezione del pubblico è la medesima: è stato infatti dimostrato che la velocità di lettura degli spettatori dipende anche dal mezzo che trasmette i sottotitoli (per leggere i sottotitoli al cinema si necessita il 30% di tempo in meno rispetto al tempo necessario per leggere gli stessi sottotitoli sul piccolo schermo).

È quindi chiaro che non esiste un sottotitolo universale, adatto a tutti i contesti: il sottotitolo deve essere costruito diversamente in base al media specifico per cui viene preparato. E infatti il sottotitolaggio di un prodotto audiovisivo per la televisione, quello

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per il cosiddetto home entertainment – che comprende le ormai obsolete videocassette e gli innovativi DVD – e quello per il cinema si avvalgono di strumenti e processi tecnici differenti.

1.1.1 L’avvento del DVD

Sin dalla nascita del sottotitolaggio, il modo in cui i sottotitoli sono stati creati e presentati sullo schermo ha subito molti cambiamenti, dettati soprattutto dagli sviluppi nella tecnologia. A metà degli anni ’80 l’uso dei computer ha rivoluzionato il processo di sottotitolaggio, ma è stata la comparsa del formato digitale a provocare la vera rivoluzione nella produzione dei sottotitoli – soprattutto per quanto riguarda quelli di tipo interlinguistico – in quanto ha portato con sé la possibilità di realizzare e inserire in un DVD sottotitoli in più lingue.

Un DVD (acronimo di Digital Versatile Disk), infatti, arriva a contenere fino a 17 gigabyte di informazioni e può proporre sottotitoli in un numero notevole di lingue diverse, fino ad un massimo di 32. Proprio la grande possibilità offerta da questa nuova tecnologia ha spinto le più grandi case di produzione hollywoodiane a fare richieste sempre crescenti all’industria del sottotitolaggio, che nello scorso decennio ha finito per rendere la propria produzione – sino ad allora realizzata a livello locale – sempre più centralizzata e globalizzata.

Anche la questione dei costi ha influenzato fortemente il modo in cui il lavoro viene svolto: la produzione centralizzata dei DVD in opposizione a quella realizzata a livello locale (cioè direttamente nei paesi in cui i DVD vengono venduti) è decisamente meno costosa per le case di produzione.

I principali centri di distribuzione per le case di produzione di Hollywood si trovano a Los Angeles e a Londra e proprio dalle maggiori agenzie di sottotitolaggio che sono situate in queste due città è giunta la risposta alle necessità del mercato. Le agenzie hanno tratto vantaggio dalla disponibilità di traduttori professionali che operavano in quelle due città e si sono specializzate nel sottotitolaggio interlinguistico.

Tre sono i problemi principali che queste agenzie hanno dovuto affrontare:

– trovare un modo per produrre i sottotitoli in tutte le lingue richieste, nel minor tempo possibile, con costi ridotti;

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  • –  trovare un modo per gestire e controllare i sottotitoli in modo centralizzato, senza bisogno di avere all’interno dell’agenzia tutti i traduttori delle lingue in cui i sottotitoli vengono preparati;
  • –  trovare tutti i sottotitolatori necessari per produrre i sottotitoli in tutte le lingue desiderate.La soluzione a tutti questi problemi è arrivata con i template, file di base che

vengono utilizzati come modello per creare altri documenti, ossia una sorta di prodotto preconfezionato pronto per essere personalizzato. Questi template non sono altro che file contenenti i sottotitoli in inglese di un dato prodotto audiovisivo: da tali file si parte per realizzare i sottotitoli in tutte le altre lingue. In questo modo il processo di sottotitolaggio viene suddiviso in due fasi: il timing (tramite il quale si stabiliscono l’inizio, la durata e l’articolazione dei sottotitoli) e la traduzione. Il timing è un aspetto tecnico del processo di sottotitolaggio e viene realizzato da parlanti madrelingua inglese, i quali producono il file di sottotitoli che verrà utilizzato durante la seconda fase, ossia quella della traduzione dei sottotitoli nelle altre lingue.

L’uso dei template file si è diffuso sempre più e ora essi vengono accompagnati anche da altri tipi di file, volti ad aiutare chi esegue la traduzione. Tra questi file, per esempio, vi è quello delle note traduttive, che offre delucidazioni sullo slang, sulle espressioni culturospecifiche o comunque su tutto ciò che un parlante inglese non madrelingua potrebbe ritenere poco chiaro. Lo scopo delle note è quello di aiutare i traduttori a superare qualsiasi problema di comprensione del prototesto e guidarli così alla realizzazione di un metatesto più accurato. Un altro tipo di file che accompagna i template può essere quello in cui il committente dà istruzioni specifiche sullo stile da mantenere, sul trattamento delle canzoni, e/o su elementi prettamente tecnici, come l’allineamento dei sottotitoli, il ricorso a certi caratteri, ecc.

L’uso di questi file base in inglese, che stabiliscono tempi fissi e un numero fisso di sottotitoli, ha dimostrato di essere necessario al fine di rispondere alle richieste sempre più esigenti. Ecco quali sono i vantaggi che comporta il ricorso ai template:

– gli errori dovuti alla mancata comprensione dell’audio originale – generalmente in inglese – si riducono al minimo perché, come già detto, i template file sono prodotti da parlanti madrelingua inglese. In parlanti non madrelingua potrebbero infatti incontrare serie difficoltà, soprattutto nel caso

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dei materiali cosiddetti “extra”, quali il commento audio, i making of e le scene eliminate. Ciò è dovuto al fatto che quasi sempre tali extra non sono accompagnati da un copione e sono di scarsa qualità dal punto di vista acustico;

  • –  i tempi di produzione si riducono;
  • –  i costi si riducono a loro volta perché i film – o comunque le opere audiovisive– vengono sottoposte al timing una sola volta, nella versione in inglese; anche il costo del lavoro subisce un abbassamento, in quanto i traduttori non devono più compiere mansioni di tipo tecnico, ma devono solo occuparsi della traduzione;
  • –  per le agenzie di sottotitolaggio che si occupano di sottotitoli multilingui si risolvono i problemi di reperimento di professionisti: non è più necessario reclutare sottotitolatori in tutte le lingue coinvolte in un progetto. Infatti, anche traduttori che non hanno alcuna esperienza o preparazione nel campo del sottotitolaggio possono cimentarsi in questo tipo di lavoro, visto che non si devono occupare degli aspetti tecnici ma solo della traduzione.Questo metodo di lavoro ha suscitato molti dubbi riguardo la qualità dei sottotitoli prodotti. Ovviamente nessuno può assicurare che durante tale processo non vengano commessi errori, soprattutto perché molto dipende dalla cura e dall’impegno con cui si creano i template. La qualità del prodotto finito dipende dall’esperienza e dalla professionalità dello staff coinvolto nel processo e questo vale per l’industria del sottotitolaggio per i DVD come per l’industria della traduzione in generale.Tuttavia va sottolineato che con questo metodo vengono tutelati i tre “ritmi” che caratterizzano un buon sottotitolaggio (Mary Carrol, 2004):
  • –  il ritmo visivo del film come definito dai tagli del regista;
  • –  il ritmo del discorso degli attori;
  • –  il ritmo di lettura del pubblico,dato che il materiale di partenza, e quindi i punti in cui gli attori aprono e chiudono la bocca per pronunciare i dialoghi, resta lo stesso.

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1.2 I sottotitoli e la traduzione audiovisiva

«Traduzione audiovisiva» è l’espressione oggi utilizzata per fare riferimento alla dimensione multisemiotica di tutte le opere cinematografiche e televisive i cui dialoghi subiscono una traduzione. Il testo audiovisivo rappresenta un tipo testuale a sé e nasce dalla combinazione di diverse componenti semiotiche. Nel testo audiovisivo la sfera visiva e quella sonora, che comprende non solo i dialoghi ma anche suoni e rumori (la cosiddetta «colonna sonora»), si combinano e danno vita ad un testo complesso e multicodice, la cui traduzione può essere problematica.

Il sottotitolaggio è uno dei numerosi metodi di trasferimento e adattamento linguistico in cui si esplicita la traduzione audiovisiva. In virtù del fatto che comporta il trasferimento dalla lingua orale a quella scritta, questo metodo si contrappone agli altri – tra cui vi sono anche il famoso doppiaggio e il meno noto voice-over – che sono essenzialmente orali. Per questo motivo, il sottotitolaggio risulta la forma di trasferimento e adattamento più complessa e più interessante.

A livello tecnico, i sottotitoli devono rispettare regole e restrizioni fisiche imprescindibili. Essi, infatti, sottostanno innanzitutto a restrizioni di natura formale o quantitativa che riguardano la loro disposizione sullo schermo, lo spazio e il tempo di esposizione che possono occupare su di esso, la lunghezza delle battute degli attori; tutto questo influenza, e a volte determina, le scelte traduttive.

1.3 Tipi di sottotitoli

Díaz Cintas (2001: 25) ed Elisa Perego (2005: 60), affermano che, in base a criteri di carattere linguistico, si distinguono due tipi di sottotitolaggio: quello intralinguistico e quello interlinguistico.

Il sottotitolaggio intralinguistico consiste nella trascrizione totale o parziale dei dialoghi nella stessa lingua della colonna sonora originale del film ed è rivolto a due tipi di destinatari, con esigenze differenti. Si tratta di soggetti sordi o che hanno problemi di udito a diversi livelli, nonché di coloro che intendono apprendere una lingua straniera. Per i primi, a cui generalmente sono rivolti sottotitoli intralinguistici ridotti, la lettura del sottotitolo è il mezzo principale o ausiliario per accedere alle informazioni veicolate dal prodotto audiovisivo. Per i secondi, invece, a cui di solito sono rivolti sottotitoli

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intralinguistici integrali, il sottotitolo è un supporto didattico che educa all’ascolto e favorisce al contempo la comprensione e l’apprendimento naturale e involontario della lingua oggetto di studio.

I sottotitoli interlinguistici, invece, sono sottotitoli in una lingua diversa da quella del prodotto originale e per questo coinvolgono e sintetizzano due lingue e due culture. Anche questo tipo di sottotitoli può favorire l’apprendimento della lingua straniera dei dialoghi in originale, in quanto essi contribuiscono alla comprensione del testo in lingua straniera.

Anche secondo Osimo (2000-2004), esistono fondamentalmente due tipi di sottotitolaggio, ma qui si fonda la distinzione su criteri differenti, ossia sull’utilità dei sottotitoli. In base a tali criteri esistono quindi i sottotitoli che fungono da ausilio fisico (per soggetti con deficit dell’udito di diverso grado) e quelli che fungono da ausilio linguistico (per chi non ha molta dimestichezza con la lingua parlata nel testo audiovisivo). Spesso tale distinzione viene assimilata a quella tra sottotitolaggio intralinguistico e interlinguistico, ma in realtà i due fenomeni non sempre coincidono. Questo perché si stanno diffondendo sempre di più i sottotitoli come ausilio nella traduzione intralinguistica: per coloro che conoscono la lingua che viene parlata nel testo audiovisivo, ma non che ancora non sono in grado di decifrare con facilità il medesimo testo nel parlato, il testo scritto aiuta per esempio a collegare la pronuncia alla forma grafica.

Sulle base di quanto appena detto, si possono quindi individuare ben quattro tipi di sottotitolaggio:

  • –  intralinguistico come ausilio fisico,
  • –  intralinguistico come ausilio linguistico,
  • –  interlinguistico come ausilio linguistico,
  • –  interlinguistico come ausilio fisico.Nei tipi di sottotitolaggio come ausilio linguistico, i tratti soprasegmentali – l’intonazione, la pronuncia, l’inflessione, il tono, il timbro e tutte le altre caratteristiche del parlato – del protesto arrivano al fruitore in modo diretto perché la colonna sonora originale resta intatta.

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Nei tipi di sottotitolaggio come ausilio fisico, invece, si hanno una traduzione verbale (interlinguistica o intralinguistica) e una traduzione intersemiotica in cui si cerca di sintetizzare verbalmente un messaggio che altrimenti andrebbe perso: sono i casi in cui il sottotitolo contiene espressioni come «musica di sottofondo», «rumore di passi», ecc.

1.4 Il film

Zelig è un divertente mockumentary – ossia una finto documentario – il cui protagonista è un personaggio curioso, il camaleontico Leonard Zelig (interpretato dallo stesso Woody Allen). Attraverso il documentario viene raccontata la storia di questo uomo che sorprende la società americana degli anni ’20 e ’30 del 1900 con la sua capacità di trasformarsi in qualunque persona gli stia accanto. Zelig, infatti, è un insicuro cronico che, pur di essere accettato e benvoluto da tutti, si trasforma in un camaleonte umano. A seconda della situazione in cui si trova e delle persone con cui interagisce, Leonard cambia il proprio comportamento, il proprio modo di parlare e persino l’aspetto fisico.

A causa della disfunzione che lo affligge, diventa presto famoso e tutti lo chiamano “l’uomo camaleonte” (the human chameleon). Tutto inizia con brevi trafiletti sui quotidiani, che poi si trasformano in articoli sempre più lunghi, fino a conquistare le prime pagine. Subentrano poi le radio, i cinegiornali, chi scrive canzoni su di lui, chi produce gadget a lui ispirati. Ma anche i medici contribuiscono fortemente alla sua celebrità: nel corso di varie conferenze stampa, in presenza di giornalisti e telecamere, essi formulano ipotesi, del tutto assurde e infondate, sulle cause della sua malattia. E

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così, di fronte all’opinione pubblica, lo trasformano in un vero e proprio caso clinico. Mentre questi “luminari della medicina” si ostinano ad attribuire il problema di Zelig a cause fisiologiche, la giovane psichiatra Eudora Fletcher – interpretata dall’attrice Mia Farrow – sostiene la natura psicologica della malattia e chiede di potersi occupare personalmente del caso. Tuttavia, la donna non viene ascoltata e i medici continuano a curare Zelig basandosi su teorie totalmente errate.

Quando la sorella alcolista di Leonard, Ruth, si rende conto che sfruttando la notorietà del fratello potrebbe guadagnare ingenti somme di denaro e a sua volta raggiungere la fama, non esita a sottrarlo alle cure – seppur inadeguate – del Manhattan Hospital. Leonard, ormai in balia della sorella e dell’amante di lei, diventa un fenomeno da baraccone: è costretto ad esibirsi in autentici spettacoli, e la gente accorre da ogni parte dell’America per assistere alle sue trasformazioni. Zelig è cercato, è ammirato e ciò può indurre a credere che abbia finalmente ottenuto ciò che voleva, ma in realtà è fondamentalmente solo e senza qualcuno che gli voglia bene.

Quando la storia d’amore tra Ruth e il suo amante si conclude tragicamente (questi, infatti, la uccide dopo averla scoperta con un altro uomo), Zelig rimane solo e a quel punto la dottoressa Fletcher, figura che si rivelerà fondamentale nella guarigione di Leonard, torna nuovamente a chiedere, e finalmente ottiene, di potersi occupare del caso.

La dottoressa Fletcher ritiene che la soluzione migliore per curare il suo paziente sia quella di allontanarlo dal caos della città, nonché dalle assillanti e controproducenti attenzioni di pubblico e media. Decide così di portarlo nella sua casa di campagna, dove potrà occuparsi di lui e curarlo lontano da occhi indiscreti; in una fase iniziale l’impresa di rivela molto complessa, a causa dell’identificazione di Zelig con la figura del medico.

Superate le difficoltà iniziali, la dottoressa Fletcher sottopone Leonard a sedute di ipnosi, grazie alle quali, finalmente, affiorano le reali cause della malattia. Durante le sedute, infatti, Zelig rivela il suo bisogno di essere apprezzato (I want to be liked) e le vessazioni subite sin dall’infanzia sia in ambito familiare sia in quanto appartenente a una minoranza (la famiglia di Leonard è ebrea).

Le cure della dottoressa si articolano in due fasi, quella incosciente – tramite l’ipnosi, appunto – e quella cosciente: al di fuori delle sedute di psichiatria, parla con lui, gli dedica il suo tempo e le sue attenzioni, gli dà l’affetto e la fiducia che lui non ha

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mai conosciuto. Grazie a tutto questo, poco alla volta Leonard inizia a riacquistare un’identità, non ancora equilibrata, ma almeno abbozzata.

Il tempo passa e le condizioni dell’ormai ex uomo camaleonte migliorano di giorno in giorno, mentre Eudora e Leonard costruiscono qualcosa che va ben oltre il rapporto medico-paziente. Quando i media vengono a conoscenza del sentimento che unisce i due protagonisti, tornano a intromettersi nella loro vita e a parlare di loro, riportandoli al centro di un’ossessiva attenzione. Tutto ciò causa una ricaduta di Zelig, la cui personalità è ancora molto fragile, e lo porta alla fuga.

Nessuno sa dove sia andato, ma Eudora non si dà per vinta e lo ritrova in Germania, nelle file del partito nazista, poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale. Finalmente riuniti, i due fuggono dall’Europa inseguiti dai nazisti e fortunatamente riescono a rientrare sani e salvi negli Stati Uniti. Lì vengono accolti da eroi e coronano il loro amore con il matrimonio; Zelig, ormai guarito, può finalmente cominciare a condurre una vita normale.

La dottoressa Fletcher è un personaggio chiave nella storia: è la persona che, più con il suo amore che con le cure mediche, riesce a salvare Zelig comprendendone il vero bisogno primario e fondamentale: il suo bisogno di conformismo, di mimetizzarsi nel gruppo, di non risaltare nella massa, di passare inosservato, anonimo, addirittura insignificante.

Il film di Allen è una riflessione sull’ipocrisia della società di massa, sulla difficoltà di integrazione del singolo nella società moderna, soprattutto se appartenente a una minoranza; ed è anche una critica all’abitudine di innalzare a “idolo” chiunque riesca a brillare anche solo per un momento, per poi rigettarlo nella polvere.

Dal punto di vista formale, il film alterna scene in bianco e nero e parti a colori: le prime sono quelle che fanno parte del finto documentario e che sono ambientate negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso; le seconde, invece, sono ambientate negli anni ’80 e sono quelle in cui alcuni personaggi (tra cui quello di Eudora Fletcher ormai anziana e alcuni giornalisti e scrittori realmente esistiti che interpretano se stessi) raccontano e commentano la vita di Leonard Zelig. Per creare questo mockumentary, Allen ha utilizzato autentiche sequenze filmate degli anni ’20 e ’30, utilizzate per i cinegiornali del tempo, e ha inserito se stesso e altri attori in tali sequenze tramite la tecnologia

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bluescreen1. Proprio grazie a questa tecnologia, nel film sono presenti scene in cui Woody Allen/Leonard Zelig interagisce con personaggi come Al Capone, Herbert Hoover e Adolf Hitler.

1.4.1 Il DVD di Zelig

Come anticipato nel paragrafo 1.1.1, l’avvento del DVD ha portato numerosi ed evidenti cambiamenti nel sottotitolaggio dei film destinati alla visione privata, “casalinga”: un DVD, infatti, può proporre sottotitoli in moltissime lingue diverse, fino ad un massimo di 32. Nel caso del DVD del film Zelig in mio possesso, prodotto nel 2002 dalla MGM Home Entertainment Inc., i sottotitoli disponibili sono in inglese, italiano, tedesco, francese, spagnolo e neerlandese. Per quanto riguarda l’inglese e il tedesco, i sottotitoli sono rivolti a coloro che hanno problemi di udito (for the hard of hearing) e sono quindi, rispettivamente, sottotitoli intralinguistici come ausilio fisico e sottotitoli interlinguistici come ausilio fisico. Nel caso delle altre quattro lingue, si tratta invece di sottotitoli interlinguistici come ausilio linguistico.

Nei capitoli a seguire, lo scopo è stato quello di mettere a confronto i sottotitoli in lingua inglese e quelli in italiano per valutare quali siano le differenze tra le due versioni – delle quali quella in inglese è il “modello” da cui si è partiti per realizzare i sottotitoli nelle altre lingue – e capire quali conseguenze abbia sulla qualità dei sottotitoli questo metodo, nato per soddisfare le necessità e le richieste di un mercato sempre più esigente e globalizzato.

La prima evidente differenza da segnalare tra le due versioni, prima di passare all’analisi dei cambiamenti traduttivi, consiste – come già accennato – nel pubblico a cui sono rivolte: infatti, mentre quelli in lingua inglese sono destinati ai sordi, quelli italiani sono indirizzati a un pubblico che non presenta deficit dell’udito. Abbiamo quindi sottotitoli intralinguistici come ausilio fisico versus sottotitoli interlinguistici come ausilio linguistico; ecco come si concretizza la differenza: per esempio, nel trattamento della colonna sonora. In inglese vengono riportati i titoli delle canzoni in

1 Tecnica che permette il montaggio di immagini su sfondi girati separatamente o creati da zero con la computer graphic; il soggetto viene ripreso su di uno sfondo tutto blu o verde; il forte contrasto che si crea permette al computer di scontornare l’immagine per inserirla su di uno sfondo girato separatamente.

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sottofondo, preceduti dal simbolo della nota musicale (♪); inoltre, viene riprodotto l’intero testo delle canzoni, se queste ne sono dotate. In italiano non avviene né una cosa, né l’altra. Un altro esempio concreto è quello delle scene di dialogo in cui non è possibile vedere chi sta parlando: in quei casi, in inglese viene inserito tra parentesi il nome della persona o delle persone che pronunciano la battuta, mentre in italiano ciò non accade. Dopo queste precisazioni, si può passare all’analisi comparativa vera e propria, quella dal punto di vista traduttivo.

1.5 Il regista

Woody Allen, al secolo Alan Stewart Königsberg, è nato a New York nel 1935. È un artista camaleontico: è regista, sceneggiatore e attore con oltre 40 film all’attivo, nonché comico, autore teatrale e clarinettista jazz.

Inizia a dedicarsi al cinema negli anni ’60 e tutti i suoi primi film sono commedie pure, caratterizzate da una comicità semplice e fisica, da battute fulminee e gag visive. Tra questi, Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run, 1969), Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (Everything You Always Wanted to Know About Sex But Were Afraid to Ask, 1972).

Il periodo di maggiori successi, sia di pubblico sia di critica, inizia nel 1977 con l’uscita nelle sale di Io e Annie (Annie Hall), che gli vale ben 4 Oscar e 1 Golden Globe. Quello è il punto di svolta, il passaggio a una comicità più sofisticata, che combina aspetti comici e drammatici; ma il film diviene anche un nuovo modello per il genere

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della commedia romantica. Nel 1978 realizza il suo primo film drammatico, Interiors, e nel 1979 Manhattan, il film dedicato alla sua amata New York.

Negli anni ’80 Allen comincia ad inserire nei suoi film riferimenti filosofici; ormai non si tratta più di semplici commedie, ma di pellicole influenzate dalla psicanalisi e con una componente riflessiva più marcata. La trama, prima aspetto non fondamentale, ora assume un ruolo centrale. Nel 1983 Allen scrive e dirige Zelig, una parodia tragicomica di un documentario degli anni ’20-’30. Tra gli altri grandi film di questo decennio vi sono Broadway Danny Rose (1984), La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985) e Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters, 1986)

Verso la metà degli anni ’90 le produzioni tornano ad assumere toni più leggeri, pur mantenendo uno stile ricercato e intelligente. Sono di questi anni pellicole come La dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995) e Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997).

Nel 2000 realizza il suo primo film con lo studio di produzione Dreamworks SKG, Criminali da strapazzo (Small Time Crooks). La pellicola si rivela un discreto successo in patria, ma i quattro film successivi, diretti tra il 2001 e il 2004, sono un flop al botteghino; in Europa, invece, vengono maggiormente apprezzati (è lo stesso Allen a dichiarare di sopravvivere solo grazie al mercato europeo).

Quando ormai in molti lo considerano un regista finito, Allen torna alla ribalta con il film presentato al Festival di Cannes del 2005, Match Point. È punto di svolta rispetto al passato: i toni della commedia vengono accantonati in favore di atmosfere da dramma/thriller; l’amata New York, che fino a quel momento è stata l’ambientazione di tutte le pellicole, viene sostituita dalla capitale britannica; la musica jazz, che da sempre è la colonna sonora prediletta, cede il posto alla musica lirica.

L’ultimo film di Woody Allen è Scoop (2006), una commedia nuovamente ambientata nella capitale britannica.

Sin dai tempi del cabaret, esperienza precedente all’inizio della carriera nell’ambito cinematografico, Woody Allen ha sempre puntato molto sulla propria figura e si è plasmato addosso un personaggio su misura per il suo stile, che con il trascorrere degli anni è divenuto l’immagine classica percepita dal pubblico: un uomo nevrotico, paranoico, impacciato e sfortunato con le donne. Un uomo che per molti aspetti è

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identico allo stesso Woody Allen, che in più di un’occasione ha dichiarato di essere stato in analisi per oltre 30 anni.

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Capitolo secondo – Metodologia del raffronto tra due testi 2.1 Introduzione all’analisi comparativa

Per realizzare l’analisi comparativa tra la versione inglese e la versione italiana dei sottotitoli mi baserò su un modello di sintesi – messo a punto da Osimo (2004) – tra i due approcci che si sono diffusi negli ultimi decenni e che sono appunto volti ad analizzare le differenze esistenti tra prototesto e metatesto. Entrambi gli approcci hanno dei vantaggi: ricorrendo al primo si possono prendere in esame anche quelle modifiche del testo che non hanno importanza strategica; facendo ricorso al secondo, invece, si stabilisce immediatamente quali sono gli elementi fondamentali, distinguendoli da quelli secondari.

Il primo dei due approcci è stato approntato dalla studiosa neerlandese Van Leuven-Zwart, la quale si è posta concretamente il problema dell’analisi comparativa degli elementi di due testi in generale, e di prototesto e metatesto in particolare. Il secondo approccio, invece, è quello cronotopico di Peeter Torop, studioso di fama mondiale che si occupa di semiotica applicata alla traduttologia.

Il modello Leuven-Zwart analizza i cambiamenti microstrutturali (quelli che riguardano piccole unità di testo, per esempio parole) a prescindere dal contesto testuale specifico e solo in seguito trae conclusioni sul testo nell’insieme. Scopo di tale approccio è descrivere i cambiamenti apportati a livello semantico, sintattico e pragmatico, che possono derivare da una scelta conscia o inconscia del traduttore. Conclusa l’analisi tramite l’applicazione del modello, entra in gioco un altro tipo di analisi, cioè quella degli effetti dei cambiamenti microstrutturali sulla macrostruttura. In un primo tempo, quindi, vengono prese in esame le caratteristiche dei cambiamenti del testo a priori e, in un secondo tempo, vengono individuate le conseguenze globali. Questo modello è definito top-down, in quanto procede dall’alto verso il basso e non prevede un’analisi preventiva della poetica del testo da cui vengono ricavate le categorie da analizzare.

In base ad esso, si distinguono tre diversi tipi di relazione2:

2 Nella terminologia di Leuven-Zwart, per relazione si intendono i rapporti di somiglianza o dissomiglianza tra due entità e, nel caso specifico, tra i transemi (= unità testuale comprensibile, che può contenere o no un predicato) di un testo e transemi del testo che vi viene raffrontato.

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relazione di contrasto, nel caso in cui un elemento del testo venga modificato al punto da diventare irriconoscibile. Il contrasto può concretizzarsi come omissione, aggiunta o cambiamento radicale di senso [un esempio: PT → Alice dormiva, MT → Alice leggeva];

relazione di modulazione (l’unica binaria fra le tre), nel caso in cui il cambiamento tra un elemento del prototesto e uno del metatesto segua la logica della dicotomia, lungo il continuum generalizzazione versus specificazione oppure lungo un altro continuum bipolare [un esempio: PT → Andrea guardava, MT → Andrea osservava {= guardare con attenzione} è una specificazione];

relazione di cambiamento non binario, nel caso in cui un elemento del prototesto e uno del metatesto vi sia una differenza non assimilabile ad alcuna dicotomia. In tal caso, quindi, il cambiamento riguarda un elemento di testo al quale non vi è una sola alternativa, bensì svariate. [un esempio: PT → ieri, MT → oggi. Si tratta di un cambiamento non binario perché le alternative possibili a «ieri» sull’asse paradigmatico sono molteplici, per esempio «domani», «un giorno», ecc.]

Questo tipo di cambiamento interessa anche le categorie – morfologia, grammatica e sintassi – che non possono caratterizzare una modulazione binaria: tempo verbale, numero grammaticale, modo verbale, persona grammaticale, forma verbale (attiva/passiva), aspetto verbale (perfettivo/imperfettivo), inversione dell’ordine di elementi dell’enunciato, esplicitazione/implicitazione (numero di elementi informativi), deissi/anafora (rimandi intra ed extratestuali), assonanza-allitterazione-rima.

Il modello cronotopico di Torop, al contrario del modello appena descritto, parte dall’analisi traduttologica del testo specifico per individuarne le caratteristiche salienti e poi passa al controllo delle alterazioni della poetica del testo introdotte dai cambiamenti. Viene definito modello bottom-up perché va dal basso verso l’alto e analizza i dettagli solo dopo averne individuata l’importanza sul sistema nel complesso. In questo secondo modello le categorie di cambiamento non sono assolute come nel caso del primo, ma specifiche, relative al contesto poetologico e culturologico del testo in questione e derivanti direttamente dalla sua analisi traduttologica. Quando si fa ricorso all’analisi

19

cronotopica, una delle principali difficoltà consiste nell’individuare un collegamento preciso tra gli elementi linguistici e le conseguenze strutturali; è perciò necessario che l’analisi traduttologica individui la dominante e le sottodominanti del testo specifico.

Le cinque categorie fondamentali sono:

  •  parole concettuali. Attraverso il loro significato esprimono direttamente dei concetti che sono importanti per il contenuto espressivo del testo. La manipolazione di queste parole si ripercuote sul contenuto del testo [un esempio: in un testo sulla pittura, sono parole concettuali «pennello», «tela», «acquerello», «tempera».].
  •  parole/espressioni funzionali. In sé per sé sono parole secondarie, ma vengono disseminate nel testo in modo strategico per creare ponti tra zone di testo fisicamente distanti e creare tra queste delle affinità che fungono da rimandi intratestuali. La manipolazione di tali espressioni si ripercuote sulla struttura del testo.
  •  campi espressivi. Si tratta della ripetizione di parole, modi di dire, frasi, forme grammaticali o sintattiche che caratterizzano lo stile e l’espressività di un testo. La manipolazione di queste espressioni si ripercuote sulla poetica del testo.
  •  deittici. Sono elementi dell’enunciazione (pronomi personali, aggettivi dimostrativi, avverbi di luogo e di tempo, articoli) che fanno riferimento in modo implicito alle coordinate spazio-temporali della stessa e la cui alterazione ha ripercussioni sulla psicologia individuale del personaggio o dell’autore.
  •  intertestualità e realia: i riferimenti intertestuali e i realia, ossia le parole che denotano cose materiali specifiche di una cultura, sono elementi che caratterizzano le relazioni di un testo e di una cultura con altre culture. Proprio per questo, la manipolazione di tali espressioni si ripercuote sulla relazione tra sistemi culturali, quindi sulla psicologia di gruppo di elementi della cultura del testo.Tutte queste categorie possono essere collocate lungo il continuum proprio versus altrui, dove per «proprio» si intende «proprio del prototesto, della cultura emittente», mentre per «altrui» si intende «proprio del metatesto, della cultura ricevente». Ed è la

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collocabilità di queste cinque categorie lungo tale asse a dimostrare che esse sono cronotopiche, ossia che fanno parte dell’analisi specifica del testo. Lo stesso non vale invece per le categorie del modello Leuven-Zwart.

La dicotomia generalizzazione/specificazione e quella proprio/altrui, sono complementari l’una all’altra. Mentre la seconda riguarda la relazione tra culture, la prima può riguardare tanto elementi propri quanto altrui. Secondo Osimo, nei casi in cui le modifiche di un testo possano essere collocate lungo un continuum, è utile usare entrambe le categorie sovrapponendole. Nell’opposizione tra proprio e altrui aggiunge anche una terza direzione, che è quella della standardizzazione, la quale consiste nel modificare un elemento nella direzione di una cultura terza – quindi né quella emittente, né quella ricevente – che sia generica, prevalente sulle specifiche culture in questione e che sia da entrambe considerata standard. Anche nella dicotomia generalizzazione versus specificazione Osimo considera una terza possibilità, ossia il trattamento neutro dell’elemento testuale, che quindi non viene reso né in maniera specificante, né generalizzante.

Per riassumere quanto detto finora sui cambiamenti modulativi, una modifica traduttiva può quindi essere considerata:

  • –  appropriante e generalizzante, o
  • –  appropriante e specificante, o
  • –  appropriante e neutra, o
  • –  riconoscente3 e generalizzante, o
  • –  riconoscente e specificante, o
  • –  riconoscente e neutra, o
  • –  standardizzante e generalizzante, o
  • –  standardizzante e specificante, o
  • –  standardizzante e neutra.3 Per «riconoscente» si intende una strategia traduttiva che implichi il riconoscimento dell’elemento altrui.

21

2.2 Il raffronto tra i due testi: un modello di sintesi

Ecco quali sono, in sintesi, gli elementi da considerare per affrontare l’analisi comparativa tra due testi:

  • –  i cambiamenti modulativi elencati nella parte conclusiva del paragrafo precedente,
  • –  le cinque categorie dell’analisi cronotopica e parametrica del modello di Torop.A questi, secondo Osimo (2004: 96) vanno aggiunte altre categorie:
  • –  il lessico generico, la sintassi e la versificazione, che non rientrano nell’analisi cronotopica ma che sono comunque soggette ad appropriazione/riconoscimento/standardizzazione e a specificazione/generalizzazione/resa neutra,
  • –  la categoria degli elementi che si modificano senza seguire né l’uno né l’altro continuum:- le modifiche di contrasto del modello Leuven-Zwart (omissioni, aggiunte e cambiamenti radicali di senso),- tutte le modifiche che non sono né binarie né ternarie, per esempio quelle grammaticali.

    Questo è il modello di sintesi approntato da Osimo, che può essere riassunto nella tabella della pagina seguente.

22

TABELLA RIASSUNTIVA DEI CAMBIAMENTI TRADUTTIVI

N

MODIFICA CULTURA PROPRIA / ALTRUI

MODIFICA NON CULTURO- SPECIFICA

RIGUARDANTE

DOWN TOP /
TOP DOWN

9

APPROPRIAZIONE
/ RICONOSCIMENTO
/ STANDARDIZZAZIONE

SPECIFICAZIONE
/ GENERALIZZAZIONE /
RESA NEUTRA

DEITTICI

ANALISI CRONOTOPICA

8

REALIA, INTERTESTI

7

PAROLE CONCETTUALI

6

CAMPI ESPRESSIVI

5

PAROLE FUNZIONALI

4

LESSICO GENERICO

PARAMETRI GENERICI

3

SINTASSI

2

VERSIFICAZIONE

1

LESSICO GENERICO:
OMISSIONI, AGGIUNTE, CAMBIAMENTI RADICALI DI SENSO, CAMBIAMENTI DI CATEGORIA GRAMMATICALE.

23

Capitolo terzo – Analisi di una parte di Zelig 3.1 Presentazione del materiale empirico

La parte di film i cui sottotitoli sono sottoposti ad analisi appartiene alle scene iniziali. Chi si è occupato dei sottotitoli del film (Yasmeen Khan per la versione in inglese e Adriana Tortoriello per quella italiana), ha scelto di mettere in corsivo quelli che riportano la voce fuori campo che parla mentre sullo schermo si susseguono le scene in bianco e nero, ambientate negli anni ’20 e ’30. Negli altri casi, a parlare sono vari personaggi (Susan Sontag, Irving Howe, Saul Bellow – personaggi reali che interpretano se stessi – e il cameriere Calvin Turner – interpretato dall’attore Marshall Coles, Sr.) tutti chiamati a commentare la bizzarra storia di Leonard Zelig nelle scene a colori, ambientate negli anni ‘80.

3.2 Analisi comparativa vera e propria

SOTTOTITOLI IN INGLESE

SOTTOTITOLI IN ITALIANO

He was the1 phenomenon of the ‘20s.

Era il fenomeno degli anni ’20.

When you think, at the time,2 he was as well-known as Lindbergh, it’s astonishing.

Se si pensa che all’epoca era famoso quanto Lindbergh, è sorprendente.

1 Nella versione inglese l’articolo the viene enfatizzato tramite l’uso del corsivo, mentre in italiano ciò non avviene. Ne consegue un cambiamento di ritmo: in inglese ci si sofferma brevemente sull’articolo, in italiano la lettura risulta più scorrevole e veloce. Si tratta quindi di un cambiamento generalizzante.

2 L’espressione at the time, racchiusa tra virgole, viene resa con l’espressione «all’epoca», la quale non viene accompagnata da segni di punteggiatura. Anche in questo secondo caso ci troviamo di fronte a un cambiamento di ritmo: la lettura della versione inglese prevede un rallentamento, dovuto proprio alla presenza di at the time tra le virgole; in italiano, invece, la lettura risulta nuovamente più fluida e scorrevole, senza pause.

24

His story reflected
the nature of our civilization,

La sua storia rifletteva
la natura della nostra civiltà,

the character of our times,

le caratteristiche3 dei nostri tempi,

yet it was also one man’s story.

eppure era anche la storia di un individuo.

All the themes of our culture were there.

Vi erano racchiusi4
tutti i temi della nostra cultura.

But when you look back on it, it was very strange.

Ma a ripensarci ora, era tutto molto strano.

Well,5 it is ironic to see
how quickly he has faded from memory,

È assurdo6 che sia scomparso dalla memoria tanto rapidamente,

considering7 what
an astounding record he made.

visto l’incredibile impatto che aveva avuto8.

3 La resa di character come caratteristiche è una modifica di lessico generico ed è specificante: character infatti significa «indole, carattere», che è un termine meno specifico rispetto alle caratteristiche.

4 There were viene reso come «vi erano racchiusi»: si tratta di una modifica specificante del lessico generico; ma abbiamo anche una modifica del registro, che in italiano è più formale e più preciso.

5 L’interiezione well, seguita dalla virgola e utilizzata in inglese per iniziare la frase, non è stata riportata in italiano. Ciò rappresenta un’omissione, ma anche un cambiamento di ritmo, il quale rende il sottotitolo italiano privo della pausa, che invece in inglese è determinata proprio da well seguito dalla virgola.

6 It is ironic viene reso come «è assurdo», quindi si ha un cambiamento radicale di senso.

7 Qui il cambiamento interessa la sintassi: in inglese la struttura della subordinata è verbale, in italiano nominale.

8 In italiano è stato cambiato il tempo del verbo rispetto all’inglese: si passa infatti dal simple past al trapassato prossimo.

25

He was, of course,9 very amusing, but at the same time touched a nerve in people,

Era senz’altro molto divertente, ma allo

stesso10 tempo riusciva11 a toccare dei tasti12

perhaps in a way in which13
they would prefer not to be touched.

che la gente preferiva14 non venissero toccati.

It certainly is a very bizarre story.

È decisamente una storia molto strana.

The year is 1928.

Corre l’anno 1928.15

America, enjoying a decade
of unequalled16 prosperity, has gone wild.

L’America, che sta attraversando
un decennio di prosperità, è impazzita.

9 Of course viene reso con la locuzione avverbiale «senz’altro», che ha un significato più attenuato, quindi abbiamo una generalizzazione. Inoltre, mentre of course è racchiuso tra virgole e implica una pausa, nella versione italiana la situazione è differente: «senz’altro» infatti si inserisce in modo fluido nella frase senza rallentarne la lettura. Si tratta di una modifica del ritmo, resa in modo neutro.

10 «Allo stesso tempo» è un calco di at the same time. L’espressione corretta in italiano è nello stesso tempo.

11 «Riusciva» è un’aggiunta, quindi una specificazione.

12 La resa di nerve come «tasti» è un cambiamento lessicale generalizzante poiché attenua il significato del prototesto: nerve, infatti, si riferisce più precisamente alla sensibilità delle persone.

13 In italiano non è stata tradotta una parte del sottotitolo in inglese (perhaps in a way in which, peraltro preceduta dalla virgola): si tratta di una omissione, probabilmente legata alla scelta di tradurre nerve con tasti, fatto che ha portato al cambiamento dell’intero enunciato.

14 In questo caso si ha il cambiamento del tempo verbale: dal condizionale passato in inglese all’indicativo imperfetto in italiano.

15 The year is diventa «corre l’anno»: la versione italiana è di registro più alto; ma ci troviamo anche di fronte a una modifica specificante di lessico.

26

The Jazz Age, it is called. The rhythms are syncopated

La chiamano l’età del jazz.17 Il ritmo è18 sincopato,

the morals19 are looser20, the liquor is cheaper – when you can get it.

la morale è rilassata21,
l’alcol22, quando lo si trova, costa meno.23

16 Unequalled, che significa «senza pari, ineguagliata», scompare nella versione italiana: si tratta di una omissione, quindi di una generalizzazione. Nella versione inglese, infatti, unequalled serve a sottolineare che la prosperità degli anni ’20 non si è più ripetuta, mentre in italiano questa idea scompare.

17 Qui la modifica interessa la sintassi: la versione italiana, in cui non sono presenti virgole, è invertita rispetto a quella in inglese. In italiano, inoltre, è presente una dislocazione a destra.

18 Mentre in inglese il sostantivo è al plurale, in italiano è al singolare; di conseguenza, anche il verbo passa dal plurale al singolare.

19 The morals diventa «la morale», ma in realtà significa «i costumi»: si tratta di una modifica generalizzante del lessico.

20 Looser diventa «rilassata», scelta che attenua decisamente il significato del prototesto (loose, infatti, significa «dissoluto»). Anche in questo caso il cambiamento riguarda il lessico ed è generalizzante.

21 La versione italiana risulta attenuata rispetto al prototesto: una traduzione più adeguata dell’espressione inglese sarebbe «i costumi sono dissoluti».

22 The liquor diventa «l’alcol»: si tratta di un cambiamento lessicale generalizzante perché in realtà liquor si riferisce a superalcolici come gin, vodka e rum.

23 The liquor is cheaper – when you can get it, diventa «l’alcol, quando lo si trova, costa meno»: si ha una modifica sintattica generalizzante. Infatti in italiano l’attenzione viene spostata rispetto alla versione inglese, nella quale si vuole sottolineare la difficoltà nel procurarsi gli alcolici, piuttosto che il fatto che essi costino meno.

27

It is a time of diverse heroes and madcap stunts,

È un periodo di grandi eroismi24 e di folli25 prodezze26

of speakeasies and flamboyant parties.

di nightclub27 e feste sfarzose.

One typical party28 occurs29 at the Long Island estate

Una di queste feste viene data alla villa di Long Island

of Mr and Mrs Henry Porter Sutton,

di Mr Henry Porter Sutton e signora,

socialites, patrons30 of the arts.

persone di mondo, protettori delle arti.

24 Diverse heroes viene reso come «grandi eroismi», invece di «eroi di vario genere»: si tratta di una modifica del lessico e di una resa neutra.

25 Madcap diventa «folli»: si ha un innalzamento del registro, in quanto folli è meno informale rispetto a madcap, che equivale a «scervellato».

26 Stunts viene reso come «prodezze»: stunt viene normalmente utilizzato in ambito colloquiale per fare riferimento a una bravata, a un’azione sconsiderata che può rivelarsi pericolosa; si tratta quindi di un termine diverso da «prodezza», che si riferisce prevalentemente a un atto di grande coraggio e valore (in taluni casi anche per riferirsi in modo antifrastico ad atti vili e prepotenti o in modo ironico a difficoltà solo apparenti). Abbiamo quindi una modifica del lessico e una modifica del registro, che risulta innalzato.

27 Speakeasies – realia che identifica gli spacci di alcolici tipici del proibizionismo statunitense degli anni ’20 – diventa «nightclub»: si tratta di una modifica generalizzante e standardizzante.

28 One typical party diventa «una di queste feste»: si tratta di una modifica del deittico, che determina una generalizzazione.

29 Occurs diventa «viene data»: c’è il passaggio dalla forma attiva dell’inglese a quella passiva dell’italiano.

30 Patrons, in questo contesto utilizzato per riferirsi a patroni/mecenati delle arti, viene reso come «protettori», termine più generico: si tratta di una modifica generalizzante a livello lessicale.

28

Politicians and poets rub elbows with the cream of high society.

Politici e poeti incontrano31 la crema dell’alta società,

Present at the party is Scott Fitzgerald,

Alla festa è presente Scott Fitzgerald,

who32 is the cast perspective on the ‘20s for all future generations.

i cui scritti avrebbero illuminato
le generazioni a venire sugli anni ’20.

He33 writes in his notebook34 about35 a curious36

little man named Leon Selwyn or Zelman,

Fitzgerald lascia un appunto su un omino di nome Leon Selwyn,37 o Zelman,

who seemed clearly to be an aristocrat,

che sembrava
decisamente un aristocratico

and extolled the very rich

e che incensava38 i ricchi

31 La resa di rub elbows with come «incontrare» è una generalizzazione, in quanto l’espressione in lingua inglese contiene non solo l’idea dell’incontro ma anche quella di entrare in confidenza con qualcuno.

32 La differenza fondamentale tra il sottotitolo in inglese e quello in italiano sta nella sintassi, la cui modifica determina anche gli altri cambiamenti presenti nell’enunciato.

33 Il deittico della versione inglese viene sostituito in italiano dal nome proprio (o meglio, il cognome) a cui esso si riferisce.

34 Qui abbiamo una omissione, quella della parola «taccuino» (= notebook).

35 (He) writes in his notebook about diventa «lascia un appunto su»: nella versione italiana si ha una generalizzazione rispetto a quella inglese, nella quale si specifica dove scrive Fitzgerald.

36 Curious, riferito a little man, viene omesso nel sottotitolo italiano.
37 In questo caso abbiamo un cambiamento di ritmo, dovuto all’aggiunta della virgola

nella versione italiana, non presente nel sottotitolo in inglese.

38 Il verbo utilizzato nella versione italiana ha una connotazione più negativa rispetto a quello usato in inglese: mentre extol significa semplicemente «lodare, elogiare», incensare significa «adulare, lodare in modo eccessivo e interessato».

29

as he chatted with socialites.

Mentre conversava con il bel mondo.

He spoke adoringly of Coolidge and the Republican party,

Parlava con adorazione di Coolidge e dei repubblicani,

all in an upper-class Boston accent.

in un raffinato39 accento bostoniano.

“An hour later,” writes Fitzgerald,

“Un’ora dopo”, scrive Fitzgerald,

“I was stunned to see the same man speaking with the kitchen help.”

“notai con sommo stupore40 che
lo stesso uomo parlava con lo sguattero”,

“Now41 he claimed to be a Democrat and his accent seemed to be coarse,

“Sosteneva di essere un democratico e il suo accento sembrava volgare,

as if he were one of the crowd”.

come fosse uno del popolino42.”

It is the first small notice taken of Leonard Zelig.

È la prima breve menzione di Leonard Zelig.

Florida, one year later.

Florida, un anno dopo.

An odd incident occurs

Durante un allenamento43 dei New York

39 Upper-class viene reso come «raffinato»: si tratta di modifica generalizzante di lessico.

40 I was stunned diventa «notai con sommo stupore»: si verifica un evidente innalzamento del registro, in quanto l’espressione in inglese significa «rimanere di stucco/sbalordito».

41 Nella versione italiana scompare il deittico now, presente invece in inglese.

42 The crowd viene reso come «popolino»: la versione italiana è specificante rispetto a quella inglese (the crowd infatti può essere utilizzato in senso spregiativo per riferirsi a persone comuni, non speciali, mentre popolino si riferisce in modo specifico allo strato della popolazione più arretrato culturalmente e socialmente) ed è anche appropriante.

43 Mentre in inglese viene semplicemente detto che accade un fatto strano sul campo dove si allenano gli Yankees, in italiano si spiega più precisamente che il fatto strano accade durante un allenamento della squadra: abbiamo quindi una modifica specificante.

30

at the New York Yankees training camp.

Yankees accade un fatto strano.44

Journalists, anxious to immortalise
the exploits of the great home-run hitters,

I giornalisti, ansiosi di immortalare le gesta45 dei grandi battitori46,

notice a strange new player waiting his turn at bat after Babe Ruth.

Notano uno strano nuovo giocatore,
il cui turno di battuta è dopo Babe Ruth47.

He is listed on the roster as Lou Zelig,

Sulla lista48 dei battitori figura come Lou Zelig,

but no one on the team has heard of him.

ma nessun altro49 giocatore ne ha mai sentito parlare.

44 Qui avviene un cambiamento a livello sintattico che coinvolge tutto il sottotitolo: in italiano, infatti, gli elementi che compongono la frase sono disposti in modo diverso rispetto alla versione in inglese.

45 In italiano si è scelto il termine «gesta», che normalmente non viene utilizzato in ambito sportivo ma per riferirsi a imprese eroiche, gloriose, memorabili (in taluni casi anche ironicamente). Invece non è stato possibile comprendere se in inglese expoits venga utilizzato in ambito sportivo, ma risulta comunque essere un termine meno specifico rispetto a «gesta». Può infatti essere riferito non solo ad azioni eroiche ma anche ad azioni coraggiose, curiose, degne di nota, divertenti. Abbiamo quindi una modifica del lessico, ma anche una modifica che innalza il registro della versione italiana rispetto a quello delle versione in inglese.

46 In italiano abbiamo una generalizzazione del lessico, in quanto gli home-run hitters sono più specificamente quei battitori che mettono a segno colpi che consentono loro di coprire tutte le basi e tornare alla casa base.

47 In questo caso si ha un cambiamento sintattico: mentre in inglese si hanno due frasi coordinate, in italiano sono legate da un vincolo di subordinazione, molto più tipico dello scritto che del parlato.

48 «Sulla lista» è un calco; in italiano l’espressione più corretta è «nell’elenco». 49 «Altro», che non è presente nella versione in inglese, è un’aggiunta.

31

Security guards are called,
and he is escorted50 from the premises51.

Vengono chiamati gli addetti alla sicurezza, che lo accompagnano fuori.52

It appears as a small item
In the next day’s newspaper.

Il giorno dopo la stampa53
pubblica un articoletto sull’accaduto.54

Chicago, Illinois, that55 same year.

Chicago, Illinois, stesso anno.

There is a private party

C’è una festa privata

50 Qui avviene un cambiamento nella forma del verbo: in inglese la forma è passiva, in italiano diventa attiva. È una modifica specificante, perché in inglese si dice genericamente che Zelig viene accompagnato fuori (resta sottinteso che siano gli addetti alla sicurezza ad accompagnarlo), mentre in italiano si specifica che ad accompagnarlo sono gli addetti alla sicurezza.

51 In italiano è stato omessa la traduzione di from the premises (che però è una informazione sottintesa).

52 In questo caso il cambiamento riguarda la sintassi: in inglese vi sono due frasi coordinate, mentre in italiano vi sono una principale e una relativa.

53 In italiano newspaper diventa «stampa» e abbiamo quindi una generalizzazione del lessico, dato che newspaper si riferisce ad un quotidiano in particolare. La scelta di utilizzare il termine stampa, e di utilizzarlo come soggetto, ha evidentemente influenzato altre scelte compiute per questo sottotitolo, per esempio quella di non utilizzare la traduzione del verbo to appear (ossia «apparire, comparire»), ma il verbo pubblicare.

54 Nel passaggio dalla versione inglese a quella italiana, la struttura sintattica è stata profondamente cambiata: per esempio, il soggetto nel sottotitolo in inglese è it (riferito a «l’accaduto», che resta sottinteso), mentre in italiano è la stampa; in inglese next day è riferito a newspaper, mentre in italiano rappresenta il complemento di tempo. Il registro del sottotitolo in generale risulta più alto nella versione italiana.

55 In inglese è presente il deittico, che in italiano viene invece omesso causando un innalzamento del registro («quello stesso anno», sarebbe stata una soluzione più colloquiale).

32

at a speakeasy on the south side.

in un locale56 del south side57.

People from the most respectable

walks of life58 dance and drink bathtub59 gin.

Anche60 i personaggi più rispettabili ballano e bevono gin illegale.

Present that evening
was Calvin Turner, a waiter.

Calvin Turner, un cameriere, era presente quella sera.61

A lotta62 customers,

Arrivarono63 molti clienti,

56 In questo caso il realia speakeasy diventa «locale» e ancora una volta si tratta di una modifica generalizzante e standardizzante.

57 Qui in realtà non è avvenuto alcun cambiamento, in quanto south side viene mantenuto così com’è anche in italiano: bisogna quindi precisare che in questo caso la scelta traduttiva è stata neutra e riconoscente, nel senso che ha inserito l’elemento appartenente alla cultura altrui senza modificarlo.

58 In inglese the most respectable è riferito a walks of life, che in italiano significa «classi sociali»; nella versione italiana, però, tale espressione viene omessa e the most respectable passa a essere riferito direttamente a personaggi.

59 Bathtub gin è un realia, un elemento tipico della cultura statunitense degli anni del proibizionismo: si tratta di gin fatto in casa, spesso preparato proprio nelle vasche da bagno, in cui ad alcol di scarsissima qualità venivano aggiunte bacche di ginepro. Ovviamente, nel periodo in questione, tale prodotto era illegale. Si tratta di una resa generalizzante e standardizzante.

60 Nella versione italiana c’è l’aggiunta di «anche».

61 Nel passaggio dall’inglese all’italiano la struttura sintattica è stata invertita. La struttura del sottotitolo inglese è utile a introdurre il personaggio di Calvin Turner, che nel sottotitolo successivo prende la parola; la scelta compiuta per la versione italiana, invece, è meno funzionale a tale scopo.

62 A lotta diventa «molti»: si tratta di un innalzamento di registro, perché in inglese il registro è decisamente colloquiale; una traduzione più adeguata, infatti, sarebbe stata «un sacco di».

33

a lotta gangsters came in.

molti gangster.

They good tippers
and take good care of us,

Davano grosse mance e ci trattavano bene,

and we tried to64 take care of our customers.

e noi trattavamo bene i nostri clienti.

But on this65 particular66 night, I looked over

and here’s67 a strange guy comin’ in.

Ma quella sera mi accorsi68
che era arrivato69 un tipo strano.70

I’d never seen him before71,

Non l’avevo mai visto,

63 Si ha una generalizzazione: il verbo utilizzato in inglese è «entrare», mentre quello usato in italiano è “arrivare”. Dal punto di vista del tempo verbale, nella versione italiana è stato utilizzato il verbo al passato remoto, ma qui ci troviamo in un dialogo, e nella maggior parte dei casi in italiano si usa il passato prossimo. Il remoto suona come un innalzamento di registro, verso il “letterario”.

64 L’idea del «tentare, provare», espressa nella versione inglese dalla forma verbale (we) tried to, non è stata riportata in italiano.

65 In questa occasione si ha una trasformazione della deissi: this diventa «quella».
66 Nella versione italiana, particular – che attribuisce maggior enfasi al deittico this –

non viene tradotto: si tratta di una omissione.

67 Il deittico here’s scompare nella versione italiana.

68 Il verbo look over, che significa «guardare», viene reso come «accorgersi»: abbiamo quindi una modifica specificante del lessico. Per quanto riguarda il tempo del verbo, vale la stessa considerazione fatta nella nota numero 63.

69 «Era arrivato» rappresenta un cambiamento del tempo verbale, ma anche la scelta di tradurre il verbo in maniera differente rispetto all’inglese, “riassumendo” il concetto espresso da here’s a strange guy comin’ in.

70 La costruzione della frase italiana non corrisponde a quella inglese: tale cambiamento della sintassi innalza il registro.

34

So I asked one of the others,

così chiesi72 a uno degli altri:

“John, you know this73 guy74? Ever seen him?”

“John, lo conosci quello?75 L’hai mai visto?”

So76 he looks.
“No, I ain’t never seen him before.”

Lui guarda.
“No, non l’ho mai visto prima.”

“I don’t know who he is, but I know he is a tough-looking hombre77.”

“Non so chi sia78, ma so
che ha proprio79 l’aria da duro.”

71 In italiano si è scelto di omettere «prima», traducente di before, ma in realtà tale scelta non ha grandi ripercussioni sul sottotitolo.

72 Qui il cambiamento interessa il tempo del verbo. Vale quanto detto nella nota numero 63.

73 In questo caso si ha nuovamente un cambiamento del deittico, che in inglese è this e in italiano «quello».

74 Nella versione italiana si omette la traduzione di guy.

75 Per la frase in italiano si è scelta la dislocazione a destra, probabilmente per mantenere il registro su un livello fortemente colloquiale, come accade anche nel sottotitolo in inglese.

76 So è un elemento molto utilizzato nel parlato e serve a ricollegarsi a quanto detto precedentemente, al fine di mantenere la coesione del testo. La versione italiana viene invece depurata da tale elemento e resa più schematica, quasi a celare il fatto che si tratti di parole pronunciate.

77 In inglese viene utilizzato il termine hombre, che appartiene alla lingua spagnola, mentre in italiano esso scompare.

78 In italiano si è scelto di ricorrere al congiuntivo, che è certamente la soluzione più corretta a livello grammaticale. Tuttavia bisogna considerare che, per mantenere lo stesso registro scelto in inglese – il cameriere è evidentemente poco colto e il suo modo di parlare è estremamente colloquiale – si sarebbe forse dovuta scegliere una soluzione meno corretta dal punto di vista grammaticale, ma più adeguata dal punto di vista traduttivo.

35

So80 I looked over81, and next thing,82 the guy had disappeared.

Lo83 guardo di nuovo84, e il tipo è scomparso85.

I don’t know where he went to, but about86

this87 time, the music usually gets started.88

Non so dove fosse andato89. Era l’ora
in cui di solito cominciava90 la musica.91

79 In italiano c’è l’aggiunta dell’avverbio proprio, che funge da rafforzativo.

80 Per quanto riguarda so, la considerazione è la stessa fatta nella nota numero 76.

81 La forma verbale (I) looked over viene nuovamente resa come «guardo»: abbiamo una modifica specificante del lessico e anche un cambiamento del tempo verbale, che è passato in inglese e presente in italiano.

82 And next thing, seguito dalla virgola, scompare nella versione italiana. Si tratta quindi di un’omissione, ma anche di un cambiamento di ritmo (più veloce e fluido in italiano).

83 Nella versione italiana c’è un’aggiunta, quindi una specificazione, rappresentata dal complemento oggetto lo.

84 In italiano abbiamo un’altra aggiunta, rappresentata da «di nuovo».

85 In questo caso si ha il cambiamento del tempo verbale: nella versione inglese viene usato il passato, in quella italiana il presente.

86 About, che trasmette l’idea di approssimazione, viene omesso nel sottotitolo in italiano.

87 Il deittico this non viene riportato nella versione italiana. This time, infatti, diventa «era l’ora».

88 Si ha un evidente cambiamento a livello sintattico: mentre il sottotitolo inglese è costituito da un unico enunciato, quello italiano è formato da due frasi distinte.

89 In questa occasione vale il discorso fatto nella nota numero 78: la scelta del tempo del verbo nella versione italiana è corretta dal punto di vista grammaticale, ma meno adeguata dal punto di vista traduttivo perché innalza il registro rispetto alla versione in inglese.

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And92 the band93 started playin’, and I looked,

L’orchestra attacca94, io li95 guardo96,

and here’s97 a coloured guy,
a coloured boy98 playin’ a trumpet.

e vedo un tipo di colore che suona la tromba.

Man, he was playin’ back.

Cavolo99, se suonava100.

90 Gets started diventa «cominciava»: abbiamo una modifica del tempo verbale, che in inglese è presente, mentre in italiano è passato.

91 Una considerazione sul sottotitolo nel complesso: nella versione italiana si ha un evidente innalzamento del registro.

92 And è un elemento che fa parte del parlato e che ha la stessa funzione del già citato so: collega il sottotitolo in questione a quello precedente, rendendo l’idea che si tratti di un discorso e creando coesione. Nella versione italiana and viene soppresso e il sottotitolo assume una struttura più schematica.

93 In questo caso il cambiamento è specificante e interessa il lessico: nella versione italiana viene usato il termine «orchestra», che in genere rimanda principalmente alla musica classica o da camera, mentre il gruppo di musicisti in questione suona musica jazz. Forse in questo contesto si sarebbe potuto mantenere il termine band o ricorrere a «complesso» o «gruppo».

94 Started playin’ viene reso come «attacca»: il tempo viene cambiato, passa infatti dal passato al presente. Dal punto di vista del registro, in italiano si ha un abbassamento.

95 «Li», complemento oggetto presente nella versione italiana, è un’aggiunta (rispetto all’inglese viene specificato cosa sta guardando il cameriere).

96 In questa occasione si verifica un altro cambiamento del tempo verbale: in inglese il verbo è al passato, in italiano al presente.

97 Il deittico here scompare nel passaggio dalla versione in inglese a quella in italiano, dove infatti abbiamo «vedo» a sostituirlo.

98 In italiano non è stata riportata la ripetizione che invece è presente nella versione in inglese (a coloured guy, a coloured boy).

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I looked at the guy
and said “My goodness.”

Lo101 guardo102 e faccio103: “Accidenti104!”

“He looks just like the gangster, but
the gangster was white and he is black.”

“È identico al gangster di prima105, ma il

gangster era bianco e questo qua106 è nero.”

So107 I don’t know what’s…108

Non capisco cosa sta succedendo.

99 L’interiezione man viene resa con l’interiezione italiana «cavolo»: si tratta di una resa appropriante e neutra (sono entrambe espressioni colloquiali ed esprimono sorpresa).

100 Non è stato riscontrato un uso del verbo play back in inglese come è stato effettivamente tradotto in italiano: lo definirei quindi di un cambiamento radicale di senso.

101 In italiano il complemento oggetto è rappresentato dal pronome personale di terza persona singolare, mentre in inglese da at the guy.

102 Qui si è verificato un cambiamento del tempo verbale, che è al passato nella versione in inglese e al presente in italiano.

103 Innanzitutto anche qui so verifica un cambiamento del tempo verbale, dal passato dell’inglese al presente dell’italiano; in secondo luogo bisogna segnalare che la versione italiana è di registro decisamente colloquiale e che rispecchia il registro mantenuto finora in inglese: di tratta di una resa appropriante («fare» utilizzato per introdurre il discorso diretto è tipico delle regioni settentrionali).

104 «My goodness» diventa «accidenti» – a cui cui peraltro viene aggiunto il punto esclamativo per una maggiore enfasi – che è un’espressione di registro più basso.

105 Il «di prima» della versione italiana è un’aggiunta.

106 In italiano si verifica un abbassamento del registro, che in questo caso risulta più colloquiale rispetto a quello del sottotitolo in inglese. Si tratta inoltre di una modifica appropriante (ancora una volta l’espressione è tipica delle regioni settentrionali) e specificante (identifica in modo più preciso la persona a cui si fa riferimento).

107 Vale anche questa volta – come nel caso della nota numero 80 – la considerazione fatta nella nota numero 76.

38

what’s happening.

108 Nella versione italiana non viene riportata l’indecisione del parlato, ben rappresentata in inglese dal primo what’s seguito dai tre puntini di sospensione.

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3.3 Conclusioni

I cambiamenti effettuati sulla versione italiana riguardano in particolar modo il registro, il lessico generico, a volte la sintassi e il ritmo e, soprattutto nella parte finale in cui parla il cameriere Calvin Turner, la deissi e i tempi verbali. Ma andiamo con ordine: il registro è tra gli aspetti che ha subito il numero maggiore di modifiche e nella stragrande maggioranza dei casi è stato innalzato.

Per quanto riguarda il lessico generico, anch’esso è stato spesso modicato, in gran parte dei casi in maniera generalizzante, in pochi casi specificante. Spesso sono proprio state le scelte lessicali a determinare l’innalzamento del registro.

Anche la sintassi è stata a volte modificata, soprattutto in modo da contribuire a sua volta all’innalzamento del registro.

Il ritmo è stato a volte cambiato nella versione italiana, soprattutto tramite l’eliminazione di alcune virgole, e in quelle occasioni è divenuto più fluente rispetto a quello della versione inglese. Un cambiamento che spesso ha influenzato non solo il ritmo, ma anche il registro, è stato quello di omettere in italiano tutti gli elementi tipici del parlato: interiezioni, ripetizioni, indecisioni. Ciò ha portato la versione italiana a essere spesso più schematica e poco rispondente alla colloquialità della versione inglese.

Per quanto riguarda la deissi, a volte essa è stata omessa, altre cambiata: per esempio, «questo/a» in inglese diventa «quello/a» in italiano e here’s scompare in favore di altre soluzioni. Tale strategia, spesso adottata in modo inconsapevole, è un fenomeno abbastanza diffuso in traduzione e comporta un lettore modello che non sia in grado di districarsi nelle relazioni implicate dalla presenza dei deittici.

Anche i tempi verbali hanno diffusamente subito cambiamenti nel passaggio all’italiano. In alcuni casi viene usato il presente storico per dare l’idea dell’immediatezza del discorso orale, immediatezza che spesso viene meno a causa dell’innalzamento del registro. In altri casi l’uso del passato al posto del presente serve come un deittico a estraniare il punto di vista del personaggio rispetto all’azione che sta rievocando.

La versione italiana è spesso caratterizzata da omissioni e, in qualche caso, da aggiunte. Questi due tipi di cambiamento mi sembrano interessanti perché, a mio parere, si trovano ai poli del continuum generalizzazione/specificazione: durante l’analisi comparativa ho infatti potuto notare che ogni qualvolta si è verificata una omissione, la

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versione italiana ha necessariamente subito una generalizzazione e che, al contrario, quando si è optato per un’aggiunta, il sottotitolo in italiano ha subito una specificazione. Una considerazione che riguarda in generale la traduzione in italiano è che le

modifiche hanno interessato un po’ tutti quei parametri che sono considerati generici (ossia quelli presi in esame dal modello Leuven-Zwart), mentre tra gli aspetti cronotopici modificati vi sono i deittici, i campi espressivi (cambiamenti di registro) e, solo in due o tre casi, i realia.

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Ringraziamenti

Sono molte le persone a cui voglio dire grazie.

Innanzitutto ai miei genitori e a mia sorella Floriana che, durante il lungo percorso da studentessa, mi hanno sempre incoraggiata e sostenuta.

Al mio amore, Achille, che ormai mi “sopporta” da 7 anni. Lui in particolare ha saputo capirmi e aiutarmi a superare i momenti difficili in cui sono spesso incorsa durante i tre anni di lezioni e di esami, ma anche durante la preparazione di questa tesi.

Alla mia nonna, Francesca, che con la sua stima mi aiuta ad avere più fiducia in me stessa.

Alla mia stupenda amica Silvia, che gioisce con me nei momenti belli e mi è accanto in quelli brutti, sempre pronta a consolarmi e incoraggiarmi.

Agli altri amici, quelli veri (loro sanno chi sono!), che per me sono fondamentali e che mi hanno capita quando – prima per lo studio, poi per la tesi – li ho dovuti trascurare un po’.

Alle mie compagne di corso, quelle che negli anni sono diventate vere amiche. Con loro ho condiviso gli sforzi, i sacrifici, le delusioni, ma anche i momenti belli, che il nostro percorso di studi ci ha riservato.

Al mio relatore, il professor Osimo, che mi ha aiutata nell’ideazione e nella stesura di questa tesi con tanta pazienza e disponibilità. Le sue idee, le sue correzioni e i suoi consigli sono stati preziosissimi.

L’ultimo ringraziamento va a me stessa, perché con la mia tenacia e il mio impegno sono finalmente riuscita a raggiungere la meta tanto agognata.

GRAZIE!

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GIOVANNA CARENZIO Segno, Interpretante, Oggetto: la triade di Peirce e la sua attualità per la Scienza della Traduzione Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Segno, Interpretante, Oggetto: la triade di Peirce e la sua attualità per la Scienza della Traduzione

GIOVANNA CARENZIO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Autunno 2006

© Giovanna Carenzio 2006

II

Abstract

This thesis is made up of three parts: after a general synthesis of the discipline, the candidate analyses the core of Peirce’s thought applied to Translation Studies.
The first chapter is a short overview of the different contributions given by some famous philosophers to Semiotics (spanning from Ancient Greece to the 19th century). The second chapter presents the life of Charles Sanders Peirce (1839- 1914), one of the founders of American Pragmatism. The third chapter is dedicated to his Theory of Signs, or “Peircean Triad” (sign-interpretant-object), that sheds light on the mechanisms of the different phases of the translation process. The importance of Peirce’s theory for Translation Studies is analysed through the words of major scholars in the field of semiotics.

L’architettura del contributo prevede una triplice articolazione nell’ottica della specificazione dell’oggetto – la semiotica come campo di studio che interessa la scienza della traduzione – a partire da una sintesi generale sulla disciplina per giungere al nucleo fondatore del pensiero di Peirce.

Nel primo capitolo viene presentato un breve panorama dei contributi che alcuni grandi filosofi hanno dato alla semiotica (in un periodo di tempo che va dal pensiero greco al 1800). Nel secondo capitolo si introduce la figura del grande pensatore Charles Sanders Peirce (1839-1914), figura di spicco del pragmatismo americano. Il terzo capitolo è dedicato alla teoria del segno, o «triade di Peirce» (segno-interpertante-oggetto), alla luce della quale vengono riscoperti e illuminati i meccanismi posti in essere nelle diverse fasi del processo traduttivo. Nelle osservazioni conclusive, infine, vengono analizzati alcuni interventi di studiosi che hanno colto e valorizzato l’attualità del contributo che Peirce ha consegnato alla scienza della traduzione.

L’architecture de la contribution prévoit une triple articulation dans l’optique de la spécification de l’objet – la sémiotique en tant que terrain d’étude relative à la science de la traduction – en partant d’une synthèse générale de cette discipline pour arriver au noyau fondateur de la pensée de Peirce.

Dans le premier chapitre, est présenté un bref panorama des contributions que quelques grands philosophes ont apportées à la sémiotique (durant une période allant de la pensée grecque jusqu’au 19ème siècle). Dans le second chapitre, est introduite la figure du grand penseur Charles Sanders Peirce (1839-1914), figure de proue du pragmatisme américain. Le troisième chapitre est dédié à la théorie du signe ou «triade de Peirce» (signe-interpretant-objet), à la lumière de laquelle sont redécouverts et illuminés les mécanismes mis en évidence dans les différentes phases du processus de traduction. Dans les observations conclusives, enfin, sont analysées quelques interventions de savants qui ont saisi et valorisé l’actualité de la contribution que Peirce a livrée à la science de la traduction.

III

La libertà gioca se stessa in quell’area di gioco che si chiama segno, in quanto il segno è avvenimento da interpretare. La libertà si gioca nell’interpretazione del segno. LUIGI GIUSSANI

IV

0. Premessa

  1. 0.1  Descrizione del materiale
  2. 0.2  Premessa metodologica
  1. Premesse storiche
  2. C.S. Peirce: cenni biografici
  3. La teoria del segno
  1. 3.1  Sign
  2. 3.2  Interpretant
  3. 3.3  Object

4. Riferimenti bibliografici 5. Bibliografia

……………………………….. 2 ……………………………….. 2 ……………………………….. 2

……………………………….. 3

……………………………….. 23

……………………………….. 28 ……………………………….. 29 ……………………………….. 34 ……………………………….. 39

……………………………….. 45 ……………………………….. 48

Sommario

1

0. Premessa

0.1 Descrizione del materiale

Nel primo capitolo faccio esplicito riferimento alle notazioni sviluppate da Omar Calabrese nel suo saggio Breve storia della semiotica (Milano, Feltrinelli, 2001).

Nel secondo capitolo ho selezionato alcuni brani dei Collected Papers of Charles Sanders Peirce (Edited by Charles Hartshorne and Paul Weiss, Harvard University Press, The Murray Printing Company, Cambridge, Massachusetts, 1931-1958).

0.2 Premessa metodologica

Le citazioni dai Collected Papers sono in inglese: la traduzione in italiano sarebbe una complicazione inutile per i lettori. Il testo originale permette infatti una interpretazione diretta del pensiero di Peirce senza manipolazioni e interferenze. Il commentario è di conseguenza discutibile con una maggiore trasparenza.

1. Premesse storiche

Seguendo il percorso proposto da Omar Calabrese, è interessante rintracciare i fatti semiotici presenti nel pensiero precedente i fondatori della semiotica (dai Presocratici a Hegel), per constatarne l’evoluzione e l’interpretazione verificatasi nel corso dei secoli. Le pagine che seguono si propongono come sintesi estrema delle prospettive più significative – dai Presocratici a Hegel – funzionando da cornice in chiave evolutiva.

I presocratici

Fin dagli inizi della sua storia, il pensiero greco ha avuto a che fare con il problema dei segni. Il segno è qualcosa che rinvia a qualcos’altro, o naturalmente o convenzionalmente: il termine è già individuabile in Omero e in Esiodo, in cui sta a indicare tanto il segno naturale, quanto il segno divino, quanto il segno convenzionale.

La filosofia greca antica si pone già dei problemi per larga parte semiotici quando tratta della questione filosofica dell’aderenza del linguaggio alla realtà. Negli Eleati, in particolare, troviamo per la prima volta la concezione della convenzionalità del segno linguistico. Secondo Parmenide, dal momento che l’Essere è inesprimibile e l’esperienza del reale è illusoria, il linguaggio consiste nell’applicare etichette alle cose illusorie. Dalla parte opposta si colloca invece Eraclito, che sembra essere il primo a proclamare la dottrina secondo cui il linguaggio esiste “per natura”. Solo i sensi ci mostrano il reale, il molteplice, e il linguaggio serve appunto a nominare tale molteplicità: sono le cose, gli oggetti, a determinarla.

Su questa opposizione fra convenzionalità e naturalità si basa tutto il dibattito sul linguaggio nel pensiero presocratico.

Ippocrate (V-IV a.C.)

Molto opportunamente, Calabrese include tra i filosofi “semiotici” Ippocrate, il fondatore della medicina, che è considerata la “scienza delle cose nascoste” ed è da lui affrontata con il metodo razionale: per capire i

3

segni occorreva ricorrere all’uso dei cinque sensi, più che a riti magici. I medici greci, infatti, costruiscono un sistema prognostico (come analizzare la malattia e le sue conseguenze) fondato non più sull’analogia ma sulla fenomenologia, sui dati della realtà come appare. In una visione fenomenologica si mantiene l’idea di una doppia struttura del mondo, l’apparenza e la sostanza che vi è nascosta, ma la capacità di giungere alla seconda dipende dal metodo causale con il quale si riconducono certi fenomeni ad altri che ne sono la matrice. I dati sensoriali della realtà vengono interpretati come segni, ovverosia come sintomi. Questo accade solo a patto che quei dati si ripetano, mostrino una certa regolarità. In questo senso il ragionamento necessario è ipotetico (abduttivo). I sintomi hanno un carattere di polisemia e polifunzionalità che li rende davvero simili a un linguaggio. Il medico è inteso come un interprete. La semiosi viene definita come un processo di significazione, in cui un segno rinvia a qualcos’altro, ma solo rispetto a un punto di vista e a qualcuno che lo esprime.

Platone (429-347 a.C.)

Tutta la teoria platonica può essere interpretata come una dottrina dei segni e dei loro referenti metafisici, le Idee. I segni sono strumenti per rappresentare delle cose che, a loro volta, non sono altro che ombre agli occhi dell’uomo prigioniero della caverna. Il rapporto fra nomi e Idee è mediato, i nomi riflettendo solo alcune particolarità delle Idee. Se così non fosse, sottolinea Platone, nome e Idea coinciderebbero. La concezione platonica del processo segnico coinvolge tre termini:

OMBRA (REFERENZA)

NOME (SEGNO) IDEA (REFERENTE METAFISICO)
Platone confuta la tesi della convenzionalità assoluta, intesa come completa

arbitrarietà del segno linguistico: se tutte le azioni hanno una realtà

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oggettiva e stabile, e il dare nomi è un’azione, allora anche il denominare non dipende dall’uomo soltanto ma dal modo in cui la natura vuole che le cose siano denominate, attraverso uno strumento, il segno linguistico.
Ma Platone confuta, nel medesimo tempo, anche la tesi della naturalità, asserendo che, se fra nome e cosa vi è rapporto di naturalità, l’adeguazione del nome alla cosa avviene pur sempre in virtù di una legge, cioè di un accordo. Questa risiede nella mimesi, nell’atto imitativo che risiede nell’attività segnica. Se le cose si rispecchiassero nei nomi, non vi sarebbe imitazione, ma copia. Pertanto, i nomi hanno sempre un valore segnico, più o meno grande a seconda del grado di iconicità ricercato o raggiunto.

Aristotele (384-322 a.C.)

Il pensiero aristotelico segna una svolta decisiva per la storia della semiotica. Aristotele è il vero fondatore della logica. Nel De interpretatione definisce il segno nel senso moderno del termine, cioè rinvio a qualcos’altro.

Le cose che sono, che si verificano nella voce, sono simboli delle affezioni dell’anima, e gli scritti sono simboli delle cose che sono nella voce; e come i segni grafici non sono gli stessi per tutti, neppure le singole forme foniche sono le stesse; alcune di queste ultime sono tuttavia fondamentalmente segni, le stesse per tutti sono le affezioni dell’anima, e le cose, di cui queste affezioni sono immagini similari, altresì sono le stesse per tutti. (Aristotele: 16a, 2-8)

Il linguaggio è lo strumento per conoscere la realtà, psichica o materiale. Anche Aristotele disegna implicitamente un triangolo semiotico, con le seguenti posizioni:

AFFETTI E CONCETTI

CONVENZIONE MOTIVAZIONE

SUONI COSE

5

Il tipo di funzionamento del linguaggio dipende dal fatto che le affezioni dell’anima e le cose da esse rappresentate sono uguali per tutti i parlanti, anche se i segni invece non lo sono. I segni sono le cose che implicano altre cose, a priori o a posteriori.

Gli Stoici (IV-III a.C.)

Gli stoici danno per primi una chiara definizione del segno, che per essi è «ciò che è indicativo di una cosa oscura», dove per «oscuro» intendono ciò che non è presente nel momento della comunicazione. Ne consegue che il segno si definisce come un renvoi a una cosa che non è necessariamente attuale, e che non è neppure necessariamente esistente. Per la prima volta si parla di segno non in termini puramente linguistici. Ne vengono indicate due specie: il segno rammemorativo e il segno indicativo. Il triangolo semiotico da essi proposto ha come vertici il significante, il significato (o “detto”, che può essere incompleto – nome – o completo – giudizio) e l’oggetto reale di riferimento.

Gli Scettici (IV-II a.C.)

Sesto Empirico (filosofo e medico) polemizza ampiamente contro la dottrina del segno degli Stoici. Il segno e la cosa significata stanno in un rapporto di relazione, e dunque devono essere appresi insieme, ma se il segno indicativo si riferisce a ciò che è non-evidente-per-natura, questo è assurdo. Sesto nega il valore conoscitivo della parola.

Per natura essa non esprime nessun significato per il semplice fatto che non tutti sono in grado di capire quello che tutti gli altri dicono. […] Se invece la parola esprime un significato per convenzione, è ovvio che soltanto quelli che precedentemente abbiano appreso gli oggetti ai quali sono convenzionalmente applicate le espressioni verbali apprenderanno anche queste ultime. (Sesto Empirico: I, 36- 38)

Epicuro (341-270 a.C.)

Epicuro sostiene che unica fonte della conoscenza è la sensazione, che rispecchia fedelmente la realtà, e che provoca l’affezione, ovvero una

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reazione del soggetto rispetto alle cose reali. Una ripetizione stabile delle sensazioni fa nascere in noi l’anticipazione, la quale è vera poiché viene confermata dall’esperienza.
Egli propende per l’antica ipotesi naturalista sull’origine del linguaggio, ma non può eliminare neppure la nozione di accordo sociale:

Neppure l’origine del linguaggio derivò da convenzione, ma gli uomini stessi naturalmente, a seconda delle singole stirpi, provando proprie affezioni e ricevendo speciali percezioni, emettevano l’aria in diverso modo conformata per l’impulso delle singole affezioni e percezioni, e a tal differenza contribuiva quella diversità delle stirpi ch’è prodotta dai vari luoghi abitati da esse. Più tardi, poi, di comune accordo, le singole genti determinarono per convenzione le espressioni proprie, per potersi fare intendere con minore ambiguità e più concisamente. E quando alcuno che n’era esperto introduceva la nozione di cose non note, dava loro determinati nomi. (Epicuro: IX, 75-76)

Agostino (354-430)

Con Agostino si fa un passo avanti decisivo verso la modernità: per la prima vota si mettono insieme la teoria del segno e quella del linguaggio verbale, in un processo di definitiva unificazione.
Nel De Trinitate Agostino tratta del verbum, distinguendo tre livelli di analisi: la sostanza vocale dimostra che il verbum è segno di qualcos’altro; la sua sostanza razionale permette di definirlo ed “estrarlo dalla memoria”; infine, il verbum permette di giungere alla verità grazie alla sua funzione mediatrice. Il secondo livello di analisi, quello del senso, mostra la sua origine stoica: il verbum non è la cosa significata, perché è assimilato allo stesso pensiero, che si realizza nel discorso (locutio); è un aspetto interiore connaturato all’uomo, e non ha nulla a che vedere con le singole lingue. Lo stesso aspetto fonico (vox verbi) altrimenti “si consumerebbe”.

Il pensiero formato dalle cose che conosciamo è una parola che non è né greca, né latina, né di alcuna altra lingua. Ma, come è necessario trasmetterla alla conoscenza di coloro ai quali parliamo, si adotta un segno attraverso il quale essa è significata. La parola che si intende dal di

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fuori è un segno della parola che dà la luce interiore, e il nome di verbum è più adeguato al secondo; perciò, ciò che è pronunciato dalla bocca è il suono della parola (vox verbi) […], il nostro verbum diviene un suono articolato per impronta, non consumandosi nell’essere mutato in suono. (Agostino: 1932, 15, §§ 10-11)

Il segno è definito come:

una cosa che, più che l’impressione che essa produce sui sensi, fa venire di per sé alla mente qualche altra cosa. (Agostino: 2000, I, 1)

Agostino suddivide i segni in due grandi categorie: i segni naturali e i segni convenzionali.

Fra i segni, alcuni sono naturali, altri convenzionali. I segni naturali sono quelli che, senza intenzione né desiderio di significare, fanno conoscere di per sé qualcos’altro di più di ciò che essi sono. È così che il fumo significa il fuoco, perché lo fa senza volere, ma noi sappiamo per esperienza, osservando e notando le cose, che, anche se il fumo apparisse da solo, vi sarebbe sotto del fuoco. La traccia di un animale che passa appartiene pure a questo genere di segni. Quanto all’espressione di un uomo irritato o triste, essa traduce il sentimento del suo animo, per quanto egli non abbia affatto volontà di esprimere la sua irritazione o la sua gioia. Lo stesso accade per ogni altro moto dell’animo. […] I segni convenzionali sono quelli che tutti gli esseri viventi fanno gli uni agli altri per mostrare reciprocamente, per quanto possono, i moti del loro animo, cioè tutto ciò che sentono e tutto ciò che pensano. La nostra sola ragione di significare, cioè di produrre segni, è quella di rendere chiari e di trasferire nello spirito altrui ciò che porta nel proprio spirito chi produce il segno. (Agostino: 2000, II, 1, 2-3, neretto aggiunto).

Il segno ha una ragion d’essere puramente funzionale: quella di significare un oggetto. Però non lo significa come tale, e neppure significa un nozione in sé, ma l’idea che noi ci facciamo dell’oggetto.

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Anselmo (1033-1109)

Al principio dell’XI secolo hanno inizio la vera e propria logica e la semantica medievali. Anselmo d’Aosta elabora una dottrina della verità finalizzata alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. Nel De Veritate sviluppa la dicotomia fra segno e referente, distinguendo fra verità della significazione e verità della proposizione. Le cose determinano la verità della proposizione, ma non costituiscono la sua verità ontologica.

Tutte le parole con l’aiuto delle quali noi diciamo mentalmente le cose, cioè di cui ci serviamo per pensarle, sono rassomiglianze o immagini delle cose di cui esse sono parole; ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. (Anselmo d’Aosta: 29-31)

Ruggero Bacone (1214-1292)

Nel De signis e nel Compendium studii tehologiæ, Bacone sostiene che la significazione può essere intesa in due modi: come rapporto fra il segno e l’interprete del segno, e fra il segno e l’oggetto di riferimento. Dal primo punto di vista si deve dedurre che la stabilità del significato dei segni è temporanea. Il linguaggio è un sistema aperto all’infinito, poiché chiunque ha la possibilità di creare termini nuovi per imposizione. In pratica, questa apertura è limitata da schemi e strutture che devono essere rispettati nel lavoro di imposizione linguistica. Resta, in ogni caso, il principio che la significazione dipende più che altro dai parlanti, e non da caratteri intrinseci ai segni.

In qualche caso, tuttavia, i segni “motivati” esistono: i segni naturali (inferenze o somiglianze) e i segni dati (volontari o involontari).

Tommaso d’Aquino (1225-1274)

Il massimo esponente dell’aristotelismo cristiano è Tommaso d’Aquino.
Il problema del segno è interpretato con riferimento alla lettura delle Scritture. I segni delle Scritture non sono equivoci, cioè da interpretare in senso allegorico, ma rigorosamente univoci, referenziali. I segni che vi sono presenti rinviano ad altri segni, gli eventi, che hanno sempre Dio

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come punto di riferimento. Un segno particolare per Tommaso è quello del sacramento, o segno efficace, che testimonia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare.
I segni sono per lui legati convenzionalmente ai concetti, e questi sono invece correlati per similitudine alle cose.

William of Ockham (1290-1349)

William of Ockham cambia sostanzialmente i termini del dibattito logico intorno al segno. Il segno è per lui

Tutto ciò che, una volta appreso, fa venire a conoscere qualche altra cosa, sebbene non dia una conoscenza primaria di questa cosa ma una conoscenza attuale e susseguente a una conoscenza abituale della stessa cosa. (William of Ockham: I, 4)

Ockham distingue fra segno naturale, che è il concetto e che è prodotto dalle cose stesse, e segno convenzionale, istituito ad arbitrio a significare più cose, cioè la parola. Il significato di un termine parlato o scritto può essere mutato liberamente, mentre il termine mentale non muta il suo significato ad arbitrio di nessuno. Sono tre i sistemi segnici da lui riconosciuti: un tipo mentale (rapporto tra intelletto e realtà), e due tipi convenzionali che si identificano nel linguaggio verbale e scritto. Egli fa una distinzione tra le parole (nomina relativa) e i termini (nomina absoluta): le parole possono avere significati anche connotativi, mentre i termini sono specifici e hanno valore assoluto. (Osimo 2002: 20)

Umanesimo e Rinascimento in Italia

Con l’Umanesimo si afferma una concezione radicalmente diversa della conoscenza, fondata sulla centralità dell’individuo-uomo rispetto all’universo e sulla sua capacità di sviluppare nuovi sistemi del sapere. Questa vera e propria “rivoluzione” avviene con la riscoperta dei classici antichi e col conseguente abbandono dell’aristotelismo, in favore delle tendenze platoniche e neoplatoniche.

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Il mondo è una specie di testo prodotto da una entità superiore con una sua logica interna. Ogni parte, ogni oggetto del mondo è dunque correlato al sistema e ne costituisce un segno, identificabile dall’intelletto umano ancorché esso sia segreto. Sono fondamentalmente due gli autori che meglio definiscono tale “semiotica del mondo naturale”: Nicola Cusano e Pico della Mirandola. Nicola Cusano elabora l’idea della “dotta ignoranza”, ovvero della debolezza intellettuale umana dinanzi alla perfezione del mondo, che può tradursi in sapienza se si pone con atteggiamento umile al lavoro di decrittazione dei segni del sistema-mondo.

Pico della Mirandola sviluppa il concetto di magia naturalis, che corrisponde alla visione di un mondo creato come una vera e propria “semiosfera” nel quale ciascun elemento rinvia a qualche misterioso significato.

L’idea di un sistema-mondo produce, come si è detto, una concezione parimenti sistemica della conoscenza attraverso “segni”, che dal primo derivano e che vengono raccolti e memorizzati attraverso un metodo mnemotecnico. Ne fanno fede gli innumerevoli trattati riguardanti singole arti, che assumono la fisionomia di codici specifici o di codificazione del comportamento, di trattati sulle arti e sulla pittura, arti che si riconoscono parte di un sistema di reciproche corrispondenze.

L’empirismo inglese
Francis Bacon (1561-1626)
Le motivazioni delle analisi semiotiche dell’empirismo (sviluppate poi in quasi tutto il Seicento inglese) nascono da un rinnovato interesse per la scienza in tutte le sue branche. I filosofi-scienziati sviluppano una riflessione sul modo di funzionamento – sulla base dell’osservazione – del fatto linguistico. Bacon differenzia i segni puramente arbitrari, come le parole, dai segni analogici:

Ora, i sistemi di notazione che, senza il soccorso o l’intromissione delle parole, riescono a significare le cose, sono di due tipi, l’uno dei quali è fondato sull’analogia, l’altro è puramente arbitrario. Del primo tipo sono i geroglifici e i gesti; del secondo tipo sono i caratteri reali […]. Bisogna

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che i geroglifici e i gesti abbiano sempre qualche somiglianza con la cosa che vogliono rappresentare, e siano così dei simboli, e per questa ragione noi li abbiamo chiamati notazioni per analogia. Invece i caratteri reali non hanno nulla di simbolico e sono del tutto irrappresentativi, come le lettere dell’alfabeto; e sono stati costituiti ad arbitrio e sono entrati poi nell’uso per abitudine e quasi per un tacito accordo. (Bacon: IV, 286)

La tradizionale querelle tra natura e convenzione si concretizza a proposito di due questioni: l’origine del linguaggio e il rapporto fra nomi e cose. Bacon conferma la sua posizione di convenzionalista, dimostrandosi scettico a proposito della ricostruzione della lingua originaria, e fermandosi quindi alle lingue come sono. La congruità dei segni alle cose dipende soltanto dalla loro funzione di strumento atto a distinguere le cose.

Bacon diventa il propugnatore di una metodologia della scienza fondata sul ragionamento induttivo, prevedendo anche le forme di errore e individuandone le cause in specifiche tipologie di attitudini soggettive degli individui e dei gruppi etnici e sociali.

Thomas Hobbes (1588-1679)

Nella dottrina materialista di Hobbes il problema del segno linguistico è assai importante, a cominciare dalla sua funzione:

La più nobile e utile invenzione fu quella del linguaggio, consistente in nomi e appellativi e nella loro connessione, onde gli uomini esprimono i loro pensieri, li rievocano quando sono passati, e se li scambiano tra loro per mutua utilità e conversazione. Senza di esso tra gli uomini non ci sarebbe stato governo, società, contratto, pace più di quanto non ve ne sia tra i leoni, gli orsi e i lupi. L’uso generale del linguaggio è di trasferire il nostro discorso in discorso verbale, o la serie dei pensieri in una serie di parole; e questo per due comodità. La prima è di notare le conseguenze dei nostri pensieri, i quali, potendo sfuggire dalla memoria e costringerci a un nuovo lavoro, possono di nuovo essere richiamati alla mente per mezzo delle parole che li esprimono; sicché il primo uso dei nomi è quelli di designazioni o note mnemoniche. L’altra comodità è che molti usano le stesse parole per comunicarsi l’un l’altro, con la loro connessione e col loro ordinamento, quel che essi concepiscono o pensano su ciascuna materia, o

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anche il desiderio, o il timore, o qualunque altro sentimento. Per tale uso le parole sono chiamate signa. (Hobbes: 22-24)

Per quanto riguarda i segni, Hobbes li considera inferenze che traiamo a partire dai dati dell’esperienza. Un segno, infatti, è qualcosa che deve essere osservato anticipare o seguire la cosa significata (conseguente dall’antecedente, antecedente dal conseguente). La tipologia da lui ipotizzata prevede i segni naturali (indipendenti dalla volontà umana) e i segni arbitrari (stabiliti dagli uomini a loro piacere e per esplicito o tacito accordo).

John Locke (1632-1704)

A conclusione del suo Essay Concerning Human Understanding, Locke ci lascia una definizione della semiotica:

Tutto ciò che può entrare nella sfera dell’interesse umano essendo, in primo luogo, la natura delle cose quali sono in se stesse, i loro rapporti, e il modo della loro operazione; o, in secondo luogo, ciò che l’uomo stesso ha il dovere di fare, come agente razionale e volontario, per il raggiungimento di un qualunque fine, e specialmente della felicità; o, in terzo luogo, i modi e i mezzi coi quali viene raggiunta e comunicata la conoscenza di questi due ordini di cose; ritengo che la scienza possa venir propriamente divisa in queste tre specie […]. Il terzo ramo può essere chiamato dottrina dei segni; e poiché la parte più consueta di essa è rappresentata dalle parole, assai acconciamente essa viene anche chiamata logica. Il suo compito è di considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose, o per trasmettere ad altri la sua conoscenza. Poiché le cose che la mente contempla non essendo mai, tranne la mente stessa, presenti all’intelletto, è necessario che qualcos’altro, come un segno o una rappresentazione della cosa che viene considerata, sia presente allo spirito, e queste sono le idee. E poiché la scena delle idee, che costituisce i pensieri di un dato uomo, non può venire esposta all’immediata visione di un altro, né essere accumulata altrove che nella memoria, che non è un deposito molto sicuro, ne consegue che per comunicare ad altri i nostri pensieri, nonché per registrarli a uso nostro, sono altresì necessari dei segni delle nostre idee, e quelli che gli uomini hanno trovato più convenienti a tale

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scopo, e di cui perciò fanno uso generalmente, sono i suoni articolati. (Locke: IV, XXI, 1, 4)

Il linguaggio è inteso da un lato come istituzione sociale, e dall’altro come strumento creativo del soggetto.

Ma che esse soltanto significhino le peculiari idee degli uomini, e le rappresentino per un’imposizione perfettamente arbitraria, è cosa evidente, in quanto spesso esse non riescono a suscitare in altri (anche tra coloro che usano lo stesso linguaggio) le stesse idee di cui assumiamo che esse siano il segno; e ogni uomo ha una così inviolabile libertà di far sì che le parole stanno per le idee che a lui piacciono, che nessuno ha il potere di far sì che altri abbiano nella mente le stesse idee che ha lui, quando pur usino le stesse parole che egli usa. (Locke: IV, II, 11)

Il razionalismo francese
Cartesio (1596-1650)
Le teorie cartesiane sul segno compaiono per la prima vota ne Il Mondo. Cartesio pensa a una struttura triadica del segno, costituita da un aspetto materiale (i suoni delle parole), un aspetto mentale che è loro direttamente collegato (il significato) e i fenomeni della realtà, che le parole rappresentano. Tuttavia, non vi è relazione diretta fra parole e cose, e il linguaggio, essendo considerato un’istituzione, è arbitrario. Cartesio include a volte nella categoria di linguaggio anche fenomeni non verbali, come la luce, il riso, il pianto, quando sono usati come segni. Nel Discorso sul metodo arriverà a indicare anche i gesti dei sordomuti e i segni naturali che esprimono le passioni.
L’idea di Cartesio è che la natura del linguaggio corrisponda alla divisione fra corpo e mente, corpo e anima. Non a caso, infatti, l’aspetto materiale del linguaggio è variabile, ma la struttura del pensiero rimane la stessa, e ha carattere universale. Cartesio distingue fra parole che esprimono concetti e altri segni che esprimono sentimenti. Nel primo caso siamo di fronte a una attività spirituale e razionale, nel secondo a una attività animale. Tuttavia, possono esistere alcuni casi in cui i segni naturali provocano pensieri, e altri in cui le parole provocano sentimenti e passioni.

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Port-Royal (XVII secolo)

Né Cartesio né i primi cartesiani hanno elaborato una teoria linguistico- semiotica degna di nota. Occorre attendere la Grammatica e la Logica, o l’arte di pensare di Arnauld (1612-1694), Lancelot (1615 ca-1695) e Nicole (1625-1695), appartenenti alla setta giansenista del convento di Port-Royal. L’importanza di questa opera per gli sviluppi che essa ha portato nel pensiero contemporaneo è stata messa in luce da Noam Chomsky e da molti altri dopo di lui. Il punto di partenza della Grammatica è che essa può cogliere i tratti universali dell’attività linguistica umana, che sono uguali per tutti, perché questa è soltanto la manifestazione materiale e convenzionale dell’attività del pensiero. Il linguaggio come sistema di segni rappresenterebbe la struttura superficiale, il pensiero invece sarebbe la struttura profonda.

Tra le riflessioni semiotiche del gruppo di Port-Royal contenute nella Logica, due sono assai rimarchevoli. Il pensiero non può essere raggiunto che tramite ciò che lo significa, i segni; ma poiché questi non sono congrui al pensiero, occorre stabilire le condizioni generali per servirsi di qualcosa come segno.

Quando si considera un oggetto in se stesso e nel suo proprio essere, senza spingere lo sguardo dello spirito a ciò che esso può rappresentare, l’idea che se ne ha è un’idea di cosa, come l’idea della Terra, del Sole. Ma quando si considera un certo oggetto come rappresentante di un altro, l’idea che se ne ha è un’idea di segno, e quel primo oggetto si dice segno. In questo modo consideriamo solitamente le mappe e i quadri. Il segno quindi racchiude due idee, l’idea del segno e quella della cosa che rappresenta; e la sua natura consiste nel suscitare la seconda mediante la prima. (Arnauld e Nicole: I, IV)

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Il razionalismo tedesco
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)
Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, Leibniz si pone la questione di definire il segno, e lo intende come «qualcosa che percepiamo in un dato momento, e che poi consideriamo come connesso a qualcos’altro, in virtù dell’esperienza precedente, nostra o di altri». Leibniz propende per una tripartizione dei segni a seconda della loro relazione di motivazione con i loro significati. I nessi segnici possono essere determinati da scelta (e, quindi, arbitrarietà), da caso (e, quindi, arbitrarietà inconsapevole, accordo tacito) e da natura (motivazione). Egli fa una distinzione funzionale dei sistemi di segni, che possono avere funzione cognitiva (dare coerenza ai modi di conoscere) oppure comunicativa (consentire l’espressione fra uomini).

Christian F. von Wolff (1679-1754)

Seguace di Leibniz, Wolff tenta di dare una sistemazione organica a tutti i campi teorici analizzati dal maestro. Wolff dichiara che ogni procedimento conoscitivo può essere considerato processo segnico, e qualifica il segno come «ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza passata o futura di un altro ente» (Wolff: 952). Egli classifica i segni secondo la seguente tipologia: «il segno dimostrativo indica un designato presente, quello prognostico indica un designato futuro, quello memoriale indica un designato passato» (Wolff: 953).

Il secondo empirismo inglese
George Berkeley (1685-1753)
La concezione della semiotica di Berkeley è assai vasta. Tutto l’universo è inteso come un sistema simbolico, comprese le nostre percezioni che costituiscono un linguaggio per mezzo del quale Dio (l’«Autore della Natura») ci presenta il mondo.
I tipi di significazione identificati da Berkeley sono tre: 1) significazione operata all’interno dello stesso senso, che avviene dentro le categorie, e che è resa possibile per somiglianza qualitativa; 2) significazione che attraversa

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sensi diversi, e che si svolge attraverso le categorie, senza somiglianza qualitativa, ma solo per associazione spaziotemporale; 3) volontà attiva, ovvero significazione che congiunge idee e cause, e che risiede nella Mente dell’«Autore della Natura» che la distribuisce alle menti finite degli uomini.

David Hume (1711-1776)

Hume approfondisce la teoria del segno come rappresentante di idee particolari.

Quando abbiamo trovato una somiglianza fra diversi oggetti che ci capitano spesso innanzi, diamo a tutti lo stesso nome, qualunque siano le differenze che possiamo osservare nei gradi della loro quantità e qualità, e qualunque altra differenza possa apparire fra loro. Acquistata questa abitudine, nell’udire quel nome l’idea di uno di quegli oggetti si risveglia, e fa sì che l’immaginazione la concepisca in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni. […] La parola ci sveglia un’idea individuale, e insieme con essa una certa abitudine; e quest’abitudine produce ogni altra idea individuale, secondo che l’occasione richiede. Ma, poiché la produzione di tutte le idee, alle quali il nome può essere applicato, è cosa impossibile nella maggior parte dei casi, noi abbreviamo questo lavoro limitandolo a una considerazione più ristretta, senza che sorgano da questa abbreviazione troppi inconvenienti per i nostri ragionamenti. (Hume: VII)

Una causa non è il criterio per determinare l’esistenza delle cose, ma è solo uno strumento intellettuale per conoscerle. In questo senso, una causa è esattamente uguale al segno indicativo naturale, dal momento che gli elementi caratteristici delle cause sono la contiguità spaziotemporale, la successione temporale, la congiunzione costante. La riprova è che l’inferenza causale è un’inferenza per mezzo di segni, ovvero un’inferenza debole, senza dimostrazione necessaria ma solo probabile. L’unica forma di certezza è la credenza nel fatto che certi fenomeni si ripeteranno a partire dalla loro notazione passata.

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Gli enciclopedisti
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
Il linguaggio articolato è per Rousseau una evoluzione in senso degenerativo del genere umano. L’ipotesi sull’origine funzionale delle lingue è da lui dimostrata attraverso il collegamento fra linguaggio umano e musica.

I suoni di una melodia non ci colpiscono semplicemente come suoni, ma come segni delle nostre affezioni dell’anima, dei nostri sentimenti. È per questa ragione che eccitano in noi le emozioni che essa esprime, e la cui immagine noi vi riconosciamo. (Rousseau: Introduzione)

Questa relazione esiste anche nel discorso in atto, fissato da un contratto implicito fra gli uomini per regolare la loro esistenza obbligata alla collettività, che si evolve verso una sempre maggiore necessità di esplicitazione, e perciò si razionalizza, con la progressiva soppressione della comunicazione emotiva.

Denis Diderot (1713-1784)

Nell’Encyclopédie Diderot elabora un sistema classificatorio della conoscenza umana nel quale la comunicazione e la significazione giocano un ruolo decisivo proprio dal punto di vista cognitivo. Nella Grammatica Generale ritroviamo dei sottosistemi che sono tutti di natura semiotica: i segni (gesti e caratteri), i tratti prosodici (segmentali e sovrasegmentali), i costrutti (figure dello stile), la sintassi (ordine del discorso e usi linguistici) e infine gli aspetti metalinguistici (filologia, critica, pedagogia, ovvero le discipline che parlano dei vari linguaggi). Nella sua analisi Diderot prende in esame non solo le parole, ma anche i segni visivi, auditivi e tattili. Le parole denotano solo approssimativamente la realtà, pertanto la loro vera natura è quella di servire da strumento non tanto di conoscenza, quanto di decodifica del reale in un quadro di intersoggettività fra individui intesa nella sua natura inventiva e dinamica.

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Il sistema semantico non cambia col mutare delle culture, ma le culture differiscono per il diverso uso dei significanti, del sistema dell’espressione e della memorizzazione delle sensazioni.

Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780)

Nel linguaggio Condillac vede un metodo per spiegare la conoscenza, ed è dunque fondamentale conoscere l’origine dei segni per determinarne la struttura. Le idee sono connesse con i segni, e soltanto per questo mezzo si connettono tra loro.

Condillac riconosce tre tipi di segni:

1) i segni accidentali, o gli oggetti che certe circostanze particolari hanno legato con qualcuna delle nostre idee, cosicché sono propri a risvegliarle; 2) i segni naturali, o i gridi che la natura ha stabilito per i sentimenti di gioia, d’odio, di dolore eccetera; 3) i segni istituzionali, o quelli che noi stessi abbiamo scelto, e che non hanno che un rapporto con le nostre idee. (Condillac: II, 19)

Immanuel Kant (1724-1804)

Kant, pur con la sua monumentale opera, è il pensatore che nella storia del pensiero filosofico si è forse occupato meno del linguaggio. Nella Critica della ragion pura, egli elabora il principio dello schematismo dell’intelletto, grazie al quale si designano i concetti generali degli oggetti.

Alla base dei nostri concetti sensibili puri non ci sono immagini di oggetti, ma schemi. Nessuna immagine di triangolo potrebbe mai essere adeguata al concetto di triangolo in generale. Essa infatti non adeguerebbe il concetto in quella sua generalità per cui vale tanto per il triangolo rettangolo quanto per l’isoscele eccetera, ma resterebbe limitata soltanto a una parte di questo ambito. Lo schema del triangolo non può esistere altrove che nel pensiero, e significa una regola della sintesi della immaginazione rispetto a figure pure nello spazio. Molto meno ancora un oggetto dell’esperienza o una sua immagine adeguano il concetto empirico; ma questo si riferisce sempre immediatamente a uno schema dell’immaginazione, che è la regola della determinazione della nostra intuizione conforme a un determinato concetto generale. Il concetto del cane designa una regola secondo cui la mia immaginazione può descrivere

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la figura di un quadrupede in generale senza limitarla a una forma in particolare che mi offra l’esperienza o a ciascuna immagine possibile, che io possa concretamente rappresentarmi. Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro forma immediata, è una tecnica celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi. (Kant 1985: 165-166)

Nella Critica del giudizio Kant afferma che parole e segni visibili (algebrici, numerici) sono tutti espressione dei concetti, ovvero «caratteri sensibili che designano concetti e servono come strumenti soggettivi di riproduzione».

A torto, e con uno stravolgimento di senso, i logici moderni accolgono l’uso della parola “simbolico” per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni, non sono “caratteristi”, cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo una legge dell’associazione immaginativa […]; tali sono, in quanto semplici espressioni dei concetti, le parole oppure i segni visivi. Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde analogicamente. (Kant 1997: 218)

La filosofia di Kant è tutta tesa a stabilire le precondizioni logiche dell’attività conoscitiva; i concetti sono dei regolatori della comprensione, funzionano per trasformare rappresentazioni differenti in una rappresentazione comune. In questo senso è chiara la loro presupposizione semantica.

Il romanticismo tedesco

Le teorie del linguaggio sviluppatesi in questo ambito possono essere riassunte in quattro categorie: 1) la discussione sulla natura arbitraria, convenzionale o motivata dei segni; 2) la teoria del segno come dialettica

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fra rappresentazione e presentazione; 3) l’idea del linguaggio come totalità superiore alle sue parti; 4) l’identità fra linguaggio e sistema della cultura, in una prospettiva antropologica.
I romantici tedeschi negano in maniera più o meno assoluta la natura arbitraria e/o convenzionale del linguaggio. Fiche, ad esempio, parla dell’origine del linguaggio come necessità, derivante dal desiderio degli uomini di sottomettere la natura non ragionevole alla ragionevolezza umana. Questo tentativo passa attraverso l’uso di tutti i sensi, e di sistemi di segni dotati di diversi piani dell’espressione, con l’unico scopo di designare gli oggetti sensibili per imitazione con l’unica volontà di comunicare.

I segni sono una mediazione, rivestita di forma sensibile, della rappresentazione concettuale del mondo da parte dello spirito umano. Le parole sono presentazioni di rappresentazioni dei referenti. Tale presentazione può essere anche molto aderente alle cose, ma può indebolirsi per inadeguatezza o per oblio della propria natura originaria laddove si perda il senso della relazione imitativa, allora i segni sono arbitrari, e il nesso con i designata è frutto di immaginazione.

A Schelling si deve la teorizzazione dell’organismo linguistico come totalità da cui dipende ogni singolo elemento, che non può essere afferrato senza il ricorso al tutto.
Wolhelm von Humboldt, infine, sviluppa l’interessante concetto di correlazione fra lingua e popolo: la lingua, pur essendo un organismo e una totalità, non manifesta direttamente il pensiero: è piuttosto un «intramondo», mediatore fra pensiero e realtà attraverso caratteristiche proprie del sistema linguistico, che si sviluppano nel corso del tempo in modo dinamico e incessante. Culture diverse possono dare vita a filosofie diverse.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

Omar Calabrese conclude il suo percorso sulla storia della semiotica con Hegel, il grande metafisico di questo periodo, che si è occupato maggiormente di altri del segno e della significazione del linguaggio. La filosofia dello spirito soggettivo implica una conoscenza intuitiva legata alla

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sensazione e all’affetto, ma la rappresentazione fa accedere alla concettualizzazione. La rappresentazione si realizza sensibilmente attraverso i segni, ma è “soggettiva”, cioè arbitraria. La rappresentazione diviene un sistema di relazioni, una semiotica.

Secondo Hegel, “il segno è una certa intuizione immediata che rappresenta un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé. Il segno è diverso dal simbolo, la cui determinazione propria è più o meno il contenuto che essa esprime come simbolo”.

Il luogo vero del segno è l’intelligenza, che svolge la sua attività creatrice di rappresentazione, tra cui il linguaggio, che può essere fonico, scritto, per geroglifici o per scrittura alfabetica.
Nella Propedeutica filosofica, Hegel tratta del problema della significazione, e in particolare dell’arbitrarietà del segno:

Una realtà esteriore presente diviene segno quando è arbitrariamente associata a una rappresentazione che non le corrisponde e che se ne distingue parimenti attraverso il suo contenuto, in modo tale che questa realtà deve esserne la rappresentazione o significazione. (Hegel: II, 1, 155) Per quanto concerne l’invenzione di segni determinati, è naturale che, per i fenomeni sonori (rumori, fremiti, fracassi), si siano scelti dei segni verbali che ne sono le imitazioni immediate, per altri oggetti o modificazioni sensibili, il segno è, assolutamente parlando, arbitrario, per mezzo della designazione dei rapporti e delle determinazioni astratte, la simbolizzazione gioca un ruolo essenziale e la formazione ulteriore dei linguaggi appartiene alla facoltà dell’universale, cioè dell’intendimento. (Hegel: II, 1, 160)

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2. Charles Sanders Peirce: cenni biografici

Charles Sanders Peirce nacque a Cambridge, nel Massachussets, nel 1839, figlio di Sarah Hunt Mills e di Benjamin Peirce, insigne matematico, docente alla Harvard University. Questi si occupò personalmente dell’educazione del figlio, fanciullo prodigio. All’età di dodici anni lesse il libro Elements of Logic di Richard Whately, trovato per caso tra i libri di studio del fratello maggiore, e ne rimase affascinato. A quattordici anni era già notevolmente competente in chimica, studiava logica, era versato in matematica e filosofia.

Questo giovane brillante fece inizialmente una discreta carriera: una volta laureatosi alla Harvard ottenne subito un incarico procuratogli dal padre presso l’agenzia United States Coast Survey1 (1859-1891), dove lavorò molti anni ed elaborò una serie di lavori scientifici che ebbero notevole risonanza internazionale. Dal 1869 al 1872 fu osservatore presso l’Harvard’s Astronomical Observatory e assistente di questo Osservatorio; compì ricerche di notevole successo, che si raccolsero nell’unico volumetto che egli riuscì a pubblicare nel corso della vita, riguardante le ricerche fotometriche.

Questi inizi promettenti non trovarono successivamente conferma nella carriera di Peirce. Nel 1879 insegnò logica alla Johns Hopkins University; per cinque anni ebbe un incarico alla Harvard. Inspiegabilmente lo perse e in seguito nessuna università volle più conferirgli un incarico, forse a causa della sua difficile personalità, o, più probabilmente, a causa dell’opinione sfavorevole che di lui aveva Charles William Eliot, uno dei suoi professori, che fu presidente della Harvard University dal 1869 al 1909.

Nel 1887 Peirce si ritirò a vita privata vicino a Milford, in Pennsylvania e, negli ultimi anni della sua vita, stentò letteralmente a sopravvivere; riuscì ad andare avanti solo con l’aiuto dei suoi amici, tra i quali William James.

1 In seguito denominata National Geodetic Survey, della quale è stato sovrintendente Benjamin Peirce dal 1867 al 1874.

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Nel corso della vita Peirce non pubblicò nessun libro, ma una serie di articoli, che però non ebbero la risonanza che potevano meritare. Non trovò mai un editore disposto a pubblicare quella che egli chiamava «la grande Logica».

Morì nel 1914 lasciando una quantità incredibile di carte scritte, più di ottantamila fogli che la moglie vendette alla Harvard University. Soltanto a partire dagli anni Trenta la sua fama cominciò a diffondersi nel mondo grazie ad alcune raccolte sia dei saggi che aveva pubblicato, che di questi straordinari manoscritti.

Chiunque studi Peirce si immette in un oceano di problemi più che di soluzioni, di domande più che di risposte. La filosofia era effettivamente per Peirce una ricerca incessante, un’incessante messa in pratica della «massima pragmatica», cioè un incessante interpretare, in una scommessa della ragione che ha il suo compimento nell’apertura all’infinito. Come egli stesso ha scritto: «Do not block the way of inquiry».

Figura di spicco del pragmatismo americano, insieme a Charles Morris e William James, Peirce non è soltanto un genio singolare ma sicuramente uno dei filosofi più importanti della nostra epoca.
Il pragmatismo si configura come il contributo più significativo degli Stati Uniti alla filosofia occidentale. Ebbe grande successo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma nella versione elaborata da James, che tuttavia ammise sempre onestamente e lealmente che le idee di partenza erano di Peirce e non sue. La distinzione tra «pragmatismo» e «pragmaticismo» introdotta da Peirce intendeva, dunque, precisare così la netta differenza tra la sua posizione e quella dei suoi colleghi.

Come già anticipato, l’opera di Peirce è molto vasta, e implica per lo studioso una necessaria procedura di selezione.
Prendendo spunto da un’intervista a Carlo Sini (Rai, 6.02.92) accennerò brevemente ad alcuni principi fondamentali dell’analisi filosofica di Peirce:

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il principio della «massima pragmatica», il principio del «fallibilismo» del metodo scientifico, il «metodo per fissare le convinzioni» e l’«abduzione».

La «massima pragmatica»

Alla base del pragmaticismo sta la «massima pragmatica». Essa stabilisce che le nostre opinioni, le nostre idee, hanno il loro luogo di rivelazione nell’agire, nella pratica, nel comportamento. Al primo posto si colloca, dunque, l’azione. James interpretava questo motto dando rilievo al carattere irrazionale dell’azione, mentre Peirce non intendeva assolutamente porre l’azione al posto della ragione o della logica, ma intendeva trovare un nuovo terreno sulla base del quale analizzare i problemi della verità e della logica. Per Peirce il mondo stesso è in evoluzione attraverso le nostre opinioni: la realtà è coinvolta nelle nostre azioni-inferenze.

Il «fallibilismo» del metodo scientifico

Per Peirce il motore della ricerca è rappresentato da un «dubbio reale e vivente». È il «dubbio reale e vivente» che conduce l’uomo a formarsi determinate convinzioni. Esso consiste in uno stato mentale di insoddisfazione e di frustrazione che l’uomo tende a trasformare in stato d’animo calmo e certo con l’introduzione di nuove convinzioni. L’ammettere l’esistenza di una convinzione iniziale non verificata riconduce la riflessione di Peirce a riconoscere il «fallibilismo» del metodo scientifico, anticipando così i concetti cardine sviluppati da Popper. Questo «fallibilismo» non è solo della mente e del comportamento umano, ma è dell’universo intero, che nasce da una caoticità e procede verso un ordine.

Il «metodo per fissare le convinzioni»

Peirce osserva che gli uomini hanno differenti metodi per fissare le loro convinzioni; egli enunciava quattro metodi principali: la tenacia, l’autorità, il metodo metafisico, e il metodo scientifico. La tenacia è quell’atteggiamento per cui un uomo nutre nei confronti delle proprie convinzioni la tenace volontà di perseguirle contro tutto e contro tutti. Il metodo dell’autorità è a sua volta un metodo tenace, ma non si appella tanto

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alle convinzioni del singolo, quanto a quelle di un’istituzione, fissate dall’autorità, dallo Stato, ecc. Ma questi due modi – dice Peirce – non riescono a stabilire credenze durevoli nel tempo. Il terzo metodo, quello metafisico, non si appella alla tenacia ma al dubbio, al confronto, al dialogo, e ha come meta quella di pervenire a una credenza razionale. Questo metodo, più nobile degli altri, ha dato risultati meno apprezzabili di quanto si poteva sperare, perché i filosofi non si sono intesi sull’idea di ragione. Resta il quarto metodo, che Peirce segue tutta la vita: il metodo scientifico. Il metodo scientifico è quel procedimento secondo il quale gli uomini non soltanto elaborano le loro convinzioni in dialogo con altri uomini, ma le affidano al riscontro della prova pratica. La pratica alla quale viene affidato il compito di rivelare il significato logico è sempre un’interpretazione della realtà.

L’«abduzione»

Il vero problema era quello che già poneva Kant: come sono possibili giudizi sintetici a priori? Ossia come posso inferire cose che non osservo da quello che osservo e avere successo in questa inferenza? Peirce sostenne con molta coerenza che l’uomo ragiona avanzando ipotesi plausibili, e tali inferenze, o pensieri-segni, riflettono i diversi modi in cui noi diamo un senso ai fenomeni che osserviamo.

Il vero ragionamento fondamentale è quello che Peirce chiama «abduttivo».

Abduction is the process of forming an explanatory hypothesis. It is the only logical operation which introduces any new idea; for induction does nothing but determine a value, and deduction merely evolves the necessary consequences of a pure hypothesis.

Deduction proves that something must be; Induction shows that something actually is operative; Abduction merely suggests that something may be.
Its only justification is that from its suggestion deduction can draw a prediction which can be tested by induction, and that, if we are ever to learn anything or to understand phenomena at all, it must be by abduction that this is to be brought about.

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No reason whatsoever can be given for it, as far as I can discover; and it needs no reason, since it merely offers suggestions.
C.P.5, Pragmatism and Pragmaticism, Book 1: Lectures on Pragmatism, Chapter 4, Instinct and Abduction, n. 171

Peirce spiega il principio della logica abduttiva con l’esempio, diventato celebre, dei fagioli.

ABDUZIONE

(ragionamento sintetico ipotetico)

a)

regola

tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi

costante nota

b)

risultato

questi fagioli sono bianchi

constatazione di un fenomeno non facilmente prevedibile

quindi forse:

c)

caso

questi fagioli vengono da questo sacco

antecedente, spiega il rapporto esistente
tra risultato
e regola

L’abduzione è un ragionamento sintetico ipotetico: se è vero che le probabilità che tale inferenza sia corretta sono più basse che nella deduzione e nell’induzione, è anche vero che la verifica di tale inferenza nella realtà è sempre possibile. L’abduzione si basa sull’ipotesi di un caso, e la verifica dell’ipotesi consiste nella costruzione del rapporto tra una regola e un risultato: si basa su una considerazione nota per giungere a una nuova convinzione. Il valore creativo dell’abduzione è dunque superiore a quello dell’induzione e della deduzione, e ha una forza creativa che permette l’introduzione di idee nuove e originali.

In virtù di questa ricostruzione a ritroso il ragionamento prende anche il nome di «retroduzione». La semiosi, la significazione, la comprensione di un testo non segue un ragionamento deduttivo o induttivo […] ma abduttivo, che si limita a suggerire che qualcosa può essere. (Osimo 2002: 72-73)

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3. La teoria del segno

Peirce ha dato un contributo fondamentale alla scienza della traduzione moderna, che fortunatamente ha superato l’artificiosa distinzione tra una “teoria” e una “pratica” della traduzione. L’approccio semiotico alla traduzione permette di addentrarsi in modo corretto in un’attività razionale basata su elementi certi, non più basati su un istinto ma su un metodo. Vediamo, pur in estrema sintesi, la teoria del segno, meglio conosciuta come «Triade di Peirce».

In ogni situazione pratica di vita, dunque, agiscono sempre tre elementi, che fondano la teoria dei segni secondo Peirce: segno, interpretante e oggetto. «La semiosi è un’azione, o influenza, che è, o comporta, una collaborazione di tre soggetti, come un segno, il suo oggetto e il suo interpretante, senza che questa influenza tri-relativa sia in alcun modo risolvibile in azione tra coppie». (Osimo 2002: 66)

Now the relation of every sign to its object and interpretant is plainly a triad. A triad might be built up of pentads or of any higher perissad elements in many ways. But it can be proved – and really with extreme simplicity, though the statement of the general proof is confusing – that no element can have a higher valency than three.

C. P. 1, Principles of Philosophy, Book 3: Phenomenology, Chapter 1, Introduction, n. 292

Una cosa (segno) sta per un’altra (oggetto) passando da un segno mentale (interpretante).

INTERPRETANTE

(entità mentale evocata dal segno)

SEGNO OGGETTO

(parola, frase, testo di qualsiasi genere) (qualsiasi significato astratto o concreto collegato al segno)

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Tra le tante definizioni della triade fornite nei Colleted Papers, riporto quella ritenuta più canonica:

A representation is that character of a thing by virtue of which, for the production of a certain mental effect, it may stand in place of another thing. The thing having this character I term a representamen, the mental effect, or thought, its interpretant, the thing for which it stands, its object.

C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 6, On a new list of categories, n. 564

Utilizzo l’esempio fatto da Osimo: «Se vedo un albero spezzato in due, molte foglie verdi per terra e il terreno bagnato, questi sono segni che – verosimilmente – un temporale e un fulmine si sono abbattuti da poco in questa zona. In questo caso l’albero (segno) produce nella mia mente un pensiero (interpretante) che mi rimanda al temporale (oggetto)». (2002: 66)

Analizzo di seguito i tre vertici della Triade.

3.1 Sign

Il segno viene definito come «qualcosa che sta secondo qualcuno per qualcosa in qualche aspetto o capacità». Si rivolge a qualcuno, ossia, crea nella mente di quella persona un segno equivalente, un segno «più sviluppato». Quel segno che crea lo chiama interpretante del primo segno. Il segno, denominato anche representamen, sta per qualcosa: il suo oggetto.

A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something in some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. That sign which it creates I call the interpretant of the first sign. The sign stands for something, its object. It stands for that object, not in all respects, but in reference to a sort of idea, which I have sometimes I called the ground of the representamen.

C.P. 2, Elements of Logic, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 228

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La traduzione è un anello fondamentale della concatenazione semiotica, dal momento che il fine ultimo della traduzione è rivelare il significato ultimo del segno. Questo svelamento è frutto di un processo traduttivo che si ambienta nella mente del traduttore.

Applicandolo alla parola scritta, tale processo avviene attraverso una parola (il segno) che porta a un significato (oggetto) passando dalla mente del traduttore, dove al segno corrisponde un’entità precisa (interpretante) che, sulla base dell’esperienza individuale relativa a quel segno, rimanda a una gamma di significati (oggetti), variabile nel tempo e necessariamente soggettiva. Il significato ultimo è inteso nella contingenza di un momento, soggetto a un ulteriore atto di traduzione/interpretazione/lettura. La «semiosi illimitata» è una serie infinita di rappresentazioni, ognuna rappresentante quel che le sta dietro, in una concatenazione di pensieri (traduzioni) che non ha mai fine, in quanto è sempre possibile arricchire un’interpretazione di nuovi elementi.

Per sgombrare il campo da possibili equivoci, vale la pena soffermarsi sull’espressione di Peirce sopra riportata «equivalent sign» con le parole di Osimo:

Per Peirce l’equivalenza è qualcosa di soggettivo («si rivolge a qualcuno»), è valida soltanto «sotto qualche aspetto» o «in qualche capacità». L’equivalenza non ha valore assoluto ma relativo, effimero. L’interpretante non è proprio un equivalente ma «un segno più sviluppato». La parola «equivalente» non è usata in senso stretto come «di pari valore», ma in senso molto più ampio. (2002: 70)

Peirce usa una metafora singolare, quella dello spogliarello in cui il “corpo” del segno non è mai del tutto svelato.

The easiest of those which are of philosophical interest is the idea of a sign, or representation. A sign stands for something to the idea which it produces, or modifies. Or, it is a vehicle conveying into the mind something from without. That for which it stands is called its object; that which it conveys, its meaning; and the idea to which it gives rise, its

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interpretant. The object of representation can be nothing but a representation of which the first representation is the interpretant. But an endless series of representations, each representing the one behind it, may be conceived to have an absolute object at its limit. The meaning of a representation can be nothing but a representation. In fact, it is nothing but the representation itself conceived as stripped of irrelevant clothing. But this clothing never can be completely stripped off; it is only changed for something more diaphanous. So there is an infinite regression here. Finally, the interpretant is nothing but another representation to which the torch of truth is handed along; and as representation, it has its interpretant again. Lo, another infinite series.

C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 2, The Categories in Detail, n. 339

Seguendo gli spunti estremamente originali di Peirce, il pensiero deve esistere e crescere in incessanti “traduzioni” nuove e più alte, altrimenti mostra di non essere vero pensiero. Se la serie di successivi interpretanti giunge a un termine, il segno è in tal modo reso imperfetto. Un segno, quindi, non è un segno se non si traduce in un interpretante, che diventa a sua volta un nuovo segno più sviluppato del primo.

Anything which determines something else (its interpretant) to refer to an object to which itself refers (its object) in the same way, the interpretant becoming in turn a sign, and so on ad infinitum.
No doubt, intelligent consciousness must enter into the series. If the series of successive interpretants comes to an end, the sign is thereby rendered imperfect, at least. If, an interpretant idea having been determined in an individual consciousness, it determines no outward sign, but that consciousness becomes annihilated, or otherwise loses all memory or other significant effect of the sign, it becomes absolutely undiscoverable that there ever was such an idea in that consciousness; and in that case it is difficult to see how it could have any meaning to say that that consciousness ever had the idea, since the saying so would be an interpretant of that idea.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 3, The Icon, Index and Symbol, n. 303

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Il rapporto tra segno e oggetto non è sempre dello stesso tipo e il vincolo tra essi non ha la stessa intensità: tale relazione può essere motivata da una ragione, da una somiglianza fisica, oppure può essere legata a un’associazione mentale.

Peirce individua tre gradi di arbitrarietà nel rapporto tra segno e oggetto, tutti indispensabili nel pensiero, che danno vita a tre fondamentali tipi di segno: l’icona, l’indice e il simbolo.

One very important triad is this: it has been found that there are three kinds of signs which are all indispensable in all reasoning; the first is the diagrammatic sign or icon, which exhibits a similarity or analogy to the subject of discourse; the second is the index, which like a pronoun demonstrative or relative, forces the attention to the particular object intended without describing it; the third [or symbol] is the general name or description which signifies its object by means of an association of ideas or habitual connection between the name and the character signified.

C.P.1, Book 3: Phenomenology, Chapter 3, A Guess at the Riddle, n. 369

La prima classe di segni, l’icona, è una rappresentazione poco arbitraria dell’oggetto. Non ha una connessione dinamica con l’oggetto che rappresenta, ma le sue qualità assomigliano a quelle dell’oggetto, e possono quindi rimandare ad esso pur non essendovi direttamente collegate.

An Icon is a sign which refers to the Object that it denotes merely by virtue of characters of its own, and which it possesses, just the same, whether any such Object actually exists or not. It is true that unless there really is such an Object, the Icon does not act as a sign; but this has nothing to do with its character as a sign. Anything whatever, be it quality, existent individual, or law, is an Icon of anything, in so far as it is like that thing and used as a sign of it.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 247

L’indice, seconda classe di segni, è influenzato dall’oggetto, ha necessariamente alcune qualità in comune con l’oggetto, e la mente interpretante può semplicemente constatarlo.

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An Index is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of being really affected by that Object. […] In so far as the Index is affected by the Object, it necessarily has some Quality in common with the Object, and it is in respect to these that it refers to the Object. It does, therefore, involve a sort of Icon, although an Icon of a peculiar kind; and it is not the mere resemblance of its Object, even in these respects which makes it a sign, but it is the actual modification of it by the Object.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 248

Il simbolo, terza classe di segni, è fisicamente legato all’oggetto in virtù di una legge, di una convenzione condivisa, di un’associazione mentale riconosciuta.

A Symbol is a sign which refers to the Object that it denotes by virtue of a law, usually an association of general ideas, which operates to cause the Symbol to be interpreted as referring to that Object. […] Not only is it general itself, but the Object to which it refers is of a general nature. Now that which is general has its being in the instances which it will determine. There must, therefore, be existent instances of what the Symbol denotes, although we must here understand by “existent,” existent in the possibly imaginary universe to which the Symbol refers. The Symbol will indirectly, through the association or other law, be affected by those instances; and thus the Symbol will involve a sort of Index, although an Index of a peculiar kind. It will not, however, be by any means true that the slight effect upon the Symbol of those instances accounts for the significant character of the Symbol.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 2, Division of Signs, n. 249

Il pensiero si sviluppa attraverso i segni, che cambiano nel tempo, trasformandosi incessantemente in pensieri più sviluppati. Un simbolo, in particolare, una volta in essere, si diffonde tra i popoli e col tempo porta in sé nuove significazioni:

Symbols grow. They come into being by development out of other signs, particularly from icons, or from mixed signs partaking of the nature of icons and symbols. We think only in signs. These mental signs are of mixed nature; the symbol-parts of them are called concepts. If a man makes a new symbol, it is by thoughts involving concepts. So it is only out of symbols

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that a new symbol can grow. A symbol, once in being, spreads among the peoples. In use and in experience, its meaning grows. Such words as force, law, wealth, marriage, bear for us very different meanings from those they bore to our barbarous ancestors.

C.P. 2, Book 2: Speculative Grammar, Chapter 3, The Icon, index and symbol, n. 302

All’interno delle argomentazioni su icona, simbolo e indice, Peirce colloca i segni linguistici nel tipo intermedio: essi sono simboli, ed esplicano tale funzione solo se sono interpretati come segni.

3.2 Interpretant

Il termine «interpretante», o «segno interpretante» è stato coniato da Peirce per designare quel segno mentale, quel pensiero, quella rappresentazione, che funge da mediazione soggettiva tra segno e oggetto. Il segno è tradotto in un oggetto (concreto o astratto) per mezzo di un passaggio mentale, frutto dell’esperienza individuale, chiamato appunto «interpretante», inteso come segno prodotto dalla nostra mente in reazione alla percezione del primo segno. Ogni atto di lettura si configura come processo traduttivo intersemiotico.

Un segno deve avere un’interpretazione o significazione o, come lo chiamo io, un interpretante. Questo interpretante, questa significazione è semplicemente una metempsicosi in un altro corpo; una traduzione in un altro linguaggio. Questa nuova versione del pensiero ha ricevuto a sua volta un’interpretazione, e il suo interpretante viene interpretato, e così via, finché non compare un interpretante che non ha più la natura del segno. (Peirce, in Gorlée: 126)

L’interpretante può essere un segno mentale di un’altra classe.

In consequence of every sign determining an Interpretant, which is itself a sign, we have sign overlying sign. The consequence of this, in its turn, is that

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a sign may, in its immediate exterior, be of one of the three classes, but may at once determine a sign of another class.
C.P. 2, Book 1, Chapter 2, Partial Synopsis of a Proposed Work in Logic, n. 94

La semiosi dei tre tipi di segni descritti poco sopra – indice, icona, simbolo – dà luogo a sua volta a tre tipi di interpretanti. L’interpretante di un segno iconico è emozionale (emotional); quello di un segno indessicale è energetico (energetic); l’interpretante legato al simbolo può essere intellettuale (intellectual) o logico (logical). (John Dewey, Peirce Theory of Linguistic Signs, Thought, and Meaning, in The Journal of Philosophy, Volume XLIII, No. 4, February 14, 1946).

All’interno del processo traduttivo, il collegamento tra segno e interpretante è uno degli aspetti più interessanti da indagare.

Nella mente del traduttore avviene il collegamento tra una parola (in qualsiasi lingua nota) e un significato (nel linguaggio mentale – non verbale – del traduttore). Tale collegamento non è arbitrario (come invece è in Saussure), ma soggettivamente necessario; necessità che scaturisce dalla precisione della percezione soggettiva. Laddove in Saussure la relazione tra signifiant e signifié è arbitraria, in Peirce la relazione tra segno (parola) e oggetto (significato) è mediata dall’interpretante, entità mentale che, all’interno di uno stesso soggetto, non risulta affatto arbitraria ma esperienziale. Il risultato di questa percezione del testo (nel caso del traduttore, del prototesto) è una concezione mentale, un pensiero o una serie di pensieri che, per il traduttore, stanno per il testo percepito. In altre parole, è l’idea che il traduttore si è fatto del testo letto. Partendo da questa idea, avviene la riformulazione del messaggio nella cultura ricevente, tenendo conto di residuo culturale2 e ridondanza3. (Osimo 2006: 7, neretto aggiunto)

2 «Nella teoria matematica della comunicazione, elemento del messaggio che non giunge a destinazione. Elemento della traduzione che, dopo avere elaborato la propria strategia, il traduttore decide di non tradurre all’interno del testo nella cultura ricevente perché risulta una delle sottodominanti meno prioritarie o risulta difficile o apparentemente impossibile da tradurre. Il residuo viene generalmente tradotto nel metatesto inteso come apparato paratestuale» (Osimo 2004: 222).

3 «Nella teoria della comunicazione, surplus di informazione inviato allo scopo di garantire l’arrivo a destinazione del messaggio nella sua interezza» (Osimo 2004: 223).

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L’interpretante è soggettivo perché soggettiva è l’esperienza di ciascuno di noi, come riconosce con estrema efficacia George Steiner.

Non ci sono due esseri umani che condividano un contesto associativo identico. Poiché tale contesto è formato dalla totalità dell’esistenza dell’individuo, poiché comprende non solo la somma della memoria e dell’esperienza personale, ma anche il bacino di quell’inconscio particolare, varia da persona a persona. Non esistono facsimili della sensibilità, né psichi gemelle. Tutte le forme e le notazioni del discorso, perciò, comportano un elemento latente o realizzato di specificità individuale. Sono, in parte, un idioletto. (Steiner: 178-179)

Cosa intende Peirce per «esperienza»? Peirce colloca l’esperienza nell’ambito del processo di acquisizione della conoscenza, che può essere costituito da tre differenti dinamiche.
La prima dinamica è l’istinto, che può presentare a sua volta tre caratteri distintivi: è conscia, è determinata verso un quasi-scopo, e sotto certi aspetti sfugge a qualsiasi controllo.

Descriptive Definition of a Human Instinct, as the term will here be used. An animal instinct is a natural disposition, or inborn determination of the individual’s Nature (his ‘nature’ being that within him which causes his behaviour to be such as it is), manifested by a certain unity of quasi- purpose in his behaviour. In man, at least, this behaviour is always conscious, and not purely spasmodic. More than that, unless he is under some extraordinary stress, the behaviour is always partially controlled by the deliberate exercise of imagination and reflexion; so much so that to the man himself his action appears to be entirely rational, so far is it from being merely sensori-motor. General analogy and many special phenomena warrant the presumption that the same thing is true of the lower animals, though they are undoubtedly far less reflective than men. Yet the adaptation of the behaviour to its quasi-purpose in some definite part overleaps all control … So then the three essential characters of instinctive conduct are that it is conscious, is determined to a quasi-purpose, and that in definite respects it escapes all control. C.P. 7, Science and Philosophy, Note n. 19.

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La seconda dinamica, plasmata dall’istinto, è – appunto – l’esperienza, luogo in cui le nuove conoscenze sono memorizzate dall’individuo in una sorta di memoria storica, che sta alla base della capacità di rischiare inferenze. Come si forma precisamente l’esperienza? Attraverso una serie di sorprese, di imprevisti nei quali un individuo si imbatte all’interno della realtà, che sono all’origine di ogni scoperta.

But precisely how does this action of experience take place? It takes place by a series of surprises. There is no need of going into details. At one time a ship is sailing along in the trades over a smooth sea, the navigator having no more positive expectation than that of the usual monotony of such a voyage, when suddenly she strikes upon a rock. The majority of discoveries, however, have been the result of experimentation. […] It is by surprises that experience teaches all she deigns to teach us.

C.P. 5, Book 1, Lectures on Pragmatism, n. 51

L’abitudine, terza e ultima dinamica del processo di acquisizione della conoscenza, è il luogo di deposito delle esperienze a partire dalle quali l’uomo è in grado di individuare una verità nuova. All’interno dell’abitudine, è possibile individuare diversi gradi di «forza», che variano dalla dissociazione completa all’associazione inseparabile, dalla prontezza all’azione all’eccitabilità, e presentano una diversa durata.

Habits have grades of strength varying from complete dissociation to inseparable association. These grades are mixtures of promptitude of action, say excitability and other ingredients not calling for separate examination here. The habit-change often consists in raising or lowering the strength of a habit. Habits also differ in their endurance (which is likewise a composite quality). But generally speaking, it may be said that the effects of habit- change last until time or some more definite cause produces new habit- changes. It naturally follows that repetitions of the actions that produce the changes increase the changes. […] There are, of course, other means than repetition of intensifying habit-changes. In particular, there is a peculiar kind of effort, which may be likened to an imperative command addressed to the future self. I suppose the psychologists would call it an act of auto- suggestion.

C.P. 5, Book 3, Chapter 1, A Survey of Pragmaticism, n. 477

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La triade periceiana dell’acquisizione della conoscenza trova una diretta applicazione al processo della lettura. Così la presenta Osimo:

Scopo istintivo della lettura è trovare il significato del testo. L’intuizione, che in questo processo è fondamentale, è quel quid che fa la differenza tra deduzione e abduzione. Permette di fare inferenze, congetture (provvisorie) che introducono conoscenze (ipotetiche) nuove, e costringe a controllarle. L’esperienza individuale, con il suo bagaglio di percezioni, anche se non sempre a livello del tutto consapevole, serve ad affrontare la decodifica, le inferenze sono basate sulla creatività, ma anche sulle esperienze acquisite. E il realismo delle ipotesi creative è tutto affidato all’esperienza. Quando un’inferenza si dimostra utile e produttiva, dà luogo a ripetizioni, che col tempo formano l’abitudine, generalizzazione dell’esperienza che agisce sinteticamente individuando regolarità e reagendovi in modo omogeneo. L’abitudine interpretativa guida il lettore che procede veloce finché non incontra uno scoglio, un fenomeno anomalo, un testo marcato, che attiva la modalità di decodifica lenta, analitica. Quando l’applicazione di un’abitudine interpretativa si rivela fallace, entra in gioco il terzo lato del “triangolo”, e l’esperienza nuova produce modifiche nell’abitudine acquisita. Ciò a sua volta ha effetto sulla percezione futura, e così via all’infinito.

Il traduttore si inserisce nel ragionamento, anche in questo caso, con un ruolo di primo piano. La sua esperienza di “leggente” e di “scrivente” è estesa perché è necessario – per ragioni anche di natura economica – che la lettura/scrittura possa procedere veloce e, nel contempo, arrestarsi o rallentare al momento giusto. (2004 a : 52-53)

Il processo traduttivo si conclude quindi nel rischio della scelta, compiuta sulla base di un’abduzione, ossia – come già detto – di un’inferenza logica che, sulla base di un evento, risale alla regola generale che spiega in modo verosimile tale evento.

Eco ci aiuta a chiarire questa dinamica:

Interpretare qualcosa come se fosse in un certo modo significa avanzare una ipotesi, perché il giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data […]. E deve essere un tipo di ipotesi molto avventuroso, perché dal particolare (da un Risultato) occorre inferire una

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Regola che non conosce ancora; e per trovare da qualche parte quella Regola occorre ipotizzare che quel Risultato sia un Caso di quella Regola da costruire. Kant non si è espresso in questi termini, certo, ma lo ha fatto il kantiano Peirce: è chiaro che il giudizio riflettente altro non è che un’abduzione. (Eco 1997: 74)

La scelta operata dal traduttore porta all’individuazione di un significato «primario».

But of this endless series of equivalent propositions there is one which my situation in time makes to be the practical one for me, and that one becomes for me the primary meaning.
C.P. 8, Reviews, Correspondence and Bibliography, Book 1, Reviews, Chapter 13, On Pragmatism, from a review of a book on cosmology, n. 195

Il significato «primario» non ha nulla a che vedere con la verità, ha a che vedere con la realtà. Nel corso di una traduzione il significato primario è quello che scelgo di attualizzare nel mio metatesto. Lo chiamiamo «primario» nel senso di «primario tra i diversi significati possibili», attualizzato in quel preciso momento e contesto contingente e soggetto a una ulteriore traduzione/interpretazione/ lettura. (Osimo 2002: 71)

3.3. Object

Concludo il percorso di definizione con il terzo vertice della triade: l’oggetto. L’oggetto, denominato da alcuni studiosi anche «referente» o denotatum (Jakobson), è l’elemento della realtà a cui rimanda il segno. L’oggetto può esistere a prescindere dal segno, attraverso il quale soltanto è conoscibile.

Come spiega Rivoltella, il concetto di oggetto è complesso: Peirce vi distingue due dimensioni che definisce «oggetto immediato» e «oggetto

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dinamico». L’oggetto dinamico è la «descrizione operativa di una classe di possibili esperienze» (Eco: 29): quando il comandante dice ai suoi soldati «Ri-poso!» – l’esempio è di Peirce – l’oggetto dinamico di quest’ordine comprende sia il desiderio del comandante che i suoi uomini assumano la posizione di riposo, sia l’azione dei soldati che obbedendo all’ordine si mettono in posizione di riposo. Più che una realtà «in carne e ossa» l’oggetto dinamico è dunque per Peirce «un’istruzione semantica» (Eco) che vincola il segno alla sua rappresentazione: l’oggetto dinamico evoca, cioè, un insieme di esperienze possibili in un determinato contesto culturale e sociale. Rispetto a questo primo tipo di oggetto, l’oggetto immediato è, invece, l’oggetto così come il segno lo rappresenta, cioè il «modo in cui l’oggetto dinamico è focalizzato» (Eco). La modalità di questa focalizzazione viene definita da Peirce ground: questo è ciò che può venire compreso e trasmesso di un dato oggetto sotto un certo profilo, ciò che dell’oggetto il segno seleziona. Dunque, l’oggetto immediato è il risultato della selezione che il segno compie all’interno dell’oggetto dinamico. (Rivoltella: 90)

In sintesi, l’oggetto immediato è l’idea su cui si è costruito il segno, ed è soggetto a cambiamenti. L’oggetto dinamico è il concetto reale a cui il segno rimanda.

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Osservazioni conclusive

Tento di analizzare alcuni dei numerosissimi aspetti dell’applicazione della teoria peirciana alla traduzione.
Il processo di significazione, la progressiva approssimazione che da un segno conduce a un significato passando da un interpretante (filtrato dalla mente del traduttore), è illuminante se applicato alla triade cultura emittente-cultura traducente-cultura ricevente del processo traduttivo.

Il processo mentale che da un testo nella cultura emittente producesse un testo nella cultura ricevente, senza attraversare una fase intermedia di trasformazione in materiale mentale poi riconvertito e riverbalizzato, non sarebbe traduzione testuale, ma creerebbe un prodotto di scarto di cui a volte si percepiscono le tracce in quello che viene chiamato «traduttese». (Osimo 2004 a : 95)

Riporto di seguito una tabella che dettaglia le fasi di tale processo:

Percezione

Una parola (segno) viene letta

Correlazione

Nella mente si sviluppa un interpretante che mette in relazione quel segno con un oggetto

Interpretazione

L’interpretante è una rappresentazione psichica che implica un’interpretazione, spesso aconscia, della relazione tra segno e oggetto

Inferenza

L’interpretazione aconscia è ipotetica e provvisoria (abduttiva)

Percezione

La lettura continua: altri segni

Evoluzione dell’interpretazione

Alla luce dell’interpretazione dei nuovi segni si evolvono gli interpretanti, e si modifica la prima interpretazione del primo segno, che non sarà mai stabile, ma sempre in evoluzione, alla luce delle nuove percezioni (esperienze)

(Osimo 2004 c : 34)

La semiosi illimitata è la dinamica più adeguata a spiegare l’atto traduttivo: una traduzione non può mai considerarsi finita, ma provvisoria e passibile di miglioramento (Osimo: 2000-2004).

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Il concetto di traducibilità, nell’ottica perceiana, assume una luce assai originale, dal momento che il senso di un atto di traduzione varia nel tempo, ed è condizionato dal contesto linguistico, culturale e storico in cui viene accolto. Dinda Gorlée si è occupata approfonditamente di questo aspetto, ponendosi domande che identificano vere e proprie sfide per il “mestiere” del traduttore: una traduzione ha una scadenza? come si determina la traducibilità di un testo? hanno senso parole come «fedele/infedele» riferite a una traduzione? Ecco le sue risposte:

Nulla è per sempre: tutti i segni e i sistemi segnici procedono da uno stato più caotico, sorprendente, paradossale ecc. e passano attraverso la traduzione verso uno stato più ordinato, prevedibile, razionalizzato […] Le opere originali sono, e spesso col tempo restano, autentiche, autonome, uniche, e quindi entità sostanzialmente insostituibili. Una traduzione, tuttavia non ha la stabilità di un’opera originale e diventa ossificata come testo-segno datato. […] Non si può sottolineare abbastanza che le traduzioni diventano obsolete perché il contesto culturale generale e specifico cambia continuamente, mettendo in discussione questioni come traducibilità versus intraducibilità, e fedeltà versus infedeltà, rendendole del tutto ridondanti. (Gorlée: 2000, 126)

Prima di lei, Anton Popovič, teorico slovacco della letteratura e della traduzione di fama mondiale, ha esortato ad abbandonare la visione impressionistica della traduzione, e afferma con chiarezza che «la contrapposizione empiricamente riconoscibile tra le cosiddette traduzioni “fedele” e “libera” non spiega le operazioni traduttive dal punto di vista funzionale, pertanto è inaccettabile». (2006: 22)

A conferma della natura semiotica dell’atto traduttivo, lo scienziato bulgaro Aleksandr Lûdskanov ha dato un contributo importante in un articolo dal titolo A semiotic approach to the theory of translation, pubblicato nel 1975 nella rivista Language Sciences. Negli anni ’70, a seguito della crescita esponenziale dell’attività traduttiva a livello mondiale, Lûdskanov, che

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lavorava presso l’Accademia di Scienze, viene incaricato di realizzare il “sogno” della traduzione automatica.
Dalla sua profonda riflessione emergono domande cruciali e più che mai attuali: la scienza della traduzione è possibile? Quale oggetto di studio ha? In quale area si colloca? Le sue risposte sono altrettanto perentorie:

Una scienza della traduzione è possibile. Questa scienza deve essere una teoria generale delle trasformazioni semiotiche. Il suo posto è nella semiotica, non nella linguistica, nella letteratura ecc. […] Le trasformazioni semiotiche sono sostituzioni dei segni che codificano un messaggio mediante segni di un altro codice, conservando (per quanto possibile data l’entropia) informazioni invarianti in relazione a un determinato sistema di riferimento. (Lûdskanov 1975: 7)

Popovič ha ripreso il pensiero di Lûdskanov confermando la necessità della definizione di una concezione generale del processo traduttivo, che vada al di là delle caratteristiche stilistiche delle diverse tipologie di testo e dei loro obiettivi:

Lûdskanov parla di una concezione unica per i diversi tipi di traduzione. Si riferisce alla traduzione di un qualsiasi messaggio da un codice a un altro, mentre i singoli tipi (“generi”, nella sua terminologia) di traduzione – testo sociopolitico, scientifico-tecnico, artistico – vengono considerati casi particolari del concetto generale di traduzione. (Popovič: 10)

Nelle ultime parole del suo articolo, Lûdskanov conferma che «qualsiasi traduzione richiede scelta e la libera scelta è creatività» (1975: 8). E aggiungo che la traduzione è sempre un’attività razionale anche quando ha come oggetto testi creativi.

Un’adeguata presa di coscienza di tutte le fasi del processo delle trasformazioni semiotiche renderebbe più consapevole e responsabile il lavoro del traduttore dalla fase iniziale – la percezione – fino all’ultima fase, quella che si può definire «critica della traduzione». Desidero accennare a questa disciplina – tanto interessante da meritare un

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approfondimento più adeguato in altra sede – in quanto essa è parte integrante dell’attività del traduttore, come spiega Osimo.

Le applicazioni del concetto di abduzione di Peirce alla critica della traduzione possono essere viste in questi termini: esiste un primo grado della ricostruzione abduttiva, la retroduzione, applicato alla critica letteraria (l’abduzione sull’autore, i tentativi di inferire la strategia narrativa sulla base del risultato, che è poi il testo letterario stesso); un secondo grado di abduzione è rappresentato dalla traduzione, operazione nella quale è necessario effettuare congetture tanto sull’autore (vedi il primo grado) quanto sul lettore del metatesto, per elaborare una strategia traduttiva che si sovrappone (e in taluni casi sostituisce) alla strategia narrativa del prototesto; il terzo grado o livello dell’abduzione applicata alla letteratura si vede all’opera nel caso della critica della traduzione, dove sulla base di un risultato di secondo grado (la traduzione di un ipotetico, ipotizzato prototesto) le congetture si spingono oltre che sull’autore (primo grado) e sul metatesto (secondo grado), anche sul traduttore e sulla sua strategia traduttiva (terzo grado). (Osimo 2004 b : 39-40)

A conclusione di queste brevi annotazioni, riporto un’affermazione di Popovič, già citato nel corso del contributo, che conferma la necessità di approfondire queste riflessioni: «La teoria difende il traduttore dal praticismo, dalle abitudini, dagli stereotipi creativi, dalle convenzioni. La riflessione teorica è d’impulso per chi ha smesso di crescere e si è fossilizzato» (2006: XXVIII).

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ILARIA SPREAFICO L’elaborazione psicologica della metafora: traduzione dell’articolo di Albert N. Katz Albert N. KATZ Psychological Studies in Metaphor Processing: Extensions to the Placement of Terms in Semantic Space

L’elaborazione psicologica della metafora: traduzione dell’articolo di Albert N. Katz

Albert N. KATZ

Psychological Studies in Metaphor Processing: Extensions to the Placement of Terms
in Semantic Space

ILARIA SPREAFICO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Inverno 2006

© Poetics Today, Duke University Press 1992 © Ilaria Spreafico per l’edizione italiana 2006

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L’elaborazione psicologica della metafora: traduzione dell’articolo di Albert N. Katz

Psychological Studies in Metaphor Processing: Extensions to the Placement of Terms in Semantic Space

ABSTRACT IN ITALIANO

Un’attenta analisi traduttologica ha permesso di individuare le caratteristiche del prototesto e di porre una base per la traduzione. Innanzitutto, sono stati riconosciuti dominante e lettore modello, elementi fondamentali dell’analisi traduttologica. Dopo aver individuato il tipo di registro e di linguaggio utilizzati dall’autore, si è infine passati alla traduzione del prototesto, apportando modifiche ove necessario, allo scopo di anteporre le esigenze della comprensione precisa. Si sono eseguiti diversi interventi: sono state spezzate delle frasi, alcuni elementi sono stati posposti, sono stati aggiunti verbi o avverbi e tagliate parole o parti di frase. I problemi di traducibilità legati ad alcuni termini e parole, sono stati invece affrontati consultando testi paralleli ed esperti del settore. Per quanto riguarda il residuo traduttivo, infine, sono stati individuati due casi interessanti, risolti lasciando gli enunciati nella lingua originale e aggiungendo una nota con la spiegazione del significato.

ENGLISH ABSTRACT

A careful translation-oriented analysis allowed the identification of the prototext characteristics and laid the basis for the translation. The pinpointing of dominant and model reader, two fundamental elements of translation analysis, was followed by the identification of the register type and language used by the author, and finally by the translation of the prototext, modifications being applied where necessary in order to give first priority to the need for clear and precise comprehension. Several solutions were used: in some cases the sentence was split, in others the order within the sentence was reversed, verbs or adverbs were added, and words or parts of sentences were eliminated. For the translation of particularly difficult terms and words, relevant texts and experts were consulted. Finally, as far as translation loss is concerned, two interesting cases were found, which were dealt with by leaving the sentence in the original language and by adding a note with an explanation of the meaning.

ABSTRACT IN HET NEDERLANDS

Een nauwgezette vertaalkundige analyse heeft het mogelijk gemaakt de kenmerken van de prototekst te kunnen ontdekken en een basis voor de vertaling te kunnen leggen. Ten eerste werden dominant en model-lezer herkend, die twee fundamentele elementen van de vertaalkundige analyse zijn. Ten tweede werden de soort register en de taal ontdekt die door de auteur worden gebruikt en was de vertaling van de prototekst uiteindelijk begonnen. Om de boodschap van de auteur duidelijk en precies door te geven, werden wijzigingen waar nodig aangebracht: soms is de zin gehakt, in andere gevallen is de volgorde van de zin veranderd, zijn werkwoorden of bijwoorden toegevoegd en woorden of zinsdelen geknipt. De problemen van vertaalbaarheid van enkele termen en woorden werden daarentegen aagepakt door het consulteren van parallele teksten en experten. Ten slotte, wat het vertaalresidu betreft, werden twee interessante gevallen gevonden die opgelost werden door het laten van de zin in de originele taal en het toevoegen van een voetnoot met een uitleg van de betekenis.

III

Sommario

Prefazione …………………………………………………………………………………………………………. 1

Analisi traduttologica ……………………………………………………………………………………… 1 Strategia traduttiva………………………………………………………………………………………….. 2 Residuo traduttivo ………………………………………………………………………………………….. 4

Traduzione con testo a fronte ………………………………………………………………………………. 6 References ………………………………………………………………………………………………………. 49 Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………. 53 Ringraziamenti ………………………………………………………………………………………………… 55

IV

Indice tavole e figure

Tavola 1 ………………………………………………………………………………………………………….. 20 Tavola 2 ………………………………………………………………………………………………………….. 20 Figura 1…………………………………………………………………………………………………………… 34 Tavola 3 ………………………………………………………………………………………………………….. 38

V

Prefazione

Come si evince dal titolo, il testo tradotto ha come argomento l’elaborazione della metafora osservata dal punto di vista psicologico. I modelli di elaborazione psicologica impongono ai teorici di postulare nella memoria permanente un modello di rappresentazione della conoscenza e del tipo di operazioni mentali che a essa possono essere applicati. L’articolo descrive tale modello in dettaglio, sottolineando l’importanza del riferimento alla natura dell’informazione nella memoria e ai processi che influiscono su questa rappresentazione, oltre che l’importanza della capacità dello stesso modello di generare previsioni sperimentabili. Il modello qui illustrato si basa sulla rappresentazione dei concetti nello spazio semantico. Vengono inoltre descritti test effettuati sullo stesso modello per illustrare la gamma di fenomeni sottoposti allo studio, come si riscontra nella letteratura psicologica, e quei settori teorici che più hanno bisogno di essere ulteriormente sviluppati.

Analisi traduttologica

Il testo in questione spazia dalla psicologia alla semiotica ed è perciò difficile collocarlo all’interno di una categoria specifica.

Questa interdisciplinarità emerge anche dal linguaggio utilizzato dall’autore: il testo è infatti caratterizzato dalla presenza sia di lessico appartenente alle discipline psicologiche, sia di terminologia più strettamente collegata al settore linguistico.

Sul piano sintattico abbiamo un registro a volte formale e a volte più colloquiale, ma anche chiaro e lineare con periodi generalmente non troppo lunghi e complessi, che si rendono necessari anche per la descrizione passo per passo di alcuni studi pratici eseguiti dall’autore e qui riportati come supporto alla propria tesi.

Noto anche la presenza di frequenti esempi e di tavole, di cui l’autore si avvale allo scopo di esemplificare ulteriormente le sue teorie e argomentare in modo più diretto e comprensibile. In ciò riconosco anche la dominante di questo di tipo di testo. Da

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segnalare, in proposito, anche la marcatezza dello stesso in termini di lessico settoriale, già accennata in precedenza, che lo rende molto tecnico e ne fa uno scritto rivolto più che altro agli specialisti dei settori toccati dallo studio.

Strategia traduttiva

Per quanto riguarda la strategia traduttiva, la premessa consiste nell’individuare il lettore modello e la dominante del testo, già accennati in precedenza. La strategia traduttiva sarà determinata in base a questi due elementi che mi permetteranno di avere una linea guida da seguire durante tutto il lavoro di traduzione del testo. Come indicato nell’analisi traduttologica, la dominante di questo testo consiste principalmente nel trasmettere il messaggio al lettore in modo chiaro e diretto e questo pensiero dovrà essere in primo piano durante la stesura di tutta la traduzione. Trattandosi però appunto di una traduzione e quindi di un tentativo di conciliare due lingue per natura diverse tra loro, si dovrà sempre guardare al proprio lavoro anche dal punto di vista della cultura ricevente e, in alcuni casi, si renderà necessario distaccarsi dalla costruzione dell’originale proprio allo scopo di rimanere coerenti con la dominante, che mette in primo piano le esigenze della comprensione precisa. Proprio a causa della struttura diversa dell’inglese e dell’italiano, in alcune occasioni, si è reso necessario invertire l’ordine dell’enuciato, come nel passo a pagina 27: «I would argue that concrete and abstract domains differ in their representation in semantic space […]». A una prima lettura avevo optato per la costruzione originale, ma poi mi sono subito resa conto che l’italiano, per essere chiaro ed efficace, richiedeva un cambiamento e ho deciso di tradurre con «Ritengo che la rappresentazione nello spazio semantico di domini concreti e astratti differisca […]».

In altri casi, sempre in nome della chiarezza, ho dovuto spezzare la frase, come nel caso di pagina 21: «As can also be seen, instance-specific semantic distance effects are not reliably related to analogical-reasoning ability, suggesting, as predicted, that the understanding of a metaphor depends predominately on the mapping of meaning at a domain (not an instance-specific) level». Mantenendo la struttura invariata in italiano, il significato della frase non sarebbe stato così facile da cogliere. Ho quindi deciso di inserire un punto dopo «analogical-reasoning ability» e di usare «ciò» come soggetto della nuova frase. Un’altra caratteristica del prototesto in generale e della proposizione

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appena esaminata, è il susseguirsi di diversi elementi aventi la funzione di aggettivi e facenti tutti riferimento a un unico sostantivo. Nel caso preso in esame la serie «instance-specific semantic distance effects» è stata tradotta con «effetti derivanti dalla distanza semantica tra i casi», optando quindi per una soluzione che, seppur non breve, risulta chiara e facilmente comprensibile. Un altro esempio interessante è quello di pagina 9: «A feature-overlap operator then compares the features lists […]». Anche in questo caso, per ragioni di chiarezza e di compatibilità con l’italiano, il metatesto si distanzia dal prototesto e il concetto espresso da «feature-overlap» è stato posposto, come si evince dalla traduzione: «In seguito, un operatore esamina le suddette liste per verificare la presenza di sovrapposizioni […]».

Un altro elemento che vorrei sottolineare sono i tempi verbali. In alcuni casi, ho infatti ritenuto utile apportare dei cambiamenti. Un esempio significativo è quello di pagina 45: «The model explicated here was based on the representation of concepts in semantic space». In italiano, in questo caso, ho preferito usare un presente, perché, se è vero che la spiegazione è già avvenuta, il verbo in realtà si riferisce al modello, che, come tale, è rimasto invariato e si basa tutt’oggi sulla rappresentazione dei concetti nello spazio semantico.

Talvolta, invece, le modifiche sintattiche apportate rispondevano all’esigenza di rendere l’italiano più scorrevole, tramite l’aggiunta di verbi o avverbi o il taglio di parole o parti di frase che in italiano risultavano superflue. Troviamo un paio di esempi a pagina 43 e 45: 1 – «We manipulated the nature of the echoic usage such that in half of the anecdotes it was consistent with the prior proposition and in the other half it was inconsistent with the prior proposition»; 2 – «A target sentence was judged more metaphoric when the context suggested the speaker’s intention to be an endorsement of a proposition, but more ironic when the context suggested the speaker’s intention to be a denial of the proposition’s truth-value». I casi sono stati così risolti: 1 – «[…] di modo che in metà degli aneddoti non corrispondesse alla proposizione precedente»; 2 – «[…] e più ironico quando sembrava che l’intenzione fosse quella di negarla».

Vorrei ora analizzare i problemi di traducibilità legati ad alcuni termini e parole. Per la traduzione mi sono avvalsa di testi paralleli che hanno costituito un valido aiuto per arrivare agli esatti traducenti italiani, ma in alcuni casi risalire al corrispondente italiano non è stato semplice. In tutto il testo ritornano spessissimo i termini «topic» e «vehicle». Inizialmente, dopo alcune ricerche che si erano concluse senza molto successo, avevo deciso di lasciare entrambi i termini in inglese. Nell’unico documento che ero riuscita a

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trovare, infatti, i due concetti erano più volte citati in lingua. Trattandosi però di un singolo documento, non potevo essere sicura che questo fosse l’uso più frequente, così ho deciso di consultare un esperto e ho scoperto che i due termini potevano essere rispettivamente tradotti con «tenore» e «veicolo». Inoltre, non avendo familiarità con questo argomento, non ero sicura di aver tradotto correttamente i termini «recognition problem», «context problem» e «computation problem» presenti a pagina 7 e a pagina 9. La stessa persona mi ha poi confermato che i corretti traducenti in italiano erano rispettivamente «problema del riconoscimento», «problema del contesto» e «problema del calcolo».

Un altro problema dato dalla differenza tra inglese e italiano è quello presente a pagina 33, dove si legge: «[…] participants seek informative, relevant information […]». L’autore usa i due aggettivi in coppia in modo sistematico e li applica anche a «information»; in italiano ho sentito il bisogno di evitare la ridondanza prodotta con l’accostamento di «informative» e «information». In questo caso, essendo gli aggettivi «informative» e «relevant» citati più volte dall’autore uno accanto all’altro come caratteristiche dell’informazione cercata nella metafora, non potevano essere cambiati; ho quindi sostituito il sostantivo al quale si riferiscono e nella traduzione a pagina 34 si legge: «[…] i partecipanti cercherebbero dati informativi e pertinenti […]».

Residuo traduttivo

Solitamente, in qualsiasi tipo di traduzione, sia interlinguistica che intralinguistica e intersemiotica, alcuni elementi del prototesto vengono involontariamente persi durante il processo e non sono quindi convogliati nel metatesto. Analizzando in particolare la comunicazione interlinguistica, notiamo che questo fenomeno è presente a diversi livelli: dalla decodifica del prototesto da parte del traduttore, alla ricodifica dello stesso nella cultura ricevente e, ancora, nella ridecodifica da parte della cultura ricevente. In questa sede vorrei soffermarmi su un paio di problemi da me riscontrati durante la fase intermedia del processo traduttivo, e cioè nella ricodifica del prototesto.

Il primo caso di residuo traduttivo è quello che si incontra a pagina 7, in cui l’autore usa come esempio le due frasi «all cars are lemons» e «all cats are beliefs». Mentre il secondo enunciato può essere tranquillamente tradotto in italiano, il primo, se tradotto, perderebbe il suo significato originale. Nella cultura di partenza, infatti, non ha un

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significato letterale, ma figurato, che non trova corrispondenza nella cultura di arrivo. La parola inglese «lemon» ha acquisito nel tempo una connotazione negativa e, attualmente, può essere usata per suggerire che una determinata cosa è difettosa, deludente o di bassa qualità, specialmente nell’inglese americano. Dal 1970, la parola «lemon» è entrata con questa accezione anche nel linguaggio economico, a seguito del trattato del premio Nobel americano in economia George Akerlof, intitolato The Market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism (Il mercato dei limoni), in cui con «lemons» si indicano, appunto, auto con difetti nascosti. La ragione di questa nuova connotazione negativa deriva probabilmente dal fatto che in inglese, e in generale nella cultura occidentale, la parola «sour» (e cioè aspro, acido), comunemente usata per descrivere il sapore del limone, viene frequentemente associata alla parola «bad» (cattivo, negativo), mentre «sweet» (dolce) viene associato a «good» (buono, positivo). Quelli che seguono sono soltanto alcuni esempi: «a sour and disillusioned woman» (una donna acida e insoddisfatta), «a sour smile» (un sorriso amaro), «to end on a sour note» (finire con una nota stonata), «sour grapes» (indica qualcosa di disprezzato perché non si può ottenere). Ciò che può apparire scontato nelle culture occidentali, non lo è affatto in quelle orientali. In Giappone, infatti, la parola «amai» (sweet) viene associata a «bad» e si dice che un ragazzo è dolce intendendo che è immaturo o viziato, o che un insegnante è dolce nel valutare intendendo che mette voti alti con troppa facilità. Di conseguenza, nella traduzione ho deciso di lasciare l’enunciato in inglese e di aggiungere una nota per spiegarne il significato.

Il secondo caso di residuo lo troviamo invece a pagina 39, in cui l’autore cita il proverbio «an empty sack cannot stand upright», che ho scelto di lasciare in inglese. Nonostante esista un corrispondente italiano («un sacco vuoto non sta in piedi»), ho optato per la versione originale in quanto l’interpretazione di questo proverbio varia molto da persona a persona, soprattutto nel suo significato più astratto. In italiano viene spesso associato al cibo e il significato attribuitogli è il seguente: se non si mangia, non si ha l’energia per fare nulla. Le interpretazioni più astratte si avvicinano invece a quella data dall’autore, ma spesso non coincidono. Anche in inglese troviamo sia casi in cui il proverbio viene associato al cibo, sia casi in cui gli viene attribuito un significato più astratto, ma, essendoci troppe sfumature diverse nelle varie interpretazioni, ho preferito lasciare la versione originale e aggiungere una nota.

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Traduzione con testo a fronte

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[…]

Psychological Studies in Metaphor Processing: Extensions to the Placement of Terms in Semantic Space

Albert N. Katz Psychology, Western Ontario

The psychological investigation of metaphor can be conceptualized as encompassing three separable (but overlapping) areas of cognitive research. The first can be labeled the “recognition problem”; the question addressed here is how we recognize an utterance as figurative (and not as literally true or a sentential anomaly). In other words, why do we treat such a sentence as “all cars are lemons” differently than such a sentence as “all cats are beliefs” ?

The second area can be labeled the “context problem.” The focus here is not on the metaphor itself, but on the extended context in which the metaphor is embedded. The assumption of researchers working in this tradition is that pragmatic principles (activated by context) determine whether or not a given utterance is figurative and, even if figurative, determine the nature of the non-literal interpretation. Thus a statement such as

all men are animals (1)

will be interpreted literally if embedded in the context of a biology class, metaphorically if presented by one student to her roommate after an unhappy relationship, and, perhaps, as ironic if said by the same student about a man whom she thinks too effeminate. How the sentence is used becomes the prime focus of study.

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[…]

Studi di psicologia sull’elaborazione della metafora: approfondimenti sulla collocazione dei termini nello spazio semantico

Albert N. Katz Psicologia, Ontario occidentale

L’indagine psicologica sulla metafora può essere concettualizzata come un’indagine che abbraccia tre aree di ricerca cognitiva diverse (ma sovrapposte). La prima può essere chiamata «problema del riconoscimento»; la domanda che ci si pone è in base a quale meccanismo riconosciamo un enunciato come figurato (e non come letterale o come anomalia sintattica). In altre parole, perché trattiamo la frase «all cars are lemons»1 diversamente dalla frase «tutti i gatti sono credenze»?

La seconda area può essere identificata come «problema del contesto». In questo caso l’attenzione non è concentrata sulla metafora in se stessa, ma sul contesto in cui questa si inserisce. L’assunto dei ricercatori che operano secondo questa tradizione è che i principi pragmatici (attivati dal contesto) determinano se un certo enunciato è figurato e, anche in tal caso, determinano la natura dell’interpretazione non letterale. Quindi un enunciato tipo

tutti gli uomini sono animali (1)

sarà interpretato letteralmente se inserito nel contesto di una lezione di biologia, metaforicamente se riferito da una studentessa alla sua compagna di stanza a seguito di una relazione infelice e, forse, ironicamente se pronunciato dalla stessa studentessa in riferimento a un uomo da lei ritenuto troppo effeminato. Il modo in cui l’enunciato viene utilizzato è il punto principale su cui si concentra lo studio.

1 Nella lingua inglese la parola «lemon» può assumere una connotazione negativa e indicare qualcosa di difettoso, deludente o di bassa qualità. Per questo, invece di tradurre letteralmente con «tutte le auto sono limoni» si è optato per la versione originale, che ha quindi un significato figurato. [N.d.t.]

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The third area can be labeled the “computation problem.” Even if we recognize that a figurative meaning is intended by a speaker, we must still compute the intended meaning. That is, even if we recognized that the intent of the statement relating cars to lemons or men to animals is to comment on a characteristic of cars or men, how do we represent such concepts as “car” and “lemon” so that the nature of the relationship can be specified? It is this area of research that has dominated the interest of cognitive scientists and that will be my focus here. […]

The Representation of Concepts and Metaphor Computation

[…] The traditional approach to this question taken by cognitive scientists has been to assume what Alien Newell (1980) has called the “physical symbol system,” namely, that the mind consists of symbols that can stand for objects and events in the world and that, when combined in order, can produce new symbol systems. Consequently, to understand metaphor comprehension (and any other intelligent activity) one has to have a model of the representation of knowledge in permanent memory and of the type of mental operations that one can apply to this knowledge. Early models of this sort assumed the representation of each concept to consist of a set of features and the problem of metaphor to be one of identifying the features shared by different concepts (see Malgady and Johnson 1980). Consider, for instance, the sentence

life is a jail. (2)

According to the original models, comprehension proceeds with the activation of the critical concepts (i.e., the topic, “life,” and the vehicle, “jail”) and their respective feature lists (jail = building, confinement, etc.).
A feature-overlap operator then compares the feature lists, and comprehension is based on identifying shared features.

There are many problems associated with models of this sort. For instance, such a process would be insensitive to the commonplace intuition that metaphor is often asymmetrical with respect to meaning: reversal of the critical concepts produces a

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La terza area può essere definita come «problema del calcolo». Anche se abbiamo stabilito che il parlante attribuisce all’enunciato un significato figurato, dobbiamo ancora elaborare tale significato. In altre parole, anche se stabiliamo che l’obiettivo di un enunciato che correla le auto ai limoni o gli uomini agli animali è di commentare una caratteristica delle auto o degli uomini, come rappresentiamo concetti come quelli di «auto» e «limone» in modo che possa essere specificata la natura della relazione? Questa è l’area di ricerca che ha dominato l’interesse degli scienziati cognitivi e che sarà al centro del mio studio. […]

La rappresentazione dei concetti e il calcolo della metafora

[…] Il tradizionale approccio degli scienziati cognitivi a questo problema è stato quello di assumere quello che Allen Newell (1980) ha chiamato il «sistema dei simboli fisici», e cioè, che la mente consiste di simboli che possono rappresentare oggetti ed eventi del mondo e che, se sistemati in un ordine, possono produrre nuovi sistemi simbolici. Di conseguenza, per capire come avviene la comprensione della metafora (e qualsiasi altra attività intelligente) è necessario disporre nella memoria permanente di un modello di rappresentazione della conoscenza e del tipo di operazioni mentali che possono esservi applicate. Secondo i primi modelli di questo genere, la rappresentazione di ogni concetto consisteva in una serie di caratteristiche e il problema della metafora era quello di identificare le caratteristiche condivise da concetti differenti (vedi Malgady e Johnson 1980). Si consideri, per esempio, l’enunciato

la vita è una prigione. (2)

Secondo i modelli originali, la comprensione deriva dall’attivazione dei concetti critici (cioè, il tenore, «vita», e il veicolo, «prigione») e della loro rispettiva lista di caratteristiche (prigione = edificio, isolamento, ecc.). In seguito, un operatore esamina le suddette liste per verificare la presenza di sovrapposizioni e la comprensione è basata sull’identificazione delle caratteristiche condivise.

Ci sono molti problemi connessi a modelli di questo genere. Ad esempio, un processo simile sarebbe insensibile alla comune intuizione secondo cui, per quanto riguarda il significato, la metafora è spesso asimmetrica: un’inversione dei concetti critici produce un cambiamento di significato o persino un’anomalia. Si confronti, ad esempio,

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change in meaning or even an anomaly. Compare, for instance, sentence (2) with the reaction produced by the reversal of topic and vehicle below:

jail is a life. (3)

More recent versions of such overlap models have attempted to address the asymmetry problem. The most notable model, introduced by Andrew Ortony (1979), assumes that one has to consider both shared features and distinctive features. Thus, in the example above, “is bounded” could be a feature shared by “jail” and “life,” whereas other features would be unique to one of the concepts (e.g., “has bars” could be a feature of “jail” but not of “life”). In Ortony’s model the common feature is normalized relative to the vehicle feature set. That is, the similarity between topic and vehicle is a function of the salience of the shared features minus the salience of the distinctive features. Imbalance is said to occur when a common feature is of high saliency to the vehicle but of low saliency to the topic. Ortony argued that imbalance is what leads to a statement’s being recognized as a metaphor. Moreover, imbalance suggests a processing model in which (a) both common and distinctive characteristics of the juxtaposed terms are processed, and (b) comprehension is guided by the vehicle. […] In terms of the psychological literature, normalizing with respect to the vehicle is a mechanism which allows for the asymmetry produced by reversing topic and vehicle (see Katz 1982 for some empirical support).

Ortony’s approach is not without its own weaknesses. For one thing, he fails to make distinctions among different types of features. Consider a concept like “whale”: Some of the salient features associated with this concept will be true of a larger conceptual domain, of which this concept is a good example. Thus “whale” is a prototypical example of such domains as “large,” “aquatic,” and “mammals/animals.” Other salient features are more specific to the concept itself: “is endangered,” “has blubber,” and “eats plankton.” […] I would argue, consequently, that a viable representational model of metaphor should explicitly mark the distinction between higher-order, domain-level and lower-order, instance-specific characteristics of the concepts that are related in metaphor. […]

A second problem with the Ortony approach, and with all feature-matching approaches, is that the understanding of metaphor is assumed to depend on finding a

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l’enunciato (2) con la reazione prodotta dall’inversione di tenore e veicolo qui riportata:

la prigione è una vita. (3)

In versioni più recenti di tali modelli di sovrapposizione ci si è posti l’obiettivo di affrontare il problema dell’asimmetria. Il modello più importante, introdotto da Andrew Ortony (1979), assume che si debbano tenere in considerazione sia le caratteristiche condivise che quelle distintive. Quindi, nell’esempio sopra riportato, «è limitata» potrebbe essere una caratteristica condivisa da entrambi i concetti di «prigione» e «vita», mentre altre sarebbero proprie di uno solo dei concetti (per esempio, «ha le sbarre» potrebbe essere una caratteristica di «prigione», ma non di «vita»). Nel modello di Ortony, la caratteristica comune è normalizzata in relazione all’insieme di caratteristiche del veicolo. Ciò significa che la similarità tra tenore e veicolo è una funzione della salienza delle caratteristiche condivise meno la salienza di quelle distintive. Si parla di sbilanciamento quando una caratteristica comune è di salienza elevata per il veicolo, ma di bassa salienza per il tenore. Ortony sostiene che lo sbilanciamento è ciò che porta al riconoscimento di un enunciato come metaforico. Inoltre, lo sbilanciamento suggerisce un modello di elaborazione in cui (a) vengono esaminate sia le caratteristiche comuni che quelle distintive dei due termini e (b) la comprensione è guidata dal veicolo. […] Secondo la letteratura psicologica, la normalizzazione in relazione al veicolo è un meccanismo che tiene conto dell’asimmetria prodotta dall’inversione di tenore e veicolo (vedi Katz 1982 per supporto empirico).

Ma l’approccio di Ortony ha i suoi punti deboli. Innanzitutto, non fa distinzioni tra i diversi tipi di caratteristiche. Si consideri un concetto come «balena»: alcune delle caratteristiche salienti associate a questo concetto saranno valide per un più ampio dominio concettuale, del quale il concetto in questione costituisce un buon esempio. Quindi, «balena» è un esempio prototipo di domini quali «grande», «acquatico» e «mammiferi/animali». Altre caratteristiche salienti riguardano il concetto in modo più specifico: «è in pericolo», «è dotata di grasso», e «si nutre di plancton». […] Di conseguenza, ritengo che un valido modello rappresentativo della metafora debba evidenziare nettamente la distinzione tra livello superiore o dominiospecifico e inferiore o casospecifico dei concetti messi in relazione nella metafora. […]

Un altro problema presentato dall’approccio di Ortony e da tutti quelli basati sul confronto delle caratteristiche consiste nel fatto che la comprensione della metafora è

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feature (or set of features) already present in the representation of the topic, albeit one that might be of low salience to the topic. In contrast, one could argue that in many cases metaphoric understanding is creative, with the features of importance being emergent (see, e.g., Camac and Glucksberg 1984). […]

I favor a solution to the problems of domain/instance separation and of feature attribution that assumes a specific form of representation. First, I favor the notion that concepts are represented as entities in “semantic space.” This space is multidimensional and much like Euclidean space, with the dimensions, or locational axes, being features. Concepts are thus represented as “points” in this space. […] Second, and in line with the arguments that I made above, I favor the notion that semantic space is separable into two matrices, one for instances (defined by instance-specific features) and one for the higher-order domains engaged by the instances (and defined by domain-relevant features). Thus, any two concepts can differ in terms of how “similar” they are to one another at either an instance-specific level or a domain-relevant level. […]

My solution also assumes a specific set of processing operators. In essence these operators work to map information across semantic space, an approach favored by computational linguists such as Gilles Fauconnier (1990) and instantiated in a cognitive model by Roger Tourangeau and Robert Sternberg (1981). The basic processing as- sumption of this model is that, when a metaphor is encountered, the concepts first trigger their respective higher-order domains. This assumption is empirically driven by the type of data (discussed above) that suggest domain-level knowledge to be automatically engaged on encountering a metaphor and to guide further processing. These activated domains then dictate which specific instance dimensions become active. The location of the vehicle in domain space is then computed, and an analog to it is mapped in the topic-domain space. Put simply, the model demonstrates that metaphor processing works by mapping vehicle and topic in domain space, then making an infer- ence about instance-specific relationships from this mapping. Thus, if presented with

the lion is the king of animals, (4)

according to the model, “lion” and “king” would be located in domain-relevant semantic space by figuring out the relationship of “king” to a higher-order domain (e.g., “social

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connessa all’individuazione di una caratteristica (o un insieme di queste) già presente nella rappresentazione del tenore, anche se di bassa salienza per lo stesso. Al contrario, si potrebbe obiettare che in molti casi la comprensione della metafora è creativa e che le caratteristiche più importanti sono in primo piano (vedi, per esempio, Camac e Glucksberg 1984). […]

Personalmente sono a favore di una soluzione ai problemi della separazione dominio/caso e di attribuzione delle caratteristiche che assuma una forma specifica di rappresentazione. Innanzitutto, condivido l’idea secondo la quale i concetti sono rappresentati come entità nello «spazio semantico». Questo spazio è pluridimensionale e molto simile allo spazio euclideo. Qui, le caratteristiche sono rappresentate sugli assi e i concetti come «punti» nello spazio. […] In secondo luogo, e in linea con le precedenti argomentazioni, condivido la teoria in base alla quale lo spazio semantico è divisibile in due matrici, una per i casi (definita dalle caratteristiche casospecifiche) e una per i domini di ordine superiore attivati dai casi (e definita da caratteristiche dominiospecifiche). Quindi, due concetti qualsiasi possono differire per quanto riguarda la loro “similarità” sia a livello di caso specifico che a livello di dominio. […]

La mia soluzione prevede anche una serie specifica di operatori per l’elaborazione. In sostanza, questi operatori lavorano per mappare informazioni all’interno dello spazio semantico, approccio condiviso da linguisti computazionali come Gilles Fauconnier (1990) e rappresentato in un modello cognitivo da Roger Tourangeau e Robert Sternberg (1981). L’assunto di elaborazione fondamentale di questo modello è che, di fronte a una metafora, i concetti dapprima richiamano i domini superiori. Questo assunto deriva per via empirica da quei dati (discussi sopra) che suggeriscono che, di fronte a una metafora, la conoscenza a livello di dominio viene attivata automaticamente e guida l’ulteriore elaborazione. I domini attivati stabiliscono poi quali aree del caso specifico debbano essere attivate a loro volta. A quel punto, viene effettuata la collocazione del veicolo all’interno del dominio e un elemento analogo viene mappato nell’area del dominio del tenore. In breve, il modello dimostra che l’elaborazione della metafora avviene attraverso la mappatura di veicolo e tenore all’interno del dominio e una successiva inferenza sulle relazioni all’interno del caso specifico, derivanti da tale mappatura. Quindi, secondo il modello, di fronte all’enunciato

il leone è il re degli animali,

(4)

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status/occupation”). After inferring the dimensions of this higher-order domain (e.g., “rank”), one then maps that solution onto the animal domain. In essence, comprehension occurs when one figures out the analogy LIONS ARE TO ANIMALS as KINGS ARE TO RANK IN SOCIAL STATUS. It should be noted that this process allows for feature attribution, since one could apply dimensions to an instance that had not been previously associated with the concept. […]

Semantic Space and the Comprehension of Metaphor

A standard experimental approach to the testing of any cognitive model of metaphor is to manipulate the conditions that the model claims should influence performance and then to observe whether the predicted shifts in performance occur. For instance, the basic feature-overlap model was tested by varying the conceptual similarity of the terms that make up the topic and vehicle of a metaphor (see, e.g., Malgady and Johnson 1980), and Ortony’s imbalance model has been tested by varying the semantic features’ degree of salience (Katz 1982; Ortony, Vondruska, Foss, and Jones 1985). The domain- interactional model favored here also leads to predictive manipulations. First, the easier it is to identify and map the relevant dimensions, the easier it will be to understand the point of a metaphor. This should occur the closer (more similar) the concepts are to one another in either domain-relevant or instance-specific space. Tourangeau and Sternberg (1982) claim that the degree to which we find a metaphor apt, or aesthetically pleasing, will be inversely related to domain-relevant distance. That is, they explicitly predict that the identification of similarity between seemingly incongruous terms creates a pleasurable sensation. Thus, a second prediction is that a metaphor such as

Saddam Hussein is a praying mantis (5)

will be experienced as a better metaphor than
Saddam Hussein is a Genghis Khan (6)

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«leone» e «re» verrebbero collocati nello spazio semantico dominiospecifico dopo aver individuato la relazione di «re» nei confronti di un dominio di ordine superiore (per esempio «status sociale/occupazione»). Dopo aver inferito le dimensioni di tale dominio superiore (per esempio «rango»), la soluzione viene mappata sul dominio animale. In poche parole, la comprensione avviene quando si individua l’analogia I LEONI STANNO AGLI ANIMALI COME I RE STANNO ALLO STATUS SOCIALE. Si noti che questo processo permette l’attribuzione di caratteristiche, poiché si possono applicare nuove dimensioni a un caso che non era stato precedentemente associato a un determinato concetto. […]

Lo spazio semantico e la comprensione della metafora

Un comune approccio sperimentale per il test di qualsiasi modello cognitivo della metafora, consiste nel manipolare le condizioni che secondo il modello influenzerebbero la performance e, successivamente, nell’osservare se i cambiamenti previsti avvengano. Per esempio, il modello di base di sovrapposizione delle caratteristiche è stato testato variando la similarità concettuale dei termini che costituiscono il tenore e il veicolo di una metafora (vedi, ad esempio, Malgady e Johnson 1980) e il modello di sbilanciamento di Ortony è stato testato variando il grado di salienza delle caratteristiche semantiche (Katz 1982; Ortony, Vondruska, Foss e Jones 1985). Il modello del dominio interazionale prescelto permette anche manipolazioni predittive. Innanzitutto, più è facile identificare e mappare le dimensioni del caso, più sarà facile comprendere il senso di una metafora. Ciò dovrebbe accadere in misura proporzionale a quanto i concetti sono simili tra loro nello spazio dominiospecifico o in quello casospecifico. Tourangeau e Sternberg (1982) sostengono che il grado di adeguatezza o di gradevolezza estetica di una metafora sia inversamente proporzionale alla distanza tra i domini. In altri parole, predicono esplicitamente che l’individuazione di similarità tra parole apparentemente incongrue crea una sensazione piacevole. Di conseguenza, una seconda previsione è che una metafora come

Saddam Hussein è una mantide religiosa (5) sarà percepita come migliore rispetto alla metafora

Saddam Hussein è un Genghis Khan

(6)

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in part because the domains of insects and world leaders are more dissimilar than are the domains of world leaders and historical figures. Presumably, these two predictions could be tested by presenting metaphors in which the topic and vehicle differ from one another on domain-relevant and on instance-specific dimensions and obtaining ratings of comprehension and metaphor goodness, as has been done in the past (see Katz, Paivio, Marschark, and Clark 1988). A third prediction follows from the mapping function: Recall that the model assumes metaphor to be comprehended in part by analogical reasoning. If this assumption is true, then one would expect that the ease with which a person understands and appreciates a metaphor will vary according to that person’s skill in analogical reasoning. Highly skilled reasoners should find it easier to map across distant (dissimilar) domains, leading to increased understanding of metaphors of that type and the resultant pleasurable reaction. In principle, there is no reason to expect differences in analogical-reasoning skill to be systematically related to instance-specific distance.

Initial testing of the model was quite encouraging (cf. Tourangeau and Sternberg 1981). Building on this initial work, Lana Trick and I tested the model using statistical techniques that were not available to the earlier researchers (see Trick and Katz 1986). […] The technique permitted us to isolate dimensions which defined higher-order domains and to separate dimensions which cut across domain distinctions and, hence, were more instance specific. Using all possible combinations, we then placed the concepts into the form of a proportional metaphor: “X is a Y of domain X,” an example of which would be “the Rolls-Royce is the falcon of cars.” […] These items were presented to over 125 students, who were asked to rate each metaphor along comprehensibility and aptness dimensions. […] (These data are displayed in Table 1 [adapted from Trick and Katz 1986: 200].) […]

The data generally support the predictions. Metaphors in which the topics and vehicles come from dissimilar domains are preferred over metaphors with topics and vehicles from more similar domains. When we look at distance on instance-specific dimensions that cut across domain differences, such as elegance, we get a different picture: concepts that are dissimilar in terms of these characteristics are liked less. Thus the second prediction is supported. […]

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in parte perché il dominio degli insetti e quello dei leader del mondo sono più distanti tra loro rispetto al dominio dei leader del mondo e quello dei personaggi storici. Presumibilmente, queste due previsioni potrebbero essere testate presentando metafore in cui il tenore e il veicolo differiscono l’uno dall’altro sia per le dimensioni dominiospecifiche, sia per quelle casospecifiche e facendone valutare la comprensibilità e la bontà, come è stato fatto in passato (vedi Katz, Paivio, Marschark e Clark 1988). Una terza previsione deriva dalla mappatura: ricordiamo che il modello prevede che la metafora venga compresa in parte attraverso il ragionamento analogico. Se questo assunto è vero, ci si potrebbe aspettare che la facilità con cui una persona comprende e apprezza una metafora, cambi in rapporto alla capacità di ragionamento analogico della persona stessa. Gli individui più dotati in termini di capacità di ragionamento dovrebbero riuscire a mappare più facilmente all’interno di domini distanti (dissimili), riuscendo quindi a comprendere meglio tali metafore e traendone, di conseguenza, una sensazione piacevole. In teoria, non c’è ragione di pensare che le differenze a livello di ragionamento analogico siano sistematicamente connesse alla distanza tra i casi specifici.

I test iniziali sul modello sono stati piuttosto incoraggianti (cfr. Tourangeau e Sternberg 1981). Partendo da questo lavoro iniziale, io e Lana Trick abbiamo testato il modello utilizzando tecniche statistiche che non erano a disposizione dei ricercatori precedenti (vedi Trick e Katz 1986). […] La tecnica ci ha permesso di isolare le dimensioni che definivano domini di ordine superiore e di separare quelle trasversali rispetto alle distinzioni di dominio e, di conseguenza, più casospecifiche. Usando tutte le combinazioni possibili, abbiamo poi collocato i concetti in una metafora proporzionale: «X è una Y del dominio X», di cui un esempio sarebbe «la Rolls-Royce è il falco delle auto». […] Le metafore sono state sottoposte a più di 125 studenti a cui è stato chiesto di esprimere un voto per ognuna di esse in base a comprensibilità e adeguatezza. […] (Questi dati sono indicati nella Tavola 1 [adattata da Trick e Katz 1986: 200].) […]

Generalmente i dati confermano le previsioni. Le metafore in cui il tenore e il veicolo appartengono a domini dissimili sono preferite a quelle in cui questi provengono da domini simili. Per quanto riguarda, invece, la distanza tra le dimensioni casospecifiche trasversali rispetto alle distinzioni di dominio, come l’eleganza, le cose stanno diversamente: in questo caso, i concetti più dissimili vengono meno apprezzati. La seconda previsione è quindi confermata. […]

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Table 1 Partial Correlations Between Metaphor Ratings and Semantic Distance V ariables

Metaphor Ratings

Comprehension scale

Comprehensibility scale

Interpretation ease scale

Appreciation scales

Aptness scale Liking scale

Between-Domain Distancea

.50 .42

.42 .45

Within-Domain Distanceb

-.21 -.24

-.61 -.59

a. Effects partialed out: familiarity; within-domain distance. b. Effects partialed out: familiarity; between-domain distance.

The factor-analytic procedure that we employed also allowed for a direct test of the third prediction: namely, that individual differences in analogical-reasoning skill should be related to differences in the representation of concepts in semantic space and to differences in both comprehension and judgments about a metaphor’s aptness. […] (For the relevant data, see Table 2 [Table 4 in Trick and Katz 1986].)

Table 2 Aptitude Treatment Analysis: Partial Correlations between Aptitude Test and Metaphor Ratings/Semantic Distance Data

Word Meaning Scale (Iowa)

Between-domain distance Comprehension scales

Verbal Reasoning Subtest (DAT)

Comprehensibility scale

Interpretation ease scale Appreciation scales

Aptness scale

Liking scale Within-domain distance

Comprehension scales Comprehensibility scale Interpretation ease scale

Appreciation scales Aptness scale Liking scale

.21** .23***

.17* .33****

.05 .01

-.21* -.07

-.04 -.06

.11 .04

-.01 -.04

-.07 .05

Note: DAT scores have the effects of Iowa vocabulary partialed out; similarly, Iowa scores are equated for differences on DAT ability.
*p<.05. **p<.01. ***p<.005. ****p<.001.

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Tavola 1 Correlazioni parziali tra valutazioni sulla metafora e variabili della distanza semantica

Metaphor Ratings

Comprehension scale

Comprehensibility scale

Interpretation ease scale

Appreciation scales

Aptness scale Liking scale

Between-Domain Distancea

.50 .42

.42 .45

Within-Domain Distanceb

-.21 -.24

-.61 -.59

a. Effetti esclusi: familiarità; distanza intradominio. b. Effetti esclusi: familiarità; distanza interdominio.

La procedura fattoriale analitica impiegata ci ha inoltre permesso di testare direttamente anche la terza previsione: e cioè, che le differenze individuali per quanto riguarda la capacità di ragionamento analogico dovrebbero essere connesse alle differenze nella rappresentazione dei concetti nello spazio semantico e a quelle di comprensione e di giudizio riguardo all’adeguatezza di una metafora. […] (Per i relativi dati si veda la Tavola 2 [Tavola 4 in Trick e Katz 1986].)

Tavola 2 Analisi attitudinale: correlazione parziale tra test sull’adeguatezza e valutazioni sulla metafora/distanza semantica

Word Meaning Scale (Iowa)

Between-domain distance Comprehension scales

Verbal Reasoning Subtest (DAT)

Comprehensibility scale

Interpretation ease scale Appreciation scales

Aptness scale

Liking scale Within-domain distance

Comprehension scales Comprehensibility scale Interpretation ease scale

Appreciation scales Aptness scale Liking scale

.21** .23***

.17* .33****

.05 .01

-.21* -.07

-.04 -.06

.11 .04

-.01 -.04

-.07 .05

Si noti che: gli effetti della comprensione verbale (test Iowa) sono stati esclusi dai risultati DAT; analogamente, i risultati Iowa sono stati corretti in base all’abilità DAT.
*p<.05. **p<.01. ***p<.005. ****p<.001.

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As can be clearly seen, individuals who are skilled in analogical reasoning tend to be more responsive to domain-relevant semantic distance; such individuals are more likely to comprehend and appreciate metaphors in which the topic and vehicle come from distant domains than are less skillful participants. […] As can also be seen, instance- specific semantic distance effects are not reliably related to analogical-reasoning ability, suggesting, as predicted, that the understanding of a metaphor depends predominately on the mapping of meaning at a domain (not an instance-specific) level.

Semantic Space and the Production of Metaphor

One might argue that the same cognitive mechanisms would be involved in both the comprehension and the creation of metaphors. […] it seems likely that comprehension and production cannot be completely independent of one another: When one produces a sentence, one must be assuming that the sentence will be understood by the target audience. From this perspective, one would produce a sentence to serve some communication function and would construct the sentence so as to maximize the communication function.

[…] Eva Feder-Kittay (1982) makes the point that, in metaphoric speech, diagnosticity is achieved by choosing a vehicle which emphasizes the dissimilarities from the topic in order to highlight the few commonalities. From the perspective of semantic space, this suggests that one would choose as the vehicle of a metaphor an instance that was moderately distant from the topic: a vehicle that was too semantically close to the topic would have too few dissimilarities to be diagnostic, while one that was too distant would have too few similarities to be comprehensible. Based on the comprehension data, one might further speculate that the vehicle would be moderately distant in terms of domain-relevant factors and perhaps not so distant in terms of instance-specific factors. Since finding an appropriate vehicle in a somewhat distant region of semantic space involves perceiving similarity in the presence of dissimilarity, one might expect that, as with comprehension, differences in analogical-reasoning ability would influence the choice of vehicle used to make a metaphor.

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Come si può facilmente osservare, gli individui più dotati in termini di ragionamento analogico tendono ad essere più sensibili alla distanza semantica tra i domini; questi individui hanno più probabilità di comprendere e apprezzare metafore in cui il tenore e il veicolo provengono da domini distanti rispetto a partecipanti meno dotati. […] Si noti inoltre che non è provato che gli effetti derivanti dalla distanza semantica tra i casi siano connessi all’abilità di ragionamento analogico. Ciò suggerisce, come previsto, che la comprensione della metafora dipende soprattutto dalla mappatura del significato a livello di dominio (e non di caso specifico).

Lo spazio semantico e la produzione della metafora

Si potrebbe sostenere che lo stesso meccanismo cognitivo sia coinvolto sia nella comprensione che nella creazione delle metafore. […] Sembrerebbe probabile che comprensione e produzione delle metafore non siano completamente indipendenti l’una dall’altra: quando si produce una frase, si presume che quella frase verrà compresa dal ricevente modello. In questo caso, la frase avrebbe una funzione comunicativa e sarebbe costruita in modo da massimizzare la comunicabilità.

[…] Secondo Eva Feder-Kittay (1982), nel linguaggio metaforico, la diagnosticità si ottiene scegliendo un veicolo che enfatizzi le proprie differenze dal tenore, allo scopo di sottolineare le poche somiglianze presenti. In termini di spazio semantico, ciò suggerisce che la scelta del veicolo di una metafora dovrebbe cadere su un caso moderatamente distante dal tenore: un veicolo semanticamente troppo simile al tenore avrebbe troppo poche dissomiglianze per essere diagnostico, mentre uno troppo distante avrebbe troppo poche somiglianze per essere comprensibile. Basandosi sui dati della comprensione, si potrebbe inoltre affermare che il veicolo dovrebbe essere moderatamente distante in termini di fattori dominiospecifici e forse non così distante in termini di fattori casospecifici. L’individuazione di un veicolo appropriato in qualche zona remota dello spazio semantico comporta la percezione di similarità in presenza di dissimilarità; ci si potrebbe quindi aspettare che le differenze nella capacità di ragionamento analogico influenzino la scelta del veicolo usato per costruire la metafora, come accade per la comprensione.

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In addition to semantic space, other psychologically relevant characteristics of metaphor have implications for its production. One such characteristic is the referential concreteness of the concepts being juxtaposed. Susanne Langer (1948), for instance, suggests that metaphor often consists of comparing a relatively abstract topic with a more concrete vehicle. […]

There have been very few experimental studies of metaphor production. The one that I reported in 1989 is the most extensive study to date (see Katz 1989). […] In essence, the experiment consisted of presenting participants with a set of twenty-four metaphor frames from which the vehicle was missing. An example of such a frame would be

sociology is the ———— of the sciences. (7)

Presented along with each frame were three specific instances from seven conceptual domains (e.g., robin, hawk, and owl; USA, Switzerland, and Iran). The task for the participants was to select an instance-vehicle that would result in a comprehensible and apt metaphor. […]

The results were quite clear: participants preferred a vehicle that was an instance from a referentially concrete domain. This might suggest that mental imagery plays an important role in metaphor construction, as has been suggested by Allan Paivio (1979) and others. However, my interpretation of these data is that the concreteness effect tells us more about the structure of concepts in semantic space than about imagery processing. My interpretation is based on two other characteristics of the data. First, the preference for concrete vehicles is not related to individual differences with regard to imagery, but it is reliably related to analogical-reasoning ability. […] Second, the pref- erence for concrete domains is related to the semantic distance between the chosen vehicle and the given topic. Overall, the preferred vehicle tended to be only moderately close to the topic: […] This was true of both instance-specific and domain-relevant distances, so it is consistent with Feder-Kittay’s (1982) suggestion that vehicles are chosen to maximize differences while highlighting similarities. Moreover, participants appeared to maximize similarity at the domain level: the preferred vehicle reflected less semantic distance between domains than between instance-specific characteristics. Both of these characteristics were related to the concreteness of the vehicle domain. […]

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Oltre allo spazio semantico, altre caratteristiche della metafora psicologicamente rilevanti sono implicate nella sua produzione. Una di queste è la concretezza referenziale dei concetti sovrapposti. Secondo Susanne Langer (1948), per esempio, la metafora consiste spesso nel paragonare un tenore relativamente astratto a un veicolo più concreto. […]

Ci sono stati pochissimi studi sperimentali sulla produzione della metafora. Quello da me riportato nel 1989 è quello più estensivo effettuato sino ad oggi (vedi Katz 1989). […] In sostanza, l’esperimento consisteva nel presentare ai partecipanti una serie di ventiquattro strutture metaforiche a cui mancava il veicolo. Ad esempio:

la sociologia è_____________delle scienze. (7)

Insieme ad ogni struttura c’erano tre casi specifici provenienti da sette domini concettuali (ad esempio, pettirosso, falco e gufo; Stati Uniti, Svizzera e Iran). Il compito dei partecipanti consisteva nel selezionare un veicolo che formasse una metafora adeguata e comprensibile. […]

Il risultato fu piuttosto chiaro: i partecipant preferivano veicoli provenienti da domini referenzialmente concreti. Ciò potrebbe far pensare che le immagini mentali svolgano un ruolo importante nella costruzione della metafora, come suggerito da Allan Paivio (1979) e altri. In ogni caso, la mia interpretazione di questi dati è che l’effetto della concretezza ci dice di più riguardo alla struttura dei concetti nello spazio semantico che all’elaborazione delle immagini. La mia interpretazione è basata su altre due caratteristiche dei dati. In primo luogo, la scelta di veicoli concreti non deriva dalle differenze individuali in termini di immagini, ma è saldamente connessa alla capacità di ragionamento analogico. […] In secondo luogo, la preferenza di domini concreti è correlata alla distanza semantica tra il veicolo scelto e il tenore dato. In generale, il veicolo prescelto, di solito, si trovava solo moderatamente vicino al tenore. […] Ciò valeva sia per la distanza tra i casi che per quella tra i domini, concordando così con il suggerimento di Feder Kittay (1982), secondo il quale il veicolo verrebbe scelto per massimizzare le differenze e sottolineare le somiglianze. Inoltre, è sembrato che i partecipanti massimizzassero le somiglianze dominiospecifiche: il veicolo prescelto indicava una distanza semantica tra i domini inferiore rispetto a quella presente tra le caratteristiche casospecifiche. Entrambe queste caratteristiche erano connesse alla concretezza del dominio del veicolo. […]

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Semantic Space and Pragmatic Factors: The Case of Topic/Vehicle Asymmetry

[…] Consider, first, pragmatics. H. Paul Grice (1975) outlined a set of conversational “maxims” that govern the maintenance of verbal communication, among which are to “be relevant” (e.g., one should not state the obvious) and to “be informative” (e.g., one should say neither more nor less than one knows). Consider how these maxims would work in terms of the comprehension and production studies discussed above. Presumably, in the case of production, participants were completing metaphors that fulfilled these maxims, that is, they selected items that would be relevant and informative. In the case of comprehension, participants were, presumably, treating the items as intentional statements meant to evoke an effect. […] In the everyday contexts in which we encounter metaphor, the relevance and informativeness of the communication is stipulated, or at least constrained, by the context in which the metaphor occurs. However, in all of the experiments discussed above, the sentences were presented in a decontextualized form. Presumably, in the absence of an elaborated context from which to construe relevance or informativeness, the participant is forced to depend solely on the characteristics of the decontextualized sentence. I would argue that the most obvious characteristic is semantic distance between the topic and vehicle.

Consider the difficulty faced by a participant in a comprehension study who is presented with something like

Paul Newman is the Elizabeth Taylor of actors (8)

compared to being presented with metaphors in which the topic and vehicle come from more distant domains, such as

Paul Newman is the Rolls-Royce of actors.

(9)

I would argue that the relatively greater ease of comprehending domain-distant metaphors is, in part, due to pragmatic principles that motivate the participant to ask, in effect: “What is the presenter trying to tell me?” – a question that can be answered in the

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Spazio semantico e fattori pragmatici: il caso dell’asimmetria tenore/veicolo

[…] Innanzitutto bisogna considerare la pragmatica. H. Paul Grice (1975) ha esposto una serie di massime conversazionali che governano il mantenimento della comunicazione verbale, tra le quali troviamo l’«essere pertinente» (ad esempio, non bisognerebbe affermare l’ovvio) e l’«essere informativo» (non bisognerebbe dire né più né meno di quel che si sa). Si consideri come queste massime opererebbero per quanto riguarda lo studio sulla comprensione e la produzione. Presumibilmente, nel caso della produzione, le metafore create dai partecipanti soddisfacevano queste massime, in altre parole, i casi selezionati erano pertinenti e informativi. Per quanto riguarda la comprensione, i partecipanti hanno probabilmente trattato gli enunciati come affermazioni intenzionali aventi lo scopo di evocare un effetto. […] Quando la metafora si incontra nella vita di tutti i giorni, la pertinenza e l’informatività della comunicazione sono specificate, o comunque vincolate, dal contesto in cui la metafora si inserisce. In ogni caso, in tutti gli esperimenti, gli enunciati sono stati presentati in forma decontestualizzata. Presumibilmente, in assenza di un contesto elaborato dal quale ricavare pertinenza e informatività, il partecipante è costretto a dipendere solo dalle caratteristiche della frase decontestualizzata. Personalmente, ritengo che la caratteristica più ovvia sia la distanza semantica tra tenore e veicolo. Si consideri la difficoltà che un partecipante deve affrontare in uno studio sulla comprensione quando gli viene presentato un enunciato come

Paul Newman è l’Elizabeth Taylor degli attori (8)

rispetto a una metafora in cui tenore e veicolo provengono da domini più distanti, come nell’enunciato

Paul Newman è la Rolls-Royce degli attori. (9)

Ritengo che la maggior facilità di comprensione delle metafore in cui i domini sono distanti sia, in parte, dovuta a principi pragmatici che spingono il partecipante a chiedersi di fatto «cosa sta cercando di dirmi»? – una domanda a cui, nel caso decontestualizzato dell’esperimento, si può rispondere solo ricorrendo al tipo di informazioni presenti nello spazio semantico. Nel caso Newman/Taylor, il paragone

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decontextualized environment of the experiment only by recourse to the type of information available in semantic space. In the Newman/Taylor case, the “obvious” comparison violates conversational maxims at the domain-relevant level (i.e., it is obvious that actors are like actresses), so for comprehension to proceed, one has to find a less evident comparison that does not violate these principles. This occurs when one considers instance-specific characteristics. In contrast, the Newman/Rolls-Royce comparison does not violate the conversational maxim of relevance. If one also assumes that the principle of informativeness is operating, then the sentence would be taken as an assertion of similarity, requiring the mapping of properties of CARS onto the domain of ACTORS. Thus, in domain-distant metaphors, processing is focused at the domain level.

Consideration of pragmatic factors could also apply to the vehicle-choice data. When a participant is presented with a metaphor frame such as

Paul Newman is the ———— of actors (10)

the participant responds by trying to create a relevant and informative sentence. Thus, the preferred vehicle for completion should be neither tautological (too semantically close) nor obscure (too distant). Consequently, an instance from a moderately distant domain would be preferred.

These pragmatic factors do not, of course, entirely explain why a concrete vehicle is preferred in the vehicle-choice studies. I would argue that concrete and abstract domains differ in their representation in semantic space and that the same framework provided above holds true here as well. For instance, James Hampton (1981) has demonstrated that concrete domains are more cohesive than abstract domains, and Paivio (1971) has shown that the presence of a concrete concept activates a greater number of other concepts than does the presence of an abstract concept. These data suggest that the semantic space of concrete domains is more “dense” (cf. Krumhansl 1978) than that of abstract concepts. Consequently, in order to be a maximally informative and relevant choice, a concrete vehicle would be necessarily closer to the topic than a comparable abstract vehicle. What is not apparent is why the preference for concrete vehicles occurs in the first place. The most likely reason has to do with the type of information that is available from concrete concepts. Brian O’Neil (1972) has demonstrated that it is easier

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«ovvio» viola le massime conversazionali a livello di dominio (in altre parole, è ovvio che gli attori siano come le attrici); quindi, perché la comprensione proceda, è necessario trovare un paragone meno evidente che non violi questi principi. Ciò accade quando si considerano le caratteristiche casospecifiche. Al contrario, il paragone Newman/Rolls-Royce non viola la massima conversazionale della pertinenza. Se si assume che sia operativo anche il principio dell’informatività, la frase verrà considerata come una dichiarazione di similarità e richiederà la mappatura delle proprietà delle AUTO sul dominio degli ATTORI. Quindi, nelle metafore in cui i domini sono distanti, l’elaborazione è focalizzata sui domini.

I fattori pragmatici possono essere considerati anche per quanto riguarda i dati della scelta del veicolo. Quando a un partecipante viene presentata una struttura metaforica come

Paul Newman è _____________degli attori, (10)

questi risponde cercando di creare un enunciato pertinente e informativo. Il veicolo scelto per il completamento non dovrebbe perciò essere né tautologico (troppo simile semanticamente) né oscuro (troppo distante). Di conseguenza, si preferirà un caso appartenente a un dominio moderatamente distante.

Certo, questi fattori pragmatici non spiegano interamente la preferenza per un veicolo concreto rilevata negli studi sulla scelta dei veicoli. Ritengo che la rappresentazione nello spazio semantico di domini concreti e astratti differisca e che lo stesso modello sopra riportato sia valido anche in questo caso. Ad esempio, James Hampton (1981) ha dimostrato che i domini concreti sono più coesivi di quelli astratti e Paivio (1971) ha provato che la presenza di un concetto concreto attiva un numero maggiore di altri concetti rispetto alla presenza di un concetto astratto. Questi dati suggeriscono uno spazio semantico dei domini concreti più «denso» (cfr. Krumhansl 1978) rispetto a quello dei concetti astratti. Di conseguenza, un veicolo concreto, allo scopo di costituire una scelta informativa e pertinente al massimo grado, sarebbe necessariamente più vicino al tenore rispetto a un veicolo astratto. Ciò che non risulta chiaro è la preferenza di veicoli concreti in se stessa. La ragione più probabile ha a che fare con il tipo di informazioni reperibili da concetti concreti. Brian O’Neil (1972) ha dimostrato che questi sono più facili da definire, mentre Ian Begg, Douglas Upfold e Terrence Wilton

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to define concrete concepts, and Ian Begg, Douglas Upfold, and Terrence Wilton (1978) have shown that it is easier to describe concrete objects to others. That is, of two equally informative concepts (in the sense of being sufficiently distant semantically), the concrete concept might be the preferred vehicle because it is perceived as less ambiguous (i.e., better able to “clarify, illuminate, or explain” [cf. Winner 1988: 7]).

This pragmatically based explanation of semantic information suggests one solution to the problem of topic/vehicle asymmetry mentioned earlier. […] The solution that I would like to suggest depends on considering, first, the role played by both domain- relevant and instance-specific distance and, second, the role of conversational principles, such as relevance and informativeness.

Consider again the metaphor “Paul Newman is the Elizabeth Taylor of actors.” […] To understand the metaphor one must infer that something other than the dominant domain relationship is being expressed, since the similarity between actors and actresses is so obvious that comprehension at the domain level is neither informative nor relevant. It is likely that processing is then focused on (less accessible) instance-specific information. In essence, one is asking, “Is there something salient about Elizabeth Taylor that I don’t know about Paul Newman, but that can be attributed to him?” Note that this process can be stimulated by the sense of salience imbalance, as suggested by Andrew Ortony (1979), and, as pointed out above, such imbalance can produce strong asymmetry effects. Thus, the theoretical combination of domain semantic distance and pragmatic principles would lead to the prediction that topic/vehicle asymmetry will be very likely to occur with domain-similar metaphors.

Next, consider such domain-dissimilar metaphors as “Paul Newman is the Rolls- Royce of actors.” From a pragmatic perspective, one would ask, “Why is an actor being compared to a car?” Now, however, the dissimilarity between domains is great enough to lead one to conclude that what is being suggested is that some characteristics of cars can be applied to actors. Once again, the solution must be derived from a domain-level analogy: “Paul Newman is to actors as the Rolls-Royce is to cars.” Now, however, the solution can be understood as informative and relevant inasmuch as the relationship of the Rolls-Royce to the larger domain suggests characteristics that one could (but might

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(1978) hanno indicato come gli oggetti concreti siano più facili da descrivere. In altre parole, tra due concetti ugualmente informativi (e cioè, abbastanza distanti semanticamente), il concetto concreto potrebbe essere scelto come veicolo perché percepito come meno ambiguo (ad esempio, maggiormente in grado di «chiarificare, illuminare o spiegare» [cfr. Winner 1988: 7]).

Questa spiegazione delle informazioni semantiche basata sulla pragmatica suggerisce una soluzione al problema dell’asimmetria tenore/veicolo. […] La soluzione dipende dalla considerazione, in primo luogo, del ruolo svolto sia dalla distanza tra i domini che da quella tra i casi e, in secondo luogo, del ruolo dei principi conversazionali come pertinenza e informatività.

Si consideri ancora la metafora «Paul Newman è l’Elizabeth Taylor degli attori». […] Per comprenderla, essendo la similarità tra attori e attrici così ovvia che la comprensione a livello di dominio non è né informativa né pertinente, si deve inferire che vi sia espresso qualcosa in più della relazione principale tra i domini. E’ probabile che l’elaborazione venga poi focalizzata su informazioni casospecifiche (meno accessibili). In sostanza, ci si chiede: «c’è qualcosa di importante riguardo a Elizabeth Taylor che non so di Paul Newman, ma che può essergli attribuito?» Si noti che questo processo può essere stimolato dalla sensazione di sbilanciamento di salienza, come suggerito da Andrew Ortony (1979), e che questo sbilanciamento può provocare forte asimmetria. Quindi, la combinazione ipotetica di distanza semantica tra i domini e principi pragmatici porterebbe alla previsione secondo cui l’asimmetria tenore/veicolo si verifica probabilmente in presenza di metafore in cui i domini sono simili.

Si considerino, poi, metafore dai domini dissimili come la metafora «Paul Newman è la Rolls-Royce degli attori». Da un punto di vista pragmatico, ci si dovrebbe chiedere «perché un attore viene paragonato a un’auto?» Ora, in ogni caso, la dissimilarità tra i domini è abbastanza forte da portare alla conclusione che ciò che viene suggerito è che alcune caratteristiche delle auto possano essere applicate agli attori. Anche in questo caso, la soluzione deve essere tratta da un’analogia a livello di dominio: «Paul Newman rappresenta nel mondo degli attori ciò che la Rolls-Royce rappresenta in quello delle auto». La soluzione, comunque, sarà percepita come informativa e pertinente nella misura in cui la correlazione della Rolls-Royce a un dominio più ampio suggerisce caratteristiche che potrebbero essere attribuite a Newman: costoso, elegante, raro e così via. Di fatto, se i due domini sono abbastanza distanti l’uno dall’altro, ci troviamo di fronte a un altro problema: quello di trovare delle caratteristiche che possano essere

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not have) attributed to Newman: pricey, elegant, rare, and so on. Indeed, if the two domains are sufficiently distant from each other, the problem becomes one of finding characteristics that can be mapped from one domain onto the other (since the topic domain constrains the choice of characteristics that can be reasonably drawn from the host domain). One can envision a point at which, as the domains become increasingly more distant from one another, the characteristics that can be mapped from vehicle to topic become fewer in number and increasingly less salient. In principle, the consequence would be that salience imbalance becomes less important as domain distance increases.

Two hypotheses are suggested by this analysis. The first is that topic/vehicle asymmetry becomes less marked as domain distance increases. That is, the reversal of domain-similar metaphors leads to more asymmetry than the reversal of domain-distant metaphors. Thus, one can compare the asymmetry of “Paul Newman is the Elizabeth Taylor of actors” with that of “Elizabeth Taylor is the Paul Newman of actresses,” or, with regard to domain-distant metaphors, “Paul Newman is the Rolls-Royce of actors” can be compared with “the Rolls-Royce is the Paul Newman of cars.” One would expect the reversals in the first pair to be seen as more anomalous than those in the second pair. The second hypothesis is that the comprehension of domain-similar metaphors is more likely to depend on instance-specific information than is the comprehension of domain- distant metaphors.

Recently completed research in my laboratory was conducted to examine both of these hypotheses (see Katz 1991). The first was addressed by means of the vehicle- production data discussed in the last section. For each topic we counted the frequency with which different vehicles were chosen. […] The Pearson cross-product correlation provided an estimate of reversibility (or asymmetry): concepts that produced similar frequency patterns were symmetrical, whereas those that produced markedly different patterns were asymmetrical. The correlation indicated three natural groupings: eight terms of high asymmetry (average r = .27); eight terms of moderate asymmetry (average r = .66); and eight terms of low asymmetry/high reversibility (average r = .89).

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mappate da un dominio all’altro (dato che il dominio del tenore limita la scelta delle caratteristiche che possono essere ragionevolmente ricavate dal dominio principale). Ci si può immaginare un punto in cui, man mano che i domini diventano sempre più distanti l’uno dall’altro, le caratteristiche che possono essere mappate da veicolo a tenore diminuiscono e diventano sempre meno salienti. In linea di principio, la conseguenza consisterebbe in una diminuzione dello sbilanciamento di salienza in rapporto ad un aumento della distanza tra i domini.

Quest’analisi suggerisce due ipotesi. La prima è che l’asimmetria tenore/veicolo diventi meno marcata a mano a mano che aumenta la distanza dal dominio. In poche parole, l’inversione di metafore in cui i domini sono simili crea più asimmetria rispetto all’inversione di metafore in cui i domini sono distanti. Si può quindi paragonare l’asimmetria dell’enunciato «Paul Newman è l’Elizabeth Taylor degli attori» con quella dell’enunciato «Elizabeth Taylor è il Paul Newman delle attrici». Per quanto riguarda invece le metafore in cui i domini sono distanti, l’enunciato «Paul Newman è la Rolls- Royce degli attori» può essere paragonato all’enunciato «La Rolls-Royce è il Paul Newman delle auto». Ci si aspetterebbe che l’inversione nella prima coppia di enunciati venga vista come più anomala rispetto all’inversione nella seconda. La seconda ipotesi è che la comprensione di metafore in cui i domini sono simili abbia più probabilità di dipendere da informazioni casospecifiche rispetto a quella di metafore in cui i domini sono distanti.

Nel mio laboratorio sono state recentemente condotte e completate delle ricerche allo scopo di esaminare entrambe queste ipotesi (vedi Katz 1991). La prima ipotesi è stata testata utilizzando i dati riguardanti la produzione del veicolo, discussa nella sezione precedente. Per ogni tenore, abbiamo calcolato la frequenza con cui venivano scelti diversi veicoli. […] Il coefficiente di correlazione di Pearson ha fornito una stima del grado di invertibilità (o asimmetria): concetti che avevano prodotto schemi di frequenza simili erano simmetrici, mentre quelli che avevano prodotto schemi marcatamente diversi erano asimmetrici. Si sono così creati tre raggruppamenti naturali: otto termini caratterizzati da elevata asimmetria (r medio = .27); otto termini caratterizzati da asimmetria moderata (r medio = .66); e otto termini caratterizzati da bassa asimmetria/alta invertibilità (r medio = .89).

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Figure 1. Mean topic/vehicle semantic distance as a function of concept asymmetry and distance type (domain vs. instance).

These groupings were each used as a classification factor in several analyses of variance in which the dependent variables were the semantic distances between topic and vehicle on domain-relevant and on instance-specific characteristics (see Figure 1). […] As can be seen, more asymmetry was observed as domain distance decreased (i.e., as the domains became more similar to one another) and also as instance-specific distance increased (i.e., as the instances became more dissimilar to one another). This finding completely supports the hypothesis that participants seek informative, relevant information and that this information is less available at the domain level for domain- similar metaphors; when the information at the instance level is quite different, then greater asymmetry is observed.

The second hypothesis was tested in a false-recognition memory paradigm. In this study, participants were asked to process a set of metaphors by rating each one for comprehensibility and aptness. Unknown to the participants, however, was that half of the items had been selected on the basis of our earlier scaling as domain distant, whereas the other half were domain similar. After completing this task and performing “filler” tasks for about forty minutes, participants were asked to complete a recognition

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Figura 1. Distanza semantica media tenore/veicolo come funzione dell’asimmetria tra i concetti e del tipo di distanza (dominio versus caso specifico).

Ciascuno dei raggruppamenti è stato usato come fattore di classificazione in diverse analisi della varianza in cui le variabili dipendenti erano costituite dalla distanza semantica tra tenore e veicolo a livello di dominio e di caso specifico (vedi Figura 1). […] Come si può notare, l’asimmetria aumentava al diminuire della distanza tra i domini (e cioè, quando i domini si avvicinavano l’uno all’altro) e anche all’aumentare della distanza tra i casi (e cioè, quando la differenza tra i casi aumentava). Questi dati corroborano l’ipotesi secondo la quale i partecipanti cercherebbero dati informativi e pertinenti, i quali, in caso di metafore in cui i domini sono simili, sarebbero meno disponibili a livello di dominio. Quando le informazioni casospecifiche sono piuttosto differenti tra loro, si osserva il grado più alto di asimmetria.

La seconda ipotesi è stata testata utilizzando il meccanismo del «falso riconoscimento». In questo studio, ai partecipanti è stato chiesto di analizzare una serie di metafore valutandone comprensibilità e adeguatezza. I partecipanti non erano però a conoscenza del fatto che metà delle metafore era stata scelta tra quelle precedentemente indicate come metafore dai domini distanti, mentre l’altra metà era stata scelta tra le metafore dai domini simili. Dopo la valutazione e il «completamento» di alcune metafore per la durata di circa quaranta minuti, ai partecipanti è stato chiesto di eseguire una prova di riconoscimento mnemonico in cui (1) le metafore venivano presentate nuovamente, (2) venivano presentate in forma invertita, (3) erano presentate con delle

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memory task, in which items were (1) re-presented; (2) presented in reversed form; (3) variants of the items from the domains presented earlier (thus if “Paul Newman is the Rolls-Royce of actors” had been presented earlier, the participant might be tested with “Robert Redford is the Cadillac of actors”); and (4) new control items, for which the domains had not been presented earlier. The participants’ task in this second phase was to decide whether or not the exact item had been presented in the first phase and to rate their confidence in their own recognition ability. […] (see Table 3).

The findings of this study are remarkably consistent with the predictions. The top panel represents correct recognition of old items, whereas the bottom panel represents false recognition of control items (i.e., completely new metaphors in which both instances and domains were different at test from those presented at study). The results here are consistent with the usual findings: “old” items are generally recognized and “new” items are generally rejected. The theoretically more important findings are displayed in the middle panel. False recognition occurred more often (and attendant confidence ratings were substantially higher) when the topic and vehicle were reversed, especially when they came from domain-distant metaphors (58% vs. 32%). Moreover, reliably higher rates of false recognition (and attendant confidence) were found for domain-distant items even when the specific instances were replaced by other members of the domain (11% vs. 4%). When one of the specific instances was re-presented, but was paired with a new instance, the opposite effect was observed: higher rates of false recognition (and confidence) were then found for domain-similar metaphors (24% vs. 1%). I take this last finding to indicate that processing at the instance level made the specific instances highly accessible, and, when confusion arose, the participant decided to call an item “old” if s/he was confident that at least one of the concepts had been presented in the earlier phase.

In summary, the data presented in this section is supportive of three general points. First, I take the data to show that a comprehensive model of how we process metaphor must encompass the interactive effects of representation in semantic space and the tacit pragmatic rules of discourse that are activated, even when the metaphor is presented in a decontextualized form. Second, the data suggest that this interaction can explain such effects as the asymmetry produced when topic and vehicle are reversed.

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variazioni facenti parte del dominio precedentemente sottoposto (quindi, se al partecipante era stata precedentemente sottoposta la metafora «Paul Newman è la Rolls- Royce degli attori», ora sarà messo alla prova con una metafora come «Robert Redford è la Cadillac degli attori») e (4) venivano presentate nuove metafore di controllo il cui dominio non era ancora stato sottoposto. Il compito dei partecipanti in questa seconda fase era quello di decidere se quello stesso elemento era stato presentato nella prima fase e di valutare la propria sicurezza nelle proprie capacità di riconoscimento. […] (vedi Tavola 3).

I risultati di questo studio corrispondono in maniera evidente alle previsioni. La riga in alto rappresenta il corretto riconoscimento delle metafore vecchie, mentre quella in basso rappresenta il falso riconoscimento di nuove metafore di controllo (e cioè, metafore completamente nuove in cui sia i casi che i domini erano diversi da quelli presentati nello studio). I risultati corrispondono ai dati comunemente riscontrabili: le metafore «vecchie» vengono generalmente riconosciute e quelle «nuove» respinte. I risultati teoricamente più importanti sono indicati nelle righe intermedie. Il falso riconoscimento si è verificato più spesso (e il relativo tasso di sicurezza era sostanzialmente più elevato) quando tenore e veicolo erano invertiti e, in particolare, quando questi appartenevano a metafore in cui i domini erano distanti (58% contro 32%). Inoltre, tassi più elevati di falso riconoscimento (e relativa sicurezza) sono stati riscontrati in caso di metafore distanti a livello di dominio, anche quando i casi specifici erano stati rimpiazzati da altri membri dello stesso dominio (11% contro 4%). L’effetto opposto è stato osservato quando uno dei casi specifici veniva ripresentato accompagnato da un caso nuovo: tassi più elevati di falso riconoscimento (e sicurezza) sono stati riscontrati per metafore in cui i domini erano simili (24% contro 1%). Faccio riferimento a questi dati per indicare che l’elaborazione a livello di caso specifico ha reso questi ultimi altamente accessibili e, in caso di confusione, il partecipante ha deciso di considerare una metafora «vecchia» solo quando era sicuro che almeno uno dei due concetti fosse stato presentato nella fase precedente.

Riassumendo, i dati riportati in questa sezione sono a favore di tre principi generali. In primo luogo, indicano che un modello completo del modo in cui elaboriamo la metafora include gli effetti interattivi della rappresentazione nello spazio semantico e delle tacite regole pragmatiche del discorso che vengono attivate. Ciò vale anche per le metafore presentate in forma decontestualizzata. In secondo luogo, suggeriscono che questa interazione possa spiegare effetti come l’asimmetria prodotta quando tenore e

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Table 3 Recognition Performance and Confidence Ratings as Functions of Domain Distance

Domain Distance

Close

Distant

Item Type

recognition

confidence

recognition

confidence

Old items

M SD

85% (21)

5.3 (1.2)

87% (20)

5.8 (1.0)

Reversals

32% (24)

2.7 (1.2)

58% (31)

4.1 (1.7)

M SD

New items/Old domains M

SD

04% (08)

1.3 (0.5)

11% (13)

1.7 (0.7)

One-Old item

24% (08)

2.3 (0.5)

01% (04)

1.0 (0.2)

M SD

New items

M

0%

1.02

SD

(0)

(0.14)

Confidence rating: 1 = 100 sure item not presented earlier; 7 = 100 sure item presented earlier.

More specifically, the data indicate that asymmetry is not fatal to explanations of metaphor based on representation in semantic space. Finally, the data clearly indicate that some metaphors arc reversible, thus failing to support the claims of theorists who view asymmetry as a defining characteristic of metaphor (see, e.g., Glucksberg and Keysar 1990). […]

Conclusion: Metaphor and Its Ecology

Metaphor does not reside in individual sentences, except in the laboratory. In everyday life, metaphor arises within a conversational or formal context and is employed to meet some communication goal. The analysis and data presented in the previous section suggest that pragmatic factors are important, even with a decontextualized form. In the more natural environment of metaphor, these factors are probably much more potent and probably serve to generate the functional semantic space in which comprehension takes place. What is required are clear mechanisms linking contextual effects to the generation of semantic space. As discussed earlier, such research is still in its infancy.

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Tavola 3 Capacità di riconoscimento e tasso di sicurezza come funzioni della distanza tra domini

Domain Distance

Close

Distant

Item Type

recognition

confidence

recognition

confidence

Old items

M SD

85% (21)

5.3 (1.2)

87% (20)

5.8 (1.0)

Reversals

32% (24)

2.7 (1.2)

58% (31)

4.1 (1.7)

M SD

New items/Old domains M

SD

04% (08)

1.3 (0.5)

11% (13)

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Tasso di sicurezza: 1 = 100% di certezza che la metafora non sia stata presentata in precedenza; 7 = 100% di certezza che la metafora sia già stata presentata.

veicolo vengono invertiti. Più specificatamente, i dati indicano che l’asimmetria non rappresenta un ostacolo per i tentativi di spiegare la metafora basati sulla rappresentazione nello spazio semantico. Infine, dai dati si evince che alcune metafore si possono invertire, il che fa cadere le teorie secondo le quali l’asimmetria sarebbe una caratteristica propria della metafora (vedi, per esempio, Glucksberg e Keysar 1990). […]

Conclusione: la metafora e la sua ecologia

La metafora non è costituita da singoli enunciati, se non in laboratorio. Nella vita di tutti i giorni, la metafora nasce all’interno di un contesto conversazionale o formale e viene utilizzata per soddisfare un’esigenza comunicativa. Le analisi e i dati presentati nella sezione precedente suggeriscono che i fattori pragmatici sono importanti, anche in presenza di una forma decontestualizzata. Nell’ambiente più naturale della metafora, probabilmente, questi fattori sono molto più potenti e servono a generare lo spazio semantico funzionale in cui ha luogo la comprensione. Quel che è richiesto sono meccanismi chiari che colleghino gli effetti contestuali alla creazione dello spazio semantico. Come accennato in precedenza, la ricerca in questo campo è ancora ai suoi inizi.

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In my laboratory at the University of Western Ontario, we are just beginning to investigate the role(s) played by context. In our studies, a figurative target sentence is presented in some narrative context, and the reaction to the target obtained. In one such study Nigel Turner and I examined the recognition problem (Turner and Katz 1991), asking how a participant decides that figurative language should be treated as literally or as figuratively true. (In these initial studies, the targets were proverbs; we are now commencing parallel studies with metaphors as targets.) The task was simple: participants merely had to read a set of paragraphs at their own pace. […] In some of these studies, after participants had read all the paragraphs, they were provided with a booklet containing, at the top of each page, either a proverb or its paraphrase. They were then asked to identify the specific target that they had read and to recall as much of the rest of the paragraph as possible. They were also asked to paraphrase the target that they recalled.

The latency data indicated that participants took a longer time to read unfamiliar proverbs presented in figurative contexts. Familiar proverbs, on the other hand, were read equally quickly in literal and in figurative contexts. The memory data exhibited several interesting types of errors when participants were asked to paraphrase each target they claimed to have read. (For instance, if participants had read “an empty sack cannot stand upright” in a literal context, then an appropriate paraphrase would be about sacks and their properties; if they had read the same target statement in a figurative context, an appropriate paraphrase would be about people and personality charac- teristics, such as being superficial.) We wondered whether participants would sometimes produce an inappropriate-context interpretation. Errors of this sort would suggest that the alternative interpretation was generated by the target, even though the appropriate interpretation was suggested by the context. What the data clearly showed was that a familiar proverb, even when placed in a literal context, is interpreted figuratively, while it is less likely to be interpreted literally in a context that emphasizes its proverbial sense. These findings were completely reversed with unfamiliar proverbs: even when the context was figurative, a literal interpretation was made, while a figurative interpretation did not result from the same proverb’s being presented in a

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Nel mio laboratorio alla University of Western Ontario, gli studi sul ruolo del contesto sono appena incominciati. Nel suddetto studio, un enunciato figurato target viene presentato in un contesto narrativo e viene così ottenuta la relativa reazione. In uno di questi studi, io e Nigel Turner abbiamo esaminato il problema del riconoscimento (Turner e Katz 1991) chiedendoci secondo quali criteri un partecipante decida che del linguaggio figurato debba essere trattato come letteralmente o figuratamente vero. (In questi studi iniziali i target erano costituiti da proverbi; ora stiamo avviando studi paralleli che utilizzano metafore.) Il compito era facile: i partecipanti dovevano soltanto leggere una serie di paragrafi, ognuno con il proprio ritmo. […] In alcuni degli studi, dopo la lettura, ai partecipanti veniva fornito un libretto in cui, all’inizio di ogni pagina, c’erano un proverbio o la sua parafrasi. A quel punto, veniva loro chiesto di indicare l’esatto target da loro letto in precedenza e di richiamare alla mente quanto più possibile del resto del paragrafo. Inoltre, era previsto che i partecipanti parafrasassero il target ricordato.

I dati di latenza hanno dimostrato che i partecipanti impiegavano più tempo per leggere proverbi sconosciuti presentati in un contesto figurato. I proverbi conosciuti, d’altra parte, richiedevano un tempo di lettura ugualmente veloce sia in contesto letterale che figurato. I dati mnemonici hanno mostrato alcuni errori interessanti verificatisi nel momento in cui ai partecipanti veniva chiesto di parafrasare ciascun target che dichiaravano di aver letto. (Ad esempio, se i partecipanti avessero letto l’enunciato «an empty sack cannot stand upright»2 in un contesto letterale, una parafrasi appropriata avrebbe riguardato i sacchi e le loro proprietà; se avessero letto lo stesso proverbio in un contesto figurato, la parafrasi appropriata avrebbe invece riguardato le persone e i lati del loro carattere, come la superficialità.) Ci siamo chiesti se talvolta i partecipanti interpretassero il contesto in maniera inappropriata. Errori di questo genere suggerirebbero che l’interpretazione alternativa venga generata dal target, anche se l’interpretazione appropriata deriva dal contesto. Ciò che dai dati è risultato chiaro è che un proverbio conosciuto, anche se collocato in un contesto letterale, viene interpretato in modo figurato, mentre è meno probabile che venga interpretato letteralmente in un

2 Il proverbio sopra riportato corrisponde all’italiano «un sacco vuoto non sta in piedi», ma si è preferito lasciare la versione inglese in quanto a questo proverbio vengono attribuiti diversi significati, che potrebbero variare a seconda del lettore e non corrispondere, così, al significato voluto dall’autore. [N.d.t.]

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literal context. These data strongly suggest that the proverb retains its conventional meaning, regardless of context, except where a less conventional meaning is generated by a special context. In general, the data indicate that participants appear to automatically produce the conventional meaning of a proverb (i.e., the figurative meaning of familiar proverbs and the literal meaning of unfamiliar proverbs).

The participants’ recall of the context in which each target statement was embedded also proved to be instructive. From a pragmatic perspective, one would expect that, with unconventional targets, the participant must find a way to make the sentence seem informative and relevant. To do this, the participant must have to elaborate on the context in order to make sense of the target. Consequently, we would expect the context of unconventional targets to be better recalled than the context of a proverb used “conventionally.” The data completely confirmed this expectation. More of the context was recalled in the unconventional cases, that is, when a familiar proverb was presented literally (rather than in its conventional figurative sense) and when an unfamiliar proverb was presented figuratively (rather than in a more conventional literal sense).

These data suggest to me that the functional semantic space is dependent on the conventionality of usage, that is, on the extent to which discourse is used in its dominant or most familiar sense. With conventional usage, a well-established space can be generated, even for figurative language. The recognition of a statement as metaphorical might be triggered by unconventional usage, forcing the participant to ask, “What could be meant by such language?” The participant would then be faced with the problem of setting up a semantic space that would permit a satisfactory answer to the question. Metaphor, of course, would not be unique here since other forms of language (such as “indirect requests”) also force the same sort of nonautomatic response. Presumably, the context itself provides clues to the intended meaning and to the type of semantic space that might provide the appropriate interpretation.

Christopher Lee and I have recently begun to investigate what some of these clues might be (see, e.g., Lee and Katz 1990). To get a sense of what we have done, consider the following (decontextualized) sentence:

Albert Katz is the Wayne Gretzky of his Psychology Department’s team. (11)

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contesto che enfatizza il suo senso proverbiale. I dati erano completamente diversi in caso di proverbi non conosciuti: anche quando il contesto era figurato, il proverbio veniva interpretato letteralmente, mentre il contesto letterale non produceva un’interpretazione figurata. Questi dati mostrano chiaramente che un proverbio mantiene il proprio significato convenzionale, indipendentemente dal contesto, a meno che un contesto particolare suggerisca un significato meno convenzionale. In generale, dai dati risulta che i partecipanti sembrano produrre automaticamente il significato convenzionale di un proverbio (vale a dire il significato figurato di proverbi conosciuti e quello letterale di proverbi sconosciuti).

Anche la capacità dei partecipanti di ricordare il contesto in cui ciascun enunciato target era inserito si è dimostrata istruttiva. Da un punto di vista pragmatico, si presume che, in presenza di target non convenzionali, il partecipante debba trovare un modo per rendere l’enunciato informativo e pertinente. Per fare ciò, e riuscire così a dare un senso al target, il partecipante deve basarsi sul contesto. Di conseguenza, ci si aspetterebbe che il contesto di target non convenzionali venga ricordato più facilmente rispetto al contesto di un proverbio utilizzato in maniera “convenzionale”. I dati hanno confermato pienamente queste aspettative. Il contesto veniva ricordato con più facilità nei casi non convenzionali, vale a dire quando un proverbio conosciuto veniva presentato in modo letterale (piuttosto che nel suo significato convenzionale figurato) e quando un proverbio non conosciuto veniva presentato in maniera figurata (piuttosto che in senso più letterale e quindi convenzionale).

Questi dati suggeriscono che lo spazio semantico funzionale dipende dalla convenzionalità dell’uso, e cioè dalla misura in cui l’enunciato viene usato nel suo significato dominante o più conosciuto. All’interno dell’uso convenzionale, può essere creato uno spazio ben determinato, anche per quanto riguarda il linguaggio figurato. Il riconoscimento di un enunciato come metaforico potrebbe derivare da un uso non convenzionale, che forzerebbe il partecipante a chiedersi «cosa si intende con quel linguaggio»? Il partecipante, a quel punto, dovrebbe affrontare il problema della creazione di uno spazio semantico che permetta una risposta soddisfacente alla domanda. Naturalmente, questo non accade solo per la metafora, dato che anche altre forme di linguaggio (come le “richieste indirette”) comportano lo stesso tipo di reazione non automatica. Presumibilmente, il contesto stesso fornisce indicazioni riguardo al significato voluto e al tipo di spazio semantico da cui si potrebbe trarre l’interpretazione appropriata.

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Now, this statement is well formed, and those of you who have some familiarity with ice hockey will make sense of it. But what sense? Those who don’t know me may take it as a proportional metaphor and interpret it to mean that (relative to the rest of my department) I am a superstar; those who do know me will (alas) take the statement to be ironic.

Chris Lee and I reasoned that context determines the nature of the semantic space being constructed. For instance, if in the context you had understood the speaker to be endorsing the proposition that Katz is a Gretzky, you would have treated the proposition as a metaphor; whereas if you had understood the speaker as intending that you reject the Katz/Gretzky similarity, then you would have treated the statement as irony. Specifically, we argued that the relative metaphoricity or ironicity of the statement depended first on whether or not observational evidence suggested that the speaker was expressing an endorsement or a denial of the truth-value embodied by the proposition. Thus, if the statement were made right after I had scored a goal, one could reasonably infer that the speaker meant something quite different than would be meant if I had just tripped while crossing the blue line. A second clue can be found in the implicit contract between speaker and listener, namely, whether the proposition is made to a privileged or a polarized audience. By a privileged audience, I mean one for whom the speaker formulates an utterance so that the information needed to understand the speaker’s intent is known only by a subset of listeners, such as those who have played hockey with me in the past. Members of a privileged audience, especially if they recognize that they are being treated as privileged, will be able to make additional inferences about the speaker’s intent. For instance, if they know that a given statement is a denial of a proposition, and if they also know that other members of the audience are unlikely to recognize that denial, then they will treat the proposition as especially ironic.

In our study, participants were presented with a set of anecdotes involving a conversation among several people. Each anecdote had a similar format: a proposition was made by one of the characters, an observation about the statement was then made salient, and finally the proposition was repeated in echoic form. The echoic reference (i.e., repeating the proposition) allowed us to draw attention to its antecedent usage. We

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Io e Christopher Lee abbiamo recentemente iniziato a fare delle ricerche per scoprire quali potrebbero essere questi indizi (vedi, per esempio, Lee e Katz 1990). Per comprendere ciò che è stato fatto, si consideri il seguente enunciato (decontestualizzato):

Albert Katz è il Wayne Gretzky del team del Dipartimento di Psicologia. (11)

Ora, questo enunciato è ben costruito e chi di voi segue l’hockey su ghiaccio ne trarrà un senso. Ma quale? Chi non mi conosce potrebbe concepire questo enunciato come una metafora proporzionale e interpretarlo arrivando alla conclusione che (rispetto al resto del mio dipartimento) io sia una superstar; chi invece mi conosce percepirà l’enunciato come ironico (purtroppo).

Io e Chris Lee abbiamo pensato che il contesto determina la natura dello spazio semantico che viene costruito. Per esempio, se nel contesto il parlante avesse dato l’impressione di condividere effettivamente l’enunciato Katz è un Gretzky, l’affermazione sarebbe stata trattata come una metafora; se invece il parlante avesse dato l’impressione di rifiutare la similarità Katz/Gretzky, l’enunciato sarebbe stato concepito come ironico. Più specificatamente, abbiamo concluso che il relativo carattere ironico o metaforico delle affermazioni dipende innanzitutto dalla possibilità o meno che i dati osservativi suggeriscano una condivisione o una negazione da parte del parlante del valore di verità contenuto nell’enunciato. Quindi, se l’affermazione fosse stata fatta subito dopo un mio goal, si potrebbe ragionevolmente inferire che il parlante intendesse qualcosa di piuttosto differente da ciò che avrebbe voluto dire in caso avessi appena inciampato attraversando la linea blu. Un secondo indizio può essere trovato nel contratto implicito tra parlante e ricevente, e cioè, a seconda che l’enunciato sia rivolto a un pubblico privilegiato o polarizzato. Per audience privilegiato intendo un pubblico per il quale il parlante formula un enunciato in modo che le informazioni necessarie per comprendere l’intento del parlante siano conosciute solo da una parte degli ascoltatori, come quelli che hanno giocato a hockey con me in passato. I membri di un audience privilegiato, specialmente se si rendono conto di essere trattati in tal modo, saranno in grado di compiere inferenze aggiuntive riguardo all’intento del parlante. Per esempio, se sanno che l’affermazione data è la negazione di una proposizione e che altri membri dell’audience probabilmente non la riconosceranno, tratteranno l’enunciato come particolarmente ironico.

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manipulated the nature of the echoic usage such that in half of the anecdotes it was consistent with the prior proposition and in the other half it was inconsistent with the prior proposition. In the former case, it was obvious that the speaker endorsed the truth- value of the proposition, whereas in the latter case, the truth-value was denied. We also manipulated the degree of access that the characters in the story had to the antecedent usage. We employed this manipulation as our operational means of determining whether or not a privileged audience existed. The participant’s task was to imagine himself/herself as a specific character in the story and to rate the echoic usage on one of two scales: degree of metaphoricity or degree of ironicity.

Our initial findings have been encouraging. A target sentence was judged more metaphoric when the context suggested the speaker’s intention to be an endorsement of a proposition, but more ironic when the context suggested the speaker’s intention to be a denial of the proposition’s truth-value. Moreover, when the speaker framed a proposition in such a way as to exclude a segment of the audience, that proposition (when rejected) was seen as more ironic. Thus, the extent to which a given proposition is understood as metaphoric or ironic depends on a subtle interaction between speaker and listener. The context in which a comparison is made functions as a discursive ecology, full of hints about the speaker’s intent. These hints (i.e., as to whether or not the listener is part of a privileged audience, or whether or not the speaker is seriously endorsing a statement) are used to construct an interpretive framework (such as a semantic space) with which to make sense of the statement.

Final Statement

The intent of this paper was to demonstrate that a psychological model of metaphor processing has to explicitly address the nature of information in memory and the processes that affect this representation. Such a model has to be constrained by observations on the nature of metaphor, and it must be able to generate testable predictions. The model explicated here was based on the representation of concepts in semantic space. In general, this model performs quite well, but it remains deficient

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Nel nostro studio, ai partecipanti sono stati sottoposti una serie di aneddoti riguardanti una conversazione tra diverse persone. Ogni aneddoto aveva un formato simile: una delle persone pronunciava un’affermazione, un’osservazione a riguardo veniva poi messa in rilievo ed, infine, l’affermazione veniva ripetuta in forma ecoica. La citazione ecoica (vale a dire la ripetizione dell’enunciato) ci ha permesso di attirare l’attenzione sul suo uso precedente. Abbiamo manipolato la natura dell’uso ecoico di modo che in metà degli aneddoti non corrispondesse alla proposizione precedente. In caso di coerenza, era ovvio che il parlante condividesse il valore di verità della proposizione, mentre in caso di incoerenza questo veniva negato. Abbiamo inoltre manipolato il grado di accesso dei personaggi della storia all’uso precedente. Abbiamo utilizzato questa manipolazione come mezzo operativo per determinare l’esistenza o meno di un audience privilegiato. Il compito dei partecipanti consisteva nell’immaginarsi come personaggi specifici nella storia e nel dare una valutazione all’uso ecoico in base a una delle due scale seguenti: grado di metaforicità e grado di ironia.

I dati iniziali sono stati incoraggianti. Un’enunciato target veniva giudicato più metaforico quando il contesto suggeriva che l’intenzione del parlante era quella di condividere la proposizione e più ironico quando sembrava che l’intenzione fosse quella di negarla. Inoltre, quando il parlante impostava un’affermazione in modo da escludere una parte dell’audience, la proposizione (quando rifiutata) veniva vista come più ironica. Quindi, la misura in cui una proposizione data viene concepita come metaforica o ironica dipende da una sottile interazione tra parlante e ricevente. Il contesto in cui viene fatto un paragone ha la funzione di ecologia discorsiva, piena di indizi riguardo all’intento del parlante. Questi indizi (e cioè, quelli riguardanti il fatto che il ricevente sia parte di un audience privilegiato oppure no o il fatto che il parlante condivida seriamente l’affermazione) vengono usati per costruire uno schema interpretativo (come uno spazio semantico) attraverso il quale dare un senso all’affermazione.

Precisazione finale

L’intento di questo studio era quello di dimostrare che un modello psicologico dell’elaborazione della metafora deve esplicitamente fare riferimento alla natura dell’informazione nella memoria e ai processi che influiscono su questa rappresentazione. Tale modello deve essere limitato da osservazioni sulla natura della

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unless pragmatic principles of language are also taken into account. How a functional semantic space is created and how this creation is related to pragmatics are still unknown, although studies currently under way suggest that conventionality, consistency with observational evidence, and utterances framed to match audience characteristics will all play a role.

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metafora e deve essere in grado di generare previsioni sperimentabili. Il modello qui illustrato si basa sulla rappresentazione dei concetti nello spazio semantico. In generale, questo modello funziona piuttosto bene, ma rimane inadeguato a meno che non si tengano in considerazione anche i principi pragmatici del linguaggio. Il modo in cui uno spazio semantico funzionale viene creato e la relazione di questa creazione con la pragmatica non sono ancora conosciuti, anche se degli studi attualmente in corso suggeriscono che questa convenzionalità, la corrispondenza ai dati osservativi e gli enunciati costruiti per adattarsi alle caratteristiche dell’audience avranno tutti un ruolo.

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Ringraziamenti

Un grazie particolare a Bruno Osimo, Dorothé Beekhuizen e Andrew Tanzi per la loro disponibilità.

Grazie ai miei genitori, per avermi sostenuta e appoggiata.

Grazie infine a Brendan, per il suo aiuto, per essermi stato vicino e avermi sempre incoraggiata.

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CHIARA STELLA Fridolin-Harford incontra Nachtigall- Nightingale: un saggio di analisi comparativa tratto da Traumnovelle-Eyes Wide Shut

Fridolin-Harford incontra Nachtigall- Nightingale:un saggio di analisi comparativa tratto da Traumnovelle-Eyes Wide Shut

CHIARA STELLA

Scuole Civiche Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno Osimo Correlatrice Prof.ssa Elisabetta Potthoff

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 16 Marzo 2006

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Per l’edizione italiana ©2006 Chiara Stella

2

INDICE

ABSTRACT 5 ENGLISH ABSTRACT 5 ABSTRACT EN ESPAÑOL 5

1. LA TRADUZIONE FILMICA COME ESEMPIO DI TRADUZIONE EXTRATESTUALE E I METODI DI ANALISI DEI CAMBIAMENTI TRADUTTIVI 7

  1. 1.1  La traduzione intersemiotica di Roman Jakobson 7
  2. 1.2  Peeter Torop e la traduzione extratestuale 8 1.2.1 Le coordinate cronotopiche 91.2.2 Le traduzioni filmiche 11
  3. 1.3  Il processo traduttivo 131.3.1 I modelli di approccio all’analisi comparativa 15 1.3.2 Un modello di sintesi dei cambiamenti traduttivi 19

2. DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK 23

2.1 Arthur Schnitzler 23

2.1.2 Traumnovelle 25

2.1.3 Breve analisi del racconto 28 2.2. Stanley Kubrick 30 2.2.1 Eyes Wide Shut 32

2.2.2 Breve analisi del film

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3. UN PASSO DEL RACCONTO E LA MEDESIMA SCENA DEL FILM: ANALISI COMPARATIVA 39

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3.1 Fridolin incontra Nachtigall, Bill incontra Nightingale 39

3.1.2 Analisi mediante il modello cronotopico di Torop 43 3.1.3 Considerazioni conclusive 53

CONCLUSIONI 55 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 58

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ABSTRACT

La tesi si propone di fornire un saggio di analisi comparativa basato sul confronto tra una sequenza del film Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick e il medesimo passo del racconto Traumnovelle di Arthur Schnitzler, da cui il film è stato tratto, mediante l’applicazione del modello cronotopico di Peeter Torop. Il primo capitolo verte sul concetto di traduzione intersemiotica introdotto da Roman Jakobson e sulla traduzione filmica come esempio di quella che viene definita da Peeter Torop «traduzione extratestuale». Vengono poi analizzati due modelli di analisi dei cambiamenti traduttivi: il modello di Leuven-Zwart e il modello cronotopico di Torop, e la possibilità di individuare tali cambiamenti mediante un modello di sintesi. Nel secondo capitolo vengono riportate le biografie di Arthur Schnitzler e Stanley Kubrick, la trama delle le opere e una breve analisi finalizzata ad individuarne le tematiche principali, ossia la dicotomia fedeltà-tradimento, l’alienazione nel rapporto di coppia e lo smarrimento esistenziale dell’individuo. Nel terzo capitolo vengono riportati il passo del racconto in cui il protagonista incontra il pianista Nachtigall e la corrispettiva sequenza del copione del film. Viene poi svolta un’analisi comparativa secondo il modello cronotopico di Torop e tratte conclusioni da cui emerge la scelta del cronòtopo del contenuto microtestuale come dominante del metatesto.

ENGLISH ABSTRACT

The thesis gives a comparative analysis based on the comparison between a sequence of Stanley Kubrick’s film Eyes Wide Shut and the analogous passage taken from Arthur Schnitzler’s Traumnovelle, on which the film was based. The comparison was carried out by applying Peeter Torop’s chronotopical model. The first chapter focuses on the concepts of intersemiotic translation – as first described by Roman Jakobson – and on film translation as an example of what Peeter Torop calls “extratextual translation.” Two models of translation shift are then analysed: Leuven-Zwart’s model and Torop’s chronotopical model. Further analysis discusses whether the shifts can be singled out using a synthesis model. The second includes the biographies of Arthur Schnitzler and Stanley Kubrick, the plot of their works and a short analysis aimed at highlighting the main themes, namely the fidelity-infidelity dichotomy, alienation within the couple and existential bewilderment. The third chapter comprises the passage of the novel where the protagonist meets Nachtigall the pianist, along with the respective sequence from the film’s script. Following is a comparative analysis based on Torop’s chronotopical model. The conclusions single out the microtextual contents chronotope as the target text’s dominant.

ABSTRACT EN ESPAÑOL

La tesis es un ejemplo de análisis comparativo basado en la comparación entre una escena de la película Eyes Wide Shut de Stanley Kubrick y el mismo fragmento de la novela Traumnovelle de Athrur Schnitzler, en la que la película se inspira. Para llevar a cabo esta comparación se utilizó el modelo cronotópico

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de Peeter Torop. En el primer capítulo se habla del concepto de traducción intersemiótica introducido por Roman Jackobson y de la traducción fílmica como ejemplo de la que Peeter Torop define «traducción extratextual». A continuación se analizan dos modelos de análisis de los cambios traductivos – el modelo de Lauven-Zwart y el modelo cronotópico de Torop – y la oportunidad de destacar estos cambios através de un modelo de síntesis. En el segundo capítulo se encuentran las biografías de Arthur Schnitzler y la de Stanley Kubrick, la trama de las dos obras y un breve análisis para subrayar los temas principales, o sea la dicotomía fidelidad-traición, la alienación en la relación de pareja y la turbación existencial del individuo. En el tercer capítulo presenta el pasaje de la novela en la que el protagonista encuentra al pianista Nachtigall y la misma secuencia del guión de la película. Finalmente he desarollado un análisis comparativo utilizando el modelo cronotópico de Torop, del que se desprende que la dominante del metatexto es el cronotopo del contenido microtextual.

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1. LA TRADUZIONE FILMICA COME ESEMPIO DI TRADUZIONE EXTRATESTUALE E I METODI DI ANALISI DEI CAMBIAMENTI TRADUTTIVI

1.1 La traduzione intersemiotica di Roman Jakobson

Il concetto di traduzione intersemiotica è alquanto recente nel campo della semiotica e degli studi sulla traduzione. È grazie a Roman Jakobson, linguista e filologo russo, che la traduzione intersemiotica entra a pieno titolo nel campo di studi della traduttologia. Il ricercatore, con il suo celebre saggio del 1959 On linguistic aspects of translation, imprime un’importante svolta a gli studi sulla traduzione, individuando innanzitutto la natura semiotica dell’atto traduttivo. La possibilità di inserire la traduzione nel campo d’indagine della semiotica è di fondamentale importanza per allargare lo studio della traduzione a processi che venivano fino ad allora considerati estranei ad essa, quali in particolare la riverbalizzazione nella stessa lingua e la trasmutazione in un codice non verbale. Jakobson lega il concetto di traduzione a quello di interpretazione e distingue tre modi di interpretazione di un segno linguistico, secondo che lo si traduca in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua o in un sistema di simboli non linguistici. Lo studioso russo propone quindi uno schema tripartito, secondo il quale esistono tre grandi categorie di traduzioni: la traduzione endolinguistica o intralinguistica, detta anche riformulazione, che consiste nell’interpretazione dei segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua; la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta, che consiste nell’interpretazione dei segni verbali per mezzo di un’altra lingua; la traduzione intersemiotica o trasmutazione, che consiste nell’interpretazione dei segni verbali per mezzo di segni di sistemi segni non verbali.1

Ed è a quest’ultima categoria che appartiene la versione filmica di un romanzo, così come la “traduzione” in dipinto di una poesia.

1 B. Osimo, 2002, p. 180

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1.2 Peeter Torop e la traduzione extratestuale

Il concetto di traduzione intersemiotica viene in seguito ripreso da Peeter Torop nel suo libro La traduzione totale, del 1995. Lo studioso, rifacendosi a Jakobson, parla di traduzione extratestuale, ovvero un processo che abbia come prototesto o come metatesto un testo non verbale scritto, ad esempio una traduzione in cui il prototesto è un testo, mentre il metatesto è un’immagine o un film.

Nel capitolo relativo alla traduzione extratestuale, Torop si sofferma appunto sulla traduzione filmica di un testo verbale, analizzandone le caratteristiche ed i problemi di traducibilità. L’autore afferma che il critico letterario e il critico cinematografico analizzano un testo suddividendolo in parti. La strutturalità è quindi un segno distintivo del testo. Un testo può essere strutturato basandosi sul linguaggio naturale (lessico, sintassi ecc.), sull’architettura (episodio, capitolo ecc.) o sulla poetica (tempo, spazio, intreccio ecc.). Anche un film, come testo, può essere diviso verticalmente in parola, suono e immagine e orizzontalmente in fotogrammi, episodi, pezzi di montaggio, mentre sul piano della poetica si devono poi prendere in considerazione la luce, il colore, la musica, il montaggio ecc.2 Sulla base di ciò Torop conclude che,

La differenza fondamentale tra film e opera letteraria sta nel fatto che la letteratura viene fissata sotto forma di parola scritta, quando invece nel film l’immagine è sostenuta dal suono, sotto forma di musica o di parole.3

In sostanza, in un film il verbale viene ad essere recepito insieme al visivo. Contraddicendo la semiologia, secondo la quale è la preponderanza del linguaggio verbale sugli altri sistemi segnici è innegabile, Torop afferma che l’unica prerogativa del linguaggio verbale sta nella sua capacità di descrivere gli altri codici. I procedimenti espressivi di ogni linguaggio, di ogni arte, sono diversi, ed ogni linguaggio offre quindi possibilità espressive che gli altri linguaggi non offrono. Il linguaggio non verbale, di conseguenza, oltre ad avere possibilità inferiori rispetto al linguaggio verbale, possiede anche caratteristiche a

2 P. Torop, 2000, p. 308 3 P. Torop, 2000, p. 308

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quest’ultimo precluse. Il cinema, ad esempio, dispone di modalità espressive che possono non essere disponibili in altri tipi di codice, artifici artistici che in letteratura risulterebbero inattuabili.
Questa diversità tra i mezzi a disposizione della letteratura e quelli a disposizione del cinema è di fondamentale importanza nel momento in cui si tratta di tradurre un libro in film, poiché è evidente che il principio di equivalenza viene necessariamente meno e di conseguenza diviene necessario lavorare sul diverso potenziale espressivo dei codici.

È del resto indubbio che in qualsiasi processo traduttivo si ha sempre un residuo, come è indubbio il fatto che coesistano sempre quattro componenti: conservazione, modifica, eliminazione e aggiunta di elementi testuali. Anche nella traduzione intersemiotica occorre quindi tener conto fin dall’inizio del fatto che è inevitabile conservare qualcosa dell’originale, ma anche modificare, omettere e aggiungere qualcosa.4 È perciò necessario impostare una strategia traduttiva che permetta di decidere quali componenti del prototesto sono le più caratterizzanti e quali invece possono essere sacrificate in nome della traducibilità di un’altra parte del testo.

1.2.1 Le coordinate cronotopiche

Per realizzare una traduzione filmica di un testo verbale, il traduttore intersemiotico deve compiere un’operazione di suddivisione dell’originale in parti per trovare per ciascuna di esse un traducente. In sostanza, è necessario decidere a quali elementi della composizione filmica affidare la traduzione di taluni elementi stilistici o narratologici dell’originale ed in seguito ricomporre tali parti ricreando la coesione e la coerenza del testo.

Nell’analisi del testo, secondo Torop, è di primaria importanza l’ambito del cronòtopo, le coordinate culturali di un testo, ossia spazio, tempo e cultura da cui è generato o per cui è tradotto. Compiendo un’analisi dei cronòtopi dell’originale

4 P. Torop, 2000, p. 318

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il traduttore può stabilire la dominante del testo, e puntare sul risultato di tale analisi per impostare le strategie traduttive.
Le coordinate cronotopiche permettono infatti di stabilire le relazioni diatopiche, diacroniche, psicologiche, culturali tra lettore modello del prototesto e lettore modello del metatesto, di analizzare il mondo soggettivo dei personaggi e il mondo funzionale creato dall’autore. All’interno di un film è possibile distinguere tre differenti livelli cronotopici:

1. il cronòtopo topografico, che riguarda lo spazio e il tempo dell’intreccio, spazio e tempo con i quali lo spettatore entra in contatto durante l’azione. In questo cronòtopo si muovono i personaggi, il cui comportamento, linguaggio ecc. ne riflettono la soggettiva relazione con spazio e tempo. L’analisi di questo cronòtopo include anche le varietà di lingua della narrazione e del narratore nello svilupparsi degli intrecci che costituiscono la trama;

2. il cronòtopo psicologico, che riguarda l’aura espressiva dei personaggi, nonché il loro mondo, la loro autostima e la loro valutazione degli altri e degli eventi. L’aura espressiva del personaggio è la coerenza percettiva con cui viene descritto. Ciò comporta coerenza descrittiva da parte dell’autore, ma anche del traduttore: senza questa, il lettore non riesce più a focalizzare il personaggio con la chiarezza con cui viene presentato nel prototesto.

In questo cronòtopo rientra quindi tutto ciò che concerne la psicologia dei personaggi e la sua espressione letteraria;
3. il cronòtopo metafisico, un cronòtopo concettuale, che riguarda la visione dell’autore. L’autore ha infatti una sua interpretazione del cronòtopo, che si riflette nel suo mondo estetico, plasmato in un lessico che è peculiare rispetto a quello di ogni altro autore. Possono quindi essere presenti parole preferite, ricorrenti, immagini, visioni di mondo particolari o caratteristiche lessicali di una corrente letteraria, che naturalmente devono essere riconoscibili.5

Questi tre cronòtopi possono esistere separatamente e costituire un insieme, o uno di essi può risultare dominante rispetto agli altri.

5 P. Torop, 2000, p. 319

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1.2.2 Le traduzioni filmiche

Torop procede poi descrivendo i diversi tipi di traduzione filmica. In tale analisi l’autore tenta di unire gli aspetti comuni a film e letteratura, i livelli e la narratività del testo con la cronotopia.

1. La traduzione filmica macrostilistica. Queste traduzioni hanno la dominante nel testo o nei suoi tratti distintivi formali. Sono da far risalire a questa categoria la maggior parte delle traduzioni filmiche classiche, in cui si tendono a conservare sia i limiti del testo sia a personaggi principali e la correlazione intreccio-fabula. Nelle traduzioni filmiche macrostilistiche domina il cronòtopo stilizzato. Alla base della stilizzazione può stare lo stile del prototesto, ma anche la volontà di orientare il film verso un pubblico straniero, il tentativo di rendere il film più rappresentabile o la marcatura del cronòtopo al fine di mediare con una cultura altrui.

2. La traduzione filmica precisa. Fulcro di queste traduzioni sono informazione e contenuto. Generalmente rientrano in questa categoria i cosiddetti film lenti, in cui il contenuto viene esposto in modo dettagliato e ,se è ritenuto necessario, commentato.

Vengono frequentemente utilizzati l’epilogo o il prologo, così come didascalie intermedie. In alcuni casi viene inserita la narrazione fuori campo, che consente al narratore di commentare il passare del tempo, informare lo spettatore sul tempo trascorso tra due diversi episodi, commentare i sentimenti dei personaggi. I film di questo tipo si impegnano a conservare il cronòtopo concreto (degli eventi). È quindi possibile la presenza di didascalie esplicative e viene prestata estrema attenzione alla precisione nei costumi, nell’arredamento.

3. La traduzione filmica microstilistica. Alla base della traduzione filmica microstilistica è il personaggio. La completa focalizzazione sul personaggio comporta l’approfondimento, anzitutto di carattere psicologico, del carattere di un solo protagonista e la modifica di tutto il testo in funzione del protagonista scelto.

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In questi film ci si può allontanare dallo spazio dell’intreccio o addirittura discostare dal cronòtopo. Si tratta quindi di un cronòtopo storico concreto (modificato). È anche possibile lo spostamento del protagonista in un altro cronòtopo storico.

4. La traduzione filmica-citazione. In questa categoria la dominante è il motivo.
Si tratta di film piuttosto simili a quelli che rientrano nella tipologia precedente, ma hanno un legame meno stretto con l’originale, in quanto a livello di motivo è possibile effettuare la traduzione filmica non soltanto di un’opera, ma di tutto un autore. Si tratta di film spesso composti da episodi slegati, poiché, unificando più opere, diviene difficile preservare la specificità dell’autore e i legami causali tra fatti e personaggi. In essi viene rappresentato il cronòtopo concreto (concettualizzato). Lo scenario storico è riconoscibile, ma risulta modificato, in quanto comportamento, oggetti e concezione vengono dotati di un nuovo simbolismo o arricchito da effetti di luce , colore e suono.

5. La traduzione filmica tematica. Queste traduzioni hanno come dominante il tema. I motivi rientrano qui nel tema e viene conservata la maggior parte dei motivi autoriali. Il cronòtopo è legato al tema, ma può essere arcaizzato o modernizzato. Si parla dunque di cronòtopo compensatorio. Traduzioni filmiche tematiche sono ad esempio film tratti da opere letterarie nelle quali l’autore non ha concretizzato il cronòtopo o film che traducono il tema di un’opera in un altro cronòtopo, generalmente modernizzando il tema. In questo caso il tema viene conservato inalterato, ma la poetica dell’autore non viene osservata.

6. La traduzione filmica descrittiva. Le traduzioni di questo tipo si basano sul conflitto e sullo tentativo di rafforzare tale conflitto. Ciò diviene possibili grazie al cronòtopo associativo.

7. La traduzione filmica espressiva. Dominante di questa categoria è il genere. Il testo viene ricostruito liberamente a seconda del genere e viene ambientato nell’epoca contemporanea o in una dimensione atemporale. Le traduzioni filmiche

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espressive possono essere considerate universali, in quanto hanno un legame debole con il tempo e lo spazio. Si parla di cronòtopo astratto (modificato).

8. La traduzione filmica libera. Quest’ultima tipologia di traduzioni si basa sull’interpretazione o sulla versione e trasmette una versione del testo molto originale. In confronto ai film tematici, questi film sono più concettuali, spesso anche più fedeli all’originale, sebbene lo stile del regista sia fondamentale. Nonostante le vicinanza al testo il regista, elimina, aggiunge, inserisce modifiche ed elementi del proprio stile. La dominante è il cronòtopo concreto (del regista).6

1.3 Il processo traduttivo

Come già detto in uno dei paragrafi precedenti, nella traduzione intersemiotica il tipo di codice del prototesto è diverso dal tipo di codice del metatesto. La strategia traduttiva consiste dunque nell’analizzare il prototesto nei suoi vari elementi costitutivi, decidere per ognuno se eliminarlo, conservarlo o modificarlo ed infine ripensare il testo mediante gli strumenti a disposizione nel tipo di codice del metatesto. La fase sintetica finale di ricomposizione dei diversi elementi nel metatesto ha come punto fondamentale la coesione e la coerenza del metatesto. Ma il processo traduttivo appena descritto non riguarda però solo la traduzione intersemiotica, ma, al contrario, accomuna tutti i vari tipi di traduzione. Analizziamolo quindi con più attenzione.

Il processo traduttivo è scomponibile in due diverse fasi, la fase di analisi e la fase di sintesi. La prima prevede la lettura e l’analisi del testo di partenza, il prototesto, al fine di individuarne la dominante, ossia un elemento che costituisca la caratteristica principale attorno alla quale si costruisce l’identificazione dell’intero testo, e le possibili dominanti del metatesto, ossia gli aspetti più facilmente traducibili e più importanti da tradurre nella cultura ricevente. Il traduttore deve quindi concentrarsi sulla distinzione tra elementi neutri ed elementi specifici, distinzione da compiere valutando il contesto culturale (rimandi intertestuali), il

6 P. Torop, 2000, p. 333-343

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contesto poetologico del singolo autore (rimandi intratestuali) e gli elementi verbali immediatamente precedenti e successivi all’elemento in questione (co- testo). Il traduttore privilegerà certi aspetti del prototesto e ne porrà altri, considerati secondari, in secondo piano.

In questa fase è poi necessario individuare anche il residuo traduttivo e sviluppare una strategia per una resa di tale resisduo al di fuori del testo tradotto: una resa metatestuale.
La seconda fase consiste nella stesura vera e propria del testo tradotto, il metatesto. È la fase di sintesi, in cui il traduttore proietta il prototesto su un lettore modello, ossia quello che secondo il traduttore potrà essere il lettore tipo del metatesto, il destinatario immaginato dall’autore.

Il processo traduttivo può inoltre essere incentrato sulla fase di analisi (e quindi la dominante della traduzione è l’attenzione per l’autore del prototesto) o sulla fase di sintesi (e allora la dominante della traduzione è l’attenzione per il lettore modello del metatesto). Il processo traduttivo può quindi orientarsi verso due diversi poli, quelli che il ricercatore israeliano Gideon Toury chiama «principio di adeguatezza» e «principio di accettabilità».7 Secondo la strategia dell’adeguatezza la dominante del metatesto è la resa del prototesto in quanto tale e non la facilità di ricezione del metatesto secondo i canoni della cultura ricevente. Le traduzioni di questo tipo sono quelle che danno un buon apporto allo scambio tra culture, poiché conservano molto di ciò che è culturospecifico dell’originale. Secondo la strategia dell’accettabilità, invece, la dominante del metatesto non è il prototesto, ma la facilità di ricezione del metatesto secondo i canoni della cultura ricevente. Queste traduzioni, al contrario delle precedenti, non danno un grande apporto alla cultura ricevente in quanto molto di ciò che è culturospecifico del prototesto viene modificato.

7 B. Osimo, 2002, p. 241

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1.3.1 I modelli di approccio all’analisi comparativa

Uno dei punti cardinali intorno a cui vertono gli studi sul processo traduttivo è la descrizione delle scelte traduttive, o delle differenze esistenti tra prototesto e metatesto.
Negli ultimi decenni sono stati elaborati modelli che analizzano i cambiamenti microstrutturali, ovvero cambiamenti che riguardano unità di testo piccole come ad esempio parole, a prescindere dal contesto testuale, e ne traggono conclusioni per quanto riguarda il testo nell’insieme, o perlomeno producono un elenco dei microcambiamenti che hanno interessato un dato metatesto. Accanto a questi, ci sono poi modelli cronotopici in cui le categorie di cambiamenti non sono assolute come nel primo caso, ma specifiche, relative al contesto poetologico e culturologico del testo in questione e derivanti direttamente dalla sua analisi traduttologica.8

Esempio del primo tipo è il modello di Leuven-Zwart. La studiosa nederlandese è stata tra le prime ad affrontare la questione della critica della traduzione ponendosi concretamente il problema dell’analisi comparativa degli elementi di due testi in generale, e di prototesto e metatesto in particolare.

Tale modello è un modello bottom-up, poiché procede dal basso verso l’alto, ossia non prevede un’analisi preventiva della poetica globale del testo da cui si desumono le categorie da sottoporre ad un’analisi comparativa. Il modello analizza le caratteristiche dei cambiamenti del testo a priori e, solo in seguito, prova ad individuare le conseguenze globali.9

Si procede individuando nell’originale e nella traduzione i rispettivi transemi, ossia unità testuali comprensibili, che possono contenere o meno un predicato (ogni enunciato può essere scomposto in transemi). In seguito si esamina la relazione tra originali e traduzioni in termini di similarità rispetto a un arcitransema, cioè un comune denominatore tra transema di un testo e transema dell’altro testo. Le relazioni che ne risultano possono rientrare in due diverse categorie, le relazioni di modulazione e le relazioni di modifica, dove per

8 B. Osimo, 2004, p. 90 9 B. Osimo, 2004, p. 91

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relazione si intendono i rapporti di somiglianza o dissomiglianza tra due entità e, nel caso specifico, tra transemi di un testo e transemi del testo che vi viene confrontato.
Le relazioni di modulazione sono relazioni di cambiamento binario e sono quelle in cui il cambiamento che avviene tra un elemento del prototesto e un elemento del metatesto segue la logica di una biforcazione lungo il continuum generalizzazione versus specificazione. Le relazioni di modulazione (specificazione o generalizzazione) si possono inoltre ulteriormente suddividere a seconda che riguardino: cultura (nazione, regione, etnia, comunità, professione ecc.), spazio (localizzazione, esotizzazione, universalizzazione), tempo non verbale (storicizzazione, modernizzazione, acronizzazione), idioletto dell’autore (accentuazione, ricostruzione, livellamento), idioletto del personaggio (accentuazione, ricostruzione, livellamento), stile del testo (accentuazione, ricostruzione, livellamento), registro (accentuazione, ricostruzione, livellamento), figura retorica (conservazione, adattamento, parafrasi).

Le relazioni di modifica sono invece relazioni di cambiamento non binario e riguardano sia la categoria del contrasto, sia quella della modulazione non binaria sotto il nome di «cambiamento non binario». La relazione di contrasto si verifica nel caso in cui un elemento del testo viene modificato in modo da renderlo irriconoscibile. Il contrasto può manifestarsi come omissione, aggiunta o cambiamento radicale di senso. Si ha invece una relazione di cambiamento non binario quando tra i due elementi del prototesto e del metatesto c’è una differenza che non è lungo il continuum tra due poli, ma è una differenza di carattere diverso da quello binario, ossia riguarda un elemento di testo al quale l’alternativa non è una sola, ma sono svariate.10

A quest’ultimo gruppo fanno riferimento anche le categorie, generalmente grammaticali o sintattiche, che non potrebbero caratterizzare una modulazione binaria, quali ad esempio: tempo e modo verbale, persona e classe grammaticale, forma verbale (passivo/attivo), aspetto verbale (perfettivo/imperfettivo), inversione d’ordine di elementi dell’enunciato.

10 B. Osimo, 2004, p. 90

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Quindi dopo aver individuato ed analizzato i microcambiamenti, se ne esaminano gli effetti potenziali sulla macrostruttura del metatesto.
Un esempio del secondo tipo è invece il modello cronotopico di Torop, un modello top-down, ovvero dall’alto al basso, in quanto analizza i dettagli solo dopo averne individuato l’importanza sistemica. Questo modello parte quindi dall’analisi traduttologica del testo specifico e, individuate le caratteristiche salienti degli elementi in riferimento allo specifico sistema-testo, controlla le alterazioni della poetica del testo introdotte dai cambiamenti traduttivi.11

Una delle difficoltà principali consiste nel tracciare un collegamento tra elementi linguistici e conseguenze strutturali. Occorre quindi che l’analisi traduttologica individui la dominante e le sottodominanti del testo e ne tracci le manifestazioni sul piano linguistico. Ecco alcune delle categorie fondamentali:

1. le parole concettuali, importanti non per la loro espressività, o perché collegano elementi distanti della struttura testuale, ma perché esprimono direttamente, attraverso il loro significato, concetti importanti per il contenuto complessivo del testo. La ripercussione della manipolazione di queste parole si riflette sul contenuto del testo;

2. le espressioni funzionali, che sono parole in sé secondarie, ma collocate e disseminate nel testo in modo strategico, al fine di collegare zone del testo fisicamente distanti, per creare riecheggiamenti tra un passo e l’altro, che fungono da rimandi intratestuali. Le espressioni funzionali possono anche essere definite parole-ponte o dettagli allusivi e la ripercussione della loro manipolazione avviene sulla struttura del testo;

3. i campi espressivi, costituiti da parole, modi di dire, forme grammaticali o sintattiche, ripetizioni, marche che caratterizzano lo stile di un personaggio, di un ambiente. Rispetto alla categoria precedente, la differenza risiede nel fatto che non si tratta di rimandi interni, ma sono caratteristiche dell’espressività di un autore, dello stile dell’autore modello. La manipolazione di queste espressioni si

11 B. Osimo, 2004, p. 90

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ripercuote sulla poetica del testo e la loro significatività è riscontrabile sia statisticamente sia a una lettura attenta o professionale;

4. i deittici, elementi linguistici che fanno implicitamente riferimento alle coordinate spazio-temporali dell’enunciazione in termini assoluti e non relativi, per esempio i pronomi personali, gli aggettivi dimostrativi, alcuni avverbi: qui, ora, dopo, là, questo, quello, ecc. I deittici danno per scontato che certi concetti da loro espressi, e per definizione relativi, possano essere compresi dal destinatario, pur essendo impliciti. Poiché riflettono un rapporto individuale dell’autore modello o del personaggio nei confronti della situazione, l’alterazione dei deittici si ripercuote sulla relazione tra individui, sulla psicologia individuale del personaggio o dell’autore. In traduzione è frequente una tendenza inconsapevole a modificare i deittici nell’atto stesso di mediazione culturale;

5. l’intertestualità, ovvero i rimandi da un testo ad un altro, e i realia, ovvero parole che denotano cose materiali culturospecifiche, sono entrambi elementi che caratterizzano le relazioni di un testo (e di una cultura) con le altre culture. La ripercussione della loro manipolazione avviene sulla relazione tra sistemi culturali, quindi sulla psicologia di gruppo di elementi della cultura del testo.12

Queste cinque categorie fondamentali sono collocabili lungo il continuum proprio versus altrui, dove per proprio intendiamo proprio del prototesto, ossia dell’autore e della cultura emittente, mentre per altrui intendiamo proprio del metatesto, ossia del traduttore e della cultura ricevente.13 La collocabilità di queste categorie lungo tale asse indica che sono cronotopiche, ossia che sono inserite nel quadro di un’analisi specifica di un testo. Le categorie di Leuven-Zwart, al contrario, non sono collocabili sull’asse proprio/altrui, perché non sono cronotopiche. Nel passaggio da «albero» a «pioppo», non c’è né appropriazione né riconoscimento, ma una specificazione, indipendente dal co-testo e dal contesto.

Entrambi gli approcci presentano sicuramente dei vantaggi. Il modello di Leuven- Zwart permette, ad esempio, di prendere in esame anche le modifiche a parti del

12 B. Osimo, 2004, p. 91
13 B. Osimo, 2004, p. 92-93

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testo che non hanno un’importanza strategica, ma che tuttavia esistono, come ad alcuni aspetti del lessico, (quelle parole che non rientrano nelle cinque categorie indicate per il secondo modello). L’approccio top-down permette invece di mettere immediatamente in luce gli elementi fondamentali, distinguendoli da quelli di sfondo. In mancanza di un’analisi cronotopica, la decisione riguardante i cambiamenti traduttivi finirebbe per rivolgersi indifferentemente ad un elemento piuttosto che ad un altro, indipendentemente dalla loro importanza sistemica e trascurando la dominante e le sottodominanti.

Osservando il modello di Leuven-Zwart per la parte che riguarda le modifiche lungo il continuum generalizzazione versus specificazione, notiamo che la studiosa introduce una dicotomia complementare rispetto alla dicotomia proprio/altrui. Mentre tale distinzione riguarda una relazione tra culture, la distinzione specificazione versus generalizzazione può anche riguardare elementi interni ad un’unica cultura. Diviene quindi possibile sovrapporre le due categorie ed usarle entrambe. Da questa sovrapposizione risulta dunque che una modifica traduttiva potrà essere considerata appropriante e generalizzante, appropriante e specificante, riconoscente e generalizzante, riconoscente e specificante.14 Per esempio, la paella spagnola in una traduzione può diventare «risotto» (appropriante e generalizzante), oppure «risotto alla milanese» (appropriante e specificante), oppure «piatto di riso tipico spagnolo» (riconoscente e generalizzante) oppure ancora «paella con frutti di mare e verdura» (riconoscente e specificante).

1.3.2 Un modello di sintesi dei cambiamenti traduttivi

Tuttavia, sia nell’opposizione tra proprio e altrui sia nel caso della dicotomia generalizzazione versus specificazione ci sono casi in cui il cambiamento va in una terza direzione. Nel primo caso questa terza possibilità è quella della standardizzazione o omologazione, e consiste nel modificare un elemento non nella direzione della cultura ricevente, né in quella della cultura emittente, ma in

14 B. Osimo, 2004, p. 92-93

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direzione di una cultura generica, al di sopra delle culture in esame e standard per entrambe. Ciò porta dunque a correggere l’opposizione binaria facendola diventare un’opposizione tripolare in cui si avranno tre diversi poli: appropriazione dell’altrui, riconoscimento dell’altrui e standardizzazione. Allo stesso modo, nella dicotomia generalizzazione versus specificazione, vi è la possibilità di una terza via, ovvero un trattamento neutro dell’elemento testuale, che non sia né specificante né generalizzante. I cambiamenti traduttivi verranno quindi catalogati lungo un continuum tripolare avente come poli: generalizzazione, specificazione e resa neutra.15

Se quindi si modifica la quadripartizione ottenuta tra proprio versus altrui e generalizzazione versus specificazione aggiungendo una terza possibilità in entrambi i casi (resa neutra e standardizzazione), si ottiene una divisione in nove parti da cui una trasformazione potrà risultare:

  • −  appropriante e generalizzante, appropriante e specificante, appropriante e neutra;
  • −  riconoscente e generalizzante, riconoscente e specificante, riconoscente e neutra;
  • −  standardizzante e generalizzante, standardizzante e specificante, standardizzante e neutra.16Un modello unico e onnicomprensivo, che tenga conto di entrambe le visioni e che accorpi la tipologia dei cambiamenti possibili tra prototesto e metatesto, deve inglobare svariati elementi, ossia: la nonapartizione sopra descritta, le cinque categorie dell’analisi cronotopica, le tre categorie aggiuntive che non rientrano nell’analisi cronotopica ma sono parimenti soggette ad appropriazione, riconoscimento e standardizzazione e a generalizzazione, specificazione e resa neutra (ossia lessico generico, sintassi, versificazione), la categoria degli elementi che si modificano senza però seguire né il continuum generalizzazione versus specificazione né il continuum proprio versus altrui (ossia le modifiche che

    15 B. Osimo, 2004, p. 94-95 16 B. Osimo, 2004, p. 95

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Leuven-Zwart chiama di contrasto e tutte le modifiche né binarie né ternarie, come ad esempio quelle grammaticali). In questo modo si ottiene questo modello di sintesi:

n

metodo d’individuazione

cambiamento riguardante:

tipo di modulazione cultura propria/

aspecifico cultura altrui

ricaduta

1

generico

opposizioni non ternarie: omissioni, aggiunte, cambiamenti radicali di senso, cambiamenti grammaticali non binari

senso generico

2

generico

punteggiatura, metrica, rima

specificazione generalizzazione resa neutra

appropriazione riconoscimento standardizzazione

ritmo

3

generico

sintassi

poetica sintagmatica

4

generico

lessico

paradigma lessicale

5

cronotopico

parole funzionali

poetica strutturale

6

cronotopico

campi espressivi

poetica del macrotesto

7

cronotopico

parole concettuali

poetica del microtesto

8

cronotopico

realia, intertesti

psicologia gruppo

9

cronotopico

deittici

psicologia individuale17

La prima categoria racchiude tutte le opposizioni non binarie, ossia tutti quei cambiamenti che possono dare luogo a numerose alternative, a volte infinite. Vi rientrano omissioni, aggiunte, cambiamenti radicali di senso, cambiamenti di categoria grammaticale. L’arbitrarietà del cambiamento genera in questi casi una quantità indefinita di altre possibilità. Le categorie dalla seconda alla quarta sono invece categorie generiche. In esse occorre compiere una raffronto dell’uso lessicale, metrico e sintattico rispetto all’uso standard. Servono ad individuare scostamenti del traduttore dalle scelte dell’autore, scostamenti che possono realizzarsi in entrambe le direzioni, quali ad esempio, l’uso marcato di una parola nel prototesto resa con un uso non marcato nel metatesto. Infine, le ultime cinque

17 B. Osimo, 2004, p. 97

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categorie sono il risultato dell’analisi cronotopica e vengono realizzate su misura per i singoli testi. Durante l’analisi comparativa tra prototesto e metatesto, per poter ripartire i cambiamenti in queste categorie occorre svolgere un’analisi del testo specifico in modo tale da ricavare tutti i dati necessari.

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2. DOPPIO SOGNO DI ARTHUR SCHNITZLER E EYES WIDE SHUT DI STANLEY KUBRICK

2.1 Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler nasce a Vienna il 15 maggio 1862. La sua è una famiglia di origine ebraica assimilata alla società borghese della capitale. Nel 1885 consegue la laurea in medicina e inizia la pratica in ospedale. Durante gli studi universitari emerge però la sua inclinazione letteraria e il giovane Schnitzler entra nel mondo letterario viennese frequentando il famoso caffè Griensteidl, dove si riunivano gli scrittori del gruppo Jung Wien (Giovane Vienna), di cui facevano parte H. Bahr, H. von Hofmannsthal e R. Beer-Hofmann.

Nel 1886 entra come medico subalterno al Policlinico di Vienna nel reparto di psichiatria del professor Theodor Meynert, uno dei maestri di Sigmund Freud. Comincia a pubblicare regolarmente poesie, schizzi e aforismi nelle riviste Deutsche Wochenschrift e An der schönen blauen Donau. Nel 1888 fa stampare a sue spese la sua prima opera teatrale, l’atto unico Das Abenteuer seines Leben (L’avventura della sua vita). Fra il 1988 e il 1893 scrive Anatol, un ciclo di sette brevi episodi in un atto, intrecciate l’una all’altra, che descrivono diversi momenti della vita di un elegante e frivolo damerino viennese.

Alla morte del padre, nel 1893, lascia l’impiego ospedaliero e apre uno studio medico privato. Inizia anche a scrivere brevi racconti, ma il suo interesse è in questo periodo legato maggiormente al teatro. Nel 1895 viene rappresentato al Burgtheater di Vienna Liebelei (Amoretto), che consacra Schnitzler come autore teatrale. Il consenso ottenuto con la sua vena distaccata, elegante, ironica e malinconica allo stesso tempo, lo induce ad abbandonare definitivamente la medicina per la letteratura. Nel 1900 pubblica il primo racconto vero e proprio Leutnant Gustl (Sottotenente Gustl), che costituisce il primo esempio nella letteratura tedesca di opera narrativa condotta esclusivamente secondo la tecnica del monologo interiore. Tuttavia l’importanza della novella non va vista solo nella

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novità della realizzazione stilistica, ma anche nella sintesi fra elemento tecnico- formale e analisi psicologica. Leutnant Gustl è il primo di una serie di racconti e romanzi in cui lo scrittore ritrae la condizione di autodistruttiva e alienante solitudine dell’individuo nella società moderna. Nel 1903 va in scena a Monaco di Baviera Reigen (Girotondo) scritto tre anni prima e mai pubblicato, provocando un notevole scandalo per il presunto cinismo con cui vengono rappresentati i rapporti tra cinque uomini e altrettante donne che sono uniti da un filo comune. Con questa commedia Schnitzler cerca di esaminare i problemi delle relazioni tra uomini e donne, attraverso un’analisi profonda e spietata delle motivazioni che sono all’origine delle azioni umane, le complicazioni della vita erotica e la paura della morte. Il testo teatrale viene pubblicato dopo pochi mesi dalla rappresentazione, riportando un successo di vendite strepitoso. Considerata uno schiaffo all’etica borghese, nel 1904 ne viene vietata la pubblicazione in Germania.

Nel 1905 viene messo in scena Zwischenspiel (Intermezzo). Nei primi anni del novecento riprende il suo interesse per la prosa e nel 1908 pubblica il romanzo Der Weg ins Freie (Verso la liberta), che fotografa la situazione della borghesia liberale ebraica alle soglie del novecento. Ma non dimentica il teatro e nel 1912 debutta Professor Bernhardi (Il professor Bernhardi), dramma che scandaglia temi politico-sociali e la difficoltà dell’ebraismo liberale al quale anch’egli apparteneva. Nel 1913 pubblica Frau Beate und ihr Sohn (Beate e suo figlio), nel 1917 pubblica Doktor Gräsler, Badearzt (Il dottor Gräsler medico termale) e nel 1918 Casanovas Heimfahrt (Il ritorno di Casanova). L’autore, molto attratto dalla vita dell’avventuriero veneziano, ne fece il protagonista di opere di invenzione che però riuscivano a rendere con grande precisione introspettiva il carattere del personaggio. Nel 1922 incontra Sigmund Freud. Nel 1924 pubblica la sua prosa più famosa, Fräulein Else (La signorina Elsa), raffinato monologo interiore che si conclude col suicidio. Tra il 1925 e il 1926 esce, pubblicato su una rivista, Traumnovelle (Doppio sogno).

Nel 1928, il dramma. La figlia Lili si toglie la vita. Un gesto inspiegabile per il padre, un durissimo colpo che segnerà molto lo scrittore, il quale smette quasi completamente di scrivere. In quell’anno esce il romanzo Therese. Cronik eines

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Frauenlebens (Therese) e solo alla fine decide di dare alle stampe il racconto Flucht in die Finsternis (Fuga nelle tenebre), che aveva finito nel 1917.
Tre anni dopo, il 21 ottobre, Schnitzler muore, a Vienna, per un ictus.
Le tragedie che lo toccarono negli ultimi anni (la guerra del 1914, il suicidio a Venezia della figlia diciannovenne e la morte dell’amico e compagno di studi Hofmannsthal) segnarono ulteriormente la sua opera, già di per sé venata dalla stanchezza per la vita e dall’attrazione per la morte. Dai suoi romanzi e racconti si evince chiaramente l’interesse per la psicoanalisi. La grande notorietà e il successo che lo accompagnarono in vita provocarono un interesse per lui e la sua opera da parte di Sigmund Freud, il quale confessò di aver evitato Schnitzler fino al 1922 per una specie di “timore del sosia”. Di fatto, l’opera di Freud sembra aver influenzato notevolmente la produzione di Schnitzler. I due si frequentarono poco ma si scambiarono varie lettere. In una di queste Freud si chiede come Schnitzler avesse potuto conseguire conoscenze che a lui stesso erano costate anni di studi e sacrificio sul campo.

2.1.2 Traumnovelle

Fridolin, giovane medico borghese, e sua moglie Albertine, vivono sereni nella Vienna di fine ‘800. Dopo aver messo a letto la loro bambina, si ritrovano a parlare della festa in maschera a cui hanno partecipato la sera precedente. Qui, Fridolin era stato avvicinato con confidenza da due misteriose maschere in domino rosso a lui sconosciute, mentre Albertine era stata oggetto delle attenzioni di uno straniero audace e sgarbato. Entrambi si stuzzicano riguardo alle figure incontrate alla festa, scambiandosi domande ambigue ed insidiose che li portano a confessarsi desideri e pulsioni pericolose e nascoste. Albertine, più sincera ad impaziente, racconta al marito della passione travolgente provata l’estate precedente durante una loro vacanza in Danimarca per uno sconosciuto incontrato in albergo. Pur avendo scambiato con l’uomo nulla di più di qualche lungo sguardo, la donna racconta di essersi sentita pronta a sacrificare il loro rapporto e la bambina se solo lo sconosciuto glielo avesse chiesto. Profondamente turbato

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dalla confessione della moglie, anche Fridolin si trova a confessare di aver provato, durante la medesima vacanza, una forte attrazione per una giovane ragazza incontrata sulla spiaggia. La discussione viene interrotta, poiché Fridolin viene convocato a casa di un paziente in fin di vita, dove, davanti al corpo dell’uomo ormai defunto, sua figlia, Marion, gli rivela di essere innamorata di lui. Fridolin, benché intenerito dalla rivelazione della donna e tentato dal desiderio di vendicarsi del tradimento anche solo immaginato di Albertine, non riesce a provare il minimo interesse per lei e si congeda lasciandola con il fidanzato. Vagando per le strade di Vienna senza alcuna voglia di tornare a casa, incontra una prostituta che lo invita a casa sua. Fridolin accetta, ma con l’intenzione di parlarle e di non toccarla assolutamente. Dopo pochi imbarazzanti minuti Fridolin infatti se ne va. Entra in un bar ed incontra un amico dei tempi dell’università, Nachtigall. Questi gli confessa di dover di li a poco andare a suonare ad un misterioso ballo, dove è costretto a suonare con gli occhi bendati e per accedere al quale è necessaria una parola d’ordine. Fridolin chiede insistentemente a Nachtigall di portarlo con se, ma l’amico gli rivela che non è possibile, perché tutti gli invitati si recano al ballo mascherati ed in costume. Il protagonista prega quindi l’amico di attenderlo ad un vicino bar mentre si reca a noleggiare un costume presso un negozio li accanto, gestito da un bizzarro individuo, Gibiser. Questi, mentre accompagna Fridolin a scegliere il suo abito nel magazzino, scorge sua figlia travestita da Pierrette in atteggiamenti equivoci con due uomini travestiti da giudici della Sacra Veme. Gibiser dichiara ai due uomini di volersi rivolgere alla polizia e inveisce contro la ragazzina definendola una creatura abbietta. Dopo aver pregato Gibiser di non fare del male alla piccola, Fridolin raggiunge Nachtigall, che gli comunica la parola d’ordine (Danimarca), e, dopo aver affittato una carrozza, e segue quella del musicista fino alla misteriosa casa dove si tiene la festa. Qui si trova di fronte ad un gruppo di persone in costumi da monaci e monache e ad un ballo in cui gli uomini travestiti da cavalieri ballano con delle donne completamente nude se non per una maschera sul volto. Fridolin viene subito avvicinato da una donna che gli intima di fuggire affermando che si trova in pericolo, ma egli, intrigato, non le da ascolto. Dopo un secondo avvertimento, anch’esso non ascoltato, il protagonista viene scoperto. Gli viene

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preannunciata una grave punizione e gli viene chiesto di togliersi la maschera. Egli rifiuta categoricamente e, mentre uno degli uomini mascherati si avvicina a lui con l’intenzione di strappargliela, la misteriosa donna che lo aveva avvertito, si offre di riscattarlo. Avvisato di non rivelare a nessuno ciò che ha visto, Fridolin viene caricato su una carrozza che lo abbandona in una zona periferica della città. Rientrato a casa alle prime ore del mattino, trova Albertine profondamente addormentata. Ma improvvisamente la donna inizia a ridere nel sonno e svegliata da Fridolin, gli confessa di aver fatto un sogno orribile. Ha sognato di tradirlo con l’uomo incontrato in Danimarca e con altri uomini in un’orgia, mentre Fridolin vagava cercando di rubare per lei ricchezze di ogni tipo e scoperto, veniva imprigionato e crocifisso. Albertine provava piacere nel deriderlo e nel vederlo soffrire crocifisso, ed é da questo piacere che é scaturita la risata che Fridolin ha udito. Il protagonista, estremamente sconvolto dal racconto di Albertine, il giorno seguente cerca di dare un senso ai fatti avvenuti la notte precedente. Tenta quindi di rintracciare Nachtigall, ma alla locanda dove alloggia scopre che il musicista è partito all’alba, appena rientrato, scortato da due uomini. Si reca poi al magazzino dei costumi per restituire l’abito, e qui scorge uno dei due uomini della notte precedente uscire dalla stanza di Pierrette . Chiede spiegazioni a Gibiser, che gli risponde chiedendogli velatamente se è interessato a Pierrette. Disgustato, Fridolin decide di tornare alla villa, dove, dopo pochi minuti, un servitore gli consegna una lettera d’avvertimento.

Dopo aver portato a termine alcune visite torna a trovare Marianne, deciso a tradire con lei Albertine, ma anche questa volta i suoi propositi sono inutili. Né lui né Marianne tentano alcun approccio nei confronti dell’altro.
Compra quindi un pacco da regalare a Mizzi e la va a trovare, ma scopre che la ragazza è stata portata all’ospedale. Prendendo quest’ultima notizia come un ulteriore segno del fallimento di ogni suo tentativo di vendicarsi di Albertine, entra in un bar, dove, su un giornale, legge dello strano ricovero per avvelenamento di una misteriosa e bellissima baronessa. Identificandola con la donna incontrata alla riunione segreta decide di cercare di rintracciarla, ma scopre che è morta. Sfumata ogni possibilità di fare luce sugli eventi della notte precedente, si reca all’obitorio per vedere il corpo della donna. Esamina

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attentamente il cadavere cercando di capire se si tratta della sua salvatrice e china il capo quasi come per baciarla ma si trattiene. Al suo ritorno a casa trova sul suo cuscino, accanto ad Albertine, la maschera indossata alla festa da ballo. Vedendola, scoppia a piangere e decide di confessare tutto alla moglie.

Dopo aver ascoltato pazientemente il racconto di Fridolin, Albertine dice che devono ringraziare il destino che ha permesso loro di uscire incolumi dalle rispettive avventure e di essersi definitivamente svegliati per poter continuare la loro vita insieme.

2.1.3 Breve analisi del racconto

In Traumnovelle, Schnitzler racchiude lo smarrimento, i dubbi, le angosce e i desideri repressi che portano all’alienazione e alla vicendevole estraniazione i due personaggi principali, ma anche la volontà di risolvere il dissidio tra l’accettazione razionale della morale convenzionale ed il prepotente desiderio istintuale di libertà.

Il racconto ruota attorno alla dicotomia fedeltà-tradimento e si articola in sette parti, ognuna delle quali attraversa una fase particolare della crisi della coppia, del progressivo e parallelo allontanamento e ricongiungimento affettivo di Fridolin e Albertine.

La discussione notturna che apre il racconto travolge le presunte certezze sulle quali la coppia basava completamente la propria vita, rivelandone la reale precarietà. Fridolin, sconcertato dalle confessioni della moglie ed in preda a rancore e desiderio di rivalsa, vive una serie di esperienze in cui si trova ad un passo dal tradire Albertine. Alla coppia occorrerà uno sforzo alla reciproca comprensione per riacquistare l’equilibrio compromesso, ma, al termine della vicenda, si ricongiungeranno nella volontà di mettere a tacere i fantasmi dell’inconscio e di guardare alla crisi come ad un ostacolo da superare per giungere ad un nuovo ed indispensabile ricongiungimento.

Il racconto è percorso quasi interamente dal tema del sogno. Il sogno-realtà di Albertine e la realtà-sogno vissuta da Fridolin. Improvvisamente emerge un

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vissuto sommerso mai affrontato prima, cadono barriere e i due protagonisti si spingono su di un terreno insondato. Albertine, attraverso il sogno, intraprenderà una specie di viaggio liberatorio negli abissi della coscienza. Ma il suo sogno è speculare rispetto all’avventura reale del marito, con la sola differenza del capovolgimento della situazione conclusiva, che vede Albertine tradire Fridolin e Fridolin, incapace di portare a termine qualsiasi tradimento, di fronte a una serie di atti mancati. Albertine riesce a liberare il proprio desiderio di tradimento dai vincoli della razionalità, abbandonandosi con crudele entusiasmo alla passione fino ad allora repressa, che esplode nella sua perversa risata. Il sogno, le permette di vendicarsi dell’incomprensione del marito e assorbe così tutti i suoi impulsi aggressivi. Trovando poi la forza di raccontare la sua vendetta, Albertine spinge Fridolin a riflettere inconsciamente sulla sua stessa ricerca di infedeltà, che non è mai divenuta realtà solo per uno strano gioco del destino18. Da questo momento quindi anche Fridolin ricomincia inconsapevolmente a rientrare lentamente nella normale sfera della sua esistenza.

La figura femminile, si mostra quindi capace sia di un salto nel buio verso l’incognito, sia, al termine del racconto, della paziente attesa per la riconquista dell’equilibrio messo in discussione.
Lo smarrimento esistenziale di Fridolin è invece più complesso. La sua sicurezza è solo apparente e la debolezza che in realtà contraddistingue il suo carattere lo espone più facilmente della moglie alle seduzioni della realtà circostante. Ma nelle donne che incontra Fridolin ricerca sempre l’immagine di Albertine e se ne renderà conto solo al termine della vicenda. Il suo lungo calvario interiore distrugge la sua apparente sicurezza e la vista della maschera portata durante la misteriosa festa appoggiata sul suo cuscino, è sufficiente a provocarne il crollo definitivo.19 Caduta la maschera, riaffiora in lui la coscienza del suo reale rapporto con Albertine.

Grazie all’utilizzo di tecniche narrative quali il monologo interiore o il flusso di coscienza e ad uno stile capace di riflettere le più lievi sfumature della psiche o i più nascosti moti inconsci Schnitzler riesce a far emergere la crisi dell’individuo di fronte all’instabile realtà dell’esistenza e come la presunta solidità può essere

18 G. Farese, 1977, p. 126 19 G. Farese, 1977, p. 130

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sovvertita improvvisamente nel momento in cui la parte irrazionale prende il sopravvento.

2.2 Stanley Kubrick

Stanley Kubrick nasce nel Bronx il 26 luglio 1926 da genitori ebrei di origine austriaca. A diciassette anni diventa fotografo free-lance per la rivista Look. Verso la fine degli anni ’40 comincia ad appassionarsi di cinematografia e a 19 anni trascorre cinque sere a settimana nella sala di proiezione del museo d’arte moderna di New York a vedere vecchi film. Nel 1950, realizza il suo corto d’esordio Day of the fight (Il giorno del combattimento), filmato di una quindicina di minuti dedicato a una giornata del pugile Walter Cartier, autoprodotto con 3900 dollari di spesa e in seguito acquistato per 4000 dollari dalla RKO per la serie This is America. Entusiasta del successo ottenuto, lascia il lavoro al Look e si dedica completamente alla realizzazione cinematografica. Seguono altri due cortometraggi Flying Padre (Il padre volante, 1951) incentrato sull’attività di un parroco cattolico del New Mexico, e The seafarers (I marinai, 1952), documentario di circa trenta minuti commissionato dall’ Atlantic and Gulf Coast District of the Seafarers International Union.

Con l’aiuto economico di parenti e amici Kubrick riesce a mettere insieme i soldi per girare il suo primo lungometraggio, Fear and Desire (Paura e desiderio, 1953). Costato attorno ai 40.000 dollari, oggi risulta praticamente introvabile.
Nel 1955 gira Killer’s kiss (Il bacio dell’assassino), acquistato dalla United Artists e distribuito in tutto il mondo. Kubrick si occupa non solo della regia, ma anche di fotografia, montaggio, soggetto, sceneggiatura e produzione. Già dagli esordi, dunque, stupisce l’ambiente del cinema con la sua capacità di controllare tutte le fasi del processo creativo, una costante tipica del suo successivo modo di lavorare. Nel 1956 il regista entra in società con il produttore James B. Harris e, sbarcati ad Hollywood, danno vita a The killing (Rapina a mano armata, 1956), primo film girato in studio. Nel 1957 i due realizzano il film antimilitarista Paths of Glory (Orizzonti di gloria) tratto dal racconto di Humprey Cobb. Inizialmente il progetto

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del film viene rifiutato da tutte le case di produzione, ma quando Kirk Douglas accetta di interpretarlo, la United Artists decide di finanziare il film. Nel 1959 Kubrick viene chiamato dallo stesso Douglas a sostituire il regista Anthony Mann nella direzione di Spartacus (1960). Il film ottenne quattro premi Oscar (miglior attore non protagonista, scenografie, costumi e fotografia). Nel 1958 Kubrick e James B. Harris acquistano i diritti del romanzo di Vladimir Nabokov Lolita. Il film viene realizzato nel 1962 in Inghilterra, in quanto in America la censura ne ostacola la realizzazione. Dopo Lolita, James B. Harris e Kubrick smettono di lavorare insieme e Kubrick inizia a produrre i suoi film oltre che dirigerli. Da questo momento in poi il regista si stabilisce definitivamente nel Regno Unito e tutti i suoi film seguenti vengono realizzati qui. Ha inizio anche la sua vita sempre più appartata e lontana dalla mondanità. I suoi interventi pubblici si diradano sempre più. Nasce una vera e propria leggenda sulle sue manie. Le cronache parlano di un uomo scontroso, autoreclusosi nella sua villa-fortezza con sua moglie, i suoi figli e i suoi animali.

Nel 1963 gira Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore, 1964) commedia nera sull’era della Guerra fredda tratta dal romanzo Red Alert di Peter Gorge. La pellicola provocò grande attenzione ed ammirazione da parte dei critici di tutto il mondo e gli valse tre nomination all’Oscar. Dopo quattro anni di meticolosa lavorazione produce il capolavoro 2001: A space odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) costato 10 milioni di dollari. Grazie al film Kubrick riceve l’Oscar per gli effetti speciali. Ossessivo e nevrotico nella richiesta ai suoi collaboratori della perfezione sia tecnica che formale, questo era l’unico modo che Kubrick conosceva per lavorare. Nel 1971 il regista scrive, dirige e produce A clockwork orange (Arancia Meccanica) pellicola controversa, tratta dal romanzo omonimo di Anthony Burgess. Costato pochissimo e girato con una piccola troupe, nonostante le iniziali censure negli Stati Uniti e in altri paesi europei, il film ebbe enorme successo. Il segno caratteristico del film, dal punto di vista tecnico, è l’impiego massiccio della macchina a mano. Nel 1975 dirige Barry Lyndon, ambientato nel diciottesimo secolo e basato sul racconto di William Makepeace Thackery, che ottiene sette nomination e quattro premi Oscar: migliore fotografia, musica, scenografie, costumi. Girato in Irlanda, Inghilterra, Germania, il film

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comporta un grande dispendio di mezzi, dovuto anche all’ormai leggendario perfezionismo di Kubrick che gira chilometri di pellicola per ogni scena, e impone riprese complicatissime per sfruttare esclusivamente la luce naturale. A questo scopo Kubrick utilizza un obiettivo Zeiss per macchina fotografica adoperato dai tecnici della NASA che gli permette riprese notturne avvalendosi soltanto della luce delle candele. Nel 1980 è la volta di Shining tratto dal romanzo horror di Stephen King, e, ben sette anni dopo, esce Full Metal Jacket (1987), quarto ed ultimo film sulla guerra, questa volta quella del Vietnam.

L’ ultimo film del regista risale al 1999: è Eyes Wide Shut, tratto dal racconto Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Il film inizia ad essere girato alla fine del 1996. Durante i lunghi anni di lavorazione le indiscrezioni sul film trapelate dal set furono pochissime, per contratto gli attori avevano l’obbligo di silenzio fino a lavoro finito e inoltre il film venne girato a mosaico in modo che solo Kubrick e pochi altri potessero ricostruire il film dalle scene evitando cosi eventuali anticipazioni. Il film venne presentato alla 56^ Mostra del Cinema di Venezia e uscì nelle sale dopo la morte del regista avvenuta il 7 marzo 1999 per un attacco di cuore. Voci di corridoio affermano che non fosse riuscito nemmeno a completare il montaggio, fase della lavorazione per lui fondamentale.

Kubrick, è stato un autentico mito del cinema, nella sua carriera ha realizzato 11 film e ognuno è citato come un punto fermo del genere cui appartiene. Nel settembre 1997 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla 54a Mostra del Cinema di Venezia.

2.2.1 Eyes Wide Shut

Bill Harford è un medico affermato, felicemente sposato con Alice e padre di una bambina. La giovane coppia dell’alta società newyorchese, come ogni Natale, si reca al ricevimento a casa di un ricco magnate e paziente di Bill, Victor Ziegler. Qui i due coniugi si perdono di vista. Mentre Alice è oggetto delle insistenti attenzioni di un ricco uomo di mezza età, Bill dapprima incontra Nightingale,

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compagno dei tempi dell’università, ora musicista, ed in seguito viene avvicinato da due intriganti modelle che cercano di circuirlo.
La sera seguente, dopo aver fumato uno spinello, i coniugi commentano i loro incontri durante il ricevimento di Ziegler. Dallo scambio di battute nasce però una schermaglia coniugale. Bill dichiara di essere perfettamente sicuro della fedeltà della moglie. Questo indispettisce profondamente Alice, che rivela al marito di avere provato una irresistibile attrazione per un ufficiale di marina incontrato durante le ultime vacanze. Pur non avendo avuto occasione di avvicinarlo, Alice confessa che sarebbe stata disposta a sacrificare tutta la sua vita passata e presente, sua figlia compresa, pur di trascorrere una sola notte con quell’uomo. Bill è profondamente turbato dalla confessione della moglie, ma si vede costretto da una telefonata ad interrompere la discussione e a raggiungere il capezzale di un suo assistito.

A casa del paziente ormai deceduto Bill è oggetto delle avance della figlia del defunto, Marion, la quale, sconvolta, lo bacia e gli rivela di essere da tempo innamorata di lui. Imbarazzato, Bill si congeda rapidamente. Una volta rimasto solo per le strade di New York, tormentato da immagini erotiche di sua moglie e del marinaio, viene avvicinato da una prostituta che lo invita a casa sua. Bill accetta, ma, una volta li, riceve una chiamata di Alice che lo fa desistere dal suo proposito, riconducendolo a vagabondare per strada.

Si imbatte così nel nightclub dove suona ogni sera l’amico Nightingale. Dopo lo spettacolo, questi gli confessa di dover di li a poco andare a suonare ad una misteriosa festa, dove è costretto a suonare con gli occhi bendati e per accedere alla quale è necessaria una parola d’ordine. Incuriosito, Bill riesce a convincere Nightingale a riferirgli l’indirizzo della festa, a cui dovrà recarsi, come gli indica il musicista, rigorosamente in costume e mascherato. Il protagonista si dirige quindi verso un negozio di costumi, gestito da un bizzarro individuo. Questi, mentre accompagna il dottore a ritirare il suo abito nel magazzino, scorge sua figlia minorenne in biancheria intima assieme a due uomini. Dopo aver chiuso a chiave i due individui in attesa di denunciarli alla polizia, il negoziante consegna abito e maschera a Bill, che si affretta a raggiungere il luogo dell’appuntamento.

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Giunto alla villa e comunicata ai sorveglianti la parola d’ordine (Fidelio) Bill entra. Qui si trova davanti a una cerimonia celebrata da un gerofante in costume rosso e maschera, rito che termina con un orgia. Avvicinato da una donna, questa gli intima di fuggire, affermando che si trova in grave pericolo. Lui rifiuta e, rimasto solo, percorre le stanze e i corridoi della villa, assistendo all’orgia. Nonostante un nuovo tentativo di avvertimento della donna mascherata, che ancora una volta lo esorta ad andarsene, Bill rifiuta nuovamente. Ma dopo pochi minuti viene condotto con una scusa nel salone d’ingresso. Tutti i convenuti sono lì ad attenderlo: la sua natura di intruso è stata scoperta e Bill viene costretto a togliersi la maschera. Mentre gli viene intimato di svestirsi, una donna, la stessa che lo aveva pregato di fuggire, si offre di riscattarlo. Avvertito di non rivelare a nessuno ciò che ha visto o udito, Bill può lasciare la villa.

A casa, Alice dorme profondamente, ma è improvvisamente scossa da una risata isterica. Bill la sveglia e lei gli racconta di aver fatto uno strano sogno in cui lo tradiva con molti uomini e provava piacere nel deriderlo. Di nuovo nella mente di Bill spunta un sentimento di amarezza e rancore nei confronti di Alice.

Il giorno dopo ripercorre le tappe dell’odissea della sera precedente. Cerca quindi di rintracciare Nigthingale, recandosi al suo albergo, dove scopre che il musicista è partito di mattina presto, appena rientrato, scortato da due uomini.
Tornato al negozio di costumi per restituire l’abito, si rende conto di aver perso la maschera. Inoltre trova i due uomini della notte precedente intenti a pagare il gestore del negozio per aver loro “concesso” sua figlia. Sconcertato dall’episodio, Bill si reca poi davanti alla villa, dove, dopo pochi secondi, un uomo che gli consegna una lettera d’avvertimento.

La sera stessa, dopo aver tentato senza risultato di parlare con Marion, va a trovare la prostituta che lo aveva abbordato. Al suo posto trova la coinquilina che gli racconta che la ragazza è risultata positiva al test dell’aids e si è fatta ricoverare in clinica. Tornato in strada, acquista un giornale e una notizia attira la sua attenzione: un’ex reginetta di bellezza è entrata in coma in seguito a un’overdose. Identificando la donna con la misteriosa donna mascherata della sera precedente, decide di cercarla nella clinica dov’è stata ricoverata, ma la giovane è nel frattempo deceduta. Spacciandosi quindi per il suo medico, chiede di vedere il

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cadavere, ma non riesce a capire se si tratti o meno della donna sacrificatasi per lui. Quando vede il suo cadavere in obitorio, Bill fa cenno di volerla baciare ma si trattiene. Mentre lascia la clinica, riceve una telefonata da Ziegler che gli chiede di recarsi da lui. L’amico gli rivela che la notte precedente era anch’egli alla villa. E lo avverte che deve smetterla di fare indagini, di non arrischiarsi a mettersi contro a quella gente, gente potente, i cui nomi lo farebbero rabbrividire. Ziegler afferma che non è successo nulla, che è stata tutta una sciarada, una messa in scena per spaventarlo. Quando si sono accorti che Nightingale aveva parlato, lo hanno rispedito a casa e la misteriosa donna era una prostituta ed è morta di overdose.

Al suo ritorno a casa trova sul suo cuscino, accanto ad Alice, la maschera che aveva creduto persa. Bill scoppia a piangere e decide di confessare tutto alla moglie. La mattina successiva, i coniugi, pur sconvolti sono costretti ad accompagnare la figlia al negozio di giocattoli, per scegliere i regali. Bill non chiede altro che ritornare nella sua comoda e rassicurante vita, alla dimensione coniugale precedente e riceve il perdono di Alice che, scossa dagli avvenimenti, dice a che devono ringraziare il destino che ha permesso loro di superare incolumi le rispettive avventure, reali o sognate.

2.2.2 Breve analisi del film

Era da vent’anni che Kubrick cercava invano di portare sullo schermo Traumnovelle. Nel 1999 ci è riuscito, realizzando Eyes Wide Shut.

Pur mantenendosi filologicamente fedele al racconto, Kubrick opera alcuni cambiamenti. Fridolin diventa Bill (Tom Cruise), Albertine diventa Alice (Nicole Kidman), la Vienna di fine ‘800 viene sostituita dalla New York di fine anni ’90. Mentre il racconto di Schnitzler è ambientato durante il carnevale, il film si svolge nel periodo natalizio. Viene inserito il personaggio di Victor Ziegler, figura chiave nel film ma inesistente nel testo, e viene invece omesso un particolare del romanzo e per nulla irrilevante, la passione che, durante il viaggio in Danimarca citato da Albertine, anche Fridolin prova una forte attrazione per una giovane incontrata sulla spiaggia. Questa rivelazione, nel racconto lo mette quindi, almeno

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in un primo momento, sullo stesso piano della moglie. Entrambi hanno avuto voglia di evadere, di fuggire dalla routine, di inquinare il loro equilibrio di coppia. Fridolin è destabilizzato dal fatto che anche la moglie possa provare pulsioni sessuali e sentimenti a lui sconosciuti, e cerca un modo per ritrovare la sua sicurezza di uomo minata da tali rivelazioni. Al contrario nel film, è solo Alice che rivela di aver provato il desiderio di tradire Bill e questo cambia la prospettiva della vicenda. Bill invece si sente una vittima, vuole vendicarsi, vuole “mettersi in pari” con Alice. Bill appare dunque molto più debole rispetto a Fridolin e diversamente da quest’ultimo che in parte dimostra di possedere un certo grado di consapevolezza e che, nel procedere nelle sue avventure, nella maggior parte dei casi sceglie lui stesso di tirarsene fuori, Bill viene sempre interrotto o salvato da un intervento esterno.

Il personaggio di Ziegler, viene introdotto da Kubrick per rendere un po’ meno ambiguo il finale aperto di Traumnovelle. Introducendo una seppur vaga e dubbia spiegazione dell’accaduto, Kubrick si discosta dal finale di Schnitzler lasciando comunque confuso lo spettatore. E allora, in un’elegante sala, dominata da un biliardo il cui panno rosso evoca di nuovo passione e sangue, Ziegler tenta in un primo momento di calmare Bill, cercando di depistarlo e definendo tutto l’accaduto una «sciarada», ma non riuscendovi, accantona spazientito i toni amichevoli, e suggerisce a Bill di lasciar perdere ogni indagine, minimizzando la morte della ragazza e ricordandogli che, avendo scoperto le cerimonie segrete di uomini i cui nomi, se rivelati, turberebbero i suoi sonni, sta correndo un grave pericolo. Sarà vero quello che ha raccontato Ziegler? Chi era la donna misteriosa? Risposte a che lo spettatore, nello stile di Kubrick, dovrà cercare di intuire.

Ma il personaggio di Ziegler, è importante anche perché é simbolo di uno dei tre protagonisti, che nel film emergono accanto alle vicende della giovane coppia: il potere, il denaro e il sesso.

Il film si compone di cinque parti perfettamente equilibrate, introdotte da un prologo e concluse da un epilogo. La prima (la festa), la terza (la cerimonia) e la quinta parte (il dialogo con Ziegler) sono i luoghi in cui appare il potere, mentre la seconda e la quarta iniziano con due confessioni di Alice e proseguono con due odissee di Bill. Gli uomini del potere si svelano tali nel loro usare i corpi degli

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altri per il proprio piacere. Ziegler, dopo i dialoghi affettati con cui accoglie i

coniugi alla festa, rivela il vero se stesso qualche scena dopo, nel freddo bagno al piano di sopra della casa, dove ha fretta di liberarsi del corpo ormai inutile di Mandy. Sandor Szavost, l’uomo che balla con Alice alla festa di Ziegler, tenta sfacciatamente di appropriarsi del suo corpo. Gli uomini appartenenti alla setta segreta e celati da una maschera esercitano un potere di vita e di morte che emergerà con l’episodio della morte della prostituta.

Altro grande potente è a sua volta il denaro. Denaro col quale Bill crede di poter comprare tutto e che sperpera per ottenere ciò che vuole. In tutto il film il valore delle persone verrà misurato in dollari. E allora Milich, nel secondo incontro con Bill dirà, alludendo alla figlia, «non vendiamo solo costumi»20. Bill verrà identificato come intruso alla cerimonia a causa della sua relativa “povertà” rispetto agli altri invitati (il taxi, il costume a nolo). Privo d’identità, cerca di aggrapparsi al denaro e all’unica maschera che gli rimane, continuando a ribadire la sua identità di medico e mostrando il suo tesserino di medico come un lasciapassare.

Ed il terzo personaggio di questo dramma è il sesso, che nel film è un’ossessione, una presenza soprattutto visiva (la maggior parte degli interni e degli arredi è dominata dal colore rosso, simbolo della passione ma anche del sangue e della morte: rossi sono la porta di casa di Domino, alcune pareti del negozio di Milich, gli interni del Sonata Café, la veste del gerofante e il pavimento della sala dell’orgia). Il sesso é un fantasma nella vita di una coppia il cui erotismo è soltanto immaginato, sospettato o desiderato. L’unica scena di seduzione fra i due dura pochissimi secondi e si svolge davanti a uno specchio, simbolo di doppiezza, con il lento avvicinarsi della macchina da presa in primo piano sul volto di Alice e sul suo sguardo inquieto. Per il resto, il sesso esiste solo nelle fantasticherie di ciascuno dei due coniugi e proiettate verso altri, estranei alla coppia. Sesso dunque anche come simbolo di allontanamento ed estraniazione dunque, ma non solo: in un episodio del film viene associato alla malattia dei nostri tempi, l’Aids, in altri due addirittura alla morte. Marion bacia Bill davanti alla salma del padre e il tanto atteso ricongiungimento con la misteriosa donna incontrata alla riunione

20 S. Kubrick, 1999

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segreta avverrà solo camera mortuaria dell’ospedale. Una sessualità artificiale, meschina e decadente che spesso tende alla morte.

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3. UN PASSO DEL RACCONTO E LA MEDESIMA SCENA DEL FILM: ANALISI COMPARATIVA

3.1 Fridolin incontra Nachtigall, Bill incontra Nightingale

Nella sua odissea notturna, Fridolin, dopo aver vagato per le strade della città, decide di entrare in un caffè. Qui, mentre legge un giornale, nota un uomo, seduto poco distante da lui, che lo fissa insistentemente. È Nachtigall, vecchio compagno di studi dedicatosi ora alla musica, che il protagonista non vedeva dai tempi dell’università.

Allo stesso modo, Bill, dopo l’incontro con la prostituta Domino, approda al Sonata Café, locale dove suona l’amico ed ex compagno di università Nick Nightingale, incontrato la sera precedente al party natalizio di Victor Ziegler.

[…] «Auch privat habe ich manchmal zu tun», […] – «nicht bei Bankdirektoren und soo, nein, in allen mäglichen Kreisen, auch gräßere, äffentliche und geheime.»

«Geheime?»
[…] «Sofort werd’ ich wieder abgeholt.» «Wie, heute noch spielst du?»

NICK: «[…] As a matter of fact, I’ve got another gig later tonight.»
BILL: «You’re playing somewhere else tonight?»

«Ja, dort fangt es nämlich erst um zwei an.»
«Das ist ja besonders fein», […].
«Ja und nein», […].

«Ja und nein?» […].

NICK: «They only get started there around about two.»

«Ich spielle heute in einem Privathaus, aber wem es gehärt, weiß ich nicht.» «Du spielst also heute zum erstenmal

BILL: «In the village?»
NICK: «Believe it or not, I don’t actually know the address yet.»

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dort?» […].
«Nein, das drittemal. Aber es wird wahrscheinlich wieder ein anderes Haus sein.»

BILL: «You don’t?»
NICK: «No. It may sound ridiculous, but it’s in a different place every time, and I only get it about an hour or so before.» BILL: «A different place every time?» NICK: «So far.»

«Das versteh’ ich nicht.»
«Ich auch nicht», […] «Besser du fragst nicht.»
«Hm», […].
«Oh, du irrst dich. Nicht was du glaubst. Ich hab’ schon viel gesehen, man glaubt nicht, in solchen kleinen Städten – besonders Rumänien –, man erläbt vieles. Aber hier…» […] «Noch nicht da» […] «nämlich der Wagen. Immer holt mich ein Wagen ab, und immer ein anderer.»
«Du machst mich neugierig, Nachtigall», […].
«Här’ zu», […]. «Wenn ich einem auf der Welt vergennte – aber, wie macht man nur –», […]: «Hast du Courage?» «Sonderbare Frage», […].
«Ich meine nicht soo.»
«Also wie meinst du eigentlich? Wozu braucht man bei dieser Gelegenheit so besondere Courage? Was kann einem denn passieren?» […].
«Mir kann nichts passieren, heechstens, daß ich zum letzten Male heite – aber das ist vielleicht auch soo.» […].
«Na also?»
«Wie meinst du?» […].
«Erzähl’ doch weiter. Wenn du schon einmal angefangen hast… Geheime

BILL: «What’s the big mystery?»
NICK: «Hey man, I just play the piano.» BILL: «Nick, I’m sorry. Is there something I’m missing here?»
NICK: «I play blindfolded.»
BILL: «What?»
NICK: «I play blindfolded.»

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Veranstaltung? Geschlossene Gesellschaft? Geladene Gäste?»
«Ich weiß nicht. Neilich waren dreißig Menschen, das erstemal nur sechzehn.» «Ein Ball?»
«Natürlich ein Ball.» […].
«Und du machst Musik dazu?»
«Wieso dazu? Ich weiß nicht wozu. Wirklich, ich weiß nicht. Ich spielle, ich spielle – mit verbundene Augen.»

«Nachtigall, Nachtigall, was singst du da für ein Lied!»
[…] «Aber leider nicht ganz verbunden. Nicht so, dass ich gar nichts sehe. Ich seh’ nämlich im Spiegel durch das schwarze Seidentuch über meine Augen…» […].

«Mit einem Wort», […] «nackte Frauenzimmer. »
«Sag nicht Frauenzimmer, Fridolin», […] «solche Weiber hast du nie gesehen.»

BILL: «You are putting me on.»
NICK: «No, it’s the truth and the last time the blindfold wasn’t on so well. Oh, man. Bill, I have seen one or two things in my life, but never, never, anything like this and never such women.»
BILL: «Well…»

[…] «Und wie hoch ist das Entrée?» […].
«Billetts meinst du und soo? Ha, was fallt dir ein.»

«Also wie verschafft man sich Eintritt?» […].
«Parolle mußt du kennen, und jedesmal ist eine andere.»

«Und die heutige?»
«Weiß ich noch nicht. Erfahr’ ich erst vom Kutscher.»

NICK: «Excuse me. Hello. Yes Sir. Yes, Sir, this is Nick. I know where that is. Right. Okay. Well I’m on my way right now. Okay Sir. Thank you. Bye bye.» BILL: «What is this?»

NICK: «It’s the name of a Beethoven opera, isn’t it?»
BILL: «Nick.»
NICK: «It’s the password.»

BILL: «The password?»

«Nimm mich mit, Nachtigall.»

NICK: «Yeah. Look. I’m really sorry to

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«Unmeglich, zu gefährlich.»
«V or einer Minute hattest du doch selbst die Absicht… mir zu ›vergennen‹… Es wird schon möglich sein.»

do this to you, Bill. I gotta get going. I gotta go.»
BILL: «Nick, you know there is no way on earth that you are going to leave here tonight without taking me with you.» NICK: «Come on, buddy, give me a break.»

BILL: «Nick, I’ll tell you what. I’ve already got the password, just give me the address and I’ll go there by myself and there won’t be any connection between us, whatsoever.»

[…] «So wie du bist – kenntest du auf keinen Fall, nämlich alle sind maskiert, Herren und Damen. Hast du eine Maske bei dir und soo? Unmeglich. Vielleicht nächstes Mal. Werde mir was ausspekulieren.» […] «Da ist der Wagen. Adieu.»

[…] «So kommst du mir nicht davon. Du wirst mich mitnehmen.»
«Aber Kollega…»
«Überlass mir alles Weitere. Ich weiß schon, dass es ›gefährlich‹ ist – vielleicht lockt mich gerade das.» «Aber ich sage dir schon – ohne Kostim und Larve –»

«Es gibt Maskenleihanstalten.»
«Um ein Uhr früh –!»
«Hör einmal zu, Nachtigall. Ecke Wickenburgstraße befindet sich so ein Unternehmen. Täglich gehe ich ein paarmal an der Tafel vorbei.» […] «Du

NICK: Listen, let’s just say for one second that I was prepared to do that, you couldn’t get in anyway in those clothes.» BILL: «Why not?»

NICK: «Because everyone is always costumed and masked. Where the hell are you gonna get a costume at this hour in the morning?»22

21 A. Schnitzler, 2000, p. 34-37 22 S. Kubrick, 1999

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bleibst hier noch eine Viertelstunde, Nachtigall, ich versuch’ indessen dort mein Glück. Der Besitzer der Leihanstalt wohnt vermutlich im gleichen Haus. Wenn nicht – dann verzichte ich eben. Das Schicksal soll entscheiden. Im selben Haus ist ein Café, Café Vindobona heißt es, glaube ich. Du sagst dem Kutscher – dass du in dem Café irgend etwas vergessen hast, gehst hinein, ich warte nah der Tür, du sagst mir rasch die Parole, steigst wieder in deinen Wagen; ich, wenn es mir gelungen ist, ein Kostüm zu bekommen, nehme mir rasch einen andern, fahre dir nach – das Weitere muss sich finden. Dein Risiko, Nachtigall, mein Ehrenwort, trage ich in jedem Falle mit.» 21

3.1.2 Analisi mediante il modello cronotopico di Torop

Come già detto nel primo capitolo, compiendo un’analisi basata sul modello cronotopico di Torop, occorre individuare nel testo le cinque categorie principali indicate dallo studioso, ossia: le parole concettuali, le espressioni funzionali, i campi espressivi, i deittici e l’intertestualità e i realia.

1. Le parole concettuali. È sicuramente da annoverare tra le parole concettuali la parola Courage. Il coraggio manca a Fridolin, che, durante il suo vagabondare notturno, nonostante le numerose occasioni di tradire Albertine, vendicandosi così delle sue rivelazioni, non riesce a consumare alcun tradimento. Non reagisce quindi alle avances di Marianne, non riuscendo a sentirsi per nulla attratto da lei,

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ma invece continuando a pensare ad Albertine e non riesce a reagire all’affronto ricevuto per strada da un giovane studente,

Udì una breve risata alle sue spalle, si sarebbe quasi girato di nuovo per affrontare il giovanotto, ma sentì uno strano batticuore…che succedeva, si domandò adirato, e noto che gli tremavano un po’ le ginocchia. Viltà…? Sciocchezze si disse.23

così come il timore della conseguenze gli impedisce di avere un rapporto con la prostituta Mizzi,

Anche un’avventura simile potrebbe concludersi con la morte, pensò, solo che la fine non sarebbe tanto rapida! Di nuovo la viltà? In fondo sì.24

Il sentimento di sconfitta e di umiliazione che invadono l’animo di Fridolin pervadono il racconto, a partire dalla prima rivelazione di Albertine, passando dallo spintone ricevuto in strada da uno studente, al racconto del sogno di Albertine, fino a giungere al momento in cui viene scoperto al ballo segreto e riscattato dalla donna sconosciuta. L’ultima umiliazione, scatta quando, tornando a casa dall’obitorio, trova la maschera sul suo cuscino, accanto ad Albertine.

In questo dialogo tra Fridolin e Nachtigall, quest’ultimo chiede a Fridolin se ha il coraggio necessario per affrontare il ballo e Fridolin risponde in tono risentito, proprio perché inconsciamente colto su un suo punto debole.
Altro concetto che rientra in questa categoria è tutto ciò che si riferisce al campo semantico degli occhi, del vedere e del non vedere. Quindi in questo frammento «verbundene Augen», «nicht ganz verbunden», «dass ich gar nichts sehe», «das schwarze Seidentuch über meine Augen»25. Occhi che dovrebbero essere chiusi ma sono aperti, ossia gli occhi di Nachtigall che, mentre suona a questi balli misteriosi, dovrebbe essere completamente bendato, ma che invece riesce a vedere attraverso il fazzoletto di seta nera che gli copre gli occhi. Occhi chiusi, come gli occhi di Albertine mentre dorme e sogna di tradire e umiliare Fridolin. Occhi

23 A. Schnitzler, 1977, p. 31-32 24 A. Schnitzler, 1977, p. 33
25 A. Schnitzler, 2000, p. 36

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aperti, come quelli di Fridolin, che, al contrario della moglie, durante l’intero lasso di tempo coperto dalla narrazione dorme solamente per qualche breve ora, dopo aver ascoltato il racconto del sogno di Albertine. Le sue avventure, al contrario di quella della moglie, non avvengono in sogno, ma nella realtà. Albertine, anche se solo in sogno, riesce però a sfogare i suoi istinti e la voglia di rivalsa su Fridolin e giunge effettivamente a consumare un tradimento, coronandolo addirittura con l’aperta e plateale derisione del marito. Cosa che Fridolin invece, pur agendo nella realtà e pur trovandosi di fronte numerose possibilità, non riesce a fare.

Ma sono forse allora gli occhi di Albertine gli occhi aperti, consapevoli? Occhi aperti sul desiderio, sull’impulso nascosto che la può spingere a sognare una fuga con un uomo sconosciuto, ad immaginare o a sognare di tradire Fridolin e lasciarlo per sempre. Occhi aperti e pronti a guardare nei meandri del suo animo, del suo inconscio e dei suoi impulsi più segreti. Albertine è la più vicina alla soglia dell’autocoscienza, la più determinata a vedere. Fridolin non vuole vedere, non vuole indagare i recessi dall’animo dalla moglie, di se stesso e della loro relazione. Fridolin fino a quel momento è sicuro di se e di Albertine e impulsive rivelazioni della moglie vanno ad inquinare tutte le sue certezze, sgretolano il suo mondo. Fridolin è risentito, sconvolto, dal tentativo della moglie ad aprirgli gli occhi, di condividere con lui i suoi dubbi e i suoi sentimenti segreti. Albertine scuote il suo mondo, le sue sicurezze e Fridolin non è pronto, non è in grado di guardare la loro vita finalmente ad occhi aperti. E allora fugge, inizia il suo peregrinare in cerca di un’avventura erotica, quale compensazione narcisistica alla ferita infertagli dalla rivelazione di Albertine. Ma è una vendetta più grande di lui, che Fridolin non sarà, nonostante le molteplici occasioni, in grado di portare fino in fondo, e che inevitabilmente si rivolterà contro di lui.

È poi da segnalare tra le parole concettuali la parola Maske. In questo passo, Nachtigall racconta a Fridolin che tutti gli invitati ai misteriosi balli in cui egli ha suonato, sono in costume e mascherati.
Ma le maschere compaiono ben prima nel racconto, già nel primo capitolo. Fridolin e Albertine, la sera precedente alla notte da cui prende avvio la vicenda, partecipano infatti ad una festa da ballo e Fridolin viene avvicinato da due

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«maschere in domino rosso che non era riuscito ad identificare»26, che susciteranno la gelosia di Albertine nella discussione della notte successiva e che ritorneranno alla mente di Fridolin nel suo vagabondare in cerca di rivalsa. Le maschere tornano poi ad essere protagoniste nel magazzino del bizzarro mascheraio Gibiser e alla riunione misteriosa, dove Fridolin vede i corpi nudi di bellissime donne, ma non può vederne il volto, nascosto da mascherine nere. L’assenza di volti è «segno della perdita d’identità che connota la crisi dei protagonisti»27. Infine, la maschera indossata da Fridolin ricompare nell’ultimo capitolo, a letto, accanto ad Albertine, a chiudere il racconto.

Le maschere rimandano a tutto ciò che resta sotto la superficie e sono simbolo di uno dei temi di fondo del racconto, la perdita d’identità, l’alienazione. La vicenda porta ad un progressivo sgretolarsi della maschera dalla tranquilla famiglia borghese, che si rivela tutt’altro che immune ai dubbi e a desideri e impulsi repressi. Agli occhi di Fridolin cade la maschera di Albertine e cade la sua stessa maschera (egli perde Albertine, ma perde anche se stesso), così come nell’ultimo capitolo, per Albertine cadrà la maschera di Fridolin.

Parola concettualmente importante è anche Schicksal (destino). Fridolin, parlando dell’eventualità di trovare un costume ed una maschera all’una del mattino afferma «Das Schicksal soll entscheiden»28, «deciderà il destino». Il tema dell’importanza del destino, qui solo brevemente citato, pervade l’intera vicenda. Un accenno al destino compare sia all’inizio del racconto, nella schermaglia notturna dei due protagonisti,

Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino.29

26 A. Schnitzler, 1977, p. 12 27 G. Farese, 1977, p. 123
28 A. Schnitzler, 2000, p. 37 29 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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sia alla fine, a chiudere il romanzo

«Che dobbiamo fare Albertine?» Lei sorrise, e dopo una breve esitazione rispose: «Ringraziare il destino, credo di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure…da quelle vere e da quelle sognate.»30

Il destino ha impedito che Albertine avesse occasione di fuggire con lo sconosciuto incontrato in Danimarca, così come ha impedito a Fridolin di rivedere la ragazza incontrata sulla spiaggia, ha fatto sì che Fridolin incontrasse Nachtigall e che venisse a conoscenza della festa da ballo segreta, scatenando la serie di eventi che porta alla confessione di Fridolin ad Albertine.

Infine, ultimo concetto importante per il testo e presente in questo dialogo è quello di Risiko e di tutto ciò che rientra nel suo campo semantico, tutto ciò quindi che costituisce un rischio ed è gefärlich (pericoloso). Nachtigall si riferisce alla pericolosità di un’eventuale partecipazione di Fridolin al ballo segreto e Fridolin insiste affermando che è forse proprio la pericolosità dell’impresa che lo attira e che è pienamente disposto a dividere ogni possibile rischio con l’amico.

Di fatto introducendosi al ballo, Fridolin si troverà in una situazione potenzialmente pericolosa e, le conseguenze del suo gesto si ripercuoteranno sulla misteriosa donna che si offre di riscattarlo e, nel caso in cui egli non cessi di indagare sull’accaduto, anche sulla sua famiglia. Ma è pericolosa anche l’attrazione incontrollata che Fridolin prova per la donna, e che lo spinge a cercarla fino all’obitorio, come sono pericolose le rivelazioni che i coniugi si fanno la notte dopo la festa, il percorso di progressivo allontanamento ed alienazione che entrambi compiono e la voglia di rivalsa che spinge Fridolin a cercare un’avventura che possa riscattarlo ai suoi stessi occhi.

Analizzando il tasso di conservazione di questi concetti chiave nel copione del film in lingua originale, notiamo che scompaiono completamente i riferimenti ai temi del coraggio e del destino. Inoltre, né Nightingale né Bill non fanno mai riferimento alla pericolosità dell’impresa. Nightingale dice a Bill che non può assolutamente portalo con se, ma la scena è priva dell’alone di pericolo e

30 A. Schnitzler, 1977, p. 114

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inquietudine che comunica il passo nel racconto. Sono invece presenti i riferimenti agli occhi bendati, al fatto che Nightingale è ugualmente riuscito a vedere e alla necessità di procurarsi una maschera, in quanto tutti gli ospiti sono mascherati.

2. Le espressioni funzionali. In questo frammento del testo, possiamo, a mio parere, riconoscere come espressione funzionale la frase «Besser du fragst nicht»31, «È meglio che tu non faccia domande»32. Varianti di tale espressione si possono ritrovare in altre parti del testo, sempre ad indicare che, oltre a ciò che viene detto dai personaggi, esiste un’altra dimensione che va oltre la superficie, nascosta e segreta, che non è dato conoscere e di cui è forse meglio non venire a conoscenza, ma che suscita invece la curiosità di Fridolin e lo spinge ad indagare, a cercare di approfondire, mettendo quindi in moto gli avvenimenti che seguiranno e fungendo quasi da “motore” nel romanzo. Fridolin vuole conoscere i propri recessi psichici, le fantasie e i segreti della moglie e farà di tutto per sapere chi sono le persone che hanno partecipato alla riunione segreta e cosa sia accaduto. Alla fine del romanzo capirà di non poter soddisfare nessuna di queste curiosità, di non poter rispondere a nessuna di queste domande, e crollerà esausto tra le braccia di Albertine, il suo unico punto fermo.

In questo dialogo, Nachtigall, dopo aver risposto ad alcune insistenti domande di Fridolin riguardo al luogo in cui dovrà suonare, dice di non avere lui stesso spiegazioni razionali alle stranezze legate a queste feste da ballo e suggerisce a Fridolin di non fare altre domande. Fridolin intuisce che queste riunioni nascondono un mistero, un segreto, qualcosa che va oltre la dimensione quotidiana, tranquilla e monotona della vita che lui questa notte ha deciso di dimenticare e proprio questo attira la sua curiosità. Fridolin vuole evadere, vuole uscire dalla routine della sua tranquilla vita di medico rispettabile e vivere un’avventura, vuole entrare nella dimensione nascosta che sta sotto ogni cosa, di cui lui non sapeva o non ricordava l’esistenza e che Albertine gli ha scaraventato addosso distruggendo ogni sua sicurezza.

31 A. Schnitzler, 2000, p. 34 32 A. Schnitzler, 1977, p. 43

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Ed è infatti nella prima conversazione notturna, “motore” primo dell’intera storia, che compare per la prima volta un riferimento a questa espressione. Albertine, dopo che aver raccontato la sua attrazione per l’uomo incontrato in Danimarca, dice al marito «[…] Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità»33. È forse meglio che Fridolin eviti di fare ulteriori domande non perché non ci sia realmente altro da dire, ma per evitare che si dicano cose di cui ci si pentirebbe? C’è qualcosa che Fridolin non deve sapere o è meglio che non sappia? Entrambi i coniugi sanno che dietro le reciproche rivelazioni c’è molto da dire, ma, in un primo momento, preferiscono lasciare certi sentimenti sotto la superficie, perché sono consapevoli della loro pericolosa forza distruttiva. Questi sentimenti però prenderanno prepotentemente il sopravvento, scatenando il sogno di Albertine, e spingendo Fridolin a vivere numerose avventure durante la sua odissea notturna. Ma in questo primo capitolo, Fridolin non chiede altre spiegazioni ad Albertine, la loro conversazione viene interrotta dalla chiamata di un paziente, e Fridolin per l’intera nottata si chiederà cosa nasconda la voglia di Albertine di tradirlo, cosa c’è sotto la superficie di un desiderio così terribile ed estremo, che cosa la spingerebbe a distruggere tutto. Questi dubbi, queste domande, lo tormenteranno tutta la notte ed ancora di più dopo che Albertine gli avrà raccontato il suo sogno.

Infine, un riferimento molto simile compare nel dialogo tra Fridolin e la misteriosa donna mascherata incontrata alla festa segreta

«Non fare domande,» […] «e non meravigliarti di nulla. Ho cercato di sviarli, ma ti dico subito che non mi riuscirà ancora per molto. Fuggi prima che sia troppo tardi. […]»34

Cercando di metterlo in guardia e di spingerlo a fuggire, la donna tenta di depistare i sospetti degli invitati alla festa fingendo di conoscere Fridolin per avvicinarlo nuovamente e dargli un ultimo avvertimento. Fridolin invece, ignorando il suggerimento della donna, insiste, come è avvenuto con Nachtigall, nel voler sapere ciò che non gli è dato sapere, cosa si cela dietro a questo strano

33 A. Schnitzler, 1977, p. 15 34 A. Schnitzler, 1977, p. 58

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circolo segreto e si trattiene con lei, cosa che lo porterà ad essere definitivamente scoperto.
Tale espressione è dunque presente in tre dei momenti chiave della vicenda, come chiaro segno di un messaggio che l’autore da al lettore. È meglio che Fridolin non si interroghi su cose che potrebbero metterlo nei guai, l’infedeltà solo immaginata di Albertine, che invece lo spingerà verso una notte di avventure mancate e pericoli, i segreti nascosti del ballo segreto, che lo spingeranno ad avvicinarsi ad un mondo a lui precluso e pericoloso, e rischiare la vita. Può essere dunque considerato un rimando, che sottolinea l’importanza di ciò che accade, e di ciò che la situazione porterà ad accadere.

Analizzando la scena del film corrispondente a questo frammento del testo, notiamo che l’espressione funzionale da me segnalata non è stata riportata.

3. I campi espressivi. Un elemento che va incluso nei campi espressivi è ogni riferimento al termine geheime (segreto) e Geheimnis (mistero, segreto). Non è la prima volta che Schnitzler si concentra sull’incomunicabilità tra individui e sui segreti che l’animo umano nasconde e che non sono condivisibili nemmeno con il partner, pena l’equilibrio del rapporto.

Tra i personaggi di Schnitzler c’è spesso il vuoto di uno scompenso erotico, che rende impossibile il dialogo umano: un’infedeltà, l’ombra di un segreto, un intimo e incolmabile distacco.35

In questo passo troviamo la parola geheime in riferimento alle feste da ballo dove solitamente Nachtigall suona il pianoforte, ma il tema di ciò che è segreto, nascosto, è, come già visto analizzando le espressioni funzionali e le parole concettuali, un tema cardine dell’autore. Le parole «segreto», «segretezza», «misterioso» si incontrano più di una volta nel romanzo, spesso nei momenti chiave della vicenda, come all’inizio della lite notturna che da inizio alla vicenda, «[…] parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena […]»36. «Segreto» è quindi un termine ricorrente perché l’autore vuole sottolineare la

35 C. Magris, 1996, p. 227 36 A. Schnitzler, 1977, p. 13

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segretezza, l’inafferrabilità dell’animo umano, ricco di regioni inesplorate e pericolose. Anche la nudità delle donne presenti al singolare ballo in maschera, che ad una prima analisi può essere considerata simbolo di apertura, audacia e condivisione, è in realtà una nudità simbolo della distanza incolmabile presente tra gli individui e della perdita d’identità che connota la crisi dei protagonisti, un nudo che non scopre i segreti celati sotto la superficie, un nudo in cui il volto rimane sempre ben coperto, segreto,

[…] e poiché ognuna di quelle figure nude restava pur sempre un segreto e dalle mascherine si volgevano raggianti verso di lui come il più indissolubile degli enigmi […]37

Altra caratteristica di questo passo da inserire tra i campi espressivi è l’uso ripetuto che Schnitzler fa dell’espressione «und soo», «o roba del genere», per caratterizzare il personaggio di Nachtigall, individuo scostante, alquanto imprevedibile e stravagante. L’utilizzo di questo intercalare, sottolinea la precarietà e la vaghezza delle spiegazioni di Nachtigall e il carattere approssimativo del personaggio, rivelandone inoltre l’estrazione sociale, di livello più basso rispetto a quella di Fridolin.

Altro aspetto stilistico da sottolineare è l’utilizzo ripetuto, da parte dell’autore, dei puntini di sospensione e trattini, ad indicare, nelle diverse parti del testo, reticenza, esitazioni, paure, dubbi e il semplice fluire incontrollato dei pensieri dei protagonisti. Come in questo frammento dell’ultimo capitolo,

E si propose di raccontarle presto, forse già domani, la storia della notte passata, facendo però in modo che le esperienze vissute apparissero come un sogno…poi, quando lei si fosse resa conto di tutta la vanità delle sue avventure, le avrebbe confessato che si trattava invece di realtà. Realtà? si chiese… […]38

L’intero romanzo è ricco di frasi interrotte, a cui il lettore può dare la sua libera e soggettiva interpretazione. Nel dialogo in analisi, i puntini di sospensione vengono inseriti nelle frasi di entrambi i personaggi, nelle parti di Nachtigall per

37 A. Schnitzler, 1977, p. 13 38 A. Schnitzler, 1977, p. 112

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sottolineare che ci sono cose che il musicista preferirebbe non raccontare a Fridolin, e il dubbio di dire o non dire, mentre nelle parti di Fridolin sottolineano la sua crescente curiosità e la progressiva eccitazione che il protagonista prova nel vedere la possibilità di partecipare alla festa da ballo segreta.

La conservazione dei campi espressivi nel copione del film in lingua originale è alquanto scarsa. I riferimenti alla «riunione segreta» e all’alone di segretezza ed esclusività che pervadono lo stesso frammento del romanzo rimangono solo parzialmente, grazie al riferimento al mistero presente in una battuta di Bill, «What’s the big mystery?»39. Tale allusione però, nel film, suona più come un modo di dire, forse quasi una presa in giro da parte di Bill a Nightingale, che non vuole rivelargli qualcosa di semplice come il luogo dove suonerà tra poco. Bill pronuncia quindi la frase senza secondi fini e la parola «mistero» si svuota dei significati e del carattere di rimando dei quali era dotata nel romanzo. La caratterizzazione del personaggio di Nachtigall mediante l’intercalare «o roba del genere» nel film scompare, così come i puntini di sospensione. La reticenza di Nightingale viene però espressa tramite le pause fatte dall’attore durante la recitazione.

4. I deittici. Il passo del romanzo preso in analisi è ricco di deittici, tra cui sofort (subito), ich (io), du (tu), heute (oggi), dort (lì), che vengono tradotti e riportati puntualmente nel copione del film.

5. Intertestualità e realia. In questo frammento del romanzo come realia compaiono solo alcuni nomi propri: Nachtigall, Wickenburgstraße e Café Vindobona. Nel film, il nome di Nachtigall (che in tedesco significa «usignolo») viene modificato e diventa Nightingale («usignolo» in inglese), così come i nomi di quasi tutti gli altri personaggi. Il riferimento alla Wickenburgstraße, dove si trova il negozio dove si affittano costumi, viene invece completamente eliminato nella versione cinematografica, ambientata non a Vienna, come il romanzo, ma a New York. Nella scena del film corrispondente è infatti presente un riferimento al [Greenwich] Village. Viene inoltre eliminato l’accenno al Café Vindobona, in

39 S. Kubrick, 1999

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quanto questa scena il film si discosta leggermente dal romanzo, in cui Nachtigall, non essendone ancora a conoscenza, non rivela a Fridolin la parola d’ordine e i due si rincontrano, appunto al Café Vindobona, un quarto d’ora dopo il loro primo incontro, il tempo sufficiente a Fridolin per procurarsi un costume. Nel film, al contrario, Nightingale riceve una telefonata al Sonata Café, durante la quale gli vengono rivelati l’indirizzo della festa e la parola d’ordine, e li comunica a Bill, evitando la necessità di un nuovo incontro tra i due ed un’ulteriore scena che avrebbe appesantito il film.

Nel passo del romanzo preso in analisi non sono presenti rimandi intertestuali.

3.1.3 Considerazioni conclusive

Per ciò che riguarda la scena di Eyes Wide Shut analizzata, si può concludere che le dominanti scelte da Kubrick sono il cronòtopo del contenuto microtestuale e quello della psicologia dei personaggi. Poca attenzione è invece prestata al cronòtopo della poetica autoriale. Trattandosi di un metatesto non verbale, la conservazione della poetica autoriale risulta complessa. Non vengono invece rispettati il cronòtopo della poetica strutturale e quello della psicologia dei rapporti tra gruppi.

Secondo quanto da lui stesso dichiarato, Kubrick voleva mantenersi il più possibile fedele all’opera di Schnitzler:

[…] When the director is not his own author, I think it is his duty to be one hundred per cent faithful to the author’s meaning and to sacrifice none of it for the sake of climax or effect.40

E, se vediamo il film, notiamo come questo effettivamente costituisca una trasposizione filologica della novella di Schnitzler. Il regista, non disdegna di riportare testualmente nel film anche intere parti di dialogo presenti in

40 S. Kubrick S., Words and movies

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Traumnovelle. Nei limiti però, come abbiamo visto in questo capitolo, di una traduzione intersemiotica e delle necessità e dei limiti che una trasposizione cinematografica impone.

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CONCLUSIONI

Dopo l’analisi del concetto di traduzione intersemiotica ed extratestuale e di due esempi di modelli di analisi dei cambiamenti traduttivi, ho applicato il modello cronotopico di Torop per svolgere il confronto tra un passo del romanzo e la rispettiva scena del film. Giunta alla conclusione di questo lavoro, posso affermare che la traduzione extratestuale che vede come prototesto un romanzo e come metatesto un film si rivela piuttosto complessa, a causa, come indicato nel primo capitolo, della necessità di tradurre un prototesto di tipo verbale in un metatesto dotato sistema di segni non verbale. Ma è anche chiaro, come emerge da La traduzione totale di Peeter Torop che qualsiasi traduzione filmica è prima di tutto una sceneggiatura, un copione, e che solo in una seconda fase, con l’aggiunta di immagini e suoni, diviene un film. Ho dunque svolto il confronto tra Eyes Wide Shut e Traumnovelle partendo dal testo del romanzo e dal copione del film, basando quindi la mia analisi sul codice comune a entrambi.

Come era immaginabile, nella sequenza da me analizzata, il film si è rivelato piuttosto distante dal prototesto testuale ed è risultato sicuramente tendente al polo della traduzione accettabile più che a quello della traduzione adeguata.
Ci troviamo infatti di fronte ad un residuo tutt’altro che esiguo, a partire da un cambiamento di base che stravolge la scena. Il romanzo vede infatti Fridolin e Nachtigall incontrarsi per la prima volta al bar e rincontrarsi poi per permettere a Nachtigall di rivelare a Fridolin la parola d’ordine. Il dialogo tra i due protagonisti è quindi improntato su questo schema: si vedono per la prima volta, parlano della festa, si ritroveranno se Fridolin riuscirà a trovare un costume.

In Eyes Wide Shut, invece, i due si incontrano per la prima volta nel prima parte del film, alla festa di Ziegler (sequenza introdotta da Kubrick così come il personaggio di Ziegler stesso) e poi si ritrovano al Café Sonata dove Bill è entrato per sentire Nightingale suonare. Qui Bill verrà subito a conoscenza dell’ indirizzo e parola d’ordine e non sarà quindi necessario un nuovo incontro tra i due. Schematizzando nuovamente la sequenza della scena avremo: si rincontrano, Nigthingale rivela parola d’ordine ed indirizzo a Bill, si separano.

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Sulla base di questa differenza, nel film scompare quindi una parte del dialogo, ossia tutta l’ultima frase di Fridolin relativa alla possibilità di trovare il proprietario del negozio di maschere, al destino che deciderà per lui e al luogo del nuovo appuntamento. Nel film tutto ciò è sostituito della scena seguente, in cui vediamo Bill diretto al negozio di Milich. Perché si è diretto proprio lì con la certezza di poter trovare la maschera lo scopriremo solo nel dialogo tra i due. Mentre nel passo del romanzo il lettore viene informato con Nachtigall di cosa farà Fridolin per procurarsi il costume, lo spettatore vede la scena del film chiudersi con la domanda di Nightingale «Where the hell are you gonna get a costume at this hour in the morning?»41 e deve attendere la scena successiva per sapere cosa Bill ha in mente.

In Eyes Wide Shut si può quindi rilevare l’omissione di questi particolari, così come dei riferimenti relativi alle esperienze di Nachtigall in Romania e al numero di persone presenti alla festa nelle serate precedenti, ma la sceneggiatura aggiunge anche dettagli assenti nel romanzo. Ad esempio, è presente un cenno alla parola d’ordine, che nel film è «Fidelio», titolo di un’opera di Beethoven che tratta il tema della fedeltà coniugale (voluto rimando intertestuale inserito da Kubrick) e che in Traumnovelle era «Danimarca», (altro rimando, ma questa volta intratestuale). Mentre i due chiacchierano, Nightingale riceve una telefonata e, costretto ad annotare la parola d’ordine su un foglietto, consente a Bill di vederla. A causa dalla trasposizione temporale scompare chiaramente anche ogni riferimento al cocchiere, un caronte che funge da tramite tra il mondo della setta segreta ed il mondo ordinario di cui fanno parte Fridolin e Nachtigall, rivelando la parola d’ordine a Nachtigall.

È Torop stesso che ci dice che nella traduzione filmica, come in processo traduttivo, coesisteranno sempre quattro componenti: conservazione, modifica, eliminazione e aggiunta di elementi. Ed è questo che troviamo in Eyes Wide Shut. Ma accanto ai cambiamenti o all’eliminazione di parte del testo, troviamo anche la conservazione di ciò che, Stanley Kubrick e Frederic Raphael, approcciandosi a scrivere la sceneggiatura hanno deciso andasse conservato il più fedele possibile

41 S. Kubrick, 1999

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al romanzo, ossia il cronòtopo del contenuto microtestuale, tralasciando però quasi completamente le altre sottodominanti.
Ad eccezione della prima scena al party di Ziegler e della scena finale tra Bill e Ziegler, Kubrick si è mantenuto molto vicino alla trama del romanzo, seguendola pressoché passo per passo e cercando in alcuni punti di mantenerne in parte persino i dialoghi.

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ILARIA GIANETTO Pensiero e linguaggio in Vygotskij Un glossario

Pensiero e linguaggio in Vygotskij Un glossario

ILARIA GIANETTO

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica marzo 2006

1

© Lev Semënovič Vygotskij 1934
© Ilaria Gianetto per l’edizione italiana 2006

2

ABSTRACT IN ITALIANO

La candidata presenta un glossario sul lessico vygotskijano tratto dall’opera dello psicolinguista russo intitolata Pensiero e linguaggio; in essa Vygotskij propone un’indagine sul fenomeno da lui denominato «pensiero verbale», riferendosi con questo termine al prodotto della relazione esistente tra pensiero e linguaggio, due facoltà precedentemente considerate l’una indipendente dall’altra o la prima come sottoprodotto della seconda. Vygotskij sviluppa inoltre un nuovo metodo per studiare tale fenomeno; si tratta di un metodo che scompone il pensiero verbale nelle sue unità componenti, ovvero nei prodotti dell’analisi di tale unità globale che ne conservano le proprietà fondamentali. Vygotskij identifica questa unità non decomponibile ulteriormente nel significato della parola, espressione sia della sfera del pensiero sia di quella del linguaggio. Il grande merito dello studioso sta a questo punto nell’aver rivisto le teorie esistenti sul cosiddetto «linguaggio interno» o «endofasia», scoprendone le particolari caratteristiche e regole di funzionamento e studiandone il ruolo di mediatore tra il pensiero e il linguaggio, intuendo cioè che attraverso di esso il pensiero si materializza nella parola e la parola si volatilizza nel pensiero. In ultimo, Vygotskij introduce il concetto di «zona di sviluppo prossimo» per indicare l’area in cui si realizza lo sviluppo potenziale del bambino mediante la collaborazione con un adulto.

Parole chiave: Endofasia, Linguaggio egocentrico, Linguaggio esterno, Linguaggio interno, Linguaggio scritto, Pensiero verbale, Significato, Unità componente, Volatilizzazione, Zona di sviluppo prossimo.

ENGLISH ABSTRACT

The candidate presents a glossary of Vygotsky’s terminology taken from his work Thought and Language. In this work, the Russian psycholinguist analyzes what he calls “verbal thought”, in other words the product of the relationship between thought and language. These two skills were previously considered either as independent one from the other, or the first as a subproduct of the latter. Moreover, Vygotsky develops a new method to study this phenomenon; his method decomposes the verbal thought into component units, into products of the analysis of the global whole, while maintaining its fundamental features. Vygotsky identifies this unit that cannot be further split as the meaning of the word, which involves both the thought area and the language area. The psycholinguist deserves particular praise for having reassessed existing theories on so- called “inner speech” or “endophasy”, discovering its particular features and working out rules and studying its role as mediator between thought and language. Indeed, he realizes that through it, thought materializes into words and words turn into inward thought. Lastly, Vygotsky develops the concept of “zone of proximal development”, meaning the area in which a child’s potential development takes place by means of the collaboration of an adult.

Key words: Endophasy, Egocentric speech, External speech, Inner speech, Written speech, Verbal thought, Meaning, Component unit, Turning of speech into inward thought, Zone of proximal development.

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ABSTRACT EN ESPAÑOL

La candidata presenta un glosario sobre el léxico de Vygotsky en la obra del psicolingüista ruso titulada Pensamiento y lenguaje; en esa Vygotsky efectúa un estudio sobre el fenómeno che él denomina «pensamiento verbal», haciendo referencia con este término al producto de la relación existente entre pensamiento y lenguaje, dos facultades que antes se consideraban independientes una de otra o la primera como subproducto de la segunda. Además, Vygotsky desarrolla un método nuevo para estudiar este fenómeno; se trata de un método que descompone el pensamiento verbal en sus unidades componentes, o sea, en los productos del análisis de esta unidad global que conservan su propiedades fundamentales. Vygotsky identifica esta unidad no descomponible ulteriormente en el significado de la palabra, expresión tanto de la esfera del pensamiento como de la del lenguaje. El gran mérito del estudioso está, llegados a este punto, en haber revisado las teorías existentes sobre el llamado «lenguaje interior» o «endofasia», al haber descubierto sus particulares características y reglas de funcionamiento y haber estudiado su papel de mediador entre pensamiento y lenguaje, es decir, haber entendido que a través del mismo, el pensamiento se materializa en la palabra y la palabra se volatiliza en el pensamiento. Por último, Vygotsky intoduce el concepto de «zona de desarrollo próximo» para referirse al área en la que se realiza el desarrollo potencial del niño gracias a la colaboración con un adulto.

Palabras clave: Endofasia, Lenguaje egocéntrico, Lenguaje exterior, Lenguaje interior, Lenguaje escrito, Pensamiento verbal, Significado, Unidad componente, Volatilización, Zona de desarrollo próximo.

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SOMMARIO

ABSTRACT IN ITALIANO………………………………………………………. 3

ENGLISH ABSTRACT …………………………………………………………….. 3

ABSTRACT EN ESPAÑOL ………………………………………………………. 4

SOMMARIO…………………………………………………………………………….. 5

PREFAZIONE – CRITERI DI REDAZIONE ……………………………. 7

GLOSSARIO ……………………………………………………………………………. 9

AGGLUTINAZIONE ………………………………………………………………………………………………….. 9 APPRENDIMENTO ……………………………………………………………………………………………………. 9 ATTIVITÀ VERBALE……………………………………………………………………………………………….11 ASTRAZIONE ………………………………………………………………………………………………………….11 COMPLESSO …………………………………………………………………………………………………………… 12 COMPLESSO ASSOCIATIVO …………………………………………………………………………………..14 COMPLESSO A CATENA…………………………………………………………………………………………15 COMPLESSO COLLEZIONE ……………………………………………………………………………………. 15 COMPLESSO DIFFUSO ……………………………………………………………………………………………16 CONCETTO …………………………………………………………………………………………………………….. 17 CONCETTO POTENZIALE……………………………………………………………………………………….17 CONCETTO QUOTIDIANO………………………………………………………………………………………18 CONCETTO SCIENTIFICO……………………………………………………………………………………….19 CONCETTO SPONTANEO………………………………………………………………………………………..20 CONDENSAZIONE ………………………………………………………………………………………………….. 20 ENDOFASIA ……………………………………………………………………………………………………………. 20 EQUIVALENZA DEI CONCETTI………………………………………………………………………………20 FASE AFFETTIVO-VOLITIVA………………………………………………………………………………….20 FASE EMOZIONALE………………………………………………………………………………………………..20 FASE PRE-INTELLETTIVA………………………………………………………………………………………21 FUSIONE CONCRETA ……………………………………………………………………………………………..21 GENERALITÀ …………………………………………………………………………………………………………. 21 GENERALIZZAZIONE …………………………………………………………………………………………….. 22 IDIOMATICITÀ………………………………………………………………………………………………………..23 INFLUENZA DEL SENSO…………………………………………………………………………………………23 INTROSPEZIONE …………………………………………………………………………………………………….23 LEGAME ASSOCIATIVO …………………………………………………………………………………………23 LINGUA ………………………………………………………………………………………………………………….. 23 LINGUA MATERNA…………………………………………………………………………………………………25 LINGUA STRANIERA………………………………………………………………………………………………25 LINGUAGGIO …………………………………………………………………………………………………………. 26 LINGUAGGIO AFASICO …………………………………………………………………………………………. 27 LINGUAGGIO EGOCENTRICO ……………………………………………………………………………….. 28 LINGUAGGIO ESTERNO ………………………………………………………………………………………… 29

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LINGUAGGIO FASICO…………………………………………………………………………………………….30 LINGUAGGIO INTELLETTIVO………………………………………………………………………………..30 LINGUAGGIO INTERNO………………………………………………………………………………………….31 LINGUAGGIO ORALE……………………………………………………………………………………………..33 LINGUAGGIO SCRITTO…………………………………………………………………………………………..33 PAROLA…………………………………………………………………………………………………………………..34 PARTECIPAZIONE…………………………………………………………………………………………………..34 PENSIERO ARTIFICIALE…………………………………………………………………………………………34 PENSIERO ASTRATTO…………………………………………………………………………………………….34 PENSIERO CONCRETO……………………………………………………………………………………………35 PENSIERO PER COMPLESSI …………………………………………………………………………………… 35 PENSIERO PER CONCETTI ……………………………………………………………………………………..35 PENSIERO VERBALE………………………………………………………………………………………………35 PERIODO SENSITIVO………………………………………………………………………………………………36 PREDICATIVITÀ ……………………………………………………………………………………………………..36 PRESA DI COSCIENZA…………………………………………………………………………………………….36 PSEUDOCONCETTO………………………………………………………………………………………………..37 RIFERIMENTO ALL’OGGETTO……………………………………………………………………………….38 SEGNO ……………………………………………………………………………………………………………………. 38 SENSO …………………………………………………………………………………………………………………….. 39 SIGNIFICATO ………………………………………………………………………………………………………….40 SINCRETISMO ………………………………………………………………………………………………………… 40 SISTEMA DI CONCETTI ………………………………………………………………………………………….41 SOVRAPPOSIZIONE ……………………………………………………………………………………………….. 41 SPOSTAMENTO ………………………………………………………………………………………………………41 SUONO ……………………………………………………………………………………………………………………. 41 STRUMENTO DI PRODUZIONE INTELLETTUALE …………………………………………………41 SVILUPPO ……………………………………………………………………………………………………………….42 SVILUPPO ARTIFICIALE…………………………………………………………………………………………43 TRATTO DISTINTIVO ……………………………………………………………………………………………..44 UNITÀ COMPONENTE…………………………………………………………………………………………….44 VOCALIZZAZIONE …………………………………………………………………………………………………. 44 VOLATILIZZAZIONE ………………………………………………………………………………………………45 ZONA DI SVILUPPO PROSSIMO …………………………………………………………………………….. 45

APPENDICE DI RIFERIMENTO ITALIANO-INGLESE- SPAGNOLO……………………………………………………………………………. 47

APPENDICE DI RIFERIMENTO INGLESE-ITALIANO- SPAGNOLO……………………………………………………………………………. 49

APPENDICE DI RIFERIMENTO SPAGNOLO-ITALIANO- INGLESE ……………………………………………………………………………….. 51

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ………………………………………….. 53

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PREFAZIONE – CRITERI DI REDAZIONE

Il seguente glossario è stato da me realizzato a partire dall’analisi dell’opera maestra dello psicolinguista russo Lev Semënovič Vygotskij Pensiero e linguaggio. Tale opera viene pubblicata per la prima volta postuma nel 1934; seguono altre due edizioni russe del libro in cui lo scritto viene adattato alle varie imposizioni di censura dettate dal regime dei tempi per quanto riguarda termini di stampo politico e riferimenti a personaggi politici, ed infine, a partire dal 1962 l’opera viene tradotta in almeno tredici lingue, permettendo finalmente al pensiero di Vygotskij di diffondersi in tutto il mondo.

Il presente lavoro si basa sulla settima edizione italiana del 2003 di Luciano Mecacci, il quale ha condotto la traduzione dell’opera direttamente sull’edizione russa del 1934, rispettandone il più possibile la struttura, e sulla prima edizione americana del 1962 di Eugenia Hanfmann e Gertrude Vakar; le citazioni sono tratte, oltre che dalle due edizioni sopra citate, anche da testi on line di analisi e critica dell’opera in lingua italiana, inglese e spagnola.

Per quanto riguarda il metodo di pianificazione del glossario da me adottato, parallelamente al lavoro di lettura dell’intera opera di Vygotskij ho portato avanti in essa un lavoro di individuazione e sottolineatura dei termini su cui si è soffermata nel dettaglio l’indagine di Vygotskij sul pensiero e il linguaggio; quindi ho eseguito la schedatura dell’opera sulla base di tali termini per poter ottenere un quadro generale di ognuno. A questo punto ho fatto seguire un lavoro di selezione dei termini che sarebbero poi diventati le voci del glossario sulla base delle novità apportate da tali termini rispetto alle teorie precedenti a Vygotskij o sulla base della rielaborazione e ricontestualizzazione da parte dello studioso russo di termini già esistenti nel campo della psicologia e della linguistica. Ho incluso nel glossario sia voci riguardanti esplicitamente il pensiero e il linguaggio, sia voci legate ad essi in maniera più indiretta, ma comunque complementari e di fondamentale importanza per una visione il più organica

possibile del tema del lavoro. Una volta pronta la lista di voci da includere nel glossario, ho 7

iniziato la stesura delle definizioni, per le quali mi sono servita in parte delle stesse parole di Vygotskij o dei critici che hanno commentato la sua opera e in parte della mia rielaborazione personale di concetti, analisi e spiegazioni. Ho ritenuto importante optare per delle definizioni il più complete possibili, ma allo stesso tempo sintetiche per rendere la lettura interessante e leggera; quindi, laddove la definizione, per importanza o per grado di difficoltà, comportava una serie di voci minori, ho scelto di suddividere la voce stessa in più voci per facilitarne la consultabilità. L’altra caratteristica che ho impresso al lavoro, oltre alla rapida accessibilità al contenuto delle definizioni, è la massima agevolezza nella consultazione del glossario in generale e in particolare nella consultazione interconnessa delle voci che hanno uno stretto legame tra loro; ho quindi dotato le voci di una rete interna di rimandi, sia dichiarati per iscritto per una versione cartacea del glossario, sia segnalati attraverso collegamenti ipertestuali per una possibile versione on line. Inoltre, una volta terminata la stesura del glossario, durante la rilettura delle voci, ho selezionato alcuni termini interni alle voci stesse con i quali ho creato ulteriori voci di rimando alle definizioni in cui sono contenuti in modo tale da permettere l’individuazione anche di tutti quei termini vygotskijani che costituiscono ad esempio un connotato o una caratteristica di un determinato fenomeno, che non richiedono dunque una definizione a sé stante, ma che meritano comunque una visualizzazione chiara all’interno del glossario. Ho infine affiancato ad ogni voce il traducente inglese e spagnolo e aggiunto al termine del glossario tre appendici di riferimento con le combinazioni linguistiche italiano- inglese-spagnolo, inglese-italiano-spagnolo e spagnolo-italiano-inglese per facilitare la consultazione del glossario da parte di uno straniero.

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GLOSSARIO AGGLUTINAZIONE [agglutination] [aglutinación]

Vedi LINGUAGGIO INTERNO

APPRENDIMENTO [learning] [aprendizaje]

Vygotskij afferma che «en un proceso natural de desarrollo, el aprendizaje se presenta como un medio que fortalece este proceso natural, pone a su disposición los instrumentos creados por la cultura que amplían las posibilidades naturales del individuo y reestructuran sus funciones mentales (Ivić 1994: 5)», raffinando così la capacità di pensiero. Attraverso il processo di apprendimento nascono nella mente del bambino nuovi tipi di astrazioni (vedi) e generalizzazioni (vedi) che giocano un ruolo di fondamentale importanza nella formazione di concetti (vedi) e di nuovi concetti sulla base dei primi; viene riorganizzata così la struttura concettuale nella mente del bambino.

Vygotskij definisce l’apprendimento come lo “sviluppo artificiale del bambino” e aggiunge che «la educación no se limita únicamente al hecho de ejercer una influencia en los procesos del desarrollo, ya que reestructura de modo fundamental todas las funciones del comportamiento (Vygotskij, citato in Ivić 1994: 7)». Quindi, per Vygotskij l’apprendimento non si riduce ad una mera acquisizione di una certa quantità di informazioni, bensì va a costituire la fonte e il motore trainante dello sviluppo (vedi) e della crescita. L’essenza dell’insegnamento consiste, di conseguenza, nel garantire lo sviluppo fornendo al bambino strumenti, tecniche interiori di pensiero e operazioni di ragionamento.

Le ricerche di Vygotskij mettono in luce come nel momento in cui ha inizio l’apprendimento, i bambini che mostrano un buon rendimento, non presentano il più piccolo segno di maturazione delle premesse psicologiche necessarie per il processo stesso di apprendimento, quali memoria,

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attenzione, consapevolezza e volontarietà. Queste, in particolar modo le ultime due, sono neoformazioni appartenenti alla sfera delle funzioni psichiche superiori che nascono proprio in età scolare; essendo ancora allo stadio embrionale in questo momento della storia del bambino sono forgiate dall’apprendimento, che ne garantisce un corso adeguato di sviluppo. Risulta quindi che «l’apprendimento si realizza su processi psichici immaturi, che stanno appena iniziando il primo e fondamentale ciclo del loro sviluppo (Vygotskij 2004: 262)∗» ed è proprio questa la chiave del successo dell’apprendimento.

Studiando il rapporto tra apprendimento e sviluppo, Vygotskij ha concluso che il primo va sempre avanti al grado di sviluppo mentale del bambino; tra i due processi non esiste nessun tipo di parallelismo. Sarebbe dunque un errore pensare che le leggi esterne della struttura del processo di insegnamento «coincidano perfettamente con le leggi interne della struttura dei processi di sviluppo che danno vita all’apprendimento. […] Lo sviluppo non è quindi subordinato al programma scolastico (265-266)»; tuttavia, non vi sono dubbi sul fatto che tra sviluppo e apprendimento vi sia una forte relazione. Vygotskij ha provato che «il pensiero astratto del bambino si sviluppa in tutte le lezioni e il suo sviluppo non si scompone affatto in corsi separati corrispondente alle diverse materie, lungo i quali si divide l’apprendimento scolastico (268)»; infatti, «le differenti materie hanno in parte una base psicologica comune (267)». Ne consegue che l’apprendimento in una materia mette in moto funzioni psichiche che si attiveranno anche nell’apprendimento di altre materie.

L’apprendimento ha dunque la sua struttura interna, la sua logica di sviluppo; interiormente, lo scolaro che apprende ha nella sua mente come una rete interna di processi che, generati e messi in movimento dall’apprendimento, si sviluppano e rifiniscono. Concludendo, per risultare il più fruttuoso possibile, l’apprendimento deve situarsi nella zona di sviluppo prossimo (vedi).

∗ D’ora in avanti le citazioni tratte dall’opera di Vygotskij Pensiero e linguaggio verranno indicate unicamente con il numero della pagina contenente la citazione posto fra parentesi.

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ATTIVITÀ VERBALE [verbal activity] [actividad verbal] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

ASTRAZIONE [abstraction] [abstacción]

Spostamento dalla cosa concreta, dall’oggetto singolo all’idea dell’oggetto in cui l’intelletto si scosta dall’oggetto empirico e ne trae una copia, ovvero il concetto astratto, il quale si colloca nella psiche ad un livello superiore rispetto a quello della percezione concreta. L’astrazione viene considerata dunque come un movimento dal basso verso l’alto e, contrariamente a quanto affermavano teorie precedenti a Vygotskij, non dipende dalla quantità di legami associativi che il soggetto è giunto a stabilire in quel momento, ma da neoformazioni qualitative che normalmente si presentano nella psiche del soggetto a partire dall’adolescenza e che sono supportate da strumenti quale, in modo particolare, «il linguaggio, che è uno degli elementi fondamentali nella costruzione delle forme superiori dell’attività intellettiva (148)», sotto cui risiede, appunto, il processo di astrazione. Il linguaggio, prosegue Vygotskij, «non interviene in modo associativo come una funzione che corre parallelamente, ma in modo funzionale, come un mezzo utilizzato razionalmente (148)» ovvero, è mediante l’uso della parola che il soggetto si concentra sui tratti distintivi dell’oggetto al quale si trova di fronte, li sintetizza per poi dare un simbolo all’oggetto. Non si tratta, quindi, di un’operazione semplice e immediata, di uno sdoppiamento automatico, ma di un processo che matura all’interno dell’individuo lentamente e che dal momento della sua comparsa si potenzia sempre più e si sviluppa.

La capacità di astrazione compare nell’adolescenza durante il processo di formazione dei concetti (vedi) o di attribuzione di significati (vedi), fenomeni per cui è necessario un «uso funzionale della parola o di un altro segno come mezzo per dirigere attivamente l’attenzione, per differenziare e separare i tratti caratteristici (143)» del concetto o del significato in questione. Durante la formazione di un concetto il soggetto riunisce caratteristiche che

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accomunano determinati oggetti concreti e le disloca nella sfera della memoria e del pensiero astratto sotto uno stesso riferimento all’oggetto. Si tratta dunque di un processo di sintesi, dai vari oggetti concreti con caratteristiche comuni alla copia astratta nel pensiero, appunto il concetto, sotto cui risiedono gli oggetti concreti. Vygotskij scrive infatti che « […] mediante l’astrazione di tratti, il bambino disloca la situazione concreta, il legame concreto dei tratti e si crea la premessa necessaria per una nuova unificazione di questi tratti su una base nuova (189)», presente in una sfera differente da quella della percezione concreta, quella dell’astratto. I concetti nuovi vengono poi creati sulla base di concetti già esistenti, quindi in questo caso si presuppone un processo di astrazione non più a partire dalla percezione dell’oggetto empirico, bensì già dall’idea dell’oggetto, che viene arricchita e trasportata ad un livello ancora superiore in cui sussistono diversi legami tra i tratti caratterizzanti dell’oggetto rispetto al livello inferiore di partenza di tale astrazione. Si va in questo modo a formare un sistema di concetti sulla base di diversi livelli di astrazione.

Il processo di astrazione costituisce inoltre un tratto caratterizzante del linguaggio interno (vedi) in quanto questo si differenzia dal linguaggio esterno (vedi) proprio per l’assoluto grado di «astrazione del linguaggio dal lato sonoro (355)», il quale rappresenta l’aspetto più concreto della lingua.

COMPLESSO [complex] [complejo]

Il complesso rappresenta un concetto (vedi) nella sua forma embrionale, è il frutto del pensiero del bambino fino all’età pre-adolescenziale nell’organizzazione mentale della sua esperienza concreta. Si tratta del secondo livello di generalizzazione (vedi) seguente il sincretismo (vedi); costituisce dunque una delle prime fasi di raggruppamento di oggetti in un unico insieme precedente la fase di formazione di un concetto vero e proprio. Come nel concetto, anche nel caso di un complesso vi è la comparsa di rapporti tra differenti percezioni concrete, la riunione e

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generalizzazione degli oggetti isolati, nonché l’organizzazione e sistematizzazione dell’esperienza. «Ma, il modo di riunione dei differenti oggetti concreti in gruppi generali, il carattere dei legami che vi si stabiliscono, la struttura dell’unità che si costituiscono […] differiscono profondamente per il tipo e la modalità di azione dal pensiero per concetti […] (151)». Ciò significa che le generalizzazioni effettuate mediante il pensiero per complessi vanno a creare, per la loro struttura, dei veri e propri complessi di oggetti concreti isolati, riuniti sulla base dei soli legami soggettivi che si stabiliscono nell’impressione del bambino; alla base del complesso infatti vi sono i legami più svariati, che spesso hanno poco in comune tra di loro e che sono di tipo fattuale, casuale e concreto. «Ogni elemento del complesso può essere legato al tutto, espresso nel complesso, e agli elementi isolati che lo compongono mediante legami isolati più diversi (153-154)». Inoltre, «nel complesso, a differenza del concetto, non vi sono legami gerarchici e relazioni gerarchiche tra i tratti (158)» degli oggetti, né rapporti di generalità (vedi). Vygotskij fa notare che «i complessi infantili, corrispondenti ai significati (vedi) delle parole, non si sviluppano liberamente, spontaneamente, secondo linee tracciate dal bambino stesso, ma secondo direzioni precise che sono indicate per lo sviluppo del complesso dal significato delle parole, già stabilito nel linguaggio degli adulti (162)». In ogni caso, il complesso infantile coincide con il concetto dell’adulto nel riferimento all’oggetto, ossia, il bambino e l’adulto si intendono perfettamente nel riferirsi ad un determinato oggetto, ma il bambino lo fa attraverso il meccanismo interno del complesso disorganico e basato sulla concretezza, mentre l’adulto lo fa sulla base del processo interno organizzato tipico del concetto. È necessario sottolineare che una volta superato il complesso con la comparsa del concetto, questo non soppianta completamente il complesso. Esso, infatti, rimane nella mente del soggetto e opera quotidianamente nella sfera del pensiero puramente concreto e nelle forme più primitive del pensiero umano come quelle che sono presenti nel sogno; qui domina ancora il meccanismo primitivo del pensiero per complessi che si manifesta attraverso il processo «della fusione concreta, della condensazione e

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dello spostamento (182)», nonché della sovrapposizione di immagini e della partecipazione (vedi).

COMPLESSO ASSOCIATIVO [associative complex] [complejo asociativo]

Primo tipo di complesso (vedi) caratterizzato dal legame puramente associativo tra gli oggetti appartenenti al gruppo. Il bambino costruisce il complesso attraverso l’inclusione nel gruppo degli oggetti più svariati sulla base di qualunque rapporto concreto, qualunque legame associativo tra gli oggetti, quali il colore, la forma, la dimensione o altri tratti distintivi che il bambino individua. Vygotskij spiega che «dire una parola per il bambino in questo periodo significa indicare il nome della famiglia delle cose, legate tra di loro in una parentela per le linee più diverse (155)». Non solo gli elementi sono inclusi nella stessa famiglia secondo l’associazione dei più svariati tratti caratterizzanti, ma anche in base a differenti caratteri del rapporto tra gli oggetti. Ne risulta quindi un complesso estremamente eterogeneo, vario e poco sistematizzato. Inoltre, come testimonia Vygotskij, «alla base di questa massa ci può essere non solo un’identità immediata dei tratti, ma anche la loro somiglianza o il loro contrasto […] (154)»; vi è sempre e comunque un legame concreto. Il bambino dunque chiamerà con lo stesso nome tutta una serie di oggetti che oggettivamente possono non avere nulla in comune tra loro, ma per cui il bambino ha stabilito più legami singoli e di vario genere sulla base della sua personale percezione di fatto della realtà. Il bambino, seguendo la logica di questo tipo di complesso, potrebbe ad esempio riferirsi con la parola «acqua» all’acqua, al latte che è liquido come l’acqua, al bicchiere, che contiene l’acqua, al vetro, che è trasparente come l’acqua, al bagno che gli viene fatto dalla madre con l’acqua, e via dicendo.

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COMPLESSO A CATENA [chain complex] [complejo cadena]

Il complesso a catena «si costituisce secondo il principio della riunione dinamica e temporanea di mattoni isolati in una catena unica e del trasferimento di significato tra i mattoni di questa catena (157)»; in questo modo, nel processo di formazione di tale complesso (vedi) vi è sempre un passaggio in sequenza da un tratto all’altro a cui corrisponde uno slittamento di significato lungo gli anelli della catena, rappresentanti le parole. Ogni anello risulta essere collegato al precedente per un tratto che differisce completamente dal tratto che caratterizza l’unione con l’anello successivo. Anche in questo caso il legame tra gli oggetti che costituiscono tale complesso è di tipo associativo. Vygotskij riporta nella sua opera vari esempi di esperimenti in cui il bambino manifesta chiaramente la formazione di un complesso a catena. In uno di questi «il bambino indica con la parola «qua» dapprima un’anatra che nuota in uno stagno, poi ogni liquido, compreso il latte che beve nel suo biberon. Poi quando un giorno vede su una moneta la raffigurazione di un’aquila, indica anche la moneta con questo nome e ciò è sufficiente perché in seguito tutti gli oggetti tondi, che ricordano una moneta, siano indicati con lo stesso nome (171-172)».

COMPLESSO COLLEZIONE [collection] [colección]

Vygotskij spiega che nella collezione «[…] oggetti concreti differenti sono riuniti in base alla loro mutua complementarietà rispetto ad un qualsiasi tratto distintivo e formano un tutto unico, composto da parti eterogenee che si completano reciprocamente l’una con l’altra (155)»; in questo tipo di complesso (vedi), quindi, agiscono delle associazioni per contrasto. Inoltre, «il complesso collezione è una generalizzazione (vedi) delle cose sulla base della loro partecipazione ad un’unica operazione pratica, sulla base della loro collaborazione funzionale (156)». Questo tipo di complesso ha delle radici molto profonde nella concretezza, nell’intuito e nella pratica del bambino, elementi che costituiscono quasi totalmente il suo pensiero fino a

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questo momento e, essendo la forma più frequente di generalizzazione delle esperienze concrete, permane nella psiche del bambino molto a lungo. Anche questo complesso non viene soppiantato completamente dalla comparsa del pensiero per concetti e rimane presente ad esempio «[…] nel linguaggio concreto, quando l’adulto parla delle stoviglie o dei vestiti, [e] ha in vista non tanto il concetto astratto corrispondente quanto degli assortimenti di cose concrete, formanti una collezione (156)».

COMPLESSO DIFFUSO [diffuse complex] [complejo difundido]

Il complesso diffuso costituisce il quarto tipo di complesso (vedi) e si caratterizza per il fatto che il singolo tratto distintivo che sta alla base della riunione dei vari oggetti concreti facenti parte del complesso si presenta, appunto, come diffuso, nonché fluido e vago; ne consegue dunque la formazione di un complesso con elementi legati tra loro in maniera imprecisa e sfumata. Gli esperimenti condotti da Vygotskij sul complesso diffuso mostrano come «il bambino assegna ad un dato modello, un triangolo giallo, non solo dei triangoli, ma anche dei trapezi, poiché gli ricordano dei triangoli con il vertice tagliato. Poi ai trapezi sono vicini i quadrati, ai quadrati gli esagoni, agli esagoni le semicirconferenze e poi i cerchi […]. [Il bambino fa rientrare nel gruppo anche figure che si avvicinano per il colore]; allora […] assegna agli oggetti gialli degli oggetti verdi, ai verdi dei blu, ai blu dei neri (159)». Anche questo tipo di complesso, come il complesso collezione (vedi), persiste a lungo nella mente del bambino e presenta un tratto nuovo che caratterizza il pensiero per complessi, ovvero l’imprecisione dei suoi contorni e la sua illimitatezza di principio. Questo complesso, inoltre, compare quando il bambino inizia a scostarsi leggermente dal mondo della pura concretezza per avvicinarsi al mondo dell’immaginazione. Quindi, lo vediamo correre con la fantasia realizzando accostamenti di oggetti sfumati e oscillanti, sorprendenti per i risultati inattesi che spesso risultano incomprensibili per gli adulti. Volendo spaziare verso campi diversi dalla psicologia,

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vediamo anche un esempio di questo tipo di pensiero creativo e fantastico nella letteratura inglese della seconda metà dell’Ottocento con Lewis Carroll, che nel suo libro Alice nel Paese delle Meraviglie istituisce per Alice, la bambina protagonista del romanzo, un mondo assolutamente irreale fondato proprio sul volo che si può compiere solo attraverso l’immaginazione e la fantasia, mondo in cui la bambina si lascia scivolare per le vie del ragionamento basato su associazioni di idee e immagini totalmente libere e sfumate che ricordano proprio il complesso diffuso.

CONCETTO [concept] [concepto]

Il concetto costituisce il livello superiore di generalizzazione (vedi) seguente il concetto potenziale (vedi); è dato dalla riunione di tratti distintivi comuni di determinati oggetti sotto un unico nome, in cui sussistono legami tra i tratti unici, precisi, regolari e sistematizzati. Vygotskij afferma in merito che «[il concetto è] caratterizzato dall’uniformità dei legami che sono alla sua base. Ciò significa che ogni oggetto isolato, implicato in un concetto generalizzato, è incluso in questa generalizzazione secondo un fondamento assolutamente identico a quello di tutti gli altri oggetti (153)», e non sulla base di tratti costituiti da impressioni soggettive, empiriche e diverse le une dalle altre, come succede nel caso del complesso (vedi).

CONCETTO POTENZIALE [potential concept] [concepto potencial]

Il concetto potenziale costituisce il terzo livello di generalizzazione (vedi) precedente il concetto; è dunque l’anello di congiunzione tra lo pseudoconcetto (vedi), rientrante nella categoria del complesso (vedi), e il concetto (vedi) vero e proprio. A differenza di come succede per il complesso, «il bambino che si trova in questa fase del suo sviluppo distingue solitamente un gruppo di oggetti da lui riuniti sulla base di un unico tratto comune (186)» e questo fa somigliare il concetto potenziale al concetto; tuttavia, è solo «un significato concreto e

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funzionale […] [a formare la] base psichica del concetto potenziale (188)» e non un processo intellettivo e logico. Infatti, il concetto potenziale viene considerato, più che il risultato di un’operazione mentale di astrazione (vedi), una formazione pre-intellettiva costituita da «un’impressione d’insieme analoga a quella che abbiamo avuto precedentemente (Groos, citato in Vygotskij 2003: 186)», «una disposizione ad una reazione comune (187)».

CONCETTO QUOTIDIANO [everyday concept] [concepto cotidiano]

I concetti quotidiani sono il prodotto dell’apprendimento (vedi) prescolastico e sono caratterizzati da un uso da parte del bambino spontaneo, automatico e del tutto corretto, anche se incosciente e involontario. Vygotskij scrive che «[…] l’indagine sui concetti spontanei e non spontanei è un caso particolare dell’indagine più generale del problema dell’apprendimento (vedi) e dello sviluppo […] (vedi) (244)», nel senso che i concetti spontanei sono indicatori del grado di sviluppo mentale del bambino, sul quale si innesta il processo di apprendimento a scuola dei concetti non spontanei, cioè dei concetti scientifici (vedi), i quali, a loro volta, esercitano un’influenza costruttiva sui primi. Vygotskij spiega in merito che si verifica «un innalzamento del livello dei concetti quotidiani che si riorganizzano sotto l’influenza del fatto che il bambino padroneggia i concetti scientifici […] (283)», responsabili della comparsa nel bambino della presa di coscienza (vedi); il bambino trasferisce questa funzione ai concetti quotidiani, i quali vengono sistematizzati, acquistando tutta una serie di nuovi rapporti con gli altri concetti e modificando così il loro rapporto con l’oggetto. Vygotskij spiega quindi che «i concetti spontanei del bambino si sviluppano dal basso verso l’alto, dalle proprietà più elementari e inferiori a quelle superiori (286)»; «[essi infatti] sono forti nella sfera dell’applicazione concreta, spontanea, con un senso dato dalla situazione, nella sfera dell’esperienza e dell’empirismo […]. [Proprio da qui comincia il loro sviluppo che] […] si muove verso le proprietà superiori dei concetti: la presa di coscienza e la volontarietà (288)»,

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funzioni che compaiono grazie all’apprendimento dei concetti scientifici nella zona di sviluppo prossimo (vedi).

CONCETTO SCIENTIFICO [scientific concept] [concepto científico]

I concetti scientifici si formano durante il processo di apprendimento (vedi) e la loro assimilazione si basa sull’esistenza di concetti quotidiani (vedi) già elaborati. Vygotskij spiega che «[…] i concetti scientifici si sviluppano dall’alto verso il basso, dalle proprietà più complesse e superiori a quelle più elementari e inferiori (286)»; più precisamente, «la forza dei concetti scientifici si manifesta nella sfera che è interamente definita dalla proprietà superiore dei concetti: la presa di coscienza (vedi) e la volontarietà. […] Lo sviluppo dei concetti scientifici comincia [proprio da questa sfera] […] e prosegue in avanti, germinando verso il basso nella sfera dell’esperienza personale e del concreto (288)», regno dei concetti quotidiani, sui quali, appunto, prende piede l’apprendimento dei concetti scientifici. Vygotskij afferma in merito che «la dipendenza dei concetti scientifici da quelli spontanei e a sua volta la loro influenza su quelli spontanei derivano da un rapporto particolare del concetto scientifico con l’oggetto, che, […], è caratterizzato dal fatto che è mediato da un altro concetto e quindi racchiude in sé allo stesso tempo, oltre alla relazione con l’oggetto, anche la relazione con l’altro concetto, cioè i primi elementi di un sistema di concetti (242)»; il concetto quotidiano fa quindi da intermediario tra il concetto scientifico e il suo oggetto, creando così una rete di concetti. È importante sottolineare che «i concetti scientifici sono le porte attraverso cui la presa di coscienza entra nel regno dei concetti infantili (243)»; da questa funzione scaturisce poi la volontarietà, che insieme alla prima funzione, va ad investire la sfera dei concetti spontanei, ristrutturandola ed elevandola alla padronanza. Vygotskij scrive infatti che «la disciplina formale di questi concetti scientifici si manifesta nella riorganizzazione di tutta la sfera dei

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concetti spontanei del bambino. In ciò sta la loro grande importanza per la storia dello sviluppo mentale (vedi) del bambino (314)».

CONCETTO SPONTANEO [spontaneous concept] [concepto espontáneo] Vedi CONCETTO QUOTIDIANO

CONDENSAZIONE [condensation] [condensación]
Vedi COMPLESSO, GENERALIZZAZIONE, LINGUAGGIO EGOCENTRICO

ENDOFASIA [endophasy] [endofasia] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

EQUIVALENZA DEI CONCETTI [equivalence of concepts] [equivalencia de conceptos]

Si tratta di una legge secondo la quale «ogni concetto (vedi) può essere designato [non solo attraverso se stesso ma anche] secondo una quantità infinita di modi mediante altri concetti (299)»; è necessario precisare che questa legge è diversa e specifica per ogni stadio di sviluppo della generalizzazione (vedi).

FASE AFFETTIVO-VOLITIVA [affective- volitional phase] [fase afectiva / volitiva] Vedi LINGUAGGIO

FASE EMOZIONALE [emotional phase] [fase emocional] Vedi LINGUAGGIO

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FASE PRE-INTELLETTIVA [pre-intellective phase] [fase pre-intelectiva] Vedi LINGUAGGIO

FUSIONE CONCRETA [concrete fusion] [fusión concreta] Vedi COMPLESSO

GENERALITÀ [generality] [generalidad]

Per generalità si intende il tipo di relazione che struttura i concetti (vedi) in un sistema secondo un ordine genetico dal più generale al più particolare e vice versa; un esempio che propone Vygotskij è la relazione tra le parole di uguale grado di generalità «sedia, tavolo, armadio, divano, scansia (297)» e la parola «mobile (297)», di generalità superiore. Vygotskij afferma che «le relazioni di generalità tra i concetti sono legate alla struttura di generalizzazione (vedi) […] e che inoltre sono legate ad essa nel modo più stretto: ad ogni struttura di generalizzazione […] corrisponde il suo sistema specifico di generalità e di rapporti di generalizzazione tra i concetti generali e particolari […] (297)». Vygotskij aggiunge poi che dai rapporti di generalità dipende la cosiddetta equivalenza dei concetti (vedi). Vygotskij spiega infine che «in funzione dello sviluppo dei rapporti di generalità aumenta l’indipendenza del concetto dalla parola, del senso della sua espressione ed appare la sempre più grande libertà delle operazioni di senso rispetto a se stesse e alle loro espressioni verbali (302)»; ne consegue che «l’insufficiente concatenazione del pensiero infantile è l’espressione diretta dello sviluppo insufficiente delle relazioni di generalità tra concetti (312)».

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GENERALIZZAZIONE [generalization] [generalización]

«La generalizzazione avviene tramite una sorta di catena percezione -> parola -> percezione -> parola ecc. (ossia analisi -> sintesi -> analisi -> sintesi ecc.) tramite la quale nuove percezioni inducono a formulare nuove parole per descriverle e ciò spinge a catalogare le percezioni affinché sia possibile, con un numero di parole finito, esprimere percezioni infinite, dato che non esistono due percezioni identiche (Vygotskij, citato in Osimo 2004:1)»; si tratta dunque di una sorta di processo di condensazione mediante il quale a tutta la realtà viene assegnato un sostituto simbolico appartenente ad una classe data, «implicitamente accettata dalla comunità dei parlanti come un’entità unitaria (Sapir, citato in Vygotskij 2003: 16)», che serve nella relazione sociale per trasmettere ad altri un’esperienza. La generalizzazione, intesa appunto come raggruppamento di oggetti singoli in un unico gruppo, avviene, a seconda dell’età del soggetto, a diversi livelli, che sono sincretismo (vedi), complesso (vedi), concetto potenziale (vedi) e concetto (vedi). Vygotskij spiega in merito che «un nuovo stadio di generalizzazione compare solo sulla base del precedente. Una nuova struttura di generalizzazione […] compare come una generalizzazione delle generalizzazioni e non semplicemente come un modo nuovo di generalizzazione di oggetti singoli. Il lavoro precedente del pensiero, che si manifesta nelle generalizzazioni dominanti nello stadio precedente, non è annullato e perduto, ma si inserisce ed entra come premessa necessaria per il nuovo lavoro del pensiero (303)»; una volta formata la nuova struttura di generalizzazione dapprima solo con alcuni concetti, il bambino trasferisce il nuovo principio agli altri concetti, riorganizzando la struttura di tutti i concetti precedenti. Riguardo alla generalizzazione come processo su cui si basa la formazione di un concetto, Vygotskij scrive che «[…] la generalizzazione di un concetto comporta la localizzazione di un dato concetto in un sistema determinato di rapporti, che sono i legami più fondamentali, più naturali, più importanti tra i concetti. La generalizzazione significa così […] la sistemazione dei concetti (241)». Inoltre, come afferma Vygotskij, essa «[…] presuppone […] non un

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impoverimento, ma un arricchimento della realtà rappresentata nel concetto rispetto alla percezione e all’intuizione sensibili e immediate di questa realtà (295)».

IDIOMATICITÀ [idiomaticity] [idiomaticidad] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

INFLUENZA DEL SENSO [influx of sense] [influjo de sentido] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

INTROSPEZIONE [introspection] [introspección] Vedi PRESA DI COSCIENZA

LEGAME ASSOCIATIVO [associative bond] [vínculo asociativo]
V edi ASTRAZIONE, COMPLESSO ASSOCIA TIVO, COMPLESSO A CA TENA,

SVILUPPO

LINGUA [language] [lengua]

La lingua comprende tutto un insieme di fenomeni sonori e intellettivi, esterni e interni, orali e scritti, grammaticali e semantici, che permettono ad un individuo di esprimere, comunicare, raccontare, agli altri e a se stessi, pensieri e sentimenti, seguendo le maniere e gli scopi più svariati. Dunque, «la lingua, dal punto di vista del linguista, non è un’unica funzione verbale, ma un insieme di forme verbali diverse (369)» che presentano, a seconda del fine e della situazione d’impiego, dal discorso quotidiano al linguaggio dell’opera letteraria, modalità

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d’espressione radicalmente differenti. Vygotskij riporta un esempio sulla differenza fra linguaggio in prosa e linguaggio in poesia e afferma che «la lingua, nell’una e nell’altra forma, ha le sue particolarità nella scelta delle espressioni, nell’impiego di forme grammaticali e nelle procedure sintattiche di accoppiamento delle parole nel linguaggio (370)».

Vygotskij, riprendendo un esperimento sulla lingua e il suo sviluppo nel bambino effettuato dallo studioso W. Stern e confermandone la validità, spiega che è all’incirca all’età di due anni che «nel bambino si sveglia una prima coscienza del significato della lingua e la volontà di conquistarlo. Il bambino a questo punto fa la più grande scoperta della sua vita. Scopre che ogni cosa ha un nome (111)». Il bambino si appropria della lingua attraverso il rapporto con il mondo degli adulti, in particolar modo attraverso il rapporto fin dai primissimi mesi di vita con la madre. «In questa fondamentale prima relazione madre-bambino, gioca un ruolo importante l’imitazione reciproca, ad iniziare dallo svilupparsi del linguaggio, in cui la madre imita il bambino, ma sempre un passo più avanti di lui dal punto di vista semantico e sintattico. […] Come osserva Vygotskij, diventiamo noi stessi attraverso gli altri: quindi non conosciamo gli altri attraverso l’empatia, bensì nella socializzazione primaria, in cui il bambino impara a conoscere l’altro e come l’altro lo interpreta, e in tal modo apprende a conoscersi. Perciò il linguaggio è anche uno strumento di comunicazione fra l’uomo e se stesso (Carnaroli 2001: 2)». Da qui l’importanza di quello che Vygotskij denomina linguaggio interno (vedi).

La lingua diventa poi un importante mezzo funzionale su cui si innestano, il primo trainato dal secondo, il processo di sviluppo (vedi) e di apprendimento (vedi) del soggetto; infatti, si osserva che «la contribución del aprendizaje consiste en que pone a disposición del individuo un poderoso instrumento: la lengua. En el proceso de adquisición, este instrumento se convierte en parte integrante de las estructuras psíquicas del individuo (Ivić1994: 4)».

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LINGUA MATERNA [native language] [lengua materna]

La lingua materna costituisce il primo apparato linguistico che il bambino apprende direttamente dal rapporto con la madre e con il mondo esterno. Vygotskij spiega che «lo sviluppo della lingua materna comincia con l’uso libero e spontaneo del linguaggio e si compie con la presa di coscienza (vedi) delle forme verbali e la loro padronanza (291)», processo esattamente opposto a quello di apprendimento di una lingua straniera (vedi). Con questa vi è una strettissima interdipendenza in quanto «l’assimilazione di una lingua straniera apre la strada alla padronanza delle sfere superiori della lingua materna (291)»; Vygotskij procede precisando che «[…] la padronanza di una lingua straniera innalza anche la lingua materna ad uno stadio superiore, nel senso della presa di coscienza delle forme della lingua, della generalizzazione dei fenomeni della lingua, dell’uso più consapevole e più volontario della parola come strumento del pensiero e come espressione del concetto (220-221)». Vygotskij conclude la sua analisi affermando un paragone tra l’apprendimento della lingua materna e l’apprendimento nel periodo prescolare dei concetti quotidiani (vedi); il bambino infatti assimila questi in maniera inconsapevole, libera e spontanea, così come avviene con la lingua madre.

LINGUA STRANIERA [foreign language] [lengua extranjera]

La lingua straniera significa per il bambino l’assimilazione dei corrispondenti di quei significati già acquisiti attraverso il processo di astrazione (vedi) e generalizzazione (vedi) nella lingua materna (vedi) in un altro codice linguistico; lo studioso russo mette in luce infatti come «l’apprendimento da parte dello scolaro di una lingua straniera si basa in qualche modo sulla conoscenza della lingua materna (220)», nel senso che «il bambino assimila una lingua straniera perché dispone già di un sistema di conoscenze nella lingua materna e lo trasferisce nella sfera dell’altra lingua (291)». Una volta comparso il processo di appropriazione volontaria della propria lingua e delle regole che la disciplinano, nel bambino l’apprendimento di una lingua

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straniera parte proprio da questo punto; come spiega Vygotskij, «lo sviluppo della lingua straniera inizia con la presa di coscienza (vedi) della lingua e il suo uso volontario e si compie con un linguaggio libero e spontaneo (291)». Di conseguenza si può affermare che «l’assimilazione della lingua straniera segue una via direttamente opposta a quella che percorre lo sviluppo della lingua materna; […] lo sviluppo della lingua materna va dal basso verso l’alto, mentre lo sviluppo della lingua straniera va dall’alto in basso (289-290)»; il primo si muove dalla spontaneità e dalla libertà alla presa di coscienza della regola, il secondo dalla regola e dalla consapevolezza all’uso spontaneo, così come succede per l’apprendimento dei concetti scientifici (vedi).

LINGUAGGIO [language] [lenguaje]

Vygotskij scrive che il «linguaggio è anzitutto il mezzo di relazione sociale, il mezzo di espressione e comprensione (15)»; in seguito, precisa che «la funzione iniziale del linguaggio è la funzione della comunicazione, del legame sociale, dell’azione su coloro che sono attorno, sia dalla parte degli adulti, che dalla parte del bambino. Così il primo linguaggio è puramente sociale […] (57)». Vi è dapprima una fase emozionale, affettivo-volitiva del linguaggio, in cui il bambino esprime i sui bisogni e le sue sensazioni prettamente attraverso il pianto; segue poi una fase pre-intellettiva, in cui il grido, il balbettio e le prime parole costituiscono per il bambino il mezzo con cui comunica con il mondo esterno. Il linguaggio diviene infine linguaggio intellettivo (vedi) quando la sua linea di sviluppo si interseca, all’incirca all’età di due anni, con quella dello sviluppo del pensiero; a partire da questo momento il linguaggio inizia ad assumere una funzione simbolica, ovvero, inizia a presentare suoni di senso (vedi) compiuto, andando ad indicare determinati oggetti e facendosi portatore di significati (vedi). A questo punto attraverso il linguaggio il bambino assimila la rappresentazione del mondo.

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Vygotskij spiega che «al primo stadio del linguaggio infantile autonomo non esistono nuove relazioni di generalità (vedi) tra i concetti (vedi), per cui tra di essi sono possibili solo i legami che possono essere stabiliti nella percezione (309)». Inoltre, «[…] nel campo dello sviluppo del linguaggio, l’assimilazione delle forme e delle strutture grammaticali avviene nel bambino prima dell’assimilazione delle strutture e delle operazioni logiche che corrispondono a queste forme (117)»; in seguito, l’apprendimento delle regole della lingua, in particolar modo della grammatica e della scrittura, danno al bambino la possibilità di accedere ad un livello superiore dello sviluppo del linguaggio, prendendo coscienza (vedi) della lingua, acquistando la capacità di astrazione (vedi) e generalizzazione (vedi) dei concetti e diventando di conseguenza sempre più consapevole e abile nell’uso del linguaggio stesso.

Lo sviluppo del linguaggio non corre soltanto lungo la linea della presa di coscienza della lingua come mezzo di comunicazione e della formazione progressiva di un sistema di concetti, ma anche lungo la linea della presa di coscienza della presenza di due piani del linguaggio, uno interno e uno esterno. Vygotskij testimonia ciò riportando i risultati della sua analisi in merito. «La ricerca mostra che l’aspetto interno, dotato di senso, semantico del linguaggio e l’aspetto esterno, sonoro, fasico, pur formando un’unità autentica, hanno ciascuno delle proprie leggi di movimento. L’unità del linguaggio è un’unità complessa, ma non omogenea e congenere […]. L’aspetto semantico della parola nel suo sviluppo va dal tutto alla parte, dalla frase alla parola, mentre l’aspetto esteriore del linguaggio va dalla parte al tutto, dalla parola alla frase (335)». Il bambino inizialmente non è consapevole di tale divisione; «una delle linee più importanti dello sviluppo del linguaggio nel bambino consiste appunto nel fatto che questa unità comincia a differenziarsi e si comincia a prenderne coscienza (342)».

LINGUAGGIO AFASICO [aphasic speech] [lenguaje afásico] Vedi LINGUAGGIO INTERNO

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LINGUAGGIO EGOCENTRICO [egocentric speech] [lenguaje egocéntrico]

Il linguaggio egocentrico è un linguaggio per sé ad alta voce che assume per il bambino le funzioni di comprensione del sé, contatto, guida e organizzazione; essendo privo di destinatario esterno, risulta incomprensibile se non si conosce la situazione in cui nasce. È caratterizzato da frammentarietà, abbreviazione e tendenza alla predicatività, ovvero nel discorso vi è un’omissione del soggetto a favore del predicato e delle parole ad esso legato. Vygotskij afferma che «il linguaggio egocentrico del bambino è uno dei fenomeni del passaggio dalle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche, cioè dalle forme di attività sociale, collettiva del bambino alle sue funzioni individuali. […] Il linguaggio per se stessi nasce dalla differenziazione della funzione inizialmente sociale del linguaggio per gli altri. Si tratta dunque di […] una individualizzazione progressiva, nata sulla base della socialità interna del bambino (350)». Secondo Vygotskij, «studiare il linguaggio egocentrico del bambino è importante perché è l’embrione del linguaggio interno (vedi) dell’adulto (Osimo 2004: 1)»; infatti, la sequenza evolutiva tracciata da Vygotskij parte dal linguaggio sociale, passa attraverso l’egocentrismo, per poi raggiungere il linguaggio interno. «Il linguaggio egocentrico è un linguaggio interno per la sua funzione psichica e un linguaggio esterno per la sua struttura (351)» e il suo sviluppo è costituito da una curva crescente per quanto riguarda la sua funzione psichica e una curva decrescente per quanto riguarda la sua struttura, ovvero la vocalizzazione. Ne consegue necessariamente che «[…] il linguaggio egocentrico si sviluppa in direzione del linguaggio interno, e tutto il suo sviluppo non può essere compreso che come il corso di un’acquisizione progressiva di tutte le proprietà distintive del linguaggio interno (356)», in primis «[…] l’astrazione (vedi) dal lato sonoro e la tendenza sempre più grande all’abbreviazione, all’attenuazione dell’articolazione sintattica, alla condensazione (377)».

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LINGUAGGIO ESTERNO [external speech] [lenguaje exterior / externo]

Vygotskij definisce il linguaggio esterno come «un processo di trasformazione del pensiero nella parola, la sua materializzazione e oggettivazione (347)» attraverso la vocalizzazione. Il linguaggio esterno è dunque orale, meglio ancora fasico, cioè dotato di suono, e compare prima di tutte le altre forme di linguaggio, in modo spontaneo e inconsapevole come del resto tutti i concetti quotidiani del bambino. Ha la funzione di comunicare con l’esterno, ha dunque un destinatario ed è per questo comprensibile agli altri. Nella maggior parte dei casi il linguaggio esterno è dialogico e questo presuppone la velocità. Vygotskij afferma in merito che «la rapidità dell’atto del linguaggio presuppone una sua esecuzione del tipo di un atto volontario semplice ed inoltre con elementi abituali […]; la comunicazione dialogica implica enunciati di getto e come viene viene. Il dialogo è un linguaggio fatto di repliche, è un linguaggio di reazioni (373)». È importante precisare che il linguaggio esterno deve essere «[…] contestualizzato rispetto agli stati della mente di chi parla, riferendosi a stati della mente personali, cioè a sentimenti, credenze e pensieri che, proprio tramite la parola, colui che parla intende trasferire e riprodurre nella mente di colui che ascolta. Quindi, […] perché l’atto linguistico sia efficace, i dialoganti devono avere un’esperienza di attenzione condivisa, anche riguardo all’uso convenzionale delle parole in riferimento ai propri stati interni: quindi con un processo di organizzazione rispetto ad un codice linguistico condiviso (Carnaroli 2001: 1-2)». Di norma il linguaggio esterno è completamente espresso e sintatticamente articolato, ma vi sono circostanze in cui può essere abbreviato. Vygotskij spiega infatti che «se vi è identità di pensieri tra gli interlocutori, un identico orientamento della loro coscienza, il ruolo delle stimolazioni verbali si riduce al minimo (367)». Precisa in seguito che «[…] nel caso in cui sia presente nella mente degli interlocutori un soggetto comune, la comprensione sarà completa con l’aiuto della massima abbreviazione del linguaggio, con una sintassi estremamente semplificata; nel caso contrario non si avrà affatto la comprensione, anche se il linguaggio fosse sviluppato. Così talvolta non solo due sordi non arrivano ad intendersi tra loro, ma anche semplicemente due

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persone che danno un contenuto differente ad una stessa parola o hanno punti di vista opposti (368)». La tendenza all’abbreviazione nel linguaggio esterno compare anche «[…] quando il parlante esprime il contesto psicologico di ciò che viene enunciato mediante l’intonazione (374)».

LINGUAGGIO FASICO [phasic speech] [lenguaje fásico] Vedi LINGUAGGIO ESTERNO

LINGUAGGIO INTELLETTIVO [intellective speech] [lenguaje intelectivo]

Con questo termine si indica quella porzione di linguaggio che nasce dall’incontro tra pensiero e linguaggio a cui corrisponde il pensiero verbale (vedi). Per citare le parole di Vygotskij, egli afferma che «ad un certo momento (circa due anni), le linee di sviluppo del pensiero e del linguaggio, fino ad allora separate, si intersecano, coincidono nel loro sviluppo e fanno nascere una forma del tutto nuova di comportamento, così caratteristica dell’uomo. […] Questo momento di svolta, a partire dal quale il linguaggio diventa intellettivo e il pensiero diventa verbale, è caratterizzato da due criteri perfettamente oggettivi e indiscutibili: […] il primo sta nel fatto che il bambino […] comincia ad ampliare attivamente il suo vocabolario, […] il secondo elemento sta nel fatto che […] la riserva di parole cresce in modo estremamente rapido e a salti (110-111)». Il bambino a questo punto si sforza di possedere il segno che serve a riferirsi ad un determinato oggetto, cioè il suo nome, il quale racchiude in sé un significato; questo fatto sta ad indicare che il bambino smette di considerare il nome meramente come proprietà di un oggetto e che attraverso il pensiero intuisce un legame interno alla parola tra segno e significato. Questo primo atto di pensiero del bambino testimonia il fatto che il suo linguaggio è entrato nella fase intellettiva del suo sviluppo.

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LINGUAGGIO INTERNO [inner speech] [lenguaje interior / interno]

In un testo di critica su Vygotskij si afferma che nella sua opera Pensiero e linguaggio egli «describe las sutilezas del proceso genético mediante el cual el lenguaje, en calidad de instrumento de las relaciones sociales, se transforma en un instrumento de la organización psíquica interior del niño (la aparición del lenguaje privado, del lenguaje interior, del pensamiento verbal) (Ivić 1999: 4)». Vygotskij introduce l’analisi sul linguaggio interno spiegando che questo «è una formazione particolare per la sua natura psicologica, un tipo particolare di attività verbale, che ha delle caratteristiche assolutamente specifiche e sta in rapporto complesso con gli altri tipi di attività verbale (346)»; prosegue con l’affermazione secondo la quale il linguaggio interno si sviluppa «[…] per la via dell’isolamento funzionale e strutturale dal linguaggio esterno (vedi), per il passaggio da questo al linguaggio egocentrico (vedi) e dal linguaggio egocentrico al linguaggio interno (355)». Si tratta di un linguaggio afasico, ovvero, in esso vi è una totale astrazione (vedi) del linguaggio dal lato sonoro; il bambino, quindi, inizia a pensare la parola, maneggia la sua immagine senza pronunciarla. Il linguaggio interno svolge le stesse funzioni del linguaggio egocentrico, è cioè un linguaggio per sé, distinto dal linguaggio sociale, è la forma più intima di pensiero del bambino che compare nella prima età scolare ed è finalizzata all’adattamento individuale, alla riflessione e all’organizzazione mentale di discorsi sia orali che scritti; costituisce il fondo della coscienza e, non avendo interlocutore, in esso il pensiero viene formulato in termini imprecisi e sfumati in quanto non c’è bisogno di chiarezza per se stessi, l’identico orientamento della coscienza è totale. Il linguaggio interno è abbreviato, ridotto al massimo, stenografico, presenta cortocircuiti, economie e omissioni di ciò che è chiaro al parlante, risultando all’esterno incomprensibile.

In sintesi, le caratteristiche che lo stesso Vygotskij assegna al linguaggio interno sono: sintassi semplificata, predicatività, riduzione ed interiorizzazione dell’aspetto fasico, da cui la denominazione «endofasia», predominanza di senso su significato, influenza dei sensi,

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agglutinazione delle unità semantiche e idiomaticità. Più nel dettaglio, Vygotskij spiega che «la prima e più importante caratteristica del linguaggio interno è la sua particolarissima sintassi; […] questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del linguaggio interno rispetto a quello esterno (363)». Inoltre, «[…] la predicatività è la forma fondamentale ed unica del linguaggio interno, che dal punto di vista psicologico è costituito tutto dai soli predicati (374)»; ci troviamo dunque di fronte ad una predicatività assoluta per cui il soggetto, in quanto costantemente noto al parlante, viene sottinteso e per questo omesso a favore del predicato. «Il linguaggio interno utilizza preferibilmente l’aspetto semantico e non quello fonetico del linguaggio (379)». Per quanto riguarda l’aspetto fonetico, si assiste ad una riduzione delle parole alle iniziali, mentre considerando l’aspetto semantico, vi è «[…] una predominanza del senso (vedi) della parola sul suo significato (vedi) (380)», essendo il primo più vasto del secondo; non solo, a questa preponderanza del senso sul significato corrisponde anche una predominanza della frase sulla parola e di tutto il contesto sulla frase, rendendo così il linguaggio agglutinato a livello di unità semantiche, dal momento che i sensi e le frasi si riversano gli uni negli altri, e diventando veicolo di un pensiero condensato. Vygotskij afferma che «[…] sembra che la parola assorba in sé il senso delle parole precedenti e successive, allargando quasi senza limiti l’ambito del suo significato. Nel linguaggio interno la parola è molto più carica di senso che in quello esterno (384)»; con una sola denominazione del linguaggio interno possiamo riferirci ad una vastità di pensieri, ragionamenti e sentimenti. Questo sovrapporsi di significati fa sì che si creino nuovi significati, i quali acquistano sfumature diverse e personali, intraducibili nel linguaggio esterno e quindi comprensibili solo per chi li genera; si tratta di veri e propri idiomi.

Si conclude l’analisi affermando che «il linguaggio interno è in misura rilevante un pensiero di puri significati (387)», assolutamente fondamentale per lo studio del pensiero stesso; è infatti un elemento dinamico ed instabile che fa da intermediario nei complessi passaggi tra il pensiero e la parola.

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LINGUAGGIO ORALE [oral speech] [lenguaje oral] Vedi LINGUAGGIO ESTERNO

LINGUAGGIO SCRITTO [written speech] [lenguaje escrito]

Il linguaggio scritto è un linguaggio monologico di origine intellettuale, espresso attraverso l’uso di segni grafici e caratterizzato, a differenza del linguaggio orale, da consapevolezza, costruzione volontaria e presa di coscienza della struttura fonica, grammaticale, sintattica e semantica del discorso; non costituisce dunque la mera traduzione del linguaggio orale in segni grafici. Un importante tratto caratterizzante di questo linguaggio è l’alto grado di astrazione (vedi) dal suono e dall’interlocutore; si tratta infatti di un linguaggio muto che presenta una notevole distanza dal destinatario. È proprio per via di questa lontananza tra chi scrive e chi legge che tutto deve essere detto nella maniera più espressa possibile e nulla può essere sottointeso. Vygotskij scrive in merito che «nel linguaggio scritto gli interlocutori si trovano in situazioni differenti, il che esclude la possibilità della presenza nei loro pensieri di un soggetto comune (369)». Ecco perché il linguaggio scritto, a differenza di quello orale, presenta sempre la massima articolazione sintattica e non presuppone mai sfumature di senso e idiomaticità, avvalendosi esclusivamente dei significati formali delle parole; Vygotskij afferma infatti che «[…] il linguaggio scritto è la forma di linguaggio più verbosa, più precisa e sviluppata. In esso si deve trasmettere mediante delle parole ciò che nel linguaggio orale è trasmesso mediante l’intonazione e la percezione immediata della situazione (372)»; dunque nel caso del linguaggio scritto, affinché la comprensione sia totale, è necessario l’uso di una quantità maggiore di parole rispetto il linguaggio orale e una combinazione tra di esse il più ricca possibile. Vygotskij prosegue la sua analisi scrivendo che «se il linguaggio esterno viene prima di quello interno, allora quello scritto viene dopo quello interno; […] il linguaggio scritto è la chiave del linguaggio interno (vedi) (261)», in quanto porta il bambino all’interiorizzazione della lingua.

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Tuttavia, i due tipi di linguaggio differiscono profondamente per come si presentano: uno è sviluppato ed espresso al massimo, l’altro stenografico e ridotto al minimo.
Vygotskij assegna al linguaggio scritto il merito di far «accedere il bambino al piano astratto più elevato del linguaggio, riorganizzando allo stesso tempo il sistema psichico del linguaggio orale precedentemente formato (258-259)»; il linguaggio scritto conferisce dunque al bambino una maggiore padronanza della lingua.

PAROLA [word] [palabra]

Vedi ASTRAZIONE, GENERALIZZAZIONE, LINGUA, LINGUAGGIO, LINGUAGGIO INTERNO, SEGNO, SENSO, SIGNIFICATO, UNITÀ COMPONENTE, VOLA TILIZZAZIONE

PARTECIPAZIONE [participation] [participación]

Con questo termine ci si riferisce ad una caratteristica tipica del complesso (vedi) che sta ad indicare «la relazione che il pensiero primitivo stabilisce tra due oggetti o due fenomeni considerati sia come parzialmente identici, sia come aventi un’influenza stretta l’uno sull’altro, mentre non esiste tra loro alcun contatto spaziale, né qualche altro legame comprensibile (173)» alla luce del pensiero per concetti.

PENSIERO ARTIFICIALE [artificial thought] [pensamiento artificial] Vedi APPRENDIMENTO

PENSIERO ASTRATTO [abstract thought] [pensamiento abstracto] Vedi ASTRAZIONE, PSEUDOCONCETTO

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PENSIERO CONCRETO [concrete thought] [pensamiento concreto] Vedi COMPLESSO, PSEUDOCONCETTO

PENSIERO PER COMPLESSI [complex thinking] [pensamiento por complejos] Vedi COMPLESSO

PENSIERO PER CONCETTI [conceptual thinking] [pensamiento por conceptos] Vedi COMPLESSO, CONCETTO, PARTECIPAZIONE, PSEUDOCONCETTO

PENSIERO VERBALE [verbal thought] [pensamiento verbal]

Con questa espressione si definisce quel settore del pensiero che nasce dall’incontro con il linguaggio; a questa porzione di pensiero orientata verso il linguaggio corrisponde poi il linguaggio intellettivo (vedi). Spiega Vygotskij: «la relazione tra pensiero e linguaggio potrebbe essere rappresentata schematicamente in questo caso da due circonferenze che si intersecano, che mostrerebbero che i processi del linguaggio e del pensiero coincidono in parte. Questa è quella che si chiama la sfera del pensiero verbale (118)». Vygotskij riassume poi la sua analisi sul pensiero verbale nel seguente modo: «il pensiero verbale ci è apparso come un insieme dinamico complesso, in cui il rapporto tra pensiero e parola si è manifestato come un movimento attraverso tutta una serie di piani interni, come un passaggio da un piano all’altro. Abbiamo condotto la nostra analisi dal piano più esterno al piano più interno. Nel dramma vivente del pensiero verbale il movimento va in senso inverso: dalla motivazione che fa nascere un pensiero alla formazione di questo stesso pensiero, alla sua mediazione nelle parole del linguaggio interno (vedi), poi nei significati delle parole esterne e infine nelle parole (393)».

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PERIODO SENSITIVO [sensitive period] [período sensitivo]

Con questo termine, sostituibile anche con l’espressione «zona di sviluppo prossimo» (vedi) si indica precisamente il periodo «in cui l’organismo è particolarmente sensibile a influenze di tipo specifico. In questo periodo, influenze di tipo specifico producono un’azione sensibile su tutto il corso dello sviluppo, producono in esso vari e profondi cambiamenti (275)». Ogni materia scolastica ha il suo periodo sensitivo e in esso l’apprendimento (vedi), perché possa avere un’influenza sul corso dello sviluppo (vedi), deve prendere piede solo nel momento in cui la corrispondente fase di sviluppo è ancora immatura.

PREDICATIVITÀ [predication] [predicatividad]
Vedi LINGUAGGIO EGOCENTRICO, LINGUAGGIO INTERNO

PRESA DI COSCIENZA [to become conscious / aware] [toma de conciencia]

Vygotskij definisce questo termine come «un atto della coscienza, il cui oggetto è l’attività stessa della coscienza (238)»; prendere coscienza significa dunque acquisire consapevolezza di una determinata attività che nasce dall’interno, dalla coscienza, e che normalmente viene svolta automaticamente senza rendersi conto delle leggi che regolano il funzionamento di tale attività. Quindi, «[…] prendere coscienza di un’operazione vuol dire […] farla passare dal piano dell’azione a quello del linguaggio; vuol dire […] inventarla di nuovo in immaginazione, per poterla esprimere in parole (Cleparède, citato in Vygotskij 2003: 227)». Prima di tutto, afferma Vygotskij, «per prendere coscienza, bisogna possedere ciò di cui si deve prendere coscienza. Per padroneggiare bisogna disporre di ciò che deve essere sottoposto alla nostra volontà (236)»; ciò significa che la presa di coscienza implica necessariamente la pre-esistenza di una determinata attività della coscienza e una sua fase di funzionamento inconsapevole e involontario; solo queste condizioni permettono poi il passaggio alla consapevolezza nell’uso di tale attività.

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Vygotskij conferma in seguito la tesi di Piaget secondo la quale «la presa di coscienza segue l’azione e nasce solo quando l’adattamento automatico urta contro delle difficoltà (Piaget, citato in Vygotskij 2003: 75)». È proprio per questo motivo che questa funzione nasce solo nel periodo scolare, quando il bambino per la prima volta si scontra con la soluzione di problemi alla quale può giungere solo attraverso la padronanza delle sue attività psichiche. Inoltre, la presa di coscienza ha una comparsa tardiva in quanto si tratta di una funzione propria di uno stadio superiore dello sviluppo che presuppone l’introspezione, attività che compare ad un livello minimo appunto in età scolare; solo in questo momento nel bambino inizia a svilupparsi la percezione di ciò che accade nella sua psiche, all’interno dei suoi processi psichici, solo ora questi processi vengono generalizzati e portati alla coscienza, permettendone al bambino la progressiva padronanza.

PSEUDOCONCETTO [pseudo-concept] [pseudoconcepto]

Lo pseudoconcetto costituisce l’ultimo tipo di complesso che funge da anello di congiunzione tra il complesso (vedi) e il concetto (vedi) vero e proprio. Viene chiamato in questo modo in quanto «fenotipicamente, cioè per il suo aspetto esterno, […] coincide completamente con il concetto, ma per la sua natura genetica, per le condizioni della sua apparizione e del suo sviluppo, per i legami causali-dinamici che stanno alla sua base, non è affatto un concetto (161)», rientra ancora nella categoria del complesso. Quindi, il risultato delle operazioni alla base di questo complesso è assolutamente identico al concetto; ciò che differisce da esso sono proprio la dinamica e l’essenza di tali operazioni. Infatti, alla base di un concetto vi sono legami che nascono dal processo di astrazione (vedi), i quali portano l’oggetto dalla sfera inferiore dell’impressione concreta a quella superiore del pensiero astratto, mentre per quanto riguarda il complesso, i legami che uniscono gli oggetti fra loro si fondano sul principio di una semplice associazione nel campo della concretezza. Di conseguenza, si tratta ancora di una forma di

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pensiero concreto che, tuttavia, ha un ruolo fondamentale sia sotto l’aspetto funzionale che genetico per il raggiungimento del pensiero per concetti e costituisce il tipo di complesso in assoluto più diffuso nell’età scolare del bambino. È necessario precisare che la formazione dello pseudoconcetto nel bambino viene influenzata dalla relazione verbale con gli adulti che lo circondano in quanto questo fenomeno corrisponde per il bambino al processo di attribuzione di un significato (vedi), il quale avviene proprio attraverso l’appropriazione del linguaggio degli adulti; per questo motivo, ne consegue che questa ultima forma di complesso, orientata e guidata nel suo sviluppo dalla forza motrice della lingua degli adulti, sfocerà nella comparsa del pensiero per concetti, tipico del pensiero adulto. Gli pseudoconcetti vanno quindi considerati come gli equivalenti funzionali dei concetti, i quali prenderanno vita, appunto, a partire da queste formazioni precedenti. È proprio questa somiglianza esterna tra lo pseudoconcetto e il concetto che permette a questo punto dello sviluppo del pensiero infantile la completa comprensione tra bambino e adulto nel riferimento all’oggetto. Vygotskij conclude affermando che «gli pseudoconcetti non sono un patrimonio esclusivo del bambino. Nella nostra vita quotidiana il pensiero opera molto spesso per pseudoconcetti. [A volte i concetti con cui ragioniamo] non sono concetti nel vero senso della parola. Sono piuttosto delle rappresentazioni generali delle cose (183)».

RIFERIMENTO ALL’OGGETTO [referent] [referencia al objeto] Vedi ASTRAZIONE, COMPLESSO, PSEUDOCONCETTO

SEGNO [sign] [signo]

Il segno è l’elemento attraverso cui avviene la comunicazione; nel caso della comunicazione verbale, quindi del linguaggio, il segno si identifica nella parola, la quale serve appunto per indicare un oggetto tramite il suo nome. Il segno, che riunisce in sé il suono e il significato della

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parola, diventa il simbolo dell’oggetto designato all’interno dell’atto comunicativo; esso dunque veicola la funzione simbolica del linguaggio. L’uso funzionale del segno distingue le forme psichiche superiori dell’uomo; Vygotskij afferma che «[…] tutte le funzioni psichiche superiori sono unite […] dall’uso del segno come mezzo fondamentale di direzione e padronanza dei processi psichici (137)». Questo è ciò che succede anche con la parola nel linguaggio: qui essa viene usata, oltre che esternamente come mezzo della comunicazione, anche come mezzo per orientare il pensiero all’interno dei processi intellettivi. Inizialmente però «la parola entra nella struttura delle cose senza avere però il significato funzionale di segno. […] Per un certo tempo [la parola] è per il bambino una proprietà della cosa a fianco delle sue altre proprietà (123)»; solo in un secondo tempo, quando avviene la presa di coscienza (vedi) della parola come portatrice di un significato interno (vedi), essa comincia ad essere usata come segno strumentale.

SENSO [sense] [sentido]

Il senso è principalmente l’elemento che, abbinato al suono, rende tale suono parte del linguaggio umano. Vygotskij definisce il senso sottolineando le differenze con il significato (vedi) delle parole: «il senso della parola […] rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola. Il senso di una parola è così una formazione sempre dinamica, fluttuante, complessa che ha parecchie zone di stabilità differenti, [costituite dai singoli significati] (380)». Continua Vygotskij: «Il senso di una parola, [a differenza del suo significato], è un fenomeno […] mobile, che in una certa misura cambia costantemente secondo le varie coscienze e, per una stessa coscienza, secondo le circostanze. A questo riguardo il senso di una parola è inesauribile. […] [Inoltre,] il senso può essere staccato dalla parola che lo esprime, come può essere fissato facilmente a qualsiasi altra parola. […] Perciò accade che una parola prenda il posto di un’altra. Il senso si stacca dalla parola e così si

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conserva. Ma se la parola può sussistere senza il senso, il senso può nella stessa misura sussistere senza la parola (381)».

SIGNIFICATO [meaning] [significado]

Il significato è la parte più interna della parola che costituisce l’unità componente (vedi) del pensiero verbale (vedi) in quanto è l’elemento che racchiude in sé sia un atto di pensiero, la semantica della parola, sia un atto verbale, la sonorità della parola; il significato dunque media internamente il pensiero nella sua espressione verbale, così come il segno (vedi) lo media esternamente. Vygotskij afferma che «il fatto nuovo ed essenziale che presenta questa ricerca sullo studio del pensiero e del linguaggio è che i significati della parola si sviluppano (326)». Spiega Vygotskij più in particolare: «il significato delle parole non è costante. Si modifica nel corso dello sviluppo del bambino. Varia secondo i diversi modi di funzionamento del pensiero. Rappresenta una formazione più dinamica che statica. È stato possibile stabilire la variabilità dei significati solo quando è stata definita correttamente la natura del significato stesso. La sua natura si manifesta anzitutto nella generalizzazione (vedi), che è contenuta come elemento fondamentale e centrale in ogni parola, perché ogni parola già generalizza. (333)». Nel suo sviluppo e mutamento, il significato resta comunque una formazione più costante rispetto al senso (vedi). Vygotskij afferma infatti che «il significato è […] una [delle] zone del senso che acquista la parola in un qualche contesto; […] è la zona più stabile, più unificata e più precisa. […] Il significato […] è quel punto immobile e immutabile che rimane stabile di fronte a tutti i cambiamenti di senso della parola nei diversi contesti (389)».

SINCRETISMO [syncretism] [sincretismo]

Il sincretismo costituisce il primo livello di generalizzazione (vedi) tipico del bambino molto piccolo; è caratterizzato da un raggruppamento «[…] informe, indeterminato fino al fondo, di 40

oggetti isolati che sono legati gli uni agli altri in un modo qualsiasi nella rappresentazione e nella percezione del bambino, in un’unica immagine fusa (149)». Vygotskij spiega che «alla base delle forme sincretiche stanno soprattutto i legami soggettivi emozionali tra le impressioni, prese dal bambino come legami delle cose (156)».

SISTEMA DI CONCETTI [concept system] [sistema de conceptos]
Vedi ASTRAZIONE, CONCETTO SCIENTIFICO, GENERALITÀ, GENERALIZZAZIONE

SOVRAPPOSIZIONE [juxtaposition] [superposición] Vedi COMPLESSO

SPOSTAMENTO [transfer] [transferencia] Vedi COMPLESSO

SUONO [sound] [sonido]
Vedi LINGUAGGIO EGOCENTRICO, LINGUAGGIO ESTERNO, LINGUAGGIO

INTERNO, SEGNO, SENSO, SIGNIFICATO

STRUMENTO DI PRODUZIONE INTELLETTUALE [means of intellectual production] [instrumento de producción intelectual]

Vedi SVILUPPO

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SVILUPPO [development] [desarrollo]

Vygotskij definisce lo sviluppo come «[…] la formación de funciones compuestas, de sistemas de funciones, de funciones sistemáticas y de sistemas funcionales (Ivic 1994: 4)». Il grado di sviluppo mentale di un bambino viene stabilito mediante dei test che egli deve eseguire indipendentemente; questo metterà in luce le funzioni mentali maturate fino a quel momento e queste sono gli indicatori del grado di sviluppo. È importante sottolineare che «lo fundamental en el desarrollo no estriba en el progreso de cada función considerada por separado sino en el cambio de las relaciones entre las distintas funciones […] (Ivić 1994: 4)». Analizzando il fenomeno da questo punto di vista, lo sviluppo si presenta come un processo che apporta dei cambiamenti interni nella psiche del soggetto attraverso l’uso di strumenti esterni. Più precisamente, «the child’s mind develops in the course of acquisition of social experiences, which are presented to the child in the form of special psychological tools: language, mnemonic techniques, formulae, concepts, symbols, signs, and so on. These tools are presented to the child by an adult or by more capable peers in the course of their joint activity. Given to and used by the child first at the external level, these tools then internalize and become the internal possession of the child, altering all his or her mental functions […] (Karpov 1995: 1)», ristrutturandole a livelli via via superiori. Vygotskij afferma che «[…] la historia del desarrollo de las funciones mentales superiores aparece así como la historia de la transformación de los instrumentos del comportamiento social en instrumentos de la organización psicológica individual (Vygotskij, citato in Ivić 1994: 4)». Lo sviluppo avviene dunque attraverso la relazione sociale e non lo si considera solo in termini di sviluppo cognitivo, ma anche di intreccio fra sviluppo emotivo e sviluppo cognitivo; qui il motore trainante è il rapporto tra motivazioni e pensieri e gli strumenti forniti dall’educazione.

Le varie funzioni psichiche (percezione, emozione, memoria, pensiero, immaginazione, volontà) non hanno ciascuna una propria linea di sviluppo separata, ma costituiscono un sistema, in cui lo sviluppo di ogni elemento modifica il funzionamento degli altri. Esse si sviluppano

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affinandosi qualitativamente, passando da elementari a superiori, non attraverso l’accumulo di legami associativi, come pensavano gli studiosi prima di Vygotskij, bensì attraverso la funzione mediatrice dei cosiddetti “strumenti di produzione intellettuale”, i quali elevano le funzioni mentali ad un livello che permette la sistematizzazione e il controllo del comportamento. Considerandolo in relazione all’apprendimento (vedi), lo sviluppo, non solo non corre parallelamente ad esso, o lo precede, come si pensava prima della formulazione della tesi di Vygotskij su tali processi, ma segue l’apprendimento, il quale lo spinge in avanti, stimolando la creazione di nuove formazioni e funzioni psichiche. Vygotskij ha infatti dimostrato che lo sviluppo deve ancora essere immaturo quando ha inizio l’apprendimento affinché questo sia efficace e lo sarà solo se collocato entro la zona di sviluppo prossimo (vedi). A livello di ritmo, lo sviluppo si realizza differentemente rispetto all’apprendimento; ne consegue che esso non deve essere subordinato al programma scolastico. Le ricerche di Vygotskij hanno anche dimostrato che ogni materia contribuisce alla maturazione delle varie funzioni mentali dello scolaro, il quale giungerà ad utilizzarle anche per la risoluzione di problemi attinenti alla sfera della vita quotidiana. Lo sviluppo avviene quindi attraverso l’apprendimento, è il fine dell’apprendimento; questo «sarebbe completamente inutile, se potesse utilizzare soltanto ciò che già è maturato nello sviluppo, se non fosse di per sé la fonte di sviluppo, la fonte di un nuovo principio (275)».

SVILUPPO ARTIFICIALE [artificial development] [desarrollo artificial] Vedi APPRENDIMENTO

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TRATTO DISTINTIVO [distinctive trait] [trato distintivo]

V edi COMPLESSO, COMPLESSO ASSOCIA TIVO, COMPLESSO A CA TENA, COMPLESSO COLLEZIONE, COMPLESSO DIFFUSO, CONCETTO, CONCETTO POTENZIALE, PSEUDOCONCETTO

UNITÀ COMPONENTE [component unit] [unidad componente]

Quando si parla di unità componente si fa riferimento al metodo su cui si basa Vygotskij per analizzare il fenomeno del rapporto tra pensiero e linguaggio, appunto il metodo «che decompone un insieme unitario di base in unità componenti. Per unità componenti intendiamo quei prodotti dell’analisi tali che, pur nella differenza degli elementi, possiedono le proprietà fondamentali proprie dell’insieme, e che sono parti viventi, non decomponibili ulteriormente, di questa unità globale. […] Che cos’è dunque questa unità che non è più decomponibile ed in cui vi sono le proprietà del linguaggio verbale [e del pensiero] come insieme? Pensiamo che questa unità possa trovarsi nella parte interna della parola: nel suo significato (vedi) […] perché proprio nel significato della parola sta il centro di questa unità che chiameremo pensiero verbale (vedi) (13)»; il significato risulta essere quindi allo stesso tempo un fenomeno intellettivo e verbale, adatto all’analisi del pensiero e del linguaggio considerati nella loro unione. Vygotskij conferisce all’analisi in unità componenti il merito di mostrare «che in ogni idea si trova, in forma rimaneggiata, la relazione affettiva dell’uomo con la realtà rappresentata in questa idea. Essa permette di scoprire il movimento diretto dai bisogni e dagli impulsi dell’uomo ad una certa direzione del suo pensiero e il movimento inverso dalla dinamica del pensiero alla dinamica del comportamento e dell’attività concreta della persona (20)».

VOCALIZZAZIONE [vocalization] [vocalización]
Vedi LINGUAGGIO EGOCENTRICO, LINGUAGGIO ESTERNO

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VOLATILIZZAZIONE [turning of speech into inward thought] [volatilización]

Vygotskij usa questo termine per indicare il passaggio dalla parola al pensiero, ovvero dal linguaggio esterno (vedi) al linguaggio interno (vedi). Lo studioso russo afferma che «se tutto il linguaggio esterno è un processo di trasformazione del pensiero in parole, la materializzazione è l’oggettivazione del pensiero, allora osserviamo qui un processo inverso, un processo che va in qualche modo dall’esterno verso l’interno, un processo di volatilizzazione del linguaggio nel pensiero, ma il linguaggio non scompare affatto, anche nella sua forma interna. […] Il linguaggio interno è sempre un linguaggio, cioè un pensiero legato alla parola. Ma se il pensiero si incarna nella parola nel linguaggio esterno, allora la parola scompare nel linguaggio interno, dando origine al pensiero (387)».

ZONA DI SVILUPPO PROSSIMO [zone of proximal development] [zona de desarrollo próximo]

Area in cui sono presenti i margini entro cui si può realizzare lo sviluppo futuro del bambino nel momento in cui egli è supportato dalla presenza di un adulto che collabora con lui o che funge da modello da imitare, fornendogli la possibilità di ampliare le sue capacità intellettive fino al limite massimo dettato dal suo sviluppo attuale e dalle sue attuali possibilità intellettive. La zona di sviluppo prossimo è il parametro che completa il quadro globale del grado di sviluppo mentale del bambino in quanto non prende in considerazione solo le funzioni e le capacità già maturate nel bambino, ma anche quelle appena comparse e in via di maturazione. L’importanza della zona di sviluppo prossimo si manifesta «nella dinamica dello sviluppo mentale del bambino durante l’apprendimento e nella riuscita di questi due fenomeni considerati in relazione tra loro (270)». Infatti, le possibilità di apprendimento (vedi) e il corso dello sviluppo (vedi) mentale del bambino si basano proprio sulla zona di sviluppo prossimo, così come l’insegnamento, di conseguenza. Il contenuto vero e proprio del concetto di zona di sviluppo

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prossimo sta nella possibilità dello sviluppo «di elevarsi attraverso la collaborazione ad un livello intellettivo superiore, la possibilità di passare da ciò che in bambino sa fare a ciò che non sa fare, mediante l’imitazione (272)» durante l’apprendimento, il quale deve precedere e stimolare lo sviluppo, trainandolo dietro di sé. È importante precisare che il concetto di zona di sviluppo prossimo si basa proprio sul principio per cui «in collaborazione il bambino può fare sempre di più che da solo (270)»; egli, infatti, se spronato e aiutato da un adulto attraverso la proposta di esempi o di domande che spingono il bambino a mettere in gioco e potenziare le sue abilità, può superare se stesso e le sue capacità, può arrivare ad un livello superiore di attività intellettive, giungendo a risolvere problemi che per difficoltà si addicono a bambini più grandi. Come afferma Vygotskij, «[…] dobbiamo sempre determinare la soglia inferiore di apprendimento. Ma così non si chiude la questione: dobbiamo saper determinare anche la soglia superiore di apprendimento. Solo nei limiti tra le due soglie l’apprendimento può risultare fruttuoso (274)» e può portare in vita i processi di sviluppo potenziale del bambino. Questi due margini vanno proprio a determinare il periodo della zona di sviluppo prossimo, il quale viene anche denominato comunemente periodo sensitivo (vedi). È inoltre bene puntualizzare che la zona di sviluppo prossimo differisce da soggetto a soggetto nonostante la parità di età; Vygotskij scrive infatti che «la possibilità più o meno grande di passaggio del bambino da ciò che sa fare indipendentemente a ciò che sa fare in collaborazione è il sintomo più sensibile che caratterizza la dinamica dello sviluppo e della riuscita del bambino (271)». Le ricerche di Vygotskij mostrano che ciò che è presente nella zona di sviluppo prossimo in un determinato stadio di età si realizza nel livello di sviluppo superiore andando così a determinare il livello presente di sviluppo del bambino in un’età successiva.

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APPENDICE DI RIFERIMENTO ITALIANO-INGLESE- SPAGNOLO

Agglutinazione

Agglutination

Aglutinación

Apprendimento

Learning

Aprendizaje

Attività verbale

Verbal activity

Actividad verbal

Astrazione

Abstraction

Abstracción

Complesso

Complex

Complejo

Complesso associativo

Associative complex

Complejo asociativo

Complesso a catena

Chain complex

Complejo cadena

Complesso collezione

Collection

Colección

Complesso diffuso

Diffuse complex

Complejo difundido

Concetto

Concept

Concepto

Concetto potenziale

Potential concept

Concepto potencial

Concetto quotidiano

Everyday concept

Concepto cotidiano

Concetto scientifico

Scientific concept

Concepto científico

Concetto spontaneo

Spontaneous concept

Concepto espontáneo

Condensazione

Condensation

Condensación

Endofasia

Endophasy

Endofasia

Equivalenza dei concetti

Equivalence of concepts

Equivalencia de conceptos

Fase affettivo-volitiva

Affective-volitional stage

Fase afectiva / volitiva

Fase emozionale

Emotional stage

Fase emocional

Fase pre-intellettiva

Pre-intellective stage

Fase pre-intelectiva

Fusione concreta

Concrete fusion

Fusión concreta

Generalità

Generality

Generalidad

Generalizzazione

Generalization

Generalización

Idiomaticità

Idiomaticity

Idiomaticidad

Influenza del senso

Influx of sense

Influjo de sentido

Introspezione

Introspection

Introspección

Legame associativo

Associative bond

Vínculo asociativo

Lingua

Language

Lengua

Lingua materna

Native language

Lengua materna

Lingua straniera

Foreign language

Lengua extranjera

Linguaggio

Language

Lenguaje

Linguaggio afasico

Aphasic speech

Lenguaje afásico

Linguaggio egocentrico

Egocentric speech

Lenguaje egocéntrico

Linguaggio esterno

External speech

Lenguaje exterior / externo

Linguaggio fasico

Phasic speech

Lenguaje afásico

Linguaggio intellettivo

Intellective speech

Lenguaje intelectivo

Linguaggio interno

Inner speech

Lenguaje interior / interno

Linguaggio orale

Oral speech

Lenguaje oral

Linguaggio scritto

Written speech

Lenguaje escrito

Parola

Word

Palabra

Partecipazione

Participation

Participación

Pensiero artificiale

Artificial thought

Pensamiento artificial

Pensiero astratto

Abstract thought

Pensamiento abstracto

47

Pensiero concreto

Concrete thought

Pensamiento concreto

Pensiero per complessi

Complex thinking

Pensamiento por complejos

Pensiero per concetti

Concept thinking

Pensamiento por conceptos

Pensiero verbale

Verbal thought

Pensamiento verbal

Periodo sensitivo

Sensitive period

Período sensitivo

Predicatività

Predication

Predicatividad

Presa di coscienza

To become conscious / aware

Toma de conciencia

Pseudoconcetto

Pseudo-concept

Pseudoconcepto

Riferimento all’oggetto

Referent

Referencia al objeto

Segno

Sign

Signo

Senso

Sense

Sentido

Significato

Meaning

Significado

Sincretismo

Syncretism

Sincretismo

Sistema di concetti

Concept system

Sistema de conceptos

Sovrapposizione

Juxtaposition

Superposición

Spostamento

Transfer

Transferencia

Suono

Sound

Sonido

Strumento di produzione intellettuale

Means of intellectual production

Instrumento de producción intelectual

Sviluppo

Development

Desarrollo

Sviluppo artificiale

Artificial development

Desarrollo artificial

Tratto distintivo

Distinctive trait

Trato distintivo

Unità componente

Component unit

Unidad componente

V ocalizzazione

V ocalization

V ocalización

V olatilizzazione

Turning of speech into inward thought

V olatilización

Zona di sviluppo prossimo

Zone of proximal development

Zona de desarrollo próximo

48

APPENDICE DI RIFERIMENTO INGLESE-ITALIANO- SPAGNOLO

Abstract thought

Pensiero astratto

Pensamiento abstracto

Abstraction

Astrazione

Abstracción

Affective-volitional stage

Fase affettivo-volitiva

Fase afectiva / volitiva

Agglutination

Agglutinazione

Aglutinación

Aphasic speech

Linguaggio afasico

Lenguaje afásico

Artificial development

Sviluppo artificiale

Desarrollo artificial

Artificial thought

Pensiero artificiale

Pensamiento artificial

Associative bond

Legame associativo

Vínculo asociativo

Associative complex

Complesso associativo

Complejo asociativo

Chain complex

Complesso a catena

Complejo cadena

Collection

Complesso collezione

Colección

Complex

Complesso

Complejo

Complex thinking

Pensiero per complessi

Pensamiento por complejos

Component unit

Unità componente

Unidad componente

Concept

Concetto

Concepto

Concept system

Sistema di concetti

Sistema de conceptos

Concept thinking

Pensiero per concetti

Pensamiento por conceptos

Concrete fusion

Fusione concreta

Fusión concreta

Concrete thought

Pensiero concreto

Pensamiento concreto

Condensation

Condensazione

Condensación

Development

Sviluppo

Desarrollo

Diffuse complex

Complesso diffuso

Complejo difundido

Distinctive trait

Tratto distintivo

Trato distintivo

Egocentric speech

Linguaggio egocentrico

Lenguaje egocéntrico

Emotional stage

Fase emozionale

Fase emocional

Endophasy

Endofasia

Endofasia

Equivalence of concepts

Equivalenza dei concetti

Equivalencia de conceptos

Everyday concept

Concetto quotidiano

Concepto cotidiano

External speech

Linguaggio esterno

Lenguaje exterior / externo

Foreign language

Lingua straniera

Lengua extranjera

Generality

Generalità

Generalidad

Generalization

Generalizzazione

Generalización

Idiomaticity

Idiomaticità

Idiomaticidad

Influx of sense

Influenza del senso

Influjo de sentido

Inner speech

Linguaggio interno

Lenguaje interior / interno

Intellective speech

Linguaggio intellettivo

Lenguaje intelectivo

Introspection

Introspezione

Introspección

Juxtaposition

Sovrapposizione

Superposición

Language

Lingua

Lengua

Language

Linguaggio

Lenguaje

Learning

Apprendimento

Aprendizaje

Meaning

Significato

Significado

49

Means of intellectual production

Strumento di produzione intellettuale

Instrumento de producción intelectual

Native language

Lingua materna

Lengua materna

Oral speech

Linguaggio orale

Lenguaje oral

Participation

Partecipazione

Participación

Phasic speech

Linguaggio fasico

Lenguaje afásico

Potential concept

Concetto potenziale

Concepto potencial

Predication

Predicatività

Predicatividad

Pre-intellective stage

Fase pre-intellettiva

Fase pre-intelectiva

Pseudo-concept

Pseudoconcetto

Pseudoconcepto

Referent

Riferimento all’oggetto

Referencia al objeto

Scientific concept

Concetto scientifico

Concepto científico

Sense

Senso

Sentido

Sensitive period

Periodo sensitivo

Período sensitivo

Sign

Segno

Signo

Sound

Suono

Sonido

Spontaneous concept

Concetto spontaneo

Concepto espontáneo

Syncretism

Sincretismo

Sincretismo

To become conscious / aware

Presa di coscienza

Toma de conciencia

Transfer

Spostamento

Transferencia

Turning of speech into inward thought

V olatilizzazione

V olatilización

Verbal activity

Attività verbale

Actividad verbal

Verbal thought

Pensiero verbale

Pensamiento verbal

V ocalization

V ocalizzazione

V ocalización

Word

Parola

Palabra

Written speech

Linguaggio scritto

Lenguaje escrito

Zone of proximal development

Zona di sviluppo prossimo

Zona de desarrollo próximo

50

APPENDICE DI RIFERIMENTO SPAGNOLO-ITALIANO- INGLESE

Abstracción

Astrazione

Abstraction

Actividad verbal

Attività verbale

Verbal activity

Aglutinación

Agglutinazione

Agglutination

Aprendizaje

Apprendimento

Learning

Colección

Complesso collezione

Collection

Complejo

Complesso

Complex

Complejo asociativo

Complesso associativo

Associative complex

Complejo cadena

Complesso a catena

Chain complex

Complejo difundido

Complesso diffuso

Diffuse complex

Concepto

Concetto

Concept

Concepto científico

Concetto scientifico

Scientific concept

Concepto cotidiano

Concetto quotidiano

Everyday concept

Concepto espontáneo

Concetto spontaneo

Spontaneous concept

Concepto potencial

Concetto potenziale

Potential concept

Condensación

Condensazione

Condensation

Desarrollo

Sviluppo

Development

Desarrollo artificial

Sviluppo artificiale

Artificial development

Endofasia

Endofasia

Endophasy

Equivalencia de conceptos

Equivalenza dei concetti

Equivalence of concepts

Fase afectiva / volitiva

Fase affettivo-volitiva

Affective-volitional stage

Fase emocional

Fase emozionale

Emotional stage

Fase pre-intelectiva

Fase pre-intellettiva

Pre-intellective stage

Fusión concreta

Fusione concreta

Concrete fusion

Generalidad

Generalità

Generality

Generalización

Generalizzazione

Generalization

Idiomaticidad

Idiomaticità

Idiomaticity

Influjo de sentido

Influenza del senso

Influx of sense

Instrumento de producción intelectual

Strumento di produzione intellettuale

Means of intellectual production

Introspección

Introspezione

Introspection

Lengua

Lingua

Language

Lengua extranjera

Lingua straniera

Foreign language

Lengua materna

Lingua materna

Native language

Lenguaje

Linguaggio

Language

Lenguaje afásico

Linguaggio afasico

Aphasic speech

Lenguaje afásico

Linguaggio fasico

Phasic speech

Lenguaje egocéntrico

Linguaggio egocentrico

Egocentric speech

Lenguaje escrito

Linguaggio scritto

Written speech

Lenguaje exterior / externo

Linguaggio esterno

External speech

Lenguaje intelectivo

Linguaggio intellettivo

Intellective speech

Lenguaje interior / interno

Linguaggio interno

Inner speech

51

Lenguaje oral

Linguaggio orale

Oral speech

Palabra

Parola

Word

Participación

Partecipazione

Participation

Pensamiento abstracto

Pensiero astratto

Abstract thought

Pensamiento artificial

Pensiero artificiale

Artificial thought

Pensamiento concreto

Pensiero concreto

Concrete thought

Pensamiento por complejos

Pensiero per complessi

Complex thinking

Pensamiento por conceptos

Pensiero per concetti

Concept thinking

Pensamiento verbal

Pensiero verbale

Verbal thought

Período sensitivo

Periodo sensitivo

Sensitive period

Predicatividad

Predicatività

Predication

Pseudoconcepto

Pseudoconcetto

Pseudo-concept

Referencia al objeto

Riferimento all’oggetto

Referent

Sentido

Senso

Sense

Significado

Significato

Meaning

Signo

Segno

Sign

Sincretismo

Sincretismo

Syncretism

Sistema de conceptos

Sistema di concetti

Concept system

Sonido

Suono

Sound

Superposición

Sovrapposizione

Juxtaposition

Toma de conciencia

Presa di coscienza

To become conscious / aware

Transferencia

Spostamento

Transfer

Trato distintivo

Tratto distintivo

Distinctive trait

Unidad componente

Unità componente

Component unit

Vínculo asociativo

Legame associativo

Associative bond

V ocalización

V ocalizzazione

V ocalization

V olatilización

V olatilizzazione

Turning of speech into inward thought

Zona de desarrollo próximo

Zona di sviluppo prossimo

Zone of proximal development

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

CARNAROLI, Francesco. Vygotskij e la psicoanalisi: relazione, linguaggio, coscienza riflessiva, [on line]. [Roma, Italia]: Psychomedia, 2001 [citato dicembre 2004]. Psicoterapia e scienze umane, N . 3 / 2001. Disponibile dal world wide web: <http://www.psychomedia.it/pm- revs/journrev/psu/psu-2001-3-b.htm>.

— Aspetti della ricerca sul dialogo in psicoanalisi, [on line]. [Roma, Italia]: Psychomedia, 2001 [citato dicembre 2004]. Sezione: Modelli e ricerche in psicoterapia, Area: Emozioni e linguaggio nelle narrative. Disponibile dal world wide web: <http://www.psychomedia.it/pm/modther/emozling/carnaroli.htm+Vygotskij+%22linguaggio+i nterno%22&hl=en&lr=lang_it>.

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KARPOV, Yuriy V.. L. S. Vygotsky and the Doctrine of Empirical and Theoretical Learning. In Educational Psychologist, [on line]. Lawrence Erlbaum Associates, Inc., vol. 30, n 3, 1995 [citato dicembre 2004]. p. 61-66. Disponibile dal world wide web: <http://www.questia.com/PM.qst?a=o&d=77519406>.

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53

— Corso di traduzione [on line]. [Modena, Italia]: Logos, 2004 [citato dicembre 2004]. Prima parte, La scrittura come processo mentale. Disponibile dal world wide web: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_1_8?lang=it>.

— Corso di traduzione [on line]. [Modena, Italia]: Logos, 2004 [citato dicembre 2004]. Seconda parte, Lettura e formazione dei concetti. Disponibile dal world wide web: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_4?lang=it>.

— Corso di traduzione [on line]. [Modena, Italia]: Logos, 2004 [citato dicembre 2004]. Seconda parte, Lettura ed evoluzione dei concetti. Disponibile dal world wide web: <http://www.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_5?lang=it>.

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TAPPAN, Mark V. Sociocultural Psychology and Caring Pedagogy: Exploring Vygotsky’s “Hidden Curriculum”. In Educational Psychologist, [on line]. Lawrence Erlbaum Associates, Inc., vol. 33, n 1, 1998 [citato dicembre 2004]. p. 23. Disponibile dal world wide web: <http://www.questia.com/PM.qst?a=o&d=76994962>.

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— Thought and Language, edited and translated by Eugenia Hanfmann and Gertrude Vakar, Moscow-Leningrad, The M.I.T Press, 1962.

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Davide De Giorgi Stuart Campbell Sandra Hale Translation and Interpreting Assessment in the Context of Educational Measurement Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Stuart Campbell Sandra Hale

Translation and Interpreting Assessment in the Context of Educational Measurement

Davide De Giorgi

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE MILANO Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti 18, 20151 MILANO

Relatore: Prof. Bruno Osimo Correlatrice: Prof.ssa Elena Berlot

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica 24 Novembre 2003

1

Sommario

Abstract (English)……………………………………………………………..pag. V

Abstract (français)…………………………………………………………….pag. VII

Prefazione………………………………………………………………………..pag. IX

Problematica Traduttiva…………………………………………………….pag. XIV

Traduzione con testo a fronte…………………………………………….pag. 1

Bibliografia……………………………………………………………………….pag. 47

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3

Abstract (English)

The candidate has carried out the translation from English into Italian of a recent contribution by Stuart Campbell and Sandra Hale published in the book «Translation Today: Trends and Perspectives». The contribution aims at providing a global analysis of a number of works, published over the last decades, concerned with assessment procedures in educational contexts (including accreditation procedures). The analysis shows that testing procedures designed and adopted by scholars or academic/non-academic institutions may range widely and that the numerous interpreting/translation competences required are generally quite well verified; the most serious gap in today’s interpreting and translation assessment is to be found in the lack of validity and reliability in the current testing procedures. And as new modes of translation emerge, the need for clearly formulated and uniformly accepted – and therefore more reliable – methods of assessment of translation and interpretation competence becomes greater .

In the Preface to the work the candidate examines the topic in detail, closely analyses the discussions and trends in language testing found in the contribution and expresses his views on the subject. The Preface is completed by a further section entitled «Problematica traduttiva» in which the candidate presents a comprehensive translation-oriented analysis of his work: he comments on his choice of words, expressions and explains how he has solved the main translation problems encountered. This section includes a discussion focusing on the main translational aspects: the candidate describes the translated text as an open text and highlights the importance of connotation/connotative meaning of words – as opposed to denotation/denotative meaning – and of intertextuality (e.g. quotations) in defining the degree of openness of the text. In close relation to this topic, he draws the discussion on polysemy and on how the connotative meaning of words is essentially determined by the contest and co-text. The candidate analyses the two key elements of his «translation strategy» – the «dominant» and the «model reader» – establishing a comparison with the «narrative strategy»

4

adopted by the authors of the source text. He then explains, by means of examples, how choosing a particular «translation strategy» can affect or even radically alter the way a message or a whole text is received and decoded by the «empirical readers».

As a postscript, the candidate deals with the issue of «communication loss» and explains the difficulty involved in reaching an acceptable compromise between a «linguistic» and a «cultural» translation.

5

Abstract (français)

Le candidat a réalisé la traduction de l’anglais en l’italien d’une récente étude de Stuart Campbell et Sandra Hale publiée dans le livre «Translation Today: Trends and Perspectives». Cette étude contient une analyse générale d’une série d’ouvrages, publiés ces dernières décennies, qui ont pour objet les procédures et les méthodes d’évaluation adoptées dans des contextes académiques (y compris les procédures d’accréditation). De cette analyse il résulte que les tests (d’aptitude par exemple) conçus et choisis par les experts ainsi que par les institutions universitaires et non-universitaires, peuvent être très variés; par ailleurs les nombreuses compétences en interprétation/traduction sont souvent bien cernées. Cependant, les méthodes d’évaluation ne sont pas suffisamment standardisées et manquent souvent de fiabilité. Avec l’apparition de nouvelles spécialisations en traduction/interprétation, une nouvelle nécessité se fait jour, celle de disposer de méthodes d’évaluation des compétences plus claires et qui soient largement acceptées et utilisées – et de ce fait plus fiables.

Dans la préface de sa traduction, le candidat donne un aperçu détaillé des sujets abordés par les auteurs et du débat ouvert en matière d’évaluation des compétences linguistiques et il exprime son point de vue à cet égard. La préface est complétée par une section intitulée «Problematica Traduttiva» dans laquelle le candidat présente une analyse traductologique de son travail, commentant le choix qu’il a fait de certains termes et justifiant certaines expressions et les solutions adoptées pour les principaux problèmes de traduction rencontrés dans le texte. Cette section inclut un examen des aspects traductologiques fondamentaux: le candidat aborde la question de l’«ouverture sémantique» du texte et explique comment celle-ci évolue en fonction de la valeur connotative des mots – par opposition avec la dénotation – et de la présence de références intertextuelles (par exemple les citations). Ce sujet se rattache au thème que le candidat développe sur la polysémie des mots et sur l’importance que le «contexte» et le «cotexte» (le texte autour d’un énoncé) revêtent afin d’aboutir au sens «connotatif» des mots. Ensuite il analyse les deux éléments clefs de sa «stratégie

6

traductive» – soit la recherche de la «fonction dominante» et l’identification du «lecteur modèle» – en établissant une comparaison avec la «stratégie narrative» adoptée par les auteurs du texte de départ. En s’aidant d’exemples, le candidat explique dans quelle mesure le choix d’une «stratégie traductive» peut affecter, voire altérer radicalement la façon dont un message ou un texte entier est reçu et décodé par les «lecteurs empiriques». En dernier lieu le candidat aborde le problème de la «perte de communication» et il fait part de son espoir d’être parvenu à un équilibre acceptable entre traduction «linguistique» et traduction «culturelle».

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Prefazione

Il tema della valutazione della traduzione e dell’interpretazione in ambito accademico è da molto tempo al centro di studi, ricerche, dibattiti che coinvolgono studiosi e docenti di tutto il mondo. Al fine di comprendere il motivo di tanto interesse per questo tema è necessario tenere presente che maggiore conoscenza e padronanza delle principali lingue in uso nel mondo e maggiore duttilità nell’utilizzo delle stesse sono capacità divenute, negli ultimi decenni, sempre più richieste in molti ambiti lavorativi, primo fra tutti quello della traduzione e dell’interpretazione. In realtà, parlare oggi di traduzione e interpretazione tout court sarebbe piuttosto limitativo, poiché la tendenza generale nel mondo del lavoro è richiedere competenze e conoscenze sempre più specialistiche e ad alto livello. Basti pensare che già da tempo esistono figure professionali di interpreti/traduttori che operano in ambiti specifici quali il settore giuridico/giudiziario e medico/sanitario, l’assistenza sociale e di comunità, la salute mentale, la localizzazione di software, la pubblicità etc. Si tratta di attività di mediazione linguistica specializzate destinate a divenire sempre più diffuse e richieste nella prospettiva di un mondo sempre più «globalizzato», multietnico e multiculturale in cui il problema principale sarà fondamentalmente la difficoltà di comunicazione. Sempre più spesso, quindi, essere dei buoni traduttori o interpreti può non bastare; sempre più spesso si richiedono conoscenze che vanno al di là della semplice padronanza della lingua. Negli ultimi decenni sono fiorite, in tutto il mondo, moltissime scuole per interpreti e traduttori e oramai molte università offrono corsi di traduzione e interpretazione ai quali è possibile accedere con un diploma e il superamento di test di ammissione. La necessità di sfornare professionisti in mediazione linguistica qualitativamente migliori ha portato gli esperti del settore (linguisti, docenti, valutatori, ideatori dei test) a porre in primo

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piano e a riesaminare alcune questioni fondamentali quali la formazione di interpreti e traduttori, l’attendibilità e l’utilità dei più disparati modelli di test (dai test attitudinali e di profitto agli esami di accreditamento e di trasferimento di crediti), le modalità di valutazione della prestazione in traduzione e interpretazione e, non ultimo, l’attendibilità e la coerenza valutativa degli esaminatori. Il saggio di Stuart Campbell e Sandra Hale si propone infatti di comprendere e di farci comprendere quale sia lo stato dell’arte degli studi condotti e delle opere pubblicate fino ad oggi riguardanti tali questioni. In particolar modo grande attenzione è riservata al tema della valutazione in traduzione e in interpretazione. La valutazione della prestazione rappresenta infatti un anello fondamentale della catena formativa in traduzione e in interpretazione; se da un lato la preparazione alla professione di mediatore linguistico deve essere costantemente aggiornata per restare al passo con l’evolversi stesso della professione e del mondo del lavoro, dall’altro è necessario adottare metodi di valutazione più precisi e obiettivi possibili, che forniscano dunque gli stessi risultati o comunque risultati confrontabili da valutatore a valutatore, da candidato a candidato e nel corso del tempo. In realtà oggi questo non è ancora possibile in quanto ogni istituzione, ogni università adotta modelli di test, metodi di valutazione e approcci valutativi differenti (basti pensare alla differenza fondamentale tra i test basati sulla norma, dove i risultati del singolo vengono rapportati a quelli di altri individui dello stesso gruppo e i test basati su criteri, in cui le competenze del singolo sono rapportate a criteri prefissati). Ovviamente bisogna ricordarsi che qualsiasi test, che si prefigga di «misurare» la competenza linguistica di un individuo, non potrà mai essere uno strumento totalmente esatto e preciso, in quanto rappresenta un campione di comportamento che non può prendere in considerazione tutte le variabili umane e psicologiche (attitudine all’apprendimento, diverso approccio personale, motivazione e atteggiamento psicologico ecc.). I vari autori, presi in rassegna nello studio, trattano di valutazione della traduzione e dell’interpretazione in maniera diversa e, spesso, concentrano la loro attenzione solamente su alcuni tipi di test o su alcuni aspetti dei test (ad esempio lo scopo o le competenze da valutare) mentre rimangono sul vago o addirittura non affrontano altre questioni altrettanto fondamentali ai fini di una valutazione attendibile. In altre parole non esistono dei

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criteri di valutazione oggettivi prestabiliti e universalmente accettati e applicati e, quindi, nell’ideazione dei test e dei metodi valutativi (soprattutto in interpretazione) molto spazio è lasciato alla soggettività, all’intuito degli ideatori dei test e dei docenti. Nell’ambito della traduzione si parla molto di valutazione finalizzata all’accreditamento (es. presso le Nazioni Unite) o alla didattica, mentre raramente si discute dei test attitudinali per traduttori. Molti autori addirittura parlano di valutazione della traduzione senza fare alcun riferimento allo scopo. I tipi di competenze richieste in traduzione variano enormemente, dato che in pratica ogni autore elabora un proprio schema o una tabella delle competenze (principalmente linguistiche e tecniche) o dei tipi di errore nella lingua di arrivo. A eccezione di un autore, la traduzione di un testo sembra essere la modalità standard per la valutazione delle capacità traduttive. Resta quasi del tutto insoluto il problema della lunghezza ideale dei test di traduzione o del tempo massimo consentito per il loro svolgimento: ogni istituzione (es. NAATI, l’ente australiano deputato all’accreditamento di interpreti e traduttori) adotta le proprie procedure e ogni autore propone modelli di test differenti. Per quanto riguarda gli approcci base degli strumenti dei test sembra esserci una netta preferenza per lo schema di valutazione upside-down, cioè capovolto, nel quale da un punteggio pieno si detraggono i punti degli errori. In realtà, si tratta di un metodo che ben poco si adatta alla valutazione di una traduzione se si considera che questa può essere fatta in infiniti modi e che esistono molti possibili errori; il numero di punti massimo è arbitrario e non è in alcun modo collegato al possibile numero di errori. Da un punto di vista teorico un individuo potrebbe totalizzare un numero così elevato di errori da ottenere un punteggio di valutazione inferiore allo zero (es. in una scala di valutazione da 0 a 100 punti); è dunque impossibile fissare un minimo (nel nostro esempio 0) alla scala di valutazione e perciò valutare con precisione e attendibilità la prestazione di tutti i candidati.

Sulla valutazione dell’interpretazione si è pubblicato ancora meno. Quasi tutta la letteratura esistente è dedicata ai test attitudinali di accesso ai corsi di interpretariato di conferenza, agli esami di accreditamento per esercitare la professione di interprete e alla valutazione qualitativa di interpreti professionisti, soprattutto di conferenza. I test attitudinali e i test d’ingresso mirano più o meno

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tutti a saggiare le stesse capacità e competenze e seguono, in genere, il modello basato su criteri in cui i candidati sono chiamati a soddisfare tutti i criteri prestabiliti. Anche le forme dei test sono più o meno comuni (es. shadowing, traduzione a vista, ecc.). Mancano però dei criteri valutativi oggettivi e dunque risulta oltremodo difficile valutare l’attendibilità di tali test.

Un’altra lacuna della letteratura presa in esame può essere individuata nello scarso approfondimento di questioni relative alla formazione dei valutatori, alle scale di valutazione, al punteggio e alle procedure di equiparazione dei test.
Esiste un esiguo numero di testi che si occupano di esami di accreditamento o certificazione per ottenere una qualifica professionale (ad esempio gli esami dell’australiana NAATI); tuttavia anche le linee guida, fissate dalla NAATI per la valutazione della prestazione interpretativa, lasciano ampia discrezionalità valutativa agli esaminatori a discapito di una maggiore obiettività e attendibilità dei risultati. Nonostante la NAATI si servi di esaminatori qualificati e cerchi di aggiornare i suoi esami, siamo ancora lontani da un’analisi attenta e sistematica della validità e dell’attendibilità dei test.

In generale si può affermare che vi sia un certo accordo sui gruppi di competenze da valutare, sia in traduzione sia in interpretazione, ma quasi mai si discute dell’efficacia di un particolare strumento di valutazione nel giudicare tali competenze. Se da un canto si parla in maniera abbastanza diffusa di scopi, competenze e forma dello strumento di valutazione, quasi mai l’approccio di base (basato sulla norma o su criteri) è trattato in maniera esplicita, nonostante vi sia una tacita preferenza per l’approccio basato su criteri. Poca attenzione è inoltre riservata al tipo di risultati, all’utilità di uno strumento basato sulla norma nel differenziare i candidati e ai meccanismi di feedback.

Gli autori della ricerca concludono la loro analisi affrontando la mancanza più evidente in tema di misurazione e valutazione accademica, cioè l’attendibilità. Bachmann, citata più volte dagli autori dell’articolo, ribadisce la necessità di adottare criteri più chiari per una resa corretta. In effetti, spesso, i giovani studenti di traduzione e di interpretazione si trovano a dover reagire in maniera istintiva al momento di dover scegliere tra una resa più fedele o una meno fedele al messaggio originale ma più vicina e comprensibile per il ricevente; per quale

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soluzione bisogna optare? Per di più, se il candidato compie un ipotetico «atto di coraggio» scegliendo una soluzione ardita e meno fedele all’originale, verrà premiato o penalizzato? L’assenza di indicazioni chiare ed esplicite in merito alla fedeltà può influire sull’attendibilità del test. Anche il grado di rapidità è determinante; di conseguenza il tempo massimo, per lo svolgimento di un test, dovrebbe essere fissato non in base a criteri puramente arbitrari bensì solo dopo aver stabilito se esiste una velocità alla quale sia possibile ottenere, dalla maggior parte dei candidati, una prestazione ottimale e quindi più vicina alle loro reali capacità. Un esempio pratico che mette in luce la carenza di attendibilità dei test è offerto dalle ripetizioni. Se un candidato sbaglia la traduzione di un elemento ripetuto (per questioni formali o stilistiche) va penalizzato una o più volte? La ripetizione potrebbe essere vista come un elemento che riduce il grado discriminatorio del test, compromettendo l’attendibilità del test stesso; d’altro canto la presenza di ripetizioni, in alcuni casi, potrebbe fungere da stimolo alla ricerca di soluzioni creative che possano rappresentare un valore aggiunto alla prestazione del candidato. Ma non sono solamente i test ad essere oggetto di studio sull’attendibilità; spesso si parla infatti di attendibilità dei singoli esaminatori e di attendibilità delle valutazioni tra più esaminatori. Alcune istituzioni, come la NAATI e l’American Translator Association (ATA), sembrano dare molto peso al comportamento professionale degli esaminatori al fine di raggiungere un maggior grado di attendibilità. In ogni caso, in nessuna delle pubblicazioni prese in esame compare uno studio serio sul tema dell’attendibilità e della coerenza dei valutatori. In conclusione, dalla ricerca effettuata da Stuart Campbell e Sandra Hale, si può facilmente comprendere quanto lavoro vi sia ancora da compiere nel campo della valutazione e quanta strada bisogna ancora percorrere per arrivare a test estremamente attendibili. Impiegare test più attendibili e obiettivi significherebbe essenzialmente saper valutare e formare meglio le nuove schiere di giovani che si apprestano ad entrare nel mondo della traduzione o dell’interpretariato e che, forse, un giorno, saranno chiamati a loro volta a dover valutare e formare nuovi professionisti della mediazione linguistica.

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Problematica traduttiva

La traduzione del testo originale ha presentato una serie di problemi traduttivi. La prima e principale questione riguarda la traduzione in italiano del termine inglese «interpreting»; come molte volte accade nella lingua inglese, questa parola ammette in italiano una serie di possibili traducenti diversi. In funzione di sostantivo può essere tradotta come «interpretariato» o «interpretazione»; in funzione di aggettivo si traduce con «interpretativo». Gli autori del saggio l’hanno impiegata per tradurre indistintamente «interpretariato», «interpretazione» e «interpretativo». Solamente in due sporadici casi si ricorre alla parola inglese «interpretation»: nel primo caso si parla di «…Graduate Institute of Translation and Interpretation Studies…», nel secondo di «judicial interpretation». Soprattutto in quest’ultimo caso non risulta ben chiaro il motivo per cui gli estensori abbiano optato per questa variante lessicale dato che nello stesso paragrafo si fa riferimento alla stessa attività con l’espressione «judicial interpreting» e «court interpreting». Probabilmente si tratta di una scelta dettata da motivi estetici, stilistici, quindi per evitare di ripetere troppe volte la stessa parola.

In italiano il discorso sembra più complesso e meno chiaro. I termini «interpretariato» e «interpretazione» possono significare la stessa cosa, ovvero l’attività, la funzione svolta dall’interprete; tuttavia nella mia traduzione mi sono servito di entrambi i traducenti. In realtà, la scelta di una parola piuttosto che l’altra è stata a volte intuitiva ed è dipesa in gran parte dal contesto in cui la stessa è collocata: se da un canto parlo di «valutazione dell’interpretazione» (intesa come «prestazione interpretativa») dall’altro parlo di «corso di interpretariato» o di «interpretariato di conferenza» o di «interpretariato di comunità o in campo medico/sanitario e giuridico/giudiziario». (Tuttavia al punto

n. 8 della

pagina web

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www.club.it/culture/culture2001/giuliana.garzone/note.garzone.html si parla di «interpretazione di comunità nel campo medico e sanitario e giuridico/giudiziario»). Ho preferito utilizzare il vocabolo «interpretazione» in riferimento all’aspetto della prestazione interpretativa in sé o alla generica traduzione orale di un messaggio, e il termine «interpretariato» in riferimento all’attività dell’interprete vera e propria (soprattutto se si specifica il tipo di interpretariato: ad esempio di trattativa, di conferenza ecc…). Si tratta, come già detto, di una scelta da un lato arbitraria e intuitiva e dall’altro dettata dal fatto che «interpretazione» è una parola generica ampiamente usata anche in psicologia, ermeneutica, critica d’arte, semiotica ecc., mentre «interpretariato» è un termine settoriale univoco.

Una ricerca condotta con il motore di ricerca Google ha comunque confermato una tendenza ad usare indistintamente i vocaboli «interpretazione» e «interpretariato»: si parla infatti ad esempio di «corsi di laurea in traduzione e interpretazione» come pure, con maggior precisione terminologica, di «corsi di laurea in traduzione e interpretariato».

Restando nell’ambito dell’interpretariato, Roseann Dueñas Gonzáles, un’autrice citata dagli estensori del saggio, si serve dell’espressione «…simultaneous (unseen or spontaneous)…translation…» in riferimento all’interpretariato giuridico. Si tratta di espressioni specifiche relative al settore dell’interpretariato giuridico e, con tutta probabilità, connotate geograficamente (in uso negli Stati Uniti ma poco note in Europa). Per tale motivo trovare una traduzione accettabile, in un primo momento, ha comportato notevoli difficoltà. In effetti è stata proprio Sandra Hale, uno degli autori, a fornirmi la soluzione al problema. In genere si parla di «unseen simultaneous translation» allorché l’interprete giurato, nel corso di un processo, traduce con il metodo dello «chuchotage», cioè bisbigliando la traduzione (quindi senza l’ausilio di apparecchiature audiovisive), alla parte in causa non inglese – o comunque di lingua diversa da quella del processo – da un luogo o postazione non visibile al pubblico dell’aula (per questioni di sicurezza o privacy). Nell’interpretazione consecutiva l’interprete si trova invece a fianco al testimone di fronte alla corte al momento della deposizione. L’espressione «spontaneous» sta semplicemente a significare che l’interprete deve saper tradurre velocemente

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senza avere tempo per riflettere o prendere appunti; probabilmente l’autrice fa riferimento a quel tipo di interpretariato che normalmente, nel contesto europeo, prende il nome di «instant translation» o «liaison interpreting» ovvero una interpretazione «frase per frase» o «di collegamento» o «di trattativa». Anche quest’ultima forma di interpretariato non prevede l’utilizzo di attrezzature audiovisive o la possibilità di prendere appunti dato che l’interprete è fisicamente vicino ai suoi uditori e spesso si pone tra le parti che beneficiano della traduzione. Da notare inoltre che, normalmente, la «unseen translation» sta a indicare ciò che noi chiamiamo «traduzione a vista».

Il vocabolo inglese «testing» ha posto qualche problema di traduzione. In alcuni casi (es. «aptitude testing») ho optato per il traducente «test»; in altre situazioni ho preferito una resa differente a seconda del contesto, ad esempio: «modalità di valutazione», «procedure di verifica» (per «testing procedures»), «valutazione linguistica» o «modalità di valutazione del linguaggio» (per «language testing» ), «test di verifica» o «prove».

Nel quadro della valutazione, qualche difficoltà ha comportato la scelta del giusto traducente per i vocaboli «rater», «marker», «grader» ed «examiner»; per una questione di coerenza e maggiore semplicità ho preferito servirmi del traducente «esaminatore» per la resa di «examiner» e del traducente «valutatore» nei restanti casi. In realtà tra i due vocaboli esiste una certa differenza: la parola «esaminatore» ha un più ristretto campo di utilizzo, poiché in genere è applicabile solamente ad un contesto d’esame/concorso; la «valutazione» invece può avvenire anche al di fuori di un esame. È pur vero che, generalmente, chi svolge il ruolo di esaminatore debba anche emettere un giudizio, una valutazione; in questo caso, il significato e l’impiego dei due traducenti tenderanno a sovrapporsi.

In linea di massima ho usato lo stesso traducente, cioè «valutazione», per tradurre sia «assessment» sia «evaluation».
Per quanto riguarda la resa del verbo «to measure» ho impiegato, a seconda dei casi e del contesto linguistico, diversi traducenti: i più frequenti sono «giudicare», «misurare», «valutare», «calcolare».

La traduzione dei termini «norm-referenced test» e «criterium-referenced test» ha comportato qualche problema. Da una veloce ricerca condotta con Google sui siti

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italiani è emerso che si tende ad usare le stesse espressioni inglesi. Per una maggiore chiarezza io ho preferito invece trovare traducenti italiani che fossero comprensibili e avessero lo stesso significato, ovvero «test basato sulla norma» e «test basato su criteri».

Per la traduzione del termine «performance» ho scartato quasi subito l’idea di lasciarlo in inglese e ho optato, nella maggior parte dei casi, per il traducente italiano «prestazione» e talvolta per il traducente «rendimento», anche se il primo mi è sembrato più adatto al contesto della valutazione delle capacità traduttive. Inizialmente ho avuto dubbi anche sulla resa dell’onnipresente concetto della «reliability» nell’ambito della valutazione. I possibili traducenti erano «attendibilità» e «affidabilità». In ultima analisi ho scelto il traducente «attendibilità» poiché, a mio parere, si addice di più a un metodo di valutazione; invece, in genere si tende a parlare di «affidabilità» in riferimento a una persona o a un mezzo meccanico.

Anche il vocabolo inglese «scholarship», in realtà poco frequente nell’originale, ha inizialmente posto qualche problema di resa. Si tratta di una parola che abbraccia tutta una serie di traducenti differenti, ovvero ha un campo semantico denotativo abbastanza ampio: infatti, consultando il dizionario bilingue inglese-italiano, alla voce «scholarship» ho riscontrato i seguenti traducenti italiani:

borsa di studio (come primo significato)
cultura, erudizione, sapere, dottrina (come secondo significato)
studiosi (pl) (come ultima scelta)
Mi sono dunque trovato di fronte alla necessità di operare una scelta lessicale importante. Si tratta, in altre parole, di un caso, del resto abbastanza frequente, in cui l’intervento interpretativo del traduttore gioca un ruolo considerevole nel mantenimento di una coerenza lessicale. Io ho optato per i traducenti «conoscenze», «dottrina» e «studi» poiché «scholarship» è usato in riferimento al campo di conoscenze e alla ricerca alla base della formazione di interpreti e traduttori.
Di un certo interesse anche la traduzione del termine «sub-skills»; nei siti internet italiani non compare quasi mai il termine inglese e risultano poco diffusi anche i traducenti «sub-capacità» e «sub-abilità»; si parla più comunemente di

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«sottocapacità» o «sub-competenze» e soprattutto di «sottoabilità» e «sottocompetenze». Quest’ultimo risulta il più comune ed è quello che ho deciso di adottare nella traduzione.
La traduzione del termine inglese «sub-test» è stata più agevole; infatti nei siti internet italiani quella più diffusa è «subtest» o «sub-test» ma ho riscontrato anche l’uso – meno frequente però – del termine «sottotest». Anche in questo frangente ho adottato la versione più comunemente accettata, ovvero «subtest».

La traduzione non ha presentato ulteriori problemi traduttivi degni di nota. L’esistenza di uno studio della problematica traduttiva, di una semiosi del testo è comunque indicativo dell’apertura del testo stesso. Tale apertura è dovuta sia alla presenza di una certa connotazione, sia ai continui riferimenti intertestuali. Il testo è infatti ricco di rimandi e citazioni che, comunque, sono spesso ben identificabili (esplicitezza) grazie all’uso di delimitatori grafici (virgolette) mentre le fonti sono sempre citate e specificate (esplicitezza della fonte); anche il motivo delle citazioni (esplicitezza della funzione) mi è sembrato spesso facilmente comprensibile. In ogni caso la decodifica delle citazioni è risultata a volte problematica per me a causa della disconoscenza sia degli autori citati che delle loro teorie; in una certa misura è un problema che potrebbe aver riguardato anche i lettori della cultura emittente e che potrebbe riguardare parte dei lettori della cultura ricevente. Leggendo il testo è facile imbattersi in vocaboli polisemici, cioè che ammettono molteplici interpretazioni e possono avere uno spettro semantico più o meno esteso; per tale ragione essi sono comprensibili solamente se teniamo conto del contesto e del co-testo in cui si trovano; casi emblematici sono, ad esempio, le parole inglesi «portrayal» o «stakeholders». La prima, da un punto di vista denotativo, ammette tre significati: «raffigurazione», «presentazione» e «ritratto». Nel testo sarebbe stato tuttavia difficile stabilire quale significato attribuire alla parola, se non avessi considerato con attenzione il suo contesto e in modo particolare il suo co-testo; infatti è stato proprio grazie allo studio del contesto linguistico della parola che sono stato in grado di comprenderne il significato connotativo, ovvero «(qualità) della resa linguistica». Lo stesso ragionamento vale per il vocabolo «stakeholders»; esso infatti normalmente indica l’«azionista», il

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«partecipante» ma è risultato subito ovvio che il termine non andava preso nel suo senso strettamente letterale ma in senso figurato, ovvero «soggetti coinvolti». Anche in questa situazione il contesto ed il co-testo sono stati fondamentali al fine della comprensione.

In fase di stesura del testo tradotto, una delle mie maggiori preoccupazioni è stata la gestione del «residuo comunicativo», che inevitabilmente accompagna ogni traduzione e più in generale ogni atto comunicativo. Il residuo comunicativo consiste essenzialmente nella progressiva perdita del contenuto o del significato del messaggio originale attraverso i vari passaggi di decodifica in materiale psichico e di ricodifica, e quindi di riverbalizzazione dello stesso messaggio nel codice ricevente. A questo proposito ha giocato un ruolo rilevante la scelta della «strategia traduttiva». Per poterla elaborare ho dovuto procedere all’individuazione della «strategia narrativa» degli autori dell’originale – la «dominante» e il «lettore modello» del prototesto (primo grado della ricostruzione abduttiva secondo Peirce). Trattandosi di un testo saggistico la funzione dominante che ho individuato è di carattere informativo (cosa che si evince in maniera inequivocabile già dal titolo): gli autori si propongono innanzitutto di divulgare e commentare i risultati della loro indagine. È comunque possibile individuare marche a livello lessicale, dovute essenzialmente al diffuso impiego di termini ed espressioni settoriali proprie del vocabolario tecnico della misurazione accademica e della interpretazione / traduzione. Per di più nel caso specifico dei termini «unseen» e «spontaneous» (di cui sopra) è presente un’ulteriore marca di carattere geografico; sembrerebbe trattarsi infatti di espressioni proprie dell’intepretariato giuridico statunitense e per tale motivo non condivise da molti interpreti italiani e probabilmente europei. Qui sono dovuto ricorrere a espressioni forse semanticamente non del tutto coincidenti con quelle originarie («instant translation» come analogo culturale di «spontaneous translation») ma che risultano per lo meno comprensibili ai lettori del metatesto. Volendo invece prendere in prestito la terminologia dello scienziato della traduzione Toury, potrei dire di aver sacrificato, in questo frangente, l’«adeguatezza» della mia traduzione a vantaggio dell’«accettabilità». Esiste inoltre un altro caso in cui ho optato per una «traduzione culturale» e «accettabile»: nella fattispecie, ho deciso di tradurre

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l’espressione inglese «postgraduate…course» ricorrendo al suo equivalente nella cultura italiana del dopo riforma dei cicli di studio, ovvero «corso di laurea di secondo livello». Si tratta di una palese manipolazione del testo originale che sortisce l’effetto di annullare la distanza cronotopica tra prototesto e lettore del metatesto, avvicinando, pertanto, il prototesto alla metacultura. I miei lettori non dovranno compiere alcuno sforzo per comprendere ciò di cui parlo, molti di loro saranno ignari del mio «intervento culturale» e solamente i più attenti e smaliziati potrebbero accorgersi, o per lo meno sospettare una tale manipolazione.

Più in generale credo di essere comunque riuscito a mantenere un certo equilibrio tra «adeguatezza» e una «accettabilità» traduttive. Ad esempio, nel caso di espressioni settoriali ho scelto di conservare il termine inglese solo se esso non ha traducenti in italiano o se, pur avendone, è con buona probabilità ampiamente conosciuto o facilmente comprensibile per il mio lettore modello (es. «default»); per contro ho tradotto le espressioni che ammettono uno specifico traducente in italiano (es. «aptitude test») e ho cercato un traducente «accettabile» anche per quelle espressioni di più difficile e meno intuitiva comprensione (si vedano, ad esempio, le espressioni «criterium-referenced» e «norm-referenced»).

Ho riscontrato ulteriori elementi di marcatezza a livello lessicale. In particolare, in una citazione, si fa riferimento al criterio di «scoreability»; all’inizio ho pensato che si potesse trattare di un vocabolo creato ad hoc dall’autore citato per descrivere le caratteristiche di un determinato tipo di test attitudinale. In realtà, attraverso un’attenta analisi dei riscontri sui siti internet, ho potuto constatare un utilizzo abbastanza diffuso del vocabolo, seppur limitato a pochi settori specifici. Uno di questi è proprio quello della valutazione: sul sito http://www.ed.psu.edu/insys/ESD/darling/Assess.html, Linda Darling-Hammond, un’esperta americana impegnata sul fronte della riforma del sistema scolastico e dei metodi di valutazione, parla di «…efficiency and and easy scoreability…» in riferimento ai test di verifica. In questo contesto mi sembra abbastanza chiaro che per «scoreability» si debba intendere la possibilità di attribuire un punteggio o una votazione. Nella mia traduzione la scelta del giusto traducente ha posto una difficoltà aggiuntiva: dato che il vocabolo è inserito in un’enumerazione, ho ritenuto che l’adozione, nel testo tradotto, di una perifrasi avrebbe appesantito

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troppo l’enunciato rallentandone il ritmo; pertanto la scelta è caduta sul traducente «valutabilità».
Il vocabolo «scoreability» trova anche ampia applicazione in un altro campo: l’industria della carta. Secondo il glossario della CE, Eurodicautom, esso sta a indicare l’«attitudine alla fustellatura» della carta o del cartone (presumibilmente usati per realizzare scatole), ovvero la capacità di tali materiali di resistere, senza subire danni o rotture, ad un processo di sagomatura eseguita con attrezzi specifici (fustella).

In un contesto totalmente diverso, quello sportivo e, nello specifico, nel mondo del bowling, il vocabolo «scoreability» in genere indica l’ottimizzazione di una boccia o della corsia – ad esempio, grazie all’impiego di materiali e tecnologie costruttive particolari – al fine di accrescere la percentuale di successo dei colpi, quindi di fare più punti. In senso lato la «scoreability» di una boccia è direttamente proporzionale alle sue qualità dinamiche e alla precisione che essa garantisce durante il gioco.

In altri contesti (es. medico-scientifico) si parla invece di «scoreability» in riferimento alla possibilità di quantificare o di attribuire un punteggio o all’affidabilità/precisione di dati forniti.
Considerando la natura strettamente tecnica e settoriale della trattazione, non è stato difficile ipotizzare quale fosse il «lettore modello» che gli autori avevano in mente al momento di scegliere la strategia testuale da adottare; con tutta probabilità era ed è l’esperto, lo studioso nel campo della misurazione o il mediatore linguistico specialmente anglofono. Sono in realtà le stesse figure professionali che io ho individuato come probabili destinatari dell’opera da me tradotta – ovvero i «lettori modello» del metatesto; è comunque ragionevole pensare che essa, in quanto prodotto di una cultura emittente extraeuropea, ottenga un successo più limitato nella cultura ricevente (italiana) e si rivolga dunque a quella ristretta cerchia di specialisti più colti o che mostrano più interesse e attenzione per le tendenze e i fenomeni che avvengono anche al di fuori dell’Italia o dell’Europa. Non ho effettuato cambiamenti traduttivi di rilievo, almeno per quanto concerne lo stile e il registro. A livello culturale, ho optato per un cambiamento generalizzante in un caso: ho tradotto «…California Court

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certification examination…» con «esame di certificazione per gli interpreti giurati californiani», ritenendo che tale scelta non avrebbe pregiudicato la comprensione del testo da parte del mio lettore modello.
Nelle note conclusive del testo in inglese, la valutazione, ambito scientifico ancora quasi del tutto inesplorato ma che ha un grosso potenziale di sviluppo, viene paragonata ad un bambino che muove i primi passi; anche in questo caso ho preferito una traduzione generalizzante: «…assessment does need to…realize that there are some bigger kids on the block for it to learn from…» diventa dunque «…la valutazione deve…comprendere che ci sono discipline più evolute e mature dalle quali imparare…». Come si può notare ho compiuto una manipolazione stilistica eliminando l’immagine del bambino, poiché ho ritenuto che nel testo italiano avrebbe perso parte dell’efficacia e della bellezza che invece assume nell’originale. Si tratta comunque di una scelta personale e pertanto opinabile.

In conclusione, posso affermare che vi sia quindi una sostanziale corrispondenza tra la «strategia narrativa» adottata dagli autori e la mia «strategia traduttiva». Ho cercato di limitare il residuo comunicativo mantenendomi, per quanto possibile, fedele al testo originale, operando delle scelte traduttive che privilegiassero l’adeguatezza del lessico (ad eccezione dei casi descritti sopra) ma anche della sintassi e del registro e affidando a questo apparato metatestuale la spiegazione delle scelte traduttive meno comprensibili per la metacultura.

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Introduction

Translator and interpreter education is now widely practised around the world and is supported by an increasingly sophisticated body of research and scholarship. Much of this work is concerned with identifying the components of competence and proposing curriculum models that incorporate these components and suitable teaching strategies. The scholarship supporting translation and interpreting education necessarily entails discussions of assessment and there has been some encouraging work in this area. However, there has been little recognition in translation and interpreting circles that educational measurement as a broader field has its own tradition of scholarship, a widely accepted body of knowledge and terminology, and a range of approaches. Notions like reliability and validity are part of the basic architecture of educational measurement.

Test designers need to ensure that test results are reliable, for example, yielding the same results with different groups of candidates and at different points in time; and they need to construct tests that are valid in that they, for instance, reflect the model of learning that underpins the curriculum and are relevant to the professional behaviour taught in the curriculum. A major issue in educational measurement of relevance to translation and interpreting assessment is the fundamental difference of approach between norm- and criterion-referenced testing. Norm-referenced tests are designed to rank candidates against each other; criterion-referenced tests require candidates to demonstrate that they have satisfied a set criterion. These fundamental issues are comprehensively dealt with in standard works on educational measurement such as Ebel (1972) and Thordike et al. (1991). Closer to our discipline, Bachmann (1991) represents a comprehensive discussion on language testing, firmly grounded in measurement theory.

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Introduzione

Oggi la formazione di traduttori e interpreti è un’attività ampiamente diffusa nel mondo ed è supportata da un corpus sempre più vasto e complesso di ricerche e conoscenze a livello accademico. Si tratta prevalentemente di studi che si concentrano sull’individuazione delle componenti della competenza e che propongono modelli di curricula che incorporano queste componenti nonché delle opportune strategie d’insegnamento. La dottrina alla base dell’insegnamento della traduzione e dell’interpretazione non può prescindere da discorsi relativi alla valutazione ed è proprio in questo ambito che sono stati compiuti incoraggianti passi avanti. Eppure nelle cerchie di interpreti e traduttori sono in pochi a riconoscere che la misurazione accademica intesa come più vasta materia abbia una propria tradizione di studi, un corpus di conoscenze e di terminologia ampiamente condiviso e una serie di approcci differenti.
Nozioni quali attendibilità e validità sono parte integrante della struttura di base della misurazione accademica.

Gli ideatori di test devono assicurarsi che i risultati dei test siano attendibili e che pertanto essi, per esempio, producano gli stessi risultati con diversi gruppi di candidati e in momenti diversi nel tempo. Allo stesso modo i test devono essere validi e quindi, ad esempio, rispecchiare il modello di apprendimento sotteso al programma di studi e l’atteggiamento professionale insegnato. Nell’ambito della misurazione accademica una delle questioni di primaria importanza relative alla valutazione della traduzione e dell’interpretazione è la differenza fondamentale di approccio tra test basati sulla norma e i test basati su criteri. I primi mirano a stabilire un raffronto tra i candidati; i secondi prevedono che i candidati dimostrino di aver soddisfatto una serie di criteri prefissati. Tali questioni fondamentali sono trattate in maniera esaustiva nelle opere di base sulla misurazione accademica di autori come Ebel (1972) e Thorndike et alia (1991). Più strettamente legata al nostro argomento risulta essere l’esauriente disamina di Bachmann (1991) sulle modalità di valutazione del linguaggio, profondamente radicata nella teoria della misurazione.

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The discussion in this contribution sets itself outside a current and vital issue in Translation Studies (and to a much lesser extent in work on interpreting) – the instability of notions such as quality, value and assessment. A recent volume of The Translator was dedicated to this issue, with an introduction by Carol Maier that points out the difficulty of defining these concepts on the basis of theories about the nature of translation. Maier observes that «one sees a shared emphasis on defining and assessing quality in the context of specific situations, especially pedagogical ones» (Maier, 2000: 140). While we acknowledge the complexity and importance of defining these notions, we confess that we sidestep the issue and jump straight into Maier’s pedagogical context; our approach has been to scrutinize translation and interpreting assessment with the broader perspective of educational measurement. Using some fundamental criteria from educational measurement as a framework, we ask how current translation and interpreting assessment practice stands up to broader scrutiny, and what directions we need to take in the future.

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La disamina in questo saggio si colloca al di fuori di una questione quantomai attuale e vitale nei Translation Studies (e in misura minore negli studi sull’interpretazione) – l’instabilità di concetti come qualità, valore e valutazione. Un recente numero del Translator è stato dedicato a questo argomento; nell’introduzione di Carol Maier si mette in evidenza come sia difficile definire questi concetti sulla base di teorie sulla natura della traduzione. Maier fa notare che «è possibile cogliere un comune interesse nel definire e nel valutare la qualità nel contesto di situazioni specifiche, soprattutto quelle pedagogiche» (Maier, 2000: 140). Se, da un canto, riconosciamo la complessità e l’importanza di definire tali nozioni, dall’altro confessiamo di eludere il problema e di tuffarci nel contesto pedagogico di Maier; il nostro approccio è consistito nell’analizzare attentamente la valutazione della traduzione e dell’interpretazione nella più ampia prospettiva della misurazione accademica. Prendendo come riferimento alcuni criteri fondamentali della misurazione accademica ci chiediamo quante volte la pratica della valutazione della traduzione e dell’interpretazione regga il confronto con un’analisi più ampia e approfondita e in quali direzioni dovremo muoverci in futuro.

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Basic Approach

Our basic approach has been to propose a checklist of criteria against which an assessment procedure might be measured. We have then examined a selection of published works that deal with translation and interpreting assessment procedures in some fashion, and weighed their findings against some of the criteria on the checklist. The works were collected through a search of the Linguistics and Language Behaviour Abstracts (LLBA) and Modern Language Association (MLA) databases, as well as our private collections. It is important to note that we limited our choice of works to those that deal specifically with assessment procedures in an educational context (including accreditation), for which reason the absence of seminal works like House (1981) should come as no surprise. We concede that the published works examined are by no means a comprehensive collection, but we maintain that they are a fair representation of the state of art over the last decades, as published; however, there is no doubt a good deal of interesting practice locked away in the internal documentation of teaching institutions.
The checklist is not intended as a definitive taxonomy of the characteristics of assessment procedures, and we acknowledge that there are overlaps between some of the items. For example, a procedure that aims at summative assessment may generate information that can be used for credit transfer (cf. item 2 below); but of course credit transfer information requires the additional potential for translatability between education systems or institutions. In an Australian educational institution, for instance, test procedures can have the purpose of producing (a) summative information so that the institution can award grades, (b) information that will allow accreditation by the external accrediting authority, and (c) information that will allow another institution to calculate the amount of credit to be granted. A single programme might include units whose assessment procedures do one of these things or several at once. Similarly, items 6 and 8 below overlap to an extent, but differ in their focus; item 6 is oriented towards the institution and its assessment policies while item 8 is oriented towards the broader constituency of stakeholders in the assessment process.

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Approccio di Base

Il nostro approccio di base è stato quello di proporre un elenco di criteri secondo i quali una procedura di valutazione potrebbe essere giudicata. In seguito abbiamo preso in esame una selezione di pubblicazioni che in qualche modo trattano di procedure di valutazione della traduzione e dell’interpretazione e abbiamo quindi confrontato i loro risultati sulla base di alcuni parametri dell’elenco. Per la scelta delle pubblicazioni abbiamo consultato, oltre alle nostre raccolte private, gli Abstracts del Linguistic and Language Behaviour (LLBA) e i data base della Modern Language Association (MLA). È importante sottolineare che ci si è limitati a scegliere quei testi che trattano specificamente di procedure di valutazione in un contesto accademico (compreso l’accreditamento), ragion per cui l’assenza di opere autorevoli come House (1981) non deve sorprendere. Sappiamo che le pubblicazioni esaminate non costituiscono in alcun modo una raccolta completa ma riteniamo che formino un quadro sufficientemente rappresentativo dello stato dell’arte del materiale pubblicato su questo argomento negli ultimi decenni; comunque non vi è dubbio che una gran quantità di interessanti procedure sia conservata nei documenti interni delle istituzioni accademiche.

La lista non va considerata una tassonomia definitiva delle caratteristiche delle procedure di valutazione e ammettiamo che vi siano delle sovrapposizioni tra alcune voci. Ad esempio, una procedura finalizzata a una valutazione sommativa può generare informazioni che possono essere usate per il trasferimento dei crediti (cfr. voce 2 sotto); ma ovviamente i dati relativi al trasferimento dei crediti necessitano del potenziale aggiuntivo per la loro traducibilità tra sistemi accademici o istituzioni. In una istituzione accademica australiana, per esempio, le procedure dei test possono servire a ottenere (a) informazioni sommative che permettano alle istituzioni di attribuire voti, (b) informazioni che permettano l’accreditamento da parte dell’autorità esterna preposta, e (c) informazioni che permetteranno a un’altra istituzione di calcolare l’ammontare del credito da assegnare. Un singolo programma può includere unità le cui procedure di valutazione svolgano una di queste funzioni o più funzioni allo stesso tempo. Allo stesso modo i punti 6 e 8 sotto si sovrappongono in parte, ma si concentrano su aspetti differenti; il punto 6 si rivolge alle istituzioni e alle relative politiche valutative mentre il punto 8 si rivolge alla più ampia cerchia di soggetti coinvolti nel processo valutativo.

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The checklist follows:

  1. (1).  What broad area is being assessed? For example, interpreting, translation, subtitling, specific language combinations, etc.
  2. (2).  What is the purpose of the assessment instrument? For example, is aimed at:
    • Measuring aptitude (e.g. to enter a training course);
    • Determining placement (e.g. at a particular starting point in a trainingcourse);
    • Providing formative assessment (i.e. the skills and knowledge attained atpoints during a training course);
    • Providing summative assessment (i.e. the skills and knowledge attained at

    the end of a training course);
    • Accreditation (e.g. for entry into a professional body);
    • Credit transfer (e.g. to allow student mobility between universities)?

  3. (3).  What competencies are assessed, e.g. language 1 and language 2 knowledge, transfer competence, speed, accuracy, memory, terminology, cultural knowledge, etc.?
  4. (4).  What is the form of the assessment instrument? For example, a timed translation, an interpreting role play, a multiple choice test, etc
  5. (5).  What is the basic approach of the instrument? For example, is it norm-referenced, i.e. ranking candidates from best to worst; or is it criterion-referenced, i.e. measuring performance against a known criterion? Or does it assess skills learned on the job?
  6. (6).  What kind of results does the instrument generate? For example, does it generate a qualitative description of performance, a numerical score based on the objective items, a pass/fail result, etc?
  7. (7).  How well does a norm-referenced instrument discriminate among candidates?

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La lista è la seguente:

  1. (1)  Quale area generica viene valutata? Ad esempio, interpretazione, traduzione, sottotitolaggio, combinazioni linguistiche specifiche ecc.
  2. (2)  Quale scopo ha lo strumento valutativo? Ad esempio, è finalizzato a:
    • Misurare l’attitudine (es. a partecipare a un corso di formazione);
    • Stabilire l’inserimento (es. ad un particolare punto di partenza in un corso diformazione);
    • Fornire una valutazione formativa (cioè le capacità e le conoscenzeacquisite in diversi momenti durante un corso di formazione);
    • Fornire una valutazione sommativa (cioè le capacità e le conoscenzeacquisite al termine di un corso di formazione);
    • L’accreditamento (es. per aver accesso a un ordine professionale);
    • Trasferimento dei crediti (es. che permetta la mobilità degli studenti trauniversità).
  3. (3)  Quali competenze sono valutate, es. conoscenza della lingua 1 e della lingua 2, capacità traduttive, velocità, accuratezza, memoria, terminologia, conoscenze culturali, ecc.?
  4. (4)  Quale forma deve avere lo strumento di valutazione? Ad esempio, una traduzione con limite di tempo, un gioco di ruolo interpretativo, un test a scelta multipla, ecc.
  5. (5)  Qual è l’approccio di base dello strumento? Ad esempio, è un test basato sulla norma, cioè finalizzato a classificare i candidati dal migliore al peggiore; o un test basato su criteri, cioè finalizzato a misurare la prestazione sulla base di un dato criterio? Oppure valuta capacità acquisite al lavoro?
  6. (6)  Che tipo di risultati fornisce lo strumento? Ad esempio, fornisce una descrizione qualitativa della prestazione, un punteggio numerico basato su elementi oggettivi, indica il superamento o il non superamento della prova, ecc.?
  7. (7)  Quale utilità può avere uno strumento basato sulla norma nel differenziare i candidati?

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(8)

(9) (10)

What are the reporting mechanisms? For example:

  • Who receives feedback (e.g. candidate, instructor, institution)?
  • When does feedback occur (e.g. immediately, months later)?
  • How is feedback given (e.g. qualitatively, quantitatively)?How valid is the assessment instrument?How reliable is the assessment instrument?

We note in advance of the discussion that some of the items in the list are simply not discussed in the materials that we examined. We will return to these gaps later in this chapter.

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  1. (8)  Quali sono i meccanismi relazionali? Ad esempio:
    • Chi riceve il feedback (es. il candidato, l’istruttore, l’istituzione)?
    • Quando viene recepito il feedback (es. immediatamente, dopo alcuni mesi)?
    • Come viene dato il feedback (es. qualitativamente, quantitativamente)?
  2. (9)  Quale validità ha lo strumento di valutazione?
  3. (10)  Quale attendibilità ha lo strumento di valutazione?Prima di addentrarci nel discorso segnaliamo che alcuni punti della lista non sono

trattati nel materiale da noi esaminato. Torneremo a parlare di queste lacune più avanti in questo capitolo.

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Translation Assessment

Works on assessment in translation can be divided into two broad categories of assessment purpose: accreditation and pedagogy, reflecting the two broad constituencies of recruitment and training. In the accreditation area, Schäffner (1998) provides a critique of the Institute of Linguists syllabus in German. A UN accreditation perspective from Beijing is provided by Wu (1994), while Bell (1997), Martin (1997) and Ozolins (1998) discuss national accreditation in Australia. The offerings from Beijing and Australia each deal with both interpreting and translation, while all the works deal in some fashion with tests that bestow a public validation of competence. The pedagogy area in translation is less clear cut in terms of purpose: Brunette (2000) makes some reference to translation didactics in her attempt to establish a terminology for translation quality assessment, but is not clear about purpose, for example, diagnostic, formative or summative assessment. Dollerup (1993), Kussmaul (1995) and Sainz (1993) are clearly concerned about formative assessment, while Farahzad (1992) and Ivanova (1998) discuss summative assessment in the form of final translation examinations at university. James et al. (1995) is the only work in our selection to examine credit transfer (in the area of screen translation), while Campbell (1999) makes some small inroads into diagnostic assessment. Interestingly, we came across very little discussion of aptitude testing for translator education, although Cestac (1987) describes selection tests for recruitment at UN Headquarters; conversely there is a good deal of discussion of aptitude for interpreter education (cf. below). What is also interesting is that a number of writers discussed translation assessment without making any reference to purpose (for example, Bowker, 2000). Something of a hybrid is the Institute of Linguists New Diploma in English and Chinese described by Ostarhild (1994), which appears to be an attempt to move an accreditation instrument from an earlier test of bilingualism to one that also tests translation.

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Valutazione della Traduzione

È possibile suddividere la letteratura sull’argomento della valutazione in traduzione in due ampie categorie a seconda che lo scopo della valutazione sia l’accreditamento o la pedagogia: il primo scopo si collega all’ambito dell’assunzione, il secondo a quello della formazione. In materia di accreditamento, Schäffner (1998) ci lascia una critica in tedesco del programma d’insegnamento dell’Institute of Linguists, Wu (1994), da Pechino, esprime il suo punto di vista sull’accreditamento presso le Nazioni Unite mentre Bell (1997), Martin (1997) e Ozolins (1998) disquisiscono di accreditamento nazionale in Australia. I contributi provenienti da Pechino e dall’Australia trattano sia di interpretazione sia di traduzione, mentre più in generale tutti i testi presi in rassegna si occupano in qualche modo dei test che certificano pubblicamente delle competenze. Lo scopo pedagogico nella traduzione è meno chiaro: Brunette (2000) fa qualche accenno alla didattica della traduzione nel tentativo di stabilire una terminologia per la valutazione della qualità della traduzione, ma non si esprime chiaramente in merito allo scopo, quale può essere, ad esempio, quello diagnostico, formativo o di una valutazione sommativa. Dollerup (1993) e Sainz (1993) dimostrano un chiaro interesse per la valutazione formativa, mentre Farahzad (1992) e Ivanova (1998) parlano di valutazione sommativa negli esami finali di traduzione all’università. L’opera di James et alia (1995) è l’unica, fra quelle prese in esame, ad analizzare il trasferimento dei crediti (nel campo della traduzione per i media), mentre Campbell (1991) fa qualche breve excursus nel campo della valutazione diagnostica. È interessante osservare che raramente ci siamo imbattuti in qualche discorso sui test attitudinali per traduttori, anche se Cestac (1987) parla di test di selezione per l’assunzione presso i Quartieri Generali delle Nazioni Unite; per contro abbiamo trovato molto materiale sull’attitudine all’interpretazione (cfr. sotto). Altrettanto degno di nota è il fatto che diversi scrittori abbiano parlato di valutazione della traduzione senza fare riferimento allo scopo (si veda ad esempio Bowker, 2000). Risulta ibrido invece il New Diploma in English and Chinese dell’Institute of Linguists descritto da Ostarhild (1994), che assomiglia a un tentativo di trasferire uno strumento di accreditamento da un precedente test di bilinguismo ad un altro che valuta anche la traduzione.

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The types of translation competencies discussed range widely, but a crucial factor seems to be the extent to which translation is integrated into a socio-communicative framework. Where translation is not linked to such a framework, a default position seems to operate, in which competencies are largely target language focused. An example of this type is Dollerup’s (1993) assessment scheme for translation in the framework of language study, which works empirically from target language (TL) error analysis in order to construct student feedback form that assesses detailed competencies grouped under text, spelling, punctuation, words/word knowledge, syntax/grammar and expression. Sainz (1993) develops a similar feedback chart that allows students to critique their own work, but does not specify the competencies, other than to suggest that teachers can compile a «chart of “Types of Mistakes”»; she suggests that for a particular text it might include connectors, grammar, lexical items, misunderstanding, nouns (agreement), omission, prepositions, punctuation, style, register, syntax, and tenses. Farahzad’s (1992) list is somewhat different: accuracy, appropriateness, naturalness, cohesion, style of discourse/choice of words. Ivanova (1998) tells us a little about translation assessment at the University of Sophia; although she provides a review of literature on translation competence, the final examination marking scheme described simply deals with lexical infelicities, lexical error, grammatical mistake and stylistic inappropriateness.

Scholars working within a communicative framework grounded in theory tend to go beyond the classification of TL errors. An example is the approach taken by Hatim and Williams (1998), who, although they do not mention assessment in their discussion of a university translation programme in Morocco, do outline a syllabus based on a sophisticated model of communication which aims to have students «negotiate the transaction and exploit the signs…which surround them». Very detailed objectives – presumably reflecting the competencies to be assessed – cascade from these broad aims. Similar is the approach of Kussmaul (1995), who lists a number of «categories of evaluation» of texts, which seem to us to reflect competencies (he is after all dealing with translator education).

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I tipi di competenze richieste in traduzione finora discusse variano enormemente, ma un fattore di fondamentale importanza sembra essere il grado di integrazione di una traduzione in un quadro socio-comunicativo. Laddove la traduzione non è collegata a questo quadro, sembra intervenire una posizione di default che vede le competenze concentrarsi prevalentemente sulla lingua ricevente. Un esempio di questo tipo è lo schema di valutazione della traduzione nel quadro dello studio della lingua elaborato da Dollerup (1993); di fatto tale schema parte dall’analisi dell’errore nella lingua ricevente al fine di costruire una forma di feedback dello studente che valuti una serie dettagliata di competenze raggruppate sotto le seguenti voci: testo, spelling, punteggiatura, conoscenza di parole/parola, sintassi/grammatica ed espressione. Sainz (1993) elabora uno schema di feedback similare che permetta agli studenti di analizzare in modo critico il proprio lavoro; egli non specifica le competenze, ma lascia intendere la possibilità che siano gli insegnanti stessi a compilare un «grafico dei “Tipi di errore”». Tale grafico potrebbe includere per uno specifico testo i connettori, la grammatica, gli elementi lessicali, gli errori di comprensione, i nomi (concordanza), le omissioni, le preposizioni, la punteggiatura, lo stile, il registro, la sintassi e i tempi. Piuttosto differente è la lista proposta da Farahzad, che comprende: accuratezza, appropriatezza, naturalezza, coesione, stile del discorso/scelta lessicale. Ivanova (1998) ci parla brevemente della valutazione della traduzione presso l’Università di Sofia; sebbene fornisca un riesame della letteratura sulla competenza traduttiva, lo schema di valutazione dell’esame finale da lei presentato tratta semplicemente di scelte lessicali infelici, errori lessicali e grammaticali e di stile non appropriato.

Gli studiosi che operano in un quadro comunicativo teorico tendono ad andare oltre la classificazione degli errori nella lingua ricevente. Ne è un esempio l’approccio di Hatim e di Williams (1998), che, sebbene non parlino di valutazione nella loro analisi di un programma di traduzione universitario in Marocco, delineano un programma di insegnamento basato su un sofisticato modello comunicativo finalizzato a spingere gli studenti a «negoziare la transazione e a sfruttare i segni…che li circondano». Da questi intenti generali scaturisce una serie molto dettagliata di obiettivi – i quali presumibilmente riflettono le competenze da valutare. Simile è l’approccio di Kussmaul (1995), che elenca una serie di «categorie di valutazione» dei testi che sembrerebbero riflettere delle competenze (dopo tutto si sta occupando della formazione del traduttore).

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These are: cultural adequacy, situational adequacy, speech acts, meaning of words, «language errors» (Kussamaul’s quotation marks). Integrated into a professional context is the scheme of James et al. (1995), where a blend of linguistic and technical competencies is achieved in a discussion of screen translation assessment. The groups of competencies are portrayal, language quality, grammar, spelling, punctuation and time-coding, synchronisation, positioning, colour, breaks between subtitles respectively. A professional framework also informs the competencies assessed by Australia’s National Accreditation Authority for Translators and Interpreters (NAATI) (Bell, 1997). An approach to competencies beyond the mere listing of TL criteria is also found in the findings of experimental tests reported by Niedzielski and Chernovaty (1993) (dealing with both translation and interpreting in technical fields). The authors claimed (1993: 139) that «maturity and experience in some technical field(s)» and «original and creative thinking» were «factors found to achieve success in translating», on the basis of measuring information errors, lexical errors, grammatical errors, referential errors, style mistakes, and other criteria (cf. 1993: Tables 1-5, 144-6).

The translation of a text appears to be the standard form for translation assessment, although Ostarhild (1994) describes such tasks as skimming and scanning material in English and Chinese and producing «written commentaries in the other language» (1994: 53). The test described – the Institute of Linguists New Diploma in English and Chinese – is, as mentioned above, a kind of hybrid test of translation and bilingualism.

Surprisingly there seems to be very little discussion of the ideal length of translation tests or the time allowed for their completion, let alone any theoretically or empirically based findings on the subject. In the accreditation area, NAATI follows the curious practice of a strict time constraint on examinations at the basic Professional level (500 words in two hours), but a much more generous allowance at the Advanced level. Dollerup (1993) uses texts ranging from 50 to 700 words in his classroom-based model, presumably on the basis that students can handle longer texts as skill increases. Farahzad (1992) is braver, describing a range of test types including single sentences for translation and whole texts of 200 words.

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Nello specifico: adeguatezza culturale e situazionale, enunciazioni, significato delle parole, «errori linguistici» (le virgolette sono di Kussmaul). Inserito in un contesto professionale è lo schema di James et alia (1995), i quali, in una disamina sulla valutazione della traduzione per i media, arrivano a fondere una serie di competenze linguistiche e tecniche. I gruppi di competenze sono rispettivamente qualità della resa linguistica, qualità del linguaggio, grammatica, spelling, punteggiatura e codifica temporale, sincronizzazione, posizione, colore, intervalli tra i sottotitoli. Il contesto professionale è alla base anche delle competenze valutate dall’australiana National Accreditation Authority for Translators and Interpreters (NAATI) (Bell, 1997). È possibile riscontrare un approccio alle competenze che va oltre il mero elenco di criteri della lingua ricevente anche nei risultati di alcuni test sperimentali riportati da Niedzielski e Chernovaty (1993) (con risvolti negli aspetti tecnici della traduzione e dell’interpretazione). Gli autori affermavano (1993: 139) che «la maturità e l’esperienza in alcuni ambiti tecnici» e una «forma mentis originale e creativa» fossero «fattori chiave per avere successo nella traduzione», basandosi sulla valutazione degli errori di informazione, lessicali, grammaticali, referenziali, di stile e altri criteri (cfr. 1993: Tavole 1-5, 144-6).

La traduzione di un testo sembra essere la modalità standard per la valutazione della traduzione, anche se Ostarhild (1994) parla di attività quali l’esame superficiale e approfondito di materiale in inglese e cinese seguita dalla realizzazione di «commenti scritti nell’altra lingua» (1994: 53). Il test descritto – il New Diploma in English and Chinese dell’Institute of Linguists – è, come già detto, una specie di test ibrido di traduzione e bilinguismo.

Desta sorpresa il fatto che, apparentemente, il problema della lunghezza ideale dei test di traduzione o del tempo massimo consentito per il loro svolgimento non sia stato quasi per niente affrontato e che in merito non esistano risultati su basi empiriche o teoriche. Nell’ambito dell’accreditamento, le procedure seguite dalla NAATI risultano alquanto insolite, poiché prevedono ristretti margini di tempo per gli esami al gradino più basso del livello Professional (500 parole in due ore) e condizioni decisamente più favorevoli al livello Advanced. Dollerup (1993) impiega testi che variano dalle 50 alle 700 parole nel suo modello basato sulla classe, presumibilmente partendo dal presupposto che gli studenti riescono a gestire testi più lunghi man mano che le loro capacità aumentano. Farahzad (1992) è più coraggioso, e presenta una gamma di modelli di test che spaziano dalla traduzione di singole frasi a interi testi di 200 parole.

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Cestac (1987) describes the various UN examination papers, which include a 700-word general translation in three hours, a 2000-word summary in two hours, two 400-word specialized translations in three hours, and two 300-word translations from the candidates’ non-main language in two hours. Farahzad stands out in suggesting «limited response» items, where students are faced with, for example, several translations of a sentence and are asked to select the error-free version.

Little is written about the basic approaches of test instruments, and it is difficult to ascertain whether norm-referenced or criterion-referenced approaches are generally favoured. The upside-down marking scheme that seems to be commonly used (error marks being deducted from a perfect score) is so odd as to defy categorisation. Admittedly it is possible to establish a rank order of candidates using error marking (i.e. the top candidate is the one with the least errors), just as one can establish criteria for passing (i.e. every candidate with less than n errors passes). But the fundamental mathematics are so peculiar that we would have to be careful in determining whether it reflects a norm-referenced or criterion-referenced approach. Error marking works very well for TV quiz shows, because the number of correct responses equals the perfect score. But for translation the number of correct responses is infinite (on the reckoning that any translation can be done in an infinite number of ways) or very large (on the reckoning that there is a very large number of possible errors in any translation). The theoretical consequence is a ranked scale with an infinitely long tail. Let us say that the «perfect score» is 100, and that the two top candidates score 90 and 95. Now if the bottom candidate scores 0 and there is a normal distribution of scores in the candidature we have some sense of the relativities and we can compute means, standard deviations, z-scores, and the like – the tools of the trade in norm- referenced assessment. The problem comes when poor candidates score below zero (even though the marker may report the result as zero) – perhaps minus 20, minus 30, minus 80, or minus anything at all. Because there is no bottom to the scale, we have no way to assess the relative achievement of the top scoring candidates; depending on where the bottom of the scale finds itself, one may be very good and one exceptional, or perhaps they are separated by a whisker.

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Cestac (1987) descrive i vari documenti sugli esami delle Nazioni Unite tra i quali figura una traduzione generica di 700 parole con limite di tempo di tre ore, un riassunto di 2000 parole con limite di tempo di 2 ore, due traduzioni specialistiche di 400 parole in tre ore e due traduzioni di 300 parole dalla lingua straniera dei candidati con limite di 2 ore. Farahzad si segnala per la sua proposta di introdurre prove «a risposta breve» nelle quali gli studenti sono chiamati, ad esempio, a selezionare, tra le varie elencate, la versione corretta della traduzione di una frase.

Sugli approcci di base degli strumenti dei test si è scritto poco, e pertanto risulta difficile stabilire se in genere si propenda per approcci basati sulla norma o su criteri. Lo schema di valutazione upside-down che sembra essere comunemente usato (si parte da un punteggio pieno dal quale si detraggono i punti degli errori) è così strano da essere difficilmente classificabile. Ovviamente è possibile stabilire una classifica dei candidati usando il calcolo degli errori (cioè il candidato migliore è quello che ha fatto meno errori) come anche stabilire i criteri per il superamento del test (cioè tutti i candidati che hanno fatto meno di n errori superano il test). Tuttavia i calcoli matematici di base sono talmente particolari che dovremmo stare molto attenti a stabilire se rifletta un approccio basato sulla norma o su criteri. La valutazione basata sul calcolo degli errori funziona molto bene per i quiz televisivi perché il numero delle risposte corrette equivale al punteggio massimo. Ma nella traduzione il numero di risposte corrette è infinito (se si considera che una traduzione può essere fatta in infiniti modi) o comunque molto vasto (se si considera che esistono molti possibili errori in una traduzione). Ne conseguirebbe, da un punto di vista teorico, una scala di valutazione che non ha mai fine. Supponiamo che il «punteggio massimo» sia 100 punti e che i due migliori candidati totalizzino rispettivamente 90 e 95 punti. Ora, se il candidato peggiore totalizza 0 punti e vi è una normale distribuzione dei voti tra i candidati, abbiamo un senso della relatività tra i candidati e possiamo calcolare medie, deviazioni standard, z-scores e così via tutti gli elementi per una valutazione basata sulla norma. I problemi nascono quando vi sono dei candidati che ottengono un punteggio inferiore a 0 (anche se il valutatore può riportare un punteggio di 0) – come meno 20, meno 30, meno 80 o meno qualsiasi punteggio. Poiché la scala di valutazione non ha un minimo, non c’è modo di valutare i risultati relativi dei candidati migliori; a seconda di dove si trovi il minimo stesso della scala, un candidato potrebbe essere molto buono, un altro addirittura eccezionale, o magari i due differiscono di poco.

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In fact the balance of evidence shows that error deduction marking is really a criterion-referenced system, in which the number of marks in a perfect score is arbitrary and bears no relation to the possible number of errors. A pass mark (i.e. the perfect score less the maximum number of errors tolerated) is simply an indication of a criterion. If this is true, then a list of ranked scores based on error deduction is no more than a kind of statistical window dressing. Teague (1987), in describing the accreditation marking scheme of the American Translators Association, confirms this. Although «the grader…totals up the errors, and applies a final scale to get a final mark», the result is simply «fail» or «pass» (1987: 22). As a postscript, Bastin (2000) emphasises that «trainees must be taught how to do things right rather than being punished for what they have done wrong» (2000: 236); as both university teachers and accreditation examiners, the present authors are deeply unhappy about the practice of importing error deduction techniques into the educational context.

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In effetti, i fatti indicano come la valutazione basata sulla deduzione degli errori sia proprio un sistema basato su criteri, nel quale il numero di punti massimo è arbitrario e non è in alcun modo collegato al possibile numero di errori. Un voto che permetta di superare l’esame (es. il punteggio massimo meno il massimo numero di errori tollerati) è semplicemente un’indicazione di un criterio. Se ciò fosse vero, classificare una serie di punteggi in base al criterio della deduzione dei voti non differirebbe molto dal compiere una operazione statistica di facciata. Teague (1987), nel descrivere lo schema di valutazione della American Translators Association conferma quanto appena detto. Sebbene «il valutatore…sommi tutti gli errori, e applichi una scala di valutazione finale per ottenere il voto finale» il risultato sarà semplicemente il superamento o il non superamento dell’esame. (1987: 22). In conclusione, Bastin (2000) fa notare che «sarebbe meglio insegnare agli studenti come evitare gli errori piuttosto che punirli per quelli che commettono» (2000: 236); sia come docenti universitari che come esaminatori nell’ambito dell’accreditamento, questi autori sono estremamente scontenti dell’impiego di tecniche di deduzione degli errori nel contesto accademico.

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Interpreting Assessment

There is very little written on interpreting assessment (Hatim & Mason, 1997). This may be partly due to the relatively few formal courses in the field worldwide, to the limited research in the area, and to the intuitive nature of test design and assessment criteria. The little literature that exists on interpreting assessment is dominated by discussions on aptitude tests for entry to conference interpreting courses (Keiser, 1978; Gerver et al., 1984; Gerver et al., 1989; Longley, 1989; Bowen & Bowen, 1989; Lambert, 1991; Moser- Mercer, 1994; Arjona-Tseng, 1994). The other categories include: accreditation or certification examinations to enter the profession, in particular community interpreting and court interpreting (Bell, 1997; Gentile, 1997; Scweda Nicholson & Martinsen, 1997; Miguélez, 1999; Vidal, 2000); testing that is related to interpreter training courses, most of which train conference interpreters (Longley, 1978; Macintosh, 1995; Schjoldager, 1995); and quality assessment of interpreting performance, mainly of professional conference interpreters (Pöchhacker, 1993; Bühler, 1986; Kopczynski, 1992; Dejean Lefeal, 1990; Kalina, 2001). The last category will not be discussed here given our focus on educational contexts.

Common to all aptitude tests described in the literature are the competencies the tests aim to assess, the subjective marking criteria, and the high failure rate. There is general agreement on the skills and abilities necessary of a trainee interpreter to succeed in a conference interpreting course or in the profession (Lambert, 1991), although this is not based on any empirical data, but rather on intuitive judgements by trainers who are mostly practising interpreters. These competencies include: good knowledge of the relevant languages, speed of comprehension and production, good general knowledge of the world, good public speaking skills, good memory, stress tolerance and ability to work as a team. The tests tend to be criterion-referenced, with candidates required to reach each criterion in order to pass the test. In some of the tests, the initial components act as eliminatory components, where a candidate cannot progress to the next phase of the examination, if he or she fails any of the preceding phases.

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Valutazione dell’Interpretazione

Molto esigua è la quantità di testi scritti sulla valutazione dell’interpretazione (Hatim & Mason, 1997). Ciò può essere in parte ascritto alla relativa carenza di corsi ufficiali in questo campo a livello mondiale, alla limitata attività di ricerca nel campo e alla natura intuitiva dell’ideazione dei test e dei criteri di valutazione. La poca letteratura esistente sulla valutazione dell’interpretazione è dominata da discussioni sui test attitudinali per accedere a corsi di interpretariato di conferenza (Kaiser, 1978; Gerver et alia, 1984; Gerver et alia, 1989; Longley, 1989; Bowen & Bowen, 1989; Lambert, 1991; Moser-Mercer, 1994; Arjona-Tseng, 1994). Tra le altre categorie di test figurano: gli esami di accreditamento o certificazione per avere accesso alla professione, in modo particolare all’interpretariato di comunità o in campo giuridico/giudiziario (Bell, 1997; Gentile, 1997; Schweda Nicholson & Martinsen, 1997; Miguélez, 1999; Vidal, 2000); i test relativi a corsi di formazione d’interpretariato, in special modo quelli dedicati agli interpreti di conferenza (Longley, 1978; Macintosh; 1995; Schjoldager, 1995); e la valutazione qualitativa della prestazione interpretativa in modo particolare di interpreti di conferenza professionisti (Pöchhacker, 1993; Bühler, 1986; Kopczynski, 1992; Dejean Lefeal, 1990; Kalina, 2001). Avendo circoscritto la nostra analisi ai contesti accademici non tratteremo in questa sede l’ultima categoria.

Comuni a tutti i test attitudinali descritti nella letteratura presa in esame sono le competenze che i test mirano a valutare, i criteri soggettivi di valutazione, e l’alto tasso di insuccesso. Vi è consenso generale sulle capacità e le competenze che un apprendista interprete deve necessariamente possedere per poter riuscire in un corso di interpretariato di conferenza o nella professione stessa (Lambert, 1991), anche se tutto ciò non trova riscontro nei dati empirici quanto piuttosto nei giudizi intuitivi di istruttori che per lo più formano interpreti. Tra queste competenze figurano: una buona conoscenza delle lingue in questione, velocità di comprensione e produzione, una buona conoscenza generale del mondo, buone capacità di esprimersi in pubblico, una buona memoria, la capacità di sopportare lo stress e di lavorare in gruppo. I test seguono generalmente il modello basato su criteri in cui i candidati sono chiamati a soddisfare uno per uno tutti i criteri per poterli superare. In alcuni tipi di test, le componenti iniziali fungono da componenti selettive e quindi un candidato non può accedere a una fase successiva se non ha superato quelle precedenti.

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The forms of the assessment instruments are also shared by most entrance/aptitude tests. These include shadowing, cloze tests (both oral and written), written translation, sight translation, memory tests, and interviews. The rigour of these entrance tests and their high failure rates have led some to question the appropriateness of these assessment instruments which seem to expect applicants to perform almost at the level of professional interpreters before they even commence the training course (Gerver et al., 1984). The predictive power of the tests and the lack of objectives assessment criteria used have also been criticised by some, who advocate research to correct these deficiencies (Gerver et al., 1989; Arjona- Tseng, 1994; Moser-Mercer, 1994).

The reliability of the test results is very difficult to ascertain. As Moser-Mercer (1994) points out, there are no standardized interpreting aptitude tests. In spite of the advances made in language testing, little of that knowledge has been adopted by interpreter educators in the design of their testing (Moser-Mercer, 1994: Hatim & Mason, 1997). Bowen and Bowen (1989; 111) state that their aptitude tests are based on «Robert Lado, then Dean of Georgetown University’s School of Languages and Linguistics and his criteria of validity…reliability…scoreability…economy…and administrability» but, apart from mentioning a standardised English terminology test recommended by the University’s Psychology Counselling Centre, there is no other mention of how the tests are assessed for validity and reliability. Moser-Mercer (1994: 65) comments that Bowen and Bowen’s standardisation «in no way meets the criteria for true standardisation». Two apparently well-motivated testing procedures are reported in the literature, by Gerver et al. (1984: 1989) and Arjona-Tseng (1994). Gerver et al. (1984: 1989) report the results of a research project which developed and assessed a set of psychometric aptitude tests. The aim of the study was to lead to the establishment of objective criteria for the entrance tests used for the postgraduate conference interpreting course run by the Polytechnic of Central London. At the time of the study, only two thirds of students who passed the initial aptitude test successfully completed the intensive six-month course. The final examination comprised language specific interpreting tests in both the consecutive and simultaneous modes.

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Anche le forme degli strumenti valutativi sono comuni alla maggior parte dei test d’ingresso o attitudinali. Citiamo ad esempio lo shadowing, i cloze test (orali e scritti), la traduzione scritta, la traduzione a vista, i test mnemonici e i colloqui. La severità di questi test d’ingresso e l’alto tasso di insuccessi ha portato alcuni a mettere in dubbio la validità di tali strumenti valutativi che sembrerebbero dare per scontato che i candidati, ancora prima di cominciare il corso di formazione, rendano quasi al livello degli interpreti professionali (Gerver et alia, 1984). Quest’ultimo aspetto dei test e la mancanza di criteri valutativi oggettivi impiegati sono pure stati oggetto di critiche da parte di alcuni per i quali la ricerca dovrebbe colmare queste lacune. (Gerver et alia, 1989; Arjona-Tseng, 1994; Moser-Mercer, 1994).

L’attendibilità dei risultati dei test è molto difficile da appurare. Come Moser- Mercer (1994) ha fatto notare, non esistono modelli standardizzati di test attitudinali d’interpretazione. Nonostante i progressi compiuti nel campo della valutazione linguistica, solo una piccola parte delle conoscenze acquisite è stata impiegata dagli insegnanti di interpretazione nel mettere a punto i loro test (Moser-Mercer, 1994; Hatim & Mason, 1997). Bowen & Bowen (1989: 111) dichiarano che i loro test attitudinali si basano su «Robert Lado, allora preside della School of Languages and Linguistics della Georgetown University e su i suoi criteri di validità…attendibilità…valutabilità…economia…e amministrabilità» ma, al di là di una menzione al test standardizzato di terminologia inglese raccomandato dallo University’s Psychology Counselling Centre, non vi sono altri riferimenti su come valutare la validità e l’attendibilità dei test. Moser-Mercer (1994: 65) commenta la standardizzazione di Bowen & Bowen sostenendo che «non soddisfa in alcun modo i criteri per una reale standardizzazione».

Due procedure di verifica, apparentemente con una buona motivazione, sono menzionate nella letteratura analizzata da Gerver et alia (1984; 1989) e da Arjona-Tseng (1994). Gerver et alia (1994; 1989) riportano i risultati di un progetto di ricerca finalizzato a sviluppare e valutare una serie di test attitudinali psicometrici. L’obiettivo dello studio era stabilire dei criteri oggettivi per i test d’ingresso per il corso di laurea di secondo livello d’interpretariato di conferenza organizzato dal Poytechnic of Central London. All’epoca dello studio, solo due terzi degli studenti che avevano passato il test attitudinale iniziale erano stati in grado di completare con successo il corso intensivo di sei mesi. L’esame finale comprendeva specifici test interpretativi linguistici in consecutiva e in simultanea.

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The study looked at three types of tests: text-based, drawing on work done in the area of text processing (Kintsch, 1974); sub-skill based, drawing on the work on cognitive tests (Eckstrom et al., 1976), and stress-based, drawing on the work done on speed testing (Furneaux, 1956). Sub-tests were conducted under each of these broad categories. Under the text-based test there were the following sub-tests: recall-text memory, recall-logical memory, completion/deletion – cloze, completion/deletion – error detection. Under the sub-skill-based test there were: a synonyms test, an expressional fluency test where candidates had to rewrite a test, and a verbal comprehension test. For the stress-based test, the team used an existing instrument, the Nufferno test (Furneaux, 1965), which measures the effect of speed stress on a cognitive task. The results of these tests were compared with the results of the final examinations. The study found that candidates who passed the final interpreting examination had scored higher on all the entrance tests than those who failed. The researchers conclude that «the tests appear to have been successful in reflecting generally the abilities required for interpreting» (Gerver et al., 1984: 27).

Arjona-Tseng emphasises the dearth of literature on «rater-training issues, decision- making rules, reliability and validity issues, scaling, scoring, and test-equating procedures» (1994: 69). She attempts to address this need by proving a psychometrically-based approach to the development of entrance tests, with a standardised set of administration procedures, a tighter set of assessment criteria, appropriate rater training, and pilot testing. These new tests have been used at the Graduate Institute of Translation and Interpretation Studies at Fu Jen Catholic University with a 91% success rate for those selected to complete the course. Arjona-Tseng stresses the need for valid and reliable aptitude tests for admission to interpreter training courses.

Although aptitude testing dominates the interpreting assessment literature, a small literature exists on accreditation or certification examinations for professional recognition. Most accreditation or certification examinations are conducted in the area of community interpreting in general, or specifically for court interpreting. Few countries train interpreters in community interpreting or use university courses as the only entry path to the profession.

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Lo studio prendeva in esame tre tipi di test: quelli basati sul testo, che si ispiravano al lavoro svolto nell’ambito della elaborazione di testi (Kintsch, 1974); quelli basati sulle sottocompetenze, ispirati ai test cognitivi (Eckstrom et alia, 1976); e quelli basati sullo stress, ispirati ai test di verifica della velocità (Furneaux, 1956). Dei subtest erano stati condotti per ognuna di queste tre ampie categorie. I test basati sul testo comprendevano le seguenti sottocategorie di test: capacità di memorizzare testi o nessi logici, cloze test con possibilità di completamento/eliminazione, individuazione di errori con possibilità di completamento/eliminazione. I test basati sulle sottocompetenze comprendevano: test sui sinonimi, test sulla scorrevolezza espressiva in cui i candidati erano chiamati a riscrivere una testo, e un test sulla comprensione verbale. Per il test sullo stress, il team si era servito di uno strumento già esistente, il test Nufferno (Furneaux, 1965) che misura gli effetti dello stress dovuto alla velocità su un compito cognitivo. I risultati dei test erano stati confrontati con gli esiti degli esami conclusivi. Ne era emerso che i candidati che avevano superato l’esame finale di interpretazione erano gli stessi che avevano ottenuto i punteggi più alti in tutti i test di ammissione. I ricercatori avevano concluso che «i test sembrano aver riflesso in linea di massima le capacità richieste per l’interpretazione» (Gerver et alia, 1984: 27).

Arjona-Tseng pone l’accento sulla penuria di testi su questioni relative alla formazione dei valutatori o riguardanti le regole del processo decisionale, i problemi di attendibilità e validità, le scale di valutazione, il punteggio e le procedure di equiparazione dei test (1994: 69). La studiosa cerca di sopperire a queste mancanze fornendo un approccio fondato sulla psicometria per lo sviluppo di test d’ingresso, il quale prevede una serie di procedure amministrative standardizzate, un più esiguo numero di criteri valutativi, un’appropriata formazione dei valutatori e test pilota. Questi nuovi test sono stati impiegati presso il Graduate Institute of Translation and Interpretation Studies dell’Università Cattolica di Fu Jen e il risultato è stato che il 91% degli studenti selezionati ha concluso positivamente il corso. Arjona-Tseng rileva la necessità di test attitudinali validi e attendibili per l’ammissione a corsi di formazione d’interpretariato.

Sebbene siano le questioni relative ai test attitudinali a monopolizzare la letteratura esistente sulla valutazione dell’interpretazione, esiste un esiguo numero di testi sugli esami di accreditamento o certificazione per il riconoscimento professionale. Buona parte di questi esami sono condotti nell’ambito generale dell’interpretariato di comunità o più specificatamente in quello dell’interpretariato in campo giuridico/giudiziario. Sono pochi i paesi che formano interpreti specializzati in interpretariato di comunità o che usano i corsi universitari come unica via d’accesso alla professione d’interprete.

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On the contrary, however, entry to the conference interpreting profession normally depends on successful completion of a university course.
The National Accreditation Authority for Translators and Interpreters is the accrediting body in Australia. Although there is accreditation for conference interpreting, examinations are not available for this skill, and conference interpreters gain accreditation on the basis of recognition of qualifications. The bulk of examinations is at the Professional level (formerly Level Three) and the Paraprofessional level (formerly Level Two). Courses in Australia that are approved by NAATI must adhere to NAATI guidelines when conducting their students’ final examinations, which must reflect the NAATI format, content, and assessment criteria. Bell (1997: 98) describes NAATI examinations as «skills-based (performance assessments)». The Paraprofessional examination contains two dialogues of approximately 300 words in length each, and four questions on ethics of the profession and sociocultural aspects of interpreting. These examinations aim to assess the candidates’ ability to practice as «paraprofessional» interpreters, mainly in the areas of welfare and education. The Professional interpreter examination comprises two dialogues of approximately 450 words each in length, with questions on ethics of the profession and sociocultural aspects of interpreting, and two 300-30 word passages, normally speeches, to be used for consecutive interpretation. These examinations aim to accredit interpreters to work in all areas of community interpreting, including medical and legal settings.

Candidates must pass each component with a minimum seventy marks out of one hundred, although, because of the error deduction marking scheme used, this cannot be interpreted as a percentage (cf. the discussion of error deduction marking earlier in this chapter). All examinations are marked by two examiners using NAATI’s marking guidelines, which allow a good deal of subjective latitude. When discussing issues of accreditation for community interpreters, Gentile (1997) makes the point that evaluation criteria are usually vague, with specific meanings being left to the interpretation of each individual. He also comments on the difficulty of achieving standardisation across language pairs.

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Per contro, per accedere alla carriera professionale di interprete di conferenza è in genere necessario portare a termine un corso universitario.
La National Accreditation Authority for Translators and Interpreters è l’ente preposto all’accreditamento in Australia. Sebbene l’accreditamento esista per l’interpretariato di conferenza, non esistono esami per questa specializzazione; per questo motivo gli interpreti di conferenza acquisiscono crediti sulla base del riconoscimento delle loro qualifiche. La maggior parte degli esami avvengono al livello Professional (in passato Level Three) e al livello Paraprofessional (in passato Level Two). In Australia, gli esami conclusivi dei corsi approvati dalla NAATI devono conformarsi alle linee guida NAATI per quanto riguarda la struttura, il contenuto e i criteri di valutazione impiegati. Bell (1997: 98) descrive gli esami NAATI come «(valutazioni del rendimento) basate sulle capacità». L’esame al livello Paraprofessional prevede due dialoghi di circa 300 parole ciascuno e quattro quesiti sull’etica della professione e sugli aspetti socioculturali dell’interpretariato.

Questi esami mirano a valutare la capacità dei candidati di lavorare come interpreti «paraprofessionali», segnatamente nell’ambito dell’assistenza sociale e in quello accademico. Gli esami al livello Professional prevedono due dialoghi di circa 450 parole ciascuno, con quesiti sugli aspetti etici e socioculturali della professione e l’interpretazione consecutiva di due brani, in genere discorsi, di 300-30 parole. Tali esami sono finalizzati a fornire agli interpreti la qualifica necessaria per poter lavorare in tutti gli ambiti dell’interpretariato di comunità, compresi i settori medico/sanitario e giuridico/giudiziario.

I candidati devono ottenere come minimo una votazione di 70/100, sebbene questa non vada letta in termini percentuali per via del metodo di deduzione dei punti utilizzato (cfr. la discussione sulla sottrazione dei punti già presentata in questo capitolo). Due esaminatori assegnano una votazione a tutti gli esami basandosi sulle linee guida della NAATI inerenti alla valutazione, che comunque permettono un’ampia discrezionalità personale. In merito alle questioni relative all’accreditamento per gli interpreti di comunità, Gentile (1997) spiega che i criteri di valutazione sono di solito vaghi, lasciando a ognuno il compito di interpretarne il significato specifico. Egli inoltre si esprime sulla difficoltà di raggiungere la standardizzazione tra coppie linguistiche.

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These examinations have never been systematically scrutinised from the point of view of validity and reliability, although Bell states that: «In order to conduct valid and reliable tests, NAATI contracts more than 250 examiners on 46 different Examiners’ Panels…In order to keep the examinations relevant to the development of the profession and the requirements of the employers, NAATI consults regularly with related individuals and organizations» (1997: 98). Our assumption is that these measures are intended to generate debate between the profession and NAATI which will help it improve the general quality of its tests; but this is of course a far cry from systematic scrutiny of the testing regime. The validity of the examinations has been questioned by Dueñas Gonzáles, who criticised their capacity to assess the skills and competencies required by court interpreters, stating that:

the test should not be used to examine court interpreters for three reasons: (1) it does not reflect the rigorous demands of the three modes used in judicial interpreting: simultaneous (unseen or spontaneous), legal consecutive and sight translation; (2) it does not test for mastery on all the linguistic registers encountered in the legal context,…and (3) it would not be a valid instrument to determine ability in judicial interpretation because its format, content and assessment methods are not sufficiently refined to measure the unique elements of court interpreting.

(Dueñas Gonzáles et al., 1991: 91)

Anecdotal evidence shows that most practitioners are also dissatisfied with the tests’ validity in other areas of community interpreting, especially with regard to the long consecutive passages which do not reflect the practice. In response to such criticism, NAATI is currently conducting a complete review of its examinations, the results of which will not be available for some time.

Unfortunately we were unable to access any literature on the California Court certification examination and cannot report on it. Such information would have allowed for a useful comparison with accreditation/certification examinations in other countries.
The court interpreter examination conducted by the Ministry of Justice in Spain comprises two main components: the translation of two texts, one into each language, without the use of dictionaries and with a one-hour time limit.

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La validità e l’attendibilità di questi esami non sono mai state valutate in maniera attenta e sistematica, sebbene Bell affermi che: «al fine di condurre test validi e affidabili, la NAATI assume a contratto più di 250 esaminatori provenienti da 46 Panel di esaminatori differenti…Allo scopo di garantire che gli esami siano sempre al passo con l’evolversi della professione e con i requisiti imposti dai datori di lavoro, la NAATI consulta regolarmente i singoli e le organizzazioni ad essa affiliati» (1997: 98). Presumiamo che tali misure abbiano lo scopo di instaurare un dialogo tra il mondo professionale e la NAATI utile a migliorare la qualità generale dei suoi test; ma, com’è ovvio, siamo ancora decisamente lontani da un esame approfondito delle procedure dei test. A mettere in dubbio la validità degli esami è stato Dueñas Gonzáles, secondo cui non permetterebbero di valutare le capacità e le competenze richieste agli interpreti giurati:

il test non deve essere impiegato per esaminare interpreti giurati per tre ragioni: (1) non soddisfa i rigorosi requisiti delle tre modalità impiegate nell’interpretariato giuridico: la traduzione simultanea (chuchotage o instant translation), consecutiva di carattere giuridico e a vista; (2) non verifica la completa padronanza di tutti i registri linguistici presenti nel contesto giuridico,…e (3) non sarebbe un valido strumento per stabilire l’abilità nell’interpretariato giuridico poiché la struttura, il contenuto e i metodi di valutazione non consentono di giudicare con sufficiente precisione gli elementi peculiari dell’interpretariato giuridico.

(Dueñas Gonzáles et alia, 1991: 91)

L’evidenza aneddotica rivela come la maggior parte dei professionisti non siano soddisfatti della validità dei test in altri ambiti dell’interpretariato di comunità, soprattutto in riferimento ai lunghi brani di consecutiva che non trovano riscontro nella realtà.
In risposta a queste critiche la NAATI sta attualmente conducendo una completa revisione dei suoi esami e i risultati di tale operazione non sono ancora disponibili.

Sfortunatamente non abbiamo avuto modo di consultare alcun testo inerente all’esame di certificazione per gli interpreti giurati californiani e non possiamo riferirvi nulla in merito. Peccato, perché sarebbe stato interessante e utile confrontare questi dati con gli esami di accreditamento/certificazione in altri paesi.
L’esame per interpreti giurati condotto dal Ministero di Giustizia spagnolo si compone di due parti principali: la traduzione di due testi, uno verso ciascuna lingua, senza l’aiuto di dizionari e con un limite tempo di un’ora.

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Those who pass this phase with at least 50% can take the second component, a one-hour written examination on the government, the Ministry of Justice, the court system, and the laws and regulations surrounding workers’ rights. There is no examination of any interpreting skill whatsoever, or of interpreter role or ethics. The only prerequisite for sitting the examination is a secondary school certificate. Miguélez strongly criticises this examination on the basis of lack of reliability and validity (Miguélez, 1999: 2). The certification examination which sworn interpreters take has currently been modified. The old examination consisted of two timed translations into Spanish. The first translation exercise is eliminatory and consists of texts ranging from 299-500 words in length, taken from magazines or newspapers and with no standard guidelines on level of difficulty. The text for the second exercise is always on a legal or economic/commercial topic, with a length ranging from 472-794 words. Two hours are allocated per exercise. Once again, Miguélez criticises this examination, making the observation that «it is reasonable to think that the same candidate sitting for different versions of the exam could get very different results» (1993: 3).

The new certification examination does not improve much on the old one. It maintains the translation exercises as described above and adds two components: a translation from Spanish and an oral exercise, where the candidate reads a text in the foreign language and then summarises it and answers questions on it to a panel of examiners. Miguélez attacks the new examination by stating that «the most obvious problem with this new test format is that it does not in any way test a candidate’s ability to translate a legal document into the language of certification or to interpret in any of the three modes. The exam…lacks even the most basic standards of validity and reliability» (Miguélez, 1999: 4).

Nicholson and Martinsen (1997) describe the examination used in Denmark for interpreters to become members of the Authorized Interpreters Panel, approved by the National Commission of the Danish Police. Candidates must either possess a degree in a foreign language or be a native speaker of a foreign language. The only testing conducted is an oral test to assess the candidate’s knowledge of Danish. The other language is not tested nor are any interpreting skills (1997: 262-3).

If little has been written on interpreting assessment in general, even less is found on any type of assessment as part of training courses.

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Coloro che superano questa fase con almeno il 50% passano alla seconda fase, ovvero un esame scritto della durata di un’ora sul governo, il Ministero di Giustizia, il sistema giuridico, le leggi e i regolamenti a tutela dei diritti dei lavoratori. Non sono previsti esami sulle capacità interpretative o sul ruolo o l’etica dell’interprete. L’unico requisito necessario per accedere all’esame è un diploma di scuola secondaria. Miguélez critica pesantemente questo tipo di esame in quanto mancherebbe di attendibilità e validità (Miguélez, 1999: 2). L’esame di certificazione che gli interpreti giurati sostengono è attualmente in fase di modifica. Il vecchio esame consisteva nella realizzazione di due traduzioni a tempo verso lo spagnolo. Il primo esercizio di traduzione ha valore eliminatorio e consta di un testo che varia dalle 299 alle 500 parole, tratto da riviste o quotidiani e che non deve rispettare linee guida prestabilite riguardo al grado di difficoltà. Il testo del secondo esercizio, la cui lunghezza varia dalle 472 alle 794 parole, tratta sempre argomenti di carattere economico o commerciale. Si hanno a disposizione due ore di tempo per svolgere ciascun esercizio. Ancora una volta Miguélez critica questa prova facendo notare che «è ragionevole poter pensare che lo stesso candidato, sostenendo diverse versioni dell’esame possa ottenere risultati anche molto discrepanti» (1993: 3).

Il nuovo esame di certificazione non è poi molto migliorato rispetto al precedente. Gli esercizi di traduzione appena descritti non cambiano, ma sono state aggiunte due prove: una traduzione dallo spagnolo e un esercizio orale in cui il candidato legge un testo in una lingua straniera e poi lo riassume e risponde ad alcuni quesiti su di esso di fronte ad un panel di esaminatori. Miguélez contesta questo tipo d’esame sostenendo che «il problema più evidente del nuovo tipo di test è che non permette di valutare in alcun modo la capacità del candidato di tradurre un documento legale nella lingua in cui deve ottenere la certificazione né d’interpretare in una delle tre modalità. L’esame…non soddisfa neppure gli standard di base quanto a validità e attendibilità» (Miguélez, 1999: 4).

Nicholson e Martinsen (1997) descrivono il tipo d’esame che, in Danimarca, gli interpeti devono superare per entrare a far parte dell’Authorized Interpreters Panel, approvato dalla National Commision of the Danish Police. I candidati devono essere laureati in una lingua straniera oppure madrelingua stranieri. L’unica prova condotta è un test orale che mira a saggiare la conoscenza della lingua danese da parte del candidato. Non sono valutate né la conoscenza dell’altra lingua né le capacità interpretative. (1997: 128).

Se si è scritto poco sulla valutazione dell’interpretazione in generale, ancora meno esiste in merito a qualsiasi tipo di valutazione nei corsi di formazione.

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Macintosh points out, however, that although there seems to be little published on assessment systems, performance measurement is an area that has long been recognised as in need of systematic study: «some courses (e.g. ETI Geneva) have developed comprehensive and detailed marking schemes for final examinations, which attack different weightings to different components of a candidate’s performance» (1995: 128). This may very well be so, and a survey of assessment procedures used by interpreting courses worldwide might produce very interesting results.

We have already explained that, in Australia, training courses that are NAATI approved must adhere to NAATI guidelines. Hence the description of the NAATI accreditation examination also applies to the final examinations conducted in educational programmes (units taken prior to final examinations are not assessed under NAATI guidelines). Gerver et al. make a brief mention of the final examination for the conference interpreting course at the former Polytechnic of Central London, mentioning that it tests for consecutive and simultaneous interpreting skills. Longley (1978) mentions that they use professional interpreters as raters in their London six-month intensive conference interpreting course. Longley makes one interesting observation about the difference between intuitive marking and more systematic marking. As part of a government funded course conducted by her institution, weighted marks were requested for specific types of errors. The raters had made an intuitive assessment of each candidate’s performance at the end of the examination and were then faced with the time-consuming task of allocating marks for each specific component, or deducting marks for each type or error. Surprisingly, the results were very similar under both systems (1978: 54).

Schjoldager (1995) provides us with a marking sheet to assess simultaneous interpreting, which can be used by interpreters and students to self evaluate their performance, as well as by interpreter trainers. The sheet provides a set of criteria under four major categories: Comprehensibility and delivery, Language, Coherence and plausibility and Loyalty, with arguments and examples for each criterion. Schjoldager states that her «intention is merely to offer an explicit, systematic alternative to intuitive assessment procedures, whose criteria are not only implicit but also, I feel, arbitrary. Only explicit criteria can be useful to learners» (1995: 194).

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Macintosh fa comunque notare che, sebbene la letteratura sui sistemi di valutazione sia piuttosto scarna, da lungo tempo si avverte la necessità di uno studio sistematico nel campo della misurazione della prestazione: «in alcuni corsi (come ad esempio all’ETI di Ginevra) sono state sviluppate tabelle di valutazione complete e dettagliate per gli esami conclusivi, nelle quali viene dato peso diverso ai vari aspetti della prestazione del candidato» (1995: 128).

Potrebbe benissimo essere così e un’indagine condotta sulle procedure di valutazione usate nei corsi d’interpretariato in tutto il mondo potrebbe fornire risultati estremamente interessanti.
Abbiamo già spiegato come, in Australia, i corsi di formazione riconosciuti dalla NAATI debbano conformarsi alle linee guida NAATI. Pertanto la descrizione degli esami di accreditamento della NAATI vale anche per gli esami finali condotti nei programmi accademici (le unità precedenti ai test conclusivi non seguono il modello valutativo NAATI). Gerver et alia fanno un breve accenno alla prova conclusiva del corso di interpretariato di conferenza dell’ex Polytechnic of Central London, dicendo che valuta le capacità interpretative sia in simultanea sia in consecutiva. Longley (1978) fa notare che nel loro corso intensivo d’interpretariato di conferenza della durata di sei mesi a Londra si servono di interpreti professionisti come valutatori. Longley inoltre compie un’interessante osservazione in merito alla differenza tra una valutazione intuitiva e una valutazione più sistematica. Nell’ambito di un corso finanziato dallo stato e diretto dalla sua istituzione, i voti ponderati erano necessari per alcuni tipi di errore. I valutatori, al termine della prova, esprimevano una valutazione intuitiva della prestazione di ciascun candidato e si trovavano poi a dover svolgere il lungo lavoro di assegnazione dei voti per ogni specifico elemento o di sottrazione dei punti per ciascun tipo di errore. I risultati ottenuti con entrambi i sistemi erano sorprendentemente molto simili (1978: 54).

Schjoldager (1995) ha elaborato una tabella di valutazione per l’interpretazione simultanea, utile sia per gli interpreti e gli studenti che desiderano autovalutare la propria prestazione sia per i docenti di interpretazione. La tabella stabilisce una serie di criteri inseriti in quattro categorie principali: Comprensibilità e resa, Linguaggio, Coerenza e plausibilità e Fedeltà. Ogni criterio è accompagnato da argomentazioni ed esempi. Schjoldager afferma di «voler semplicemente fornire un’alternativa esplicita e sistematica alle procedure di valutazione intuitive, contraddistinte da criteri, a mio parere, non soltanto impliciti ma anche arbitrari. Solo dei criteri espliciti possono essere utili agli studenti» (1995: 194).

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Knowledge Gaps in Translation and Interpreting Assessment

It will be evident from comparing our checklist with our survey that there exists a number of knowledge gaps in translation and interpreting assessment. In this section we briefly mention some of the less crucial gaps before a somewhat lengthier discussion of a fundamental omission in the literature – reliability. We will argue that this issue above all is in need of serious work.

The first four items on our checklist are reasonably well covered in the literature, at least as far as the traditional modes of interpreting and translation are concerned; assessment in newer or more peripheral modes of work such as interpreting in mental health settings, software localisation, and multilingual advertising has barely been discussed. Nevertheless, we have a fair understanding of the state of the art in the domains of the areas and purpose of assessment, the competencies assessed, and the forms of assessment. There are, however, differing amounts of emphasis with, for example, a preponderance of work on aptitude testing for interpreting, and a spread of work across achievement and accreditation testing in translation. Generally speaking, there is some agreement on the sets of competencies assessed in both translation and interpreting, but little explicit discussion of the efficacy of particular assessment instruments to measure those competencies. The basic forms of both translation and interpreting tests reflect a philosophy that the tests should resemble the real-world task, although in conference interpreting aptitude testing there are attempts to separately measure underlying competencies.

The fifth item – the basic approach – is rarely if ever explicitly discussed, but there seems to be tacit adoption of a criterion-referenced approach (although with no solid discussion of the actual criteria). The next three items – types of results, discrimination, and reporting mechanisms – are only minimally discussed.

These less crucial issues contrast starkly with the paucity of discussion on the central topics of validity and reliability. The knowledge gap in these areas is so large that we can do no more here than sketch the problem.

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Lacune conoscitive nella Valutazione della Traduzione e dell’Interpretazione

Mettendo a confronto la nostra lista iniziale con la ricerca condotta noterete chiaramente la presenza di alcune lacune conoscitivi nell’ambito della valutazione della traduzione e dell’interpretazione. In questo paragrafo tratteremo brevemente di alcuni dei gap meno gravi prima di affrontare un discorso più approfondito relativo a una grande mancanza della letteratura analizzata – l’attendibilità. Ed è soprattutto su questo aspetto che secondo noi bisognerà condurre un serio lavoro.

I primi quattro punti della nostra lista sono trattati con sufficiente completezza nei testi esaminati, per lo meno per quanto concerne le tradizionali modalità di traduzione e interpretazione; in effetti, non si discute quasi per nulla di valutazione in modalità lavorative più recenti o secondarie come l’interpretariato nell’ambito della salute mentale, della localizzazione di software, della pubblicità in più lingue. Nonostante ciò abbiamo un quadro generale abbastanza chiaro dello stato dell’arte nell’ambito delle aree e dello scopo della valutazione, delle competenze valutate nonché delle forme di valutazione. Tuttavia ad alcuni temi è riservata una maggiore attenzione rispetto ad altri, ad esempio si parla molto di più di test attitudinali di interpretariato che non dei test conclusivi o di accreditamento in traduzione. In generale, possiamo dire che vi è un certo accordo sui gruppi di competenze da valutare sia in traduzione sia in interpretazione, ma non si discute quasi per nulla dell’efficacia di un particolare strumento di valutazione nel giudicare tali competenze. Le forme base dei test d’interpretariato e di traduzione rispecchiano la concezione che il test debba riprodurre una situazione di lavoro reale, sebbene nei test attitudinali per l’interpretariato di conferenza si cerchi di valutare le competenze intrinseche in modo separato.

Il quinto punto – l’approccio di base – non è quasi mai trattato in maniera esplicita, ma sembra esserci una tacita preferenza per l’approccio basato su criteri (sebbene manchi un’analisi esaustiva dei criteri veri e propri). I tre punti successivi – tipo di risultati, differenziazione e meccanismi relazionali – sono affrontati in modo superficiale.

Questi aspetti meno rilevanti si pongono in netto contrasto con lo scarso approfondimento delle questioni cruciali di validità e attendibilità. In questi ambiti il gap conoscitivo è talmente ampio che non possiamo fare altro che accennare il problema.

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Indeed we will say very little at all about validity given that the consensus in measurement and evaluation circles is that tests cannot be valid unless they (or more accurately their scores) are reliable. Validity in interpreting and translation testing is tied up with knotty issues such as the nature of the competencies assessed, the models of learning underpinning educational programmes, and the extent to which tests should reflect professional tasks. Reliability stands out as the priority problem, and we devote the remainder of this section to a sketch of what we see as the main issues.

While reliability is extensively discussed in standard manuals on educational measurement, we have drawn on Bachmann (1991) to frame our discussion given that this work on language testing is a little closer to home than more general works.

According go Bachmann:

The investigation of reliability is concerned with answering the question, «How much of an individual’s test performance is due to measurement error, or to factors other than the language ability we want to measure?» and with minimizing the effects of these factors on test scores. (Bachmann, 1991: 163)

These factors can be grouped into «test method facets», «attributes of the test taker that are not considered part of the language capabilities that we want to measure», and «random factors that are largely unpredictable and temporary» (1991: 164). Given that the latter two groups apply to tests of any kind, we will focus on «test method facets» as criteria affecting the reliability of interpreting and translation assessment. Chapter 5 of Bachmann (1991) is dedicated to test methods, and the summary of test method facets on page 119 could, we feel, be adapted to the interpreting and translation context. For example, explicitness of criteria for correctness resonates with the frequent query from translation and interpreting examinees about fidelity to the source text (ST); how closely, one is often asked, do I need to stick to the original? An inexplicit translation test instruction could affect the reliability of the test if one candidate believes that the target text must owe its loyalty to the ST rather than the target reader, while another candidate believes the opposite.

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In effetti, parleremo molto poco di validità dato che gli esperti di misurazione e valutazione comunemente ritengono che i test non possono essere validi a meno che questi (e i loro punteggi nello specifico) non siano attendibili. Per i test di traduzione e interpretazione la validità è legata a questioni spinose quali la natura delle competenze da valutare, i modelli di apprendimento alla base dei programmi accademici e il grado di somiglianza dei test con le reali situazioni professionali. L’attendibilità rappresenta il problema principale, pertanto nel resto del paragrafo cercheremo di delineare quelli che noi riteniamo gli aspetti più importanti della questione.

Sebbene il tema dell’attendibilità sia ampiamente trattato nei manuali di base sulla misurazione accademica, abbiamo fatto riferimento a Bachmann (1991) per delineare il nostro discorso dato che il suo lavoro sulla valutazione linguistica è un po’ più vicino al nostro campo d’indagine rispetto ad altri testi più generali.

Secondo Bachmann:

Lo studio dell’affidabilità non può prescindere dalla risposta a questa domanda, «in che misura il rendimento di un individuo in un test è dovuto all’errore di misurazione, o a fattori diversi dall’abilità che si vuole valutare?», come pure dall’attenuazione, per quanto possibile, degli effetti di tali fattori sui punteggi dei test. (Bachmann, 1991: 163)

È possibile raggruppare questi fattori negli «aspetti metodologici del test», «gli attributi dei candidati che non fanno parte delle capacità linguistiche che vogliamo giudicare», e «i fattori accidentali spesso imprevedibili e temporanei» (1991: 164). Dato che gli ultimi due gruppi sono validi per test di qualsiasi tipo, ci concentreremo sugli «aspetti metodologici del test» in quanto criteri che influiscono sull’affidabilità della valutazione nella traduzione e nell’interpretazione. Il quinto capitolo dell’opera di Bachmann (1991) è dedicato ai metodi dei test, e riteniamo che il riassunto degli aspetti metodologici del test presente a pagina 119 possa essere applicato al contesto dell’interpretazione e della traduzione. Ad esempio, la necessità di criteri chiari per una resa corretta trova riscontro nei dubbi che spesso nutrono i candidati interpreti o traduttori riguardo alla fedeltà al prototesto; spesso ci si domanda, in che misura bisogna restare fedeli all’originale? La mancanza di istruzioni chiare ed esplicite in un test di traduzione può influire sull’attendibilità del test se un candidato ritiene di dover restare fedele all’originale piuttosto che al lettore del metatesto mentre un altro candidato compie il ragionamento opposto.

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Degree of speededness is highly relevant: when we impose a time limit on a test, do we know from empirical investigation the extent to which the speededness affects performance quality? Is there a speed at which we will get the optimum performance from the majority of candidates, and therefore have an optimally reliable test (at least on this facet)?

For interpreting and translation, a very significant test method facet is the degree of difficulty of the source material. Despite some inroads into the question of translation text difficulty (Campbell, 1999; Campbell & Hale, 1999), this remains a major barrier to improving test reliability. We would assert that in the absence of convincing methods for assessing ST difficulty, any testing regime that regularly introduces fresh STs and passages (for example, for security reasons) will potentially generate highly unreliable scores.

A basic concept in considering reliability is parallel tests (Bachmann, 1991: 168), from which can be derived a «definition of reliability as the correlation between the observed scores on two parallel tests». In other words, the most reliable test is one where parallel versions yield the same scores (i.e. a perfect correlation). In translation, this would involve finding or composing two examination texts of exactly the same degree of complexity in lexis, grammar, content, style and rhetorical structure. The lack of any real discussion of even this most basic measure of test reliability is a serious indictment of the present state of translation assessment. While occasional statements of intent are made (for example, Bell, 1997), we know of no serious work on basic questions such as the reliability of translation test scores over time, from language to language, or from text to text. Campbell (1991) makes a preliminary foray into the discriminatory power of items in translation tests in an attempt to launch a discussion about the internal consistency of such tests.

Much work, then, needs to be done. Again, we rely on Bachmann to frame the following discussion, highlighting some of the specific problems encountered in assessing translation and interpreting.

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Il grado di rapidità è determinante; se viene stabilito un tempo massimo per un test, è possibile comprendere da un esame empirico in che misura la velocità influisca sulla qualità della prestazione? Esiste una velocità alla quale sarà possibile ottenere dalla maggior parte dei candidati una prestazione ottimale e pertanto un test pienamente attendibile (per lo meno da questo punto di vista)?

Per quanto riguarda la traduzione e l’interpretazione, un aspetto metodologico del test estremamente significativo è il grado di difficoltà del materiale originale. Sebbene qualche approfondimento sul tema della difficoltà di traduzione dei testi sia stato compiuto (Campbell, 1999; Campbell & Hale, 1999), questo aspetto rimane uno dei principali ostacoli alla creazione di test più attendibili. Potremmo dire che in mancanza di metodi convincenti per stabilire la difficoltà del prototesto, qualsiasi sistema che regolarmente introduca nuovi prototesti e brani (ad esempio per motivi di sicurezza) rischierà di fornire punteggi altamente inattendibili.

Uno dei concetti chiave legati all’attendibilità è il test parallelo (Bachmann, 1991: 168); l’attendibilità viene così ad essere presentata come «la correlazione tra i punteggi di due test paralleli». In altri termini, il test più attendibile è quello in cui versioni parallele forniscono gli stessi punteggi (cioè una correlazione perfetta). Allo stesso modo per la traduzione bisognerebbe trovare e assemblare due testi d’esame caratterizzati da uno stesso grado di complessità del lessico, della grammatica, del contenuto, dello stile e della struttura retorica. Il fatto che non si discuta nemmeno di questo basilare metodo di calcolo dell’attendibilità dei test la dice lunga sull’attuale situazione della valutazione della traduzione. Se occasionalmente vengono pronunciate dichiarazioni d’intenti in merito (si veda Bell, 1997), non siamo a conoscenza di alcun testo che si occupi seriamente di questioni basilari quali l’attendibilità dei punteggi dei test di traduzione nel tempo, da lingua a lingua e da testo a testo. Campbell (1991) compie un’iniziale incursione nell’ambito del potere discriminante delle voci nei test di traduzione con l’intento di promuovere un dibattito sulla coerenza intrinseca di tali test.

In breve c’è ancora molto da lavorare. Ancora una volta ci rifacciamo a Bachmann per presentare il prossimo argomento nel quale cercheremo di mettere in luce alcuni dei problemi specifici riscontrati nella valutazione della traduzione e dell’interpretazione.

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Internal consistency

If we assume that the basic test format is to translate or interpret, then investigation is needed into the way that candidates perform on different parts of the written or spoken input, and the extent to which those parts may be differentially weighted. A simple example is that of repeated material in a written or spoken passage. How, for instance, do we deal with passages with repeated chunks (for example, formulaic expressions introducing clauses in a treaty)? The implications for test reliability are profound: if a candidate mistranslates a repeated chunk, do we penalize multiple times? This is a common dilemma in translation test marking that goes to the heart of reliability because it may be argued that the candidate’s performance could have been more reliably measured if he or she had been given a chance to be tested on a number of different items; the repeats may be interpreted as a test method facet that diminishes the discriminatory power of the test and therefore reduces its reliability. On the other hand, the repetitions may call for a creative solution that draws out the competence of the candidate. Arabic, for example, often employs a degree of parallelism that is not tolerated in English, and we might reward the candidate who manages to convey the rhetorical effect through a more natural English device. Internal consistency is also an issue tied up with text development and is particularly critical when we try to construct parallel tests. Let us say that we want to base a test on a 1000-word press article, using, say 500 words. In the first 250 words the writer is likely to be laying the groundwork for his or her argument, perhaps using irony or humour. The next 500 words may contain detailed exposition based on a technical account of the issue, and the last 250 a concluding summary that picks up the rhetorical flavour of the introduction, or even introduces a new note of warning. While it would be tempting to think that the most efficient way to create parallel tests is to cut one text into two, it is obvious that in this example neither half would reflect the rhetorical structure of the other and thus both would have different internal consistency.

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Coerenza intrinseca

Dando per scontato che la struttura base del test preveda un lavoro di traduzione/interpretazione, è necessario studiare come i candidati si disimpegnano nelle diverse parti del messaggio scritto od orale e in che misura queste parti possono essere valutate in maniera differente. Una semplice prova consiste nel riproporre più volte lo stesso messaggio in un brano scritto od orale. Come bisogna comportarsi, per esempio, in presenza di brani in cui compaiono delle ripetizioni (come accade nel caso di espressioni stereotipate che introducono le clausole di un trattato)? Ancora una volta emergono le profonde implicazioni dell’attendibilità dei test: il candidato che sbaglia la traduzione dell’elemento ripetuto va penalizzato una o più volte? Si tratta di un vero e proprio dilemma per tutti coloro che devono valutare dei test di traduzione, un dilemma che va dritto al cuore dell’attendibilità in quanto qualcuno potrebbe dire che la prestazione del candidato sarebbe stata giudicata in maniera più affidabile se questi avesse avuto la possibilità di essere giudicato su una serie di elementi diversi; le ripetizioni potrebbero essere interpretate come un aspetto metodologico del test che diminuisce il potere discriminatorio del test e di conseguenza ne riduce il grado di attendibilità. D’altro canto, però, la presenza di ripetizioni può rappresentare uno stimolo alla ricerca di soluzioni creative che possano rivelare le capacità e le conoscenze del candidato. La lingua araba, ad esempio, spesso si serve di un grado di parallelismo che non è accettato nell’inglese e potremmo quindi premiare il candidato che riesce a restituire l’effetto retorico per mezzo di un artificio che suona meglio in inglese. Il problema della coerenza intrinseca è anche strettamente correlato allo sviluppo del testo e si pone con maggiore urgenza nella costruzione di test paralleli. Ipotizziamo di voler basare il nostro test su un articolo di giornale di 1000 parole, usandone, diciamo, 500. Le prime 250 parole probabilmente serviranno all’autore per porre le basi della propria tesi, magari usando un tono ironico o umoristico. Le successive 500 parole potrebbero contenere una dettagliata esposizione basata su di un resoconto tecnico della questione e le ultime 250 una sintesi conclusiva che riprende il sapore retorico dell’introduzione o che introduce persino una nota d’ammonimento. Se da un canto sarebbe bello poter pensare che il modo migliore di creare dei test paralleli sia quello di dividere un testo in due metà, dall’altro, risulta chiaro che in quest’esempio nessuna delle due metà rifletterebbe la stessa struttura retorica e pertanto avrebbero una diversa coerenza intrinseca.

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Estimating Reliability

Those lucky enough to use multiple choice and other brief response test item types have the luxury of measuring test reliability through split-half methods, where «we divide the test into two halves and then determine the extent to which scores on these two halves are consistent with each other» ( Bachmann, 1991: 172). The crucial requirement of split- half measures is that performance on one half must be independent of performance on the other half. Even if we could find ways to split interpreting and translation tests (for example, odd versus even paragraphs, first half versus second half), there is no way that the two halves can be independent; if they were, they would not constitute a text. Split-half methods appear, then, to be ruled out. An alternative approach – the Kuder-Richardson reliability coefficients – suffer the same fate for different reasons. The KR formulae are based on the means and variances of the items in the test, and assume that all items «are of nearly equal difficulty and independent of each other» (1991: 176); even if discrete items could be identified, the criteria of equal difficulty and independence would be impossible to achieve.

Indeed, interpreting and translation tests seem to have much more in common with open-ended instruments like essays, where statistical methods of estimating reliability on the basis of individual test items are extremely difficult to apply. The practice of «second markers», «trial marking», etc. indicates a focus on the marker rather than the items as a source of information about reliability. Bachmann speaks of intra- and inter-rater reliability (1991: 178-81). Estimates on intra-rater reliability are made by having a marker rate the same group of subjects twice – on two separate occasions and in different orders – and calculating a correlation coefficient of some kind. Anyone who has spent a day on an interpreting assessment jury or marking a pile of translation examinations will be aware of the potential shifts in rater behaviour through fatigue, or through recency effects as markedly different candidates present. Similarly, a correlation coefficient can be calculated to estimate how consistently two or more markers rate the same candidates.

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Valutare l’Attendibilità

Coloro che sono abbastanza fortunati da usare la scelta multipla o altri tipi di test a risposta breve si possono permettere il lusso di calcolare l’affidabilità dei test con metodi split-half ovvero di divisione a metà, nei quali «dividiamo il test in due parti e stabiliamo fino a che punto i punteggi di queste due metà siano coerenti tra loro» (Bachmann, 1991: 172). Il requisito fondamentale delle misurazioni split-half è che la prestazione raggiunta per la prima parte sia indipendente da quella della seconda parte. Anche se trovassimo un modo per suddividere i test di traduzione e interpretazione (ad esempio, paragrafi pari/dispari; prima parte/seconda parte), le due parti non potrebbero mai essere indipendenti; se lo fossero, non formerebbero mai un testo. Per questa ragione i metodi split-half sembrerebbero da scartare. Un approccio alternativo – i coefficienti di affidabilità di Kuder-Richardson –è altrettanto inutilizzabile per altre ragioni. Le formule KR si basano sulle medie e le varianze delle voci di un test e presuppongono che tutte le voci «siano all’incirca della stessa difficoltà e che siano indipendenti tra loro» (1991: 176); sebbene sia possibile ravvisare voci distinte, sarebbe impossibile soddisfare i criteri di pari difficoltà e indipendenza.

In effetti, i test di traduzione e interpretazione sembrano avere molti più aspetti in comune con gli strumenti di verifica aperti come i temi, ai quali è molto difficile poter applicare metodi statistici di valutazione dell’attendibilità sulla base delle singole voci del test. L’impiego di «indici secondari», della «valutazione di prova» ecc. indica che sono i valutatori e non gli aspetti del test ad essere ritenuti una fonte di informazioni sull’affidabilità. Bachmann fa un distinguo tra attendibilità dei valutatori e attendibilità tra valutatori (1991: 178-81). È possibile elaborare delle stime sull’attendibilità dei valutatori facendo loro giudicare lo stesso gruppo di soggetti due volte – in due momenti diversi e in ordine differente – e calcolando un coefficiente di correlazione di qualche tipo. Chiunque, almeno per un giorno, abbia fatto parte di una commissione di valutazione d’interpretazione o abbia dovuto valutare un gran numero di prove di traduzione sarà sicuramente a conoscenza dei possibili cambi di atteggiamento del valutatore dovuti alla stanchezza o all’avvicendarsi di candidati estremamente differenti tra di loro. Allo stesso modo, si può calcolare un coefficiente di correlazione per stimare in quale misura due o più valutatori sono coerenti nel giudicare gli stessi candidati.

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Organisations like NAATI and American Translators Association (ATA) appear to depend heavily on intra- and inter-rater behaviour to achieve reliability. We can only guess at the extent to which educational institutions take rater reliability seriously in achievement tests, final examinations, and the like. It is somewhat surprising to note, then, that our sample of reading contained not a single major published study on the issue or rater consistency.

Concluding Remarks

The translation and interpreting research world asks a great deal of itself. With major current research pushes in area as diverse as cognitive processing, cultural studies, lexicography and machine translation, it is perhaps not surprising that the field of assessment is in its infancy. But assessment does need to grow up a little and realise that there are some bigger kids on the block for it to learn from; the wider field of measurement and evaluation represents a solid source of knowledge that we can use to understand and improve our assessment practice. It is not just a question of filling in the knowledge gaps, but a question of profession building. As an applied discipline, translation and interpreting puts people into real and important jobs; better assessment means better translators and interpreters.

Note
1. The assistance of Adriana Weissen in undertaking the literature search is

acknowledged.

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Alcune organizzazioni come la NAATI e l’American Translator Association (ATA) sembrano dare molto peso al comportamento dei valutatori e tra i valutatori al fine di raggiungere l’affidabilità. Noi non possiamo fare altro che ipotizzare in quale misura delle istituzioni accademiche prendano sul serio l’attendibilità dei valutatori nei test di profitto, negli esami finali ecc. Tuttavia è abbastanza sorprendente il fatto che di tutte le letture prese in esame nessuna di esse contenga un importante studio pubblicato sul tema della coerenza degli valutatori.

Note conclusive

Il mondo della ricerca nel campo della traduzione e dell’interpretazione nutre in se grandi aspettative. Ma visto che attualmente gli stimoli alla ricerca sono più forti nei campi più disparati, quali l’elaborazione cognitiva, i cultural studies, la lessicografia e la traduzione automatica forse non ci si deve sorprendere se il campo della valutazione stia muovendo solo ora i primi passi. Ma la valutazione deve assolutamente crescere e comprendere che ci sono discipline più evolute e mature dalle quali imparare; il più vasto campo della misurazione e della valutazione rappresenta una fonte consolidata di conoscenze che possiamo utilizzare per capire e migliorare i nostri metodi di valutazione. Non si tratta solo di colmare i gap conoscitivi, ma anche di crescere professionalmente. In quanto discipline applicate, la traduzione e l’interpretazione pongono le persone in contesti professionali reali e importanti; un miglior metodo di valutazione significa migliori traduttori e interpreti.

Nota
1. Si riconosce l’aiuto di Adriana Weissen nella ricerca della letteratura presa in esame.

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La traduzione e la semiotica dei giochi e delle decisioni Dinda L. GORLÉE Raffaella Giovanna ROSSI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

La traduzione e la semiotica dei giochi e delle decisioni

Translation and the semiotics of games and decisions

Dinda L. GORLÉE

Raffaella Giovanna ROSSI

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE DI MILANO DIPARTIMENTO INTERPRETI E TRADUTTORI Via Alex Visconti, 18 – MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma di Interprete e Traduttore Indirizzo Traduttore

3 novembre 2000

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© Editions Rodopi B.V., Amsterdam – Atlanta, GA 1994 © Raffaella Giovanna Rossi per l’edizione italiana 2000

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PREFAZIONE

CHARLES SANDERS PEIRCE

Peirce è il fondatore di uno dei due filoni della semiotica, la pragmatica, quello secondo cui il segno è sempre relazionale. Il secondo filone della semiologia, di matrice strutturalista, è quello che fa capo al linguista svizzero Ferdinand de Saussure. Peirce ha elaborato importanti teorie sulle basi cognitive della semio- tica e ha studiato il problema del significato in termini di interpretazione. Sviluppa la sua semiotica filosofica che fonde il realismo scolastico di Locke e l’idealismo kantiano; è una teoria della conoscenza alternativa a ogni teoria in- tuizionista, ma che si discosta dalla visione di Kant della realtà, esterna, opaca ma sempre afferrabile.

L’ARGOMENTO

Come nell’albero delle decisioni di Levý (1967) ogni traduttore si trova davanti una serie di ramificazioni e ogni decisione comporta un percorso, quindi anche un risultato differente.
Il saggio di Gorlée si configura come lo studio di tale precorso e dei processi che stanno alla base della traduzione: il traduttore come il giocatore si trova di fronte a scelte cruciali che ne segneranno la strada. È proprio su questo paralle- lismo tra il ruolo del traduttore e quello del giocatore che fa perno il lavoro dell’autrice sullo sfondo delle teorie semiologiche del modello peirceiano se- condo le quali il segno è sempre relazionale e il significato non è intrinseco bensì traspositivo.

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ANALISI TRADUTTOLOGICA

Questo saggio, che si inserisce nel vasto panorama delle disquisizioni semioti- che sulla la traduzione, ha un impianto retorico argomentativo molto solido e articolato, che ho cercato di adattare alle strutture tipiche della lingua italiana, vale a dire esplicitando gli atti linguistici e utilizzando i verbi di atteggiamento proposizionale.

I costrutti con will sono stati resi in italiano con il futuro semplice oppure con il presente indicativo a seconda della “forza” che avevano in inglese.
Ho scelto di usare la terminologia specifica della psicologia per tradurre insight (p. ) per non perdere riferimenti impliciti fatti dall’autore.

Il testo è piuttosto scorrevole, lineare benché talvolta presenti sequenze pluri- membri di aggettivi che costituiscono un problema per la versione italiana per- ché vanno smembrati.
Per quel che concerne la varietà mi sono rifatta all’italiano standard di registro medio-alto giustificato non tanto dal linguaggio – in cui per esempio è stata uti- lizzata il forestierismo settoriale explication de texte invece della locuzione in- glese text analysis, la quale innalza lievemente il tono – quanto dal contesto semiotico, destinato a un pubblico di nicchia di esperti e ricercatori di semioti- ca in relazione al problema traduttivo.

Eccomi qui, seduta davanti al mio computer, alle prese con ragionamenti sugli aspetti metalinguistici di questa tesi: forse sono io che sto giocando con le sca- tole cinesi? Io, studente di traduzione scrivo un commento a una traduzione dall’inglese di una parte di un saggio sulla traduzione in cui il traduttore viene paragonato a un giocatore.

Certo, il termine gioco può sembrare riduttivo soprattutto se concordiamo con Peter Newmark (1991) nell’affermare che «la traduzione ha a che vedere con la

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realtà morale e fattuale». Il traduttore riveste un ruolo molto importante perché è contemporaneamente punto d’arrivo (lettore nella lingua di partenza) e punto di partenza (autore nella lingua d’arrivo). Il gioco è un piacevole passatempo mentre il traduttore deve sempre essere concentratissimo e affrontare seriamen- te il proprio lavoro, nonché assumere la responsabilità delle sue scelte; scelte che non sono soltanto terminologiche ma che concernono, in uno stadio prece- dente, la strategia da seguire, nel difficile tentativo di ricreare lo stesso effetto emotivo dell’originale, il desiderio di «aprire il testo come se fosse una fisar- monica, di analizzarne tutte le piegoline e poi di richiuderlo» per presentare al lettore un ottimo prodotto finito.

Questo testo presenta uno scarsissimo residuo traduttivo, infatti il vocabolario tecnico-settoriale della traduttologia si evolve di pari passo nelle due lingue ed esistono sempre i traducenti esatti; così come le incursioni di altri settori, peral- tro poco frequenti non hanno creato incovenienti.

MOTIVO DELLA SCELTA

Ho scelto questo testo per la mia tesi perché penso che non sia del tutto soddi- sfacente seguire un corso di studi come questo ignorando completamente il piano teorico; credo di essere una persona piuttosto riflessiva che vuole capire il perché delle cose e questo lavoro mi ha dato la possibilità di approfondire un aspetto di un’attività che amo e che desidero coltivare sempre.

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio il mio relatore Professor Bruno Osimo per il tempo dedicatomi e per il sostegno non solo dal punto di vista strettamente legato a questa tesi. Ringrazio i miei genitori che mi sono stati vicino in questi mesi di tensione a- cutizzata.

Un grazie particolare a chi mi ha ricordato il valore di un sorriso nei momenti di maggiore ansia.

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TRANSLATION AND THE SEMIOTICS OF GAMES AND DECISIONS

INTRODUCTORY REMARKS

In translation theory, “translation” is used to refer to both the act of transla- ting and to the translating text which is a result of this operation or, indeed, this sequence of operations. Translating has been considered traditionally as a prac- tical, goal-oriented activity aiming at producing a concrete result, the transla- tion. At the same time has there been a growing awareness that translation is not merely reducible to its end product, but that it is also, and indeed, first and foremost, search, attempt to find solutions for problems. Thanks to the progress made in the study of the heuristic element in translation, the process-oriented activity, aimed at problem-solving, has come to complement the product- oriented approach to translation.

TRANSLATION AS SIGN INTERPRETATION

In the following I will first propose that translation involves a dual inci- dence of semiosis. Hermeneutics, almost in the traditional sense, forms the first interpretative instance and precedes heuristic interpretation in translation proper. Following the intuition, based upon empirical evidence, that translating implies a semiotic process of decision-making, I will posit that translation the- ory and the formal theory of games can and may be considered to be basically the same in kind; i.e., translating is in some way similar to plying a “game with complete information”, such as a jigsaw puzzle or chess. Support for this work- ing hypothesis is the practical applicability of the conceptual tools used in game theory to the translation situation. I will not propose a formalized model for translation based on the theory of games. Instead I shall venture a tentative exploration of what may be called the game of translation.

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My first proposition is thus that in translation one can distinguish a double incidence of interpretation. The first is of a hermeneutic nature. In order to ac- quire a full understanding of both surface and in-depth meaning (or meanings) of the text, it involves a penetrating explication de texte, including its extralin- guistic references. Such a close reading of the text in the light of the sociohisto- rical and cultural context surrounding and conditioning its production makes cognition of its referential meaning or meanings possible. As the translation theoretician, George Steiner, argues in After Babel, “comprehensive reading [is] in the heart of the interpretative process” and is in itself a “manifold act of interpretation” (Steiner 1975:5,17). This first interpretative step made by the translator, the gaining of insight into the text “inner world”, is followed by, and alternative to, a second interpretative move which is outwardly focused. This creative, or reproductive, interpretation constitutes translation proper and con- sists of the actual transfer of the text from source language into target language. Steiner reaches the same conclusion when he states that the view of translation as interpretation

…will allow us to overcome the sterile triadic model which has dominated the history and theory of the subject. The perennial dis- tinction between literalism, paraphrase and free imitation, turns out to the wholly contingent. It has no precision or philosophical basis. (Steiner 1975:303)

Seen from this perspective, interpretation is inherent in any mode of transla- tion, be it intralingual, interlingual, or intersemiotic translation, i.e., Jakobsón’s three “ways of interpreting a verbal sign” (1959:233).

The dual occurrence of interpretation, with its inward and outward orienta- tions, is reminiscent of Saussure’s signifier and signified. But Saussurean se- miology excludes extraliguistic referentiality and restricts interpretation to pa- radigms

of sign. Signifier (that is, sign-vehicle or sound-image) and signified (that is, mental image or concept of meaning) merge into a twofold relation based upon

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mutual “solidarity”, or complementarity. Here, the meaning of a sign, however, is actually twice removed: once by conventional and once by individual, “arbi- trary” interpretation. The static quality of Saussure’s dyadic signification con- centrates on the former and does no justice to the creative potential of interpre- tation which happens to be the core of the argument here.

If, on the other hand, we follow Jakobsón and adopt Peirce’s theory of signs and their manifold meanings, we may expand the twosided paradigmatic structure and expediently (re-)introduce the dynamic element which is crucial in interpretation, and hence in the concept of translation put forward here. This dynamic element is embodied in the Peircean concept of interpretant, which is the third dimension in the triadic relation, sign-object-interpretant. In Peirce’s much-quoted definition.

A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something on some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. The sign which it creates I call the interpretant of the first sign. (CP:2.228,c.1897)

The interpretant as a sing interpretative of another sign implies that interpre- tation is a generative process of signification. The idea that the meaning of a sign is always another sign generates an endless series of interpretative signs. This unlimited process of making sense heuristically is called, in semiotic par- lance, semiosis; and translation (that is, any translational process in the semi- otic sense) is semiosis because it produces interpretant signs that, according to Eco (1979:71), “beyond rules provided by codes, explain, develop, interpret a given sign”.

Returning to the definition of sign quoted above, we may now supplement it as follows: “The sign stands for something, its object”. It stands for that o- bject, not in all respects, but in reference of a sort of idea, which I have some- times called the ground of the representamen” (CP:2.228,c.1897). Once we de- fine the object in this way as that which is signified and the interpretant as that

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in which it is interpreted, the multiplicity of different possible interpretant- signs or translations for each sign is in turn determined by the relation the “first” sign has to its object. The multiplex modes of signifying are counterba- lanced by the different modes of representational abstraction.

In order to function as a sign, a sign needs to lead to an interpretation. And in order to be meaningful, a sign must invariably be embedded in some code or system, which Peirce called “ground”. Signs signify because the previous ac- quaintance their interpreter has with the rules that underlie their particular mo- de of being encoded, enables him or her in turn to produce interpretant-signs.

Without sign representation there is no possibility of sign interpretation. Interpretation, translation, or any type of semiosis, means, in effect, tracing out the ground as it is operative in actual sign use. Meaning arises from exploratory interpretation of sign in their natural habitat: the world of context in which hu- mans use verbal (and nonverbal) signs in order to meaningfully (for themsel- ves) organize the reality surrounding them, thereby mastering it. This implies a partly experiential and partly cognitive frame of reference which is Peirce’s ground.

TRANSLATION, A GAME1

This second characterization, mentioned above, of a simple jigsaw puzzle as a heuristic game, may with good reason seem fanciful at first. It is, however, worth pursuing this view here, because it points towards a more complex game, the language game of translation. My proposition here is that translation may be consid-

ered as a game, comparable to the jigsaw puzzle as characterized above2. In the “game” of translation, however, the main element is Thirdness, not Fir- stness. Not only is translation governed by strict rules, but at the same time it challenges ingenuity while also involving logical processes. The game of tran- slation is, it would seem, a more intellectual version of the jigsaw puzzle and represents a superior form of mental gymnastics. The translation problem is further represented in a less tangible and portable form than the jigsaw puzzle,

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and so represents a higher level of abstraction as it is found in the Peircean symbol, or sign of Thirdness.

All verbal language is mainly symbolic in the sense of Peirce’s doctrine of signs. “A symbol” wrote Peirce ” is a sign which refers to the object that it de- notes by virtue of law, usually an association of general ideas” (CP:2.249,1903). Whereas the icon, or sign of Firstness, bears a physical and static resemblance to the object it evokes, the association between a symbol and its object rests upon an agreement, a consensus. There exists thus an incre- ased, dynamic distance between the symbolic sign and its object. Accordingly, the symbol only becomes meaningful in a practical way because the sign user (or better, the community of sign users) makes logical decisions about its scope and usage.

Iconic and symbolic signs both exclude any chance similarity between the sign-vehicle and the object of reference, and rely on some general, conventio- nally established connection, which consists in their ground. But symbols differ from icons insofar as the ground of the former stresses differences while that of the latter stresses similarities. What icons and symbols have in common is the idea of replica. This idea is salient to both the jigsaw puzzle and translation: in order to become meaningfully recognized, the symbolic, as the leading element in language-based translation, must even imply the iconic, the idea of replica. This replica need not be conventional, just as convention need not be standard but may, in a Peircean spirit, be or, at least, originate from an individual choi- ce, So, while the referentiality of the jigsaw puzzle limits itself to the single- ness of replication, language games, based as they are on linguistic signs, are primarily symbolic activi-

ties in the original meaning of the word symbol “Etymologically”, wrote Peir- ce, “it should mean a thing thrown together… But the Greeks used ‘throw toge- ther’ (symballein) very frequently to signify the making of a contract or convention” (CP:2.297,c.1895) 3.

Whereas the jigsaw puzzle exhibits, so to speak, its meaning, language games are not univocal in the same sense, they do not say what they mean, but possess an inherent polysemy which needs to be deciphered and interpreted.

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The basic symbolicity of language grants the signs used in language a great mobility. This dynamic quality is what distinguishes the game of translation from the jigsaw game. To be sure, the pictorial text conveying all purported in- formation immediately and simultaneously, appears transformed into a textual “image” consisting of sequentially-ordered linguistic signs which the player is required to translate into a different linguistic mode or code, without violating the rules of the game.

In its pure and traditional form the game of translation is a one-person deci- sion game based on rule-regulated, reasonable choices between alternative so- lutions. There is commonly one solitary player, the translator, who is engaged in this struggle against Nature, his or her impersonal opponent facing him or her in the text to be translated, embodied in its complex of puzzles. The player knows that each action invariably leads to a specific outcome, while the order and nature of the series of actions build and depend in the previous choices the player himself or herself has made. The game is productive of an intricate interrelation pattern, the generation of which can be symbolized by the game tree proposed by Luce and Raiffa in their (1967) Games and Decisions: Intro- duction and Critical Survey and applied to the translation situation by Levý4.

My argument here corresponds essentially to the theoretical perspective in Levý’s (1967) article, “Translation as a decision process”, in that translation is considered from the viewpoint of both game theory and semiotics. In his arti- cle, however, Levý concentrates on the problems found in the translation of li- terary texts; and within translation as a total semiotic process, he focuses on the pragmatic di-

mension (following Morris’s division of the field of semiotics into syntactics, semantics, and pragmatics) as he pays particular attention to assessment by re- aders, that is interpreters “in the second degree” (as Peirce might have been tempted to call them). In the framework of translation as a decision process, Levý used graphs called “decision trees”. Levy’s trees show how an omniscient translator has to deal with decisions, nodes, and branches that typically arise in the course of the translation process. The method of choice is to select that branch leading to the most desired result. Once one branch is chosen from a set

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of variants, all other branches are thereby eliminated and other solutions blo- cked for the rest of the game. Thus when a game situation, such as translating, is entered at one end of the decision tree, current values of variants determine a path to an appropriate action. This would mean that translating is not unlike “finding a way through a maze… the first time – not, as in studies of animal le- arning, to learn to run the maze without error” (Taylor 1968:509).

In contradistinction to the jigsaw puzzle, which aims at finding the one pre- specified solution, the game of translation is a game of seeking and finding “a” solution that is as relevant as possible to the purpose of the game: maximizing the player’s expected payoff. In translation, this aim can hardly be specified in terms of straightforward gain or loss, because in this solitary game there are no real points to score. Instead comes the gratification provided by the game itself and by its concrete result, measured in terms of success vs. failure. The transla- tor gains the desired (by him or her) outcome if by his or her choices he or she produces an equivalent 7, well formed translation; and in order to reach this go- al he or she tends to avoid time- and energy-consuming trial and error beha- vior, and to adopt an implicit or explicit strategy that will help him or her to sort out the consecutive problems. As this rational strategy is, more often than not, the minimax principle discussed above, translators, according to Levy,

…are content to find for their sentence a form which, more or less, expresses all the necessary meanings and stylistic values, though it is probable that, after hours of experimenting and rewriting, a better solution might be found… Translators, as a rule, adopt a pessimistic strat- egy, they are anxious to accept those solutions only whose “value” –even in case of the most unfavourable reactions of their readers– does not fall under a certain minimum limit admissible by their linguistic or aesthe- tic standards. (Levý 1967:1180)

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Surely the translator often has no other choice than to be satisfied with his or her own minimax performance (for instance, because exhaustive analysis of the alternatives is impossible, or because he or she has to adapt, as economi- cally as possible, his or her own standards to the constraints of the particular game). But such a policy reduces the translator’s choices to his or her own stra- tegic options which, at best, are lucky guesses about his or her own capacities.

Systematization of translational performance as rule-bound step-by-step behavior is, however, only a one-sided view of the language game of transla- tion, one which is based on a view of the linguistic code as a collective entity dealing with combinational rules. In reality, however, this code goes far be- yond such categories as “grammar” and other rule-bound linguistic feature, however comprehensive they may be. In the game of translation, solutions for problems must often be other than grammar-generated and may be the result of non- systematic search in a certain direction. Rule-consistency in decision- making needs to coexist with free discovery if the game of translation is to yield optimal results. Goal-directed heuristics is essential in translation because only this thinking method may produce chance discoveries and intuitive inspi- rations beyond the constraints of grammatical rules. In a heuristic program — based upon Peirce’s abduction8 — humans obtain plausible if not perfect solu- tions without examining all of a (possibly enormous)

mass of relevant information. In this way a problem, translational or otherwi- se, may be solved not by conducting an exhaustive search for a solution but by making use of certain rules of thumb and the various approximations and shor- tcuts that characterize human judgments. It is precisely this aspect of transla- tion which is largely ignored in the game-theoretical consideration of transla- tion, with its emphasis on rational decision-making.

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LA TRADUZIONE E LA SEMIOTICA DEI GIOCHI E DELLE DECISIONI

NOTE INTRODUTTIVE

In teoria della traduzione il termine «traduzione» è usato per indicare sia l’atto del tradurre sia il testo tradotto, frutto di questa operazione o, meglio, di questa sequenza di operazioni. Tradurre è stata considerata tradizionalmente un’attività pratica orientata all’obiettivo, il cui scopo è quello di fornire un risul- tato concreto: la traduzione. Allo stesso tempo c’è una coscienza sempre mag- giore del fatto che tradurre non può venire ridotto al solo prodotto finale, ma che, anzi, è prima di tutto una ricerca, una serie di tentativi per trovare solu- zioni ai problemi. Grazie ai progressi raggiunti nello studio della componente euristica nella traduzione, l’attività che si concentra sul processo, il cui scopo è risolvere i problemi, è andata a completare l’approccio che si focalizza sul pro- dotto della traduzione.

LA TRADUZIONE COME INTERPRETAZIONE DEL SEGNO

Sosterrò anzitutto che la traduzione implica una doppia incidenza della semiosi. L’ermeneutica, almeno nell’accezione tradizionale, rappresenta la pri- ma istanza interpretativa e precede l’interpretazione euristica della traduzione propriamente detta. Seguendo l’intuizione, basata su dati empirici, che la tradu- zione implica un processo semiotico decisionale, postulo che la teoria della tra- duzione e la teoria formale dei giochi possono essere considerati essenzialmen- te dello stesso tipo; ovverosia che la traduzione è, in un certo senso, simile al «gioco a informazione completa» così come lo sono i puzzle o gli scacchi. Ciò che conforta questa ipotesi di lavoro è l’applicabilità pratica degli strumenti concettuali della teoria dei giochi al contesto traduttivo. Non proporrò un mo- dello formale per la traduzione basato sulla teoria dei giochi. Piuttosto vorrei azzardare un’esplorazione per scoprire quello che si potrebbe definire il gioco della traduzione.

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Quindi il primo punto che affronterò è che nella traduzione si può distin- guere una doppia incidenza dell’interpretazione. La prima è di natura ermeneu- tica. Per capire appieno sia il significato (o i significati) superficiale del testo sia quello profondo è necessaria un’explication de texte esauriente che com- prenda anche i riferimenti extralinguistici. Una lettura del testo così attenta, che tiene conto del contesto socio-storico e culturale in cui è inserito e che condi- ziona la sua produzione, fa trasparire il significato, o i significati, possibili. Come George Steiner, teorico della traduzione, sostiene in After Babel [Dopo Babele], «la lettura contestuale è il cuore del processo interpretativo» ed è in sé «un atto molteplice di interpretazione» (Steiner 1975 p.7,20).

Questo primo passo interpretativo compiuto dal traduttore, l’indagine del «mondo interiore» del testo, è seguita da – o alternativa a – una seconda mossa interpretativa che si focalizza sull’esterno. Quest’interpretazione creativa, o ri- produttiva, costituisce la traduzione propriamente detta e consiste nel trasferi- mento vero e proprio del testo dalla lingua di partenza alla lingua d’arrivo. Stei- ner perviene alla stessa conclusione quando enuncia la sua visione della tradu- zione come interpretazione

(…) ci consentirà di superare lo sterile modello triadico che ha do- minato la storia e la teoria della materia. L’eterna distinzione fra la resa verbatim, la parafrasi e l’imitazione libera si dimostra total- mente contingente. Non è precisa e manca di base filosofica (Stei- ner 1975 p. 346)

Considerata in questa prospettiva, l’interpretazione concerne qualsiasi ap- proccio traduttivo, si tratti di traduzione intralinguistica, interlinguistica o in- tersemiotica, cioè i tre «modi per interpretare il segno verbale» di Jakobsón (1959 p. 267).

La doppia occorrenza dell’interpretazione, con il suo orientamento sia ver- so l’interno che verso l’esterno, ricorda il significato e il significante di de Saus- sure. Ma la semiologia saussuriana esclude la referenzialità extralinguistica e

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limita l’interpretazione al paradigma dei segni. Il significante (vale a dire se- gno-veicolo o suono-immagine) e il significato (vale a dire l’immagine mentale o il concetto del significato) si fondono in una relazione binaria basata sulla mutua «solidarietà» o complementarità. Qui il significato di un segno è forte- mente vincolato dalla convenzione. Tuttavia è rimosso due volte: una dall’in- terpretazione convenzionale e una da quella individuale, “arbitraria”. La carat- teristica statica della struttura diadica di de Saussure si concentra sul primo tipo di interpretazione e non rende giustizia al potenziale creativo dell’interpretazio- ne che qui costituisce la parte centrale dell’argomentazione.

Se, d’altra parte, si segue Jakobsón e si adotta la teoria dei segni e dei si- gnificati molteplici elaborata da Peirce, si potrebbe espandere la struttura para- digmatica binaria e opportunamente (re)introdurre l’elemento dinamico fonda- mentale nell’interpretazione e quindi il concetto di traduzione qui esposto. Que- sto elemento dinamico è rappresentato dal concetto peirceiano di interpretante, il terzo termine della relazione triadica segno-oggetto-interpretante. Nella cita- tissima frase di Peirce

Un segno, o representamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità. Si rivolge a qualcuno, cioè, crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Chiamo il segno che crea interpre- tante del primo segno (C.P. p. 2.228, c.1897)

L’interpretante come segno interpretativo di un altro segno implica che l’in- terpretazione un processo generativo di significazione. L’idea che il significato di un segno sempre un altro segno genera una serie infinita di segni interpreta- tivi. Questo processo illimitato di associazione euristica è chiamato, in semioti- ca, semiosi; e la traduzione (cioè qualsiasi processo traduttivo in senso semioti- co) è semiosi perché produce segni interpretativi che, secondo Eco (1979 p.71). «al di là delle regole stabilite da codici, spiega, sviluppa e interpreta il segno dato».

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Ritornando alla definizione di segno sopracitata, può essere ampliata di- cendo «il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quell’oggetto, non in ogni aspetto ma in riferimento di un tipo di idea che ho chiamato a volte base (ground) del representamen» (CP p.2.228, c.1897). Una volta definito l’oggetto in questi termini ovverosia come ciò che è significato e l’interpretante come ciò in cui è interpretato, la molteplicità di diversi interpretanti-segni possibili o tra- duzioni per ciascun segno è a sua volta determinata dalla relazione che il “pri- mo” segno ha con il suo oggetto. Le molteplici modalità di significato sono controbilanciate dalle diverse modalità di astrazione rappresentativa. Per fun- zionare come segno, il segno deve condurre a un’interpretazione. E per avere senso, deve assolutamente inserirsi in un codice o sistema, che Peirce chiama «ground». I segni significano per via della previa conoscenza da parte dell’in- terprete delle regole che sottendono il modo particolare con cui i segni vengono codificati, che a sua volta permette all’interprete di produrre segni interpretanti.

Senza la rappresentazione del segno non è possibile la sua interpretazione. L’interpretazione, la traduzione o qualsiasi altro tipo di semiosi significano, in- fatti, delineare come ground operi nell’uso pratico del segno. Il significato na- sce dall’interpretazione esplorativa dei segni nel loro ambiente naturale: il mondo del contesto in cui gli esseri umani usano segni verbali (e non) per or- ganizzare significativamente (per loro) la realtà che li circonda e, attraverso ciò, padroneggiarla. Questo implica una cornice di riferimento, ovverosia il ground di Peirce, composta sia di una parte esperita sia di una cognitiva.

LA TRADUZIONE, UN GIOCO1

La definizione di semplice puzzle come gioco euristico potrebbe, di primo acchito, giustamente sembrare bizzarra. Tuttavia vale la pena di adottare questo punto di vista perché spiana la strada a un gioco più complesso: il gioco lingui- stico della traduzione. Sosterrò qui che la traduzione può essere considerata un

gioco, paragonabile al puzzle sopra citato2. Eppure nel “gioco” della traduzio- ne l’elemento principale è la Terzità e non la Primità. La traduzione non è sol-

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tanto governata da regole ferree, ma sfida anche l’ingegno e, al contempo, coinvolge processi logici. Il gioco della traduzione sarebbe quindi una versione più intellettuale del puzzle e rappresenterebbe una forma superiore di ginnasti- ca mentale. Il problema della traduzione è presentato in una forma assai meno tangibile e trasportabile del puzzle e comporta quindi un livello superiore di a- strazione così come nel simbolo peirciano, o segno della Terzità.

L’intero linguaggio verbale è prevalentemente simbolico, inteso nel senso della dottrina dei segni di Peirce. «Un simbolo è un segno che si riferisce al- l’oggetto che denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee ge- nerali» (C.P. p.2.249,1903). Laddove l’icona, o segno della Primità, possiede una somiglianza fisica e statica con l’oggetto che evoca, l’associazione tra sim- bolo e il suo oggetto si fonda su un accordo, un consenso. Tra il segno simboli- co e il suo oggetto vi è quindi una distanza dinamica maggiore. Conseguente- mente il simbolo acquista un significato pratico soltanto poiché chi usa il segno (o meglio la comunità di coloro i quali usano il segno) prende decisioni logiche sulla sua estensione e sul suo impiego.

Sia i segni simbolici sia quelli iconici escludono ogni possibilità di somi- glianza tra il segno-veicolo e l’oggetto di riferimento e si fondano su una con- nessione generale, convenzionale e prestabilita che è il loro ground. Ma i sim- boli differiscono dalle icone proprio perché il ground dei primi mette in risalto la differenza mentre quello delle seconde mette in risalto la somiglianza. Ciò che i simboli e le icone hanno in comune è l’idea di replica. Questo concetto è fondamentale sia nel puzzle sia nella traduzione: affinché il significato venga riconosciuto, il simbolico, l’elemento guida nella traduzione basata sul linguag- gio, deve implicare anche l’iconico, l’idea di replica. Non è necessario che que- sta replica sia convenzionale, così come la convenzione non deve essere ne- cessariamente standard ma, in linea con Peirce, può essere contraddistinta o almeno scaturire da una scelta individuale. Così, mentre la referenzialità del puzzle si limita a una replica singola, i giochi linguistici, in quanto basati su segni linguistici, sono essenzialmente attività simboliche, nel senso originario

della parola «simbolo»: «Etimologicamente dovrebbe significare una cosa gettata insieme … Ma, molto spesso, i Greci utilizzavano gettare insieme

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(symballein) intendendo la stipulazione di un contratto o il raggiungimento di una convenzione» (C.P. p.2.297, c.1895)3.

Mentre il puzzle mostra, per così dire, il suo significato, i giochi con la lin- gua non sono altrettanto univoci, non esprimono il loro significato in modo chiaro ma hanno una polisemia insita che deve essere decifrata e interpretata. La simbolicità essenziale del linguaggio garantisce ai segni usati nella lingua una grande mobilità. Questa caratteristica dinamica è quella che permette di di- stinguere il gioco della traduzione da quello del puzzle. Ovviamente, il testo visivo che comunica tutte le informazioni immediatamente e simultaneamente appare trasformato in un’immagine testuale composta da segni linguistici di- sposti in sequenza che il giocatore deve tradurre in un altro codice o modo lin- guistico, senza trasgredire le regole del gioco.

Nella sua forma pura e tradizionale il gioco della traduzione è un gioco di decisioni fatto da una sola persona sulla base di scelte ragionate fondate su re- gole, tra soluzioni alternative. Di solito c’è un unico giocatore, il traduttore, che è impegnato in questa lotta contro la Natura, la sua antagonista impersonale che lo fronteggia nel testo da tradurre, rappresentata nel suo insieme di puzzle. Il giocatore sa che ogni azione porta inevitabilmente a un risultato specifico, mentre l’ordine e la natura della serie di azioni dipendono dalle scelte che sono state prese in precedenza dal giocatore e si basano su di esse. Il gioco dà vita a un intricato schema di interrelazioni, la cui creazione può essere simboleggiata dall’albero del gioco proposto da Luce e Raiffa nel loro Games and Decisions: Introduction and Critical Survey [Giochi e Decisioni: Introduzione e Indagine Critica] (1967) e applicato alla situazione traduttiva a Levý.

La mia argomentazione qui corrisponde in sostanza alla prospettiva teore- tica dell’articolo di Levý Translation as a Decision Process [La traduzione co- me processo decisionale] (1967) nel quale la traduzione è considerata sia dal punto di vista della teoria dei giochi sia da quello semiotico. In questo articolo, tuttavia, Levý si concentra sul problema della traduzione letteraria; e nell’ambito della traduzione quale processo interamente semiotico, ne eviden-

zia la dimensione pragmatica (in linea con la suddivisione di Morris della se- miotica in sintattica, semantica e pragmatica) prestando particolare attenzione

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al giudizio dei lettori, cioè degli interpreti «di secondo grado» (come Peirce sa- rebbe stato tentato di chiamarli). Nel quadro della traduzione come processo decisionale, Levý utilizza grafici chiamati «alberi decisionali». Questi mostra- no come un traduttore onnisciente debba affrontare le decisioni, i nodi e le ra- mificazioni che sorgono durante il processo traduttivo. Il metodo consiste nello scegliere il ramo che conduce al risultato più desiderabile. Una volta scelto un ramo tra una serie di varianti, tutti gli altri vengono automaticamente eliminati e le altre soluzioni per il resto del gioco sono bloccate. Perciò quando si è en- trati in una situazione di gioco cosìcome la traduzione, da un ramo dell’albero decisionale si attivano delle varianti che determinano il percorso verso l’azione appropriata. Ciò significa che tradurre non è diverso da «trovare la strada in un labirinto, […] la prima volta e non, come negli studi sull’apprendimento anima- le, imparare a percorrere il labirinto senza errori» (Taylor 1968 p.509).

A differenza del puzzle, il cui scopo è quello di trovare la soluzione stabili- ta a priori, il gioco della traduzione è un gioco in cui si cerca e si trova “una” soluzione più pertinente possibile con lo scopo del gioco: massimizzare le a- spettative del giocatore in termini di soddisfazione. Nella traduzione è molto difficile che questo scopo venga specificato in termini netti di perdita o di vin- cita, perché in questo gioco solitario non c’è un vero e proprio punteggio. C’è invece la gratificazione del gioco in sé e del suo risultato concreto, misurato in termini di successo o insuccesso. Il traduttore ottiene le conseguenze desiderate se, con le scelte cha ha compiuto, produce una traduzione “equivalente” e for- malmente gradevole; e, per conseguire questo obiettivo, deve evitare di ricorre- re ai tentativi per prova ed errore – sia per quanto riguarda il tempo, sia per quanto riguarda l’energia che viene impiegata – e di adottare una strategia, im- plicita o esplicita, che lo aiuti a risolvere i vari problemi. Poiché questa strate- gia razionale è molto spesso il principio minimax discusso sopra, i traduttori, secondo Levý,

[…] sono contenti di trovare per le loro frasi una forma che, più o meno, esprima tutti i significati necessari e riproduca le scelte stilistiche, tuttavia, dopo ore di sperimentazione e riscrittura, si po-

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trebbe trovare una soluzione migliore […] I traduttori di regola a- dottano una strategia pessimistica, ansiosi di accettare solamente quelle soluzioni il cui “valore” – persino nei casi delle reazioni più sfavorevoli dei loro lettori – non vada sotto un certo limite minimo ammissibile dai loro criteri linguistici ed estetici. (Levý 1967 p. 79)

Sicuramente il traduttore spesso non ha altra scelta che essere soddisfatto della sua prestazione minimax (per esempio perché è impossibile l’analisi esau- stiva delle alternative o perché deve adattare, con la maggiore economia possi- bile, i suoi criteri ai limiti imposti da quel gioco specifico). Ma se si segue una linea simile le scelte del traduttore si riducono alle sue opzioni strategiche che, nella migliore delle ipotesi, sono congetture fortunate sulle proprie capacità.

La sistematizzazione della performance traduttiva che si configura come un procedere a tappe delimitato da regole dà conto soltanto di un aspetto par- ziale del gioco linguistico della traduzione, il quale invece si basa su una con- siderazione del codice linguistico come entità collettiva governata da regole combinatorie. Ma, a ben guardare, questo codice va ben al di là di categorie come la «grammatica» e altre unità linguistiche delimitate da regole, per quan- to estese possano essere. Spesso, nel gioco della traduzione le soluzioni ai pro- blemi devono necessariamente essere altre da quelle generate dalla grammatica e possono essere il risultato di una ricerca non sistematica. Se il gioco della traduzione deve produrre risultati ottimali, il ricorso a regole coerenti nel prendere decisioni deve coesistere con la libera scoperta. L’euristica finalizzata all’obiettivo è di capitale importanza nella traduzione perché solo quest’attitudine mentale può dar luogo a scoperte casuali e ispirazioni intuitive al di là dei limiti delle regole grammaticali. In un programma euristico – basato sull’abduzione di Peirce – si ottengono soluzioni plausibili, se non perfette, sen- za esaminare tutta la massa (eventualmente enorme) di informazioni pertinenti.

In questo modo un problema, traduttivo o di altra natura, può essere risolto non attraverso una ricerca esauriente della soluzione ma facendo uso di alcune re-

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gole a orecchio e delle varie approssimazioni e scorciatoie che caratterizzano i giudizi umani. È proprio questo aspetto della traduzione che viene perlopiù i- gnorato quando si considera la traduzione nell’ambito della teoria dei giochi, che attribuisce tanta importanza alla razionalità delle decisioni.

NOTE

1 È importante sottolineare il fatto che questo paragone non è dovu- to ad alcuna necessità “oggettiva” né ad alcuna verità eterna sulla tra- duzione o sui giochi. Come ci ricorda Toury, «Ogni paragone è per sua natura parziale e indiretto: è sviluppato considerando soltanto certi aspetti condivisi esclusivamente dagli oggetti paragonati, aspetti che non costituiscono che una parte delle loro proprietà totali, ed è fatto con l’aiuto di “concetti intermedi” correlati a questi aspetti e che ser- vono come una base fissa e invariabile del paragone. Questa invariabi- le, e con essa l’intero paragone, dipendono dalla teoria» (Toury 1978 p.93). Dovrebbe essere chiaro che la prospettiva teoretica normale scelta qui è semiotica, basata sulla filosofia del segno. L’analogia tra il concetto di gioco e quello di traduzione non dovrebbe quindi essere spinta fino a ricoprire entrambi, ignorando il carattere che contraddi- stingue le due entità. Sarebbe un errore di ragionamento pretendere, senza ulteriori garanzie, che se condividono alcuni caratteri (come la scelta, le regole, la strategia, e il processo decisionale) ne devono an- che condividere altri, ma ciò non si verifica. Oltre a realizzare i loro caratteri comuni in modi diversi, è anche ovvio che differiscono nella portata teoretica generale così come nell’uso pratico e nella funzionali- tà. Conseguentemente, la tendenza qui ad assimilare la traduzione (u- sata in senso stretto) al (più ampio) concetto di gioco e a riferirsi ai “concetti intermedi” reciproci nasce solo dalla strategia di fornire una fonte di insight creativo, una strategia orientata verso l’incoraggiamen- to a compiere alcuni collegamenti che altrimenti sarebbero impensabi-

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li. Si vedano anche i relativi problemi epistemiologici sollevati in Ja- ckson 1992, in cui viene riscontrata un’analogia tra il concetto di gioco e quello di legge.

2 Le riserve e le note precauzionali della nota 1 sono da applicare, a fortiori, all’analogia tra un gioco particolare, il puzzle, e il “gioco” del- la traduzione (che è, come ribadito nella nota 1, trattato come un gioco per sostenere l’argomentazione qui presentata).

3 Una trattazione più ampia del contratto verrà fatta nel Capitolo 10.

4 Si veda anche Levý 1970. L’attualità della traduzione come metodo per risolvere i problemi e prendere le decisioni è discusso in Wilss (si vedano specialmente i Capitoli 4 e 5).

5 Per una discussione dell’equivalenza nella traduzione si vedano i Capitoli 7 e 9.

6 Per una discussione dell’adduzione perciana si veda il Capitolo 3, in modo particolare la sezione su “Il ragionamento e la logica”.

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1 It is important to underscore that this comparison is not determined by any “objective” necessity, or by any eternal truth about translation or about games. As Toury reminds us: “Every comparison is by nature both partial and indirect: it is carried out regarding certain aspects only common to the objects com- pared, aspects constituting but a part of their total properties, and it is done with the aid of some ‘intermediary concept’ related to these aspects and serving as a fixed, invariant basis for the comparison. This invariant, and with it the comparison as a whole, are theory-dependent” (Toury 1978:93). It should be clear that the common theoretical perspective chosen here is semiotic, sign- philosophical. The analogy between the game concept and translation should, therefore, not be pressed as far as to slide from one to the other, thereby ignor- ing the characters that distinguish both entities. It would be an error of reason- ing to claim, without further warrant, that if they share some characters (such as choice, rules, strategy, and decision-making) they must also share others; they don’t. In addiction to realizing their common characters in different ways, it is also obvious that they differ in general-theoretical scope as well as practi- cal usage and functionality. Accordingly, the tendency here to assimilate trans- lation (here used in the narrow sense) to the (broader) game concept and to re- fer to mutual “intermediary concepts” comes only from the strategy to provide a source of creative insight, a strategy geared towards the goal of encouraging to make some connections one might otherwise not conceive of making. See also the relevant epistemological issue raised in Jackson 1992, in which an analogy is drawn between the concepts of game and law.

2 The cautionary remarks and reservations made in note 1 apply, a fortiori, to

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the analogy between one particular game, and the “game” of translation, (which is, as pointed out in note 1, discussed as a game for the sake of the ar- gument here).

3 More on contract in Chapter 10.

4 See also Levý 1970. The state-of-the-art of translation as problem-solving and decision-making is discussed in Wilss 1988 (see especially Chapters 4 and 5).

5 For a discussion of equivalence in translation, see Chapters 7 and 9.

6 For a discussion of Peirce’s abduction, see Chapter 3, particularly the section on “Reasoning and logic”.

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Dinda L. Gorlée: Goethe’s glosses to translation, tesi di Chiara Dell’Orto Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Dinda L. Gorlée: Goethe’s glosses to translation

Relatore: professor Bruno Osimo

CHIARA DELL’ORTO

Fondazione Milano
Civica Scuola Interpreti e Traduttori

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Diploma in Mediazione linguistica Dicembre 2015

© Dinda L. Gorlée: «Goethe’s glosses to translation» 2012 © Chiara Dell’Orto per l’edizione italiana 2015

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Dinda L. Gorlée: Goethe’s glosses to translation

Abstract in italiano

La presente tesi propone la traduzione dell’articolo Goethe’s glosses to translation di Dinda L. Gorlée, pubblicato sul volume 40, numero 3/4 del Sign Systems Studies, rivista accademica di semiotica. Il testo tradotto affronta sotto vari aspetti il concetto di triadicità, in contrapposizione con quello di dualismo. Semioticamente questo concetto è stato preso in considerazione da Peirce, nella sua triade semiotica di segno-oggetto-interpretante e nelle sue categorie di Primità, Secondità, Terzità. In traduzione, sia Jakobson che Goethe hanno sostenuto l’idea dell’esistenza di tre tipi di traduzione. Goethe ha formulato questa idea durante la stesura del suo West-Östlicher Divan, sorta di traduzione/parafrasi della versione in arabo del Divan di Hāfez. Attraverso le glosse a margine nelle Noten und Abhandlungen e nei Paralipomena, Goethe ha inoltre cercato di giustificare la libertà presasi nel tradurre e nel ricreare una nuova versione dell’opera persiana.

English abstract

The document proposes the Italian translation of the article Goethe’s glosses to translation by Dinda L. Gorlée, published on Sign Systems Studies. The article deals with the notion of triadicity, as opposed to that of duality. Semiotically, this concept was considered by Peirce in his semiotic sign-object- interpretant triad and in his threefold categories of Firstness, Secondness and Thirdness. In translation, both Jakobson and Goethe supported the idea of the existence of three types of translation. Goethe had this idea writing his West-Östlicher Divan, his personal translation/paraphrase of the Arabic version of Hafiz’ Divan. Through the marginal glosses in Noten und Abhandlungen and Paralipomena, Goethe also tried to justify the liberties he took when translating and recreating a new version of the Persian work.

Zusammenfassung

Diese Diplomarbeit schlägt die italienische Übersetzung des Artikels Goethe’s glosses to translation von Dinda L. Gorlée vor, der im Band 40 Nummer 3/4 der akademischen Zeitschrift von Semiotik Sign Systems Studies veröffentlicht wurde. Der Artikel befasst sich unter verschiedenen Aspekten mit dem Konzept der Triadizität im Gegensatz zu der Dualität. Semiotisch wurde dieses Konzept von Peirce in seiner semiotischen Triade Zeichen-Objekt- Interpretant und seine dreifachen Kategorien Erstheit, Zweitheit und Drittheit in Erwägung gezogen. Im Bereich der Übersetzung unterstutzten sowohl Jakobson als auch Goethe die Idee der Existenz von drei Arten Übersetzung. Goethe hatte diese Idee während des Schreibens seines West-östlichen Divan, eine Art Übersetzung/Paraphrase der arabischen Version des Hafis‘ Diwans. Durch die Randglossen in Noten und Abhandlungen und Paralipomena Goethe versuchte auch zu rechtfertigen die Freiheit, die er sich bei der Übersetzung und Wiederschaffung einer neuen Version des persischen Werkes genommen hatte.

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1 PREFAZIONE…………………………………………………………………………………………………………………………………..5

1.1 Introduzione al testo …………………………………………………………………………………………………………………………………………..5 1.2 Scelte traduttive…………………………………………………………………………………………………………………………………………………6 2 TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE …………………………………………………………………………………………………. 7

3 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI……………………………………………………………………………………………………………50

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1.1 Introduzione al testo

1 PREFAZIONE

La presente tesi ha come oggetto la traduzione dell’articolo Goethe’s glosses to translation di Dinda L. Gorlée, pubblicato nel 2012 su Sign Systems Studies 40(3/4). L’autrice, ricercatrice olandese di semiotica e traduzione, è a capo di un ufficio di traduzione giuridica multilingue all’Aja. Collabora inoltre con l’università norvegese di Bergen agli Archivi Wittgenstein e con quella di Helsinki presso il dipartimento di ricerche traduttologiche. L’articolo tratta principalmente di semiotica, traduzione e mediazione culturale, citando vari nomi di personaggi importanti e famosi nei rispettivi campi. Partendo dalla sua esperienza e dalle amicizie “semiotiche” che l’hanno indirizzata verso quel percorso di studi, l’autrice parla di come nel corso degli anni l’approccio e l’atteggiamento del traduttore verso la traduzione siano cambiati. Da un approccio duale o diadico, che è stato per molto tempo quello convenzionale e che ha dominato l’intero mondo della traduttologia fino a mezzo secolo fa, si è passati a considerare maggiormente un approccio triadico. Quest’ultimo, orientato verso la dottrina, anch’essa triadica, dei segni semiotici di Peirce, ha generato il nuovo metodo traduttivo: la semiotraduzione. Basandosi su questo nuovo metodo di pensiero progressivo, Goethe ha individuato, così come Jakobson, tre tipi di traduzione. La sostanziale differenza tra i due sta nel fatto che Goethe ha valutato i tre gradi di corrispondenza possibile tra prototesto e metatesto, mentre Jakobson, con i suoi tre tipi di traduzione (intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica), ha dato per scontata la mancanza di equivalenza. I tre tipi di traduzione goethiani, da lui chiamati anche «epoche», possono essere così definiti: traduzione linearmente prosaica, parodistica e identica all’originale. Nel primo tipo si assiste a una Verdeutschung (termine coniato da Schleiermacher), una “germanificazione”, in cui il prototesto scompare e la traduzione risulta così una versione completamente germanizzata. Secondo Goethe una prosa lineare è la scelta migliore per questo primo tipo. Il secondo tipo presenta il dualismo domesticazione-straniamento, ovvero la Verfremdung. La traduzione perde la sua

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attenzione filologica per il prototesto e si assiste a una riformulazione. Il terzo e ultimo tipo è quello più elevato e più difficoltoso da mettere in pratica, poiché il traduttore perde la sua identità nazionale, adattandola al gusto estetico della massa. La traduzione è identica all’originale sia nel significato che nei procedimenti ritmici, metrici e retorici. Goethe ha formulato quest’idea dell’esistenza di tre tipi di traduzione nelle glosse a margine del suo West-östlicher Divan, rieditate nelle Noten und Abhandlungen e nei Paralipomena. Il West-östlicher Divan, versione personale goethiana in tedesco del Divan persiano di Hāfez, scritto in caratteri arabi, è la dimostrazione sia dell’applicazione del concetto e dell’approccio triadico alla traduzione da parte di Goethe, sia dell’erudizione propria di Goethe (la conoscenza della lingua araba non era cosa comune a quel tempo e, a onor del vero, nemmeno oggigiorno) e della mediazione culturale tra oriente e occidente, uno degli scopi fondamentali di quest’opera.

1.2 Scelte traduttive

Quando è stato possibile reperire la fonte (dal sito ufficiale del Deutsches Textarchiv), le citazioni presenti nel testo di autori tedeschi (Goethe e Eckermann) sono state tradotte direttamente dall’originale.

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2 TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

Friendship

Amicizia

When I find myself recollecting some instances of meeting Juri Lotman, I vividly remember the turmoil between East and West, making us captive of the political history and alienizing all personal contact. Lotman’s effective appeal to my invitation to become, together with Thomas A. Sebeok, key speakers of the First Congress of the Norwegian Association of Semiotics in Bergen (1989), became a semiotic extravaganza, unforgettable for all present. Translation was a crucial issue, but it seemed to work between semiotic friends. Sebeok addressed Lotman “mostly in German, with snatches of French, interspersed by his shaky English and my faltering Russian” (Sebeok 2001: 167). During one of the events of the congress, Lotman whispered to me in French, as I guess, that translation was on the program in the semiotic school in Tartu. I thought that the brief remark was a smart anecdote, but I had misunderstood Lotman’s cryptic words, alas!

Quando mi trovo a pensare ad alcune volte in cui incontrai Juri Lotman, ripercorro vividamente l’atmosfera di confusione tra Est e Ovest che ci rendeva prigionieri della storia politica e ci isolava da tutti i nostri contatti personali. L’efficace appello di Lotman al mio invito a diventare con Thomas A. Sebeok oratore principale del Primo Congresso della Norwegian Association of Semiotics a Bergen (1989) diventò uno stravagante spettacolo semiotico, indimenticabile per tutti i presenti. La traduzione era un tema cruciale, ma sembrava di lavorare tra amici semiotici. Sebeok si rivolgeva a Lotman “perlopiù in tedesco, con frammenti in francese, inframezzati dal suo inglese precario e dal mio russo zoppicante” (Sebeok 2001: 167). Nel corso di un evento durante il congresso, Lotman mi sussurrò in francese che, come credo di aver capito, la traduzione era nel programma della scuola semiotica di Tartu. Pensai che quel commento fosse soltanto un brillante aneddoto, ma aimè avevo frainteso le parole criptiche di Lotman.

The semiotic approach to translation – semiotranslation – had for many years been my lonely adventure. To write the methodology of Charles Peirce’s semiotics in a doctoral dissertation was against the

L’approccio semiotico alla traduzione – semiotraduzione – è stato per molti anni la mia avventura solitaria. Scrivere una tesi di dottorato sulla metodologia semiotica di Charles Peirce andava contro il volere

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opinion of my university superiors, so I worked on the enterprise alone. Later, under the inspiration of Sebeok, Peircean translation had turned into my “mono-mania”. In October 1999, if I remember well, I met for the first time Peeter Torop during the 7th International Congressof the International Association for Semiotic Studies in Dresden. Immediately, we became friends, although we had in the beginning no real language in common, but needed to communicate through half-words, body movements, and gesture. We have stayed honest friend until today (and hopefully tomorrow). My words of friendship are a simple yet affectionate statement but, in a time of professional wilderness, I fully realize that having a real friend overcomes our active busyness to trust in the truth and luxury of the language of friendship.

dei miei docenti universitari. Decisi così di intraprendere il cammino da sola. Successivamente, ispirata da Sebeok, la traduzione peirceiana diventò la mia monomania. Nell’ottobre del 1999, se mi ricordo bene, incontrai per la prima volta Peeter Torop durante il Settimo Congresso Internazionale della International Association for Semiotic Studies a Dresda. Siamo diventati subito amici nonostante all’inizio non avessimo alcuna lingua in comune e quindi comunicassimo con mezze parole, movimenti del corpo e gesti. Siamo rimasti buoni amici fino a oggi (e spero lo saremo anche domani). Le mie parole d’amicizia sono una dichiarazione semplice ma affettuosa, tuttavia, in un’epoca di aridità professionale, mi sono resa pienamente conto che avere un vero amico ci fa superare le difficoltà contingenti e confidare nella verità e nel lusso del linguaggio dell’amicizia.

Lotman’s hidden and secret words were realized in the friendship between Peeter and myself. A friendship between two semiotic translation theoreticians exists in our case to challenge the “old” rules of linguistic translatology into producing a new semiotic theory about the plural and manifold activity of making sense of a source text into a target text. Translatology – translating (process) and translation (product) – starts from the original, Romantic unity of the ego

L’amicizia tra me e Peeter era incentrata sulle parole segrete e nascoste di Lotman. L’amicizia tra due teorici della semiotraduzione esiste nel nostro caso per sfidare le “vecchie” leggi della traduttologia linguistica e produrre una nuova teoria semiotica che riguarda la plurale e molteplice attività del ricavare il senso di un prototesto in un metatesto. La traduttologia – il tradurre (processo) e la traduzione (prodotto) – parte dall’originale – l’unità romantica dell’Io alita la

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breathing his or her individual fashion of translation traversing the fixed and normative unity of language-and-grammar, but the perspective has now changed into the revolutionary advance of the plurality of the translator’s signatures. Translating (process) and translation (product) create a living and radical form of Roman Jakobson’s transmutation, inside and outside the source text, producing new target reactions of the “chaotic” symbiosis of language- and-culture.

propria modalità individuale di traduzione attraverso l’unità fissa e normativa di lingua e grammatica – ma la prospettiva ora è cambiata, con la rivoluzionaria pluralità delle firme del traduttore. Il tradurre (processo) e la traduzione (prodotto) creano una nuova forma vivente e radicale della trasmutazione di Roman Jakobson, dentro e fuori il prototesto, scatenando così nuove metareazioni della simbiosi “caotica” dell’insieme di lingua e cultura.

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), the Romantic poet- dramatist-novelist-philosopher and scientist (anatomy, botany) of German culture, came close to defining the modern version of translatology. In his days, he saw translation – including annotation, retranslation, and even lexicography – of a literary work in the German language as a means of performing a vital service for particularly classical literature. Goethe introduced the concept of world literature , building and mediating the cultural and political identity of the German princedoms into one national home (Venuti 1998: 77-78). However, at

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), poeta, drammaturgo, romanziere, filosofo e scienziato (anatomia, botanica) del romanticismo tedesco, arrivò quasi a definire la versione moderna di traduttologia. Considerava la traduzione di un’opera letteraria in lingua tedesca – compresa di annotazioni, ritraduzione e perfino lessicografia – un mezzo atto a rendere un servizio vitale per la letteratura, soprattutto per quella classica. Goethe introdusse il concetto di letteratura mondiale, costruendo e fondendo l’identità politica e culturale dei principati tedeschi in una patria nazionale (Venuti 1998: 77-78).

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informal kinds of causeries with his younger secretary Johann Peter Eckermann (1792-1854)1 – indeed, early forms of “interviews” occurring in Goethe’s study of the Weimar Palais, during dinner, in the library, in the garden, or taking walks together – Goethe interpreted as “translator” of his own experiences, the similarity between botanical

Comunque, durante causeries informali con il suo giovane segretario Johann Peter Eckermann (1792-1854) – in realtà erano “interviste” ante litteram che si verificavano nello studio di Goethe nel Palais di Weimar, a cena, in biblioteca, in giardino o facendo una passeggiata insieme – Goethe interpretò come traduttore delle proprie esperienze, la

1 This footnote is an informal excursus to punctuate formally the acute angle to understand the two ways of Goethe’s work in formal and informal writings, as argued here separately and in mediation. Semiotically, both reflect knowledge and metaknowledge, unfolding in the formation of reasoning in Peirce’s three categories: argumentative deduction, experimental induction, and hypothetical abduction reflect the two concepts of formality and informality, that are not separate but interactive in whole and parts. The formal mind is the pure cognition of semiosis (logical Thirdness, with nuances of Secondness and Firstness) and the informal mind is the degenerate pseudo-semiosis (real or fictional Secondness, with nuances of Firstness and Thirdness). In literary genres, Peirce’s categories represent description, narration, and dissertation. Formal works are the flow of text-oriented thought-signs, to have essentially one interpretation, whereas informal works embody culture-oriented “factors – the bodily states and external conditions – and these interrupt logical thought and fact” (Esposito 1980: 112). The informal stories are the picaresque variety of narrative genres. The flow of episodes, plots, anecdotes, and other impressionistic and causal narrations can embrace many meanings, even ambiguous and contradictory senses.

In Lotman’s cultural semiosis, the “constant flux” (1990: 151) of knowledge and metaknowledge throws light on the dialogic interaction of different human semiospheres (1990: 125ff.). The structural boundaries of formal cultural (moral, ethical, ideological) space may be crossed by all kinds of informal human (self-) expressions reflecting various cultures. In literary language, the crosswise dialog between formal and informal codesdemonstrates how and when human cultures (and subcultures) move away from domestic codes to shift to adopting new and strange codes. Lotman exchanges the formal “stereotype-images” into the informal image of what is described as “the unknown Dostoevsky” or “Goethe as he really was” to give a “true understanding” of literary personalities and their works (1990: 137). See also metaknowledge in the encyclopedic information of Sebeok (1986: 1: 529–534) and Greimas (1982: 188–190, 192).

Goethe’s formal attitude about literary translation will focus on his creative translation of his West-ostlicher Divan. His informal view will be argued about his own self-explanatory notes, explaining the complexities of his German translation of the Arabic verse. In this article, Goethe’s informal attitude about literary translation will be discussed: firstly, in the editor’s “table-talk literature” (1946: viii) of Goethe’s Conversations with Eckermann, and secondly, Goethe’s self- explanatory notes, explaining the German translation of his Divan verse. The latter, the Divan and the notes, shows the difference between Lotman’s terms of “central and peripheral spheres of culture” (1990: 162). The Divan is “the central sphere of culture … constructed on the principle of an integrated structural whole, like a sentence”, whereas the notes are “the peripheral sphere … organized like a cumulative chain organized by the simple joining of structurally independent texts” (Lotman 1990: 162). Lotman adds that “This organization best corresponds to the function of these texts: of the first to be a structural model of the world and of the second to be a special archive of anomalies” (Lotman 1990: 162).

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form, shape, or pattern to:

somiglianza tra forma botanica, struttura o modello di:

[…] a green plant shooting up from its root, thrusting forth strong green leaves from the sturdy stem, and at least terminating in a flower. The flower is unexpected and startling, but come it must – nay, the whole foliage has existed only for the sake of that flower […]. This is the ideal – this is the flower. The green foliage of the extremely real introduction is only there for the sake of this ideal, and only worth anything on account of it. For what is the real in itself? We take delight in it when it is represented with truth – nay, it may give us a clearer knowledge of certain things; but the proper gain to our higher nature lies alone in the ideal, which proceeds from the heart of the poet. (Eckermann 1946: 155; see 327)

[…] una pianta verde che germoglia dalle radici, il cui robusto stelo da vita a verdi e vigorose foglie ai lati e termina, infine, con un fiore. – Il fiore era inaspettato e sorprendente ma doveva venire; sì, il verde fogliame era lì solo per lui […]. Questo è l’ideale, questo è il fiore. Il verde fogliame della più che reale esposizione è lì solo per questo ideale e vale qualcosa soltanto in sua virtù. Ma che cos’è il reale in sé? Ci rallegriamo quando viene rappresentato con verità, sì, può anche darci una conoscenza più ampia di certe cose; ma la vera vittoria per la nostra natura superiore risiede ancora soltanto nell’ideale, che emerge dal cuore del poeta. (Eckermann 1836: Bd.1, 302)

Goethe’s footnotes to the phenomenon of translation explained the organic form of translation, attaining the long-cultivated ambition to blossom and fruit. Anticipating the idea of intersemiotic translation, Goethe’s approach seemed in some ways to anticipate biosemiotics. Indeed, the wilderness of the thistle path – shooting up from the wild rhizomes, thrusting forth thorny weeds with sharp spines and prickly margins – comes alive in the nomadic wanderings into the translator’s semiosis or pseudo-semiosis (Kull, Torop 2003, Gorlée 2004a). As a warning against the business of “a thousand hindrances” of translation, Goethe’s proverb said “one must not expect grapes from thorns, or figs from thistles […]” (Eckermann 1946: 385, 199). After his botanical analogy, Goethe added in spirited inspiration: “The like has often

Le note a piè pagina di Goethe sul fenomeno della traduzione spiegavano la forma organica della traduzione, realizzando l’ambizione, a lungo coltivata, di fiorire e dare frutti. Anticipando l’idea di traduzione intersemiotica, l’approccio di Goethe sembrava in qualche modo anticipare anche l’idea di biosemiotica. In effetti il deserto del sentiero dei cardi – che germogliano dai rizomi selvatici, facendo crescere foglie spinose con spine aguzze e margini setolosi – prende vita nei nomadi vagabondaggi della semiosi o pseudosemiosi del traduttore (Kull, Torop 2003, Gorlée 2004a). Come un avvertimento rispetto all’impresa dei “mille ostacoli” della traduzione, un proverbio di Goethe recitava “non bisogna aspettarsi l’uva dalle spine né i fichi dai rovi […]” (Eckermann 1848: Bd.3, 158). Dopo la sua analogia botanica

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happened to me in life; and such cases led to a belief in a higher influence, in something daemonic, which we adore without trying to explain further” (Eckermann 1946: 385). Friendship, I guess.

Goethe aggiunse, brillantemente ispirato: “Mi è spesso successo qualcosa di simile nella vita; e casi del genere portano a credere in un influenza superiore, qualcosa di demoniaco, che noi adoriamo senza cercare di spiegare ulteriormente” (Eckermann 1848: Bd.3, 158). L’amicizia, credo.

Semiotranslation

Semiotraduzione

The conventional view of translation is the dual (or dyadic) approach that has tended to predominate the whole of translation studies. This comprehensive theory of translation studies was used as a systematic guideline and, semiotically, was based on the twofold concepts of Ferdinand de Saussure’s language theory – signifier and signified, langue and parole, denotation and connotation, matter and form, sound and meaning, as well as synchrony and diachrony. The semiologically oriented language theory was in agreement with Saussure’s system of contrastive terms, while the dual dichotomies produced, for example, Hjelmslev’s expression and content, form and substance, and Jakobson’s code and message, selection and combination, metaphor and metonymy, whole and details. However Sebeok’s inner and outer, vocal and nonvocal, verbal and nonverbal,

L’approccio convenzionale alla traduzione è quello duale (o diadico) che ha dominato l’intera traduttologia. Questa teoria completa della traduzione fu usata come linea guida sistematica e, semioticamente, era basata sui duplici concetti della teoria del linguaggio di Ferdinand de Saussure – signifiant e signifié, langue e parole, denotazione e connotazione, sostanza e forma, suono e significato, così come sincronia e diacronia. La teoria del linguaggio orientata semiologicamente concordava con il sistema dei termini contrastivi di Saussure, mentre le dicotomie creavano, per esempio, espressione e contenuto, forma e sostanza di Hjelmslev, codice e messaggio, selezione e combinazione, metafora e metonimia, insieme e particolari di Jakobson. Tuttavia, per quanto riguarda interno ed esterno, vocale e nonvocale, verbale e nonverbale, segni e sistemi segnici linguistici e

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linguistic and nonlinguistic sign and sign systems, as well as Lotman’s primary and secondary modelling systems, internal and external communication, closed and open cultures, cultural center and periphery, tended not towards Saussure’s contrastive oppositions, but reflect a continuum, echoing relational structure of evolutionary progress. They grasp aspects of dynamic modes of expression, as found in Peirce’s threefold (or triadic) doctrine of semiotic signs.

nonlinguistici di Sebeok, così come i sistemi di modellizzazione primaria e secondaria, la comunicazione interna ed esterna, le culture aperte e chiuse, il centro e la periferia della cultura di Lotman, non sono orientati verso le opposizioni contrastive di Saussure, ma riflettono un continuum, riecheggiando la struttura relazionale del progresso evolutivo. Essi colgono modalità espressive dinamiche, come quelle presenti nella triplice (o triadica) dottrina dei segni semiotici di Peirce.

Within the threefold categories, the two-step model of translation studies of the linguistic (or multilingual) relation between the production and the producer, or the producing activity and reproductive activity, loses the primary importance. So does the ideal of perfect equivalence produced in the target language stand for the “same” place in the source language. The “old” model of classical equivalence has produced the paradigm of evaluating in the lines of the argument a yes/no response. The dual explanation judges translation according to the dual dichotomies of language: translation studies and translation practice, translation process and translation product, translatability and untranslatability, prescriptive (normative) and descriptive translation, co-textual and contextual translations, as well as source-oriented and target-oriented translations, faithful and

Nell’ambito delle tre categorie, il modello traduttologico diadico della relazione linguistica (o multilingue) tra produzione e produttore, o attività produttiva riproduttiva, perde la sua importanza primaria. Così l’ideale di equivalenza perfetta prodotta nella lingua ricevente sta per lo “stesso” posto nella lingua emittente. Il modello “vecchio” dell’equivalenza classica ha prodotto una valutazione sì/no sul piano dell’argomento. La spiegazione diadica giudica la traduzione in accordo con le dicotomie diadiche del linguaggio: traduttologia e pratica della traduzione, processo traduttivo e prodotto, traducibilità e intraducibilità, traduttologia prescrittiva (normativa) e descrittiva, traduzioni cotestuali e contestuali, così come traduzioni orientate verso il prototesto e verso il metatesto, traduzione libera e fedele, traduzione linguistica e artistica, traduzione naturalizzante e estraniante,

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free translation, linguistic and artistic translation, naturalizing and alienating translation, exotization and acculturation of translations, historization and actualization (assimilation) of translations, accuracy and receptibility of translations, and many others emanating from semiological (structuralist) approaches to translation studies (Greimas 1982: 351-352).

esotizzazione e acculturazione delle traduzioni, storicizzazione e attualizzazione (assimilazione) delle traduzioni, accuratezza e recettibilità delle traduzioni e molte altre che provengono da approcci semiologici (strutturalisti) alla traduttologia (Greimas 1982: 351-352).

Semiotranslation is the “new” methodology, characterized as Peirce’s doctrine of detecting and analyzing signs as a “progressive” thinking method, different from Saussure. Hijacked by Peirce, as my situation was, away from the camp of Saussure, the outlook of translation studies and the translation of meaning was based on the division and subdivision of the framework of Peirce’s logical terms. The semiotic sign or representamen, object, and interpretant, divided into various threeway elements, correspond to Peirce’s categories of Firstness, Secondness, Thirdness. The threeway elements are not separate but interact with each other in semiosis, when possible. Translators, as human interpreters, work with pseudo-semiosis or Peirce’s degenerate semiosis (Gorlée 1990; see fn. 1), as argued here. Semiotranslation channels a dynamic network of Peircean interpretant- signs, considered as artificial “sign-things” which are still alive, and thus

La dottrina peirceiana consistente nell’individuare e analizzare i segni come metodo di pensiero “progressivo”, diverso da Saussure, genera il metodo “nuovo”, la semiotraduzione. Le prospettive della traduttologia – peirceianamente dirottata, come la mia situazione, lontano dal campo di Saussure – e della traduzione del significato erano basate sulla divisione e suddivisione della struttura dei termini logici di Peirce. Il segno semiotico o representamen, l’oggetto e l’interpretante, divisi in vari elementi triadici, corrispondono alle categorie peirceiane di Primità, Secondità e Terzità. Gli elementi triadici non sono separati ma, quando possibile, interagiscono tra loro semioticamente. Come argomento qua, i traduttori, in qualità di interpreti umani, lavorano con la pseudosemiosi o con la semiosi degenerata di Peirce (Gorlée 1990; vedi nota 1). La semiotraduzione crea una rete dinamica di segni-interpretanti di Peirce, considerati

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progressively growing in time. A translation is a (re)creative work by a translator (or various translators), going through successive moods, aspects, and phases of the never-ending acts of translation. Simplifying the complex tasks of the translator, the vague and impromptu translations, made by so-called “bad” translators bringing in unintegrated and illogical impressions, could under the fortunate circumstances of “good” translators grow to become clear translations, giving higher determined and logical features – or performing any interpretant-messages whatsoever between “good” and “bad” (Gorlée 2004a: 167, 2004b) in what can be called intermediate types.

“segni-cose” artificiali, che sono tutt’ora vivi e crescono progressivamente nel tempo. Una traduzione è un lavoro (ri)creativo di uno o più traduttori che passa via via attraverso diversi stati d’animo, aspetti e fasi di atti traduttivi interminabili. Semplificando i compiti complessi del traduttore, le traduzioni vaghe e improvvisate, eseguite dai cosiddetti traduttori “cattivi” che mettono insieme impressioni nonintegrate e illogiche, potrebbero, nelle mani di traduttori “buoni”, crescere e diventare traduzioni chiare, con migliori caratteristiche logiche e determinate – o produrre messaggi-interpretanti a metà strada tra “buono” e “cattivo” (Gorlée 2004a: 167, 2004b) in quelli che possono essere chiamati tipi intermedi.

Peirce’s mental activity of threeway subdivision had the cultural flavor of detecting all kind of signs and nonsigns, analyzing both linguistic and nonlinguistic (graphical, acoustic, optical and other) messages (see Sebeok 1985) interplaying with each other in the outer and inner speech expressed in the sensation, emotion, and attention of the new media. Between Saussure – in agreement with Nida’s formal and dynamic equivalence (1964) – but tending toward Peirce, Jakobson’s three types of translation (1959) gave widening significances to the traditional concept of translation, defined as: (1)

L’attività mentale delle suddivisioni triadiche peirceiane aveva il gusto culturale dell’individuare tutti i tipi di segni e nonsegni, analizzando sia i messaggi linguistici che nonlinguistici (grafici, acustici, ottici e altri) (vedi Sebeok 1985) che interagivano l’uno con l’altro nel discorso interno ed esterno espresso nella sensazione, emozione e nell’attenzione dei nuovi media. Nel contesto Saussuriano – in accordo con l’equivalenza formale e dinamica di Nida (1964) – ma tendendo verso Peirce, i tre tipi di traduzione di Jakobson (1959) resero più significativa la concezione tradizionale di traduzione, definendola

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Intralingual translation or rewording is an interpretation of verbal signs by means of other signs of the same language, (2) Interlingual translation or translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language, and (3) Intersemiotic translation or transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems. (Jakobson 1959: 233)

come: (1) la traduzione intralinguistica o riformulazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni verbali della stessa lingua, (2) la traduzione interlinguistica o traduzione propriamente detta è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di un’altra lingua e (3) la traduzione intersemiotica o transmutazione è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni provenienti da sistemi segnici nonverbali. (Jakobson 1959: 233)

Jakobson’s threefold division of translations gives the translational concept new and extralinguistic horizons beyond merely the accurate “rewording” and less accurate “translation proper” to the free and unbounded “transmutation” (Gorlée 1994: 156ff.). The wider phenomenon, including an “unconventional” repertoire of extensive forms of translations, was either supported or rejected, by purely linguistic translation theoreticians, as being non-empirical and “radical”. Jakobson’s On linguistic aspects of translation (1959) is now included in The Translation Studies Reader (Venuti 2004: 138-143), but in this recent manual of translation studies, semiotics is not (yet) mentioned as a methodology of translation studies2.

I tre tipi di traduzione di Jakobson aprono orizzonti nuovi ed extralinguistici al concetto traduttivo che vanno semplicemente oltre la “riformulazione”, più precisa, la “traduzione propriamente detta”, meno precisa, spingendosi fino alla “transmutazione”, libera e senza limiti (Gorlée 1994: 156 e seguenti). Il fenomeno allargato, che comprende anche un repertorio “non convenzionale” di forme estensive di traduzione, fu sia supportato che rifiutato da teorici della traduzione a impostazione rigidamente lessicale, poiché considerato non empirico e “radicale”. Il saggio On linguistic aspects of translation (1959) di Jakobson fa ora parte del recente manuale The Translation Studies Reader (Venuti 2004: 138-143), nel quale però la semiotica non

2 Jakobson’s cardinal functions of language can be pairwise attached or matched to the triad of Peirce’s categories, though they are not identical to them and their correlation is interactive and may vary upwards and downwards with the communicational instances and textual network (Gorlée 2008).

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è (ancora) menzionata come metodo traduttologico.

The criticism of semiology (in the French tradition: structuralism) and its symbiosis with translation studies may be summarized in the following three points: (1) the linguistic imperialism, in which a linguistic model can be applied to nonlinguistic objects in a metaphorical replacement, without doing justice to the nature of the nonlinguistic objects, (2) semiology is basically the study of signifiers, and does not ask what signs mean but how they mean, the object that refers to the sign; meaning become wholly a sign-internal affair, while Peirce’s interpretant-sign falls outside the sign and is not studied and not described, and finally (3) binarism, the division into a priori dual oppositions is presented as the instrument for exhaustive analysis, claiming to lead to objective, scientific conclusions; without analyzing the meaningful aspects of language and culture, time and space of the dynamic idea-potentiality of the sign in the human mind, that is identified and translated into the interpretant-sign (see Savan 1987- 1988: 15-72).

La critica della semiologia (secondo la tradizione francese <<strutturalismo>>) e la sua simbiosi con la traduttologia possono essere riassunte nei seguenti tre punti: (1) l’imperialismo linguistico, in cui un modello linguistico può essere applicato a oggetti nonlinguistici in una sostituzione metaforica, senza rendere giustizia alla natura degli oggetti nonlinguistici, (2) la semiologia è fondamentalmente lo studio dei signifiant e non si chiede che cosa significano i segni, ma come significano, l’oggetto che fa riferimento al segno; il significato diventa un affare totalmente interno al segno, mentre il segno-interpretante peirceiano è esterno al segno, non viene studiato e nemmeno descritto e infine (3) il binarismo, la divisione in opposizioni duali a priori, è presentata come lo strumento per un’analisi esaustiva, con la pretesa di condurre a conclusioni scientifiche e oggettive; senza analizzare gli importanti aspetti di lingua e cultura, tempo e spazio dell’idea- potenzialità dinamica del segno nella mente umana, che viene identificata e tradotta nel segno-interpretante (vedi Savan 1987-1988: 15-72).

Peirce’s semiotics argues that any scientific inquiry is best conceived as a dynamic truth-searching process, that is goal-directed

La semiotica di Peirce sostiene che qualsiasi indagine scientifica è concepita come un processo dinamico di ricerca della verità, orientato

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(teleological) but with no fixed results, no fixed methods, no fixed redefinitions, and no fixed agents. All results, methods, and agents are temporary habits, which are repeatable and nonrepeatable patterns of behavior. The same is also true for interpretative translation – or semiotranslation. Peirce’s idea dramatically changes the whole traditional approach, that as argued concentrates heavily on the basically unverifiable dichotomies labeled as a dogmatic form of dual expression. Semiotranslation offers answers of an evolutionary and sceptical nature about the possibility (or impossibility) of translatability and untranslatability, equivalence and fidelity/infidelity, the function and role of intelligence, will, and emotion of the translator’s fallabilistic mind, translation and retranslation, the fate of the source text, the destiny of the target text, and other semiotic questions.

verso un obiettivo (teleologico) ma senza risultati fissi, metodi fissi, ridefinizioni fisse, né agenti fissi. Tutti, sia risultati che metodi e agenti sono abitudini temporanee, pattern ripetibili e non ripetibili di comportamento. Lo stesso si può dire per la traduzione interpretativa – o semiotraduzione. L’idea di Peirce cambia drasticamente l’intero approccio tradizionale che, come sostenuto, si concentra perlopiù su dicotomie sostanzialmente non verificabili, etichettate come forma dogmatica di espressione duale. La semiotraduzione offre risposte di natura evolutiva e scettica alla possibilità (o impossibilità) di traducibilità o intraducibilità, equivalenza e fedeltà/infedeltà, alla funzione e al ruolo dell’intelligenza, della volontà e dell’emozione della mente fallibile del traduttore, della traduzione e ritraduzione, del fato del prototesto e del destino del metatesto e altre questioni semiotiche.

Sebeok’s encouragement deepened my interest in Peirce’s semiotics, but it dawned on me that Jakobson’s organic concept of translation adhered a unified whole in Lotman’s semiotic theory of culture. The natural inclination to visualize translation from Peirce’s logics was capitalized in Lotman’s universe of translation that joined

L’incoraggiamento di Sebeok ha reso più profondo il mio interesse per la semiotica peirceiana, ma mi sono resa conto che il concetto organico di traduzione di Jakobson aderiva in toto alla teoria semiotica della cultura di Lotman. La naturale inclinazione a visualizzare la traduzione dalla logica peirceiana è stata valorizzata nell’universo della

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language and culture into what I called the concept of linguïculture (Anderson and Gorlée 2011).3 The expansive system of semiotranslation includes culture and becomes linguïculture, grown and developed in Peeter Torop’s concept of total translation (in 1995, in Russian, with following publications), celebrated in the seminar Culture in Mediation: Total Translation, Complementary Perspectives (2010) in his honor. Torop’s linguïculture and his semiotranslation are actively involved in reaching the ultimate goal of Jakobson’s intersemiotic translation transferred to the forms and shapes of interartistic and interorganic transmutation.

traduzione lotmaniano, che ha unito lingua e cultura in ciò che ho chiamato linguïculture (Anderson e Gorlée 2011). L’ampio sistema della semiotraduzione comprende la cultura e diventa linguïculture, maturata e sviluppata nel concetto di traduzione totale di Peeter Torop (nel 1995, in russo, e successivamente tradotto), celebrata in suo onore nel seminario Culture in Mediation: Total Translation, Complementary Perspectives (2010). La linguïculture di Torop e la sua semiotraduzione sono attivamente coinvolte nel raggiungere l’obiettivo finale della traduzione intersemiotica di Jakobson, trasmessa alle forme e alle figure della transmutazione interartistica e interorganica.

Returning to humanist Goethe, long ago he visualized intersemiotics in the conversational approach to Eckermann, stating that:

Ritornando all’umanista Goethe, tempo fa egli si immaginò l’intersemiotica nell’approccio conversazionale con Eckermann, affermando che:

The plant goes from knot to knot, closing at last with the flower and

La pianta va da nodo a nodo, terminando infine con il fiore e il seme.

3 Linguïculture is coined from “language” and “culture” to suggest their direct connection at a cognitive-intentional-intuitive level beyond that of the mere word, sentence, or discourse. Linguïculture, as language-cum-culture, follows an earlier term, languaculture (Agar 1994a, 1994b), according to Agar himself an “awkward term” (1994b: 60) meaning language-and culture. Languaculture is used by Agar to argue his anthropological fieldwork (1994b: 93, 109ff. 128, 132, 137, 253f.), discussing the patterns of linguo-cultural expressions, happening in personal (low-content) or collectivistic (high-content) messages (Agar 1994a: 222). Linguïculture broadens languaculture to other areas and directions, different from Agar with a semiotic approach (Agar 1994b: 47f.). In the linguistic etymology of the binomial construction, the first unit must be affixed to the second: instead of Agar’s Latin root, halftranslated into French, “lengua” into “langua” (languaculture), the proposed “lingui-” in the transposition linguiculture, derived from Latin “lingua” with final affix –i attached after the root, will capture the speech units together with the attached cultural clues.

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the seed. In the animal kingdom it is the same. The caterpillar and the tape-worm go from knot to knot, and at last form heads. With the higher animals and man, the vertebral bones grow one upon another, and terminate with the head, in which the powers are concentrated […]. Thus does a nation bring forth its heroes, who stand at the heads like demigods to protect and save […] many last longer, but the greater part have their places supplied by others and are forgotten by posterity. (Eckermann 1946: 292)

Nel regno animale non è diverso. Il bruco, il verme solitario vanno da nodo a nodo e formano infine una testa; per quanto riguarda animali di natura superiore ed esseri umani, le vertebre sono posizionate una sopra l’altra fino a raggiungere la testa, dove si concentrano le forze. […] E così un popolo si crea i propri eroi che, come semidei, sono in prima fila nella protezione e nella cura; […] alcuni durano più a lungo; la maggior parte viene sostituita da altri e dimenticata dai posteri. (Eckermann 1836: Bd.2, 65-66)

Goethe with his brother-in-arms Friedrich von Schiller (1759-1805), belong to the Geniezeit, expressing the strong belief in the progress of individual work to turn into cultural and scientific heroes – an opinion that was relevant in the epoch of the progress of the industrial revolution. Goethe mentioned the practical and theoretical evolutionism of literature, mineralogy, and meteorology (Eckermann 1946 292-294) but as we see, his genre of semiotranslation bears fruit from one to another language and stands for the continuity in the future.

Goethe e il suo caro amico Friedrich von Schiller (1759-1805), appartengono alla Geniezeit, che esprime la forte convinzione che il corso del lavoro individuale trasformi in eroi della cultura e della scienza – parere che è stato rilevante durante la rivoluzione industriale. Goethe ha citato l’evoluzionismo pratico e teorico della letteratura, della mineralogia e della meteorologia (Eckermann 1946: 292-294), ma come si può vedere il suo genere di semiotraduzione porta i suoi frutti da un linguaggio all’altro e rappresenta la continuità nel futuro.

Truchement

Truchement

During the Sturm und Drang (Storm and Stress) years of Goethe’s youth, Friedrich Schleiermacher’s (1768-1834) (Störig 1963 38-70; trans. Lefevere 1977 66-89 retrans. By Susan Pernofski in Venuti 2004: 43-63) dual or dyadic idea of translation of Greek and Latin literature was the standard definition for translation and critics of translations.

Negli anni dello Sturm und Drang (Tempesta e Impeto) della gioventù di Goethe, la concezione duale o diadica schleiermacheriana della traduzione (1768-1834) (Störig 1963 38-70; tradotto da Lefevere 1977 66-89 ritradotto da Susan Pernofski in Venuti 2004: 43-63) della letteratura greca e latina era la definizione standard per i traduttori e

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Schleiermacher took a distance from informal “newspaper articles and ordinary travel literature” where he argued that translation is “little more than a mechanical task” (Venuti 2004: 44f.) and concentrated on the formal peculiarities of “old” literature. The new world with strange words and obscure sentences, rhymed in antique hexameter had to be transmogrified to a version of German, the native tongue, adorned with classical insights to imitate a “true” approximation of the classical authors and the sacred writings. The translator needed to be a philologist, a poet, and a classical or theological scholar, to respond to the complexities of the profession. The alternative attitudes of the translator were characterized by Schleiermacher as Verfremdung – imitating the source language, creating a foreignness of the German translation – or Verdeutschung – approximating the target language and producing a germanization of the translation. In Schleiermacher’s (and Goethe’s) day, only a tiny elite of the readers had access to the knowledge of foreign languages, in the sense that real paraphrases or imitations can lead to misconceptions and misunderstandings. Schleiermacher stressed that language is a creative game and “no one has his language mechanically attached to him from the outside as if by straps” (trans. qtd. in Venuti 2004: 56f.). Translation is for translators

per i critici della traduzione. Schleiermacher prendeva una certa distanza da “articoli di giornale e comune letteratura di viaggio” informali in cui sosteneva che la traduzione è “poco più di un’attività meccanica” (Venuti 2004: 44-45) e si concentrava sulle peculiarità formali della “vecchia” letteratura. Il nuovo mondo di strane parole e frasi oscure, concepito in esametri antichi e in rima, doveva essere magicamente trasformato in una versione in tedesco, la lingua madre, impreziosito da approfondimenti classici, per imitare una “vera” approssimazione degli autori classici e delle sacre scritture. Il traduttore doveva essere un filologo, un poeta e uno studioso classico o teologico per far fronte alle difficoltà della professione. Gli atteggiamenti alternativi del traduttore sono stati caratterizzati da Schleiermacher come Verfremdung – imitazione della lingua emittente, creazione di uno straniamento della traduzione tedesca – o Verdeutschung – approssimazione della lingua ricevente e germanizzazione della traduzione. Ai tempi di Schleiermacher (e Goethe) solo una piccola élite di lettori conosceva le lingue straniere, nel senso che parafrasi o imitazioni reali potevano portare a malintesi e incomprensioni. Schleiermacher sottolineò che la lingua è un gioco creativo e che “non siamo collegati meccanicamente alla nostra lingua dall’esterno con

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not so claustrophobic as it seems a bootstrapping operation (Merrel 1995: 98).

delle cinghie” (Schleiermacher 1838: 233). Per quanto sembri un’operazione di bootstrapping, la traduzione non è così claustrofobica per i traduttori (Merrel 1995: 98).

Goethe’s priorities started indeed from the work of classical authors (Homer, Euripides, Sophocles, Plato, Cicero), the sacred writings (Old and New Testaments), and traditional epics (Nibelungenlied). Since Goethe was the multilingual humanist of the old Western secular culture, he broadened the landscape to the socio-literary discussion of more modern or contemporary writers, such as Alighieri Dante, Jean- Baptiste Molière, William Shakespeare, Lord George Byron, and Walter Scott. Goethe had a classical mind, but his unique genius and his global significance were universal and transdisciplinary. He was strongly attentive to old and new developments in music, theatre, opera, architecture, Serbian songs, Chinese novels into what he called the global ideal of the “higher world-literature” (Eckermann 1946: 263). Goethe knew French, English, Italian, Latin, Greek, Hebrew, and Arabic and had translated works by Denis Diderot, François Voltaire, Benvenuto Cellini, Lord Byron and others. Translation was Goethe’s

Le priorità di Goethe partivano infatti dalle opere di autori classici (Omero, Euripide, Sofocle, Platone, Cicerone), le sacre scritture (Antico e Nuovo Testamento) e poemi epici tradizionali (Nibelungenlied). Essendo Goethe l’umanista multilingue dell’antica cultura laica occidentale, ampliò gli orizzonti verso una discussione socio-letteraria di autori più moderni o contemporanei come Dante Alighieri, Jean- Baptiste Molière, William Shakespeare, Lord George Byron e Walter Scott. Goethe aveva una mente classica, ma il suo genio unico e la sua importanza globale erano universali e transdisciplinari. Prestava molta attenzione ai vecchi e nuovi sviluppi di musica, teatro, opera, architettura, canzoni serbe, romanzi cinesi verso ciò che lui chiamava idea globale di “letteratura mondiale superiore“ (Eckermann 1946: 263). Goethe sapeva francese, inglese, italiano, latino, greco, ebraico e arabo e aveva tradotto opere di Denis Diderot, François Voltaire, Benvenuto Cellini, Lord Byron e altri. Aveva un interesse speciale per la

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special concern; he had been a translator himself and was fully aware of the troubles with the critical translation of literary works.4 Together with the brothers August Wilhelm and Friedrich von Schlegel (1767- 1845, 1772-1829), who broadened the significances of translation to Indian literature, Goethe introduced Oriental literature to Western readers.

traduzione; era lui stesso un traduttore ed era pienamente consapevole delle difficoltà della traduzione critica di opere letterarie. Insieme ai fratelli August Wilhelm e Friedrich von Schlegel (1767-1845, 1772-1829), i quali aumentarono l’importanza della traduzione per la letteratura indiana, Goethe fece conoscere la letteratura orientale ai lettori occidentali.

Goethe’s spiritual revolt out of his artistic and political life was writing Faust, his masterwork, in which the final volume II was completed in the last years of his life, during his conversations with Eckermann. In a quasi-autobiographical history, Goethe told the words and actions of a heroic man of enlightenment struggling between God and Mephistopheles. Bemused with magical dreams and wild passions for charming or even fatal women – recalling the Cartesian duality of mind and body –Faust sought energy and redemption through love, study and good works. Before Faust, Goethe’s first escape was pilgrimage from bourgeois civilization to the “otherness” of the cultures of Oriental life, that was in Germany otherwise regarded than

La ribellione spirituale di Goethe nella sua vita artistica e politica fu quella di scrivere il Faust, il suo capolavoro, il cui II volume finale fu completato nei suoi ultimi anni di vita, durante le sue conversazioni con Eckermann. In una storia quasi autobiografica, Goethe racconta le azioni e le parole di un eroe dell’Illuminismo che combatte tra Dio e Mefistofele. Disorientato da sogni magici e passioni selvagge per donne attraenti o addirittura fatali – che richiamano il dualismo cartesiano mente-corpo – Faust ricerca l’energia e la redenzione nell’amore, nello studio e nelle opere buone. La prima fuga di Goethe, anteriore al Faust, fu il pellegrinaggio dalla civiltà borghese alla “diversità” delle culture orientali, in Germania considerato diversamente dalle

4 In Goethe’s informal Conversations with Eckermann (1946), an intralingual translation of the actual conversations, the phenomenon of interlingual translation is repeated and discussed many times: specifically (1946: 65, 78, 160, 163ff., 199, 309, 320, 341, 385, 395, 396, 400, 410) and references to Goethe’s intersemiotic translation (1946: 135f., 303, 320).

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the British and French explorations of the East (Said 2003). In Goethe’s Germany, the Orient was an imaginative and unknown world of mysteries, with the alien customs of a Muslim continent and speaking Arabic, the language of the cryptic but sacred Islam.

esplorazioni francesi e inglesi dell’est (Said 2003). Nella Germania di Goethe l’oriente era considerato un mondo di misteri, fantasioso e sconosciuto, con usanze strane di un continente musulmano che parla l’arabo, la lingua del criptico ma sacro Islam.

Goethe was transmogrified into a Western Orientalist – although a salon Orientalist, since he never traveled to the East to study Arabic in situ. He composed the German translation of the Persian ghasal lyric of Hafiz5 (14th century), written in Arabic script. In the years of Goethe’s translation of Hafiz, the study of Orientalism changed his Western scale of art into a paradise of Oriental art (Said 2003). The basic elements are not the familiar Western “Skulptur und Bild, sondern Ornament und Kalligraph” (sculpture and image but rather ornament and calligraphy, my trans) (Solbrig 1973: 84). The mystical understanding of the recitation of the Quran, the metaphors of a beautiful rose with hundred leaves, and the nightingale’s song had to be symbolized, fictionalized, and to a certain degree allegorized (Solbrig 1973: 96). The rhetorical symbolisms of Hafiz’ mystical trance, drunk on the wine of

Goethe si era magicamente trasformato in un orientalista occidentale – anche se un orientalista da salotto, non essendo mai andato in oriente a studiare arabo in loco. Tradusse in tedesco i poemi lirici (ghazal) persiani di Hāfez (IV secolo) scritti in caratteri arabi. Negli anni della traduzione goethiana di Hāfez lo studio dell’Orientalismo passò da un punto di vista occidentale sull’arte all’arte orientale come paradiso (Said 2003). Gli elementi base non sono le familiari e occidentali “Skulptur und Bild, sondern Ornament und Kalligraph” (scultura e immagine, ma ornamento e calligrafo) (Solbrig 1973: 84). L’interpretazione mistica della recitazione del Corano, le metafore di una bella rosa con centinaia di foglie e del canto dell’usignolo dovevano essere simbolizzate, romanzate e in un certo senso allegorizzate (Solbrig 1973: 96). I simbolismi retorici della trance mistica di Hāfez,

5 Hafiz (original name: Shams ud-din Mohammad) (c.1325–1390) was a Persian poet (Shiraz, now Iran) of the ghazals or odes. Belonged to the order of dervishes and was a member of the mystical Sufi sect. Hafiz has been the subject of an enormous and still growing scholarship of Oriental studies, but will here only be indicated in some details.

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the beloved sultana, were translated into Goethe’s own sensual desire worded in his love poetry.6

ubriaco del vino dell’amata sultana, sono stati tradotti nel desiderio sensuale di Goethe stesso, espresso nelle sue poesie d’amore.

Goethe mediated not in person, but in fine arts between East and West. His German West-östlicher Divan was no ordinary translation but he composed a retranslation and reversion, or better a:

Goethe mediò tra oriente e occidente, non in prima persona, ma tramite le belle arti. Il suo West-östlicher Divan Tedesco non era una semplice traduzione, bensì una ritraduzione e una nuova versione, o meglio un:

Truchement [which] derives nicely from the Arabic turjaman, meaning “interpreter”, “intermediary”, or “spokesman”. On the one hand, Orientalism acquired the Orient as literally and as widely as possible; on the other, it domesticated this knowledge to the West, filtering it through regulatory codes, classifications, specimen cases, periodical reviews, dictionaries, grammars, commentaries, editions, translations, all of which together formed a simulacrum of the Orient and reproduced it materially in the West, for the West. (Said 2003: 166; see Paker 1998: 571)

Truchement [che] deriva dall’arabo turjaman, che significa “interprete”, “intermediario”, o “portavoce”. Da un lato l’Orientalismo ha acquisito l’oriente in maniera più letterale e ampia possibile; dall’altro, ha addomesticato questa conoscenza per l’occidente, filtrandola attraverso codici normativi, classificazioni, casi tipo, recensioni su periodici, dizionari, grammatiche, commentari, edizioni, traduzioni, che tutti insieme formavano un simulacro dell’oriente e lo riproducevano materialmente in occidente, per l’occidente. (Said 2003: 166; vedi Paker 1998: 571)

Goethe’s West-östlicher Divan (tr. West-Eastern Divan) (1814-1819)7 is the formal paraphrase of the Oriental narratives of Hafiz.8 However

Il West-östlicher Divan (Divan Occidentale-Orientale) di Goethe (1814-1819) è la parafrasi formale delle narrazioni orientali di Hāfez.

6 See Thubron (2009). Sufi poetry was religious and didactic verse, but is at times full of mystical satire with parodies and travesties. The criticism of the complexity of Islam society can turn into a flirt “with public obloquy and social danger, as if to prove that their love of God was wholly disinterested, uninfluenced by, indeed, contemptuous of, the social approval sought by the outwardly pious. Wine, forbidden to Muslims, becomes the emblem of divinity: homoeroticism (forbidden in theory, though not always in practice) is a recurring theme, where the divine is manifested in the beauty of beardless boys (Ruthven 1997: 65–66).

7 For the German original of the West-ostlicher Divan including Noten und Abhandlungen and Paralipomena (Goethe1952, published in East Germany) and without Paralipomena (Goethe 1958, published in West Germany). For Noten und Abhandlungen, see Storig (1963: 35–37). For the English translation of West- östlicher Divan, see Goethe (1998), of Noten und Abhandlungen, see Lefevere (1977: 35–37), retranslated by Sharon Sloan in Venuti (2004: 64–66). The English translation of Paralipomena (Goethe 1952) is my own.

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Goethe was acquainted with Hafiz through the German translation of Divan (1812), written by the Austrian diplomat and Orientalist Joseph Freiherr von Hammer-Purgstall (1774-1856). As Goethe explained in his Divan (1952: 183-185, 1958: 302-304), he had from 1814 read von Hammer-Purgstall’s recent translations of Hafiz’ ghazals. This reading aroused so vividly his deeper emotions, that he felt encouraged and stimulated into making his own retranslation. Indeed, Oriental studies was in Goethe’s days a pioneer project, so that Hammer’s translation in German was a bold experiment in Oriental scholarship.9 Hammer- Purgstall had sent his translated book to Goethe, with the artistic dedication “Dem Zaubermeister das Werkzeug” (a tool for the magician, my trans.) (Solbrig 1973: 13,37). Hammer’s translation was basically an interlinear version, a word-for-word imitation retaining the Arabic words and their different meanings (polysemy) for the learned audience of Orientalists. Yet in Goethe’s vision, Hammer’s philological translation became a dynamic exhortation to develop further into elegant poetry for Western man and woman.

Goethe era venuto a conoscenza di Hāfez grazie alla traduzione tedesca del Divan (1812), scritta dal diplomatico e orientalista austriaco Joseph Freiherr von Hammer-Purgstall (1774-1856). Come Goethe spiegò nel suo Divan (1952: 183-185, 1958: 302-304), aveva letto a partire dal 1814 le ultime traduzioni di von Hammer-Purgstall dei ghazal di Hāfez. Questa lettura suscitò le sue emozioni più profonde, così da sentirsi incoraggiato e stimolato a creare una propria ritraduzione. Ai tempi di Goethe l’orientalistica era un progetto pionieristico, perciò la traduzione di Hammer in tedesco era un esperimento ardito nel campo degli studi orientali. Hammer-Purgstall aveva inviato il suo libro tradotto a Goethe con la dedica creativa “Dem Zaubermeister das Werkzeug” (Al prestigiatore, lo strumento) (Solbrig 1973: 13,37). La traduzione di Hammer era fondamentalmente una versione interlineare, un’imitazione parola per parola che manteneva le parole arabe e le loro differenti accezioni (polisemia) per il pubblico colto di orientalisti. Tuttavia nella visione di Goethe, la traduzione filologica di Hammer divenne un’esortazione dinamica all’ulteriore sviluppo verso

8 The Oxford English Dictionary refers that the Persian word “divan”, untranslated into German and English, was “[o]riginally, in early use, a brochure, or fascicle of written leaves or sheets, hence a collection of poems” (OED 1989: 4: 882).

9 Joseph Hammer-Purgstall was a multilingual scholar. Beyond his native language, German, he knew Arabic, Persian, Turkish, Greek, Latin, Spanish, Italian, French, English, Hebrew, and Russian (Solbrig 1973: 45).

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una poesia elegante per gli uomini e le donne occidentali.

Hammer’s poetic simplicity was compared by Henri Broms to a forgotten treasure of “rough diamonds”, although in his beautiful metaphor Broms recognized that “their roughness in no fault, it is, rather, as if these original, simple rhythms might give a clearer sight of Hafiz’ world than many later interpretations” (1968: 46-47). Eastern and Western man and woman do not use the same structures and their minds use different logics (Broms 1990). Goethe was a visionary poet and his duty was to animate Hafiz’ lyrical poems for the “popular” elixir of Western life (Eckermann 1946: 271). He read Hammer’s poetically rough translation as a tool to mix his meanings in retranslation. There was in those days no affair of plagiarism, claiming responsibility for Goethe’s copying or stealing Hammer’s words or ideas. Indeed, Goethe highly appreciated Hammer’s translation – “mit Achtung und Anerkennung” (“with esteem and recognition”, my trans.) (Solbrig 1973: 16), “höchster Lob“ (“highster praise”, my trans.) (Lentz 1958: 21) – and vice versa. He consulted Hammer-Purgstall’s treatise again and again to solve many of his translational problems. At the same time, Goethe never wrote about the lack of artistic value of the alien words and ambiguities used by Hammer-Purgstall, that, as it seemed to

La semplicità poetica di Hammer fu paragonata da Henri Broms a un tesoro dimenticato di “diamanti grezzi”, anche se nella sua bella metafora Broms riconobbe che “il loro essere grezzi non è un difetto, ma piuttosto come se questi originai e semplici ritmi potessero dare una visione più chiara del mondo di Hāfez rispetto a molte interpretazioni successive” (1968: 46-47). Gli uomini e le donne orientali e occidentali non utilizzano le stesse strutture e la loro mente utilizza logiche diverse (Broms 1990). Goethe era un poeta visionario e il suo dovere era quello di animare le liriche di Hāfez per il “popolare” elisir di lunga vita occidentale (Eckermann 1946: 271). Egli lesse la traduzione poeticamente grezza di Hammer come strumento per miscelare i suoi significati nella ritraduzione. All’epoca non si parlò di plagio pretendendo responsabilità da parte di Goethe per aver copiato o rubato le parole o le idee di Hammer. Infatti Goethe apprezzò molto la traduzione di Hammer – “mit Achtung und Anerkennung” (“con stima e riconoscimento”), “höchster Lob” (“massima lode”) (Lentz 1958: 21) – e vice versa. Consultò più volte il trattato di Hammer-Purgstall per risolvere molti dei suoi problemi traduttivi. Allo stesso tempo Goethe non scrisse mai della mancanza di valore artistico delle parole straniere

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Goethe, were “created” for his poetic verse (Lentz 1958: 24).

e delle ambiguità usate da Hammer-Purgstall, che secondo Goethe, erano state “create” per i suoi versi poetici (Lentz 1958: 24).

Goethe had been deeply interested in Zoroastrianism, Mohammad’s Quran, and Bedouin poetry. Yet his thoughts must have remembered when he was a boy and heard the Oriental storytelling of the beautiful and captivating princess Sheherazade, whose marvelous fantasies of Oriental wealth, food and drink, and sex were to pleasure her husband, the king of Samarkand. The original stories of the popular (but unfinished) collection, Thousand and One Nights or Arabian Nights (Mommsen 1981: ix–xxiii, 101–118, 290–295), had been written in Arabic, but were translated to French in 12 volumes of Abbé Antoine Galland’s Les mille et une nuits (1704–1717) and then retranslated from French into other European languages, including German (Mommsen 1981: xv).

Goethe era profondamente interessato allo Zoroastrismo, al Corano di Maometto e alla poesia beduina. Tuttavia i suoi pensieri devono avergli ricordato di quando era un ragazzo e ascoltava il racconto orientale della bella e affascinante principessa Shahrazād, le cui incredibili fantasie di ricchezza, cibo e bevande e sesso orientali avevano lo scopo di dare piacere al marito, il re di Samarcanda. Le storie originali della famosa (ma incompleta) raccolta Le mille e una notte (Mommsen 1981: ix–xxiii, 101–118, 290–295) furono scritte in arabo ma tradotte in francese nei 12 volumi de Les mille et une nuits di Abbé Antoine Galland (1704–1717) e successivamente ritradotte dal francese nelle altre lingue europee, compreso il tedesco (Mommsen 1981: xv).

The popular Arabian tales, and the variants and imitations of this Western pilgrimage, had nothing to do with the impoverished life of Eastern men and women confined to the desert and held in low repute by the Muslim code of the Islamic Middle East (Said 2003: 64f., 193ff.). From the informal coffeehouse pleasure to the formal amusement of Goethe’s genius, as man of Western taste, he turned, with his intimate

I racconti arabi popolari, le varianti e le imitazioni di questo pellegrinaggio occidentale non avevano niente a che fare con la vita povera degli uomini e le donne orientali, confinati nel deserto e tenuti in condizioni di scarsa rispettabilità dal codice musulmano del Medio Oriente islamico (Said 2003: 64-65, 193 e seguenti). Dal piacere informale della caffetteria al divertimento formale del genio di Goethe,

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narration and wealth of local color, the Divan into a dramatic imagery between reality and romance, a travesty in which romance was stronger than reality. Despite the religious war of Christendom and Islam, Goethe felt free in the poetic retranslation to identify himself with his prophetic “twin brother” Hafiz. He also took the liberty to disguise Marianne von Willemer (1784–1860), his mistress, to play the role of poetess Suleika (Nicoletti 2002: 349-376).

in quanto uomo dal gusto occidentale, con la sua narrazione intima e la sua ricchezza di colori locali, trasformò il Divan in un insieme di immagini teatrali tra realtà e storia d’amore, parodia in cui il la storia d’amore era più forte della realtà. Nonostante la guerra religiosa tra Cristianesimo e Islam, Goethe si sentì libero nella ritraduzione poetica di identificarsi con il suo profetico “fratello gemello” Hāfez. Si prese inoltre la libertà di nascondere Marianne von Willemer (1784–1860), la sua amante, dietro il ruolo della poetessa Suleika (Nicoletti 2002: 349- 376).

Goethe followed the poetic verse of Hafiz’ ghazals (from Arabic “spinning”), that were Sufi-inspired poems of varying length and made up of a number of 4 to 14 couplets, all upon the same rhyme, playing together a pattern of variations on the main theme. The rhyme is repeated throughout the poem, but the off lines are unrhymed (aa, ab, ac, etc.). In the final couplet, the poet signs his name. The continuity of ghazals is, for Western eyes, rhapsodic and incoherent. To give the hidden meaning a sense, Goethe had expanded the couplet into a stanza up to 30 lines and made the ghazal a logical unity. In terms of style, he did not use the style of “old” quasi-Oriental writing, the historicizing or retrospective approach, en vogue in the Western world

Goethe seguì la struttura poetica dei ghazal (dall’arabo “filatura”) di Hāfez, poesie ispirate al sufismo, di vara lunghezza e composte da un minimo di 4 a un massimo di 14 distici, tutti con la stessa rima, fornendo un modello di variazioni sul tema principale. La rima è ripetuta per tutta la poesia, ma i versi di chiusura di ogni strofa non sono rimati (aa, ab, ac, ecc.). Il distico finale contiene la firma del poeta. La continuità dei ghazal è, agli occhi occidentali, rapsodica e incoerente. Per dare un senso al significato nascosto, Goethe aveva ampliato il distico in una strofa con 30 versi e reso il ghazal un’unità logica. In termini di stile non utilizzò quello della “vecchia” scrittura quasi-orientale, l’approccio storicizzante o retrospettivo in voga nel

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to approximate the Oriental world-picture to the West. Goethe abandoned his earlier two-step model of either exoticizing or naturalizing translation and tried to give the translated cycle of the poetic verse and essays a new, modernized, and actual expression in the German Divan.

mondo occidentale per approssimare l’immagine del mondo orientale all’occidente. Goethe abbandonò il suo precedente modello diadico di traduzione esotizzante o naturalizzante e cercò di conferire al ciclo tradotto di versi poetici e saggi una nuova, moderna e attuale espressione nel Divan tedesco.

The target-oriented truchement meant that the translator Goethe had to a certain degree modified linguistically and culturally the source text to suit his reality, taste, and critical standards, attributing modern ideas, persons, things, etc. to the target readership (Gorlée 1997: 162). Taking some scientific distance from Hammer-Purgstall’s philological translation, Goethe wrote with what sounded like the suddenly liberated translator of bridging socio-cultural differences (Fink 1982). Despite the traditional models, Goethe was free and followed his own lyric-prosaic “Spielformen” (Scholz 1990), that is playful forms of abductive literature, including the free mixture of foreign and native elements. As a globalized botanist, Goethe offered “something like a rhizomatic model” of “the desert and the oasis […] rather than forest and field” (Deleuze, Guattari 1987: 18; see Gorlée 2004a). Goethe’s Divan collection is not Hammer’s monolog but a role-playing dialog, or even trialog.

Il truchement orientato verso il metatesto significava che il traduttore Goethe aveva in una certa misura modificato linguisticamente e culturalmente il prototesto per adattarlo alla propria realtà, ai propri gusti e standard critici, attribuendo idee, persone, cose moderne ecc. al pubblico della cultura ricevente (Gorlée 1997: 162). Prendendo una certa distanza scientifica dalla traduzione filologica di Hammer-Purgstall, Goethe scrisse con quello che sembrava il traduttore improvvisamente emancipato delle differenze socioculturali (Fink 1982). Nonostante i modelli tradizionali, Goethe era libero e seguì le sue “Spielformen” lirico-prosaiche (Scholz 1990), ossia forme giocose di letteratura abduttiva, tra cui il libero mix di elementi stranieri e nativi. In quanto botanico globalizzato, Goethe offrì “qualcosa di simile a un modello rizomatico” de “il deserto e l’oasi […] anziché del bosco e del campo” (Deleuze, Guattari 1987: 18; vedi Gorlée 2004a). Il Divan di Goethe non è il monologo di Hammer, ma un

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dialogo o addirittura un trialogo, con un gioco di ruolo.

(Meta)statements

(Meta)dichiarazioni

In Goethe’s Divan cycle, the formal story went hand in hand with the informal asides: the Noten und Abhandlungen (tr. Notes and Essays) and then Paralipomena (1818–1819). In both marginal glosses10, Goethe coped with the doubles entendres of the Divan’s rewording, paraphrasing, amplifying, reinterpreting, condensing, parodying, and commenting of the revision and (re)-translation. The comments, redactions, adjuncts, phrases, paragraphs, fragments, and at times even misplacings and misunderstandings are published to better understand the techniques, plots, motifs, and types of the German Divan. Goethe’s informal marginalia reflected his own metastatements – Merrell’s “counterstatements, counterpropositions, counterarguments, and countertexts” (1982: 132) – about the analytical differences with respect to the statements of creative translation (Popovič 1975: 12–13; see fn. 1).

Nel ciclo del Divan di Goethe la storia formale andava di pari passo con le digressioni informali: le Noten und Abhandlungen (Note e Trattati) e Paralipomena (1818–1819). In entrambe le glosse a margine Goethe fece i conti con i doppi sensi della riformulazione, della parafrasi, dell’ampliamento, della reinterpretazione, della condensazione, della parodia, del commentare la revisione e la (ri)traduzione del Divan. Commenti, redazioni, aggiunte, frasi, paragrafi, frammenti e a volte anche errori di collocazione e fraintendimenti vengono pubblicati per comprendere al meglio le tecniche, le trame, i motivi e i tipi del Divan tedesco. I marginalia informali di Goethe riflettevano le sue metadichiarazioni – le “controdichiarazioni, controposizioni, controargomenti e controtesti” di Merrel (1982: 132) – sulle differenze analitiche rispetto alle dichiarazioni della traduzione creativa (Popovič 1975: 12–13; vedi nota 1).

One of the last glosses features Goethe’s new opinion: the threefold

Una delle ultime glosse include la nuova opinione di Goethe: il

10 A gloss (from Greek glossa “tongue”, “language”) – used in the title as keyword of the article – is an intellectual or naive explanation, by means of a marginal note of a previous text; sometimes used of the foreign or obscure word that requires explanation.

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model of translation. Goethe’s concept of translation manifests the information, and reproduction, and adaptation of the real and fictitious specificity of Western “orientalized” translations from Oriental literary works. In a selection of the paragraphs of the Notes, Goethe stated that:

modello di traduzione triadico. Il concetto di traduzione goethiano esprime l’informazione, la riproduzione e l’adattamento della reale e finzionale specificità delle traduzioni occidentali “orientalizzate” di opere letterarie orientali. In una selezione dei paragrafi delle Note, Goethe affermò che:

There are three kinds of translation. The first acquaints us with the foreign countries on our own terms; a plain prose translation is best in this purpose. Prose in and of itself serves as the best introduction: it completely neutralizes the formal characteristics of any sort of poetic art and reduces even the most exuberant waves of poetic enthusiasm to still water. The plain prose translation surprises us with foreign splendors in the midst of our national domestic sensibility; in our everyday lives, and without our realizing what is happening to us – by lending our lives a nobler air – it genuinely uplifts us. Luther’s Bible translation will produce this kind of effect with each reading.

Esistono tre tipi di traduzione. Il primo ci fa conoscere i paesi esteri con i nostri sensi; in questo caso una semplice prosa è la migliore. La prosa, infatti, elevando completamente tutte le caratteristiche di ogni sorta di arte poetica e riducendo anche l’entusiasmo poetico a un minimo livello, garantisce il miglior servizio iniziale, sorprendendoci con eccellenze straniere nel pieno della nostra domesticità, della nostra vita di tutti i giorni e, senza che noi capiamo cosa ci stia accadendo, conferendoci uno stato d’animo più nobile, realmente ci eleva. Ogni lettura della traduzione luterana della Bibbia produce un tale effetto.

Much would have gained, for instance, if the Nibelungen had been set in good, solid prose at the outset, and labeled as popular literature. Then the brutal, dark, solemn, and strange sense of chivalry would still have spoken to us in its full power. Whether this would still be feasible or even advisable now is best decided by those who have more rigorously dedicated themselves to these matters of antiquity.

Se i Nibelungen fossero stati scritti in una buona prosa e bollati come libro popolare, si sarebbe guadagnato molto di più e lo strano, solenne, cupo, e grigio senso di cavalleria si sarebbe ancora rivolto a noi nel pieno del suo potere. Se questo sia ancora consigliabile o fattibile, possono deciderlo al meglio coloro che si sono dedicati con decisione a questi affari antichi.

A second epoch follows, in which the translator endeavors to transport himself into the foreign situation but actually only appropriates the foreign idea and represents it as his own. I would like to call such an epoch parodistic, in the purest sense of that word. It is most often men of wit who feel drawn to the parodistic. The French make use of this style in the translation of all poetic works: Delille’s

Segue una seconda epoca, in cui il traduttore deve calarsi nella condizione straniera, ma in realtà si appropria solo del senso straniero e con i propri sensi si sforza di rappresentarlo. Vorrei chiamare tale epoca parodistica, nel senso più puro della parola. Sono perlopiù persone ricche d’ingegno che si sentono chiamati a svolgere questo tipo di attività. I francesi si servono di questo tipo di traduzione per

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translations provide hundreds of examples.11 In the same way that the French adapt foreign words to their pronunciation, they adapt feelings, thoughts, even objects; for every foreign fruit there must be a substitute grown in their own soil.

tutte le opere poetiche; si possono trovare centinaia di esempi nelle traduzioni di Delille. Così come adattano parole straniere alla loro pronuncia, i francesi procedono allo stesso modo con sentimenti, pensieri, sì anche con oggetti e per ogni frutto straniero pretendono un surrogato che sia cresciuto sul loro suolo, proveniente dalla loro terra.

[…] Because we cannot linger for very long in either a perfect or an imperfect state but must, after all, undergo one transformation after another, we experienced the third epoch of translation, which is the final and highest of the three. In such periods, the goal of the translation is to achieve perfect identity with the original, so that the one does not exist instead of the other but in the other’s place.

[…] Poiché si può stare fermi per molto sia in uno stato di perfezione che di imperfezione, ma una trasformazione dopo l’altra deve pur sempre avvenire, così abbiamo vissuto il terzo periodo, che è il più elevato e l’ultimo dei tre, quello in cui lo scopo è produrre una traduzione identica all’originale, così che uno non venga considerato piuttosto che l’altra, ma che prenda il suo posto.

This kind met with the most resistance in its early stages, because the translator identifies so strongly with the original that he more or less gives up the uniqueness of his own nation, creating this third kind of text for which the taste of the masses has to be developed.

Questo tipo ha inizialmente riscontrato le resistenze maggiori, poiché il traduttore, che si identifica fortemente con l’originale, rinuncia (più o meno) all’originalità della sua nazione e così si va a creare un terzo tipo, che deve formarsi secondo il gusto della massa.

At first the public was not at all satisfied with Voss 12(who will never be fully appreciated) until gradually the public’s ear accustomed itself to this new kind of translation and became comfortable with it. Now anyone who assesses the extent of what has happened, what versatility has come to the Germans, what rhythmical and metrical advantages are available to the spirited, talented beginner, how Ariosto and Tasso, Shakespeare and Calderon have been brought to us two and three times over as Germanized foreigners, may hope that literary history will openly acknowledge who was the first to choose this path in spite of so

Voss, poeta mai abbastanza stimato e apprezzato, non poteva soddisfare il pubblico finché non si fosse abituato al nuovo tipo di traduzione e non si fosse trovato a proprio agio con esso. Chi ora, in questo momento osserva ciò che è successo, la versatilità che è entrata a far parte dei tedeschi, quali benefici retorici, ritmici, metrici possedevano i giovani di spirito e talentuosi, come Ariosto e Tasso, Shakespeare e Calderon ci sono stati fatti passare come stranieri germanizzati due o tre volte, egli può sperare che la storia letteraria dica apertamente chi per primo, tra molti ostacoli, intraprese questa

11 Abbe Jacques Delille (1738–1813) translated Virgil’s Georgics and Aeneid into German. 12 Johann Heinrich Voss (1751–1826) translated Homer into German hexameters.

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many and varied obstacles.

via.

For the most part, the works of von Hammer indicate a similar treatment of oriental masterpieces; he suggests that the translation approximate as closely as possible the external form of the original work.

Per la maggior parte, le opere di von Hammer richiedono un trattamento simile ai capolavori orientali, per i quali è consigliata una traduzione più vicina possibile alla forma esterna dell’originale.

[…] Now would be the proper time for a new translation of the third type that would not only correspond to the various dialects, rhythms, meters, and prosaic idioms in the original but would also, in a pleasant and familiar manner, renew the poem in all of its distinctiveness for us. […]

[…] Ora sarebbe giunto il momento di una traduzione del terzo tipo, che corrisponderebbe ai diversi dialetti, le diverse modalità linguistiche ritmiche, metriche e prosaiche dell’originale e rinnova piacevolmente e in maniera a noi familiare la poesia in tutte le sue caratteristiche. […]

The reason why we also call the third epoch the final one can be explained in a few words. A translation that attempts to identify itself with the original ultimately comes close to an interlinear version and greatly facilitates our understanding of the original. We are led, yes, compelled as it were, back to the source text: the circle, within which the approximation of the foreign and the familiar, the known and the unknown constantly move, is finally complete. (Venuti 2004: 64–66; original Goethe 1952: 2: 186–189, 1958: 5: 304–307)13

Perché la terza epoca viene chiamata anche l’ultima, lo si spiega in poche parole. Una traduzione che ha come scopo di identificarsi con l’originale, alla fine si avvicina alla versione interlineare e facilita molto la comprensione dell’originale; con questo veniamo così ricondotti al teso base, guidati per così dire. Viene così finalmente chiuso tutto il cerchio, all’interno del quale si muovono l’approssimazione di ciò che è straniero e familiare, ciò che è conosciuto e sconosciuto. (Goethe 1952: 2: 186–189, 1958: 5: 304–307)

As discussed by Venuti (2005: 801), Goethe’s first phase concerns the radical domestication of the target language (Verdeutschung), making the reader forget that the text really is a translation of a

Come discusso da Venuti (2005: 801), la prima fase di Goethe riguarda la radicale addomesticazione della lingua ricevente (Verdeutschung), facendo dimenticare al lettore che il testo è in realtà

13 The 1952 edition offered a non-philological edition of Goethe’s unchanged “original” style in old-German, without rectifying capitalization, punctuation, parentheses, grammatical misconstructions, and so forth (Goethe 1952). The 1958 is a standard edited edition. For discussion of Goethe’s Notes, see chronologically Pannwitz (1917: 240–243), Lentz (1958), Rado (1982), Wertheim (1983), Steiner (1975: 256–260), and Nicoletti (2002).

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previous work. The source text has “disappeared” and the translation is a totally Germanized version. The second phase is a duality of domestication and foreignizing (Verfremdung). The translation loses the closeness to the source text and becomes an alienated world formulated and reformulated in a somewhat biased translation between source and target texts. The reader of franglais and other mixtures of languages is aware that the translator has mediated between both texts and becomes puzzled. The third phase is a manipulation to accord with some ideology, prejudice, dogma, or belief. The source text has been modified, even mutilated, peripherically, or almost beyond recognition. Indeed, such manipulation, away from the source center, may happen (fn. 1), and be accepted, welcomed, or simply ignored in the target culture, due to the linguistic and cultural distance between the codes involved, the temporal and/or spatial distance between the text-to-be-translated and the translated text, and/or for other reasons, be they social, political, religious, institutional, commercial, and so on.

una traduzione di un opera precedente. Il prototesto è “scomparso” e la traduzione è una versione completamente germanizzata. La seconda fase presenta il dualismo domesticazione-straniamento (Verfremdung). La traduzione perde la sua vicinanza al prototesto e diventa un mondo estraneo formulato e riformulato in una traduzione con un bias tra prototesti e metatesti. Il lettore di franglais e alti mix di lingue è consapevole che il traduttore ha mediato tra i due testi e diventa confuso. La terza fase presenta una manipolazione per concordare con ideologie, pregiudizi, dogmi o credenze. Il prototesto è stato modificato, perfino mutilato, perifericamente, o reso quasi irriconoscibile. Infatti una tale manipolazione, che porta lontano dal centro di origine, può succedere (nota 1) ed essere accettata, accolta, o semplicemente ignorata dalla cultura ricevente a causa della distanza linguistica e culturale tra i codici coinvolti, la distanza temporale e/o spaziale tra il prototesto e il metatesto e/o per altre ragioni, siano esse sociali, politiche, religiose, istituzionali, commerciali e così via.

Goethe offered an alternative to Schleiermacher’s dual approach of translation to a third “move” (Robinson 1998: 98) from the historical context of German culture to the nostalgia of exotic life and the erotic

Goethe offrì un’alternativa all’approccio diadico di Schleiermacher alla traduzione con una terza “mossa” dal contesto storico della cultura tedesca alla nostalgia della vita esotica e dell’amore erotico

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love of the Orient, as delicately restructured by himself. The orientalized metempsychosis of two fictional cultures had challenged Goethe’s new vision in the informal glosses to translation: was the Arabic Divan retranslated into German language more than a nomadic enthusiasm for Oriental religion and culture? Was Goethe’s triadic mention of translation a linguistic-anthropological symbol mixing Orient and Occident? Was Goethe, the greatest cosmopolitan of his days, in terms of sheer erudition and mastery of the Eastern material, a crosscultural critic of East and West?

dell’oriente, così come delicatamente ristrutturato da lui stesso. La metempsicosi orientalizzata di due culture finzionali aveva sfidato la nuova visione di Goethe nelle glosse informali alla traduzione: il Divan arabo ritradotto in lingua tedesca era più di un nomade entusiasmo per la religione e la cultura orientale? Il concetto triadico di traduzione di Goethe era un simbolo linguistico-antropologico di legame tra oriente e occidente? Goethe, il più grande cosmopolita del suo tempo, in termini di pura erudizione e padronanza della materia orientale, era un critico interculturale di oriente e occidente?

The Paralipomena are metacomments of his own comments. They work as Goethe’s catalogue-type information for his own use and are merely unmediated fragments, plagued by spelling mistakes and grammatical errors (see fn. 13). Without their later unedited publication (in Goethe 1952), the simplicity of Goethe’s metadata would have been lost and “forgotten”. 14 The whole text is as follows:

I Paralipomena sono metacommenti dei suoi stessi commenti. Fungono da catalogo di informazioni per uso proprio e non sono altro che frammenti non mediati, colmi di errori ortografici e grammaticali (vedi nota 13). Senza la loro pubblicazione successiva non revisionata (in Goethe 1952), la semplicità dei metadati di Goethe sarebbe andata “dimenticata”. L’intero testo è il seguente:

Three kinds
1, To reconcile foreign productions and the fatherland. 2, Further attempt against the foreign to achieve a middle situation. 3, final attempt to make translation and original identical

Tre tipi
1, riconciliare le produzioni straniere con la madrepatria. 2, ulteriori sforzi contro lo straniero per ottenere una situazione media. 3, sforzo finale che renda la traduzione e l’originale identici

14 The plural Paralipomena (from Greek paraleipein “to leave aside”, “to omit”) signify “forgotten” postscripts, supplements, or reflections of a previous book or fragment. Goethe’s Paralipomena has hardly been discussed.

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of all three the Germans can indeed show examples of exemplary pieces. more than approaching the foreign situation we should certainly note, to cheer loudly on the works of von Hammer, directing us on this way. even warmly welcoming the hexameter and pentameter from the first concept of translation.

Di tutti e tre i tedeschi possono di fatto dare esempi di pezzi esemplari. Più che avvicinarci alla situazione straniera, dovremmo certamente prender nota e incitare a gran voce le opere di von Hammer, portandoci su questa via. Perfino accogliendo calorosamente l’esametro e il pentametro derivante dalla prima concezione di traduzione.

The strangeness of the transfigurations into Greek and Latin of the excellent Jones,15 recalls the foreign country, customs, and taste, meaning that the study of the content totally destroys the originality of the poems.

La stranezza delle trasfigurazioni in greco e latino dell’eccellente Jones ricorda il paese straniero, i costumi e i gusti, il che significa che lo studio del contenuto distrugge totalmente l’originalità della poesia.

The grotesque enterprise of Mr. [any name] to rework Firdusi16 in the sense of alienating it from the Orient without bringing it close to the West.

La grottesca impresa del signor [nome qualsiasi] di rielaborare Firdusi nel senso di estraniarlo dall’oriente senza avvicinarlo all’occidente.

A prose translation should be far better than one transformed into an alien unsuitable rhythm.

Una traduzione in prosa sarebbe sicuramente migliore di una trasformata in un ritmo alieno e inadatto.

Von Hammer translation, retaining line by line of the original, is on its own correct, perhaps can Mr. [any name] decide now to accept these intents and purposes, to accomplish for himself and the bookseller in charge of the printing a flourishing business.

La traduzione di von Hammer, che conserva l’originale riga per riga, è di per se corretta, forse può il signor [nome qualsiasi] decidere ora di accettare queste intenzioni e scopi per ottenere per se stesso e per il libraio responsabile della stampa un fiorente profitto.

The translator will not harvest any thanks and the publisher no

Il traduttore non otterrebbe alcun ringraziamento e l’editore alcun

15 Sir William Jones (1746–1794), an English polyglot with knowledge of twenty-eight languages, was an eminent Oriental and Sanskrit scholar. Jones was interested in Hafiz and translated the sacred texts of Eastern religions. He pronounced the genealogical connection of Sanskrit with Greek and Latin, and the languages of Europe.

16 Firdusi (transliterated as Firdausi, Ferdowsi, or Firdowski) (932–1020) was the Persian poet who wrote the Iranian national epic, the Shahnamah. 37

profit. (My trans. from Goethe 1952: 3: 130–131)

guadagno. (Goethe 1952: 3: 130–131)

The chaotic Paralipomena naturally uses a different style of writing than the ordered paragraphs of the Notes. The informal tone reflects the emotional voice of Goethe’s personal words, but his dry and business-like actions speak louder. The pitch of Paralipomena lay in the postscript: how to cook Goethe’s West-Eastern Divan into a success story. Goethe focused on the production’s costs: to win the spectacular bestseller the business went at the expense of his associates (including the translator).

I caotici Paralipomena usano naturalmente un altro stile di scrittura rispetto agli ordinati paragrafi delle Note. Il tono informale riflette la voce emotiva delle parole personali di Goethe, ma le sue azioni monotone da uomo d’affari parlano molto più forte. Il punto più intenso dei Paralipomena è nel post scriptum: come trasformare il Divan occidentale orientale goethiano in una storia di successo. Goethe si concentrò sui costi di produzione: per diventare un bestseller, gli affari andarono a scapito dei suoi collaboratori (traduttore incluso).

East and West mingle in bizarre juxtaposition, but they do not mix in Goethe’s labyrinth of fragments. Guided by the spatiotemporal distance to Hafiz, Goethe mediates semiotically in cultural differences of morals and scholarship as a human and spiritual alternative. His agenda of the Notes reflects a psychological and anthropological understanding of Eastern ideas, concepts, meaning, and nuance. The public interest of cross-cultural scholarship is translated into the free association of poetry. The results are striking, including a new vision of translation. At the same time, Goethe’s hidden agenda arises in the bottom line of Paralipomena to determine the effectiveness of the agreement. The “negotiation” of bridging cultures and national

Oriente e occidente si mescolano in una bizzarra giustapposizione, ma non si mixano nel labirinto di frammenti goethiano. Guidato dalla distanza spaziotemporale da Hāfez, Goethe media semioticamente tra differenze culturali di morale e sapere come alternativa umana e spirituale. La sua pianificazione delle Note riflette una comprensione psicologica e antropologica di idee, concetti e sfumature orientali. L’interesse pubblico del sapere interculturale è tradotto nell’associazione libera della poesia. I risultati sono straordinari e comprendono una nuova visione della traduzione. Allo stesso tempo la pianificazione nascosta di Goethe compare in conclusione dei Paralipomena, determinando l’efficacia dell’accordo. La “negoziazione”

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experiences becomes on dark spots an over-confidence, changing into a purely commercial affair – an unhappy return to bourgeois civilization.

di culture ed esperienze nazionali nelle zone oscure diviene un eccesso di sicurezza, trasformandosi in un affare puramente commerciale – un infelice ritorno alla civiltà borghese.

Semiotic mediation

Mediazione semiotica

Goethe’s caravan of sign translation – from information and reproduction until adaptation – makes the target text become more and more visible in Peirce’s interpretants, and the source text more and more invisible. Goethe’s various “epochs” – Peirce’s Secondness indicating the spatiotemporal object under the force of haeccity (MS 909: 18 = CP: 1.405, 1890–1891) – were transported to signify the whole sign of the trajectory of translation. Semiotic signs play the role of a mediator between thought and reality, so that the “bringing together” of translation is grounded not on genuine Thirdness, but rather on the “middle, medium, means, or mediation” of the original sign (Parmentier 1985: 42 and passim) to produce mediate interpretants.

La carovana goethiana della traduzione segnica – dall’informazione e riproduzione fino all’adattamento – rende il metatesto sempre più visibile negli interpretanti di Peirce e il prototesto sempre più invisibile. Le varie “epoche” di Goethe – la Secondità di Peirce che indica l’oggetto spaziotemporale sotto la forza dell’ecceità (MS 909: 18 = CP: 1.405, 1890–1891) – furono portate a significare tutto il segno della traiettoria della traduzione. I segni semiotici svolgono il ruolo di un mediatore tra pensiero e realtà, in modo che il “mettere insieme” di una traduzione non sia basato sull’autentica Terzità, ma piuttosto su “medio, medium, mezzi o mediazione” del segno originale (Parmentier 1985: 42 e passim) per produrre interpretanti mediati.

Goethe’s and Jakobson’s three types of translation are the same in grammatical number, but differ on “such distinctions as objective and subjective, outward and inward, true and false, good and bad […]” (MS 304: 39, 1903). From a more external viewpoint, Goethe valued the

I tre tipi di traduzione di Jakobson e Goethe sono uguali in quantità, ma diversi per quanto riguarda “distinzioni tra oggettivo e soggettivo, esterno e interno, vero e falso, buono e cattivo […]”(MS 304: 39, 1903). Da un punto di vista più esterno, Goethe ha valutato i tre gradi di

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three degrees of possible equivalence between source and target texts, whereas Jakobson’s intralingual, interlingual, and intersemiotic translations took the lack of equivalence for granted as the standard “equivalence in difference” (1959: 233). From an internal viewpoint, Goethe’s truchement disguised translation in a liberated mode of a subjective translation, while Jakobson judged externally the distance between source and target language. Then Jakobson broadened their mutual translatability outside “ordinary language” (1959: 234) to translate the cultural (inter)relations (unmarked and marked forms and functions) into the target version (Mertz 1985: 13–16). Jakobson stated that the bilingual and bicultural dilemma of implying linguïculture defied all efforts of translatability, representing the “Gordian knot by proclaiming the dogma of untranslatability” (1959: 234). Semiotranslation can untie the intricate knot, cutting through untranslatability to claim Jakobson’s degrees of a relative translatability – not arriving at Goethe’s genial work, but an effort to solve the complexities.

equivalenza possibile tra prototesto e metatesto, mentre le traduzioni intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica di Jakobson hanno dato per scontata la mancanza di equivalenza in quanto “equivalenza nella differenza” (1959: 233). Da un punto di vista interno, il truchement di Goethe ha nascosto la traduzione in un tipo emancipato di traduzione soggettiva, mentre Jakobson ha giudicato esternamente la distanza tra prototesto e metatesto. Inoltre Jakobson ha ampliato la loro traducibilità reciproca al di fuori del “linguaggio ordinario” (1959: 234) per tradurre le (inter)relazioni (inter)culturali (forme e funzioni marchiate e non) in una metaversione (Mertz 1985: 13–16). Jakobson affermò che il dilemma bilingue e biculturale che implica la linguïculture si sottrae a tutti gli sforzi di traducibilità, rappresentando il “nodo gordiano proclamando il dogma dell’intraducibilità” (1959: 234). La semiotraduzione può sciogliere quel nodo intricato, dando un taglio all’intraducibilità, per rivendicare i gradi di una relativa traducibilità di Jakobson – non arrivando all’opera geniale di Goethe, ma compiendo uno sforzo per risolvere le complessità.

Translation is freedom with a bold (re)action of the translator to reach his or her signature of the “same” meaning. The sign action is semiotic mediation, acting under the forces of reality and thought. In

La traduzione è libertà con un’audace (re)azione del traduttore per ottenere la propria segnatura dello “stesso” significato. L’azione segnica è mediazione semiotica, che agisce sotto le forze di realtà e

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translation, Firstness – sign – and Secondness – object – are linked to connect to the “medium” of Thirdness (CP: 1.337, 1909). Peirce wrote that:

pensiero. Nella traduzione, Primità – segno – e Secondità – oggetto – sono unite per connettere il “medium” della Terzità (CP: 1.337, 1909). Peirce scrisse che:

As a medium, the Sign is essentially in a triadic relation, to its Object which determines it, and to its Interpretant which it determines. In its relation to the Object, the Sign is passive; that is to say, its correspondence to the object is brought about by an effect upon the Sign, the Object remaining unaffected. On the other hand, in its relation to the Interpretant the Sign is active, determining the Interpretant without being itself thereby affected.

Come un medium, il segno è essenzialmente in una relazione triadica con il suo oggetto che lo determina e con il suo interpretante da lui determinato. Nella relazione con l’oggetto il segno è passivo; ciò significa che la corrispondenza con l’oggetto è causata da un effetto sul segno, e l’oggetto non viene toccato. Dall’altro lato, nella relazione con l’interpretante, il segno è attivo e determina l’interpretante senza venirne lui stesso inficiato.

But at this point certain distinctions are called for. That which is communicated from the Object through the Sign to the Interpretant is a Form; that is to say, it is nothing like an existent, but is a power, is the fact that something would happen under certain conditions. This Form is really embodied in the object, meaning that the conditional relation which constitutes the form is true of the Form as it is in the Object. In the Sign it is embodied only in a representative sense, meaning that whether by virtue of some real modification of the Sign, or otherwise, the Sign becomes endowed with the power of communicating it to an interpretant. It may be in the interpretant directly, as it is in the Object, or it may be in the Interpretant dynamically, as [the] behavior of the Interpretant […] (MS 793: 2–5 = (in different version) EP: 2: 544, 1906)

Ma a questo punto certe distinzioni sono necessarie. Ciò che viene comunicato dall’oggetto all’interpretante attraverso il segno è una forma; vale a dire che non è nulla come un esistente, ma è un potere, è il fatto che qualcosa potrebbe accadere in certe condizioni. Questa forma è veramente incarnata nell’oggetto, ciò significa che la relazione condizionale che costituisce la forma è vera della forma così come lo è dell’oggetto. Nel segno è incarnata solo in un senso rappresentativo, cioè o in virtù di qualche reale modifica al segno, o altrimenti, il segno si dota del potere di comunicarlo all’interpretante. Può essere nel’interpretante direttamente, com’è nell’oggetto, o può essere nell’interpretante dinamicamente, come comportamento dell’interpretante […].(MS 793: 2–5 = (in una versione diversa) EP: 2: 544, 1906)

Thirdness in translation is no purely intellectual interaction of First and Second into Third, but becomes a fantasy of a Second in relation to a First, without a real Third. Peirce wrote that:

La Terzità nella traduzione non è l’interazione puramente intellettuale del primo e del secondo nel terzo, ma diventa una fantasia di un secondo in relazione ad un primo, senza un terzo reale. Peirce

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scrisse che:

A man gives a brooch to his wife. The merely mechanical part of the act consists in his laying the brooch down while uttering certain sounds, and her taking it up. There is no genuine triplicity here; but there is no giving, either. The giving consists in his agreeing that a certain intellectual principle shall govern the relations of the brooch to his wife. (CP: 2.86, 1902)

Un uomo da una spilla alla moglie. La parte puramente meccanica dell’atto consiste nell’uomo che appoggia la spilla emettendo suoni e la donna che la raccoglie. Qui non c’è vera triplicità; ma non vi è nemmeno alcun dono. Il dono consiste nel concordare da parte di lui sul fatto che un certo principio intellettuale governerà le relazioni tra la spilla e sua moglie. (CP: 2.86, 1902)

The jewel of Goethe’s creative and recreative work West-östlicher Divan actively involves the knowledge of Hafiz and von Hammer- Purgstall, but the “mere congeries of dual characters” (MS 901: 13 = CP: 1.371, 1885) are brought in such a way that the synthesis (Thirdness) lies on Goethe’s way of translation, and particularly on himself as the translating poet.

Il gioiello dell’opera creativa e ricreativa West-östlicher Divan di Goethe coinvolge attivamente la conoscenza di Hāfez e von Hammer- Purgstall, ma “la mera congerie dei personaggi duali” (MS 901: 13 = CP: 1.371, 1885) è presente in modo tale che la sintesi (Terzità) si trovi sulla via goethiana della traduzione e in particolare su se stesso come poeta traducente.

In a literary work, the triadicity is dissolved into the “true duality” (MS 909: 11 = CP: 1.366, 1890–1891) of sign and object to embody the German interpretants in verse of Hafiz’ Arabic Divan. Goethe’s “alienated” treasure-box reflects his will and effort of mediation, based not alone on knowledge of foreign languages, but on his artistic genius and aesthetic life. Peirce returned to an Oriental tinge, when he continued as followed about semiosis and mediation:

In un opera letteraria la triadicità si dissolve nel “vero dualismo” (MS 909: 11 = CP: 1.366, 1890–1891) segno-oggetto per incorporare gli interpretanti tedeschi nei versi del Divan arabo di Hāfez. La scatola del tesoro “alienata” di Goethe riflette la sua volontà e il suo sforzo di mediazione, basati non solo sulla conoscenza di lingue straniere, ma sul suo genio artistico e sulla sua vita estetica. Peirce tornò a una sfumatura orientale quando continuò a trattare di semiosi e mediazione come segue:

The merchant in the Arabian Nights threw away a datestone which

Il mercante in Le mille e una notte lanciò una pietra datata che colpì

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struck the eye of a Jinnee. This was purely mechanical, and there was no genuine triplicity. The throwing and the striking were independent of one another. But had he aimed at the Jinnee’s eye, there would have been more than merely throwing away the stone. There would have been genuine triplicity, the stone being not merely thrown, but thrown at the eye. Here, intention, the mind’s action, would have come in. Intellectual triplicity, or Mediation, is my third category. (CP: 2.86, 1902)17

l’occhio di un genio. Ciò fu puramente meccanico, e non c’era vera triplicità. Il lanciare e il colpire erano indipendenti l’uno dall’altro. Ma se avesse mirato a colpire l’occhio del genio, ci sarebbe stato più di un semplice lanciare la pietra. Ci sarebbe stata vera triplicità, la pietra non sarebbe semplicemente stata lanciata ma lanciata verso l’occhio. Qui sarebbe entrata in gioco l’intenzione, l’azione della mente. La triplicità intellettuale, o mediazione, è la mia terza categoria. (CP: 2.86, 1902)

In the understanding of Goethe’s Divan and the “spontaneous” discovery of applying a triadic translation, the “good”, “bad”, and “intermediate” sign-events of translation modify and mediate the literary form of the accidental interpretants, made by pure chance and effort (CP: 1.337, 1909). Goethe’s intermediate (re)translation reflects not genuine semiosis – the “perfect” sign of Thirdness – but offers “imperfect” signs. Pseudo-semiosis is represented in the translation composed by human interpreters. The “quasi-minds” (MS 793: 2, 1906 = EP: 2: 544, 1906) create new but biased quasi-translations, on the

Nella comprensione del Divan di Goethe e nella scoperta “spontanea” di applicare una traduzione triadica, i segni-eventi “buoni”, “cattivi” e “intermedi” della traduzione modificano e mediano la forma letteraria degli interpretanti casuali, fatta da puro caso e sforzo (CP: 1.337, 1909). La (ri)traduzione intermedia goethiana non riflette la vera semiosi – il segno “perfetto” della Terzità – ma offre segni “imperfetti”. La pseudosemiosi è rappresentata nella traduzione scritta da interpreti umani. Le “quasi-menti” (MS 793: 2, 1906 = EP: 2: 544, 1906) creano quasi-traduzioni nuove ma con un bias, sulla base di

17 The passage of Arabian Nights about accidental Thirds is repeated in Peirce’s episode: “’How did I slay thy son?’ asked the merchant, and the jinnee replied, ‘When thou threwest away the date-stone, it smote my son, who was passing at the time, on the breast, and he died forthright.’ Here there were two independent facts, first that the merchant threw away the date-stone, and second that the date-stone struck and killed the jinnee’s son. Had it been aimed at him, the case would have been different; for then there would have been a relation of aiming which would have connected together the aimer, the thing aimed, and the object aimed at, in one fact. What monstrous injustice and inhumanity on the part of that jinnee to hold that poor merchant responsible for such an accident!” (MS 909: 12 = CP: 1.365, 1890–1891) and mentioned again in “the date-stone, which hit the Jinnee in the eye” (CP: 1.345, 1903).

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ground of quasi-signs made by the quasi-thought of a quasi-mind (Gorlée 2004b)18. Quasi-translations bring forth not the intellectual mind, but rather some unanalyzable, unpredictable, unsystemic, and controversial qualities of the feeling and mind of the interpreter- translator, manifesting instead of the high-level mental semiosis the lower-level idea of Goethe’s wicked travesty of the real facts.

quasi-segni prodotti da quasi-pensieri di una quasi-mente (Gorlée 2004b). Le quasi-traduzioni non danno vita alla mente intellettuale, ma piuttosto ad alcune qualità non analizzabili, imprevedibili, non sistemiche e controverse dei sentimenti e della mente dell’interprete- traduttore, manifestando invece della semiosi mentale di alto livello, l’idea di basso livello dell’audace parodia goethiana dei fatti reali.

Quasi- or pseudo-Thirdness is called “Betweenness or Mediation in its simplest and most rudimentary form” (CP: 5.104, 1903). This degenerate sign relation brings together and takes apart – semiotically, deconstructs and constructs – Goethe’s glosses on the plurality of translation (CP: 2.89ff., 1902). The deterioration of the triadic relation into a dyadic or degenerate semiosis can define the varieties of intermediate types. The thought-off content of Goethe’s Notes is regulated by the duality of first degenerate signs, but the ramified lines of the Paralipomena agree with second degenerate signs (Parmentier 1985: 39f.).19 In first or singly degenerate signs, the interpretant points

La quasi- o pseudo-Terzità è chiamata “betweeness o mediazione nella sua forma più semplice e rudimentale” (CP: 5.104, 1903). Questa relazione segnica degenerata unisce e smonta – semioticamente, decostruisce e costruisce – le glosse di Goethe sulla pluralità della traduzione (CP: 2.89 e seguenti, 1902). Il deterioramento della relazione triadica in una o semiosi diadica o degenerata può definire le varietà di tipi intermedi. Il contenuto pensato delle Note di Goethe è regolato dal dualismo dei primi segni degenerati, ma i righi ramificati dei Paralipomena concordano con i secondi segni degenerati (Parmentier 1985: 39-40). Nei primi segni degenerati o segni degenerati

18 Quasi-signs, see Gorlée (2004b: 66f., 87, 129f., 137, 148); quasi-thought, see Gorlée (2004b: 145, 203ff., 206ff., 214, 217ff.); quasi-mind, see Gorlée (2004b: 66f., 87, 129f., 137, 148).

19 See Buczyńska-Garewicz (1979, 1983), Gorlee (1990), and Merrell (1995). Peirce’s formal concept of degeneracy and its informal examples were specifically explained in his later years, from 1885 and ending in 1909; see Peirce’s informal letter to Victoria Lady Welby (1837–1912) with a glossary of intermediate types (PW: 194, 1905).

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directly to its object, but does not interact with the sign. For Peirce, the interpretant “forcibly directs […] to a particular object, and there it stops” (CP: 1.361, 1885) without giving a specific reaction. The reaction is degenerate Secondness with a nuance of Firstness and Thirdness. In second or doubly degenerate signs, the interpretant relates to the sign and the object in separate sign-events, to make its own sense representing the interpreter’s personal meaning. The degenerate Firstness with a nuance of Secondness and Thirdness gives “a pure dream – not any particular existence, and yet not general” (CP: 3.362, 1885).

singolarmente l’interpretante indica direttamente il suo oggetto, ma non interagisce con il segno. Per Peirce l’interpretante “si dirige forzatamente […] verso un oggetto particolare e lì si ferma” (CP: 1.361, 1885) senza reagire in modo specifico. La reazione è la Secondità degenerata con una sfumatura di Primità e Terzità. Nei secondi segni o segni doppiamente degenerati l’interpretante si correla al segno e all’oggetto in segni-eventi separati, per dare il proprio senso, che rappresenta il significato personale dell’interprete. La Primità degenerata con sfumature di Secondità e Terzità dà “un puro sogno – non una esistenza particolare e tuttavia nemmeno generale” (CP: 3.362, 1885).

Goethe was steadily accustomed to bilingual and bicultural identities in the “radically new sort of element” (CP: 1.471, 1896) of his project, connecting and disconnecting Hafiz and von Hammer-Purgstall within his German Divan. He thus practiced in the definitions of the Notes a scientific proposition20, identifying related and otherwise unrelated things about the types of translations in his experience. Peirce’s proposition was a singly degenerate arrangement, made “in a living

Goethe era costantemente abituato a identità bilingui e biculturali nel “tipo di elemento radicalmente nuovo” (CP: 1.471, 1896) del suo progetto, collegando e scollegando Hāfez e von Hammer-Purgstall all’interno del suo Divan tedesco. Egli praticò così nelle definizioni delle Note una proposizione scientifica, identificando aspetti correlati e altrimenti non correlati sui tipi di traduzioni della sua esperienza. La proposizione di Peirce era un accordo singolarmente degenerato, fatto

20 “Proposition” is one of Peirce’s favourite terms, omnipresent in his writings about language, interpretation, utterance, and meaning. 45

effort to make its interpreter believe it true” (MS 646: 16, 1910). Goethe asserted that the dyadic connection of active sign and passive object (CP: 1.471, 1896) was known as Schleiermacher’s duality of paraphrases and imitations. Yet Goethe’s “triad brings a third sort of element, the expression of thought, or reasoning, consisting of a colligation of two propositions, not mere dyadic propositions, however, but general beliefs; and these two propositions are connected by a common term and tend to produce a third belief” (CP: 1.515, c.1896). Goethe wanted to affect the readers by the freedom of his third agent, adaptation – a germane but extraneous element to the interactive duality. In a proposition, Peirce stated that:

“in uno sforzo vitale per renderlo vero al suo interprete” MS 646: 16, 1910). Goethe sostenne che la connessione diadica tra segno attivo e oggetto passivo (CP: 1.471, 1896) era conosciuta come il dualismo schleiermacheriano tra parafrasi e imitazioni. Tuttavia la “triade [di Goethe] porta un terzo tipo di elemento, l’espressione del pensiero, o ragionamento, che consiste nel collegare due proposizioni, non semplici proposizioni diadiche, comunque, ma pensieri generali; e queste due proposizioni sono connesse da un termine comune e tendono a produrre un terzo pensiero” (CP: 1.515, c.1896). Goethe voleva colpire i lettori con la libertà del suo terzo agente, l’ adattamento – un elemento attinente ma estraneo al dualismo interattivo. In una proposizione, Peirce affermò che:

[…] there are in the dyad two subjects of different character, though in special cases the difference may disappear. These two subjects are the units of the dyad. Each is one, though a dyadic one. Now the triad in like manner has not for its principal element merely a certain unanalyzable quality sui generis. It makes [to be sure] a certain feeling in us. (CP: 1.471, 1896)

[…] nella diade ci sono due soggetti di caratteri diversi, anche se in casi speciali la differenza può scomparire. Questi due soggetti sono le unità della diade. Ciascuno è uno, anche se diadico. Ora, la triade in modo simile non ha come suo elemento principale solo una certa qualità non analizzabile sui generis. Ci suscita [a dire il vero] una certa sensazione. (CP: 1.471, 1896)

Contrary to scientific method, “[…] it is to be understood that proposition, judgment, and belief are logically equivalent (though in other respects different)” (MS 789: 2, n.d.). Despite the doubts that “a proposition is nothing existent, but is a general model, type, or law

Contrariamente al metodo scientifico, “[…]è da intendersi che proposizione, giudizio e credenza sono logicamente equivalenti (anche se sotto altri aspetti diversi)” (MS 789: 2, s.d.). nonostante i dubbi che “una proposizione non sia nulla di esistente, ma sia un modello

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according to which existents are shaped” (MS 280: 29, c.1905), Goethe took his responsibility of the propositional announcement, supporting the three types of translation as a general idea.

generale, un tipo, o un accordo di legge in base al quale si sono formati gli esistenti” (MS 280: 29, c.1905), Goethe si prese la responsabilità dell’annuncio proposizionale, supportando i tre tipi di traduzione come idea generale.

Peirce announced that “[i]n science, a diagram or analogue of the observed fact leads on to a further analogy” (MS 909: 12f. [see 42] = CP: 1.367, 1890– 1891). The approximative approach of the “reactionally degenerate” (CP: 5.73, 1902) glosses of the Notes is again deconstructed in the doubly degenerate list of Paralipomena. The separate lines depend not really on intellectual performance (Thirdness), but sketch the design of the “qualitatively degenerate” (CP: 5.73, 1902) moods and tones of thought of Goethe’s own self. Goethe’s images of self-depiction in the edited version “address themselves to us, so that we fully apprehend them. But it is a paralyzed reason that does not acknowledge others that are not directed to us, and does not suppose still others of which we know nothing definitely” (MS 4: 49, 1904; my italics). Goethe’s “airy nothingness” (CP: 4.241, 1902) means that the sign of “Brute Actuality of things and facts” (Secondness) has weakened beyond the meaningful occurrence into the undetermined and vague quality of “suchness” (Firstness) (CP: 1.303, c.1894, CP:

Peirce annunciò che “[i]n scienza un diagramma o qualcosa di analogo, dei fatti osservati conduce a un’ulteriore analogia” ” (MS 909: 12-13 [vedi 42] = CP: 1.367, 1890– 1891). L’approccio approssimativo delle glosse “reazionalmente degenerate” (CP: 5.73, 1902) delle Note è ancora una volta decostruito nella lista doppiamente degenerata dei Paralipomena. Le linee separate non dipendono realmente da performance intellettuali (Terzità), ma abbozzano il disegno degli umori e dei toni “qualitativamente degenerati” del pensiero di Goethe stesso. Le immagini dell’autorappresentazione di Goethe nella versione revisionata “si rivolgono a noi, così che possiamo comprenderle pienamente. Ma è una ragione paralizzata che non riconosce altri che non siano rivolti verso di noi e non suppone nemmeno altri di cui non sappiamo assolutamente niente”(MS 4: 49, 1904; corsivo aggiunto). Il “nulla d’aria” (CP: 4.241, 1902) di Goethe significa che il segno della “bruta attualità delle cose e dei fatti” (secondità) si è indebolita oltre la significativa occorrenza ed è diventato “talità” (primità) di qualità vaga

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1.326, c.1894, CP: 1.304, c.1905), independent from the object (Gorlée 2009). To illustrate the empty pages of “Translations” in Paralipomena, Peirce wrote something analogous, saying that:

e indeterminata (CP: 1.303, c.1894, CP: 1.326, c.1894, CP: 1.304, c.1905), indipendente dall’oggetto (Gorlée 2009). Per illustrare le pagine vuote di “traduzioni” nei Paralipomena, Peirce scrisse qualcosa di analogo, affermando che:

Combine quality with quality after quality and what is the mode of being which such determinations approach indefinitely but altogether fail ever to attain? It is, as logicians have always taught, the existence of the individual. Individual existence whether of a thing or of a fact is the first mode of being that suchness fails to confer. (CP: 1.456, c.1896)

Combinare qualità con qualità dopo qualità e qual è il modo di essere che certe determinazioni avvicinano indefinitamente ma non riescono mai a raggiungere interamente? È, come i logici hanno sempre insegnato, l’esistenza dell’individuo. L’esistenza individuale sia essa di una cosa o di un fatto è il primo modo di essere che la talità non riesce a conferire. (CP: 1.456, c.1896)

The mere Firstness is a “rough impression” (SS: 194, 1905) reflecting the “Sign’s Soul, which has its Being in its power of serving as intermediary between its Object and a Mind. Such, too, is a living consciousness, and such the life, the power of growth, of a plant” (CP: 6.455, 1908). Grasping the possibility of understanding the hidden idea of a “dark instinct of being a germ of thought” (CP: 5.71, 1902), the reader is brought “face to face with the very character signified” (NEM 4: 242, 1904), with the expressions and emotions of Goethe’s own self- portrait.

La mera Primità è una “grezza impressione” (SS: 194, 1905) che riflette l’”anima del segno, che ha il suo essere nel suo potere di fungere da intermediario tra l’oggetto e la mente. Tale è anche una coscienza viva e tale la vita, la forza di crescita di una pianta” (CP: 6.455, 1908). Cogliendo la possibilità di comprendere l’idea nascosta di un “istinto oscuro di essere un germe di pensiero” (CP: 5.71, 1902), il lettore è portato “faccia a faccia con il carattere stesso significato” (NEM 4: 242, 1904), con le espressioni e le emozioni dell’autoritratto di Goethe.

With “only a fragment or a completer sign” (NEM 4: 242, 1904) in Goethe’s Paralipomena, the last and final point of intermediate types has been argued in bricolages (Firstness) (Gorlée 2007: 224ff.).

Con “solo un frammento o un segno più completo” (NEM 4: 242, 1904) nei Paralipomena di Goethe, l’ultimo e finale punto dei tipi intermedi è stato messo in discussione nel bricolages (Primità) (Gorlée

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Translation started out as pure intellectual Thirdness, but was accurately and sharply weakened into mixed concepts of Secondness and Thirdness, mingling with Thirdness. Pseudo-translation is degenerate thought, mediated into a representation of the fact according to a possible idea. Goethe’s images of translation are not reasoned, but rely on experience and education. In the Notes and the Paralipomena, degenerate translation gave in Peirce’s perspective “just one unseparated image, not resembling a proposition in the smallest particular […]; but it never told you so. Now in all imagination and perception there is such an operation by which thought springs up; and its only justification is that it subsequently turns out to be useful” (CP: 1.538, 1903) – like Goethe’s thing of beauty in West-östlicher Divan.

2007: 224 e seguenti). La traduzione iniziò come pura e intellettuale Terzità, ma fu accuratamente e acutamente indebolita in concetti misti di Secondità e Terzità, inframezzandosi alla Terzità. La pseudotraduzione è pensiero degenerato, mediato in una rappresentazione del fatto secondo un’idea possibile. Le immagini goethiane della traduzione non sono ragionate, ma fanno affidamento sull’esperienza e l’istruzione. Nelle Note e nei Paralipomena, la traduzione degenerata ha dato, secondo la prospettiva di Peirce, ”una sola immagine non separata, che non somigliava a una proposizione nel più piccolo dei particolari […] ma non è mai stato detto. Ora, in ogni immaginazione e percezione vi è una tale operazione con la quale il pensiero salta su; e la sua unica giustificazione è che risulta poi utile” (CP: 1.538, 1903) – come il fatto della bellezza nel West-östlicher Divan goethiano.

49

3 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess Ksenia Elisseeva Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Boris Fëdorovič Egorov, The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots

Isaak Iosifovič Revzin, Language as a Sign System and the Game of Chess

Ksenia Elisseeva

Civica Scuola Interpreti e Traduttori
Laurea specialistica in Traduzione

primo supervisore: professor Bruno OSIMO
secondo supervisore: professoressa Antonella RICCIARDI

Master: Langages, Cultures et Sociétés
Mention: Langues et Interculturalité
Spécialité: Traduction professionnelle et Interprétation de conférence Parcours: Traduction littéraire
estate 2008

© The Johns Hopkins University Press 1977
© Ksenia Elisseeva per l’edizione italiana 2008

2

Abstract

This thesis proposes a translation of two articles by two famous Soviet semioticians, Boris Egorov and Isaak Revzin. The scientific article by Egorov regards the cartomantic reading of a person’s life as the creation of a plot in literature. Egorov’s goal is to use the cartomantic system as a rudimentary model for the analysis of literary plots. The article by Revzin pursues Saussure’s analogy between language and chess. By comparing language and chess, he seeks to show that the human intellect uses similar constructions, elements, relations of elements and rules to solve the various tasks of processing information. The second part of this thesis provides a commentary on the translation, the strategy used and the main translational problems.

3

Sommario

Abstract………………………………………………………………………………………. 3 Sommario …………………………………………………………………………………… 4 Traduzione con testo a fronte ………………………………………………………… 5

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots……………… 6 Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci……………………… 7 Language as a Sign System and the Game of Chess…………………… 34 La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi……………….. 35

References ……………………………………………………………………………….. 50 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 51 Analisi traduttologica…………………………………………………………………… 54

Fonte, autori, argomento. …………………………………………………………. 55 Egorov Boris Fedorovič ………………………………………………………… 56 Revzin Isaak Iosifovič …………………………………………………………… 57

Analisi traduttologica ……………………………………………………………….. 58 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………… 62

4

Traduzione con testo a fronte

5

Chapter 6

The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots1.

B. F. Egorov

The exceptionally stormy development of semiotics has naturally brought with it study of the most diverse sign systems, and even cartomancy, fortune- telling with playing cards, has proven to be an object of research. M. L Lekomceva and B. A. Uspenskij’s innovative and intelligent essay has provided us with many valuable and interesting formulations (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). However, the present study does not in fact accept one of their essay’s main theses, that the system of fortune-telling «contains the potential for several interpretations» and the fortune-teller «always possesses several degrees of freedom».

In the essay mentioned, emphasis is put on studying the pragmatics of the “game” for the fortune-teller and for the person having his fortune told. “Professional” fortune-telling is definitely presupposed, in which a fortune-teller conducts a game of divining past and present with his naive victim. But in such a “game”, particularly when the victim does not look at the cards or understands nothing about them, one can speak not of several but of infinite degrees of freedom. For the “professional” fortune-teller, the cards are a pure fiction, and information is received not from the cards but from the external and internal appearance of the person having his fortune told and from his reaction to the fortune-teller’s words. Even the prediction of the future is usually not obtained from the cards: a future is constructed for the victim that is capable of achieving the most “mercenary” effect, and it is based on a study of his character.

1 This article appeared also in Russian as «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

6

Capitolo 6

Sistemi semiotici elementari e tipologia degli intrecci1.

B. F. Egorov

Lo sviluppo eccezionalmente rapido della semiotica ha naturalmente favorito lo studio dei diversi sistemi segnici, e anche la cartomanzia, divinazione mediante le carte da gioco, è diventata oggetto di studio. L’articolo innovativo e brillante di M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij ci ha fornito una serie di formulazioni valide e interessanti (Lekomceva, Uspenskij 1962: 84-86). Tuttavia nel presente saggio una delle più importanti tesi espresse dagli studiosi, secondo i quali il sistema della cartomanzia «è un terreno soggetto a varie interpretazioni» e il cartomante «ha sempre parecchi gradi di libertà», viene respinta.

Gli autori dell’articolo pongono l’accento sullo studio della pragmatica del “gioco” della cartomante e di chi vi si rivolge. Viene utilizzato il metodo “professionale” di divinazione, in cui la cartomante conduce con la sua ingenua vittima il gioco volto a indovinare il passato e il futuro. Trattandosi di un “gioco”, soprattutto quando la vittima non guarda le carte o non ne capisce molto, si può dire che i gradi di libertà sono, più che parecchi, infiniti. Per la cartomante “professionale”, le carte sono oggetto di pura finzione, e le informazioni non vengono apprese dalle carte stesse ma dall’apparenza esterna e interna del cliente e dalla sua reazione alle parole della cartomante. Nemmeno la predizione del futuro avviene tramite la lettura delle carte: il futuro della vittima viene rappresentato in modo tale da poter ottenere il massimo effetto “mercenario” ed è basato sullo studio del carattere della persona interessata.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «Prostejšie semiotičeskie sistemy i tipologiâ sûžetov», in Trudy po znakovym sistemam, II (Tartu: Tartu University Press, 1965), 106-115.

7

Such a method of fortune-telling does not belong in general to scientific study as a sign system because it is susceptible to an infinite number of degrees of freedom and accordingly to infinite probable outcomes. However, it can be of great interest for game theory and for psychologists.

On the contrary, “honest” fortune-telling, which is most prevalent inside a circle of acquaintances and in telling one’s own fortune, is as a rule a rigid system almost devoid of freedom of choice. In this system, each card has one unique meaning that can vary only in strictly stipulated, isolated instances; various nuances of meaning are created only in the context of the entire distribution of cards, as is discussed below. Obviously such a system is elaborated during a centuries-long developmental process in which the most significant and diverse actions and consequences are selected, and in this form it attracts our attention as a system of plots.

I shall take as my example one of the systems of fortune-telling which is widespread in Petersburg-Leningrad1. This system is only one variant of Russian methods of fortune-telling; of course fortune-telling as a “serious” attribute of everyday Iife is now almost extinct in our country, and has been preserved mainly as an amusement.

Depending on the person whose fortune is being told, an appropriate face card is chosen from among the cards; in this system, kings and queens are the only face cards used. In personal, direct fortune-telling, the queen of spades naturally loses validity for ethical reasons, but in indirect, impersonal fortune- telling, it is theoretically possible to utilize the queen of spades, especially if the fortune-teller has grounds for thinking that a woman is a “villainess”.

1 There are a great many systems of cartomancy, and the literature describing the various methods is extremely extensive. We shall mention only a few books in the Russian language: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Moscow, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Moscow, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

8

Tale metodo di divinazione non può essere considerato un sistema segnico e di conseguenza un oggetto di studio scientifico poiché suscettibile a un numero infinito di gradi di libertà e quindi di esiti possibili, ma può essere interessante per la teoria del gioco e la psicologia.

Al contrario, la cartomanzia “onesta”, quella praticata tra persone che si conoscono, e l’auto-cartomanzia, di norma costituiscono un sistema rigido, quasi privo di ogni libertà di scelta. In questo sistema, ogni carta ha un unico significato che può variare solo in casi isolati, rigorosamente specificati; le varie sfumature di significato sono create nel contesto della completa distribuzione delle carte. Questo caso verrà esaminato successivamente. Questo sistema ha evidentemente subìto nei secoli un lungo processo evolutivo nel quale sono state selezionate diverse azioni e conseguenze significative. Concentreremo la nostra attenzione su questa forma del sistema in quanto sistema di intrecci.

In qualità di esempio analizzerò uno dei sistemi di divinazione diffuso a Pietroburgo-Leningrado1, uno dei tanti metodi di cartomanzia usati in Russia. La cartomanzia, intesa come attributo “serio” della vita di ogni giorno, nel nostro paese si è quasi estinta; è sopravvissuta intesa meramente come gioco.

A seconda dell’oggetto di divinazione [di cui viene predetto il futuro; N.d.T.] dalle carte figure ne viene scelta una appropriata; nel sistema in questione vengono usate solo le figure del re [K] e della donna [Q]. Nella divinazione personale, diretta, la donna di picche [Q♠] viene esclusa per motivi etici; mentre nella divinazione indiretta, impersonale, soprattutto se il soggetto di divinazione [la persona che interessa all’oggetto o, nel caso dell’autocartomanzia, la persona che la cartomante ha in mente; N.d.T.] è una donna considerata “malvagia”, può essere scelta la donna di picche.

1 Vi sono svariati sistemi cartomantici e la letteratura che descrive i vari metodi è estremamente vasta. Accenniamo solo ad alcuni dei libri in lingua russa sull’argomento: Gadal’nye karty znamenitogo prof. Svedenborga (Mosca, 1859); Gadanie o prošedšem, nastoâŝem i buduŝem (Mosca, 1891); Polnoe rukovodstvo k gadaniû na kartah (Sankt Peterburg, 1912).

9

The following table lists the meanings of the face cards and of the predicate cards that denote a state or action. A deck of thirty-six cards is used in the fortune-telling.

10

Nella tabella riportata di séguito vengono elencati i significati delle carte figure e delle carte predicato, cioè quelle di stato e di azione. [Nella tabella e in tutto il saggio i nomi delle carte verranno abbreviati secondo il sistema usuale: A♣ – asso di fiori, K♠ – re di picche, Q♥ – donna di cuori, J♦ – fante di quadri, 10♣ – 10 di fiori e così via; N.d.T.]. In questo sistema di divinazione si usa il mazzo contenente trentasei carte.

11

Suit Denomination

Clubs ♣

Spades ♠

Hearts ♥

Diamonds ♦

Ace (A)

bank (+ K♣ + Q♣ – their house)

blow (+ K♠ + Q♠ – their house)

family house (+ K♥ + Q♥ – their house)

receipt of a letter

King (K)

“financial” (employee, elderly man or widower)

soldier

married man, not old

unmarried person

Queen (Q)

elderly lady or widow (+ K♣ – his lady)

villainess (+ K♠ – his lady)

married woman, not old (+ K♥ – his lady)

girl

Jack (J)

troubles in connection with the bank (+ K♣ + Q♣ – their troubles)

unpleasant, unjust troubles (+ K♠ – his troubles)

domestic troubles (+ K♥ + Q♥ – their troubles)

pleasant, amusing troubles

10

great change

unpleasantness, illness (+ K♠ – interest toward the person)

domestic card

large amount of money

9

change (+ 10♣ – very great change; + K♣ + Q♣ – affectionate attitude toward the person)

unpleasantness, illness (+ 10♠ – very bad; + K♠ + Q♠ – affectionate attitude towards the person; + Q♠ – villainous intent)

domestic love (+ K♥ + Q♥ – their love for someone)

small amount of money (+ 10♦ – very large amount of money)

8

financial conversation

unpleasant conversation (+ K♠ – conversation with him)

domestic conversation

cheerful conversation

7

financial meeting

late meeting (+ K♠ – meeting with him)

quick meeting

cheerful meeting

6

financial journey

long journey

short journey

early, pleasant journey

12

Seme Valore

Fiori ♣

Picche ♠

Cuori ♥

Quadri ♦

Asso (A)

edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro casa)

colpo (+ K♠ e Q♠ – loro casa)

casa (+ K♥ e Q♥ – loro casa)

recapito di una lettera

Re (K)

uomo (impiegato) “pubblico”, anziano o vedovo

soldato

uomo sposato, non anziano

uomo celibe

Donna (Q)

donna anziana o vedova (+ K♣ – sua donna)

donna malvagia (+ K♠ – sua donna)

donna sposata, non anziana (+ K♥ – sua donna)

donna nubile

Fante (J)

faccende legate a un edificio pubblico (+ K♣ e Q♣ – loro faccende private)

faccende inutili (spiacevoli) (+ K♠ – sue faccende private)

faccende famigliari (+ K♥ e Q♥ – loro faccende private)

faccende divertenti

10

grande cambiamento

dispiacere, malattia (+ K♠ – interesse per il soggetto)

carta di famiglia

molto denaro

9

cambiamento (+ 10♣ – grande cambiamento; + K♣ e Q♣ – relazione sentimentale con il soggetto)

dispiacere, malattia (+ 10♠ – molto grave; + K♠ e Q♠ – relazione sentimentale con il soggetto; + Q♠ – cattive intenzioni)

affetto tra membri della famiglia (+ K♥ e Q♥ – loro amore per qualcuno)

poco denaro (+ 10♦ – moltissimo denaro)

8

conversazione formale

conversazione spiacevole (+ K♠ – conversazione con lui)

conversazione in famiglia

conversazione divertente

7

incontro formale

incontro successivo (+ K♠ – appuntamento con lui)

incontro imminente

incontro divertente

6

viaggio per scopi non personali

viaggio lontano

viaggio non lontano

viaggio di piacere a breve

13

It is evident that as a rule the majority of cards have a single meaning. Only in particular cases do some cards acquire special meanings or nuances, and here context begins to play an essential role.

Cartomancy proceeds in the following manner. Pairs of cards are drawn consecutively from the deck until the card appears that is the basis for the fortune-telling and constitutes the person’s card. The card paired to it is “next to” and “close to” the person. The person’s card (1) is placed in the center, the rest of the cards are gathered into the deck again and reshuffled, and then the cards are laid down. We shall omit the details of laying out the cards as essentially unimportant and shall describe only the result of the distribution. Two cards (2, 3), and then four more (4-7), are placed on the person’s card; they are what the person has “on his heart”. The other cards are arranged in eight groups around the center in the following way:

16, 17 1 18, 19

Nine cards obviously remain outside the distribution; they are discarded and do not take part in the fortune-telling. Cards 8-15 describe the person’s past (“what was”), cards 16-19 describe the present (“what is”), and cards 20-27 describe the future (“what will be”).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

14

13, 14 15

È evidente che di norma la maggioranza delle carte ha un solo significato. Solo in casi particolari alcune carte acquisiscono un significato o una sfumatura speciale e il contesto comincia a esercitare un ruolo fondamentale.

La cartomanzia avviene nel modo seguente. Coppie di carte vengono consecutivamente estratte dal mazzo fino quando esce la carta che rappresenta l’oggetto di divinazione. La carta-compagna indica quello che è «accanto» o «vicino» alla persona. La carta dell’oggetto (1) vene collocata al centro, le carte rimanenti vengono di nuovo raccolte nel mazzo, mescolate e distribuite. Ometteremo i dettagli della distribuzione in quanto privi d’importanza essenziale e descriveremo solo i risultati. Due carte (2, 3) e dopo altre quattro (4-7) vengono collocate sopra la carta dell’oggetto e rappresentano quello che l’oggetto «ha nel cuore». Le altre carte vengono collocate in otto gruppi attorno alla carta centrale come segue:

16, 17 1 18, 19

È evidente che nove carte restano escluse dalla distribuzione; queste carte vengono scartate e non partecipano alla divinazione. Le carte 8-15 caratterizzano il passato dell’oggetto («quel che c’era»), le carte 16-19 – il presente («quel che c’è»), le 20-27 – il futuro («quel che ci sarà»).

22 20, 21

24 23

2, 3

27 25, 26

4, 5, 6, 7

12 11

8, 9 10

15

13, 14 15

“Reading” the cards takes place in this sequence: initially the cards that the person has “on his heart” are read (at first 2-3, then 4-7), then come “what was”, “what is”, and “what will be”. The order of the cards within a group can be significant for all groups except the center. The positions of the cards in relation to the center, the person, are important because reading takes place from the center to the periphery in a sequence such as 1-17-16 or 1-(13, 14)-15. The person “acquires” the last card by and through the intermediate card or cards. For example, if card 16 stands for the journey and card 17 is an individual, then the person whose fortune is being told turns out to be on a journey because of this individual; if, on the contrary, 16 is an individual and 17 is the journey, then this individual will come on a journey to the person whose fortune is being told. Clearly the sentences, “a meeting due to money” and “money due to a meeting”, have different meanings. In short, the syntax in reading all eight peripheral groups requires a “direct” order of words from the center to the last card and does not permit inversion. The order of the cards is neutral only in isolated cases; for example, 9♣ + K♣ + Q♣ signify an affectionate attitude toward the person whether they are in extreme or middle position. As a result, a structure is created in which the sum, so to speak, of simple elements generates a complex whole whose overall meaning is changed substantially by varying correlations of elements.

After the reading of the entire distribution of cards comes the divination of “what remains to the person”, what the final result of this or another period of the person’s life will be. It is also possible to make subsequent distributions of the cards on themes such as “what will soothe”, “for you”, “for the home”, and “for the heart”. Only very primitive sentences are created by these divinations, which are limited in number to between three and nine cards, together with the predivination that determines the person’s card by the paired card “next to” it. Therefore we can omit them from consideration without detriment, and henceforth shall only consider the basic distribution of cards.

Reading this distribution generates an entire “history” of the person’s life and thus creates a plot. There are an extraordinarily great, though finite, number of plots.

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La “lettura” delle carte avviene come segue: prima di tutto si leggono le carte «nel cuore» dell’oggetto (prima le 2-3, dopo le 4-7), poi «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà». L’ordine delle carte all’interno di ogni raggruppamento può essere significativo per tutti i gruppi a accezione di quello centrale. È fondamentale il posizionamento delle carte rispetto al centro, l’oggetto; la lettura avviene partendo dal centro verso la periferia, cioè in questo ordine: 1→17→16 oppure 1→(13, 14)→15. L’oggetto “acquisisce” la carta esterna tramite la/e carta/e intermedia/e e grazie a esse. Se, per esempio, la carta 16 significa «viaggio» mentre la 17 è una figura, l’oggetto farà a breve un viaggio grazie all’individuo rappresentato dalla figura 17; se invece 16 sta per un individuo e 17 è un viaggio, l’individuo 16 sta per arrivare da lontano verso l’oggetto. È chiara la differenza tra le affermazioni «incontro a causa di denaro» e «denaro a causa di incontro». In breve, la sintassi nella lettura di tutti gli otto gruppi periferici richiede l’ordine “diretto” delle parole, dal centro alla carta esterna, e non ammette inversioni. L’ordine delle carte è neutro solo in casi isolati; per esempio, 9♣ accanto a K♣ e Q♣ sia nella posizione laterale che in quella centrale significa «relazione sentimentale con il soggetto». In séguito si crea una struttura nella quale la somma degli elementi, supponiamo, semplici genera un insieme complesso il cui senso generale cambia notevolmente variando le correlazioni tra gli elementi.

Alla lettura dell’intera distribuzione delle carte segue la divinazione di «quel che resta» all’oggetto, di quale risultato finale del periodo di vita attuale o immaginato lo attende. Sono inoltre possibili le successive distribuzioni delle carte sul tema «quel che conforterà», «per te» [per l’oggetto], «per la casa» [per la famiglia], «per il cuore». Siccome in questi tipi di divinazione, e anche nella fase iniziale in cui dalla carta-compagna della carta dell’oggetto si predice «quel che è accanto», si usa un numero limitato di carte (da 3 a 9) e vengono generate delle frasi primitive, le si può considerare meno rilevanti per la nostra ricerca, quindi ci occuperemo prevalentemente della distribuzione principale.

La lettura di questa distribuzione ci porta a conoscere l’intera “storia” dell’oggetto creando un intreccio. Il numero degli intrecci è estremamente alto, ma finito.

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Even if we disregard the variants generated by the order of the cards within the group and consider only the possibility that cards in the deck have of being the person’s card, or of being in groups like “on the heart”, “what was”, “what is”, or “what will be”, then according to the formula of combinations the number of plots will be equal to 12•1022. Taking into account all the variants arising from diverse arrangements or permutations of cards within each of the peripheral groups, this number must be multiplied yet another one hundred times and becomes twelve septillions or 12•1024. If the three billion inhabitants of the terrestrial globe were each to make a new distribution of cards every minute, they would exhaust all the variants after ten billion years of uninterrupted labor; but it is calculated that the solar system will only last approximately another eight billion years, and certainly people will find themselves more interesting and important pursuits during this period.

Moreover, the enormous number of plots are created by thirty-six cards, a very limited set of signs. Hence arises one of the cardinal questions of the theory of plots, that of the “primary element”. On the basis of the material of folklore and of ancient and medieval literature, the academician A. N. Veselovskij suggested that the primary plot element is the motif, «the simplest narrative unit which responds figuratively to the diverse inquiries of the primitive mind or of everyday observation» (Veselovskij 1940: 500). An eclipse of the sun and abduction of a girl are typical motifs. V. Â. Propp later set himself the goal of creating a complete list of motifs of fairy tales by analyzing one hundred plots from Afanas’ev’s collection of tales. He defined his primary elements more exactly as functions and obtained thirty-one such functions, including “a member of the family leaves home”, “a ban is imposed on the hero”, “a ban is broken”, and so on (Propp, 1968: 25-65). It seems that functions can be divided into even smaller units such as “hero”, “departure”, “ban”, “antagonist”, “deception”, and “struggle”, which would turn out to be at least half as few functions as thirty-one. But the fact remains that such units do not aid us at all in understanding the essence of the fairy tale, for they cannot be freely correlated with each other: to wit,

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Anche se ignoriamo le varianti originate dall’ordine delle carte all’interno del gruppo e consideriamo solo la possibilità che ogni carta del mazzo ha di diventare la carta dell’oggetto, la carta del gruppo «nel cuore», «quel che c’era», «quel che c’è» e «quel che ci sarà», secondo il calcolo combinatorio il numero degli intrecci è approssimativamente pari a 12•1022. Calcolando tutte le varianti derivanti dalla diversa disposizione o permutazione degli elementi all’interno di ogni gruppo periferico, questo numero va ulteriormente moltiplicato per 100 e diventa dodici settime potenze di un milione, cioè 12•1024. Se ognuno dei tre miliardi di abitanti del globo terrestre facesse una nuova distribuzione ogni minuto, si esaurirebbero tutte le varianti in dieci miliardi di anni di lavoro ininterrotto; è stato calcolato però che il sistema solare durerà solo altri otto miliardi di anni e le persone, sicuramente, nel frattempo troveranno di meglio da fare.

Inoltre, questo grande numero di intrecci è creato da sole trentasei carte, un numero molto limitato di segni. Da qui deriva una delle questioni cardinali dell’intrecciologia, quella dell’“elemento primario”. Sulla base del materiale folcloristico e della letteratura antica e medievale, l’accademico A. N. Veselovskij ha supposto che l’elemento primario dell’intreccio sia il motivo, «la più elementare unità narrativa che risponde figurativamente a diverse indagini della mente primitiva o delle osservazioni quotidiane» (Veselovskij 1940: 500). Alcuni dei motivi tipici sono l’eclissi solare e il rapimento della fanciulla. Successivamente V. Â. Propp si era posto l’obiettivo di completare un elenco dei motivi della fiaba attraverso l’analisi di cento intrecci dalla raccolta di fiabe di Afanas’ev. Per essere precisi, ha definito i suoi elementi primari come «funzioni» e ne ha individuate trentuno tra cui: «un membro della famiglia va via di casa», «all’eroe viene posto un divieto», «un divieto viene violato» e così via (Propp, 1968: 25-65). Le funzioni potrebbero essere suddivise ulteriormente in unità ancora più piccole, come «eroe», «partenza», «divieto», «antagonista», «inganno», «lotta» e diventare perciò la metà del numero proposto da Afanas’ev, ma queste unità non facilitano affatto la comprensione dell’essenza della fiaba poiché non possono essere liberamente correlate tra loro, vale a dire:

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the ban is imposed on the hero, and not on the antagonist or donor; the antagonist is precisely the one who is properly punished (the thirtieth function) and not the hero or his helper. Syncretic thought operated by using integral segments that themselves represented short plots and that passed undivided from tale to tale, and therefore further differentiation of Propp’s functions would be senseless.

The increasing complication of life and the emergence of an elemental dialectics in thought led to a more flexible and free correlation in the artist’s consciousness between the separate elements of a function, as well as to the appearance of many completely new elements and functions. It would be very valuable to analyze the process of disassociation of motif-functions into more minute units and the emergence of new motif-functions as it takes place over the course of many centuries; for instance, the plot of Puškin’s Ruslan i Lûdmila could be compared, by using Propp’s method, with traditional fairy tale plots. A characteristic feature of modern literature is the disassociation of motifs into their component parts or submotifs, which enter into free interactions with each other as subjects and predicates. Growth in the number of elements increases proportionally to the number of ties between them, which in turn complicates the structure as a whole. Therefore, attempts to reduce all the diversity of world dramaturgy to three dozen or so plots are naïve (see Polty 1895).

Although the origin of cartomancy dates from extreme antiquity, contemporary cartomantic systems are the fruit of a new era. In them, each card is not a motif or “little plot”, but an element that only generates a plot in conjunction with other elements. In turn, each element or card cannot be divided further, and all thirty-six cards are indivisible elements. It is very difficult to classify these elements without taking into consideration the common division into subjects (face cards) and predicates (actions or states). No hierarchy based on suit or denomination, aesthetic or ethical categories, can be observed in our system. The feebly outlined opposition in face cards between the sexes, and the contrast in suits between old and young, married and unmarried, is entirely absent in predicates. Predicates can be conventionally grouped in twelve categories,

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il divieto è posto all’eroe e non all’antagonista o al donatore; è l’antagonista che viene punito a dovere (la trentesima funzione), non l’eroe o il suo aiutante. Il pensiero sincretico ha agito attraverso segmenti interi che di per sé rappresentavano intrecci brevi che passavano intatti di fiaba in fiaba; di conseguenza un’ulteriore suddivisione delle funzioni di Propp non avrebbe senso.

Le condizioni di vita in peggioramento e la nascita della dialettica spontanea nel pensiero hanno portato a una correlazione più flessibile e libera nella coscienza dell’artista tra i vari elementi di una funzione e inoltre hanno portato alla comparsa di molti elementi e funzioni completamente nuovi. Sarebbe molto utile analizzare il processo di disintegrazione di motivi-funzioni in unità più piccole e la comparsa di elementi nuovi che avviene nel corso di molti secoli; per esempio l’intreccio di Ruslan i Lûdmila di Puškin può essere paragonato, secondo il metodo di Propp, agli intrecci tradizionali della fiaba. Un aspetto caratteristico della letteratura moderna è la disintegrazione dei motivi nelle parti integranti, sottomotivi o soggetti e predicati che entrano in relazioni libere tra loro. La crescita del numero degli elementi aumenta proporzionalmente al numero dei legami tra loro, e questo a sua volta complica la struttura in generale. Sono perciò ingenui i tentativi di limitare tutta la diversità della drammaturgia mondiale a una trentina di intrecci (si veda Polty 1895).

Nonostante le origini della cartomanzia risalgano alla più remota antichità, i sistemi cartomantici contemporanei sono frutto di una nuova epoca. Ogni carta qui non è un motivo o un “piccolo intreccio”, ma un elemento che genera un intreccio se collegato ad altri elementi. Ogni elemento o carta a sua volta non può essere divisa ulteriormente; tutte le trentasei carte sono perciò elementi indivisibili. È molto difficile classificare questi elementi senza prendere in considerazione la suddivisione comune in soggetti (carte figure) e predicati (azioni o stati). Nel nostro sistema è assente ogni suddivisione in base a semi e valori, categorie etiche ed estetiche. La contraddizione poco evidente, nelle carte figure, tra sessi, e il contrasto nei semi tra anziano e giovane, sposato e non sposato è del tutto assente nei predicati. I predicati possono essere formalmente raggruppati in dodici categorie

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and many denominations have a common type of meaning for all or some suits:

1. change;
2. troubles;
3. illness;
4. receiptofmoney; 5. love;

6. family;
7. conversation;
8. meeting;
9. journey;
10. blow;
11.receipt of a letter; 12.sojourn in some house.

These twelve groups of predicates acquire a more specific meaning in context; some groups, at least two, seven, eight, and nine, are four variants of the same meaning. Almost all meanings in group classification are ethically and aesthetically neutral. Figure cards remain neutral as a rule even in the substitution of suits; Q♠ is an exception, but only in the absence of her cavalier, since the auxiliary status of K♠ frees Q♠ from any condemnation or even ethical suspicion. The groups of predicates one, two, six, seven, eight, nine, eleven, and twelve are neutral in themselves. Only four and five convey a clearly positive meaning, while three and ten are negative; due to their uniqueness, as a rule these groups include only one card, or more rarely two cards. Predicates of the majority of groups are evaluated only when their suit and value are specified, as in unpleasant troubles (J♠), amusing troubles (J♦), unpleasant conversation (8♠), cheerful conversation (8♦). It turns out that the second part of a card’s conventional meaning, its value or denomination, designates, as it were, the state or action itself, while the first part, its suit, introduces something qualitative, evaluative, or attributive.

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e molti valori hanno lo stesso significato per tutti i semi o per alcuni:

1. cambiamento,
2. faccende,
3. malattia,
4. riscossionedidenaro, 5. amore,

6. famiglia,
7. conversazione,
8. incontro,
9. viaggio,
10. colpo,
11.recapito di una lettera, 12.permanenza in un edificio.

Questi dodici gruppi di predicati acquisiscono un significato più specifico nel contesto; alcuni gruppi – il secondo, il settimo, l’ottavo e il nono – sono le quattro varianti dello stesso significato. Quasi tutti i significati nella classificazione di gruppo sono eticamente ed esteticamente neutrali. Normalmente le carte figure restano neutrali nonostante il significato generale del seme: la donna di picche ne è l’eccezione solo quando il suo “cavaliere” è assente dato che la posizione “ufficiale” di K♠ libera Q♠ da qualsiasi condanna o sospetto di carattere etico. I gruppi dei predicati uno, due, sei, sette, otto, nove, undici e dodici sono neutri. Soltanto il quattro e il cinque esprimono un significato chiaramente positivo, mentre il tre e il dieci sono negativi; e proprio grazie alla loro unicità questi gruppi comprendono di solito solo una o al massimo due carte. I predicati della maggioranza dei gruppi diventano positivi o negativi a seconda del seme e del valore: faccende spiacevoli (J♠), faccende divertenti (J♦), conversazione spiacevole (8♠), conversazione divertente (8♦). Risulta che la prima parte della denominazione convenzionale della carta – il suo valore – significa lo stato, l’azione, invece la seconda parte – il seme – introduce una caratteristica qualitativa, valutativa o attributiva.

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However, it is significant that a number of predicates do not specify a precise meaning even with substitution of suit and value; a long journey or financial meeting tell us nothing or almost nothing by themselves. This pertains particularly to 10♣ and 9♣, which constitute group one of predicates. “Change” is such a broad term that in fact it embraces all the other groups of predicates, any of which introduces change into the person’s life. It would surely be tempting to adopt an order of reading that passes from the less informative to the more informative cards, for instance from 10♣ to A♠ or 9♦1, but in our system the amount of information conveyed by a card does not influence the order of reading. Possibly, therefore, “change” should not be considered as including all the other signs of the system, but rather all the rest of the possible predicates not contained in the table of meanings. Strictly speaking, it is impossible to measure abstractly a relative amount of information or even to establish a hierarchical scale, since the informational meaning of a card can increase considerably in any specific context; and moreover, the person whose fortune is being told, whether a listener or viewer of the process of distribution and reading, could experience various subjective reactions to any card. For a certain person, a card that in context is more informative may prove to be far less quantitatively and qualitatively informative than a supposedly rather uninformative card, and vice versa. As in perceiving a work of art, subjective associations cannot be avoided, and therefore several, if not an infinitely great number, of referential variants can correspond to the sign’s meaning. But also as in art, there exists none the less an objective system of rudimentary symbols that can be transcribed by “formulae” (the cards’ conventional signs), by distribution in a quadrant, or more conveniently,

1 For example, this is how M. I. Lekomceva and B. A. Uspenskij describe the system known to them, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

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Tuttavia è significativo che alcuni predicati non specifichino né generalizzino il significato neanche nel caso della sostituzione del seme o del valore; un viaggio lontano o un incontro formale di per sé non ci dicono niente o quasi niente. Questo riguarda in particolar modo 10♣ e 9♣, facenti parte del primo gruppo di predicati. «Cambiamento» è un termine talmente vasto che in effetti comprende tutti gli altri gruppi di predicati, ognuno dei quali introduce un cambiamento nella vita dell’oggetto. Sarebbe sicuramente stato allettante adottare un ordine di lettura tale da analizzare le carte meno informative prima di quelle più informative, partendo per esempio da 10♣ per arrivare a A♠ o 9♦1, ma nel nostro sistema di divinazione la quantità d’informazioni contenute in una carta non influisce sull’ordine di lettura. È probabilmente per questo motivo che la categoria «cambiamento» non va considerata un contenitore di tutti gli altri segni del sistema, ma piuttosto tutti gli altri possibili predicati vanno esclusi dalla tabella dei significati. A rigor di termini, è impossibile misurare in modo astratto una quantità relativa di informazioni o anche stabilire una scala gerarchica, poiché il significato informativo di una carta può diventare considerevolmente più intenso in un contesto specifico; e inoltre l’oggetto di divinazione, essendo un ascoltatore o uno spettatore del processo di distribuzione e di lettura, può sperimentare diverse reazioni soggettive a qualunque carta. Una carta più informativa nel contesto può risultare per una persona quantitativamente e qualitativamente molto meno informativa di quanto non lo sia una carta presumibilmente poco informativa e viceversa. Così come nella percezione di un’opera d’arte una persona non può evitare associazioni soggettive, così al significato di un segno possono corrispondere diversi, se non innumerevoli, varianti referenziali. Tuttavia, esattamente come nell’arte, esiste un sistema oggettivo di simboli univoci che può essere trascritto da “formule” (denominazioni convenzionali delle carte) o attraverso la distribuzione in un quadrante o, più comodamente,

1 Per esempio, è così che M. I. Lekomceva e B. A. Uspenskij descrivono un sistema che gli è noto, in «Gadanie na igral’nyh kartah kak semiotičeskaâ sistema», 86.

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by an “unraveled” line that retains the order of reading cards by groups and arranges the cards within each group in the order in which they should be read. Here, for example, is the transcription of a distribution, showing the card of the person whose fortune is being told (Q♥) and separating the groups within each temporal stratum with semicolons: Q♥, on her heart 7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦, what was K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣, what is A♣, K♦; 9♥, K♥, what will be 7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠.

Thus we can describe the plot of cartomancy conventionally and unambiguously, as with a game of chess, so that any reader can interpret its factual and emotional details. It is far more difficult to analyze the plots of works of art. A writer writes down a complete text by drawing upon the enormous reservoir of poetic vocabulary and saturates it with his ideas, emotions, and associations. The subsequent inclusion of the reader’s subjectivity is wholly natural and analogous, though also more complex, to reading the distribution of the cards. Here “formulization” does not entail a simple ruling of a table into four suits by nine denominations, with inscription of the corresponding meanings of the cards, but rather an extremely difficult examination of how to elaborate the very principles of classification. Some principles will be needed by the researcher interested in plot syntax, plot grammar, and the dialectics of correlating plot elements; other principles will be needed by the historian of plots. Special scales must be created in each instance, and we literary scholars unfortunately do not yet possess a “Mendeleev’s table” of plots. The necessity of creating such tables during the next few years hardly needs to be demonstrated1.

1 True, there are still opponents of typology in literary scholarship in general who say that it destroys the specificity and unique individuality of artwork and writer. For some reason they do not protest against the classification, let us say, of characters in psychology or of types in anthropology. In those cases, systematics obviously does not suppress the distinctiveness of individuals. But why then is it contraindicated in literary scholarship?

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in forma “dettagliata”, in una linea che mantiene l’ordine di lettura delle carte per gruppi e dispone le carte all’interno di ogni gruppo secondo l’ordine in cui vanno lette. Qui di seguito, per esempio, è riportata la trascrizione di una distribuzione in cui gli strati temporali vengono contrassegnati e divisi da parentesi di diversa forma: «nel cuore» – {}, «quel che c’era» – <>, «quel che c’è» – [], «quel che ci sarà» – (). I gruppi all’interno di ogni stato possono essere separati da punto e virgola. La carta dell’oggetto verrà contrassegnata dal corsivo. La trascrizione risulta quindi: Q♥ {7♥, 6♣; J♠, J♣, 10♥, A♦}, <K♠, A♥, 6♠; 7♣, 8♠; K♣, 9♦, 8♣>, [A♣, K♦; 9♥, K♥], (7♦, 10♦, 8♥; 6♥, J♦; Q♠, A♠, 7♠).

È quindi possibile descrivere l’intreccio della cartomanzia in modo convenzionale e univoco, come nel gioco degli scacchi, in modo che ogni lettore possa interpretare i suoi dettagli fattuali ed emotivi. È molto più difficile invece analizzare gli intrecci di un’opera letteraria. Il processo di stesura dell’opera richiede l’uso del vasto vocabolario poetico e contiene idee, emozioni e associazioni dell’autore. Vi si aggiunge naturalmente l’interpretazione soggettiva del lettore, in un modo analogo alla lettura delle carte, ma assai più complesso. Qui la “formulizzazione” non si limita a tracciare una tabella con quattro colonne per i semi e nove per i valori e a compilarla con i corrispettivi significati delle carte, ma consiste piuttosto in uno studio estremamente difficile per elaborare i princìpi stessi di classificazione. Un ricercatore interessato alla sintassi, alla grammatica dell’intreccio, alla dialettica delle relazioni tra gli elementi dell’intreccio, usa princìpi diversi da quelli applicati da, supponiamo, uno storico dell’intrecciologia. In ogni caso sarà necessario creare una tabella diversa. Noi studiosi di narratologia purtroppo non disponiamo ancora di una “tavola periodica di Mendeleev” degli intrecci. Il fatto che simili tabelle dovranno essere create nei prossimi anni è indubbio1.

1 È vero che esistono ancora critici di tipologia generale nella narratologia secondo i quali la tipologia distrugge la specificità e l’individualità irripetibile di un’opera d’arte o di uno scrittore. Per una strana ragione non protestano contro la classificazione, diciamo, di caratteri in psicologia o di tipi in antropologia. In quei casi la sistematica, evidentemente, non reprime la particolarità degli individui. Ma per quale ragione allora è controindicata per la narratologia?

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Comparative study of literatures, epochs, writers, and schools is greatly impeded by the lag in plot analysis, and plot theory remains in a petrified state although there is more than sufficient preliminary material. Researchers of literary plots could already be profiting from the services of contemporary computers1, but they cannot do so until a rigorous and exact system of classification is elaborated.

Plot analysts can be aided by plot systems already in existence, such as the cartomantic system that we have examined. Except for simple systems like the detective story (see Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), the literary scholar does not treat two or three dimensions like the fortune-teller’s suit, denomination, and time group, and thus we must create multidimensional tables. But the main dimensions of the cartomantic system enter into literary scholarship as a particular case. Denomination, conventionally speaking, remains a principal dimension for the literary scholar and fabulist, and includes persons, actions, and states as well as the grouping of topics and concepts. Suit is analogous to a plot-table of distinctive traits and evaluations that are ethical-aesthetic and qualitative. This series is particularly important so that we can transmit in our formulae evaluations by the author of the events and characters he has depicted. Scales of time and space are also possible. In the cartomantic system, the majority of “circumstantial” categories of place, cause, and effect, are expressed by the predicates themselves; in literary scholarship, they can be included in the scales of actions and states, or of topics and concepts, by adding categories such as time and purpose.

To be sure, a limited set of signs threatens to impoverish the diversity of plot connections and meanings, and hence our task is to discover units that would reflect in totality all the essential features necessary for this research. Even the most detailed plot formula

1 The broad dissemination of teaching and examining machines during the next few years will render the problem of the “formulization” of plots even more acutely urgent.

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Lo studio comparato di letterature, epoche, scrittori e correnti è fortemente ostacolato dall’arretratezza dell’intrecciologia; la teoria dell’intreccio si trova in uno stato pietrificato nonostante il materiale preliminare sia più che sufficiente. Gli studiosi degli intrecci narrativi avrebbero già potuto servirsi dei computer contemporanei1, ma questo non sarà possibile finché non sarà elaborato un sistema rigido ed esatto di classificazione.

D’aiuto agli intrecciologi può essere il sistema degli intrecci esistente, in particolar modo il sistema di cartomanzia che abbiamo analizzato nel presente saggio. A eccezione dei sistemi semplici, come quello di un giallo (si veda Ŝeglov: 153-155; Revzin 1964: 38-40), il narratologo non si accontenta di due o tre dimensioni come il seme, il valore, e il gruppo temporale nel presente sistema di divinazione, ma necessita di una tabella pluridimensionale. Ma le principali dimensioni del sistema cartomantico fanno parte di questa tabella come caso particolare. Il valore resta la dimensione principale per il narratologo-fiabista e comprende oltre alle figure e alle azioni-stati la categoria di cose e concetti-idee. Nella tabella degli intrecci, al posto della categoria dei semi, compare la categoria del tratto distintivo e della valutazione, ossia la categoria etico-estetica e qualitativa. Questi criteri sono fondamentali soprattutto per trasmettere con le nostre formule la valutazione che l’autore dell’opera attribuisce agli eventi e ai personaggi. Sono possibili anche i criteri del tempo e dello spazio. Nel sistema della cartomanzia la maggior parte delle categorie “circostanziali” di luogo, causa ed effetto sono espresse dai predicati stessi; e possono far parte delle categorie di stati-azioni o cose-concetti insieme alle categorie di tempo e scopo.

È chiaro che una sequenza limitata di segni rischia di impoverire la diversità dei legami e dei significati dell’intreccio, ed è proprio questa la difficoltà: trovare unità capaci di riflettere nella sua totalità tutti gli aspetti essenziali per questo studio. Persino la formula dell’intreccio più dettagliata non

1 La grande diffusione di macchine-insegnanti e macchine-esaminatori dei prossimi anni renderà ancora più attuale il problema della “formulizzazione” degli intrecci.

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can certainly never take the place of the text itself in its entirety as a work of art, just as no opus of literary scholarship can become a substitute for the object being examined. When the necessary methods of “segmentation” have been elaborated, a reliable system of classification will be created rapidly by means of dichotomies and antinomies.

Twentieth-century literature, which is exceptionally allusive, associative, and often both metaphorical and metonymical, makes ciphering very complex. Metaphors and metonyms do not in themselves create insuperable difficulties, for what is implied can be given in brackets or as a denominator or denominators. It is immeasurably more difficult to show with formulae the meaning of an entire, complex system in which the terms receive a somewhat or totally new meaning not according to the ordinary rules known to the reader (as when Q♠ acquires various meanings in different contexts) but according to some utterly peculiar movements of authorial thought. The new meaning in such a system does not arise automatically from the context, but requires special designation and can consist either of an addition to the sum of existing terms or of a partial or total replacement of existing terms by something new. The problem of how complex structures arise from simple elements is of special interest to the analyst of plot grammar, who must create special signs to describe the different modes of interrelation between the elements, by using L. Hjelmslev’s linguistic “algebra”, for instance (Hjelmslev 1960: 264-389).

Many questions remain to be resolved. The researcher encounters extraordinary difficulty in attempting to reflect extratextual connections with the text in formulization of poetic plots. The problem of the detail and criteria of proportion for ciphering the plot in each specific research method must be considered attentively, along with a dozen great and small problems that are the urgent tasks of the immediate future. In conclusion, we must point out to those who would discredit our approach that formalization in general, the mathematization of literary processes for the purpose of more exact, conclusive analysis, has nothing in common with

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potrà mai sostituire il testo nel complesso in quanto opera d’arte, così come nessuna opera letteraria potrà sostituire l’oggetto dello studio. Nel momento in cui verranno elaborati i necessari metodi di “segmentazione”, verrà creato rapidamente un sistema compatto di classificazione tramite dicotomia e antinomia.

La letteratura del Novecento, straordinariamente allusiva, associativa e spesso sia metaforica che metonimica, rende la cifratura molto complessa. Metafore e metonimie di per sé non creano difficoltà irrisolvibili poiché le informazioni sottointese possono essere rese tra parentesi o sotto forma di denominatore/i. Il compito di gran lunga più difficile è esprimere il senso di un sistema intero, complesso, nel quale i componenti acquisiscono qualcosa di nuovo, un significato completamente diverso e non secondo le regole usuali che il lettore conosce (ne è un esempio Q♠, che acquisisce significati diversi nei contesti diversi), ma secondo un ordine particolare del pensiero dell’autore. Il significato nuovo in tale sistema non deriva automaticamente dal contesto, ma richiede una designazione speciale e può consistere sia nell’aggiunta alla somma dei termini esistenti sia nella sostituzione totale o parziale di termini esistenti con qualcosa di nuovo. Il problema dell’origine di strutture complesse da elementi semplici interessa in modo particolare lo studioso nel campo della grammatica dell’intreccio il quale deve creare segni speciali per descrivere diversi metodi di interrelazione tra gli elementi, con l’aiuto, per esempio, dell’“algebra” linguistica di L. Hjelmslev (1960: 264-389).

Vi sono ancora tanti problemi da risolvere. Lo studioso il cui cómpito sarà quello di raffigurare i legami extratestuali con il testo e di “formulizzare” gli intrecci poetici, si troverà di fronte a un’enorme difficoltà. Sarà necessario valutare attentamente il problema del dettaglio e dei criteri di proporzione per cifrare l’intreccio per ogni metodo di ricerca. Nel prossimo futuro dovranno essere risolte questa e altre decine di difficoltà maggiori o minori. Per concludere, facciamo notare ai possibili critici del nostro approccio che la formalizzazione in generale e la matematizzazione di processi letterari allo scopo di un’analisi più esatta, conclusiva, non ha niente in comune con il

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formalism. The scholar will not operate according to our method by using “naked form”, but by employing the elements that are most rich in content, whether it is a matter of analyzing plot, style, or any other category or aspect. This mathematization should aid literary scholarship by opposing scientific analysis to the unsubstantiated talk of subjectivists of all kinds. «Thought, in rising from the concrete to the abstract, does not deviate from the truth if it is correct … but approaches it. … all scientific (correct, serious, nonabsurd) abstractions reflect nature more profoundly, truthfully, completely» (Lenin 1936: 166).

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formalismo. Lo studioso non dovrà applicare il nostro metodo usando la “nuda forma”, ma gli elementi ricchi di contenuto, che si tratti di analisi dell’intreccio, dello stile o di qualunque altra categoria o aspetto. Questa matematizzazione deve contrapporre l’analisi scientifica precisa alle chiacchiere non comprovate dei soggettivisti. «Il pensiero che parte dal concreto per arrivare all’astratto non si discosta, se è corretto […], dalla verità, ma ci si avvicina […]. Tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) riflettono la natura in modo più profondo, realistico e completo» (Lenin 1936: 166).

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Chapter 7

Language as a Sign System and the Game of Chess1.

I. I. Revzin

Language is a system that has its own arrangement. Comparison with chess will bring out the point. In chess, what is external can be separated relatively easily from what is internal. The fact that the game passed from Persia to Europe is external; against that, everything having to do with its system and rules is internal. If I use ivory chessmen instead of wooden ones, the change has no effect on the system; but if I decrease or increase the number of chessmen, this change has a profound effect on the “grammar” of the game.

F. de Saussure 1.1 It will be beneficial for the development of semiotic theory to pursue Saussure’s analogy (Saussure 1933: 45). This is all the more timely because cybernetic model-building has encountered fundamental difficulties in relation not only to the game of chess but to linguistic tasks such as machine translation, apparently for similar reasons: in both cases man essentially uses his intuition, while model-building in terms of complete mastery has been

unsuited to solving such problems.

1.2. We have proposed the following comparisons on the basis of structural, not external, traits. It would have been possible in particular to regard the chess match as a dialogue or even an argument, in which each pair of sentences is linked by an adversary relationship, but we do not do this.

1 This article also appeared in Russian as «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

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Capitolo 7

La lingua come sistema di segni e il gioco degli scacchi1.

I. I. Revzin

La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio. Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tale caso è relativamente facile distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno, ed è interno, al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se sostituisco dei pezzi in legno con dei pezzi in avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se diminuisce o aumenta il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la “grammatica” del gioco.

F. de Saussure 1.1 Per lo sviluppo della teoria semiotica sarebbe utile continuare l’analogia di Saussure. È attuale tanto più che la modellizzazione computerizzata non solo del gioco degli scacchi ma anche di processi linguistici, la traduzione automatica per esempio, ha riscontrato alcune fondamentali difficoltà per ragioni evidentemente simili: in entrambi i casi l’uomo usa molto la propria intuizione, mentre la modellizzazione con il calcolo

completo delle mosse possibili è inadatta per risolvere queste difficoltà.

1.2 I raffronti riportati in seguito sono basati su fattori strutturali, non esterni. In particolare si sarebbe potuto considerare la partita a scacchi un dialogo o una discussione in cui in ogni coppia di proposizioni c’è un nesso di carattere avversativo, ma non lo facciamo.

1 Questo articolo è apparso anche in lingua russa e si intitola «K razvitiû analogii meždu âzykom kak znakovoj sistemoj i igroj v šahmaty» in Tezisy dokladov IV Letnej školy po vtoričnym modeliruûŝim sistemam: 17-24 avgusta 1970. (Tartu: Tartu University Press, 1970), 177-185.

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If the 2.12. move in the chess match is compared below with the lexical morpheme, the smallest significant unit in the sentence, this is not done in order for a sentence to be considered as a gradual, “move by move”, accumulation of morphemes either clarifying or negating the meaning of the preceding sentence (Hockett 1961: 220-236) – this is a very common notion – but in order for these elements to occupy a similar position in the structure of the whole.

1.3. Comparing a chess match with dialogue is only useful when we are involved in both cases with two participants who are alternately active and passive and who pursue a definite goal: winning at chess or achieving understanding in the act of communication. Achieving understanding is considered somehow self-evident, but in fact the participants have to overcome a substantial amount of “noise” having to do with nonconvergence of their semantics and nonconvergence of their grammar and phonology, which is also theoretically possible1. Moreover, situations are possible in which the speaker deliberately tries to conceal his meaning. This stance brings him closer to the position of the chess player, who as a rule tries to hide the meaning of a move, although in chess as well there are quite a few moves whose meaning is obvious to the other participant. Thus we are concerned with goal-directed activity in both objects of study; let us now examine the means of achieving the goal.

2.0. We shall consider both objects of study as structures, collections of elements with fixed relations between them.

1 See following pages.

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Se la mossa 2.12. nella partita a scacchi è paragonata a un morfema lessicale, unità minima della proposizione significativa, lo si fa non perché una proposizione sia considerata un accumulo graduale, “mossa per mossa”, di morfemi che chiarificano o cancellano il senso della proposizione precedente (Hockett 1961: 220-236) – un’opinione molto diffusa – ma perché questi elementi occupano posizioni vicine nella struttura dell’insieme.

1.3. Il confronto di una partita di scacchi con il dialogo è utile solo se disponiamo in entrambi i casi di due partecipanti passivi e attivi a rotazione e che perseguono uno scopo preciso: vincere nel gioco e farsi comprendere nell’atto di comunicazione. Farsi comprendere è considerato un fattore evidente; in realtà i partecipanti devono superare una considerevole quantità di “rumore” causato dalla divergenza tra le loro abitudini semantiche e, teoricamente è possibile, grammaticali e fonologiche1. Inoltre, possono esservi casi in cui un parlante nasconda di proposito le proprie intenzioni. Tale atteggiamento si avvicina a quello dello scacchista che cerca di solito di mascherare il senso di una mossa, nonostante negli scacchi vi siano molte mosse il cui significato è ovvio all’altro giocatore. In entrambi gli oggetti di studio dunque siamo di fronte a un’attività finalizzata; cerchiamo ora di esaminarne gli strumenti per raggiungere lo scopo.

2.0. Prenderemo in considerazione entrambi gli oggetti di studio come strutture, insiemi di elementi con interrelazioni fisse.

1 Si veda le pagine successive.

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2.1 Elements.

Chess

Language

2.1. The square.

2.1. Some nonsign background.

2.1.1. A very small set of pieces, sixteen in all, of which six are different. The first significant elements are

2.1.1. A very small set of auxiliary morphemes: affixes, inflections, grammatical prepositions, and in generaI “empty words”.

2.1.2. a finite number, however large, of moves, i.e., of three elements: initial position, new position, chess piece. The move has a very broad meaning which is realized differently each time in

2.1.2. The first significant element is the lexical morpheme; there is a finite number, however large, of morphemes. It is still a potential meaning which is realized in the elements of

2.1.3. a finite number of configurations of pieces, each of which is characterized by its own traits: pawn chain, center, copula, weak point, squares of a given color, opposition, check, zugzwang, etc. The number of such traits is finite; from these configurations is formed

2.1.3. a finite set of words, each of which is characterized by a finite set of traits (Revzin 1969: 63-74): the word’s differential traits, semes, and semantic valences. From these words is formed

2.1.4. an infinite set of positions: the arrangement of all the pieces on the chessboard at a given moment of time t. The positions can be divided into correct and incorrect positions; it is impossible to arrive at an incorrect position by a correct play from initial position. There is an intermediate class of positions that can only be arrived at by completely ignoring the game’s principles and that are meaningless from the standpoint of the player’s practice but not from that of the theoretician.

2.1.4. an infinite set of sentences, which can be subdivided into sentences that are correct, incorrect, and an intermediate class.

2.1.5. Match

2.1.5. Text

2.1.6. Outcome: winning, draw, losing

2.1.6. Understanding, incomplete understanding, lack of understanding

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2.1. Elementi.

Scacchi

Lingua

2.1.0. Scacchiera

2.1.0. Un contesto non semiotizzato

2.1.1. Un numero molto piccolo di pezzi, sedici in tutto, ma solo sei tipi diversi. I primi elementi significativi sono:

2.1.1. Un numero molto piccolo di morfemi ausiliari: affissi, flessioni, preposizioni grammaticali e “parole vuote” in generale.

2.1.2. un numero finito, ma grande, di mosse, cioè di tre elementi: posizione iniziale, nuova posizione, pezzo. La mossa ha un significato molto generale che si attualizza ogni volta in modo diverso con

2.1.2. La prima unità significativa è il morfema lessicale; vi è un numero finito, ma grande, di morfemi. È anche il significato potenziale attualizzato negli elementi

2.1.3. un numero finito di configurazioni di pezzi, ognuna di quali è caratterizzata dai tratti particolari: catena di pedoni, centro, copula, punto debole, case di un certo colore, opposizione, scacco, zugzwang ecc. Il numero di questi tratti è finito: da queste configurazioni si formano

2.1.3. della quantità finita di parole, ognuna caratterizzata da una quantità finita di tratti (Revzin 1969: 63-74): tratti differenziali di parole, semi e valenze semantiche. Da queste parole si forma

2.1.4. innumerevoli posizioni (la disposizione di tutti i pezzi sulla scacchiera in un tempo t). Le posizioni possono essere suddivise in posizioni corrette e scorrette; è impossibile giungere a una posizione scorretta con un gioco corretto dalla posizione iniziale. Esiste una classe intermedia di posizioni alle quali si può arrivare ignorando completamente i princìpi di gioco, ma le quali sono prive di significato, secondo il punto di vista dello scacchista ma non del ricercatore.

2.1.4. un’infinita quantità di proposizioni, che possono essere suddivise in corrette, scorrette e di una classe intermedia.

2.1.5. Partita

2.1.5 Testo

2.1.6. Risultato: vincita, patta, perdita

2.1.6. Comprensione, comprensione incompleta, incomprensione

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2.2. Relations.

Chess

Language

2.2.1. The interaction between the pieces: the correlation between the strength and number of attacking and defending pieces, “the coefficient of tension” in the main zones of play, the saturation of valence1

2.2.1. Syntagmatics: valent connections between words

2.2.2. Recollection of previous moves, for instance in connection with the rule about threefold repetition of a position, and especially of possible future positions. The question is not so much that of the positions themselves as of their configurational traits. (See 2.1.3.)

2.2.2. Paradigmatics: recollection of connections between words and sentences not present in the text

2.2.3. A specific instance of the preceding is the relation between abridging the position and isolating support configurations: the pawn backbone, open lines, pawn superiority on the flank, bishops of opposite colors, etc. Ability to abridge the position makes it possible to foresee the situation for many moves in advance, which is not possible with a full set of pieces.

2.2.3. Abridging sentences to initial words, usually to the predicate, is a special type of relation in a sentence, as is abridging each dependent cluster to a single word, usually a pronoun. This abridgment makes it possible to reduce all the diverse formations of the sentence to a finite number of equivalent classes, and thus, according to Donald Michael’s theorem, to conceive of language as the product of a finite automaton.

2.3. Operations.

Applying the relations mentioned in 2.2. and other possible relations in order to achieve an objective makes it possible to speak of combinations of relations.

1 The valence of a chess piece means the number of squares that it can attack; the valence is saturated if sufficiently valuable pieces of the opponent stand on these squares. From our viewpoint, it was precisely valences that were formalized in previously proposed models of the game of chess.

40

2.2. Relazioni.

Scacchi

Lingua

2.2.1. Interazione tra pezzi: correlazione tra potenza e numero di pezzi che attaccano e/o si difendono, “coefficiente di tensione” nelle principali aree di gioco, saturazione della valenza1.

2.2.1. Sintagmatica, ossia legami valenti tra le parole

2.2.2. Memoria delle mosse precedenti, in relazione alla regola della triplice ricorrenza della posizione, e soprattutto delle possibili posizioni future. Non si tratta tanto delle posizioni stesse quanto delle loro caratteristiche configurazionali (si veda 2.1.2.).

2.2.2. Paradigmatica, ossia la memoria dei legami assenti nel testo tra parole e proposizioni.

2.2.3. Il caso specifico dell’affermazione precedente è la relazione tra la circoscrizione della posizione e l’individuazione delle configurazioni d’appoggio: catene di pedoni, posizioni aperte, superiorità dei pedoni sul fianco, alfieri di colore contrario, ecc. La capacità di circoscrivere la posizione permette di prevedere la situazione per molte mosse future, ciò che è impossibile fare attraverso il calcolo completo delle mosse possibili.

2.2.3. Un tipo specifico delle relazioni nella proposizione è la relazione tra la circoscrizione della proposizione alle parole iniziali, solitamente in funzione di predicato, e nel contempo la circoscrizione di ogni gruppo dipendente a una singola parola, solitamente al pronome. Questo permette di limitare la moltitudine di componenti di una proposizione a un numero finito di classi equivalenti e di conseguenza, in base al teorema di Colin Mayhill, di concepire il linguaggio come generato da un meccanismo finito.

2.3. Operazioni.

L’applicazione delle relazioni menzionate nel 2.2 (e non solo) per raggiungere l’obiettivo permette di parlare dell’insieme di operazioni.

1 Per «valenza» di un pezzo si intende il numero delle case che essa può attaccare; la valenza è saturata se su quelle case sono esposti pezzi importanti dell’avversario. Dal nostro punto di vista sono proprio le valenze a essere state formalizzate nei modelli precedenti del gioco degli scacchi.

41

Chess

Language

2.3.1. “Tactics”: making a decision on the basis of logical reasoning, (“calculation”, as chess players say) or on the basis of traits of type 2.1.3.

2.3.1. Ascertaining meaning by means of transformational analysis = logical deduction, or with the support of the differential traits of words.

2.3.2. “Strategy”: ascertaining a position’s strong elements by means of mental abridgment (See 2.2.3).

2.3.2. Ascertaining the phrase’s structural skeleton by means of abridgment (See 2.2.3).

Note. At this point it can be shown that the comparison works precisely the other way around, for while in chess “strategy” is most important, in linguistic analysis preference is given to the equivalent of “tactics”, as in the characteristic distinction between “deep” and “surface” structure. However, it appears that both types of operations are equally important in their respective instances.

3. Let us now analyze the types of rules applied to our objects of comparison.

3.1. First and foremost, there are rules that constitute the system itself; it is precisely these that Saussure had in mind, at least as applied to chess.

Chess

Language

Rules determining the possible moves for each piece in certain configurations

Rules determining the use of auxiliary morphemes given the sentence’s structural meaning

Forbidden

Permitted

Forbidden

Permitted

It is prohibited, for example, to pIace the king on a threatened square.

All the remaining rules

Violation of certain types of grammatical agreement

Usually a rule has this form: to express such – and- such a meaning it is permitted to use one or another format.

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Scacchi

Lingua

2.3.1 “Tattica”: arrivare a una decisione basandosi sul ragionamento logico (o «calcolo» come dicono gli scacchisti) oppure sui tratti del tipo 2.13.

2.3.1. Accertamento del senso attraverso l’analisi trasformazionale (inferenza logica) o l’appoggio sui tratti distintivi di parole.

2.3.2. “Strategia”: accertamento degli elementi fondamentali della posizione attraverso la circoscrizione dei pensieri (si veda 2.2.3).

2.3.2. Accertamento della struttura della frase attraverso la circoscrizione (si veda 2.2.3).

Nota. A questo punto è possibile dimostrare che il raffronto si verifica esattamente “al contrario” dato che nel gioco degli scacchi la “strategia” è più importante, mentre nell’analisi linguistica la preferenza viene attribuita alla “tattica” (per esempio nella distinzione tipica tra struttura “profonda” e “superficiale”). Nonostante ciò entrambi i tipi di operazioni sono importanti per entrambi gli oggetti in questione.

3. Passiamo all’analisi dei tipi di regole applicabili agli oggetti confrontati.

3.1. Innanzitutto, esistono regole che costituiscono il sistema stesso; è proprio queste regole che intendeva Saussure, se dovessimo applicarle al gioco degli scacchi.

Scacchi

Lingua

regole che determinano le possibili mosse per ogni pezzo in date configurazioni

regole che determinano l’utilizzo dei morfemi ausiliari avvalendosi del significato strutturale prestabilito della proposizione.

Proibito

Permesso

Proibito

Permesso

è proibito per esempio posizionare il re sulla casa a rischio

tutte le altre regole

violare certi tipi di concordanze

solitamente la regola ha la seguente forma: per esprimere un certo significato è permesso usare un certo formante

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Note. “Agreement” means a rule for connecting auxiliary morphemes. The regimen governing the connection between the auxiliary morphemes of one word and the lexical morphemes of another generally does not possess a very high degree of interdiction.

3.2. Another type of rule is aimed at achieving the maximum effect within a given system. These rules can be divided into two groups.

3.2.1. Rules of a general nature, i.e., general organizational principles for the text or match.

Chess

Language

Principles for the development of pieces, i.e., “one piece is not moved twice in the opening”; for capturing the center in the opening; or for the movement of pawns opposite which there are no hostile pieces in the endgame.

Ivanov’s postuIate (Ivanov 1963: 156-178) about the inadmissibility of different objects’ having an identical meaning within a single situation; the principle of the availability of common semes, “supplementary valence”; in words which are directly linked syntactically or in a more general form, the principle of redundant encoding.

3.2.2. Rules based on knowledge of a specific precedent.

Chess

Language

Recommendations for openings; for example, “how Botvinnik pIayed against …“; reference to basic endgame schemes, and in the middle game even to individual matches, i.e., “a construction similar in many ways to the well-known match between Braunschweig, Duke of Morfì, and Count Isoire”1.

Orientation on the basis of a set of model sentences (Revzin 1966: 3- 15).

1 This report was written under the strong influence of D. Bronstejn’s commentaries on the matches at the Zurich tournament of aspirants, from which this phrase is taken.

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Nota. Per «concordanza» s’intende una regola di accordo morfologico tra i morfemi ausiliari. Le reggenze, che determinano l’accordo tra i morfemi ausiliari di una parola e i morfemi lessicali dell’altra, normalmente non possiedono un alto grado di proibizione.

3.2. Un altro genere di regole riguarda il raggiungimento del massimo effetto all’interno di un certo sistema. Queste regole possono essere suddivise in due gruppi.

3.2.1. Regole di carattere generale (princìpi generali di organizzazione del testo e, di conseguenza, della partita).

Scacchi

Lingua

Princìpi di sviluppo dei pezzi («un pezzo non viene mai mosso due volte nella fase d’apertura del gioco»), occupare il centro nella fase d’apertura oppure promuovere il pedone che non ha un pedone avversario nella fase finale.

Il postulato del linguista russo Ivanov (Ivanov 1963: 156-178) secondo il quale è inammissibile che gli oggetti differenti vengano denotati in modo identico in una stessa situazione; il principio di esistenza dei semi generali o “valenza supplementare” nelle parole collegate tra loro sintatticamente o più generalmente il principio di codificazione ridondante.

3.2.2. Regole basate sul rimando a un precedente specifico.

Scacchi

Lingua

Consigli per la fase d’apertura, (per esempio: «in questo modo Botvinnik ha sfidato …»), rimandi agli schemi usuali di fase finale, mentre nel mediogioco si può ricorrere ai rimandi alle partite famose («situazione, molto simile alla nota sfida Paul Morphy vs Duca Von Braunschweig e Conte Isouard»)1.

Orientamento su proposizioni-modello (Revzin 1966: 3-15).

1 Questo articolo è stato fortemente influenzato dai commenti di D. Bronštejn sulle partite al torneo degli aspiranti giocatori di Zurigo. Questa frase è presa da quel contesto.

45

3.3. Finally, there are rules that pertain to the system’s external use.

4. There are completely different violations for each of the types of rules cited, which witnesses indirectly to the differences between them.

4.1. Rules of the 3.1. kind generally cannot be violated, for their violation results in violation of the system. It is true, as pointed out in the note to 3.1., that there are intermediate cases in language, such as grammatical government, whose violation brings us to 3.2.

4.2.1. Rules of the 3.2.1. kind can of course be violated, most of all because, generally speaking, it is possible for the different participants to make use of them to a different extent. However, violation of these rules does not necessarily lead to reduced effectiveness. On the contrary, in chess, as in language, the creative but by no means unpremeditated violation of the 3.2.1. rules can exert a very powerful effect, as happened with hypermodernism in chess of the 1920s.

4.2.2. Violation of the 3.2.2. rules is involved where orientation on the basis of mode1s plays a different role according to various inclinations2.

4.3. Violation of the 3.3. rules can go unpunished if it is not noticed by the other participant and does not affect achievement of the goal set by the speaker or player; let us note that in the case of language the goal here is precisely to deceive the hearer; see 1.3.

1 From our viewpoint, such rules do not pertain to the postulates of language but rather to the postulates of good sense; see Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. For another viewpoint, see Wheatley 1970: 34, according to which language contains a semantic rule of the type, “A says: I promise X, entails: A intends X”.

2 The author has devoted a special study to this question.

Chess

Language

The rule “remove a piece after capturing it”; the time-limit, etc.

The requirement that the speaker really believe what he says1.

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3.3. Infine, esistono regole riguardanti l’aspetto puramente esterno del gioco.

4. Per ognuno di questi tipi di regole ci sono diversi tipi di violazioni, una testimonianza indiretta della loro differenza.

4.1. Le regole del tipo 3.1. non possono essere violate poiché la loro violazione comporta la violazione dell’intero sistema. Anche se nella lingua, come precisato nella nota in 3.1., vi sono regole intermedie (è il caso delle reggenze) la violazione delle quali ci porta a 3.2.

4.2.1. Le regole del tipo 3.2.1., s’intende, possono essere violate soprattutto perché i giocatori possono applicarle in misura diversa. Tuttavia la loro violazione non necessariamente porta all’abbassamento dell’efficacia che si può ottenere. Al contrario, sia negli scacchi sia nella lingua la violazione artistica (non quella calcolata) delle regole 3.2.1. può avere una forte influenza sull’esito (si veda l’ipermodernismo negli scacchi negli anni Venti).

4.2.2. Lo stesso avviene per le regole del tipo 3.2.2., dove l’orientamento verso i modelli nelle correnti diverse svolge un ruolo differente2.

4.3. La violazione delle regole 3.3. può rimanere impunita nel caso il giocatore avversario non dovesse notarlo e non incidere sul raggiungimento dello scopo posto dal parlante (o giocatore). Bisogna precisare che nel caso della lingua lo scopo è proprio quello di ingannare l’ascoltatore (si veda 1.3.).

1 Dal nostro punto di vista, tali regole non riguardano i postulati della lingua, ma i postulati del buon senso; si veda Karpinskaâ, I. I. Revzin 1966: 34-36. Per un altro punto di vista, si veda Wheatley 1970: 34, secondo cui nella lingua opera la regola semantica del tipo: “A dice: prometto X, comporta: A intende X”.

2 L’autore ha dedicato un studio speciale a questo argomento.

Scacchi

Lingua

la regola «se tocchi un pezzo con la mano devi eseguire la mossa con quel pezzo», i limiti temporali e così via.

il parlante deve intendere quello che dice1

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If the violation is noticed, this disclosure obviously leads to punishment in the case of chess; punishment is not always obvious in the case of language, although the violation affects the hearer’s notion of the speaker’s morals.

5.1. The goal of this report has been to show that the human intellect seems to make use of similar constructions to solve different tasks pertaining to the processing of information, and therefore it is advisable to describe them in a single system.

5.2. Also, examining possible systems and types of rules is useful in considering any modeling systems having to do with rules and norms.

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Se, invece, la violazione viene rilevata, si ricorre alla punizione – ovvia nel caso degli scacchi e non altrettanto ovvia nella lingua (la violazione incide sull’opinione che l’ascoltatore ha della morale del parlante).

5.1. Lo scopo di questa comunicazione è dimostrare che l’intelletto umano, evidentemente, usa costrutti simili per la soluzione di problemi diversi che riguardano l’elaborazione delle informazioni e che è quindi opportuno descriverli in un unico sistema.

5.2. D’altra parte lo studio dei sistemi e dei tipi di regole possibili è utile per lo studio di qualsiasi sistema modellizzante che abbia a che fare con regole e norme.

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References
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Hockett, C., «Grammar for the Hearer», in Proceedings of Symposia in Applied

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50

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Veselovskij, A. N., Istoričeskaâ poètika, Leningrad, Hudožestvennaâ literatura, 1940.

Wheatley, J., Language and Rules, The Hague Paris, 1970

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Analisi traduttologica

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Dedicherò questa parte della mia tesi all’analisi degli articoli la cui traduzione è riportata sopra. L’argomentazione si strutturerà secondo lo schema classico dell’analisi traduttologica con l’individuazione del lettore modello e delle dominanti. Inoltre, illustrerò brevemente in un capitolo a parte la strategia traduttiva e i problemi di traduzione.

Ma prima di cominciare l’analisi vorrei concentrare la mia attenzione sugli autori degli articoli in questione e sugli articoli stessi.

Fonte, autori, argomento.

«The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» e «Language as a Sign System and the Game of Chess» sono due articoli tratti dal volume Soviet Semiotics a cura di Daniel Peri Lucid (The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1977). Nel libro sono raccolti numerosi saggi scientifici di autori appartenenti alla scuola sovietica di semiotica, come Boris Uspenskij e Ûrij Lotman.

La semiotica è la scienza dei segni linguistici e non linguistici, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto simbolico. Una semiotica moderna si profila già con Peirce, che pone le basi di una teoria filosofica in cui hanno forte rilievo, tra l’altro, la nozione di «semiosi illimitata» e la suddivisione di tre tipi diversi di segni, ossia icone, indici e simboli, a seconda che il rapporto con il referente sia di similarità, come nelle icone, di contiguità o convenzionale. Ma è soprattutto con Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev che si afferma la teoria semiotica moderna. È chiarito lo statuto formativo del significante e del significato; è proposta la nozione di «funzione segnica» e altre nozioni ancora hanno validità generale e appaiono di straordinaria importanza per lo sviluppo della semiotica, come quelle di codice e di commutazione, di rapporti sintagmatici e di rapporti associativi, di sincronia e di diacronia, di sistema come meccanismo produttivo di segni, di unità minime differenziali dal significante, di senso e di atto semico. Su queste basi la semiotica, insieme con la linguistica e

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l’estetica, ha conosciuto un vasto sviluppo al quale hanno contribuito a vario titolo e con diverse prospettive teoriche – non sempre coincidenti con quelle di Saussure e Hjelmslev – Tynânov, Âkobson, Lotman e Uspenskij. Lotman e Uspenskij appartengono alla scuola sovietica di semiotica e sono stati i primi a teorizzare l’analisi dei «sistemi modellizzanti secondari», cioè di tutti quei sistemi semiotici, diversi dalle lingue, in cui si esprimono specifici modelli di concezione del mondo e di elaborazione umana della realtà (dai miti al folclore, dalle religioni all’arte).

Egorov Boris Fedorovič (nato nel 1926), narratologo russo, ricercatore in scienze filologiche (1967), docente universitario (dal 1978 presso l’Università della storia russa; RAN). Argomenti di cui Egorov si occupa sono: tratti peculiari della critica russa dell’Ottocento e il posto che occupano nella letteratura e nella cultura nazionali, slavofilismo, social-utopisti, critica estetica. Ha pubblicato: O masterstve literaturnoj kritiki (1980), Bor’ba èstetičeskih idej v Rossii serediny XIX veka (1982, 1991), Očerki po istorii russkoj kul’tury XIX veka (1996). Dal 1978 al 1991 – vicepresidente e dal 1991 presidente del comitato di redazione dell’accademia russa delle scienze «Literaturnye pamâtniki».

Nel suo articolo «The Simplest Semiotic Systems and the Typology of Plots» Egorov argomenta contro Lekomceva e Uspenskij per aver dato troppa importanza alla pragmatica del gioco nel quale una cartomante professionale dispone di una libertà illimitata nella lettura delle carte. Egorov insiste sull’oggettività della descrizione semiotica e paragona la lettura da parte della cartomante della vita di una persona alla creazione di un intreccio, in una maniera prestabilita, variando solo la posizione del segno all’interno di un gruppo limitato di segni, le carte nel mazzo. Lo scopo dello studioso è usare il sistema di divinazione mediante le carte da gioco come modello primitivo per l’analisi dell’intreccio letterario (oggetto della narratologia). Sia il sistema cartomantico che quello degli intrecci è basato su una serie di elementi primari e su dati metodi di distribuzione. Egorov mette in evidenza il fatto che il sistema semiotico della letteratura abbia una sintassi che potrebbe essere classificata in

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un’eventuale «tavola periodica di Mendeleev» degl’intrecci. Dall’interrelazione di elementi semplici nascono strutture testuali complesse.

Revzin Isaak Iosifovič (1923—1974), linguista, ricercatore in scienze filologiche (1964), membro dell’Istituto di lingue straniere. Pubblicazioni nel campo di linguistica strutturale (teoria generale della modellizzazione, fonologia, grammatica), di semiotica e di poetica. Revzin ha creato, con Rozencvejg, un modello dei tipi di traduzione in Linguistica strutturale contemporanea. Problemi e metodi, del 1977. Ha definito cinque tipi di traduzione: interlineare o parola per parola, letterale, semplificante, precisa e adeguata.

L’articolo «Language as a Sign System and the Game of Chess» di Revzin approfondisce l’analogia di Saussure tra la lingua e il gioco degli scacchi. Mettendo a confronto il sistema linguistico e il sistema di gioco il linguista russo cerca di dimostrare che l’intelletto umano usa nel processo di elaborazione delle informazioni costruzioni simili a quelle di un programma computerizzato che fa la previsione delle mosse possibili nel gioco. In entrambi i sistemi Revzin segnala un numero limitato di elementi – pezzi negli scacchi e morfemi nella lingua – che generano numerose posizioni nel primo caso e vocaboli e proposizioni nel secondo. A livello di relazioni tra componenti, le connessioni tra parole assomigliano alle relazioni tra pezzi sulla scacchiera. Tattica e strategia del gioco vengono paragonate alla struttura superficiale e profonda della lingua. Inoltre, entrambi i sistemi sono costruiti con quelle regole che costituiscono il sistema stesso e altre che mirano a un effetto massimo all’interno del sistema. Il gioco degli scacchi sembra un sistema molto meno complesso di quello della lingua, ma l’approccio di Revzin consistente nel trovare similitudini tra questi sistemi completamente diversi permette il tentativo di creare un unico modello generale.

57

Analisi traduttologica

Entrambi gli articoli di cui ho proposto una traduzione sono testi prevalentemente argomentativi, destinati non solo a un pubblico colto e già esperto in materia, ma anche a un appassionato di semiotica e di linguistica (lettore modello). Sono due testi dal taglio piuttosto professionale, ma non eccessivamente accademico, e neanche di saggistica divulgativa, con l’utilizzo di una terminologia settoriale (a volte spiegata nelle note e nel corpo del testo) e numerosi rimandi a testi e saggi delle varie discipline. Lo stile degli autori è abbastanza lineare, piano, sobrio, spesso difficile non perché la sintassi sia contorta, ma per la complessità dei concetti espressi. Inoltre, sono presenti alcune caratteristiche proprie dei testi scientifici, quali l’uso del passivo e dello universal we.

Dal punto di vista traduttologico la dominante di entrambi i testi è quella informativa per cui ho prestato molta attenzione al lessico adeguato e pregnante, all’esattezza terminologica che mi ha portato a un lavoro preliminare di ricerca, sicuramente più tramite il web che su testi cartacei, per familiarizzarmi con concetti e termini chiave. Oltre che dei concetti semiotici e linguistici gli articoli si avvalgono di una terminologia specifica del gioco degli scacchi in Revzin e della cartomanzia in Egorov. Ho consultato, come accennato prima, dizionari, testi paralleli di riferimento, internet affinché la traduzione fosse il più aderente possibile al testo. Ho ritenuto corretto verificare su fonti elencate nei riferimenti bibliografici informazioni, date, nomi contenuti nei testi. Questa è stata la mia strategia traduttiva.

Per la traslitterazione dei nomi scritti in cirillico mi sono servita delle norme ISO 9 del 1995 in cui ad ogni simbolo cirillico corrisponde un solo simbolo latino. La tabella riportata in seguito rappresenta il metodo di traslitterazione attualmente in uso e uno di quelli precedenti in cui a un carattere cirillico possono corrispondere più caratteri latini, come nel caso delle lettere Ч, Ш, Ц ecc.

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Russo

GOST 7

ISO 9

А, а

A, a

A, a

Б, б

B, b

B, b

В, в

V, v

V, v

Г, г

G, g

G, g

Д, д

D, d

D, d

Е, е

JE, je

E, e

Ё, ё

JO, jo

Ë, ë

Ж, ж

ZH, zh

Ž, ž

З, з

Z, z

Z, z

И, и

I, i

I, i

Й, й

J, j

J, j

К, к

K, k

K, k

Л, л

L, l

L, l

М, м

M, m

M, m

Н, н

N, n

N, n

О, о

O, o

O, o

П, п

P, p

P, p

Р, р

R, r

R, r

С, с

S, s

S, s

Т, т

T, t

T, t

У, у

U, u

U, u

Ф, ф

F, f

F, f

Х, х

KH, kh

H, h

Ц, ц

CZ, cz

C, c

59

Ч, ч

CH, ch

Č, č

Ш, ш

SH, sh

Š, š

Щ, щ

SHH, shh

Ŝ, ŝ

Ъ, ъ

Ы, ы

Y’, y’

Y, y

Ь, ь

Э, э

È, è

È, è

Ю, ю

JU, ju

Û, û

Я, я

JA, ja

Â, â

La maggiore difficoltà traduttiva dei due saggi è stata quella terminologica: trovare il corrispondente giusto, verificare che il contesto in cui lo trovavo fosse affidabile. Analizzerò ora con un esempio la strategia traduttiva che ho usato per risolvere questa difficoltà:

− traduzione di «language» nell’articolo di Revzin: lingua versus linguaggio.

Il vocabolario Traccani definisce in questo modo la parola «lingua» (ometto significati impertinenti):

lingua s. f. [lat. lĭngua (con i sign. 1 e 2), lat. Ant. dingua]. […]. 4 a Sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfeme), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione o lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche […]. b. Usato assol., con riferimento generico: la grammatica, la sintassi, il lessico o vocabolario d’una l.; il carattere (e ormai ant. l’indole, il genio) d’una l.; la storia, l’evoluzione della l. […].

Ecco invece come viene definita la parola «linguaggio» nello stesso vocabolario:

60

linguaggio s. m. [der. di lingua]. – 1. Nell’uso ant. o letter., e talora anche nell’uso com. odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità […]. 2. a In senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli essere umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di inforrmare altri essere sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di una sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingua storicamente determinate). […]. b. estens. Facoltà di esprimeresi attraverso altri segni, sia gesti, sia simboli. In partic., l’insieme dei mezzi espressivi e stilistici, diversi dalla parola, che sono peculiare della varie arti. […]

Analizzando bene le definizioni mi sono resa conto che il loro campo semantico è molto simile, ma che la parola «lingua» è più adatta per il saggio in questione perché è quella usata da Saussure (l’argomento del saggio di Revzin approfondisce l’analogia tra la lingua e gli scacchi tracciata da Saussure) e dai linguisti in generale. Per verificare quest’ultima affermazione ho inserito nel motore di ricerca il nome del linguista svizzero accanto alla parola «lingua» e successivamente accanto a «linguaggio» e ho notato che nel caso della prima combinazione di parole vi sono molte più occorrenze nei siti affidabili di linguistica e scienza della traduzione.

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Riferimenti bibliografici
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po znakovym sistemam, II, 1965, Tartu, Tartu University Press, 106-115. Karpov, A. E., Il manuale degli scacchi di Karpov Anatolij, Milano, Walt Disney

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Osimo, B., La traduzione saggistica dall’inglese: guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli, 2007

Osimo, B., Manuale del traduttore: Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 2004

Osimo, B., Propredeutica della traduzione: Corso introduttivo con tavole sinottiche, Milano, Hoepli, 2001

Osimo, B., Storia della traduzione: riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei, Milano, Hoepli, 2002

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Saussure, F. de, Corso di linguistica generale, Bari, Editori Laterza, 1972 Torop, P., Total’nyj perevod, Tartu, Tartu Ülikooli Kirjastus, 1995. Traduzione

italiana La traduzione totale, a cura di B. Osimo, Modena, Logos 2000.

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Fare l’amore di questi tempi. La rubrica di Luca Fontana come esempio di traduzione interculturale ELENA DETTAMANTI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Fare l’amore di questi tempi. La rubrica di Luca Fontana come esempio di traduzione

interculturale

ELENA DETTAMANTI

Civica Scuola Interpreti e Traduttori via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica ottobre 2006

© Elena Dettamanti 2006, per la tesi
© Editoriale Diario SpA 1998-2006, per gli articoli in appendice

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Fare l’amore di questi tempi.

La rubrica di Luca Fontana come esempio di traduzione interculturale. Elena Dettamanti

ABSTRACT IN ITALIANO

La tesi si basa su un lavoro di analisi della traduzione interculturale. Si è individuata nella rubrica Fare l’amore di questi tempi di Luca Fontana, pubblicata su Diario della settimana, una possibile fonte di materiale per una ricerca. Il lavoro si incentra su un’ipotesi: ogni singolo articolo di Luca Fontana è un esempio di traduzione interculturale. In ciascun articolo un elemento della cultura è stato individuato come prototesto, e uno o più elementi come metatesto. Una prima fase di analisi degli articoli ha evidenziato alcune variabili dei processi traduttivi: il numero dei metatesti, la connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista e la connotazione di una delle culture come dominante o subordinata. Le variabili hanno permesso di delineare una tabella dei tipi di attualizzazione possibili. Ne sono risultati dodici prototipi di traduzione. Collocando gli articoli nei rispettivi prototipi, solo sei tipi di traduzione sono risultati effettivamente rappresentati dagli articoli di Fontana. Per ogni prototipo è stato analizzato in particolare un articolo che mostra le caratteristiche principali del tipo di traduzione interculturale a cui appartiene.

ENGLISH ABSTRACT
This thesis is based on the analysis of intercultural translation processe. Fare l’amore di questi tempi, Luca Fontana’s column published weekly on Diario della settimana, has been focused on as a source for research. This work is based on a hypothesis: Luca Fontana’s column is an example of intercultural translation process. In every article a cultural element has been identified as a prototext, and one or more elements as metatexts. The first step of analysis of the articles has pointed out some variables in translation processes: the number of metatexts, the connotation of one of the cultures as conformist or non-conformist and the connotation of one of the cultures as dominant or subordinate. These variables allowed to draw a table of the possible actualizations of the prototexts. This resulted in twelve possible types of translation. By assigning Luca Fontana’s articles to the single types of translation, only six types were actually represented by Luca Fontana’s articles. For every type of translation, one article has been analyzed in detail to demonstrate the main features of the type of translation to which it belongs.

RESUME EN FRANÇAIS

Cette thèse se fonde sur un travail d’analyse de la traduction interculturelle. La rubrique de Luca Fontana, Fare l’amore di questi tempi, publiée régulièrement dans l’hebdomadaire Diario della settimana, a été choisie comme source de recherche. Ce travail se base sur une hypothèse: chaque article de Luca Fontana est un exemple de traduction interculturelle. Dans chacun d’eux un élément de la culture a été choisi comme prototexte, et un ou plusieurs éléments comme métatextes. Une première phase de l’analyse des articles a mis en évidence certaines variables des processus de traduction: le nombre des métatextes, la connotation d’une des cultures comme conformiste ou anticonformiste ainsi que la connotation d’une des cultures comme dominante ou subordonnée. Ces variables ont permis de rédiger un tableau des types de traduction possibles. Le résultat a été la détermination de douze types de traduction possibles. En classant les articles de Luca Fontana dans les types de traduction appropriés, seuls six types de traduction ont été reconnus comme étant effectivement représentés par les articles de Luca Fontana. Pour chaque type un article a été analysé en détail afin d’expliquer les caractéristiques principales du type de traduction dont cet article fait partie.

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Sommario

  1. 0  Premessa ………………………………………………………………………………. 50.1 Descrizione del materiale …………………………………………………… 5 0.2 Premessa terminologica……………………………………………………… 5
  2. 1  Primo capitolo – La traduzione della cultura………………………….. 71.1 La traduzione culturale ………………………………………………………. 7 1.1.1 Il concetto di cultura ……………………………………………………… 7 1.1.2 La traduzione intraculturale……………………………………………. 8 1.1.3 La traduzione interculturale………………………………………….. 101.2 La tipologia traduttiva ……………………………………………………… 11 1.2.1 Prototipo di traduzione n ̊4 …………………………………………… 13 1.2.2 Prototipo di traduzione n ̊5 …………………………………………… 13 1.2.3 Prototipo di traduzione n ̊6 …………………………………………… 13 1.2.4 Prototipo di traduzione n ̊8 …………………………………………… 14 1.2.5 Prototipo di traduzione n ̊9 …………………………………………… 14 1.2.6 Prototipo di traduzione n ̊12 …………………………………………. 15

    1.3 La semiosi………………………………………………………………………. 15 1.3.1 La traduzione come passaggio da segno a oggetto…………… 16 1.4 L’abduzione ……………………………………………………………………. 17 1.5 Il ruolo di Luca Fontana nella traduzione interculturale ……….. 17 1.5.1 Luca Fontana come espressione della cultura di confine ….. 18 1.6 Il lettore modello …………………………………………………………….. 18

  3. 2  Secondo capitolo – Analisi dei testi……………………………………….. 202.0 Materiale empirico…………………………………………………………… 20 2.1 Le donne di Shakespeare ………………………………………………….. 20 2.2 Francia o Spagna?……………………………………………………………. 23 2.3 La filosofia di mammà……………………………………………………… 26 2.4 Due culture a confronto ……………………………………………………. 292.4.1 La veste profumata ……………………………………………………… 29

    2.4.2 Il piacere comprato ……………………………………………………… 32 2.5 La soluzione del mistero…………………………………………………… 35 2.6 I fustigatori inglesi…………………………………………………………… 38

  4. 3  Appendice – I testi di Luca Fontana……………………………………… 41
  5. 4  Riferimenti bibliografici ……………………………………………………… 73

3

Elenco delle illustrazioni

  1. Le donne di Shakespeare 20
  2. Francia o Spagna? 23
  3. La filosofia di mammà 26
  4. La veste profumata 29
  5. Il piacere comprato 32
  6. La soluzione del mistero 35
  7. I fustigatori inglesi 38
  8. I leoni di Almodovar 40
  9. Lacrime per Falstaff 41
  10. Bessie senza una lira 42
  11. Repressione eufemistica 43
  12. Tutti nerovestiti 44
  13. Susanna e i vecchioni 45
  14. Borse di fuga triennali 46
  15. La musa al ritorno 47
  16. Giocate un po’ di più 48
  17. Medea (molto) britannica 49
  18. Contro la guerra 50
  19. Il diritto alla compagnia 51
  20. Boschi ombrosi e rovine 52
  21. Uno schianto di prof 53
  22. A bocca aperta 54
  23. Il buon samaritano 55
  24. Eurostar senza desideri 56
  25. Eroica castità 57
  26. Ai romani piaceva la… 58
  27. Sogni di guerra 59
  28. Le visite notturne 60
  29. Il corpo smembrato 61
  30. I dolori delle donne 62
  31. Lussuria e bon ton 63
  32. L’onesto Jago 64
  33. In stato di quiete 65
  34. L’eterna estate di Monicelli 66
  35. Eva, Adolfo e Heidi 67
  36. Medea in villetta 68
  37. Cartulina ‘e Napule 69
  38. Disprezzata regina 70
  39. La famiglia naturale 71
  40. La maledizione di Diana 72

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0.1 Descrizione del materiale

Premessa

Questa tesi si basa su un lavoro di ricerca che ha lo scopo di identificare, tra le innumerevoli forme di comunicazione, un esempio di traduzione interculturale e in seguito di svolgere un’analisi per individuare tutti gli elementi che rendono il mio materiale una traduzione interculturale a tutti gli effetti. Fenomeno che non è lampante se non a chi studia la traduzione come scienza in tutte le sue forme.

Per svolgere la tesi, è stata individuata una rubrica che sembrava significativa e adatta allo scopo. Si tratta di Fare l’amore di questi tempi di Luca Fontana del Diario della settimana, rivista settimanale che si occupa di attualità. La rubrica in questione appare nel settimanale a partire dal 1998. All’inizio non è una rubrica fissa e non compare tutte le settimane, ma negli ultimi anni si è imposta come imperdibile appuntamento del settimanale. Gli argomenti presentati nella rubrica spaziano, dall’amore alla politica, dalla musica al teatro, ma una costante rimane sempre la vena ironica dell’autore.

La prima fase del lavoro è stata di ricerca. Ho raccolto un campionario di 40 articoli dal 1998 al 2006. Nella seconda fase, quella pratica, ho svolto un lavoro di analisi. Ho stabilito le varianti che caratterizzano i vari processi traduttivi che si producono negli articoli, arrivando all’individuazione di 12 tipi di traduzione. Ho pertanto potuto collocare gli articoli nel loro gruppo di prototipo di traduzione.

Nella terza fase, che corrisponde al secondo capitolo della tesi, ho schematizzato e analizzato un articolo per ogni tipo di processo traduttivo.

0.2 Premessa terminologica

Prima di presentare la prima parte teorica, e per rendere chiara la seconda parte pratica, credo che sia utile fare un’introduzione sulla terminologia presente nella tesi.

Nella seconda parte, quella pratica, il lavoro comprende l’elaborazione degli articoli attraverso

5

schemi che esplicano i passaggi traduttivi che percorre l’autore della rubrica, Luca Fontana, nella sua riflessione sulla società italiana, a volte consapevolmente altre volte inconsapevolmente, e i miei passaggi traduttivi che avvengono durante la mia analisi. Negli schemi compaiono termini propri del linguaggio della scienza della traduzione, come «prototesto» e «metatesto».

Questi due termini fanno ormai parte della traduttologia e sono alla base del concetto di «traduzione». Sono stati introdotti da Popovič (1975).

Con il termine «prototesto» si definisce il testo dal quale parte la traduzione. È insomma il testo d’origine. In una traduzione interlinguistica, da una lingua A a una lingua B, è il testo esposto nella lingua A. Il prototesto può non indicare solamente un testo scritto, come si pensa spesso quando si parla di traduzione. Il prototesto può essere un testo non verbale, ma indica comunque il punto da cui parte il processo traduttivo.

Il prototesto è soggetto della continuità intertestuale (Popovič 1975) e va considerato solamente in relazione alla sua potenzialità di generare un processo traduttivo. Non può essere studiato come elemento concluso e indipendente.

Con il termine «metatesto» si indica il testo prodotto a conclusione del processo traduttivo. Seguendo l’esempio precedente, se parliamo di traduzione da una lingua A a una lingua B, il metatesto è il testo nella lingua B. Come nel caso del prototesto, il metatesto può non essere un testo verbale. È comunque il punto di arrivo di una traduzione.

Il metatesto implica nella sua definizione l’esistenza di un prototesto, che però non potrà mai riprodurre in modo completo. Infatti non esiste una vera e propria equivalenza tra metatesto e prototesto.

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Primo capitolo – La traduzione della cultura

1.1 La traduzione culturale

Uno dei campi verso i quali l’approccio semiotico ha allargato il concetto di «traduzione» è quello culturale. Per «traduzione culturale» s’intende un processo nel quale, a prescindere da eventuali cambiamenti interlinguistici, si passa da una cultura a un’altra, ossia si modificano i riferimenti dati per scontati, il cosiddetto «implicito culturale».

1.1.1 Il concetto di cultura

Per svolgere una tesi sulla traduzione è doveroso introdurre il concetto stesso di «traduzione». Per «traduzione» si intende qualsiasi processo che trasformi un testo (testo che non deve essere considerato necessariamente come testo verbale) in un altro testo. Questa definizione di «traduzione» evidentemente non limita il processo alla trasformazione di un testo da una lingua verso un’altra lingua. Esso permette quindi di allargare questo concetto ad altre forme: possono essere così ritenute delle traduzioni ad esempio la scrittura e la lettura.

Se si considera questa definizione più ampia di «traduzione», si capisce come la distinzione tra traduzione interculturale e intraculturale sia più difficile del previsto. Per «traduzione interculturale» si è sempre intesa una traduzione da una lingua A a una lingua B e per «traduzione intraculturale» a una traduzione all’interno della stessa lingua. Se però si fa una distinzione tra traduzione interlinguistica e intralinguistica si capisce come vi sia una netta differenza con i concetti di traduzione interculturale e intraculturale.

Si delinea così una netta distinzione tra lingua e cultura. Anche se non bisogna confondere questi due concetti, non si deve pensare che essi non siano in relazione tra loro. Il concetto di cultura è molto più ampio rispetto a quello di lingua che può essere considerato un suo sottoinsieme. La lingua è uno degli elementi che formano la cultura di un individuo o di una società e che permette di differenziarla da altre culture.

Considerando la lingua come sottoinsieme della cultura è ora più facile pensare che il concetto di cultura non possa più essere limitato a una distinzione tra due lingue. La parola «cultura» racchiude un significato molto più ampio: «una cultura è un modo di percepire la realtà» (Osimo 2002). Se si pensa

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però che la realtà sia una cosa oggettiva, questo non deve trarre in inganno poiché la percezione è un fattore totalmente soggettivo. La propria esperienza, il contesto ambientale, sono tutti fattori che entrano in gioco quando ci si relaziona alla realtà. Questi cambiano continuamente da individuo a individuo e quello che per uno può essere scontato perché già entrato a far parte della sua esperienza per un altro può essere completamente nuovo. È così che si differenziano la parte esplicita e la parte implicita di un testo. Il non-detto può risultare facile da comprendere per un individuo che appartiene al contesto culturale in cui l’enunciato è prodotto, per un altro individuo estraneo a tale cultura la parte implicita può essere totalmente indecifrabile. È questo che rende ogni cultura unica e la differenzia dalle altre.

Riconoscere che la propria cultura è solo una delle possibili percezioni della realtà è un passo molto importante per l’accettazione del diverso. Vi sono due atteggiamenti possibili: l’«altrui nel proprio» e l’«appropriazione dell’altrui». Nel primo caso l’individuo riconosce la diversità tra le culture, è consapevole della soggettività della percezione ed è aperto a un continuo confronto con le altre culture. Nel secondo caso l’individuo guarda la realtà estranea attraverso i parametri della propria cultura per «omogeneizzare la diversità per farla apparire simile a ciò a cui si è abituati» (Osimo 2002).

La dinamica proprio/altrui è il concetto alla base della «semiosfera», concetto introdotto da Lotman. La «semiosfera» è il macrosistema delle culture. Ogni cultura è rappresentata da un sottoinsieme che si sovrappone parzialmente ad altri sottoinsiemi, cioè ad altre culture. Le culture interagiscono continuamente tra loro ed è per questo che il confine di ogni sottoinsieme non è mai netto. La «semiosfera» è sempre aperta a nuove trasformazioni poiché le relazioni tra le culture cambiano continuamente nel tempo e nello spazio.

L’universo delle culture visto in questo modo permette di mettere in luce la specificità di ogni cultura. La suddivisione di questo macrosistema può avvenire a più livelli: si può partire da sottoinsiemi più grandi come gli stati o i continenti fino ad arrivare ai singoli individui. Ogni individuo incarna così una cultura diversa.

Questo concetto di cultura più ampio ci permette di comprendere in modo più preciso la differenza tra «traduzione intraculturale» e «traduzione interculturale».

1.1.2 La traduzione intraculturale

La traduzione di un testo può avvenire all’interno di una stessa cultura o tra due culture diverse. Nel primo caso la traduzione si definisce «traduzione intraculturale».

Come esempio si può prendere una traduzione che avviene all’interno della cultura italiana. In questo caso la definizione di «cultura» avviene a livello di nazione e prende in considerazione i cittadini italiani. Ma se si considera il concetto di «cultura» più ampio descritto nel paragrafo

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precedente, si può pensare che una «traduzione intraculturale» avvenga per esempio all’interno di un gruppo di persone che non rappresentano per forza tutti i cittadini italiani ma solo una parte. In questo caso il concetto di cultura è più specifico.

Quando si parla di traduzione all’interno della stessa cultura, cioè quando la cultura emittente coincide con la cultura ricevente, non è detto che non insorgano problemi di traducibilità di un testo. La «traduzione intertestuale» avviene anche all’interno di una stessa cultura. Per «intertesto» si intende un testo che contiene citazioni, rimandi o allusioni a un altro testo. La difficoltà di decodifica degli intertesti è proporzionale all’implicitezza o esplicitezza della citazione, rimando o allusione. Vi sono tre parametri di decodifica. Il primo è legato all’implicitezza dell’esistenza dell’intertesto, cioè se vi sono dei segni grafici che indicano la presenza dell’intertesto. Ad esempio se esso è racchiuso nelle virgolette. Il secondo riguarda l’implicitezza della fonte dell’intertesto. A volte la fonte è chiaramente indicata dall’autore, in altri casi viene data per scontata. Il terzo parametro riguarda l’esplicitezza della funzione dell’intertesto. Anche quest’ultima può essere esplicita nella cultura dell’autore, in altri casi può risultare difficile capire il motivo di una citazione.

A seconda del grado di implicitezza/esplicitezza di un intertesto, cambia il grado di difficoltà di decodifica di un testo. Questo non è che uno dei problemi che insorgono durante una traduzione. Quando si affronta una traduzione culturale si relazionano tre culture: la cultura emittente (quella in cui nasce il prototesto), quella del traduttore (quella dove avviene la mediazione) e quella ricevente (quella in cui nasce il metatesto). Ogni testo è caratterizzato da una sua cultura che si distanzia dalle altre. La distanza culturale tra due testi può essere espressa sotto forma di coordinate che tengono conto della differenza, nei due testi, di questi elementi: le «coordinate cronotopiche» (Osimo 2001). La parola «cronotopo» significa «tempospazio» ed indica quindi le coordinate spazio-temporali di un testo, a cui si aggiungono le coordinate culturali.

Il fattore temporale incide enormemente sulla distanza tra culture, le quali acquisiscono o perdono elementi nel corso degli anni. Questo cambiamento è percepibile anche all’interno della stessa cultura.

L’aspetto geografico è un altro elemento che distanzia due culture. I toponimi locali sono dati per scontati all’interno della stessa cultura mentre in un’altra possono assumere persino significati diversi o devono essere resi espliciti.

Altro elemento è lo stile dell’autore che rende un testo più o meno marcato. In alcuni casi questa marcatezza può non essere riconosciuta dal traduttore, il quale vi sovrappone inconsciamente un suo stile; in altri casi il traduttore ritiene preferibile tralasciare la marcatezza per rendere il testo più accettabile nella cultura ricevente. In questo secondo caso il traduttore opera una manipolazione consapevole del testo.

Per evitare errori di traduzione o incomprensioni nell’analisi di un testo, è necessario introdurre il concetto di dominante. Essa viene definita come la componente intorno alla quale si focalizza il testo e che ne garantisce l’integrità. Anche se questa definizione sembra indicare un elemento ben distinto del testo, vi possono essere nel medesimo testo diverse dominanti con grado di importanza diverso. Si

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possono individuare in un testo due funzioni: la funzione informativa e la funzione estetica. La funzione informativa può riguardare ad esempio la cronologia degli eventi o il senso dell’opera. In alcuni casi può essere esplicita e comparire nel titolo dell’opera. La funzione estetica è legata al suono, allo stile dell’autore, del personaggio o alla sintassi.

Quando si resta all’interno di una stessa cultura, cioè quando la cultura dell’autore coincide con quella del lettore, è più facile riconoscere la dominante di un testo. Ciò nonostante possono insorgere incomprensioni e il lettore può fraintendere la dominante di un testo. Ad esempio, un romanzo storico può essere letto come un romanzo giallo anche se la dominante dell’autore era la ricostruzione storica di una determinata epoca.

Molti dei problemi legati alla traducibilità non riguardano soltanto la traduzione intraculturale, anzi essi aumentano quando si passa a una traduzione interculturale, cioè quando la cultura dell’autore non coincide più con quella del lettore.

1.1.3 La traduzione interculturale

Con il termine «traduzione interculturale» si definisce una traduzione in cui il traduttore attua una mediazione tra due culture distinte. L’autore e il lettore appartengono a due culture diverse.

Nel caso della traduzione interculturale i problemi legati alla traducibilità di un testo aumentano. I problemi già anticipati nel paragrafo precedente riguardano anche la traduzione interculturale. Le distanze tra le coordinate cronotopiche risultano accentuate quando si passa da una cultura a un’altra. Inoltre la dominante è tanto più difficile da trasmettere alla cultura ricevente se quest’ultima si differenzia dalla cultura emittente.

Un problema cruciale della traduzione interculturale è la differenza di specializzazione di una cultura rispetto a un’altra. Ogni cultura risulta più specifica in alcuni campi rispetto a un’altra cultura. Un esempio significativo è quello della neve tratto da Whorf: nella cultura eschimese il campo semantico di «neve» è molto più dettagliato rispetto per esempio a quello italiano. Il semplice verbo «nevicare» non esiste in questa cultura. Esistono dei termini più specifici per differenziare i tipi di nevicate: ad esempio «cade neve ghiacciata che non fa presa sul terreno».

La specificità non riguarda soltanto il campo semantico ma per esempio anche quello grammaticale. Il russo e l’italiano si differenziano per l’utilizzo o meno dell’articolo. L’inglese e l’italiano ne prevedono un utilizzo diverso.

Nel passare da una cultura più specificante a una meno specificante vi è il rischio di tralasciare un significato importante di una parola o di un determinato aspetto di quella cultura. Si genererebbe in questo modo un residuo traduttivo. Allo stesso tempo, nel passaggio da una cultura meno specificante a una più specificante si può cadere nell’eccesso di ridondanza.

Quando ci si trova davanti a due culture diverse è ancora più evidente l’inesistenza di una traduzione perfetta. Aspirare all’equivalenza è totalmente impensabile trovandosi di fronte alle

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differenze culturali di un testo. In questo caso il traduttore deve scegliere tra due approcci introdotti dallo scienziato della traduzione Toury: quello dell’adeguatezza e quello dell’accettabilità.

I concetti di cultura altrui nella propria e di appropriazione della cultura altrui, già introdotti nel paragrafo 1.1.1, sono fondamentali per distinguere i due approcci.

Tra il prototesto e il metatesto intercorre la distanza cronotopica che in un caso può essere percorsa dal lettore che si avvicina così alla cultura altrui, nell’altro caso è il prototesto che grazie al traduttore si avvicina al lettore. Nel primo caso si parla di «traduzione adeguata». Il prototesto viene conservato ed è compito del lettore fare uno sforzo per percorrere la distanza cronotopica ed avvicinarsi alla cultura emittente. In questo caso la lettura risulta più complicata poiché ricca di esotismi e realia, ma allo stesso tempo arricchisce maggiormente il lettore.

Nel caso della traduzione accettabile avviene il contrario. Il metatesto conserva pochissime caratteristiche del prototesto. In questo caso è il prototesto che tramite la mediazione del traduttore viene avvicinato al lettore. La lettura risulta più facile, gli esotismi e gli elementi di straniamento culturale vengono tradotti nella cultura ricevente per facilitare la comprensione del lettore. È il traduttore che percorre la distanza cronotopica tra il prototesto e il metatesto. I realia della cultura emittente vengono tradotti con realia della cultura ricevente o standardizzati.

Non è sempre il traduttore che decide quale approccio scegliere. In alcuni casi è la stessa cultura a decidere: vi possono essere infatti fattori di tipo politico, la presenza o meno di una cultura dominante o in altri casi la cultura editoriale che predilige un determinato approccio.

1.2 La tipologia traduttiva

Ciascun articolo di Luca Fontana è un esempio di traduzione. Come ogni traduzione presenta due elementi fondamentali: prototesto e metatesto. Per individuare quale sia il tipo di traduzione a cui ci si trova di fronte, si deve verificare se questi due elementi, prototesto e metatesto, nascono nella stessa cultura o appartengono a due culture diverse, se ci si trova cioè di fronte a una traduzione intraculturale o a una traduzione interculturale. La scelta dell’uno o dell’altro tipo di traduzione dipende dal punto di vista con cui si analizzano i testi.

Un’analisi degli articoli di Luca Fontana potrebbe considerare i testi come appartenenti alla sfera della cultura italiana, ad esempio. In questo caso si considererebbero prototesto e metatesto come appartenenti alla stessa sfera culturale. Ci si troverebbe di fronte a una traduzione intraculturale.

Quello che però interessa maggiormente degli scritti di Fontana è l’analisi della società; società che appare varia, molteplice e soggetta a molte interpretazioni. Lo stesso vale per la cultura, il quale concetto è più allargato, come presentato nel paragrafo 1.1.1. «Ognuno ha un proprio linguaggio interno, una propria cultura che è anche una lettura soggettiva della realtà» (Osimo 2002). Ne deriva che il sistema culturale di riferimento può di volta in volta inglobare un solo individuo, un gruppo di persone, una nazione intera. Come afferma Lotman,

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in base alle limitazioni che il ricercatore impone al suo materiale di studio, si può parlare di cultura pan-umana in generale, della cultura di questa o quell’area geografica oppure di questa o quell’epoca, della cultura, infine, di questa o quella comunità variabile nelle sue dimensioni ecc. (Lotman, 1973: 44).

Seguendo questa definizione, ciascun articolo di Luca Fontana è una traduzione interculturale in cui il prototesto e il/i metatesto/i appartengono a due culture diverse. Cultura emittente e cultura ricevente non coincidono. Sotto questo aspetto i problemi legati alla traducibilità aumentano se si considera che molti elementi impliciti per la cultura emittente possono non esserlo per la cultura ricevente.

Dopo aver individuato il tipo di traduzione, si passa all’analisi dei processi traduttivi. La relazione tra prototesto e metatesto/i cambia. Non si è sempre di fronte allo stesso tipo di traduzione. Ciò nonostante vi sono degli elementi costanti che accomunano i vari prototipi. In ogni tipo compaiono un prototesto (P), un metatesto o più metatesti (M) e il ruolo che svolge la cultura (C). Il numero dei metatesti varia a seconda del tipo di traduzione: ci può essere un solo metatesto, due metatesti (M1 e M2) o un numero di metatesti superiore a 2 (M3, M4…). Il metatesto non è l’unico elemento variabile. La cultura cambia a seconda della sua connotazione. Una cultura può essere conformista o anticonformista, oppure avere un ruolo di cultura dominante o subordinata.

Le variabili sono quindi tre: il numero dei metatesti, la connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista, la connotazione di una delle culture come dominante o subordinata. Considerando queste variabili le combinazioni possibili sono dodici. La tabella sottostante illustra tutte le dodici combinazioni:

tipi di attualizzazione possibili

numero dei metatesti

connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista

connotazione di una delle culture come dominante o subordinata

1

1

sì

no

2

1

sì

sì

3

1

no

sì

4

1

no

no

5

2

sì

no

6

2

sì

sì

7

2

no

sì

8

2

no

no

9

3 o più

sì

no

10

3 o più

sì

sì

11

3 o più

no

sì

12

3 o più

no

no

La tabella mostra tutte le dodici combinazioni, ma il campionario degli articoli di Fontana analizzato non soddisfa tutti e dodici i tipi di attualizzazione possibili. Gli articoli ricoprono sei dei dodici tipi di traduzione possibili e specificatamente i numeri 4, 5, 6, 8, 9 e 12.

Di seguito verranno illustrati i sei prototipi di traduzione con il rispettivo elenco degli articoli che ne fanno parte. Tutti gli articoli possono essere consultati in appendice.

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1.2.1 Prototipo di traduzione n ̊4

Il tipo di traduzione n ̊4 presenta un solo metatesto. Questo significa che dal prototesto parte un solo processo traduttivo.

Non è presente nessuna contrapposizione tra cultura conformista o anticonformista quindi nessuna delle culture è connotata in modo conformista o anticonformista. Le culture del metatesto vanno considerate in modo generico; culture diverse che si relazionano.

Inoltre non esiste una connotazione di una delle culture come dominante o subordinata, le due culture sono sullo stesso piano e hanno la stessa importanza.

Nel caso specifico degli articoli di Fontana facenti parte di questo prototipo di traduzione, nel metatesto l’autore colloca due visioni del prototesto: una in chiave storica, l’altra in chiave moderna. Poiché dal prototesto nasce un solo metatesto, la visione nelle due letture rimane la stessa nonostante la distanza temporale tra le due culture.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: I leoni di Almodovar, Le donne di Shakespeare, Lacrime per Falstaff, Bessie senza una lira.

1.2.2 Prototipo di traduzione n ̊5

Nel prototipo n ̊5 dal prototesto si generano due processi traduttivi: i metatesti sono pertanto due.

In questo caso esiste una vera e propria contrapposizione tra le culture dei due metatesti. Una cultura è connotata come conformista, l’altra come anticonformista. Nel caso specifico degli articoli di Fontana, il M1 rappresenta la cultura conformista e il M2 la cultura anticonformista.

La contrapposizione, tuttavia, avviene alla pari. Fontana mette in contrasto le due culture, ma nessuna delle due prevale sull’altra. Non vi è quindi una connotazione di una delle culture come dominante o subordinata.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: Repressione eufemistica, Tutti nerovestiti, Susanna e i vecchioni, Francia o Spagna?.

1.2.3 Prototipo di traduzione n ̊6

In questo tipo di traduzione, dal prototesto si generano due metatesti. I processi traduttivi che nascono dal prototesto sono pertanto due.

Come nel prototipo precedente, vi è la connotazione di una delle culture come conformista o anticonformista. Il primo metatesto rappresenta la cultura conformista e il secondo metatesto la cultura anticonformista.

A differenza del prototipo di traduzione precedente, in questo caso la cultura anticonformista tenta una “ribellione” o un coinvolgimento della cultura conformista verso una visione nuova della realtà. Il

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risultato però è nullo poiché la cultura conformista del M1 prevale sulla cultura anticonformista del M2. Vi è quindi una connotazione di una delle culture come dominante o subordinata.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: La filosofia di mammà, Borse di fuga triennali, La musa al ritorno.

1.2.4 Prototipo di traduzione n ̊8

In questo tipo di traduzione sono raggruppati la maggior parte degli articoli di Fontana. Infatti una buona parte degli articoli presenta due metatesti e le culture contrapposte vanno considerate in senso generale. Nessuna delle culture è connotata come cultura conformista o anticonformista o come cultura dominante o subordinata.

Poiché gli articoli facenti parte di questo tipo di traduzione sono numerosi, la relazione tra la cultura del M1 e la cultura del M2 varia a seconda dei casi. In alcuni articoli le due culture si limitano a esprimere una loro opinione sul prototesto. In altri casi dal prototesto nascono due fazioni: i sostenitori e gli oppositori. In altri articoli i due metatesti rappresentano due aspetti del prototesto. Ad esempio, nell’articolo Cartulina ’e Napule dal prototesto «Napoli» nascono due metatesti di cui il primo rappresenta la Napoli povera e il secondo la Napoli ricca. Nel loro insieme i due aspetti permettono di delineare una visione completa del prototesto.

Un ultimo caso è la contrapposizione tra due culture appartenenti a mondi completamente diversi. Ad esempio, nell’articolo La veste profumata si contrappongono la cultura marocchina e la cultura italiana.

Nonostante queste peculiarità che contraddistinguono ogni caso, nessuna cultura in tutti gli articoli appartenenti a questo tipo di traduzione prevale sull’altra. È Fontana in un secondo tempo che svolge un’analisi comparativa tra il primo metatesto e il secondo metatesto evidenziando similitudini e differenze.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: Giocate un po’ di più, Medea (molto) britannica, Contro la guerra, Il diritto alla compagnia, Boschi ombrosi e rovine, Uno schianto di prof, A bocca aperta, La veste profumata, IL buon samaritano, Eurostar senza desideri, Il piacere comprato, Eroica castità, Ai romani piaceva la…, sogni di guerra, Le visite notturne, Il corpo smembrato, I dolori delle donne, Lussuria e bon ton, L’onesto Jago, In stato di quiete, L’eterna estate di Monicelli, Eva, Adolfo e Heidi, Medea in villetta, Cartulina ‘e Napule, Disprezzata regina.

1.2.5 Prototipo di traduzione n ̊9

In questo tipo di traduzione dal prototesto partono più di due processi traduttivi. Nel caso specifico dei due articoli di Luca Fontana che fanno parte di questo gruppo, i metatesti sono quattro.

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Le culture che si contrappongono sono connotate in modo conformista o anticonformista in quanto alcuni metatesti sono espressione di una visione moderna della società, mentre altri metatesti ne rappresentano una visione conservatrice.

In questi articoli però non vi è il prevalere di una cultura sull’altra, nessuna cultura è connotata come dominante o subordinata.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: La famiglia naturale, La soluzione del mistero.

1.2.6 Prototipo di traduzione n ̊12

Come nel prototipo precedente, i processi traduttivi che partono dal prototesto sono più di due. Di questo gruppo fanno parte due articoli e, nei due casi specifici, nell’articolo I fustigatori inglesi i metatesti sono tre mentre nell’articolo La maledizione di Diana i metatesti sono quattro.

A differenza del gruppo precedente, nessuna cultura è connotata come conformista o anticonformista. Le culture dei metatesti vanno considerate in senso generico, esprimono la loro opinione sul prototesto. Ad esempio nel caso dell’articolo I fustigatori inglesi vi sono delle fazioni contrapposte: quelle dei sostenitori e quelle degli oppositori.

Inoltre nessuna cultura è connotata come dominante o subordinata. Non vi sono culture che prevalgono sulle altre.

Gli articoli che fanno parte di questo tipo di traduzione sono: I fustigatori inglesi, La maledizione di Diana.

1.3 La semiosi

Il concetto di «semiosi» è stato introdotto dal filosofo statunitense Charles Sanders Peirce, fondatore della semiotica, scienza della significazione. Secondo Peirce ciascun atto semiotico comprende tre elementi: un segno, un oggetto e un interpretante. Secondo la definizione di Peirce:

a sign stands for something to the idea which it produces, or modifies. Or, it is a vehicle conveying into the mind something from without. That for which it stands is called its object; that which it conveys, its meaning; and the idea to which it gives rise, its interpretant (Peirce 7, 6, 89).

Con il termine «segno» si indica pertanto qualsiasi cosa che possa essere percepita, conosciuta. Il segno esiste in correlazione all’oggetto a cui esso rimanda. L’«oggetto» al contrario esiste a prescindere dal segno e può essere percepibile o immaginabile.

Per far si che un segno svolga la sua funzione effettiva di segno, deve entrare in relazione con un oggetto e produrre nella persona una rappresentazione mentale, l’interpretante, che metta in relazione quel segno con quell’oggetto. Si realizza così il processo interpretativo definito da Peirce «semiosi». Ogni atto semiotico implica l’esistenza di un interpretante. Poiché ogni interpretante è una rappresentazione mentale, psichica, la semiosi è un processo interpretativo soggettivo. Esso cambia da

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individuo a individuo. Ogni individuo carica di affettività in modo diverso l’interpretazione di un segno ed è per questo che lo stesso segno può essere percepito in maniera distinta da due persone che lo connotano col loro contesto culturale e con le loro esperienze personali.

La relazione tra segno e oggetto non cambia solo nello spazio ma anche nel tempo. Nel corso degli anni lo stesso segno può essere percepito in modo diverso dalla stessa persona.

La semiosi è un processo interpretativo che avviene a livello mentale. Può essere consapevole o meno. Prima di Kant1, si riteneva che fosse possibile un atto percettivo non soggettivo, una semplice registrazione di dati. Con l’apporto degli studi di Kant questa teoria è stata smantellata. Ogni atto percettivo è – volenti o nolenti – un atto di giudizio. Ogni atto semiotico si esprime con il linguaggio interno.

Con il concetto di «linguaggio interno» ci si riferisce a quelle proiezioni mentali, ai pensieri che nascono nella mente di ogni individuo ogni qual volta si attua una relazione tra segno e oggetto, ogni volta che si attua un processo semiotico. Il linguaggio interno non si esprime con segni verbali e perciò ogni qualvolta si vuole esprimere un pensiero lo si deve tradurre in segno verbale per poterlo comunicare agli altri.

1.3.1 La traduzione come passaggio da segno a oggetto

Ogni atto semiotico è un atto interpretativo. Lo è per esempio la lettura, la quale rappresenta la prima fase di una traduzione. L’analisi del prototesto è una parte fondamentale dell’atto traduttivo. Nel momento in cui si crea una relazione tra segno e oggetto si verifica il primo passo per comprendere un testo.

Il processo interpretativo semiotico è un processo continuo. Man mano che si procede con la lettura del testo, ogni nuovo segno apporta delle conoscenze maggiori e il lettore crea delle ipotesi interpretative che di volta in volta dovrà controllare alla luce dei segni successivi. Si genera un ciclo illimitato chiamato «circolo ermeneutico» il quale ha alla base il ragionamento logico definito da Peirce «abduzione»2.

Anche la traduzione implica un processo semiotico. Il traduttore, ogni volta che affronta un testo da tradurre, ha davanti un segno del prototesto che genera un primo triangolo semiotico del prototesto. Il traduttore, partendo dal segno del prototesto, sceglie il segno del metatesto il quale a sua volta genera un secondo triangolo semiotico del metatesto. Poiché non vi è un oggetto al centro della traduzione ma un segno che come già specificato nel paragrafo precedente deriva da una percezione soggettiva, l’oggetto del metatesto potenzialmente potrebbe essere diverso da quello del prototesto.

1 Studi esposti da Kant nella Critica della ragion pura (1787). 2 Si veda paragrafo 1.4

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1.4 L’abduzione

Il concetto di «abduzione» è stato introdotto da Charles Sanders Peirce e si affianca ai due tradizionali ragionamenti logici: la deduzione (il procedimento analitico) e l’induzione (il procedimento sintetico). La deduzione è il ragionamento logico con il minor tasso di creatività e la maggiore certezza della veridicità della conclusione. Aristotele aveva spiegato questo sillogismo utilizzando i termini di premessa maggiore (tutti gli uomini sono mortali3), premessa minore (Socrate è un uomo) e conclusione (Socrate è mortale). Peirce utilizza un altro linguaggio e un altro esempio. Con la deduzione ci si trova davanti a una regola (all the beans from this bag are white, Peirce 3, 5, 1), a un caso specifico (these beans are from this bag, Peirce 3, 5, 1, 623) e si arriva a un risultato (these beans are white, Peirce 3, 5, 1, 623). Quello che si ottiene è sicuramente un dato oggettivo e sicuro, ma questo non porta ad ampliare le proprie conoscenze. Quando ci si trova davanti a un testo non è il processo deduttivo che entra in azione poiché è vero che si è a conoscenza di alcune regole, ad esempio stilistiche o grammaticali, ma non si conoscono i casi antecedenti.

L’altro processo logico, l’induzione, è stato spiegato dagli empiristi. Rispetto alla deduzione ha un grado di creatività maggiore ma un grado di certezza minore. Gli empiristi definivano l’induzione come il processo che attraverso una prima premessa minore (la matita cade4) e una seconda premessa minore (il libro cade) generava una conclusione (tutti i corpi cadono). Secondo la sua terminologia, Peirce definisce l’induzione il sillogismo che attraverso un caso specifico (these beans are from this bag, Peirce 3, 5, 1, 623) e un risultato (these beans are white Peirce 3, 5, 1, 623) genera una regola (all the beans from this bag are white Peirce, 3, 5, 1, 623). Secondo l’induzione ciò che nasce è una regola, ma ogni volta che si analizza un testo non si producono regole ma casi specifici.

Poiché anche attraverso l’induzione non si arriva a una conclusione abbastanza creativa, Peirce sostiene che il procedimento logico che si adotta ogni volta che si affronta un testo è l’abduzione. Nell’abduzione si parte da una regola (all the beans from this bag are white, Peirce 3, 5, 1, 623) e da un risultato (these beans are white Peirce 3, 5, 1, 623) e si arriva a un caso specifico (these beans are from this bag, Peirce 3, 5, 1, 623). In questo caso la certezza della conclusione è basso, ma il tasso di creatività è maggiore rispetto sia alla deduzione sia all’induzione. Se la congettura finale sia vera o falsa lo si scopre mano a mano che si avanza nella lettura di un testo ed è questa continua ricerca che appassiona il lettore e lo rende partecipe.

1.5 Il ruolo di Luca Fontana nella traduzione interculturale

Nel suo lavoro di giornalista Luca Fontana attua un’analisi della società. Prende spunto da episodi di vita quotidiana, da articoli, da discorsi o interviste di personaggi celebri, da canzoni o opere letterarie per dipingere in chiave ironica la società. Per la sua analisi attinge dalle sue esperienze

3 Sono qui citati gli esempi usati da Aristotele per spiegare la deduzione. 4 Sono qui citati gli esempi usati dagli empiristi per spiegare l’induzione.

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personali e immerge il lettore in un contesto culturale ricco e vario. Per avvicinare il lettore al mondo da lui descritto, Fontana diventa un mediatore culturale, un vero e proprio traduttore. Infatti fa da tramite tra la cultura del prototesto e la cultura del metatesto.

Nella maggior parte degli articoli la traduzione non è una sola, da un prototesto nascono due o più metatesti. Luca Fontana ha così un secondo compito: fare da mediatore tra le culture dei metatesti. Attraverso un procedimento abduttivo spiega le differenze tra le culture dei metatesti, ne delinea le similitudini e i punti di incontro e trae le sue conclusioni. Conclusioni che sono sì soggettive, poiché la soggettività è una delle caratteristiche essenziali del processo abduttivo, ma che lasciano ampio spazio alla riflessione personale del lettore.

1.5.1 Luca Fontana come espressione della cultura di confine

Nel momento in cui Fontana si trova a dover attuare una mediazione tra le culture dei metatesti, si trova a metà tra due culture diverse. È espressione della cosiddetta «cultura di confine», concetto introdotto da Lotman.

Ogni cultura è rappresentata, all’interno della semiosfera, come un insieme. Naturalmente i diversi insiemi delle culture non sono uno staccato dall’altro. Ogni cultura si trova costantemente in contatto con le altre culture, ne viene influenzata e attinge dal diverso per potersi evolvere. Ne deriva che i sistemi delle culture si toccano, dando luogo a “membrane” di confine. Fontana nella sua analisi comparativa si trova proprio al confine tra le due culture, nella posizione della membrana tra le culture che mette in relazione.

Il concetto di confine all’interno della semiosfera riveste una ruolo molto importante e

non è un concetto astratto, ma un’importante posizione funzionale e strutturale, che determina la natura del suo meccanismo semiotico. Il confine è un meccanismo bilingue, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa. Solo col suo aiuto la semiosfera può così realizzare contatti con lo spazio extrasistematico o non semiotico. (Lotman 1985, 60).

1.6 Il lettore modello

Ogni testo viene scritto da un autore per un certo tipo di pubblico; l’autore si immagina un lettore modello che legga il suo testo e che comprenda la sua strategia. L’autore farà quindi delle scelte che si adattano al lettore modello che ha in mente, ad esempio se il narratore è in prima persona o in terza persona, uno stile invece che un altro. L’autore richiede in questo modo al lettore una collaborazione. Il lettore deve accettare le regole che gli impone il testo. Se il lettore legge un racconto di fantascienza non può esigere che tutto quello che viene riportato nel testo sia vero. Il lettore empirico, quello reale, deve rispettare quindi la cooperazione testuale impostagli da quel tipo testo.

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In alcuni casi la cooperazione testuale può venire meno. Il lettore modello non coincide con il lettore empirico. Il lettore empirico può aver frainteso alcuni aspetti del testo o non aver compreso appieno la figura dell’autore modello, cioè l’immagine che l’autore empirico vuole dare del narratore. «Il successo di un testo dipende dalla capacità dell’autore empirico di elaborare una strategia testuale adatta a un numero elevato di lettori empirici» (Osimo 2001). In questo modo aumentano le probabilità che un testo possa essere interpretato in modo coerente con la strategia dell’autore.

La cooperazione testuale diventa ancora più difficile quando il lettore si trova davanti a un testo tradotto. Tra la figura dell’autore e quella del lettore si colloca quella del traduttore che svolge la funzione di lettore empirico. In una prima fase il traduttore deve interpretare in modo corretto o nel modo più vicino all’idea dell’autore empirico la strategia del prototesto. Quando inizia la traduzione, deve prefissarsi un lettore modello del metatesto. Nel fare questo deve tenere conto di molti fattori, specialmente di quelli culturali. Il traduttore deve adattare il testo della cultura emittente alle richieste della cultura ricevente. Non tutti i testi possono avere lo stesso interesse, possono avere grande successo nella cultura emittente ma non ottenerne altrettanto nella cultura ricevente. Spetta al traduttore trovare una strategia che possa adattarsi a un numero maggiore di lettori empirici della cultura ricevente.

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Secondo capitolo – Analisi dei testi

2.0 Materiale empirico

Rispetto alla tabella presente in 1.2, che contiene i dodici tipi di attualizzazione possibili dati i parametri scelti per questa ricerca, nel materiale concretamente analizzato sono stati rinvenuti testi che corrispondono a sei dei dodici tipi teorici. Li presento qui nell’ordine in cui si collocano nella suddetta tabella, partendo quindi dal quarto tipo.

2.1 Le donne di Shakespeare

Diagramma del processo traduttivo:

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L’articolo intitolato Le donne di Shakespeare è apparso sul Diario del 20 luglio 2001. Fontana prende spunto dalla rappresentazione di As you like it di Shakespeare con Elisabetta Pozzi nel ruolo di Rosalind, spettacolo teatrale al quale ha assistito di persona. Come detto in precedenza, l’autore attinge da esperienze che ha vissuto in prima persona per dipingere un ritratto della società moderna.

Questo articolo appartiene al prototipo di traduzione n ̊4. Dal prototesto (identità sessuale) nasce un solo metatesto in cui non vi è né una cultura connotata come conformista o anticonformista, né una cultura connotata come dominante o subordinata. Nel metatesto si uniscono una visione storica e una visione moderna del prototesto. Le due visioni non si contrappongono ma coincidono nel cogliere appieno il significato del prototesto.

Nell’articolo Le donne di Shakespeare il prototesto è l’identità sessuale. Ne nasce un metatesto nel quale confluiscono la rappresentazione all’epoca di Shakespeare della sua commedia As you like it e la rappresentazione moderna con l’interpretazione di Elisabetta Pozzi. Nella commedia, Rosalind, la protagonista femminile, scappa dalla corte travestita da ragazzo per raggiungere il padre al quale è stato usurpato il trono. Il tema del travestimento è molto frequente nelle commedie di Shakespeare ed è un espediente che serve a creare sgomento nello spettatore e situazioni comiche. Fontana nell’articolo esalta le doti dell’attrice Elisabetta Pozzi affermando che lo «incanta vedere con quanto piacere l’attrice entri ed esca dai sessi».

Oltre a esaltare la bravura della protagonista e a dare la sua opinione sull’interpretazione moderna, Fontana svolge un parallelo tra la storia e la modernità. Il tema del travestimento acquista ancora più importanza considerando che al tempo di Shakespeare le donne non potevano recitare. Le parti femminili erano affidate a uomini. Fontana fa notare questa differenza con il teatro moderno. Seppure fosse un divieto insensato contro le donne e per fortuna sorpassato, permetteva di creare ancora più ambiguità nel gioco dei travestimenti. Inoltre il ricorso moderno a donne per le parti femminili nel teatro shakespeariano non permette di rappresentare tutte le parti comiche della commedia, come fa notare Fontana riferendosi alla mancanza della battuta di Rosalind nell’epilogo: «Se io fossi donna, bacerei quelli che mi piacciono, tra tutti voi che avete barba…».

L’utilizzo di soli maschi nelle rappresentazioni teatrali creava però alcuni problemi. Fontana, alla fine dell’articolo, descrive un dialogo fittizio tra Shakespeare e il direttore di scena sui problemi che potevano insorgere agli attori di parti femminili all’epoca di Shakespeare. L’autore ricorre all’ironia per rendere più vivace la sua analisi. L’ironia è un elemento costante degli articoli di Fontana, elemento che rende la lettura piacevole e scorrevole.

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2.2 Francia o Spagna?

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato Francia o Spagna è apparso sul Diario del 24 febbraio 1999. Fontana rievoca un incontro in una trattoria con una coppia di ragazzi, lui italiano lei spagnola, che si sono conosciuti in internet.

Questo articolo fa parte del prototipo n ̊5. Dal prototesto (adeguamento culturale) nascono due metatesti in cui una cultura è connotata come conformista e l’altra cultura come anticonformista. Poiché nessuna delle due culture – stando a come viene esposta la realtà nel testo – prevale sull’altra, non vi è una cultura connotata come dominante.

Il prototesto da cui parte la traduzione è, in questo articolo, l’adeguamento culturale. Ne nascono il primo metatesto, «i ragazzi con la faccia da avvocati», e il secondo metatesto, «coppia incontratasi in rete». Il primo metatesto rappresenta la cultura conformista. Questa cultura è contro ogni tipo di cambiamento e tra le due culture messe a confronto nell’articolo è quella che rinnega ogni adeguamento culturale. Se si considera la dinamica proprio/altrui (1.1.1), la cultura del primo metatesto (M1) rappresenta l’atteggiamento in cui vi è un’appropriazione dell’altrui, cioè si tende ad omogeneizzare le diversità. Si accetta un solo punto di vista: il proprio.

Il secondo metatesto rappresenta la cultura anticonformista. Nella dinamica proprio/altrui 23

rappresenta l’atteggiamento in cui vi è un avvicinamento verso le diversità e un’accettazione dell’altrui nel proprio. Una cultura diversa viene in questo caso percepita come arricchimento per sé stessi.

Fontana si trova davanti a due atteggiamenti contrapposti. Ne evidenzia le diversità contrapponendo i discorsi che ascolta personalmente. Oltre a presentarci queste due culture diverse, dà un suo parere personale. In questo caso Fontana condivide il punto di vista della coppia che si è conosciuta in internet, indignandosi dei discorsi intolleranti dei ragazzi seduti all’altro tavolo. L’autore si domanda quale sia il motivo di questa disparità di adeguamento culturale. Esclude che il grado di tolleranza dipenda da un fattore di censo e ceto e lascia la domanda in sospeso a un’interpretazione personale del lettore.

L’ironia è presente anche in questo articolo. La descrizione degli studenti seduti al tavolo accanto fa sorridere il lettore che riesce quasi a immaginare le facce dei ragazzi: «già a cinque anni hanno facce da ginecologini, commercialistini, avvocatini».

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2.3 La filosofia di mammà

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato La filosofia di mammà è comparso sul Diario del 24 marzo 1999. Fontana si interroga sull’importanza dell’imprinting familiare nel destino di una persona. Prende a esempio il suo incontro con una famiglia romana in un boschetto non lontano da Roma.

Questo articolo fa parte del prototipo di traduzione n ̊6. Dal prototesto si generano due metatesti. Vi è un doppio conflitto tra le due culture: una contrapposizione tra cultura conformista e cultura anticonformista e una contrapposizione tra cultura dominante e cultura subordinata.

Nell’articolo è stato individuato come prototesto la natura. Ne nascono due metatesti: il primo metatesto è impersonato dalla madre e il secondo dalla bambina. Il primo metatesto rappresenta la cultura conformista, quella cultura che respinge qualsiasi stimolo di arricchimento dall’esterno. Il secondo rappresenta la cultura anticonformista, cultura che è mossa da un istinto di curiosità verso ciò che non si conosce. Considerando, come nell’articolo precedente, la dinamica proprio/altrui, la madre rappresenta l’atteggiamento di appropriazione dell’altrui mentre la bambina rappresenta l’atteggiamento di altrui nel proprio.

Le due culture non sono sullo stesso livello: la cultura conformista prevale sulla cultura anticonformista. La madre infrange qualsiasi stimolo di conoscenza e curiosità della bambina. Il

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tentativo di quest’ultima nel coinvolgere la madre nella sua smania di sapere, viene spento miseramente con un perentorio: «Ma fatte li cazzi tua e magna!».

Fontana relaziona le due culture per mettere in evidenza il differente modo di percepire la natura. La madre non coglie nessuno stimolo dall’esterno, mentre la bambina, nonostante subisca l’influenza negativa della famiglia, rimane affascinata da qualcosa che supera la sua immaginazione come l’enorme quantità d’acqua che si trova davanti a lei.

Attraverso il racconto di questo episodio che ha vissuto in prima persona, Fontana risponde alla sua domanda iniziale: «Quanto conta l’imprinting familiare nel destino di un uomo e di una donna?». Secondo Fontana l’influenza familiare incide molto sulla persona. Le scelte, il carattere, la voglia di conoscere, sono tutti aspetti della personalità che vengono “tramandati” dai genitori. Fontana mette in luce un altro aspetto. Nella cultura italiana, in cui l’età media di uscita dalla famiglia è trentacinque anni, l’imprinting familiare acquista ancora più importanza.

In questo articolo l’ironia è un elemento essenziale. La descrizione della famiglia è vivace e ridicola al tempo stesso. Fontana ironizza sul tono di voce dei componenti della famiglia romana e sulle loro abitudini alimentari. L’idea della stazza della madre e della bambina è resa in modo straordinario attraverso il riferimento a opere di artisti famosi: «Una bambinona di Botero nata da una mammona neoclassica di Picasso». Inoltre l’utilizzo di parole dialettali rende i dialoghi più allegri e veritieri, rendendo il lettore partecipe in prima persona della scena che si sta svolgendo.

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2.4 Due culture a confronto

Nel prototipo di traduzione n ̊8 fanno parte la maggior parte degli articoli di Luca Fontana. Le culture che vengono messe a confronto sono sempre due e sono caratterizzate entrambe dall’assenza sia di una connotazione di tipo conformista o anticonformista, sia di una connotazione di tipo dominante o subordinata. È il senso generale di cultura che va preso in considerazione in questo prototipo.

Nonostante queste caratteristiche comuni, la relazione tra metatesti e prototesto cambia a seconda degli articoli. Il concetto generale di cultura è molto ampio. Per questo motivo ho deciso di presentare qui di seguito l’analisi di due articoli di Fontana appartenenti a questo prototipo per dare una maggiore visione d’insieme e rendere l’analisi più meticolosa.

Nel primo caso, La veste profumata, i due metatesti sono l’espressione di due culture appartenenti a realtà completamente diverse. Nel secondo caso, Il piacere comprato, il prototesto genera due fazioni: gli oppositori e i sostenitori.

2.4.1 La veste profumata

Diagramma del prototipo di traduzione:

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L’articolo intitolato La veste profumata appare sul Diario del 3 giugno 1998. In questo articolo Fontana prende spunto da un articolo apparso sulla Repubblica del 25 maggio 1998 per affrontare il tema dello scontro tra culture.

Questo articolo fa parte del prototipo di traduzione n ̊8. Dal prototesto nascono due metatesti in cui non vi è nessuna cultura che sia connotata come conformista o anticonformista o come dominante o subordinata. Nel caso specifico di questo articolo, le due culture che si confrontano appartengono a due mondi completamente diversi. Il primo metatesto rappresenta la cultura marocchina, il secondo metatesto la cultura italiana. I due metatesti non sono altro che letture diverse del prototesto: «la veste profumata».

La veste ha per le due culture qui a confronto, quella marocchina e quella italiana, due significati – simbolici, ovviamente – diversi. Per la società marocchina la veste ricamata è un segno di accettazione, di appartenenza e una volta donata a una persona significa l’entrata di questa persona in una famiglia che non la considera più altrui ma proprio. L’accettazione di tale regalo è dunque molto impegnativa. Benché si tratti di un gesto mancato, passivo, secondo la cultura emittente è l’accettazione della promessa di matrimonio. Per la società italiana il dono di una veste ricamata non ha altro valore che quello del regalo, senza nessun significato ulteriore a quello di una generica dimostrazione di affetto.

Fontana in questo articolo colloca la sua analisi in uno spazio intermedio tra le due culture, come linea di congiunzione tra le due. Svolge il ruolo di cultura di confine5. Pur non condividendo il gesto spregiudicato del ragazzo marocchino che ha ucciso la sua ragazza e la madre di lei perché rifiutato, Fontana cerca di decodificare questo gesto – che nella cultura in cui viene fatto è considerato criminale – alla luce della cultura emittente: in questo senso, l’omicidio è visto come problema di traduzione, come decodifica aberrante reciproca.

Il lettore modello di questo articolo non viene posto davanti a una razionale spiegazione di tale meccanismo difettoso di traduzione: tale processo rimane implicito, e viene còlto dal lettore soltanto sotto forma di ironica allusione.

5 Vedi paragrafo 1.5.1 del primo capitolo.

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2.4.2 Il piacere comprato

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato Il piacere comprato è apparso sul Diario del 23 dicembre 1998. Fontana affronta il tema dell’omosessualità prendendo spunto da un articolo di Repubblica, il quale espone la storia di un uomo che per mantenere la famiglia decide di prostituirsi.

Questo articolo rientra nel prototipo di traduzione n ̊8. Dal prototesto (la marchetta) nascono due metatesti. Non si crea né una contrapposizione tra cultura conformista e anticonformista, né un contrasto tra cultura dominante e subordinata.

Nell’articolo è stato individuato un prototesto: la marchetta, ovvero il «termine gergale per omosessuale maschio che si vende a maschi», come spiega Fontana nell’articolo. Da questo prototesto sono stati ricavati due metatesti. Il primo metatesto è la disapprovazione sociale. È stato definito «implicito culturale» in quanto per prima cosa non appare espressamente nel testo ma lo si evince in contrapposizione al secondo metatesto, e in secondo luogo esprime il pensiero comune della società italiana di cui Fontana fa un’analisi nella sua rubrica. Il secondo metatesto è l’articolo della Repubblica in cui viene raccontata la storia lacrimevole della marchetta.

In questo processo traduttivo le due culture formano due schieramenti contrapposti, l’uno contro e l’altro a favore della marchetta. Infatti il primo metatesto rappresenta la parte della società che

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disapprova il comportamento dell’uomo-marchetta, mentre il secondo metatesto è espressione della cultura delle persone che, leggendo l’articolo di Repubblica, hanno provato pietà per l’uomo costretto a prostituirsi per mantenere la famiglia.

Fontana fa un paragone tra le due visioni contrapposte ed esprime la sua opinione personale. Se da un lato è contro ogni forma di stereotipo e di intolleranza verso ogni categoria sociale, in questo caso Fontana non appoggia la visione pietistica dell’articolo di Repubblica. Egli ritiene impossibile ogni estraneità dal piacere nella decisione dell’uomo, facendo una netta distinzione tra marchetta e prostituta. Nel sostenere la sua tesi, Fontana non si limita a dare una sua opinione personale ma espone motivi fisiologici e di età rendendo la sua analisi ancora più accurata e aggiungendo uno spirito ironico che non manca mai nei suoi articoli.

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2.5 La soluzione del mistero

Diagramma del processo traduttivo:

L’articolo intitolato La soluzione del mistero è comparso sul Diario del 14 aprile 1999. Fontana prende spunto da una sentenza della Cassazione riguardo al caso di un adulto che ha mostrato filmini e foto porno a ragazzini e ragazzine.

L’articolo appartiene al prototipo di traduzione n ̊9. Dal prototesto nascono quattro metatesti, alcuni sono espressione di una cultura conformista, altri di una cultura anticonformista. La contrapposizione avviene allo stesso livello, nessuna delle culture prevale sulle altre.

Nell’articolo è stato individuato come prototesto il «vedere o non vedere», da cui nascono il primo metatesto, la richiesta di leggi più severe, il secondo, Il fantasma della libertà di Luis Buñuel, il terzo, il giovane Fontana, e il quarto, la sentenza della Cassazione. Il primo metatesto è espressione di una cultura conformista; ne fanno parte le persone che richiedono delle leggi che regolino cosa vedere o cosa non vedere. Il secondo, il terzo e il quarto metatesto rappresentano una cultura anticonformista. Tra questi fa anche parte lo stesso Fontana che diventa cultura ricevente raccontando la sua esperienza personale di quando era bambino.

Nella sua analisi comparativa dei metatesti, Fontana mette in rilievo un aspetto essenziale del prototesto: l’arbitrarietà della scelta di cosa sia lecito vedere o non vedere. A seconda delle epoche storiche, dei costumi che cambiano nel tempo, la scelta di cosa sia permesso mostrare o non mostrare

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cambia. Fontana espone due esempi: il film di Buñuel e il racconto del suo amico. Nel film Il fantasma della libertà un uomo mostra foto che suscitano stupore e vergogna nelle ragazzine che le osservano. Non sono che vedute di Place de la Concorde o della Statua della Libertà. L’amico di Fontana racconta che ha ricevuto quando era al ginnasio un sei in condotta per aver prestato Les Fleurs du mal di Beaudelaire a una sua amica.

Inoltre Fontana esprime il suo dissenso per la richiesta di punizioni più severe. Secondo l’autore, basta il costume per scegliere cosa è lecito o cosa non è lecito. Leggi più severe non fanno altro che alimentare il desiderio di andare oltre il lecito.

Lo stile ironico si mostra anche in questo articolo. La descrizione delle sue esperienze giovanili è ricca di dettagli ironici, come il racconto di un compagno di scuola su come nascono i bambini, testimonianza dell’ignoranza che c’era al tempo.

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2.6 I fustigatori inglesi

Diagramma del prototipo di traduzione:

L’articolo intitolato I fustigatori inglesi è apparso sul Diario del 18 novembre 1998. Fontana affronta il tema dell’omosessualità in Gran Bretagna prendendo spunto da un fatto di attualità: la difesa di Tony Blair a favore di uno dei suoi ministri coinvolto in uno scandalo di sesso.

Questo articolo fa parte del prototipo di traduzione n ̊12. Dal prototesto nascono tre metatesti e non compare né una contrapposizione tra culture conformiste e anticonformiste, né una contrapposizione tra culture dominanti e subordinate. Le culture a confronto vanno considerate in senso generico.

Nell’articolo è stato individuato come prototesto l’omosessualità. Ne nascono tre metatesti: il primo metatesto rappresenta la stampa fogna inglese, il secondo gli ex alunni delle scuole private e il terzo la posizione di Tony Blair. I tre metatesti formano schieramenti contrapposti, chi a favore dell’omosessualità e chi contro. Si parte dal primo metatesto, la stampa fogna inglese, che rappresenta il più forte oppositore. Il secondo metatesto, gli ex alunni, si trovano in una posizione intermedia. Pur rinnegando l’omosessualità, la serbano come vizio segreto. Il terzo metatesto, Tony Blair, si colloca tra i sostenitori attraverso la difesa del ministro dell’Agricoltura Nick Brown.

Fontana mette in relazione le tre componenti della società britannica dipingendo un ritratto della società britannica. Ne mette in evidenza i paradossi, come la posizione ambigua degli ex alunni delle

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scuole private e l’accanimento dei giornali scandalistici contro un fenomeno che fa ormai parte della società, l’omosessualità.

Per descrivere al meglio la società britannica, Fontana utilizza molti sostantivi inglesi. Permettono di rendere la lettura più vivace e aumentano l’ironia della narrazione. Quest’ultima è ancora più accentuata dalle traduzioni in italiano dei termini inglesi: gli ordinary decent people diventano ad esempio «la gggente».

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Appendice – I testi di Luca Fontana

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