Con parole remote Opera recensita: Con parole remote, di Giancarlo Pontiggia, Guanda, 1998, p. 96, 18.000 lire del 22 aprile 1998

Giancarlo Pontiggia

Con parole remote

Guanda, pp. 96, 18.000 lire

«Vieni ombra / ombra vieni / ombra ombra / vieni oh vieni […]». Con questo canto di evocazione si apre la splendida raccolta di poesie di Giancarlo Pontiggia. Traduttore dal francese, dal greco e dal latino, come poeta in proprio gli piace lasciarsi guidare dalla musica e dal ritmo delle parole, rievocando immagini che traggono vita da una fusione sublime di suono e senso. È apprezzabile la distanza da certa poesia sperimentale degli anni Settanta e Ottanta, che in certi casi tendeva a essere un’intromissione della prosa saggistica nell’ambito della lirica. Particolarmente ammirevole in Con parole remote è la totale assenza del «poetese», quello stereotipo del linguaggio poetico che storpia e banalizza il discorso ampolloso per dare un gusto artificioso del poetico. Qui invece a essere poetica è la sostanza del testo, ed è sostanza ingenua, trasparente, — in senso etimologico — infantile. La parola inconsueta, o la sua collocazione straniante, casomai, si trovano come lasciti, preziosi ma non impreziositi, di traduzioni dai classici: «[…]con parole remote / in un fuoco tutelare // tra questi crocei ceppi / — vampe […]». Il ritmo è scandito da misure contemporaneamente grafiche, sonore, respiratorie. Gli enjambement e, più in generale, la disposizione dei caratteri sulla pagina accompagnano l’emissione del suono; l’interruzione dei versi, le righe in bianco non dividono «strofe» nel vero senso della parola, ma sono soprattutto pause — in mezzo al periodo — in cui non bisogna respirare, ma restare senza fiato, giungere all’altra riva in apnea per poi continuare la lettura ansimando, gradevolmente storditi e sordi ai referenti. «[…] già / dall’alto ti vedevo / fuggente, // non c’era posto per te sull’onda […]» La lettura viene spinta, dinamizzata da un uso strategico dell’anafora: «salivo su, su, tra i numeri, le ombre. E già / la luna era corsa, già / dall’alto ti vedevo / fuggente,». All’evocazione s’intercala l’invocazione, modalità espressiva in cui l’animo del poeta può permettersi di mostrarsi nudo nel desiderare, nel chiedere, dimostrando la propria possenza: «[…] di una casa remota / dalle chiuse porte / in un libro più forte / di ogni ombrosa sorte // salvami». Oppure dispensando  esortazioni: «Viandante che passi, / amico della polvere e del vento, / onora i tuoi lari, / qui brucia un grano d’incenso.» L’ombra, la polvere, la nuvola, la pioggia non sono presenze spettrali di un’isotopia cupa ma, al contrario, vengono invocate come divinità del ricordo inconscio, della forza di ricostruzione onirica. La lettura trasporta a cronotopi lontani, ad atmosfere classiche, armoniose, nelle quali bagnarsi dà refrigerio, deterge dall’inquinamento verbale quotidiano, con grande sollievo.

Bruno Osimo

23 aprile 1998

 

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