Dirk Delabastita, There’s a Double Tongue. An Investigation into the translation of Shakespeare’s wordplay, with special reference to Hamlet, Amsterdam, Rodopi, 1993, p. 1-54. Traduzione italiana a cura del gruppo di studenti del terzo corso di traduzione Inglese-Italiano (germanisti) dell’A. A. 2000-2001 presso l’ISIT: , Anna Bencivenga, Alessia Bonifazi, Mara Cristina, Laura Fedeli, Andrea Ferrari, Jessica La Porta, Angelo Leghi, Marta Manzoni, Olivia Mossotti, Silvia Nicodano, Maria Poli, Valeria Pozzi, Nadia Quartini, Ornella Santoro, coordinati da Bruno Osimo. Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Dirk Delabastita, There’s a Double Tongue. An Investigation into the translation of Shakespeare’s wordplay, with special reference to Hamlet, Amsterdam, Rodopi, 1993, p. 1-54.

Traduzione italiana a cura del gruppo di studenti del terzo corso di traduzione Inglese-Italiano (germanisti) dell’A. A. 2000-2001 presso la Civica Scuola Interpreti e Traduttori: Anna Bencivenga, Alessia Bonifazi, Mara Cristina, Laura Fedeli, Andrea Ferrari, Jessica La Porta, Angelo Leghi, Marta Manzoni, Olivia Mossotti, Silvia Nicodano, Maria Poli, Valeria Pozzi, Nadia Quartini, Ornella Santoro, coordinati da Bruno Osimo.

Capitolo 1

Traduzione e scienza della traduzione

0 Introduzione

Nella tradizione occidentale la comunicazione verbale tra gli esseri umani è diventata oggetto di studio di diverse discipline scientifiche, tra le quali la linguistica, la narratologia, la filosofia del linguaggio, gli studi sociali, la teoria della comunicazione e altre ancora. Anche la traduttologia rientra in questo gruppo, dal momento che si concentra su alcuni tipi di comunicazione bilingue e multilingue. Si può difatti dire che la traduttologia vi occupa una posizione unica (e poco invidiabile), poiché, se vuole riuscire a comprendere le condizioni e le regole su cui si basano le attività di trasferimento multilingue insite nel processo traduttivo, deve anche assolvere il compito di unificare le teorie sulla comunicazione intralinguistica e sulla cognizione e la comunicazione in generale può contribuire al suo sviluppo. La scienza della traduzione è ancora in fase di formazione, e i problemi ancora insoluti sono enormi. Questi possono derivare dagli sviluppi incerti delle discipline a cui è collegata e su cui fa affidamento e/o dalle complessità risultanti dalla sua peculiare posizione intermedia. Questo capitolo vuole essere una descrizione di alcuni problemi fondamentali che questa disciplina deve affrontare. La traduzione viene intesa come triplo processo di ricodifica (sul piano linguistico, culturale e testuale-retorico), e ciò richiede delle scelte, sia perché il codice del prototesto e il codice del metatesto sono asimmetrici, sia perché i testi tendono ad avere un’organizzazione complessa. Nelle sue decisioni il traduttore è fortemente influenzato dalle norme del polisistema ricevente. In aggiunta si danno alcuni spunti sui possibili sviluppi futuri della scienza della traduzione.

1 Problema numero uno della traduzione: l’anisomorfismo dei codici non artificiali

1.1 Ricodifica linguistica
1.1.1 Un enunciato linguistico non possiede un significato intrinseco a disposizione immediata di chiunque se lo trovi semplicemente davanti. Gli enunciati possono diventare segni significativi solo per chi conosce il linguaggio naturale in cui sono formulati. Il significato deriva non tanto dai singoli “messaggi”, quanto dalle multiple relazioni tra i messaggi e i “codici” o sistemi segnici convenzionali usati: quali elementi del repertorio del codice sono stati selezionati, e secondo quali regole sono stati combinati? Possono sembrare domande molto banali nell’era della semiotica, ma nella realtà di tutti i giorni è raro che chi usa la lingua sappia comprenderne tutte le implicazioni. In nome dell’economia cognitiva, oltre che per altri motivi, abbiamo la tendenza ad astrarci da tutti quei meccanismi intricati senza i quali le parole sarebbero prive di senso. È necessario fare ricorso a una forma di linguaggio poetico per farci riscoprire la dicotomia fondamentale tra segni e oggetti (Jakobson). Questa dicotomia ci si rivela in tutta la sua realtà anche quando si vuole imparare il significato di un enunciato prodotto in un linguaggio sconosciuto: l’enunciato può essere a disposizione nella sua fissa materialità, per esempio sotto forma di segni scritti su una superficie, e può comunicare una parvenza di significatività linguistica, ma resta comunque decisamente impenetrabile e si rifiuta testardamente di svelare i suoi significati. Non possono esistere segni significativi senza sistemi segnici, affinché la comunicazione possa avere luogo i codici devono essere condivisi.
Nel caso appena descritto, fortunatamente, si può invocare l’aiuto di un traduttore. Il traduttore deve, o dovrebbe, avere padronanza non solo del codice linguistico nel quale è formulato il messaggio originale, inaccessibile ai riceventi finali, ma anche del codice del metatesto che i riceventi conoscono bene. È perciò in grado di sostituire un messaggio nel protocodice con un messaggio nel metacodice, e in tale processo di deve trasferire un nucleo minimo di significato “invariante”.
Sebbene questo modello di traduzione come processo di ricodifica sia diventato un patrimonio acquisito, è necessario non dare per scontate tutte le sue implicazioni. Presuppone, dunque, che i linguaggi naturali si possano considerare codici; questo termine compare effettivamente nel vocabolario critico di una schiera impressionante di teorici della traduzione, tra i quali Ďurišin, Jakobson, Koller, Ladmiral, i teorici della Scuola di Lipsia (Kade, Neubert, Jäger), Nida, Pergnier, Reiß, Richards, la Scuola stilistica slovacca (Miko, Levý, Popovič), Steiner, la Scuola di Tel Aviv (Even-Zohar, Toury), Van den Broeck, Wilss e altri. La sua interpretazione esatta varia quanto ci si può aspettare dall’eterogeneità dell’elenco. In alcuni teorici il termine compare solo occasionalmente come semplice sinonimo high-tech di «linguaggio naturale», ma in altri casi il suo uso presenta implicazioni concettuali precise sia nella teoria linguistica che nella teoria della traduzione.
Il concetto semiotico di «codice» deriva dalle scienze dell’informazione e della telecomunicazione:
un codice è una trasformazione concordata, solitamente biunivoca e reversibile, mediante la quale è possibile convertire messaggi da un insieme di segni a un altro. Tipici esempi sono il codice Morse, il semaforo e il codice dei sordomuti. Nella nostra terminologia operiamo quindi una netta distinzione tra lingua, che si sviluppa organicamente nel corso del tempo, e codici, che sono inventati con uno scopo preciso e seguono regole esplicite che sono state inventate[1].

Secondo le caratteristiche elencate da Colin Cherry, le lingue umane certamente non rispondono alla definizione tecnica di «codice», come non hanno mancato di far notare i teorici contrari a un uso esteso del concetto[2]. Per esempio, la comunicazione per mezzo di una lingua non è affatto basata su un accordo precedente tra parlante e ascoltatore. Le lingue sono invece radicate in un comportamento sociale che ha una lunga storia; si devono imparare con la pratica e inoltre sono soggette a cambiamenti. Poi, nella lingua sono codificati non messaggi preesistenti, ma pensieri, esperienze, una visione del mondo. Come determinare se la decodifica produce gli stessi pensieri? Inoltre, spesso è stato fatto notare che nelle lingue non esiste un rapporto biunivoco tra signifiant e signifié corrispondente alle inequivocabili regole di trasformazione dei codici tecnici. Infine, i tradizionali modelli che rappresentano in che modo funzionano i codici linguistici nella comunicazione umana sono stati criticati perché troppo statici e unidirezionali e quindi inadatti a dare conto delle caratteristiche dinamiche, interattive della comunicazione verbale reale[3].
Naturalmente i presupposti su cui poggia l’applicazione del concetto di «codice» alla lingua umana necessitano di una spiegazione. Considerare codice un linguaggio naturale implica, tra l’altro, accettare le seguenti tesi: (i) Il linguaggio è un mero strumento a disposizione del singolo: il suo uso o non uso e la sua precisa modalità d’uso dipendono esclusivamente dalle intenzioni comunicative del singolo, e il soggetto che usa la lingua è signore e padrone dei significati dei propri messaggi. (ii) Esiste una serie di “significati puri” prelinguistici senza parole convogliati dal linguaggio.
Il minimo che si possa dire è che questi punti di vista sono contraddittori. Si afferma spesso, quindi, che ben lungi dall’essere un’entità presemiotica o asemiotica, l’uomo viene alla luce proprio nella misura in cui partecipa sempre più all’ordine simbolico del linguaggio durante il processo di socializzazione (cfr. i), e che il significato di un enunciato verbale non può essere astratto dalla sua formulazione verbale, essendo i significati prodotto di sistemi di significazione (cfr. ii). Si è qui posti di fronte a due punti di vista completamente differenti sul linguaggio e le sue relazioni con il significato: il linguaggio come espressione del significato versus il linguaggio come produttore di significato. Ma c’è in gioco ancora più della semplice opposizione tra due teorie del linguaggio. Gli strutturalisti hanno rifiutato l’idea che i Significati o i Soggetti abbiano una vita preverbale indipendente in un qualche campo trascendentale a sé stante. Il significato deriva da strutture di significato ed è perciò una categoria prettamente storica. La concezione della lingua come codice (ossia la lingua come mera espressione di significato) può conseguentemente essere criticata in quanto ideologica, poiché rappresenta la tipica tendenza delle culture umane a investire di obiettività i propri signifié, di presentarli come “fatti di natura” assoluti e universali, in breve, come entità trascendentali e quindi incontestabili. Descrivendo la lingua come codice, la si estrae dalla complessa realtà storica in cui è radicata, e la si trasforma in un mezzo di comunicazione presumibilmente omogeneo e neutro che chiunque può controllare.
Se questa analisi della metafora della lingua come codice è corretta, ci si può ragionevolmente aspettare che i meccanismi culturali che mette a nudo risalgano a un periodo anteriore all’invenzione della teoria dell’informazione e che si manifestino in altre forme vecchie e nuove. Sembra che sia proprio così. Il concetto di lingua come codice e di testi come messaggi (e, in definitiva, di traduzione come “ricodifica”) può essere in realtà recepito come versione moderna tecnologica di una di quelle metafore di cui viviamo[4], più precisamente della cosiddetta metafora del nastro trasportatore, secondo la quale i parlanti mettono idee preesistenti nelle parole e inviano queste parole-con-idee ai destinatari, che devono semplicemente disimballare le idee dall’involucro verbale[5]. Le parole rappresentano semplici contenitori inviati lungo un nastro trasportatore. È possibile documentare che idee simili sulla lingua, sul significato e sulla natura della comunicazione hanno una lunga tradizione. Dalle analisi di Lakoff e Johnson (1980) possiamo inferire che hanno lasciato il segno persino sulla struttura idiomatica della nostra lingua.
È indubbio che l’opposizione tra queste due visioni della lingua ha conseguenze di vasta portata per la teoria della traduzione. Prima di prenderle in considerazione, vorrei chiarire l’uso che faccio del termine «codice». Se ci si riferisce a una lingua naturale come «codice», si usa una metafora. Per questo è necessario essere consapevoli dell’esatto oggetto concreto (ground), o tertium comparationis, che sta alla base dell’immagine. In primo luogo, l’analogia percepita fra il tenore e il veicolo della metafora può riguardare il principio semiotico generale secondo il quale, perché un dato enunciato sia efficace dal punto di vista comunicativo, è necessario che entrambi i parlanti conoscano il sistema che vi sta alla base. In questo caso la metafora è ineccepibile; non vi è alcun dubbio che per decifrare l’Amleto bisogna conoscere l’inglese, così come è necessario avere una buona conoscenza del Morse per capire il senso di un messaggio di punti e linee, o che, come tutti i genitori sanno, le lingue straniere possono essere utilizzate come codici segreti. Tuttavia, se la metafora si basa sull’idea che le lingue naturali condividono con i codici tecnici altre caratteristiche, come per esempio l’essere trasparenti e neutri, la sua accettabilità dipende dal tipo di teoria linguistica (e posizione ideologica) che si adotta. Dato il mio orientamento strutturalista, non posso che continuare a usare il termine «codice» nella sua generale e prima accezione ed essere debitamente consapevole della distanza tra questa interpretazione libera e il concetto «originale», «stretto» o «tecnico».
1.1.2 Se si ritiene che le lingue siano codici in senso stretto, ossia che la lingua sia solo uno strumento a cui si ricorre per esprimere significati autosufficienti, la traduzione può essere considerata un processo bifasico. Nella prima fase il significato del testo è dissociato dalla sua espressione verbale originale; nella seconda è espresso di nuovo ma questa volta nella metalingua. Per queste due fasi di decodifica e ricodifica, Wilss[6] propone la coppia terminologica deverbalizzare (entsprachlichen) versus riverbalizzare (verssprachlichen). Anche in questo caso, la terminologia tecnologica è recente ma il concetto circola da secoli. Così, in molti scritti sulla traduzione rinascimentali e postrinascimentali
trova espressione in una serie di opposizioni metaforiche basate sui concetti di «esterno» versus «interno» o «percettibile» versus «impercettibile», come anima e corpo, materia e spirito, indumento e corpo, cofanetto e gioiello, guscio e nucleo, bacino e liquido contenuto, cassapanca e i suoi contenuti[7].

In un tale concetto di traduzione
l’extérieur seul change, le contenu est le même; on le transvase d’une langue dans une autre […]. En fin de compte et sans chercher à être paradoxal, on serait tenté de dire que les langues sont extérieures au processus de la traduction; elles sont le réceptacle du sens qui est exprimable dans n’importe laquelle d’entre elles[8].

Il mio rifiuto di qualsiasi interpretazione rigida della metafora del codice significa che devo respingere questa rappresentazione del processo traduttivo perché non è valida. Il concetto di significato come prodotto della lingua sembra esigere che il processo traduttivo venga descritto con un modello trifasico. Supponendo che un codice linguistico sia un insieme di minuscoli segni significativi (unità di signifiant e di signifié) e di regole di combinazione, il processo traduttivo può essere considerato, almeno in linea di principio, composto delle tre seguenti fasi: (i) La scomposizione o analisi del prototesto nelle strutture e negli elementi costitutivi della protolingua. (ii) La sostituzione degli elementi della protolingua (elementi e strutture grammaticali) derivante dall’analisi del prototesto con elementi corrispondenti della metalingua (elementi e strutture grammaticali). Comprendere per quale motivo questi elementi corrispondenti della metalingua possono, o devono, essere scelti dall’intero repertorio di quest’ultima, cioè comprendere l’esatta natura di questa “corrispondenza” fra le unità del prototesto e quelle del metatesto, è evidentemente uno dei punti cruciali della teoria della traduzione. (iii) La ricomposizione o sintesi del metatesto sulla base del prodotto della fase di trasferimento, in cui gli elementi di metalingua selezionati sono combinati nel metatesto.
Questa rappresentazione è davvero molto diversa dal procedimento di decodifica-ricodifica che corrisponde alla interpretazione rigida della metafora della lingua come codice. La differenza principale è che il processo traduttivo non abbandona mai l’ambito della semiotica, ossia avviene nelle lingue e fra le lingue, ma mai al di là delle lingue. Una seconda differenza cruciale riguarda la natura della relazione fra prototesti e metatesti, che finora ho vagamente descritto come una sorta di “corrispondenza”. I modelli traduttivi di decodifica e ricodifica tendono a presupporre che il processo traduttivo possa (e debba, perché solitamente è questa l’implicazione normativa) garantire una relazione di identità o quasi-identità fra i significati del prototesto e del metatesto. È una conseguenza logica del modo in cui tali modelli valutano il ruolo cognitivo della lingua. Se la lingua è solo la veste del significato, l’espressione linguistica può essere davvero sostituita senza influenzare il significato. La teoria strutturalista mette in dubbio la validità di questa argomentazione:
non avremo mai, e in effetti non abbiamo mai avuto, un “trasporto” di puri signifié da una lingua a un’altra, o, all’interno della stessa lingua, che lo strumento (o “veicolo”) del signifiant lasci vergini e intatti[9].

L’alternativa strutturalista quindi presenta una concezione completamente diversa della relazione tra i significati di prototesto e metatesto. Rifiutando qualsiasi pretesa di identità semantica fra i due, insiste sull’inevitabilità dei cambiamenti di significato nella traduzione. Il fatto che il significato del prototesto e quello del metatesto non possono che essere diversi deriva dalla tesi centrale dello strutturalismo, secondo la quale la lingua come produttrice di significato va intesa come struttura di relazioni interne autosufficiente e autodeterminante. Il significato di un elemento linguistico è il prodotto del suo valore relazionale all’interno della rete semantica della lingua di appartenenza. Il significato è una caratteristica delle singole lingue, e ciò preclude la possibilità di trovare nella metalingua elementi linguistici che abbiano lo stesso significato degli elementi della protolingua di cui cercano di essere i sostituti.
Se è impossibile ottenere una relazione di identità semantica fra prototesto e metatesto, è stato ipotizzato che nella traduzione può e dovrebbe essere realizzata una relazione di stretta equivalenza. Tuttavia, dal punto di vista del nostro modello strutturalista, deve essere esclusa anche questa possibilità. Il termine «equivalenza» deriva probabilmente dalla matematica[10]. Là denota una relazione riflessiva, simmetrica e transitiva fra due entità. Non è facile vedere come possa una relazione traduttiva essere riflessiva, ma sono soprattutto gli altri due criteri a presentare difficoltà insormontabili. Se le relazioni traduttive fossero simmetriche (A:B Þ B:A), la ritraduzione di qualsiasi metatesto riprodurrebbe il prototesto. Se fossero transitive ([A:B e B:C] Þ A:C), la traduzione nel codice linguistico C della traduzione nel codice linguistico B di qualsiasi prototesto, dovrebbe coincidere con la traduzione diretta del prototesto nel codice linguistico C. È evidente che le relazioni traduttive non soddisfano questi requisiti. Per esempio, le relazioni traduttive sono in sommo grado irreversibili[11] a causa dell’anisomorfismo delle lingue naturali, ossia il fatto che lingue diverse hanno strutture diverse. Non esiste una corrispondenza biunivoca sistematica né tra i singoli segni delle lingue né tra le relazioni interne che intercorrono tra loro in ogni lingua. È banale dire che le lingue differiscono tra loro al punto di ostacolare gravemente la traduzione di un testo da una lingua all’altra. Tuttavia, come ha sottolineato Toury[12], i problemi riscontrati in una traduzione interlinguistica non derivano tanto dalla semplice differenza tra protolingua e metalingua, quanto dal loro essere anisomorfe (o asimmetriche). Lo si può illustrare chiaramente comparando normali traduzioni interlinguistiche con i processi di ricodifica tra codici tecnici o artificiali.
Di solito i codici artificiali non presentano alcuna difficoltà di ricodifica (ossia in relazione con altri codici particolari), per quanto i codici in questione differiscano l’uno dall’altro. È infatti evidente che i codici artificiali sono stati appositamente concepiti per corrispondere il più possibile al sistema di segni con il quale devono comunicare. I codici artificiali hanno un fine specifico, sono fatti per essere isomorfi, sono parassiti per concezione. Per esempio, l’insieme delle relazioni tra i segni del codice Morse e il sistema di scrittura alfabetica è stato stabilito a priori per assicurare la massima corrispondenza reciproca. Ne consegue che tra loro esiste un grado massimo di traducibilità: i metatesti risultanti sono sempre accettabili in conformità alle regole del metacodice (ovvero casi corretti di utilizzo del metacodice) e corrispondono in massimo grado ai prototesti (fatto misurabile, per esempio, mediante test di ritraduzione). L’insieme delle relazioni a priori tra codici artificiali consente un’economia di trasferimento così elevata perché
non si riferisce mai a tali codici come sistemi complessivi su vari livelli, ma solo a uno o più livelli. È evidente che questi livelli servono da variabili di questo tipo predefinito di trasferimento, mentre gli altri livelli rimangono inalterati assumendo quindi lo status di invarianti[13].

I codici non artificiali come le lingue naturali non possono invece fare affidamento su nessuna definizione a priori di corrispondenza tra codici. Dopo tutto, le lingue sono sempre soggette a una certa evoluzione dovuta a molti fattori, tra cui le mutevoli condizioni sociali e materiali in cui avviene la comunicazione verbale. Anche se a volte prendono in prestito elementi lessicali o persino grammaticali da altre lingue, questi prestiti vengono poi integrati completamente, e ridefiniti in conformità con la rete semantica della lingua ricevente, e il loro scopo ultimo è rispondere alle necessità funzionali intraculturali del gruppo sociale in questione, non di facilitare il trasferimento interlinguistico da o verso altre lingue[14]. Non è quindi difficile comprendere perché coppie di lingue diverse (nonostante relazioni genealogiche tra ceppi di lingue dello stesso ceppo e somiglianze tipologiche anche tra lingue non affini) abbiano inevitabilmente un certo livello di anisomorfismo.
A livello pratico, la mancanza di isomorfismo implica che in traduzione debbano essere effettuate delle scelte.
Dal punto di vista della situazione lavorativa del traduttore, in qualsiasi momento della sua professione (ossia dal punto di vista pragmatico), la traduzione è un PROCESSO DECISIONALE: una serie composta da un dato numero di situazioni conseguenti – mosse di un gioco – situazioni che impongono al traduttore di scegliere tra un dato numero (molto spesso definibile in modo preciso) di alternative[15].

I due punti 1.1.2.1. e 1.1.2.2. analizzano ulteriormente la natura di queste scelte.
A livello teorico occorre trarre le seguenti conclusioni. Innanzitutto la traduzione interlinguistica sembra caratterizzata da un certo grado di indeterminatezza. Di solito dieci trascodifiche indipendenti di un prototesto dal codice Morse al codice Braille producono dieci versioni finali identiche: la ritraduzione riproduce il prototesto. Tuttavia è molto probabile che dieci traduzioni verso il francese di un testo inglese differiscano tra loro in misura minore o maggiore, e lo stesso vale per la ritraduzione. È indubbio che le relazioni che di fatto intercorrono tra gli elementi del prototesto e quelli del metatesto sono in parte descrivibili da un punto di vista semantico. I linguisti e gli scienziati della traduzione hanno elaborato determinate categorie descrittive applicabili oltre i confini di un singolo sistema linguistico e sono perciò utili a individuare i cambiamenti semantici che avvengono, o non avvengono, nelle fasi di trasferimento. Tali tentativi di classificare le relazioni traduttive tra protocodice e metacodice sono stati sviluppati, tra l’altro, nel contesto della stilistique comparée. Tuttavia avere a disposizione queste etichette generiche (per quanto possano essere utili per diversi scopi) non risolve la questione dell’anisomorfismo delle lingue. Rimane il livello di arbitrarietà relativo alla selezione degli elementi “corrispondenti” nel metacodice, per quanto siano precisi gli schemi con i quali possiamo classificare le diverse scelte possibili.
Questo mi spinge a una nota terminologica. Nel caso del processo di trascodifica tecnica, la relazione tra prototesto e metatesto può essere legittimamente descritta come relazione di equivalenza in senso stretto, grazie alle relazioni ben definite tra i codici artificiali in questione. Nella traduzione interlinguistica, il termine non può essere invece applicato alle relazioni tra prototesto e metatesto poiché ha implicazioni matematiche. Ciononostante, il termine è ampiamente utilizzato in traduttologia[16]. In che misura è giustificabile l’uso di questo termine? Sebbene il termine non sia applicabile alla traduzione nella sua accezione originale e in senso stretto, non troviamo nulla in contrario al suo uso: (i) in senso approssimativo; dopotutto le lingue non sono totalmente idiomorfiche e, in certe aree ristrette di significato, possono avere un dato grado di isomorfismo, soprattutto tra lingue e culture affini; (ii) in senso puramente descrittivo, che tralascia in toto le origini e le implicazioni matematiche del termine: la traduzione è equivalente alla sua fonte se ha la stessa funzione in una data cultura. Tuttavia, come nel caso di «codice», è necessario diffidare del carico metaforico della parola. In quanto segue, eviterò il rischio di ambiguità ricorrendo ad aggettivi come «equivalenza stretta» (cfr. il concetto matematico), «equivalenza relativa» o «approssimativa» (cfr. i) e «equivalenza empirica» (cfr. ii).
Un’ultima precisazione teorica riguarda la nota questione della traducibilità. In che misura è possibile la traduzione – se è possibile – data la natura sostanziale delle differenze tra le lingue? Coloro che tendono a considerare uguali le lingue naturali e i codici tecnici sono piuttosto ottimisti riguardo alla trasferibilità dei significati. Le formulazioni verbali sono semplice espressione di significati, per questo l’incompatibilità tra protocodice e metacodice non ha molta importanza. Tuttavia, se si accetta che lingua e significato non possono essere facilmente dissociati, è molto più probabile che le caratteristiche idiomorfiche delle lingue siano considerate di ostacolo alla traduzione, dal momento che precludono equivalenza e identità di significato oltre le barriere linguistiche. La mia impostazione strutturalista potrebbe indurmi a condividere quest’ultima posizione, sostenendo che l’effetto cognitivo più o meno profondo della struttura del linguaggio e la natura essenzialmente anisomorfa delle lingue minano il successo della traduzione. Tuttavia tali affermazioni vanno respinte perché sono basate su un concetto a priori di traduzione, ovvero il concetto secondo il quale i significati del prototesto e del metatesto devono essere equivalenti in senso matematico, ossia identici. In questo modo la domanda «Un testo può essere tradotto?» si riduce a «Un testo può essere tradotto in modo da assicurare identità o stretta equivalenza di significato?». Non è affatto necessario limitare tanto il concetto di traduzione, dato che non è intrinsecamente sbagliato concepire la traduzione con diversità o cambiamenti di significato. Oltre a non essere necessario, nuoce allo sviluppo della scienza della traduzione come disciplina empirica (vedi capitolo 3, paragrafo 1.4).

1.1.2.1 Vediamo ora qual è l’effetto più immediato dell’anisomorfismo delle lingue sul processo traduttivo. Catford sostiene che
fondamentalmente, ogni lingua è sui generis; viene suddivisa in categorie in base a relazioni che intercorrono all’interno della lingua[17].

Le lingue sono sistemi strutturati; inoltre, lingue differenti sono strutturate in modo differente. Quindi, la traduzione interlinguistica non può mai essere un semplice o meccanico processo di sostituzione. La corrispondenza tra gli elementi del metacodice e quelli del prototesto non può essere realizzata sulla base di una serie incontestabile di relazioni predefinite tra protocodice e metacodice. Come già sottolineato, questo comporta il più delle volte la necessità di fare scelte tra i diversi elementi del metacodice; analogamente, l’equivalenza stretta risulta impossibile. I traduttori, allora, devono accontentarsi della soluzione che più si avvicina e cercare nel metacodice l’elemento che perlomeno abbia un significato (un valore relazionale) che rifletta in modo ottimale il significato (valore relazionale) dell’elemento del prototesto. I traduttori cercano di portare al massimo il grado relativo di isomorfismo presente tra protocodice e metacodice, cercando in quest’ultimo l’elemento (per così dire) equivalente in modo ottimale al suo corrispettivo del prototesto. Propongo di chiamare questo metodo traduttivo «approccio analogico».
Diversamente dal processo traduttivo omologico, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, la ricerca di analoghi spesso è considerata l’unica forma di traduzione linguistica vera e propria. Forse perché è quello che assomiglia di più all'”ideale” della ricodifica in senso stretto. Data l’impraticabilità di una mappatura completa degli elementi del protocodice e del metacodice, si cerca almeno di sfruttare al massimo il grado di simmetria linguistica a disposizione. In questo senso l’analogia può essere considerata una forma debole di isomorfismo. Bisogna comunque tenere sempre presenti i limiti di questo tipo di strategia traduttiva. Il successo potenziale con un metodo traduttivo linguistico analogico sono limitate da almeno quattro fattori: (i) l’effettivo livello di divergenza tra protocodice e metacodice: più le differenze tra le due sono sostanziali, più è difficile escludere un livello di arbitrarietà nella selezione degli elementi del metacodice sulla base dell’analogia (ii) la misura in cui certi significati culturali si sovrappongono alla pura semantica linguistica dell’elemento del prototesto; questo significa che una traduzione linguisticamente analogica può non essere efficace dal punto di vista della semantica culturale (vedi paragrafo 1.2); (iii) la misura in cui certi vincoli testuali relativi all’applicabilità e all’appropriatezza degli enunciati nelle varie situazioni regolano l’uso della grammatica e del lessico del metacodice (vedi paragrafo 1.3). (iv) la misura in cui l’elemento del prototesto è governato da funzioni semantiche ad hoc determinate dalla specifica configurazione testuale in cui occorre (vedi paragrafo 2).

1.1.2.2 La ricerca di analoghi linguistici spesso è considerato l’unico metodo legittimo di trasferimento, ma basta dare un’occhiata alla realtà della traduzione per giustificare la presenza di un secondo metodo di rappresentazione degli elementi linguistici del prototesto nel metatesto. Questo secondo metodo consiste nella selezione degli elementi del metacodice – o addirittura nella loro invenzione ad hoc se non sono disponibili nel metacodice – sulla base di una somiglianza formale con l’elemento del prototesto da tradurre. La selezione o la creazione di questi omologhi può avvenire non considerando in parte o del tutto il valore relazionale analogico sul piano semantico. In altre parole, l’elemento linguistico del prototesto non è considerato principalmente un’unità semantica funzionale la cui forma serve solo a differenziare e stabilizzare il suo significato come avviene col metodo analogico, ma piuttosto un’unità formale o semplice signifiant. Così, in base al principio dell’omologia, una frase del prototesto – il cui significato dipende dalle relazioni tra i suoi componenti grammaticali e lessicali all’interno dell’intero protocodice – viene tradotta come mera sequenza di parole (la cosiddetta traduzione parola per parola) o addirittura di suoni (la cosiddetta traduzione fonologica). Molti altri fenomeni traduttivi rientrano in questo tipo di strategia, compreso l’uso di prestiti, falsi amici, e il caso estremo della copia diretta, o non-traduzione. Questi fenomeni sono ben noti, dato che si manifestano in molte altre situazioni multilinguistiche, soprattutto nei processi di apprendimento della seconda lingua. Basandosi sul famoso studio di Weinreich Languages in Contact (1953), linguisti teorici e applicati sono giunti a considerarli fenomeni di interferenza.
In generale, i fenomeni di interferenza linguistica non sono ben visti, perciò i traduttologi normativisti spesso bollano gli omologhi traduttivi come soluzioni inadeguate al problema dell’isomorfismo delle lingue. Non è difficile capire il perché di questo atteggiamento negativo così diffuso. Non si può negare che gli omologhi traduttivi tendano a ignorare la dimensione semantica degli elementi linguistici del prototesto che sostituiscono o, piuttosto, ripetono. Gli elementi del prototesto sottoposti a traduzione omologica in realtà sono quasi dissociati dal codice in cui erano stati codificati, dal quale traggono valore semantico. Di conseguenza, il significato degli elementi del metacodice è molto meno equivalente a quello dei loro omologhi di quanto sarebbe con un metodo analogico. In casi estremi, può capitare che nel metacodice non ve ne sia traccia. Negando in modo totale o parziale la semantica del protocodice, non avviene alcuna ricodifica “reale”:
la corrispondenza formale [è la] qualità tipica di una traduzione che riproduce nel metacodice le caratteristiche formali del prototesto in modo meccanico. Spesso la corrispondenza formale distorce la struttura grammaticale e stilistica della lingua ricevente, distorcendo così il messaggio, determinando fraintendimenti o grande fatica nel ricevente[18].

Anche le teorie della traduzione di tipo descrittivo, cioè che non si basano su preconcetti su ciò che la traduzione è o dovrebbe essere, riconoscono chiaramente il carattere speciale dei casi di interferenza linguistica[1]. Comunque, i metodi di traduzione basati sull’omologia linguistica sono usati molto più spesso di quanto ai loro detrattori piaccia ammettere, e il loro campo di applicazione è molto più vasto e vario di quanto ritengano accettabile. Né possono essere giustificati attribuendoli a mera incompetenza o alla difficoltà di trovare analoghi soddisfacenti[2]; lo testimoniano gli innumerevoli casi in cui traduttori esperti preferiscono omologhi anziché analoghi ragionevolmente equivalenti a loro disposizione. Questa scelta è da attribuire a diversi fattori: l’autorità del prototesto o del suo autore, il prestigio del protocodice o della protocultura in generale, il desiderio di aggiungere un tocco esotico al metatesto, il desiderio di influenzare il metacodice e così via.
1.2 Ricodifica culturale
1.2.1 Nonostante la loro condizione privilegiata, le lingue naturali non sono però gli unici mezzi di significazione, comunicazione e organizzazione che le culture umane hanno a disposizione e su cui si basano. Vengono in mente molti altri esempi di sistemi di segni: codici etici, codici legali, segnali militari, linguaggi informatici, codici cifrati, codici culinari, codici della moda, codici architettonici, codici pittorici, codici musicali, di cinesica e prossemica, sistemi di valori ideologici, routine e rituali della vita quotidiana e così via. Questi elenchi fanno sorgere una domanda:
Come si fa a porre fine a questo inventario? Tutto è segno: i regali, le nostre case, il nostro arredamento, i nostri animali domestici[19].

Nelle prossime pagine userò il termine «codice culturale» per un particolare gruppo di sistemi segnici culturali come quelli appena elencati. Partirò da due presupposti, che la cultura è una sorta di struttura complessa che produce significato (e non si limita ad esprimerlo, quindi è esclusa qualsiasi interpretazione rigida della metafora del codice) e che i codici linguistici e i codici culturali non coincidono (anche se sono organizzati con i medesimi princìpi strutturali). Intendo argomentare che il concetto di codice culturale è uno strumento euristico utile perché permette di concettualizzare alcuni fenomeni di trasferimento “culturale” che sembrano proprio distinguibili dalle difficoltà di ricodifica “linguistica”.
Non è necessario ripetere che nessun testo nasce in un vuoto culturale. I testi nascono in – o in reazione a – un preciso contesto, a cui si può alludere, che può essere tematizzato, commentato o sottinteso in altri modi. Di conseguenza, si può ritenere che i testi contengano un carico di significati culturali sopra (accanto, dentro) i loro significati linguistici. A chi legge il Re Lear di Shakespeare non basta disporre di una buona conoscenza della lingua del periodo elisabettiano. Deve anche avere familiarità con il codice culturale elisabettiano: si presuppone una conoscenza di base delle leggi di successione, dei codici d’onore e di obbedienza filiale, delle strutture sociali feudali e così via; vi sono allusioni all’astrologia, alle leggende, alla moda – le scarpe scricchiolanti, il frusciare della seta, i profumi di zibetto – e così via. Le parole del Re Lear sono intrise di cultura elisabettiana.
In questa sede non ci occupiamo del modo in cui questi significati culturali sono (rap)present(at)i nei testi. Mi limito a citare i concetti di connotazione (Hjelmslev) e di mito (Barthes), che offrono un approccio interessante a questo problema. Secondo questi concetti, il segno linguistico è (per così dire) svuotato dal codice culturale, nel senso che viene nella sua interezza ridotto allo status semiotico di mero signifiant a cui si accosta successivamente un signifié convenzionale creando il segno culturale.
Dovremo analizzare più approfonditamente le relazioni fra codici linguistici e codici culturali, al livello generale dei sistemi segnici più che a livello dei singoli segni. È stato ipotizzato (vedi anche il paragrafo 1.1.2) che, dato il nostro punto di partenza, si debbano dare per scontati almeno alcuni legami fra il linguaggio da una parte, e il pensiero (individuale) e la cultura (collettiva) dall’altra. Secondo questa ipotesi, i linguisti hanno dimostrato che la struttura della lingua rispecchia in effetti diversi aspetti della realtà sociale, per esempio nella composizione e nell’organizzazione del lessico, nella struttura della grammatica, nella presenza di socioletti e altre varietà linguistiche, ecc. La presenza di numerose tracce di significati culturali all’interno della struttura stessa della lingua pone inevitabilmente
un problema fondamentale per la linguistica […] [cioè] se la conoscenza del mondo sia separata dalla conoscenza linguistica, e come debba procedere la caratterizzazione di quest’ultima. (Kess & Hoppe 1981: 95)

Per dirlo con parole mie, la distinzione fra codici linguistici culturali è accettabile in assoluto? Oppure, per ricorrere ai termini sintetici usati da alcuni partecipanti a questo dibattito, un dizionario (che raccoglie e organizza la conoscenza di una lingua) è diverso da un’enciclopedia (che raccoglie e organizza la conoscenza del mondo)?
Sostanzialmente ci si può avvicinare alla questione da due parti. Dal punto di vista del codice culturale la questione è in che misura i codici e i sottocodici culturali conducono un’esistenza autonoma, cioè indipendente dall’ordine del linguaggio. Per esempio, ci si può domandare se un codice pittorico possa funzionare senza parole oppure no. È possibile la comunicazione pittorica senza l’ausilio della lingua, considerando l’importante ruolo della critica d’arte, dei manifesti, delle brochure ecc? Le categorie semantiche dei codici di immagini sono predeterminate dalle categorie semantiche del codice linguistico? Nel complesso, risulta che nelle riflessioni sull’arte e sulla cultura il linguaggio viene comunemente ritenuto in un certo qual modo il meccanismo centrale nella produzione di significato in ambito culturale. Lo stesso Saussure considerava il linguaggio il “più importante” sistema di segni della cultura umana (1966; 16,68), ma non si è mai diffuso sul potenziale del modello strutturalista per l’analisi dei fenomeni non linguistici. Una teoria strutturalista sulla cultura in cui veniva assegnato un posto centrale al linguaggio è stata elaborata molti anni dopo dai semiotici della letteratura e della cultura della scuola di Tartu. Secondo questa teoria, il linguaggio è un sistema di modellizzazione primario, e la cultura un sistema di modellizzazione secondario. Il linguaggio plasma la percezione e la comprensione del mondo che ci circonda alla maniera di Sapir e Whorf, e lo stesso fa la cultura, ma al secondo grado: agisce su o viene applicata alle categorie del linguaggio, e ha come scopo la modifica e l’intensificazione delle forme di percezione primaria. Il ruolo centrale del linguaggio è infatti un cardine di questa teoria della cultura:

La struttura della lingua, il modello di mondo che rappresenta, a loro volta influenzano il modo in cui individui e cultura percepiscono e comprendono la realtà; si può discutere sull’entità di questa interazione ma non sul processo in sé. Le lingue naturali sono un sistema di modellizzazione primario nel senso più letterale del termine, e praticamente tutti gli aspetti dei processi di percezione e comprensione dell’individuo vengono in qualche misura influenzati da questo sistema interpretativo primario. […] La lingua in quanto mezzo principale di comunicazione è la base di numerosi altri sistemi sociali – tradizioni, convenzioni sociali, rituali, religione, […] arti figurative. (Lotman 1976: xiv)

Anche le forme artistiche non verbali come la pittura, ecc., sono considerate «im Banne der Sprache» (Flamend 1985). Mentre l’ipotesi sulla cultura della scuola di Tartu lascia una certa autonomia ai codici secondari, è chiaro che in ultima analisi la cultura viene considerata dipendente dal linguaggio. Questi atteggiamenti logocentrici hanno dominato la seconda metà del secolo, e ciò ovviamente ha determinato reazioni critiche da parte di artisti e critici d’arte offesi per la natura riduttiva insita in questa egemonia linguistica. Nonostante questo dissenso, si può tranquillamente concludere che la cultura rimane nel complesso piuttosto logocentrica, e si potrebbe affermare, citando Jakobson, che siamo governati da una tradizione di imperialismo linguistico.
Dal punto di vista opposto, cioè quello della lingua naturale, il tema dell’interdipendenza della linguistica e dei codici culturali si può ridurre a questa domanda: fino a che punto si può descrivere il linguaggio senza fare riferimenti alla realtà extralinguistica? È possibile compilare una grammatica o un dizionario descrittivi senza fare ricorso a significati presi dal codice culturale? Le diverse risposte a questa domanda rischiano di portarci in discussioni linguistiche (e ideologiche e filosofiche) sulle quali non intendo dilungarmi per ragioni pratiche. Vorrei solamente evidenziare il fatto che negli ultimi venti o trenta anni il panorama linguistico è stato dominato dalla grammatica generativa, il cui orientamento generale è universalistico e aculturale. Ci troviamo perciò di fronte a un paradosso non indifferente nel quale gli studiosi della cultura tendono a inserire il linguaggio al centro delle loro ipotesi, mentre, al contrario, la principale tendenza della linguistica attuale è incline piuttosto a isolare il linguaggio dall’ambiente culturale che lo circonda. Ad ogni modo, spero che da queste riflessioni abbozzate sia emerso che le questioni in gioco toccano direttamente le componenti teoriche della scienza della traduzione.
Ho già affermato che accetterò la distinzione tra codici linguistici e codici culturali; si suppone quindi che alcuni significati culturali saranno fuori dalla portata di un’analisi puramente linguistica. Sebbene in un prototesto possono essere codificate linguisticamente alcune caratteristiche della protocultura, presupporrò che la produzione, la comprensione, e la traduzione di un prototesto dipende anche dall’ utilizzo “adeguato” di alcuni segni culturali che possono essere separati dal codice linguistico. Questa posizione non sarà immune da possibili critiche, ma è in accordo con il principio strutturalista secondo il quale il linguaggio deve essere studiato come un sistema autonomo. Inoltre, si possono aggiungere due notevoli argomenti di natura pragmatica; in primo luogo, come intuito da traduttori, critici della traduzione, giurie di concorsi di traduzione, studiosi della traduzione, ecc., nella traduzione bisogna distinguere i problemi socioculturali dai problemi di trasferimento linguistico. Questa intuizione è confermata dalla presenza nel nostro vocabolario critico di termini quali modernizzazione e naturalizzazione da una parte, e storicizzazione ed esotizzazione dall’altra, che denotano il modo in cui viene trattata la dimensione culturale del prototesto . Il secondo argomento pragmatico (collegato all’altro) è la coesistenza di due metodi di traduzione nel caso in cui nel prototesto si registri la presenza di elementi che ne accrescono il peso culturale. Il primo metodo punta a un massimo grado di equivalenza linguistica senza però raggiungere quella culturale. Il secondo metodo favorisce invece l’equivalenza sul piano culturale a scapito del grado di equivalenza linguistica. Si può individuare abbastanza precisamente, per lo meno intuitivamente, la differenza fra i due approcci nel modo in cui il traduttore tratta le informazioni di carattere culturale dell’elemento del prototesto. Nel prossimo paragrafo tratteremo in maniera più sistematica dei diversi metodi di trasferimento culturale.
1.2.2. Anche le culture, come i linguaggi, sono fenomeni storici molto complessi in continua evoluzione a causa dei cambiamenti nel loro ambiente esterno e nei bisogni funzionali interni. ILa conseguenza di questo dinamismo intrinseco è uno sviluppo autonomo dei codici delle diverse culture che tendono ad essere fortemente discordanti e anisomorfi. È tanto più vero in quanto possiamo affermare che le culture (come le lingue) non sono borse piene di singoli elementi alla rinfusa, ma piuttosto strutture con un’organizzazione complessa le cui molteplici relazioni interne determinano la significatività culturale di ogni elemento. Come la ricodifica linguistica (vedi paragrafo 1.1.2.), ciò determina molte difficoltà di trasferimento.
Non sempre il traduttore, affrontando una traduzione interlinguistica, ha bisogno che avvenga anche il trasferimento del significato culturale. Ci sono casi in cui la traduzione viene effettuata all’interno di un unico sistema culturale (ma bilingue), cosicché un cambiamento del codice linguistico non implica necessariamente un cambiamento del codice culturale. È inoltre facile osservare che alcune forze centripete nella nostra civiltà occidentale e la diffusione delle comunicazioni di massa su scala mondiale stanno abbattendo molte barriere culturali prima più difficili da superare. Questo però non vuol dire che stia per cominciare l’era planetaria prevista da Teilhard de Chardin. Né che dobbiamo trascurare i numerosi punti di differenziazione culturale locale che restano e resteranno per sempre. Bisogna talora superare grandi distanze culturali specialmente con le culture non occidentali o con testi del passato che negli anni sono diventati culturalmente esotici se non del tutto incomprensibili.
Ci sono molti modi per superare i punti di asimmetria tra il codice culturale della lingua dell’originale e il codice culturale ricevente. Come ho appena detto, ci sono due strategie di base.

1.2.2.1. Una prima strategia consiste nella sostituzione di elementi linguistici del prototesto con elementi linguistici del metatesto che riflettono al meglio il significato culturale anziché linguistico. In altre parole, l’elemento del metatesto ha un significato culturale analogo; il suo valore relativo all’interno del codice culturale ricevente è un’approssimazione ottimale del valore relazionale della sua controparte nel codice culturale emittente. Un esempio chiarirà queste formulazioni astratte. Come ho detto sopra, in Re Lear Shakespeare nomina le «creaking shoes», oggetto che, nel codice culturale elisabettiano, era segno di moda. Una traduzione olandese come «krakende shoenen» [scarpe scricchiolanti N.d.T.] viene intuitivamente riconosciuta come analogo ragionevolmente equivalente a livello linguistico; tuttavia, non convoglierebbe il significato culturale della frase originale. Tramite un analogo culturale, d’altro canto, si cercherebbe proprio di trovare un’equivalenza approssimativa sul piano culturale, se necessario anche a scapito del grado di equivalenza linguistica. Nel nostro esempio si potrebbe fare riferimento a una marca di scarpe attuale di gran lusso o di gran moda.
L’esempio ci è anche utile per mostrare che i significati culturali in realtà non possono essere estirpati dal codice culturale che li ha generati, perciò l’analogia tra i segni culturali derivanti da codici diversi può essere solo molto approssimativa. Di nuovo (come per gli analoghi linguistici) in certi casi riusciamo a intuire la natura della relazione tra loro, che è ben diverso da una misura accurata dei gradi di equivalenza culturale. Perciò (come con la selezione degli analoghi linguistici), l’anisomorfismo dei codici culturali impone inevitabilmente un livello importante di arbitrarietà nella selezione degli analoghi culturali. Il processo traduttivo è anche qui un processo di selezione, ed è quindi impossibile usare il termine «equivalenza» in senso stretto. Non sorprende che la selezione di elementi localizzanti del codice culturale ricevente sia stata considerata
il problema forse più delicato che un traduttore di un testo letterario deve affrontare. Il senso e il valore comunicativo possono, nel complesso, essere misurati con relativa facilità e relativa precisione per quanto riguarda “l’uso comune” prevalente nella lingua emittente e nella lingua ricevente al momento della stesura del prototesto e del metatesto. Ma come si può misurare il valore degli elementi di tempo-luogo-tradizione nel prototesto?[3]

Forse è per questo che la maggior parte delle teorie normative attuali tende a considerare con sufficienza gli analoghi culturali. A volte si afferma addirittura che il ricorso a una strategia basata su analoghi culturali privi i metatesti del diritto di chiamarsi «traduzioni». Spesso si ritiene che gli analoghi culturali facciano riferimento al contenuto del prototesto, che il traduttore deve traghettare completamente, stando alla metafora del nastro trasportatore; se il traduttore si rifiuta di farlo. il metatesto va chiamato «adattamento», non «traduzione». Un altro fattore che può spiegare la valutazione generalmente negativa degli analoghi culturali è che la mente tende a essere piuttosto sensibile alle interferenze delle diverse situazioni culturali. Di solito disapproviamo la «incongruous jumble of ancient and modern manners»[4], ossia la mescolanza di àmbiti culturali diversi. Consideriamo anche la connotazione negativa che si dà al concetto di «anacronismo». Per quella ragione, gli analoghi culturali causano spesso disagi, a meno che, naturalmente, non venga trasposto radicalmente l’intero contesto culturale del prototesto. Infine, viene a volte sottolineato il fatto che gli analoghi culturali sono destinati a vita breve a causa dei cambiamenti diacronici nel codice culturale ricevente. Più ci sono riferimenti alla cultura ricevente del momento, prima il metatesto risulta datato.
1.2.2.2. Il secondo metodo di trasferimento dei significati culturali consiste nella produzione di omologhi culturali. A livello di ricodifica linguistica, il metodo omologico è caratterizzato dal fatto che l’elemento linguistico del prototesto viene considerato principalmente come unità formale (piano dei significanti) anziché semantico-funzionale (piano dei significati). A livello culturale vale una definizione parallela. La differenza sta ovviamente nella natura speciale dei significanti dei segni culturali. Se ci atteniamo all’interpretazione di Hjelmslev o Barthes, i significanti culturali sono definiti come intero segno linguistico a cui si attribuisce un significato culturale. Se perciò si usa il metodo omologico per trasferire segni culturali, la resa della semantica culturale aggiuntiva dei rispettivi elementi del prototesto passa in secondo piano rispetto a una resa il più possibile equivalente di questi elementi dal punto di vista linguistico. Dal punto di vista dei codici culturali in questione, si ha a che fare con un processo di copia formale in cui la semantica del prototesto viene quasi ignorata. Questo in certi casi determina volte oscurità o addirittura errori di comprensione (falsi amici culturali), specialmente se si devono coprire grandi distanze culturali. Tuttavia, non va sottovalutata la capacità di risolvere i problemi dei riceventi. Nell’esempio delle «creaking shoes», una resa culturalmente omologa (poniamo krakende shoenen in olandese) probabilmente è efficace sul piano comunicativo, anche se forse in modo meno diretto, purché i lettori o gli spettatori del Re Lear possano ricavare indizi sufficienti dal contesto complessivo da trarne la giusta connotazione culturale. In complesso, l’effetto ultimo degli omologhi culturali è spesso limitato all’introduzione di un tocco di couleur locale esotico che non era stato codificato dall’autore del prototesto né percepito dal pubblico del tempo. Forse questo fattore di ridondanza informazionale in parte sta alla base dell’attuale preferenza critica per tali metodi omologici rispetto agli analoghi culturali. Altre possibili ragioni sono state spiegate alla fine del paragrafo precedente (prestigio della cultura emittente ecc.).
Nella misura in cui è possibile distinguere i codici linguistici dai codici culturali, le decisioni prese dai traduttori a livello di trasferimento culturale hanno evidenti ripercussioni sul livello del trasferimento linguistico e viceversa. Le conseguenze vengono approfondite nel paragrafo 2. Per il momento possiamo distinguere approssimativamente le seguenti forme di interdipendenza: gli analoghi linguistici sono anche analoghi culturali nella misura in cui le caratteristiche culturali sono codificate a livello linguistico; nella misura in cui il significato culturale di un elemento del prototesto non è coperto dalla sua descrizione linguistica, gli omologhi culturali coincidono con gli analoghi linguistici; alle stesse condizioni, la produzione di analoghi culturali può richiedere cambiamenti radicali sul piano linguistico. Queste osservazioni permettono di trarre almeno una conclusione importante: l’introduzione del livello culturale ha quantomeno aumentato il numero di metatesti possibili realizzabili sulla base di un prototesto. Nel prossimo paragrafo entrerà in gioco un fattore di ulteriore complicazione.

1.3. Ricodifica testuale

1.3.1 Perché un enunciato sia efficace nella comunicazione orale gli eventuali destinatari del messaggio devono saper attribuire a tutte le frasi che compongono il messaggio il significato linguistico corretto e pertanto devono possedere lo stesso codice linguistico del parlante. Inoltre, per decifrare i significati culturali codificati nei segni linguistici, devono avere una sufficiente padronanza del codice culturale che viene usato. Finora, però, una terza dimensione è stata scarsamente considerata: le incomprensioni e le mancate comunicazioni avvengono anche quando l’eventuale destinatario del testo non è attrezzato a sufficienza all’utilizzo del codice che governa l’uso del linguaggio. Il contributo apportato da questa terza dimensione alla semantica complessiva di un testo e il suo rapporto con la traduzione saranno gli argomenti di questo paragrafo.
In base al famoso schema triadico di Morris si potrebbe dire che lo studio di un sistema di segni come il linguaggio consiste nell’analisi di tre tipi distinti di relazioni: quelle tra i segni (sintassi), quelle tra i segni ed il loro significato convenzionale (semantica), e quelle tra i segni ed i loro fruitori (pragmatica). In molti approcci tradizionali al linguaggio (e alla letteratura) l’interesse è concentrato soprattutto sui primi due tipi di relazioni. In particolare il primo è stato analizzato a fondo da studiosi che mirano a ricostruire la struttura interna delle lingue e che considerano la frase come unità fondamentale della loro analisi. Il terzo tipo di relazioni è entrato a far parte del dominio degli studi del linguaggo solo di recente. È merito di teorici dell’atto di parole come John Austin e John Searle se riconosciamo che l’uso del linguaggio è soggetto a certe regolarità tanto quanto le lingue stesse, e che lo studio del linguaggio non si può quindi limitare o ridurre all’analisi di frasi isolate, astratte dai loro contesti discorsivi. Se consideriamo il contesto linguistico e situazionale complessivo, scopriamo che per parlare e per scrivere compiamo, in effetti, tre atti diversi. Innanzi tutto costruiamo ed enunciamo frasi con un certo potenziale interpretativo (in altre parole la produzione di significati proposizionali o atto locutorio). Nello stesso tempo viene compiuto un cosiddetto atto illocutorio con il quale vogliamo che il nostro enunciato costituisca un atto di asserzione, elogio, domanda, promessa, avvertimento, e via dicendo. E spesso compiamo anche un cosiddetto atto perlocutorio, intendendo provocare un effetto sulle azioni o sullo stato mentale dell’interlocutore che vada oltre la semplice comprensione, per esempio rabbia, intimorimento, convincimento, reazione, e via dicendo. La cosa importante in queste distinzioni è che esse postulano una differenza tra le parole e le cose che si possono fare con le parole (cfr. il titolo del libro di Austin How to Do things with words[5] del 1962). Secondo questa teoria del linguaggio, in cui l’uso del linguaggio è considerato parte integrante della comunicazione umana, i “fini” del mittente del testo sono chiaramente più importanti della scelta dei “mezzi” linguistici. Quindi, gli atti illocutori non sono la conseguenza degli atti locutori. Si ritiene che l’atto illocutorio compiuto usando una certa frase conferisca all’enunciato di quella frase una particolare forza illocutoria. Questa triplice distinzione può essere riassunta nel seguente modo: un parlante enuncia delle frasi con un particolare significato (atto locutorio), e con una particolare forza (atto illocutorio), per ottenere un certo effetto sull’interlocutore (atto perlocutorio). (Kempson 1977: 51)
Quindi, le regole che governano l’uso del linguaggio sono di un ordine gerarchico più elevato delle regole linguistiche in senso stretto. Alla luce di questa voluta forza illocutoria e dell’effetto perlocutorio, queste regole d’ordine più elevato determinano per convenzione quali segni linguistici e quali combinazioni di segni linguistici devono essere selezionati dal repertorio complessivo del codice linguistico, non solo, ma anche quali caratteristiche sopralinguistiche aggiuntive devono comparire nel messaggio. Queste convenzioni possono operare su vari livelli. Elencherò in breve alcuni dei parametri che possono essere manipolati: la scelta degli strumenti grafici ed ortografici (nella comunicazione scritta); la preferenza o la resistenza a varietà linguistiche specifiche quali socioletto, dialetto, idioletto, ecc.; la preferenza o la resistenza a certe caratteristiche lessicali o grammaticali; l’uso di particolari strutture narrative, strategie argomentative, ecc.; l’uso di organizzatori del testo quali titoli, paragrafi, strofe, capitoli, ecc.; l’uso di altri strumenti per la coesione del testo e di convenzioni quali anafora, marcatori del discorso, ecc., l’uso di caratteristiche matricali specifiche quali topoi, formule, motivi, ecc.; la desiderabilità e l’esatta natura di schemi formali aggiuntivi quali allitterazioni, metro, tropi, figure, ecc.; i modi di interazione (per esempio la deissi) con altri sistemi semiotici (nei testi teatrali, nelle sceneggiature dei film, nei cartoni animati, negli annunci pubblicitari e simili). È questo un inventario schematico e provvisorio, ma che illustra adeguatamente i molteplici modi in cui gli enunciati si distinguono come realizzazioni di atti specifici di parole. È giusto ricordare che alcuni dei parametri elencati riguardano aspetti del linguaggio che appartengono al piano dei significanti, per esempio gli aspetti della sonorità. Questa semantizzazione delle proprietà formali è tipica degli atti di parole poetici o letterari; vedi sotto.
Come già detto, l’abbinamento dei tipi di strutture linguistiche con i vari tipi di forza illocutoria è una convenzione. Per esempio una domanda come «why not stop here” in inglese è di solito un suggerimento. Tradotta in ebraico standard perde la sua forza illocutoria secondaria ed opera solo come domanda. (Blum-Kulka 1981: 93)
Le varie convenzioni dell’inglese e dell’ebraico che governano la scelta e l’uso delle strutture del linguaggio qui non coincidono. Sul piano linguistico in senso stretto il valore semantico della frase inglese e di quella ebraica è all’incirca lo stesso, tuttavia la loro semantica complessiva non coincide a causa del diverso potenziale illocutorio e perlocutorio.
Dato che gli enunciati (come la frase singola nell’esempio precedente) possono manifestare il loro effetto pragmatico solo all’interno degli insiemi testuali cui appartengono, e poiché molte delle convenzioni che governano l’uso della linguaggio riguardano la costruzione testuale complessiva degli enunciati, propongo di classificare tutte le convenzioni di cui ho parlato come «codice testuale”. Le differenze nell’organizzazione testuale sono, poi, ciò che contraddistingue un’affermazione ironica rispetto ad una diretta, o ciò che costituisce la specificità di un testo giuridico, di una lettera commerciale, di un documento di una conferenza, di una commedia di costume, di una poesia simbolista, e via dicendo. Gli stessi fattori differenziano anche ogni singolo caso di queste tipologie di testo dalla semplice concatenazione delle frasi che lo compongono. Il testo sarà riconosciuto come un’unità singola di significato con un certo grado e un certo tipo di coerenza; attraverso i suoi marcatori di genere si presenterà come un membro o un quasi membro di una particolare classe di testi; di conseguenza verranno suscitate delle aspettative nel destinatario del testo che sarà spinto a adottare la disposizione alla lettura che per convenzione è pertinente al tipo di atto di parole.
In molte culture il codice letterario si può distinguere come un sottocodice speciale del codice testuale complessivo. Si può fare questa distinzione sia sulla base di un tipo particolare di organizzazione testuale che esso impone al materiale linguistico, sia sulla base della funzione culturale specifica che esso conferisce ai testi: l’aspetto più importante di un messaggio letterario diviene la costruzione del messaggio in quanto tale, incluse le sue caratteristiche formali che vengono semantizzate e diventano parte integrante del significato complessivo del testo (vedi paragrafo 2). Questo dare maggior rilievo alla forma del messaggio spesso comporta collocare in secondo piano altre funzioni tipiche dell’uso del linguaggio, determinando così un grande sconvolgimento dei modi comuni del discorso linguistico-testuale, in cui la vera formulazione linguistica e testuale del messaggio è, di fatto, nascosta o trasparente, poiché l’intento comunicativo è quello di perseguire “fini” più pragmatici. Questo spiega perché i testi artistici hanno un carico informativo tanto elevato. Ne consegue anche che gli strumenti utilizzati nel codice letterario non possono essere studiati in modo proficuo se vengono concepiti come invariabili, o se la comunicazione letteraria è considerata di per sé diversa dagli altri modi del discorso. Si può determinare in modo corretto quale sia la funzione letteraria (estetica, artistica) di un testo solo tenendo conto del background dinamico del codice testuale nel suo insieme. Questa dimensione storica spiega, per esempio, perché alcuni testi vengono decodificati come testi letterari anche se in origine non erano stati codificati come tali, o viceversa.
Utilizzare il termine «codice” in una dissertazione sui sistemi testuali letterari e non letterari significa incontrare nuovamente alcuni problemi teorici fondamentali. Soprattutto nella critica letteraria, l’applicazione del concetto di codice ha sollevato dure critiche. Fokkema (1985) prende in esame tutte le possibili obiezioni, cercando poi di confutarle sistematicamente. Tuttavia, sebbene si tenda a condividere il senso delle sue argomentazioni, alcune rigorose confutazioni falliscono nel loro intento. Per esempio, l’obiezione secondo cui codici precisi si baserebbero su un accordo precedente tra fonte e destinazione, mentre non esiste alcun accordo tra scrittore e lettori, viene «invalidata» nel momento in cui Fokkema «lascia cadere» questo requisito e rende meno precisa la definizione di codice[20]. È, come ovvio, semplicemente impossibile invalidare l’obiezione in modo accettabile. Scrittori diversi e persino opere diverse tendono a introdurre ideoletti propri e l’opera d’arte crea unilateralmente il proprio codice (autocodificazione). Si consideri che Lotman[21] descrive il rapporto tra il codice dell’autore e il codice del lettore in termini di lotta. Come scrive Culler,
la letteratura mina, parodia e rifugge costantemente da qualunque cosa minacci di diventare un codice rigido o un insieme di norme esplicite per l’interpretazione. […] Le opere letterarie non mentono mai interamente all’interno dei codici che le definiscono e ciò è quanto rende l’investigazione semiologica della letteratura un’impresa così allettante[22].

Ci sono altri problemi. Da un lato, si potrebbe mettere in discussione le ipotesi che stanno alla base della mia distinzione tra il codice testuale e il codice culturale, ipotesi che molti critici intertestualisti saranno riluttanti ad accettare. Dall’altro, le ipotesi secondo cui il codice testuale è considerato diverso dal codice linguistico non sono meno controverse. Dopo tutto, come Roland Barthes e altri studiosi ci farebbero credere, non c’è un discorso «puro» né un «grado zero» della retorica. Tuttavia, a difesa della mia decisione potrei fare riferimento a un fenomeno quale la licenza poetica (a quanto pare i codici letterari possono persino giustificare gli abusi delle regole grammaticali più elementari) o alla chiara tendenza dei sottocodici letterari e degli altri sottocodici testuali a non curarsi dei limiti linguistici. Potrei anche citare le importanti teorie della scuola di Tartu. Ma la considerazione decisiva è che sembrano esistere due metodi distinti di traduzione in particolare per la rappresentazione di segni testuali del prototesto. Vengono spiegati nei paragrafi 1.3.2.1 e 1.3.2.2.

1.3.2 Il fatto che gli enunciati verbali siano sempre soggetti a qualche forma di codifica testuale è molto importante per lo studioso di traduzione. Questo, comunque, non implica che una considerazione degli aspetti “testuali” o pragmatici dei segni testuali elimini o riduca l’indeterminatezza delle operazioni di trasferimento linguistico e culturale. Tuttavia, è quanto si aspettano in genere gli studiosi di traduzione.
La nostra intenzione è stata quella di esemplificare una strategia per affrontare i testi e le relative traduzioni cercando di elaborare criteri per una descrizione oggettiva del luogo e della funzione di ogni dato passaggio di un testo all’interno di un sistema di questo genere, per generare istruzioni traduttive adeguate al tipo di testo. Basandosi su una tale strategia, dovrebbe essere possibile sostituire intuitivamente decisioni di quantificazione (cui la teoria tradizionale della traduzione non è ancora capace di rinunciare) con semplici decisioni binarie. Perciò, non dovremo più considerare le traduzioni «molto buone», «più liriche», «piuttosto goffe» o «molto eleganti». In definitiva, dovrebbe esserci solo una traduzione «giusta» o «sbagliata»[23].

I problemi di traduzione incontrati finora vengono semplicemente aggravati dall’introduzione del fattore testuale. Una prima importantissima conseguenza è che spesso la codifica testuale del materiale linguistico plasma testi con un alto grado di strutturazione interna. Ulteriori relazioni testuali ad hoc vengono sovrapposte alle relazioni gerarchiche esistenti tra le frasi (grammatica) e alle relazioni orizzontali che collegano le varie frasi (concatenazione), ciò che spesso porta a un alto grado di complessità semantica intratestuale. L’effetto di questo primo fattore è discusso nel paragrafo 2.
In secondo luogo, analogamente ai codici linguistici e culturali, i codici testuali possono essere descritti come reti complesse di relazioni funzionali interne. Di nuovo traduttori e traduttologi non possono far altro che affrontare la mancanza di adattamento reciproco tra codici testuali tra i quali deve essere eseguito il trasferimento di elementi testuali. In realtà, la dimensione precisa di questa asimmetria differisce ampiamente[24]. Nel caso di certe tradizioni internazionali (il Classicismo francese del diciottesimo secolo, il giallo moderno ecc.) le differenze locali sono a volte molto sottili. In generale, dovremmo accettare il fatto che, ogni qualvolta ci sia un cambiamento di codice linguistico, c’è anche quantomeno un grado minimo di divergenza tra il codice testuale emittente e il codice testuale ricevente. Questo grado minimo è il corollario di convergenza tra il codice primario, linguistico e il codice secondario, testuale, poiché codici testuali tendono a basarsi su certe peculiarità fonologiche, grammaticali ecc. del codice linguistico:
l’influenza formativa della lingua nazionale basata su sistemi di modellazione secondari è un fatto reale e indiscutibile. È importante soprattutto nella poesia[25].

oppure come scrive Levý
die Sprache entwickelt oft schon aufgrund ihrer tektonischen Eigenschaften besonders günstige Voraussetzungen für bestimmte Kunstmittel [26]

La vera natura dell’incompatibilità tra (coppie di) codici testuali appartiene al campo di ricerca di discipline come la stilistica comparata, la sociolinguistica contrastiva, la testologia contrastiva, la comparatistica letteraria, l’analisi del discorso, la grammatica testuale e così via. Restrizioni pratiche mi impediscono di soffermarmi su questi aspetti: è il giunto il momento di osservare più da vicino i possibili metodi di trasferimento testuale.
1.3.2.1 È probabile che i traduttori vengano confrontati con caratteristiche testuali del prototesto sconosciute o insolite nel codice testuale del metatesto; forse il prototesto appartiene a un genere del codice emittente che o non esiste nel codice del metatesto oppure esiste in una forma leggermente differente (segnali di genere differenti) o in una posizione totalmente differente. Sono disponibili due opzioni fondamentali, le quali, ancora una volta, possono essere caratterizzate per mezzo dei concetti dell’analogia e dell’omologia. La soluzione analogica consiste nell’utilizzare una caratteristica stilistica, segnale di genere, tipo di testo, ecc. che appartenga al codice del metatesto e vi occupi una posizione al massimo grado equivalente alla posizione che la caratteristica del prototesto occupa all’interno del proprio codice testuale. Così, il traduttore francese di un sonetto shakespeariano adotta una forma di sonetto continentale invece di copiare le caratteristiche formali del prototesto. A causa dell’anisomorfismo dei codici testuali in questione, un’equivalenza rigorosa tra forme del genere è irrealizzabile e ci si deve rassegnare a un certo grado di indeterminatezza; perciò anche qui la forte tendenza delle procedure di selezione continua ad essere unidirezionale.
C’è stata di recente una forte spinta verso lo sviluppo di un modello descrittivo universale in relazione al quale si potrebbe misurare il grado di equivalenza tra il valore relativo di delle caratteristiche del prototesto versus quelle del metatesto all’interno dei rispettivi codici testuali. Secondo alcuni teorici degli speech act, per esempio, i concreti speech act sono legati alla cultura soltanto a un livello superficiale, poiché possono essere considerati realizzazioni di un gruppo di regole di base universali. Ciò creerebbe la possibilità teorica di uno standard di raffronto. Quanto ai fenomeni stilistici, un tentativo interessante è stato fatto dallo studioso slovacco František Miko. La sua teoria dell’espressione, secondo la quale particolari mezzi stilistici in un linguaggio sono da mettere in relazione con «qualità di espressione» più astratte e universali, sembrerebbe dare il via a
una valutazione sistematica dei mutamenti espressivi che si verificano in una traduzione formando così una base per la classificazione oggettiva di differenze tra la traduzione e l’originale[27].

Comunque, resta da vedere se la teoria universalistica di Miko sia attuabile nella realtà. In modo diverso, anche la teoria polisistemica della letteratura e della cultura offre certi criteri comparativi nel senso che dà un modello concettuale per l’analisi dei testi, delle caratteristiche dei testi e dei modelli di testo nell’evoluzione delle letterature e delle culture. Permette di caratterizzare e quindi di confrontare i tipi di testo e le caratteristiche di testo rispetto al loro status visto all’interno dell’insieme dinamico del codice testuale; a questo scopo offre criteri come conservatore versus innovativo, epigonico versus sperimentale, alto versus basso, canonico versus non canonico, indigeno versus esotico, sistemico versus non sistemico ecc. Tuttavia, sebbene alcuni dei suoi praticanti tendano a una concezione ontologica del concetto di sistema o siano impegnati nella ricerca di universali culturali e traduttivi, in linea di principio l’orientamento della teoria polisistemica è esplicitamente storico più che universalista. Ciò che le analisi polisistemiche dei codici testuali rivelano sempre è proprio la loro complessa organizzazione strutturale, la natura funzionale e dinamica e quindi la loro irriducibilità. Qualsiasi equivalenza tra caratteristiche del codice del prototesto e analoghi del codice del metatesto è, perciò, nel migliore dei casi approssimativa.

1.3.2.2 Una soluzione omologica al problema dell’asimmetria del codice testuale consiste nella copia diretta di caratteristiche del segno pertinente del prototesto. La sua semantica testuale, funzione del suo valore relazionale all’interno dell’intero codice del prototesto, è quasi al di fuori delle caratteristiche di cui si tiene conto a vantaggio della riproduzione delle caratteristiche formali. Questo tipo di strategia traduttiva è esemplificato dalle traduzioni continentali dei Sonetti di Shakespeare che rispettano lo schema rimico e le convenzioni metriche inglesi nonostante le diverse tradizioni autoctone in materia di sonetti.
2 Problema traduttivo numero due: l’organizzazione complessa dei messaggi

2.1 Nelle pagine precedenti la traduzione è stata considerata come processo di ricodifica tripla, sui piani linguistico, culturale e testuale. Dato che i codici non artificiali risultano non reciprocamente riducibili, ho discusso in che modo singoli segni del prototesto in queste condizioni sarebbero trasferibili nei metacodici, per esempio per mezzo di omologhi e analoghi. Ma nella vita vera i traduttori hanno a che fare con testi.
Se i problemi del trasferimento effettivo di singoli elementi del prototesto costringono il traduttore a fare certe scelte, l’identificazione stessa di questi singoli problemi di trasferimento dipende da una serie di scelte preliminare e non meno problematica riguardanti la scomposizione del prototesto. Quando il modello strutturali del prototesto elude le categorie di un unico schema tassonomico, la delimitazione delle singole unità traduttive sarà aperta a un livello sostanziale di indeterminatezza. Il processo traduttivo, anche in questi casi, appare come processo selettivo.
2.2 Il fenomeno appena descritto è particolarmente significativo quando è in gioco il trasferimento di caratteristiche testuali (sezione 1.3.2); è notoriamente una grande preoccupazione per i traduttori di testi letterari e una ragione sufficiente per molti scienziati della traduzione per dichiarare intraducibile la poesia.
La letteratura è caratterizzata dalla compresenza di modelli organizzativi diversi (verso, metro, ripetizioni di suoni, sintassi, isotopie ecc.) che interagiscono in vari modi tra loro e con gli strati sottostanti di significato linguistico e culturale. Ne consegue un’unità molto complessa in cui non è più possibile distinguere signifiant e signifié: si confondono in un unico segno totale, icona perfetta del mondo esclusivo che incarna. Questa compresenza di strutture in conflitto nei testi artistici è uno dei temi principali degli scritti della scuola semiotica di Tartu. Lotman si occupa della dialettica tra proprio e altrui nei sistemi, dove spesso per «altrui» si intendono quegli elementi provenienti da altri sistemi che sono inglobati nel proprio sistema conservando le loco caratteristiche di estraneità. Quando la collocazione di elementi è marcata, ossia inusuale, spezza gli automatismi percettivi del testo e genera un effetto artistico.
Dunque secondo Lotman è la multisistemicità delle opere d’arte letterarie a conferire loro unità strutturale, le loro caratteristiche uniche, l’alto contenuto informativo, la loro «energia” specifica e, in effetti, la loro irripetibilità. Lotman non ha dedicato molti articoli al problema della traduzione letteraria, ma l’osservazione che segue mostra in modo chiaro in quale direzione lo porti la sua teoria del testo letterario.
Le difficoltà fondamentali della traduzione di un testo letterario sono dovute alla necessità di restituire i legami semantici che esistono a livello fonologico e grammaticale. Se a livello fonologico fosse questione soltanto di riprodurre armonie imitative, allitterazioni o altre cose del genere, le difficoltà sarebbero minori. Ma le connessioni semantiche specifiche che compaiono in cirtù del cambiamento in un testo letterario del rapporto tra rivestimento sonoro della parole e la sua semantica, e la semantizzazione del livello grammaticale sembrano non poter essere sottoposti ad alcuna traduzione esatta (Lotman 1973: 16).

Secondo questa concezione sistemica del testo, i singoli elementi di un testo vengono a far parte di una serie di relazioni ad hoc con altri elementi testuali (Toury 1980: 95-96). Secondo Lotman, queste relazioni possono modificare considerevolmente la semantica di qualsiasi elemento testuale rispetto al suo carico semantico abituale. Un esempio molto semplice è rappresentato dall’ironia, che mostra come in un testo una parola possa addirittura assumere un significato esattamente opposto a quello che ci aspetteremmo sulla base del suo valore all’interno del codice linguistico; basti pensare all’effetto del discorso di Antonio in relazione al significato della parola «honorable» in Giulio Cesare , scena III,ii. Analogamente, l’uso di termini arcaici in un testo può essere indicatore di uno stile aulico, ma anche un mezzo per parodiare tale stile. Nei due casi possono essere stati usati gli stessi elementi del repertorio del codice linguistico; la distinzione sta solo nel differente ambito di relazioni testuali nel quale rientrano tali parole.
Di conseguenza, ha senso introdurre una distinzione fra il valore semantico che un elemento ha di norma sulla base della sua posizione relazionale all’interno del codice a cui appartiene, e il valore semantico che questo termine assume all’interno delle relazioni testuali specifiche in cui è inserito. In effetti, questa distinzione è già stata formulata parecchi anni fa dal formalista russo Tynjanov (1971 [1927]). Utilizzando i termini tynjanoviani autofunzione e sinfunzione[6], giungiamo alla formulazione che segue: l’autofunzione di un elemento in un’opera letteraria (ovvero il valore relazionale di quell’elemento all’interno del codice a cui appartiene) non coincide necessariamente con la sua sinfunzione (cioè con il suo valore relazionale all’interno del testo letterario considerato) ed è ad essa subordinato in ogni occorrenza testuale. La differenza fra le due è di grande importanza per la pratica della traduzione letteraria e, quindi, anche per la teoria della traduzione: entra in gioco un nuovo problema.
Tutto quello che è stato esposto nei paragrafi precedenti sulla traduzione (letteraria) era frutto di un punto di vista autofunzionale. Le argomentazioni implicitamente a sostegno di questo approccio possono essere parafrasate come segue: il valore aggiunto che la sinfunzione di un elemento dell’originale rappresenta rispetto alla sua autofunzione è conseguenza delle relazioni strutturali che l’elemento in questione mantiene con gli altri segni che costituiscono l’originale; se il traduttore riesce a trovare elementi corrispondenti che abbiano autofunzioni equivalenti nella lingua della traduzione, nel testo tradotto emergono automaticamente gli stessi gruppi di relazioni strutturali; in questo modo le sinfunzioni dell’originale vengono mantenute. In breve, il surplus di senso ottenuto dall’interazione degli elementi dell’originale viene riprodotto nella traduzione, se i singoli elementi possono essere tutti resi in modo equivalente: se il traduttore si occupa delle autofunzioni, le sinfunzioni sanno badare a sé stesse.

Sebbene questa argomentazione sia in sé indubbiamente corretta, è ovvio che le premesse su cui si basa non sono per niente realistiche. In primo luogo si pone il problema principale della traduzione: la ricerca di elementi singoli nella traduzione che abbiano valore semantico più o meno equivalente nelle due lingue è disseminata di grandi difficoltà. Nella traduzione letteraria questi problemi diventano ancora più seri. Fino ad ora ci siamo occupati principalmente del trasferimento (ottimale) dei significati (valori semantici) dell’originale. Eppure è evidente che anche le relazioni testuali interne che differenziano sinfunzioni da autofunzioni si basano su proprietà puramente formali delle componenti testuali, per esempio sui suoni. Anzi, la differenziazione tra autofunzioni e sinfunzioni sta, in gran parte, proprio nella semantizzazione di tali caratteristiche formali. Questo significa che il traduttore dovrebbe cercare di ottenere un’equivalenza ottimale non solo a livello di significato, ma anche a livello di significanti. Tali requisiti sono però incompatibili sulla base di un ben noto principio: nel linguaggio naturale le relazioni tra significanti e significati sono fondamentalmente arbitrarie (cfr. anche capitolo 2, paragrafo 1.2). Di conseguenza, sembra possibile immaginare una «traduzione in prosa”, che tenti di offrire una resa più o meno equivalente di una poesia di Shakespeare nei termini delle autofunzioni semantiche delle sue diverse componenti linguistiche; sembra possibile immaginare anche una «traduzione in versi” che dia una fedele riproduzione degli aspetti fonologici e prosodici dell’originale. Ma i problemi iniziano quando si vuole riprodurre il testo di Shakespeare in modo da conservare le interazioni testuali specifiche tra le sue varie componenti, cioè le sue sinfunzioni.

Cosa possono fare i traduttori davanti ad un testo tanto complesso? In linea di massima, sembrano esistere due opzioni principali. Scegliendo la prima, il traduttore potrebbe decidere di ignorare le particolari strutture dell’originale o persino interi livelli di strutturazione dell’originale, per avere massima libertà d’azione nel trasferimento ottimale degli elementi e delle strutture dell’originale su altri livelli. L’esempio più tipico di tale approccio è una traduzione in prosa che fin dall’inizio abbandona ogni speranza di riprodurre i suoni e le strutture metriche dei versi dell’originale, per concentrarsi maggiormente sul lessico e sulla grammatica. È chiaro che questo approccio non riuscirà a trasferire le complessità sinfunzionali dell’originale. Il secondo tipo di strategia presuppone un traduttore che metta da parte del tutto il punto di vista dei singoli segni dell’originale e le loro autofunzioni. In realtà segue la procedura inversa: cerca cioè di definire le sinfunzioni che agiscono nell’originale e di trasferire quelle invece dei singoli segni linguistici, culturali e testuali dell’originale, dalla cui interazione sono definiti. Nella formulazione (normativa) di Z. Klemensiewicz:

L’originale deve essere considerato come un sistema e non come una somma di elementi, come un’unità organica e non come un accumulo meccanico di elementi. Il compito del traduttore non è né riprodurre né trasformare gli elementi e le strutture dell’originale, bensì cogliere le loro funzioni e utilizzare strutture ed elementi della lingua madre che per quanto possibile siano sostituti e controvalori di questa lingua con la stessa attitudine ed efficacia funzionale. (citato da Levy 1969: 21-22)

Invece di affermare che anche il trasferimento equivalente di singole caratteristiche testuali specifiche produce un’unità sinfunzionale equivalente, questa strategia olistica mira a trasferire gruppi di caratteristiche testual-funzionali. D’altronde questo è il fondamento della visione tradizionale secondo cui la poesia non può essere tradotta ma solo ricreata. È una concezione difficile da accettare come tale, perché si intende la traduzione in termini restrittivi (cfr.oltre), ma c’è un che di vero. Di conseguenza, dobbiamo accettare la possibilità che la resa – non equivalente a livello ottimale dal punto di vista autofunzionale – di due strutture dell’originale, che si intersecano, instauri comunque una relazione di equivalenza approssimativa a livello sinfunzionale tra l’originale e la traduzione. In altre parole, ad alcune condizioni i cambiamenti semantici dal punto di vista dei segni componenti dell’originale potrebbero benissimo essere il prerequisito per instaurare un grado maggiore di equivalenza a livello dell’originale e della traduzione intesi come macrosegni.
Sfortunatamente, queste sono tutte formule molto astratte e, per quanto riescano a sistematizzare intuizioni comuni, non vi è ancora un modo per controllare la loro validità nella realtà basata sull’osservazione. Da un lato, sembra non esista uno strumento per la misurazione intersoggettiva dei gradi di equivalenza sinfunzionale. Sotto quest’aspetto, la scienza della traduzione dipende da una teoria preliminare del testo (letterario), ovvero una teoria che sia in grado di spiegare con precisione il modo in cui i nessi strutturali presenti nei testi si riflettono sulla semantica che i diversi segni che formano il testo posseggono individualmente in virtù del loro valore all’interno del codice.
Nei paragrafi sulla traduzione poetica ho esaminato questioni piuttosto complesse e probabilmente discutibili. Spero che ciò non abbia suscitato la falsa impressione che la poesia debba essere considerata qualcosa di totalmente diverso dalla normale scrittura, forse addirittura qualcosa di natura più nobile, e che siamo conseguentemente di fronte a due forme e qualità di traduzione completamente diverse, la traduzione letteraria versus la traduzione normale. Al contrario, le distinzioni fra i testi poetici più complessi e il testo di prosa più elementare sono di natura graduale, e in tal senso l’attinenza del nostro secondo problema traduttivo è variabile. In un certo senso, comunque, la discussione sui casi estremi di strutturazione testuale complessa in questo contesto è del tutto opportuna, poiché ci dà una degna conclusione per i paragrafi 1 e 2 in quanto sembra che siamo più lontani che mai dalle procedure predefinite e semplici di trasferimento che ci saremmo potuti aspettare dopo la metafora della ricodifica.

3 Alcune Conclusioni

3.1 Tipi di relazioni traduttive
Con l’ausilio di argomentazioni derivanti principalmente dalla tradizione strutturalista, ho cercato di mostrare che la traduzione non condivide alcune caratteristiche importanti con i processi di ricodifica tecnica. Potremmo ottenere un quadro un po’ più chiaro di tali differenze specificando meglio la varietà di relazioni traduttive come avvengono nella traduzione “reale” versus il tipo unico di relazioni prototesto-metatesto come nel caso della ricodifica pura. Perché sia possibile tale paragone abbiamo bisogno di un sistema di classificazione in grado di darci un controllo concettuale sui vari tipi di cambiamenti e non cambiamenti distinguibili nei processi di trasferimento tra due sistemi. Fortunatamente questo sistema generale di categorie di trasformazione esiste già. Ho in mente le categorie sostituzione, ripetizione, omissione, aggiunta e permutazione già usate secoli fa dagli antichi retori e riscoperte di recente dalla linguista contemporanea (per esempio da Noam Chomsky) e dalla teoria della letteratura (per esempio da Popovič 1976 e Van Gorp 1978).
Passo ora a esaminare brevemente ciascuna di queste cinque categorie di trasformazione. Ne emerge che la prima, la sostituzione, è l’unica a verificarsi nei processi di ricodifica pura. Nella traduzione, invece, nessuna di loro può essere esclusa[28].
3.1.1 Nel caso della sostituzione, l’elemento corrispondente del prototetso viene sostituito da un elemento del metatesto caratterizzato da un valore relazionale più o meno equivalente. Questo equivale a quello che è stato finora definito principio analogico.
Nella ricodifica pura tutte le relazioni tra elementi del metatesto e i loro corrispondenti nel prototesto ricadono in questa categoria. Inoltre, data la simmetria strutturale tra i codici interessati, soddisfano pienamente i criteri dell’equivalenza matematica. Ma nella traduzione tra codici non artificiali si verifica una equivalenza pura soltanto in un numero di casi molto limitato. Non esistono teorie semantiche operazionali e universali che possano fungere da tertium comparationis e selezionare in modo inequivocabile il quasi equivalente più prossimo per ogni elemento del prototesto. Nell’ambito della ricodifica non artificiale, l’analogia è dunque un concetto elastico. Certe sostituzioni a determinate condizioni possono essere considerate più equivalenti e analoghi migliori o più simili rispetto ad altri, ma tutto sommato sono giudizi che lasciano il tempo che trovano. A complicare il quadro, l’equivalenza autofunzionale in certi casi va infranta a vantaggio dell’equivalenza sinfunzionale, soprattutto nella traduzione letteraria.

3.1.2 Gli altri quattro tipi di relazioni sono tipici della ricodifica in senso lato (traduzione).
Nel caso della ripetizione, l’elemento del prototesto non viene sostituito, bensì semplicemente ripetuto o trasferito direttamente dal prototesto al metatesto. Le sue caratteristiche formali vengono in parte o del tutto riprodotte nel metatesto senza considerare l’equivalenza semantica massimale. Ciò corrisponde a quello che è stato chiamato principio omologico. Come è già stato osservato, il fatto che trascuri la semantica del prototesto viene talvolta giudicato un grave difetto, specialmente a livello di ricodifica linguistica:
In che modo affidarsi troppo a un modello di corrispondenza formale indebolisce l’identità semantica? Questo modello identifica la traduzione con la correlazione di segni da un codice all’altro, senza prendere in considerazione le diverse relazioni strutturali tra il segno e gli altri segni nei rispettivi codici. In altre parole, questo modello presuppone un’equivalenza tra i singoli elementi semiotici e le regole che governano la loro ricombinazione in unità linguistiche superiori, sia strutturali sia semantiche. Se è concepibile reperire equivalenti formali funzionali, questi però hanno relazioni diverse nei rispettivi codici, rendendo tale modello meno adatto a riprodurre il significato[29].

Ad ogni modo, per controbilanciare questa concezione, devo sottolineare che vi sono teorie normative alternative della traduzione che favoriscono una linea d’approccio “non-illusionistica” o “esotizzante”, e di conseguenza sono più propense ad approvare i metodi omologici. Inoltre – a prescindere da qualsiasi preconcetto normativo – non si può ignorare il semplice fatto che, in effetti, i trasferimenti omologici avvengono molto spesso.
Una caratteristica importante degli omologhi nella traduzione è la loro capacità di effettuare o rafforzare determinati cambiamenti diacronici all’interno dei codici riceventi. Attraverso gli omologhi la traduzione può divenire un canale per l’introduzione di nuovi elementi nel repertorio del codice ricevente o per la modifica di quelli esistenti. Tale processo si attua ogniqualvolta i casi di interferenza tra codice emittente e codice ricevente non vengono più percepiti come tali. A mo’ di esempio potrei citare la graduale adozione di prestiti nel lessico del codice linguistico ricevente (livello dei codici linguistici), la diffusione della cultura biblica e dei valori cristiani mediante le traduzioni della Bibbia (livello dei codici culturali), l’introduzione di nuove caratteristiche testuali o di un nuovo genere letterario in un altro sistema (livello dei codici testuali) e via dicendo. A questo proposito, gli omologhi traduttivi sono in netta antitesi con gli analoghi traduttivi. Questi ultimi sono sempre esempi “corretti” di uso del codice ricevente, e perciò è molto improbabile che vi causino cambiamenti. Tuttavia, ciò non significa che i metodi di traduzione analogici non possano avere un ruolo strategico nello sviluppo storico di un sistema di segni; però il loro ruolo conservatore anziché innovativo poiché implicano un ripudio più o meno polemico degli elementi estranei e un attivo sostegno ai codici indigeni.
A prima vista può sembrare sorprendente che una strategia traduttiva definibile come forma di non traduzione si manifesti in testi prodotti e ricevuti come «traduzioni». Il nostro scetticismo su quest’idea, tuttavia, è dovuto solo alla nostra incapacità di vedere al di là del cosiddetto buonsenso traduttivo, secondo cui la traduzione sarebbe una categoria distinta, coerente e universalmente definibile. Lo scopo di questo capitolo è mostrare che tali concezioni sono inadeguate. In questo contesto è un’idea stimolante, che incoraggia a integrare la scienza della traduzione in uno studio più generale del discorso, considerare che le sostituzioni linguistiche, culturali o testuali – che, come è stato detto, spesso vengono considerate procedure esclusivamente traduttive – si verificano sistematicamente in testi considerati originali o non tradotti, per esempio nell’uso dei prestiti lessicali, dei prestiti stilistici o semantici ecc.
3.1.3 Nel caso dell’omissione, un particolare elemento del testo originale non viene assolutamente reso nel testo tradotto, nemmeno con un analogo ipoequivalente. Molto probabilmente numerosi traduttologi normativi esiterebbero a considerare legittimo questo processo traduttivo:
In teoria, il traduttore deve giustificare ogni parte o aspetto del senso cognitivo e pragmatico nel testo della lingua dell’originale (Newmark 1981: 149)
Qualsiasi potatura o sfoltimento del testo originale rende meno definita la separazione tra traduzione e adattamento e vanno perciò evitati. Tuttavia, checché ne dicano i critici, le omissioni sono molto frequenti nell’attuale realtà della traduzione per molte ragioni differenti. Come segue dal paragrafo 2, spesso le omissioni non possono essere evitate, essendo i testi originali organizzati in modo complesso: l’opzione di rendere certi elementi o certe strutture del testo originale con la massima equivalenza possibile potrebbe richiedere il sacrificio di altri elementi o strutture del testo originale. Alcuni tra questi potrebbero essere ancora riconoscibili in un analogo ipoequivalente, altri potrebbero essere ripresi in qualche altra parte del testo grazie ad alcuni artifici di compensazione (cfr. infra), altri però potrebbero semplicemente sparire senza lasciar alcuna traccia.
3.1.4 Nel caso dell’aggiunta, il testo tradotto risulta avere dei segni di componente linguistica, culturale o testuale che apparentemente non appaiono nell’originale. Le possibili cause per cui tali elementi, non presenti nel testo originale, vengono inseriti dal traduttore sono molteplici. Di nuovo, la struttura complessa del testo originale potrebbe essere una limitazione di una certa importanza: l’omissione e l’aggiunta vanno a braccetto, soprattutto se il traduttore vuole mantenere le proprietà macrostrutturali o la stessa lunghezza dell’originale. Molto spesso, tuttavia, le aggiunte devono essere spiegate secondo altri principi. È molto nota, per esempio, la tendenza dei traduttori a produrre un testo tradotto più ampio rispetto all’originale: ciò è in parte dovuto al loro interesse, psicolinguisticamente comprensibile, alla chiarezza e alla coerenza, che li induce a esplicitare dei passi complicati, fornendo i collegamenti mancanti, a mettere a nudo argomentazioni implicite e, in generale, a dare al testo una formulazione più completa. Per quanto questa tendenza non intenzionale all’esplicitazione parafrastica sia comprensibile (e, di nuovo, sia frequente nella pratica traduttiva), non è molto apprezzata da numerosi traduttologi contemporanei:
Tutte le norme traduttive sono un tentativo di impedire che il traduttore propenda per l’extrema ratio, la parafrasi. (Newmark 1981: 130)
In altri casi ancora, le aggiunte sono dovute a interventi consapevoli e intenzionali da parte del traduttore, che, per esempio, ritiene forse di poter migliorare le qualità estetiche della sua traduzione, aggiungendo la rima a un prototesto che ne è privo, usando un linguaggio più ricco di metafore, amplificando il sapore esotico del testo, e così via.
3.1.5 Per definire la quinta categoria, la permutazione, è necessario integrare alla prospettiva autofunzionale quella sinfunzionale. La quinta categoria non riguarda il trasferimento vero e proprio di singoli segni dell’originale, bensì le relazioni tra le rispettive posizioni testuali nell’originale e nella traduzione: l’elemento del testo originale viene reso nella traduzione (per mezzo di un omologo o di un analogo, talvolta comportando qualche forma di aggiunta o riduzione), ma la sua posizione all’interno della traduzione non corrisponde alla posizione relativa della sua controparte nell’originale. Quando i traduttologi utilizzano il termine «compensazione» intendono una relazione traduttiva di questo tipo.
All’interno della categoria delle permutazioni vi è un’operazione traduttiva degna di essere ricordata in modo particolare: il traduttore distingue due livelli del discorso, il livello testuale e quello metatestuale, e relega la resa di un elemento del testo originale o di una sua caratteristica nel secondo livello. Lo status metatestuale di questo secondo livello del discorso viene segnalato con mezzi convenzionali, come l’uso delle note a piè di pagina, delle parentesi o del corsivo. Questo metodo particolare di ridistribuzione dei segni del testo originale (per il quale potrebbe essere coniato il termine «compensazione metatestuale») non di rado va a braccetto con metodi traduttivi omologhi: le informazioni metatestuali compensano la frequente mancanza di forza comunicativa di questi metodi. Il fatto che la compensazione metatestuale possa combinarsi con altre categorie di trasformazione risulta anche chiaro dal legame frequente con la categoria dell’aggiunta; molte informazioni descritte nelle note a piè di pagina, ecc., apportano delle aggiunte rispetto all’originale.
3.1.6 Questi cinque tipi di operazione possono essere presenti a livello di ricodificazione linguistica, culturale e testuale. Non bisogna presumere che le decisioni dei traduttori a questi tre livelli siano necessariamente coerenti. È bene tenere in mente la raccomandazione espressa da James S Holmes nella sua trattazione delle diverse traduzioni in inglese contemporaneo di un rondò medioevale in francese:
Sembrerebbe che ci sia una resistenza particolare a trasporre una poesia del passato in una metapoesia completamente contemporanea a tutti i livelli, priva di qualsiasi elemento che indichi i suoi legami con un’epoca precedente. Se quest’ipotesi è corretta, significa che la tendenza a classificare in generale le traduzioni come modernizzanti o storicizzanti deve lasciar posto a un’analisi più elaborata che, per ogni traduzione, definisca un profilo più complesso. (Holmes 1988: 41-42)
In teoria, dovrebbe essere necessaria e sufficiente l’applicazione delle cinque categorie di trasformazione sopra citate a ognuno dei tre livelli di codice a permettere l’«analisi più elaborata» dell’intero gruppo di relazioni tra testo tradotto e originale cui Holmes deve aver pensato. In pratica, le cose risultano più complesse e numerosi fattori limitano i reali potenziali descrittivi delle distinzioni fatte sopra: la natura problematica dei limiti teorici fra i tre codici; i margini indefiniti della prima categoria (sostituzione); la complessa struttura gerarchica dell’intero gruppo di relazioni traduttive che collegano originale e traduzione; e, ultima ma non meno importante, la mancata coincidenza dei punti di vista autofunzionale e sinfunzionale; questa impone che proprio l’identificazione di coppie formate da “problemi” del testo originale e “soluzioni” della traduzione venga molto complicata dal fatto che è probabile che gli elementi del testo tradotto non siano altro che delle soluzioni parziali di problemi altrettanto parziali.
Questi fattori rendono l’intero modello difficile da usare in un reale e dettagliato confronto di testi. Ecco perché lo userò solo indirettamente nella mia trattazione sulla traduzione dei giochi di parole. Tuttavia, sarebbe esagerato affermare che il modello sia privo di qualsiasi capacità descrittiva. Per illustrare le utili distinzioni generali che se ne possono ricavare, ho incluso la seguente griglia (figura 1) che distingue alcuni tipi importanti di traduzioni classificati secondo i miei due parametri: le cinque categorie di trasformazione e i tre livelli di codice. Alcuni dei termini contenuti nei riquadri del diagramma provengono dal linguaggio specialistico di diversi critici e studiosi di traduzione; ecco perché non tutti i termini usati sono comparabili o compatibili. Indicano traduzioni in cui un particolare tipo di relazione traduttiva è così rilevante da definire l’intero gruppo di relazioni tra originale e traduzione. In una traduzione non integrale, per esempio, le omissioni sono così frequenti a livello microstrutturale, e/o riguardano a tal punto certe proprietà macrostrutturali del testo originale, da essere percepite come elementi caratterizzanti della strategia traduttiva nel suo insieme.

3.2 Tipi comunicativi di equivalenza

3.2.1 La maggior parte dei concetti precedentemente espressi dipende direttamente da una definizione saussuriana di significato (in senso linguistico). Nei miei termini valore, posizione relativa ecc., il lettore avrà giustamente riconosciuto un’eco diretta del concetto saussuriano di valeur, certamente uno dei suoi concetti fondamentali. Ora esaminerò la definizione che lo stesso Saussure diede di questo concetto, definizione che mostra una probabile alternativa per avvicinarsi alla traduzione, che potrebbe avere la pretesa di rendere più giustizia alla dimensione “comunicativa” della traduzione; ad ogni modo, in fin dei conti, questa alternativa non si rivelerà molto diversa né può essere usata come una porta di servizio attraverso la quale l’immagine della traduzione, intesa come ricodificazione in senso stretto, può rientrare di nascosto.
Il concetto di valeur è, in effetti, preso in prestito dall’economia. Nella citazione seguente Saussure sviluppa la metafora e mostra come i valori (cioè valeurs) linguistici siano simili a tutti i valori al di fuori della lingua in quanto

sembrerebbero regolati dallo stesso principio paradossale. Sono sempre formati da:
(1) una cosa diversa che può essere scambiata con una il cui valore deve essere determinato; e
(2) cose simili che possono essere confrontate con la cosa il cui valore deve essere determinato.
È necessaria la presenza di entrambi i fattori perché ci sia un valore. Perciò per determinare il valore di una banconota da 5 franchi bisogna sapere: (1) che può essere scambiata con una quantità fissa di qualcosa di diverso, per esempio pane; e (2) che può essere confrontata con un valore simile dello stesso sistema, per esempio una moneta da 1 franco, o con monete di un altro sistema (un dollaro ecc.). Allo stesso modo una parola può essere scambiata con qualcosa di diverso, un’idea; ma può anche essere confrontata con qualcosa della stessa natura, un’altra parola. (Saussure, 1966)

Così suppongo che il valeur di un segno linguistico possa essere definito sia dalla posizione relativa nella struttura linguistica (il secondo fattore nella citazione qui sopra, cioè valeur nel senso stretto della parola), che dalla sua capacità di denotare alcune entità extralinguistiche (il primo fattore nella citazione, cioè la signification saussuriana). Vorrei ora indicare in che modo questa distinzione tra le due definizioni saussuriane di valeur sembra estremamente importante ai fini della traduzione; a questo punto limiterò il discorso al campo della ricodificazione linguistica.
Finora mi sono limitato a definire i valori come opposizioni all’interno della struttura della lingua (livello della langue), in altre parole il secondo fattore della citazione di Saussure. In base a questa definizione si giunge alla conclusione che nella traduzione è impossibile avere un’equivalenza rigorosa e perciò che, per coloro la cui definizione normativa di traduzione richieda una tale equivalenza, la traduzione stessa è impossibile. Lo stesso Saussure non si occupa quasi mai della traduzione ma alcuni suoi commenti in proposito fatti en passant risultano abbastanza chiari:

Se le parole stessero per concetti preesistenti, avrebbero tutti equivalenti esatti di significato da una lingua all’altra; ma non è così: (Saussure, 1966)

Nonostante in queste ultime pagine potrebbe sembrare che la prima definizione di valeurs, cioè i significati, sia stata accantonata, sono molti gli studiosi di traduzione che oggi ritengono che questo fattore sia decisivo sia per la traduzione che per la teoria della traduzione. Insistono sul fatto che la traduzione non si basi su codici (tra i quali operano molte opposizioni strutturali), ma piuttosto su messaggi concreti (che stabiliscono un certo rapporto con la realtà extralinguistica). Tradurre è questione di parole e non di langue:

On n’a pas en effet à traduire des mots, mais des concepts, pas des syntagmes, mais des idées, pas des phrases, mais des démonstrations, des arguments, etc. […](Pergnier, 1976, p. 92)[7]

Secondo questi studiosi il traduttore dovrebbe occuparsi dell’equivalenza non a livello dei valeurs (il secondo fattore saussuriano), ma piuttosto a livello delle significations (il primo fattore saussuriano). L’equivalenza non deve risiedere nelle parole, ma (nel loro rapporto con) i concetti o le idee che vengono espresse attraverso le parole. Se il primo scopo è considerato utopico data l’asimmetria strutturale di due lingue, il secondo potrebbe essere perseguito più facilmente. Secondo questo modo di pensare è evidente che il cambio prospettico da valeurs a significations potrebbe contenere un’argomentazione fondamentale per chi si sente chiamato a difendere la tesi della traducibilità (Mounin, 1963, pp. 266-270). Alla stessa stregua, qualcuno può sentire un suo probabile uso come metodo strategico per vincere l’indeterminatezza della traduzione, che sarebbe insormontabile secondo l’analisi a livello dei valeurs, e per giustificare certe posizioni normative. Prima di discutere queste implicazioni, vorrei mostrare la portata di questo cambio di prospettiva.

3.2.2 Lo stacco concettuale da langue a parole in fatto di traduzione può essere osservato nelle relativamente poche teorie incastonate nella tradizione saussuriana ortodossa (es. Pergnier, 1976; Van Eynde, 1985, pp. 53-54; per citare altri esempi). Più numerosi sono gli esempi che possono essere tratti da teorie meno direttamente legate alla tradizione dello strutturalismo, che mostrano senz’ombra di dubbio una tendenza verso la teoria della traduzione de la parole. La prossima citazione, sulle condizioni dell’equivalenza traduttiva, mostra il senso generale delle argomentazioni di queste ultime teorie

Nella traduzione totale, i testi nella lingua originale (SL) e in quella ricevente (TL) vengono considerati equivalenti traduttivi quando in una data situazione risultino intercambiabili. […] Lo scopo della traduzione totale deve […] essere scegliere equivalenti nella TL che non abbiano “lo stesso significato” delle parole nella SL, ma la maggior sovrapposizione possibiledi gamme situazionali (Catford, 1965)

Catford parla di un concetto generale di «situazione data» che sembra includere almeno queste tre componenti: il mittente del messaggio, il segmento di realtà sul quale incide, il ricevente del messaggio. Il traduttore “comunicativo” deve centrare la sua attenzione, o almeno credere di farlo, su ognuna di queste tre componenti. Di conseguenza possiamo dividere sommariamente i concetti della traduzione “comunicativa” in tre gruppi, che vado ora ad illustrare brevemente[8]:
equivalenza emotiva: il criterio dell’equivalenza riguarda la misura in cui gli intenti comunicativi dell’autore del testo originale debbano essere mantenuti dal traduttore. Un esempio è il concetto di traduzione espresso da Koschmieder e parafrasato da Wilss (1982) come segue:

Tradurre è trovare «das Gemeinte» (G) (il significato inteso), in termini di contenuto e stile dello «Zeichen» (Z) (signifiant) in relazione al «Bezeichnetes» (B) (signifié) della lingua originale e trovare lo «Zeichen» corrispondente nella lingua ricevente che, in relazione al «Bezeichnetes» della stessa, darà lo stesso «Gemeinte» nella lingua ricevente.

Un’enfasi di questo genere sulle intenzioni espressive dell’autore del testo originale può essere ritrovata in certi approcci ermeneutici alla traduzione, in approcci (alla traduzione) ispirati dalla teoria del’enunciazione, e così via.
equivalenza referenziale: qui, tenendo conto di una certa situazione nella realtà, il criterio di equivalenza richiede che il valore di verità della proposizione del testo originale debba essere mantenuto nella traduzione. Ho scelto un breve passo tratto da un articolo di Eugenio Coseriu, la cui ben nota distinzione tra Bedeutung, Bezeichnung e Sinn testimonia chiaramente il suo rifiuto di vedere la traduzione come un’operazione a livello di valeurs:

Das Problem beim Übersetzen ist […] das Problem der identischen Bezeichnung mit verschiedenen Sprachmitteln, d.h. nicht etwa »Wie übersetzt man diese oder jene Bedeutung dieser Sprache?«, sondern »Wie nennt man den gleichen Sachverhalt bzw. Tatbestand in einer anderen Sprache in der gleichen Situation?« (Coseriu, 1978: 21)[9]

equivalenza conativa: il criterio di equivalenza prevede che il traduttore debba mirare alla maggiore somiglianza possibile tra il pubblico originario del testo originale e quello ultimo del testo tradotto. Per dirla come Nida & Taber (1969: 1), che promuovono un concetto di traduzione cosiddetto dinamico:

Una volta lo scopo della traduzione era la forma del messaggio […]. Il nuovo scopo, invece, si è spostato dalla forma del messaggio alla risposta di chi lo riceve.
Perciò va determinata la risposta che il ricevente dà al messaggio tradotto. Questa risposta deve essere poi confrontata con il modo in cui il pubblico aveva reagito al messaggio nella sua forma originaria.
3.2.3 Tentiamo ora di determinare, dal punto di vista comunicativo, le implicazioni teoriche di questo importante cambiamento di prospettiva. Prima di tutto è opportuno specificare che il cambiamento è in sé una mossa assolutamente accettabile; risponde a quanto da noi intuito e cioè che la traduzione è, in realtà, un trasferimento di enunciati concreti e non di strutture linguistiche astratte: di conseguenza, nella traduzione è in gioco “qualcosa in più” delle semplici strutture linguistiche in questione. Inoltre, tutto questo non contraddice assolutamente la definizione saussuriana di significato.
Il problema è, quindi, appurare se gli approcci comunicativi alla traduzione aggiungono qualcosa di nuovo rispetto ad un tipo di approccio che si occupa, non del trasferimento di significations, ma del trasferimento di valeurs. Naturalmente la risposta è sì se un tale tipo di concezione della traduzione basata sul concetto di valeur sembra dare conto soltanto del livello linguistico del trasferimento. Non si discute più sul fatto che nella traduzione vi sia un “qualcosa in più” (culturale, testuale) con cui la traduttologia deve fare i conti. A questo riguardo le definizioni comunicative di traduzione e di equivalenza traduttiva, nonostante il loro carattere prevalentemente normativo, costituiscono un enorme passo avanti se paragonate ad altre concezioni meramente linguistiche che riducono la traduzione alla sola sostituzione del lessico e della grammatica del codice della lingua emittente. Quindi non è esagerato dire che hanno contribuito in modo sostanziale allo sviluppo teorico della disciplina. Attirando la nostra attenzione sulla dimensione testuale della traduzione (vedi par. 1.3) hanno mostrato, una volta per tutte, che gli studi sulla traduzione non devono essere confusi con il confronto strutturale delle lingue (vedi anche Toury 1980: 14).
Comunque le inadeguatezze di concezioni meramente linguistiche della traduzione derivano dal loro ingiustificato trascurare le dimensioni “non linguistiche” della traduzione e non dal loro concentrarsi, in modo apparentemente errato, sui valeurs (piuttosto che sulle significations). Il modello di traduzione presentato in questo capitolo si basa prevalentemente sul livello dei valeurs, ma non senza includere anche i livelli di ricodifica testuale e culturale, applicando i concetti di valeur e langue anche a questi ultimi. Un tale modello sembra quindi perfettamente in grado di rendere giustizia alla dimensione comunicativa della traduzione senza per questo abbandonare la sfera dei valeurs. Potrebbe essere dimostrato, per esempio, che la distinzione classica tra la cosiddetta corrispondenza formale (l’equivalenza tra semplici testi) e l’equivalenza dinamica (l’equivalenza tra messaggi comunicativi) si può ridurre ad una serie di distinzioni graduali:
Tra un’analisi del Prototesto e un processo di trasferimento prototesto-metatesto che considera il prototesto codificato solo a livello linguistico da un lato e, dall’altro lato, un’analisi del prototesto e un processo di trasferimento prototesto-metatesto nel quale viene affidata ai livelli culturali e testuali dell’organizzazione semantica una posizione di maggiore importanza, se non addirittura una posizione gerarchica dominante;
Tra una strategia di trasferimento del prototesto che ricorre frequentemente a soluzioni traduttive omologiche anche a livello linguistico da un lato e, dall’altro lato, una strategia di trasferimento del prototesto che di solito favorisce soluzioni traduttive analogiche.
In altre parole, se si vuole spiegare cosa sia questo “qualcosa in più” che le definizioni comunicative di traduzione vogliono comprendere non è necessario scostarsi dai valeurs e rivolgersi a considerazioni di signification. Del resto credo che una simile conclusione concordi con quanto teorizzato da Saussure. La citazione tratta dal Corso nel paragrafo 3.2.1 sembra suggerire che sia i valeurs sia le significations abbiano un ruolo di uguale importanza nel determinare il significato (linguistico). Comunque nel Corso ci sono altri punti nei quali Saussure ipotizza una relazione di dipendenza tra i due. In ultima analisi è la serie di relazioni strutturali all’interno della langue che determina i possibili usi della stessa in casi concreti di parole:

È abbastanza chiaro che inizialmente il concetto [del verbo «juger” D.D.] non è nulla, o meglio, esso è solo un valore determinato dai suoi rapporti con altri valori ad esso simili, e che, senza di essi la signification non esisterebbe. (Saussure 1966: 117).

La stessa argomentazione può essere applicata ai livelli dei codici culturali e testuali: perché un segno culturale o testuale diventi semioticamente sign-i-ficante ci deve essere un codice convenzionale (langue) superiore e al contempo indipendente dalla particolare occorrenza del segno (parole). Le funzioni comunicative di un testo verbale possono essere provocate solo dalla presenza, all’interno del testo, di alcuni segnali convenzionali che acquistano significato grazie alla conoscenza condivisa di questo sistema di segni preesistente. Credere che le funzioni comunicative dei testi siano in un qualche modo estranee agli effettivi segni del testo sarebbe un tipico esempio di pensiero conduit-metaphor.
Giunti a questo punto dovrebbe emergere l’essenza dell’intero paragrafo. Se l’equivalenza nel vero senso della parola sembra impossibile a livello dei valeurs, non è sicuramente pensabile a livello di significations poiché queste ultime dipendono dai primi. In breve il passaggio a un punto di vista comunicativo sulla traduzione non risolve né può risolvere il problema dell’indeterminatezza della traduzione. Eppure questo può proprio essere l’obiettivo latente di certe teorie “comunicative”: poiché affermazioni normative riguardanti l’equivalenza o l’identità di significato in traduzione non possono trovare conferma sul piano dei valeurs, vengono difese sul piano delle signification. Dal momento che questo appare però impossibile secondo la logica saussuriana, i teorici di approccio comunicativo sono portati ad adeguarsi alla conduit-metaphor e alla rappresentazione non semiotica della traduzione vista come processo di decodifica e ricodifica. Quindi le rappresentazioni della traduzione come decodifica e ricodifica e le definizioni “comunicative” della traduzione possono essere considerate un tentativo congiunto di razionalizzare particolari concezioni normative della traduzione.
Un testo tradotto che sia la ricodifica (linguistica, culturale e testuale) completa di un prototesto porta l’intero potenziale “messaggio” di quest’ultimo. Il problema dell’impossibilità di operare questa piena equivalenza all’interno della ricodifica non può essere risolto spostando la propria attenzione dalla causa («Fino a che punto entrambi i testi sono completamente equivalenti?”) all’effetto («Fino a che punto entrambi i messaggi sono completamente equivalenti dal punto di vista comunicativo?”). Inoltre, anche se non c’è niente di male nello studiare certi effetti, dobbiamo occuparci del problema pratico: che, cioè, dal punto di vista metodologico, non siamo molto più preparati a studiare questi effetti (i gradi di equivalenza comunicativa) di quanto non lo siamo a studiare i fattori che li determinano (i gradi di equivalenza prototesto-metatesto). Come potrebbero affermazioni[10] riguardanti il valore comunicativo equivalente, l’equivalenza dell’impatto sul lettore e così via essere provate in modo intersoggettivo, senza basarsi su una propria intuizione personale? Anche se è vero che alcuni studiosi hanno sviluppato metodi promettenti per l’analisi empirica di alcuni aspetti di questo problema, a questo livello i gradi di equivalenza tra effetti comunicativi sono probabilmente più difficili da calcolare di quelli tra fenomeni testuali. Il principio di equivalenza dinamica, per esempio, presuppone che la comprensione del METATESTO da parte del “destinatario medio” rifletta «la comprensione vera o presunta” del PROTOTESTO da parte dei destinatari originari (Nida & Taber 1969 23). I problemi che emergono da questa affermazione ingannevolmente semplice, incluso lo status del lettore medio del PROTOTESTO e di quello del METATESTO e il problema di metodi per verificare la comprensione, sono difficili da risolvere. Non c’è da stupirsi che teorie traduttive normative di tipo comunicativo vengano spesso accusate di arbitrarietà. È il caso, per esempio, delle seguenti citazioni:

L’equivalenza dinamica è basata sul principio dell’effetto equivalente, e cioè sul fatto che la relazione tra destinatario e messaggio dovrebbe mirare ad essere uguale alla relazione tra i destinatari originari e il messaggio nell’originale. [Eugene Nida D.D.] cita, quale esempio di questo tipo di equivalenza, la traduzione di “Romani 16:16” di J.B. Phillips dove l’idea di «greeting with a holy kiss” (salutare con un bacio santo) viene resa con «give one another a hearty handshake all round” (darsi una forte e sincera stretta di mano). Con questo esempio di quella che sembra «una traduzione inadeguata e di cattivo gusto” emerge la debolezza dei tipi di equivalenza definiti da Nida in modo impreciso. (Bassnett – McGuire 1980:26)
In assenza di una qualsiasi base oggettiva di valutazione, la reazione del lettore della lingua ricevente non può essere prevista così come non può essere misurata la reazione del lettore della lingua emittente e lo spostamento dell’enfasi dal testo a ipotetici aspetti di ricezione porta a parzialità e distorsione illimitata. (Brotherton s.d.:37).

3.3 Livello intermedio delle norme di traduzione

Ogniqualvolta i traduttori si assumono l’impegno di rendere un testo in una lingua, una cultura e un sistema testuale differenti devono confrontarsi con molti problemi di scelta sia nello scomporre il prototesto, sia nell’operazione trasferimento vero e proprio a di tradurre delle singole unità traduttive. Il risultato di questo processo non è quindi quasi mai in una relazione di perfetta rigorosa equivalenza con il prototesto, così che molte traduzioni piú o meno divergenti di un singolo testo possono coesistere, come spesso accade, all’interno della stessa cultura ricevente. L’importante interrogativo che ora ci interessa è perché sembra che i traduttori usino del tutto questa vasta gamma di strategie traduttive possibili.
Tutte le volte in cui si prendono in esame certi specifici campi dell’attività traduttiva, si è colpiti dalla ricorrenza di certi tipi di comportamento traduttivo, la cui preferenza apparentemente ha la meglio sull’intera gamma di opzoni possibili. Il grado di indeterminatezza che distingue la traduzione dai processi di ricodifica pura e determina la disponibilità di varie strategie di traduzione non sempre si accompagna a una varietà altrettanto ampia di metodi effettivamente utilizzati dai traduttori. Inoltre, questa scelta di metodi di traduzione spesso varia sistematicamente in relazione a determinati parametri socioculturali come il genere letterario del prototesto, il prestigio della cultura emittente, le dimensioni, la stabilità, ecc. della cultura ricevente, e cosí via. Di conseguenza,

sans avoir tous les textes et tous les traducteurs d’une certaine époque, l’historien parviendra même à formuler des règles de prévisibilité: avant d’avoir étudié certains textes particuliers, il sait à quelles options et stratégies il peut s’attendre. (Lambert s.d.: 19)

C’è, in altre parole, una sistematica disparità tra ciò che è teoricamente possibile e ciò che si osserva nelle situazioni socioculturali specifiche. Finora il tentativo più interessante di integrare questo fatto importante in una teoria di traduzione è stato intrapreso da Gideon Toury, il cui concetto chiave di norme di traduzione sembra fornire una risposta adeguata al problema[11].

Una norma è sia una sorta di istruzione concreta, sia un criterio per poi valutare la prestazione. Funge da limite per chi fa parte di una comunità ogniqualvolta vuole svolgere il tipo di attività comportamentale alla quale fa riferimento la norma. Le norme sono basate sul principio del comportamento mimetico o imitativo, poiché esigono che queste attività siano eseguite secondo un determinato modello. Una norma può, ma non necessariamente deve, essere formulata esplicitamente. Le norme occupano infatti un secondo piano terreno intermedio molto ampio tra due estremi:

regole obbiettive, relativamente assolute (in certi domini campi comportamentali, perfino leggi stabili, formulate) da una parte, e tratti idiomorfici completamente soggettivi dall’altra. […] Le norme in sé stesse non occupano solamente un punto della scala, ma una sezione graduata dell’intero continuum. (Toury 1980: 51)

Pertanto le norme possono essere più o meno rigide. Le norme vengono

acquisite – addirittura interiorizzate – dai singoli membri della comunità durante il processo di socializzazione (ibidem).

Questo spiega perché esse ci sia una forte tendenza a negare la propria loro normatività. Per quanto le norme siamo relative e storicamente variabili, coloro che aderiscono a una determinata norma spesso sostengono che il comportamento richiesto corrisponde a una logica naturale o universale e che è l’unico comportamento “ragionevole” possibile.

Da queste caratteristiche sembra che l’esistenza e il funzionamento di una norma possano essere inferiti da vari fenomeni: (i) certe regolarità di comportamento in situazioni in cui ci si sarebbe potuto anche aspettare altri tipi di comportamento; (ii) la valutazione positiva o negativa di concreti casi di comportamento che si conformano o no alla norma; (iii) formulazioni esplicite della norma, come raccomandazioni, obbligazioni, dissuasioni, proibizioni ecc.; (iv) l’alto status canonizzato di certi casi precedenti di comportamento, considerati ottimali e perciò realizzazioni esemplari di una data norma, cosi che possono essere prescritte come modello per successive situazioni operative.

La loro definizione implica che

c’è un punto fermo nel ha senso presupporre l’esistenza di norme solo in quelle situazioni che in teoria permettono più varianti di comportamento. (Toury 1980: 51)

La traduzione interlinguistica risulta proprio un’attività comportamentale nella quale si dimostrano possibili varie linee di azione, cosicché le norme di traduzione possono essere considerate limiti che guidano i traduttori nella scelta di metodi di traduzione “adatti” tra una gamma di opzioni disponibili. L’articolo di Toury The nature anad role of norms in literary translation (1980: 51-63) offre una visione chiara dei vari livelli ai quali possono essere operative le norme di traduzione. Consentitemi di ricordare brevemente che quelle che Toury chiama norme preliminari sono quelle che governano proprio la selezione delle opere (autori, generi letterari, scuole ecc.) e anche quelle che riguardano la tolleranza per forme di traduzione indiretta o di seconda mano. Le norme operative di Toury sono i limiti che guidano le decisioni durante il processo di traduzione vero e proprio. La cosiddetta norma iniziale determina il concetto generale della traduzione; questa opzione globale per un certo tipo di traduzione serve da punto di riferimento generale per decisioni operative più specifiche. Questa norma iniziale è

un mezzo utile per indicare la scelta di base del traduttore tra due alternative opposte […]: si sottomette o al prototesto con i suoi nessi testuali e le norme da esso espresse e in esso contenute, o alle norme linguistiche e letterarie attive nella lingua ricevente e nel polisistema letterario ricevente, o in una sua parte. (Toury 1980:54)

L’adesione al primo tipo di norma iniziale risulta nella determina la produzione di traduzioni adeguate (o source-oriented). Anche se c’è una buona probabilità che tali traduzioni non rispondano alle aspettative testuali standard dei lettori del metatesto, le traduzioni del secondo tipo sono dette accettabili (o target-oriented) proprio per il loro impegno ad andare incontro il più possibile alle aspettative dei lettori modello. Nella terminologia precedentemente utilizzata in questo primo capitolo, le traduzioni di tipo adeguato si sforzerebbero di rendere in modo completo l’intera organizzazione semantica del prototesto, comprese le sue gerarchie sinfunzionali; metodi omologici verrebbero adottati per segni culturali e testuali del prototesto; linguisticamente. sarebbero da preferire analoghi a costo dei necessari cambiamenti dettati dalla norma. Le traduzioni di tipo accettabile invece mostrerebbero una preferenza complessiva per gli analoghi a tutti i livelli, senza fare a meno di analoghi poco equivalenti, aggiunte, eliminazioni.
In conseguenza dell’introduzione del concetto di norma, la traduttologia dovrà d’ora in avanti tenere conto di tre livelli sui quali possono essere instaurati i rapporti traduttivi tra prototesto e metatesto (Toury 1980): (i) a livello di competenza traduttiva teorica si può considerare tutta una gamma di relazioni possibili tra prototesto e i molti metatesti potenziali; (ii) a livello delle norme di traduzione vengono postulati alcuni di questi potenziali rapporti prototesto-metatesti come costituenti una vera equivalenza traduttiva, mentre altri vengono respinti a priori come soluzioni di traduzione non valide; (iii) a livello empirico di prestazione traduttiva lo studioso può intuire quali tipi di rapporti traduttivi sono stati effettivamente stabiliti dai traduttori.
Ogni modello teorico per la descrizione o la creazione di potenziali rapporti di equivalenza dovrà essere davvero molto comprensivo, un modello per rapporti intertestuali in generale, in quanto le distinzioni tra traduzioni, adattamenti ecc. non possono essere definite in anticipo. Come quelli del secondo gruppo, i rapporti nel terzo gruppo costituiranno necessariamente un sottoinsieme di questo primo gruppo di tutti i rapporti possibili. Se la gamma delle relazioni effettive si sovrapponga significativamente a quella delle relazioni richieste è un’altra questione. Dovremmo ricordare che una norma può essere più o meno rigida, che i traduttori possono decidere di non rispettare le norme esistenti, che possono nascere sistemi di norme alternativi e causare conflitti e così via. Una caratteristica decisiva delle norme di traduzione – anzi, di ogni norma – è proprio il fatto che non operano in un vuoto eterno, aculturale. Come tutte le norme, le norme di traduzione sono relative e storiche. Sono legate gerarchicamente alle altre norme che regolano il comportamento umano in campi di attività affini o più ampi, e possono perfino coesistere con altre norme all’interno dello stesso campo di attività. Nell’ultimo caso le due norme potrebbero essere in concorrenza, e qualsiasi delle due potrebbe finire per avere il sopravvento e diventare dominante; le trasgressioni di una norma potrebbero venire copiate e portare infine allo sviluppo di una norma alternativa, e così via.

Attualmente è accettata da molti l’idea secondo la quale le norme traduttive sono in correlazione con altre serie di norme all’interno della lingua, della cultura e del sistema testuale ricevente. Dobbiamo molto della comprensione di questi meccanismi al cosiddetto paradigma dei polisistemi nello studio della letteratura e della traduzione, dove svolgono un ruolo di rilievo. Secondo alcuni teorici del polisistema quali Even-Zohar, Toury, Lambert, Lefevere e molti altri, il modo più efficace per studiare letterature, lingue e culture (in breve, i diversi modelli del comportamento umano governati da segni) è quello di pensarli come polisistemi, vale a dire come sistemi di sistemi. Infatti, questi studiosi hanno sviluppato alcuni concetti che si rifanno ai tardi formalisti russi e agli strutturalisti di Praga, che riconoscono come loro padri spirituali. La teoria del polisistema si propone enfaticamente come un aggregato d’ipotesi che mira fondamentalmente a promuovere la ricerca descrittiva. Si distingue da molte altre forme di strutturalismo poiché sostituisce qualunque concetto di struttura staticamente sincronico, astorico e omogeneo, con un concetto eterogeneo e più dinamico. Fenomeni culturali come la letteratura non vengono studiati in termini di un’unica rete chiusa di relazioni (che giustificherebbe difficilmente la diacronia dei fatti letterari), bensì come insiemi complessi di molteplici reti di relazioni. Ipotizzando la coesistenza di molti sistemi di questo tipo, che implica una molteplicità d’intersezioni tra sistemi e quindi una molteplicità di conflitti e lotte per il dominio, il culturologo può rendere giustizia sia al carattere strutturale e organizzato della cultura, sia all’eterogeneità e alla diacronia di questa. Allo stesso modo, lo sviluppo della teoria del polisistema può essere interpretato come un tentativo di superamento del divario precedentemente incolmabile, nello studio della letteratura, tra l’impostazione teorica e quella storica.
Un profilo più dettagliato del pensiero polisistemico riguardo a letteratura e cultura ci porterebbe troppo lontano, ma è necessario dire alcune parole sulla possibile posizione e funzione dei testi tradotti all’interno del polisistema culturale o, piuttosto, – dato che questo è l’ambito in cui sono state condotte la maggior parte delle ricerche – all’interno dei polisistemi letterari. Come si correlano le norme traduttive con le altre norme che formano la complessa struttura del sistema letterario ricevente? Ne risulta che le traduzioni sono oggetti di studio privilegiati perché spesso forniscono ai culturologi accesso diretto al cuore dei meccanismi evolutivi della cultura, favorendo l’analisi sia della dinamica interna sia delle diverse relazioni intersistemiche del sistema letterario ricevente. Come faceva notare Even-Zohar, nella traduzione le prime due norme basilari corrisponderanno nella maggior parte dei casi a due specifiche serie di condizioni sistemiche:
(i) i testi tradotti hanno l’obiettivo di determinare un cambiamento nel centro dominante di un (sotto)sistema letterario:
dato che l’azione traduttiva, nel momento in cui assume una posizione primaria, partecipa al processo di creazione di nuovi modelli, la preoccupazione più grande del traduttore non è di trovare modelli preconfezionati nel suo “bagaglio culturale”, nel quale i testi originali potrebbero essere trasferiti; al contrario, il traduttore è pronto a violare le convenzioni locali. Con tali premesse, le possibilità che una traduzione sia vicina all’originale in termini di adeguatezza (in altre parole, una riproduzione delle relazioni testuali dominanti dell’originale) sono molto più numerose. (Even-Zohar 1978: 124-125)

(ii) i testi tradotti non svolgono una funzione primaria (innovativa), bensì una funzione secondaria (conservatrice) rispetto al centro dominante del (sotto)sistema letterario:
poiché lo sforzo maggiore del traduttore è di concentrarsi per trovare i migliori modelli preconfezionati per il testo estraneo, il risultato è spesso una traduzione non adeguata o (come preferisco dire) una più grande discrepanza tra l’equivalenza raggiunta e l’adeguatezza postulata (Even-Zohar 1978: 125).

3.4 Riconsiderare lo schema comunicativo
3.4.1 L’introduzione del concetto intermedio di norma traduttiva ha conseguenze di vasta portata. Se la traduzione è un processo decisionale, i vincoli che influenzano tali decisioni non comprendono solo fattori più o meno accidentali o soggettivi (gusto personale, competenza linguistica, condizioni lavorative ecc.) e fattori più o meno oggettivi (censura, disponibilità di strumenti per il traduttore, restrizioni dettate dal codice ecc). Dobbiamo anche tener conto dell’effetto dei vincoli intersoggettivi che sono direttamente collegati alla posizione prospettiva o alla funzione del Metatesto all’interno del sistema ricevente e che sono estranei al Prototesto e alla situazione comunicativa nel quale è nato e funzionava. Inoltre, tale interferenza è attiva ad ogni stadio del complesso processo semiotico che porta alla produzione di traduzioni: dalla decisione iniziale di eseguire traduzioni, attraverso la selezione dei prototesti e la possibilità di rifiutarsi o meno di usare determinati testi intermedi, fino alle vere e proprie procedure di scomposizione e trasferimento.
Queste considerazioni sollevano seri dubbi sulla validità non solo della immagine di ricodifica pura quale adeguata rappresentazione del processo traduttivo – se ce ne fosse ancora bisogno –, ma anche dell’intero schema comunicativo doppio, o per lo meno dei presupposti su cui poggia. Secondo lo schema comunicativo doppio: (i) l’atto comunicativo nella traduzione avviene davvero tra il Mittente del Prototesto e il Destinatario del metatesto, ma per alcuni motivi pratici è stato poi suddiviso in due fasi con l’introduzione del traduttore come intermediario, (ii) l’unica funzione, benché riconosciuta difficile, del traduttore è di agire in qualità di trasformatore di messaggi; (iii) i cambiamenti traduttivi tra il Prototesto e il Metatesto sono di norma accidentali e possono essere spiegati in modo soddisfacente come “rumore”. (A sostegno di ciò, si sostiene che la comunicazione ideale senza “rumore” sia rara persino in situazioni monolingui.)
Tali presupposti sono a volte nascosti, ma trovano anche una formulazione esplicita, per esempio in alcune teorie semiotiche formalizzate della traduzione. La seguente citazione ne è un esempio significativo:
L’obiettivo cibernetico del processo è creare le condizioni neces­sa­rie per raggiungere, in situazioni bilingui, lo stesso obiettivo della co­mu­ni­cazio­ne monolingue, cioè la trasmissione di informazio­ni co­stanti. (Ludskanov 1975: 6)

Ovviamente, interpretazioni di questo genere sottovalutano radicalmente fino a che punto le considerazioni attinenti esclusivamente alla fase ricevente dello schema comunicativo doppio (che è dopotutto la fase in cui nasce realmente il metatesto!) influiscano sull’intero processo di trasferimento. In altre parole, il carattere unidirezionale del doppio modello comunicativo preclude ingiustamente il riconoscimento dei principali effetti retroattivi esercitati dai fattori della fase finale proprio sulla fase iniziale e sulla fase di trasferimento dell’intero processo. In modo molto radicale, Gideon Toury ha tratto questa conclusione:
Parlando in termini semiotici, è chiaro che è la cultura ricevente, o una sua parte, a svolgere il ruolo scatenante della decisione di tradurre e del processo traduttivo. La traduzione quale attività teleologica per eccellenza è in gran parte condizionata dagli obiettivi che si prefigge, e questi obiettivi vengono fissati nella e dalla prospettiva del/i sistema/i ricevente. Ne consegue che i traduttori operano innanzitutto nell’interesse della cultura verso la quale traducono, e non nell’interesse del testo originale, per non parlare della cultura originale. […] Le traduzioni sono parte di un solo sistema: il sistema ricevente. (Toury 1985: 18-19)

Il doppio modello comunicativo può ancora essere utile come mezzo per studiare comodamente tutti i fattori implicati nella comunicazione traduttiva, ma le sue lacune emergeranno subito non appena si proporrà come icona dei veri processi tradottivi: tende a oscurare la vera natura semiotica della traduzione.

3.5 Studi sulla traduzione
Come ha illustrato Jiři Levý (1967), la teoria matematica dei giochi contiene diverse categorie che potrebbero rivelarsi utili per una descrizione formale di processi decisionali quali la traduzione. Fra le altre cose Levý introduce i concetti di «istruzione definizionale» (ossia un’istruzione che definisce il paradigma sulla base del quale il traduttore deve fare la sua scelta) e di «istruzione selettiva» (ossia un’istruzione che governa l’effettiva selezione del traduttore tra le possibili alternative secondo certi criteri). Ciascuna istruzione selettiva può a sua volta definire un nuovo paradigma, vale a dire un sottoinsieme del precedente insieme di alternative, e diventare quindi l’istruzione definizionale di questo sottoinsieme, e così via, fino a che il processo di selezione non si conclude con un paradigma di un solo membro. Un principio alla base del modello di Levý è che l’analisi dei processi decisionali comprenda necessariamente anche la ricostruzione del paradigma sulla base del quale il traduttore dovrà fare o avrà fatto le sue scelte.
A pensarci, la rappresentazione di Levý rivela una certa somiglianza con la rappresentazione dei rapporti traduttivi a tre livelli di Gideon Toury. Il livello dei rapporti potenziali indica l’insieme dei possibili equivalenti traduttivi; è a questo livello, si potrebbe dire, che opera l’istruzione definizionale di Levý. Il resto del processo traduttivo, che porta infine a un paradigma di un solo membro, è governato da varie restrizioni tra le quali sono particolarmente rilevanti le norme traduttive. Abbiamo visto come Toury affermi che ha senso presupporre l’esistenza di norme solo in quelle situazioni che in teoria permettono più varianti di comportamento. È proprio il ruolo delle norme quello di fornire istruzioni riguardo al tipo di comportamento da preferire in determinate circostanze: le norme hanno, per definizione, carattere selettivo. Quindi, non sono del tutto diverse dall’istruzione selettiva di Levý in quanto le une e l’altra governano la selezione di un sottoinsieme a partire da insiemi più grandi di possibili traduzioni.
Ma non c’è alcun bisogno di insistere oltre il tollerabile sulla somiglianza fra le rappresentazioni di Levý e di Toury. Il solo scopo di questo confronto è di sottolineare la necessità di elaborare in questa disciplina una componente teorica a cui attribuire le seguenti funzioni: (i) l’ipotetica ricostruzione del paradigma contenente i diversi tipi di rapporto possibili tra prototesto e metatesto, dato un certo prototesto, e dell’insieme dei codici usati nel protosistema e nel metasistema; si tratta, cioè, di una ricerca di tutti i possibili tipi e gradi di equivalenza; (ii) l’ipotetica previsione dei modi in cui questa varietà di tipi di equivalenza prototesto-metatesto è in relazione ai vari tipi di norme traduttive e condizioni del sistema.
Vorrei sottolineare l’importanza di questo punto poiché vorrei che proprio su tale aspetto si concentri una futura correzione nell’ambito della traduttologia descrittiva. A causa del maggior rilievo conferito alle norme e all’esecuzione, questo approccio alla scienza della traduzione ha ampiamente trascurato la materia teorica di cui ho appena parlato, in particolare quella indicata al punto (i). Storicamente, questo relativo disinteresse per il livello teorico è del tutto comprensibile, come conseguenza, cioè, della consueta associazione della teoria della traduzione con gli approcci normativi, rivolti al prototesto, speculativi o strettamente linguistici le cui riduzioni erano state proprio d’incentivo al cambiamento di paradigma. Inoltre, l’impeto antitetico che stava dietro il cambiamento di paradigma ha avuto effetti molto positivi, soprattutto perché ha ristabilito un contatto tra lo studioso e i fatti empirici promuovendo lo studio degli effettivi rapporti prototesto-metatesto e dei concetti normativi che li governano. Ora, però, sembra che sia giunto il momento per la traduttologia descrittiva di superare il suo scetticismo rispetto alla teoria della traduzione e di riaprire o intensificare il dialogo con la linguistica, la semiotica, la filosofia del linguaggio, le varie discipline contrastive ecc. Uno dei compiti che deve affrontare è quello di riciclare il lavoro teorico fatto in precedenza in questo campo, gran parte del quale può rivelarsi di grande aiuto,
anzitutto per via di un lungo e tradizionale interesse per questioni di “equivalenza” versus “corrispondenza formale” […] Deve ancora liberarsi, comunque, dei pregiudizi prescrittivi insiti nella maggior parte degli approcci a tali questioni. L’elemento prescrittivo può infine trovare una sua collocazione nelle estensioni applicate di questa disciplina[30].

In effetti, parecchi segnali sia all’interno sia al di fuori della scienza descrittiva della traduzione indicano che questi futuri sviluppi sono già stati avviati. La mia analisi del problema specifico della traduzione del gioco di parole vuole essere un modesto contributo a questa tendenza. Si compone di due parti. Per prima cosa tratterò il problema teorico dei rapporti potenziali: quali sono le possibili tecniche di traduzione dei giochi di parole, ci sono restrizioni a queste possibilità? Tali argomenti sono affrontati nel terzo capitolo. Il modello provvisorio di competenza così ottenuto dovrebbe quindi permettermi di descrivere con maggior precisione come alcuni traduttori di Shakespeare abbiano, di fatto, superato i giochi di parole del prototesto e quali siano stati le norme e i modelli che hanno governato il loro comportamento. Il resoconto delle mie scoperte è nel capitolo quattro.
Ma prima di tutto è necessario un ulteriore capitolo introduttivo in cui indicherò esattamente quale gamma di fenomeni venga compresa nella definizione di gioco di parole.

La pubblicazione di questo testo nel sito avviene con il gentile permesso dell’autore e della casa editrice Rodopi. Per qualsiasi informazione circa l’acquisto del volume in inglese, rivolgersi a http://www.rodopi.nl/functions/search.asp?BookId=ATS+11.

[1] La distinzione tra cambiamenti traduttivi obbligatori e facoltativi, tema fondamentale nel lavoro di studiosi come Van den Broeck o Toury (vedi Vanderauwera 1985, p. 34-35), è un caso eclatante. Mentre i cambiamenti obbligatori, detti anche cambiamenti dettati dalle regole, vengono imposti al traduttore dalle particolari proprietà strutturali del metacodice, i cambiamenti facoltativi o dettati dalle norme sono dovuti a vincoli meno rigidi, come le preferenze personali, le convenzioni stilistiche, le norme traduttive e così via. I cambiamenti dettati dalle regole sono identificabili come categoria speciale in quanto caratterizzabili come alternativa alla copia omologica diretta, formale degli elementi linguistici del protocodice.
[2] Naturalmente gli omologhi sono sempre a portata di mano.
[3] Lefevere 1975, p. 100.
[4] Tytler 1978: 265
[5] Tradotto nella prima versione italiana del 1974 come Quando dire è fare, ed in maniera più letterale in una versione del 1987: Come fare cose con le parole.
[6] Nella traduzione italiana Einaudi «cofunzione». NdT
[7] Non bisogna tradurre parole, ma concetti, non sintagmi ma idee, non frasi ma dimostrazioni, argomentazioni, etc. (Pergnier, 1976)
[8] Tutte le citazioni provengono da testi sulla traduzione; non è ben chiaro se la distinzione tra questi tre tipi, che sono costrutti ad opera di teorici della traduzione, abbiano in realtà valore
[9] Il problema nel tradurre è il problema di rendere lo stesso significato con diversi mezzi linguistici, quindi non tanto «Come si dice questa o quella parola in questa lingua?» ma piuttosto «Nella stessa situazione, come verrebbe espresso lo stesso fatto o la stessa cosa in un’altra lingua?» (Coseriu, 1978)
[10] Ho avuto un po’ di problemi a tradurre questa frase. In particolar modo ho avuto problemi con la parola “claims”. Alla fine mi sono decisa per il significato dato dal Webster’s Collegiate Dictionary che dice: “An assertion open to challenge” e l’ho quindi tradotta con “affermazione”
[11] Le mie osservazioni sulle nrome sono perlopiù basate su Toury 1980 51-62; si veda anche Hermans 1991.

[1] (Cherry 1978, p.8)
[2] (es. Schmitz 1980)
[3] (es. Kurz 1976)
[4] (Lackoff & Johnson 1980)
[5] (Reddy 1979)
[6] (1982 : 62)
[7] (Hermans 1985 a : 120)
[8] (Ledere 1973: 25).
[9] (Jacques Derrida, citato in Van den Broeck 1988a: 272)
[10] (Wilss 1982: 137)
[11] (Levý 1967 : 1176; Toury 1980 : 13 : etc)
[12] (1980: 11-18)
[13] Toury 1980:13
[14] Vedi anche Toury 1980:13
[15] Levý 1967:1171
[16] Van den Broeck & Lefevere 1984: 77-82
[17] Catford 1965, p. 27.
[18] Nida e Taber 1962, p. 203.
[19] Guiraud 1975, p. 90.
[20] Fokkema 1985, p. 649.
[21] Per esempio 1976, p. 127-131.
[22] Culler 1976, p. 105.
[23] (Wertheimer 1974: 43)
[24] (Lambert 1983a).
[25] (Lotman 1976: 20).
[26] Levý 1969, p. 39.
[27] (Popovič 1970: 84)
[28] Van den Broeck 1984/1985: 132-134.
[29] Siskin 1987: 131-132.
[30] Toury 1985: 34-35.

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