Doris Bachmann: the anthropology of translation

Doris Bachmann: the anthropology of translation

 

MARTA GALLI

 

 

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18  20151 MILANO

 

 

Relatore: Professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Luglio 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Marta Galli 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se non tutti i traduttori si affidano alla teoria,

ciò non significa che questa sia inutile.

 Il traduttore creativo l’accoglie

perché se ne sente arricchito

e aiutato in modo affidabile.

Popovič

 

 

ABSTRACT

Dall’articolo della Bachmann, introdotto da Rubel e Rosman, si evince la stretta interrelazione che esiste tra antropologia e traduzione. Ciò non viene analizzato dalla comparatistica secondo cui la traduzione è un prodotto letterario messo a confronto con altri testi letterari, bensì in un’ottica etnografica che analizza le scelte dell’autore-traduttore come membro di una società la cui funzione è quella di intermediare tra culture. La traduzione contribuisce all’evoluzione e all’arricchimento delle culture, di pari passo con l’antropologia. Tuttavia, soprattutto durante il periodo delle colonizzazioni, la questione culturale rimane spesso nascosta in funzione dell’affermazione del potere egemonico. Né l’addomesticamento, né l’estraniazione sono possibili. Il primo implica il quasi totale annullamento della cultura emittente, mentre la seconda sfavorisce la comprensione dell’altrui nella cultura ricevente. È necessario trovare un punto di equilibrio affinché avvenga un reale scambio e arricchimento di saperi. La tesi percorre alcune tappe storiche che hanno contribuito alla formazione della moderna teoria della traduzione.

 

ENGLISH ABSTRACT

Bachmann’s article, introduced by Rubel and Rosman, shows the close relationship that exists between anthropology and translation. This is not analyzed by the comparative as being a literary product compared to other literary texts, but on an ethnographic basis that analyzes the choices of the author-translator as a member of a society whose function is to mediate between cultures. Translation contributes to the evolution and enrichment of cultures, alongside anthropology. However, especially during the period of colonization, the cultural question often remains hidden because of the affirmation of hegemonic power. Neither domestication, nor foreignization are possible. The first implies the almost total annihilation of the source culture, while the second hinders the understanding of the other among the target culture. It is necessary to find a balance which allows a real exchange of knowledge and cultural enrichment. This paper covers some historical milestones that contributed to the formation of the modern theory of translation.

 

DEUTSCHE ZUSAMMENFASSUNG

Der Artikel von Bachmann, den Rubel und Rosman vorgestellt haben, zeigt die enge Beziehung zwischen Anthropologie und Übersetzung. Er analysiert nicht die Komparatistik, nach der die Übersetzung ein literarisches Produkt, entstanden aus dem Vergleich mit anderen literarischen Texten, ist, sondern er behandelt die ethnographische Sicht, welche die Entscheidungen des Autor-Übersetzers als Mitglied einer Gesellschaft analysiert, deren Funktion es ist, Vermittler zwischen Kulturen zu sein. Die Übersetzung trägt, zusammen mit der Anthropologie, zur Entwicklung und Bereicherung der Kulturen bei. Allerdings bleibt, vor allem während der Zeit der Kolonisation, die kulturelle Funktion wegen der Bestätigung der hegemonialen Macht, im Verborgenen. Weder die Adaption noch die Entfremdung sind möglich. Ersteres hat die fast völlige Vernichtung der Ausgangskultur zur Folge, während die Entfremdung das Verständnis anderer Menschen in der Zielkultur erschwert. Man muss ein Gleichgewicht finden, das einen echten Austausch von Wissen und Kulturbereicherung ermöglicht. Die Arbeit verfolgt einige historische Etappen​​, die zur Bildung der modernen Theorie der Übersetzung beigetragen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sommario

 

1. Introduzione ………………………………………………………………………………………………..…6

2. La poliedricità della traduzione……………………………………………………………………….7

2.1 Le prime teorie……………………………………………………………………………………………..9

2.2 Traduzione: fusione tra due culture con Boas e Malinowsky…………………………10

2.3 Nida e la traduzione biblica……………..……………………………………………………………12

2.4 Venuti: riformulando la traduzione………………………………………………………….……14

2.5 Gli ultimi trent’anni del XXI secolo………………..………………………………………………18

2.6 Decostruzione e Derrida…………………………………………………………………………….…20

2.7 Traduzione postcoloniale…………………………………………………………………………….21

2.8 Riferimenti bibliografici………………………………………………………………………………..26

3. Traduzione con testo a fronte…………………………………………………………….………….28

 

 

 

 

 

 

 

  1. 1.    Introduzione

L’articolo della Bachmann è un articolo di analisi antropologica, ma ci pone davanti a un quesito estremamente interessante, soprattutto per gli studiosi di traduzione. Leggendo l’articolo risulta chiaro come le due discipline si fondono in un’analisi congiunta, con l’obbiettivo principale di descrivere una nuova cultura e di diffonderla. Nel suo articolo vengono spesso citati personaggi che hanno contribuito all’evoluzione della teoria della traduzione.

Partendo da questi spunti storici, la tesi vuole essere un supporto all’articolo della Bachmann che possa servire sia agli studiosi di antropologia, sia agli studiosi di traduzione.

Nell’immenso panorama degli studi sulla traduzione, ci dedicheremo solo ad alcuni dei personaggi citati nell’articolo. Si tratta di personaggi che durante l’ultimo trentennio hanno indagato la scienza della traduzione con l’obbiettivo di formulare una teoria della traduzione, di cui si sentiva la necessità. Trattandosi però di una teoria la cui formazione si è solidificata sostanzialmente nel decennio del 1990, la traduzione rimane costantemente aperta a nuovi e svariati contributi teorici.

Definendo la teoria della traduzione inserendola in un panorama storico viene creata una coscienza in tutti coloro che lavorano con la traduzione, la letteratura e la critica della traduzione e soprattutto nei lettori che potranno ricevere un lavoro, un testo, un romanzo tradotto in modo più consapevole:

La traduttologia si sviluppa in modo squilibrato, le interrelazioni tra storia, critica e teoria della traduzione sono sproporzionate. […] la letteratura tradotta viene recepita in modo generico, non si percepiscono le specificità del testo tradotto. (Torop 1995:32)

 

 

 

  1. 2.    La poliedricità della traduzione

Lo studio dell’uomo è uno studio complesso e affascinante. Si tratta di un soggetto che può e dev’esser studiato nella sua totalità: oltre alle sue caratteristiche fisiche, genetiche, le caratteristiche comportamentali sono essenziali. Dobbiamo sapere e saper riconoscere come l’uomo si comporta da solo, in gruppo, quali sono le decisioni che prende se influenzato da altri comportamenti oppure se lasciato agire indipendentemente.

Una delle principali necessità dell’uomo è comunicare. Basta pensare alle incisioni rupestri dei tempi preistorici; indirettamente, si trattava di una forma di trasmettere a altri gruppi indigeni al principio e successivamente anche ai posteri ciò che veniva fatto quotidianamente. Si trattava di messaggi scritti anche se non immediatamente comprensibili per l’uomo moderno. D’altra parte si tratta di una cultura antichissima, dagli usi e costumi completamente diversi da quelli attuali, ma che sono stati debitamente tradotti e che sono diventati patrimonio storico.

Il passaggio dalla pietra scalpita al papiro e poi alla carta prima scritta manualmente e dopo attraverso la stampa, è stato un processo lungo e soddisfacente. Un processo che ci permette di accedere ad una quantità quasi infinita di informazioni. Tuttavia queste informazioni dipendono dalle culture di appartenenza, che producono determinati testi e evidenziano gli aspetti principali della loro cultura: chi nutre interesse verso quella cultura potrà più facilmente accedere al materiale. Questo nostro interesse non implica che noi conosciamo tutti gli aspetti di quella determinata cultura. Il fatto, per esempio, che consideriamo le incisioni rupestri affascinanti, non significa che ne sappiamo tradurre tutti i significati. Abbiamo bisogno di intermediari. Quando si tratta di intermediare tra due lingue diverse e implicitamente due culture diverse, la figura alla quale dovremmo far riferimento è quella del traduttore, che sarà anche un po’ antropologo nella sua funzione di studio della cultura di riferimento della lingua in esame. Non basta conoscere una lingua per dirsi traduttori; è essenziale conoscere la cultura in questione. Tuttavia non è sempre così. Inoltre non finisce qui. È essenziale che si conosca la scienza che ci permetterà di realizzare appieno il processo traduttivo. La traduzione è infatti una vera e propria scienza, che si basa sia sulla pratica, ma anche e soprattutto sulla teoria che deriva da un lungo processo storico. La traduzione è una scienza interdisciplinare, legata ad altre discipline di studio, come la linguistica, la semiotica, la letteratura, la storia in generale (sappiamo che gli avvenimenti storici influenzano direttamente l’andamento di altri eventi e avvenimenti: nuovi momenti portano a nuove scoperte), l’arte.

La poliedricità della storia della traduzione è legata al fatto che, pur essendo una disciplina a sé stante, è tuttavia inscindibile dalla storia della filosofia, dalla storia della semiotica, dalla storia della psicologia, dagli sviluppi della linguistica, dalla testologia, dai cultural studies e da altre discipline affini (Osimo 2003: 1). Come ogni cosa però, prima di arrivare ai risultati finali si vive un processo di idee, supposizioni, confermazione delle supposizioni, diffusione e consolidamento delle idee. Lo stesso avviene con la traduzione che andava di pari passo con l’antropologia, ossia lo studio di una cultura o di culture diverse dalla propria. Ci si rese conto che la traduzione permetteva di avere una visione più ampia delle culture prese in esame. In particolar modo quando venne scoperto il “Nuovo Mondo” e di conseguenza gli esploratori si imbattevano in estranei, parlanti una lingua sconosciuta e senza possibilità di comunicazione. Sorgono così traduttori e interpreti che, attraverso lo studio delle lingue franche e dei pidgin, veicolano il nuovo universo scoperto dagli Europei e costituiscono un ponte di comunicazione tra la cultura nuova e l’Europeo e viceversa. Si tratta però di un processo duraturo e molto più complesso e dettagliato di quanto sembri.

Procediamo con ordine. Se consideriamo Peirce e la semiotica, possiamo dire che «ogni cosa può essere compresa o più rigorosamente tradotta da qualcosa: ossia ha qualcosa capace di una tale determinazione da stare per qualcosa attraverso questa cosa […]» (Peirce in Osimo 2002: 67). Analizzando questo concetto, non si hanno dubbi sul fatto che la traduzione sia sempre esistita, visto che ogni processo si compone di una azione, interpretazione e reazione. In questo senso tutti i processi sono degni di significazione e sono definibili come processi traduttivi.

Quando esattamente la storia della traduzione comincia ad essere studiata? Quando, insomma, sorgono le prime indagini sull’universo della traduzione?

 

2.1 Le prime teorie

È difficile definire una data precisa in cui nacque la scienza o teoria della traduzione. Possiamo però vedere che fin dall’antichità vennero elaborati dei concetti legati al panorama traduttivo, direttamente o indirettamente.

Platone ad esempio, nel 360 a.C., si interroga sul rapporto tra segni linguistici intesi come parole e oggetti. Si chiedeva quale fosse la vera origine del processo di significazione degli oggetti.

Un altro grande filosofo, Socrate, giunge alla conclusione che i segni, ovvero le parole, assomigliano agli oggetti che rappresentano, oggetti questi non statici, ma dinamici allo stesso modo del mondo in movimento. Nelle sue ricerche, Aristotele rivela che «ogni parola deve essere intelligibile e indicare qualcosa, e non molte cose ma solo una, e se significa più di una cosa, deve essere messo in chiaro a quale di queste la parola è applicata nel caso specifico» (Aristotele in Osimo 2002:12). E poi via via con molti altri contribuiti dai greci filosofi, oratori, agli umanisti, ai semiotici, agli psicologi.

Due grandi autori il cui pensiero è fondamentale anche per la teoria della traduzione sono Peirce e Freud, che nonostante fossero di due aree diverse, quelle della logica e della psicologia, contribuirono in modo determinante al processo di formazione della scienza della traduzione.

La traduzione è un vero e proprio sapere che rende possibile la comunicazione non solo tra due persone di due lingue diverse, ma soprattutto tra due culture diverse. Si tratta di un ponte tra due mondi, ma anche di un mezzo di diffusione di una cultura straniera e dei modi di agire e pensare dei componenti di questa cultura. Ma da quale punto di vista vengono tradotti i testi, dal punto di vista del testo originale o del testo tradotto? Come avviene il processo traduttivo? Su quali basi teoriche si sostiene? La storia ha dimostrato che le teorie sviluppatesi nel corso dei secoli si sono integrate tra di loro con il passar del tempo, completandosi e arricchendosi reciprocamente. Prima di dedicarci a questo percorso storico, soffermiamoci sul rapporto tra antropologia e traduzione, tema dell’articolo di Doris Bachmann preso in esame.

 

2.2 Traduzione: fusione tra due culture con Boas e Malinowki

La traduzione è una scienza interdisciplinare. Da questo punto di vista è normale che abbia un ruolo fondamentale nella ricerca antropologica, nonostante al suo interno non sia sempre stata analizzata approfonditamente.

L’obiettivo dell’antropologia è raccogliere dati e indagare manifestazioni comportamentali e culturali dei gruppi presi in esame. E come è possibile veicolare questa conoscenza se non attraverso uno studio attento e un’immersione totale nella nuova realtà? Non riesco ad immaginare altro modo, se non attraverso l’aiuto di traduttori specializzati. Si trattava però di popoli appena scoperti e era quasi impossibile che già esistessero dei traduttori pronti ad accogliere i nuovi colonizzatori o viaggiatori. Ecco che vengono create delle lingue franche e pidgin. Chi le imparava, diventava traduttore e interprete di quella cultura. Importante per quest’epoca non era lo studio della scienza traduttiva utilizzata, bensì delle informazioni che si potevano raccogliere sulla cultura del gruppo e sui modelli evolutivi al suo interno. Non era importante sapere come queste informazioni venissero raccolte o catalogate, quali fossero i processi per i quali si passava prima di giungere ad una osservazione compiuta. L’importante era raccogliere l’informazione e diffonderla, in modo che i colonizzatori venissero a conoscenza del comportamento dei colonizzati.

Prima di Boas, le ricerche condotte in Asia, America, Africa, avevano carattere descrittivo, potremmo dire quantitativo: si analizzavano singoli aspetti comportamentali per giungere a una generalizzazione del fenomeno rilevato nella cultura, attraverso una comparazione dei dati acquisiti osservando. Con Boas si comincia ad analizzare l’aspetto culturale e non solo quello evolutivo: ogni gruppo sociale è infatti caratterizzato da una cultura propria, intrinseca. Boas sente la necessità di esaminare più approfonditamente la cultura e in particolar modo gli aspetti linguistici dei nuovi popoli. Mandando i suoi studenti a una analisi di campo specifica per registrare informazioni di carattere linguistico, Boas si rende conto che le nuove lingue sono strutturate diversamente dal punto di vista grammaticale. Tra questi allievi di Boas, alcuni si orientano verso l’etnolinguistica sostenendo che le lingue, indipendentemente dalle loro strutture grammaticali e lessicali, comunicano la visione del mondo dei suoi parlanti.

Malinowski è uno di quelli che si rendono conto dell’imprecisione delle lingue franche e dell’inglese pidgin usati per raccogliere informazioni. Si rende conto della necessità di parlare la lingua in esame per fornire informazioni che siano precise e dettagliate. Molti altri accolgono l’idea di Malinowski che deriva dalla necessità di parlare la lingua indigena immergendosi nella cultura scoperta e facendo intensi lavori di raccolta dati sul campo. Tuttavia non si sente ancora la necessità di indagare l’importanza della traduzione all’interno del lavoro degli antropologi.

Quella della traduzione e interpretazione della cultura indigena non è una questione da sottovalutare, tutt’altro: come si può scrivere o rappresentare una cultura in un linguaggio che conosciamo, senza alterare ciò che dev’esser rappresentato (che per noi è estraneo)? Come si può ricorrere a determinati comportamenti senza ricorrere alle nostre conoscenze soggettive, al nostro mondo? Secondo Niranjana, studioso della teoria della traduzione postcoloniale, ciò che era effettivamente rilevante non era tanto la scelta di un modo di traduzione fluente o esotizzante, usando le parole di Venuti, bensì era necessario investigare tutta la problematica legata al proprio modo di interpretare il testo.

L’importanza della traduzione è dovuta al fatto di non ritrarre un “Altro” astratto, esotico, bensì introdurre ciò che è straniero in un contesto storico preciso con lo scopo ultimo di mostrare le vere differenze culturali esistenti. Di questo si occupa Spivak, altra studiosa della teoria della traduzione postcoloniale. Analizzeremo questi punti di vista più avanti.

 

2.3 Nida e la traduzione biblica

Il lavoro di Nida di traduzione biblica è stato, in un primo momento, di carattere pratico e poi ha assunto valore teorico. Secondo Nida la parola doveva essere accessibile a tutti, visto che lo scopo principale del suo lavoro era convertire al Cristianesimo. Per questo non accetta forme eccessivamente erudite di traduzione (come lo erano ad esempio quelle di Matthew Arnold all’inizio del XX secolo). Nida preferisce una traduzione “falsificante”, dove il testo deve essere spostato verso il lettore, e non viceversa. Nonostante sia palese la falsificazione, bisogna ammettere che la traduzione biblica contribuisce in modo non indifferente all’ampliamento dello studio della teoria traduttiva visto che raggiunge lettori modello di culture diverse, include contributi di traduttori di pensiero diverso e include tipi letterari diversi: prosa, poesia, parabola, narrativa e discorso, ecc. Nida sente la necessità di porre una base scientifica al suo metodo traduttivo.

Nida modifica parzialmente la concezione di Chomsky ponendo alla base della linguistica un messaggio divino originario, ignorando che esiste una differenza tra le strutture alla base degli enunciati.

Nel suo “Message and Mission” (1960) Nida osserva che molto spesso il messaggio religioso veniva tralasciato quando non si inseriva nel contesto culturale di determinato pubblico. Concluse che il messaggio «doveva essere modificato» per riuscire a inserirsi nel panorama culturale ricevente, nonostante la differenza di contesto (Nida 1960:87 in Gentzler 2009:80). Il contesto culturale ricevente doveva entrare nell’opera tradotta, aspetto questo opposto alla teoria di Chomsky. Si trattava di stabilire un dialogo tra un lettore empirico e Dio e non tra un lettore e un testo-simbolo. Quello che Nida fa è introdurre un’esperienza universale tra i principi di base. Diversamente da Chomsky, Nida non rispetta la corrispondenza formale, bensì l’equivalenza funzionale; non riporta il significato denotativo, bensì l’equivalenza dinamica. Anche Lûdskanov definisce nel 1958 il concetto di equivalenza funzionale:

Eppure, nonostante le differenze formali più o meno grandi rispetto al prototesto, i diversi tipi di corrispondenza hanno in linea teorica qualcosa in comune: il fatto di veicolare la stessa informazione dei rispettivi elementi immessi, di avere la stessa funzionalità… (Lûdskanov 1967:59)

 

Secondo Nida non è importante «quello» che la lingua comunica, ma «come» si comunica. Il suo obiettivo era riprodurre un testo che, come l’originale nella cultura antica, producesse una reazione uguale nei lettori moderni. Se ciò non si verificava, allora era necessario «apportare delle modifiche» (Nida e Taber 1969:202 in Gentzler 82):

In una traduzione non c’è tanto l’interesse di conciliare il messaggio della lingua ricevente con il messaggio della lingua emittente, bensì di relazione dinamica; che la relazione tra il ricevente e il messaggio sia fondamentalmente la stessa che esisteva tra i riceventi originari e il messaggio (Nida, 1964: 159 in Gentzler 82).

 

Il potere della parola sui riceventi sembrava molto più importante della filologia. Per il resto, Nida riformula gli stessi concetti di Chomsky:

Si può dire che […] le lingue mostrano alcune similitudini sorprendenti, incluso, in particolare (1) strutture centrali di similitudine notevole dalle quali tutte le altre strutture si sviluppano attraverso di permutazioni, sostituzioni, aggiunte e perdite, e (2) nei suoi livelli strutturali più semplici, un alto grado di parallelo tra classi di formazione delle parole (es.: sostantivi, verbi, aggettivi, ecc.) […] (Nida, 1964: 68 in Gentzler 83)

 

Nida tuttavia non teorizza il suo personale concetto di «struttura profonda», ma afferma che il traduttore, oltre a conoscere con precisione la lingua, deve conoscere con precisione l’argomento trattato e nutrire ammirazione per l’autore del testo, confondendo, sembrerebbe, la figura del traduttore con quella del missionario. Conoscendo bene l’argomento, il traduttore non lascerà ambiguità. Nida non credeva nella capacità di interpretazione dei suoi lettori. L’unico che può cambiare, semplificare il testo nella lingua ricevente è il traduttore.

 

2.4 Venuti: riformulando la traduzione

Dopo aver analizzato le teorie di Nida è importante fare un collegamento storico con le teorie di Venuti, come la stessa Bachmann evidenzia nell’articolo.

Studioso di traduzione più influente dell’ultimo decennio, nell’America del Nord, Venuti vede la traduzione letteraria come qualcosa che indaga le forme letterarie dei testi e che contribuisce a un’evoluzione linguistica, letteraria e culturale. Venuti critica la base umanistica di gran parte della traduzione letteraria negli Stati Uniti; offre nuovi metodi per esaminare le traduzioni; presenta delle strategie alternative e invita i traduttori ad usarle.

La principale critica di Venuti è legata all’invisibilità del traduttore (negli Stati Uniti). In questo modo gli studiosi di testi letterari ignorano le difficoltà affrontate dai traduttori nel rendere un testo “fluente” visto che questo era l’unico aspetto che sembrava interessare ai lettori della cultura ricevente. È come se si pensasse che il traduttore accedeva ad un conoscimento universale nel processo di significazione e fosse capace di produrre un testo tradotto chiaro e leggibile, che rispecchiasse l’originale.

Secondo Venuti, sorgono a questo punto due problemi: il lavoro del traduttore viene considerato inferiore alla scrittura letteraria e non sarebbe meritevole di analisi critica (come anche Torop risalta); conseguenza del primo problema è il fatto che in questo modo non vengono considerate le differenze culturali del testo straniero visto che esiste un lavoro di adattamento alla cultura ricevente.

Da un lato il traduttore non viene accettato come scrittore propriamente detto e non viene visto come parte del mondo letterario. D’altro lato il traduttore è soggetto ad adeguarsi alla cultura ricevente dovendo adattare immagini, metafore, linguaggio del testo straniero al sistema di conoscenze e percezioni della cultura ricevente con la stessa abilità dello scrittore. Si tratta di una sorta di egemonia culturale dove, nonostante si stiano leggendo testi di origine straniera, si mantengono i concetti religiosi, politici ed economici della cultura ricevente. Come Venuti afferma all’inizio del suo Scandals of Translation (1998):

Gli scandali della traduzione sono culturali, economici e politici. Questi si rivelano quando ci si chiede perché oggi la traduzione rimane ai margini della ricerca, dei commenti e del dibattito, specialmente (anche se non esclusivamente) in inglese.

 

Si preferisce lavorare con un addomesticamento della traduzione, attraverso l’adattamento di ciò che è estraneo in qualcosa di familiare. Da qui sorge la critica di Venuti:

Spesso la traduzione è guardata con sospetto perché inevitabilmente addomestica i testi stranieri attribuendo loro valore culturali e linguistici intelligibili a specifiche comunità locali (Venuti 1998:67 in Osimo 2002:246).

 

Venuti critica inoltre l’equivalenza tra parole, dato che possiamo considerare qualsiasi testo come complesso, con connotazioni intertestuali multiple, varie allusioni, materiale linguistico diverso. Tutto ciò apre un ventaglio di possibilità di scelta sintattiche e semantiche differenti. Sarà il traduttore colui che sceglierà se seguire o meno le ideologie letterarie predominanti.

Venuti suggerisce che venga adottato un processo di traduzione più visibile, per il quale sarebbe necessario fare delle scelte interpretative che si pongano l’obbiettivo di perseguire la costruzione di una cultura. Nel suo Translator’s Invisibility, Venuti riporta un esempio di analisi sintomatica, detto di testi che subirono una «violent rewriting». L’esempio scaturisce dall’analisi delle traduzioni di Freud per lo Standard Edition in cui i traduttori riscrivono il testo usando un discorso medico canonico, mentre il testo originale di Freud era stato scritto con una semplicità a tratti addirittura colloquiale. Mentre per alcuni, come Bruno Bettleheim, questo può esser visto come un «tradimento», per Venuti si tratta semplicemente di addomesticamento degli scritti di Freud resi con un linguaggio medico specifico in un’epoca in cui emerge la psicanalisi negli Stati Uniti.

Il punto è piuttosto quello di sviluppare una teoria e pratica della traduzione che resista ai valori culturali dominanti della cultura ricevente e allo stesso modo attribuire importanza alla differenza linguistica e culturale del testo straniero.

 

E più avanti continua, sostenendo che:

 

Il concetto di esotizzazione può alterare il modo in cui le traduzioni vengono lette e realizzate perché presuppone un concetto di soggettività umana che è molto differente dai presupposti umanistici che risaltano l’addomesticamento.

 

Questo concetto di esotizzazione di Venuti era già presente in alcuni autori dell’inizio Ottocento come Schleiermacher e Humboldt. Secondo Scheleiermacher non è assolutamente possibile scrivere una traduzione usando le stesse parole, visto che i pensieri di autore e traduttore non saranno mai «gli stessi in due lingue diverse».

[…] l’obiettivo di tradurre in modo tale come l’autore avrebbe scritto originariamente nella lingua della traduzione è non solo irraggiungibile ma è anche futile e vuoto in sé (Schleiermacher in Osimo 2002: 45).

 

Non è inoltre possibile intendere la traduzione come parafrasi visto che altrimenti si «abbandona completamente l’impressione prodotta dall’originale». L’obbiettivo della traduzione è quello di ricreare le stesse impressioni e sensazione prodotte dall’autore empirico sui suoi lettori «altrimenti una parte estremamente significativa di ciò che è inteso per loro [i lettori della traduzione] va spesso perduta».

Allo stesso modo di Venuti, Humboldt riconosce l’impossibilità di trovare espressioni equivalenti tra due lingue o culture differenti e come Schleichermacher, conferma che:

[…] una traduzione deve sì avere un gusto estraneo, ma solo in una certa misura; è facile tracciare la linea al di là della quale ciò diventa palesemente un errore. Finché una persona non sente l’estraneità [Fremdheit] ma sente l’estraneo [Fremde], la traduzione ha raggiunto la sua meta più alta […]

 

Secondo Venuti il successo di una traduzione dipendeva dalle «strategie discorsive» del traduttore, ma anche da «un’alleanza tra l’accademia e l’industria editoriale […] dato che entrambi possiedono autorevolezza culturale» (Venuti in Osimo 2002: 247).

Si percepisce che Venuti attribuisce molta responsabilità innanzitutto al traduttore e poi anche al mondo accademico e editoriale. Tuttavia non menziona l’importanza del contesto esclusivamente letterario dentro il quale si inserisce la traduzione o delle influenze reciproche tra questi due tipi di testo. Inoltre non analizza la traduzione nemmeno all’interno di un contesto storico, come avviene con i formalisti russi prima e la teoria dei polisistemi successivamente.

 

2.5 Gli ultimi trent’anni del XXI secolo

Nel decennio del 1970 due furono i metodi predominanti nell’area di investigazione della scienza della traduzione: da un lato coloro che fondavano la loro ricerca su degli interessi di carattere letterario e dall’altro lato coloro che invece si concentravano su interessi di tipo linguistico e in modo più “scientifico”. Gli uni vedevano il lavoro degli altri con scetticismo. Si tratta di due punti di vista che uniti ci offrono un panorama completo dell’analisi traduttiva dell’epoca. Integrando questi due percorsi di studio si compie un grande passo avanti nella teoria della traduzione. Chi compie questo primo passo verso la formalizzazione di una teoria della traduzione sono gli studiosi dei Paesi Bassi (fiamminghi e olandesi), i formalisti russi, cechi e slovacchi e infine i circoli di studio israeliani della teoria polisistemica.

Se in un primo momento la ricerca per la definizione di una teoria esatta della traduzione venne sospesa, successivamente gli studiosi ripresero l’idea, ma la analizzarono da un altro punto di vista.

Non ci si pone più il problema di definire la traduzione come scienza letteraria o meno, visto che si percepisce che è una scienza che coinvolge entrambe le aree e che inoltre si rivela aperta verso un approccio multi- e interdisciplinare. L’importante non è più analizzare la «struttura profonda» del testo tradotto, ma il testo in sé: partendo dal testo tradotto vi ci si poteva applicare le conoscenze teoriche letterarie e linguistiche. Si trattava di applicare il procedimento contrario a quanto fatto finora.

Il testo tradotto non è più solo un prodotto finale, ma è un elemento a sua volta produttivo: svolge una funzione di mediazione sincronica, ovvero di ricezione dove «i metatesti, in quanto testi attualizzati in determinati periodi e condizioni, dicono molto sulle particolarità di un dato autore, di una tradizione e della cultura testuale dell’autore» (La traduzione totale, Torop 2010). Il testo tradotto svolge inoltre una funzione di mediazione diacronica di evoluzione nel tempo storico e nel tempo storico-culturale, dove per quest’ultimo, secondo la definizione di Torop, s’intende il «fatto che la storia della cultura si sviluppa nei vari paesi in modo analogo, ma con ritmi diversi. Certe culture si sviluppano più rapidamente di altre oppure sono prive di un certo fenomeno eccetera».

L’aspetto culturale viene evidenziato ora più che mai. Da un lato si studia più approfonditamente la costruzione intertestuale del contenuto della traduzione (che si rivelerà pieno di “tensioni” a livello linguistico) e d’altro lato si valorizza l’arricchimento delle culture in questione. Secondo Levý, il traduttore

arricchisce la propria letteratura nazionale con nuovi valori linguistici, non soltanto creando nuovi mezzi espressivi (neologismi), ma anche assimilando nel proprio ambiente espressioni di paesi altri (esotismi).

 

Sempre secondo Levý, per mantenere la “bellezza estetica” di un testo e costruire con il testo una vera e propria opera d’arte (mantenendone l’aspetto estetico), le contraddizioni interne al testo dovrebbero essere risolte attraverso la sostituzione oggettiva delle equivalenze. Basandosi su Jakobson, secondo il quale «la poeticità è appena parte di una struttura complessa, ma che trasforma gli altri elementi e determina, insieme a loro, la natura dell’insieme» (Jakobson 1976: 174), la traduzione doveva rispondere a due esigenze: da un lato quella di fedeltà, sfociando a volte nell’esplicitazione quando «il traduttore chiarifica del tutto i nessi nascosti tra pensieri che nell’originale sono solo accennati», e d’altro lato la traduzione doveva rispondere a canoni estetici, di bellezza, come se fosse un’opera d’arte:

La bellezza e la fedeltà vengono spesso messe a confronto come se fossero incompatibili tra di loro. Forse possono essere incompatibili tra di loro solo quando l’estetica è intesa come ricercatezza e la fedeltà come letterarietà (Levý 1998: 93).

 

A volte però, la tendenza all’esplicitazione del traduttore può andare a discapito dell’aspetto estetico, a favore invece dell’aspetto meramente informativo.

 

2.6 Decostruzione e Derrida

Cosa succederebbe se il testo originale dipendesse dalla traduzione? Se qualcuno dicesse che il testo originale non potrebbe esistere senza la traduzione, ossia che l’autorevolezza dell’originale dipendesse dalle qualità risaltate nella traduzione? E se il significato del testo non dipendesse dall’originale ma dalla traduzione? E cosa succederebbe se l’originale si trasformasse dal punto di vista estetico e scientifico (contenutismo) a ogni nuova traduzione?

I decostruzionisti usano la traduzione per interrogare la natura della lingua e per suggerire che quando traduciamo testi ci avviciniamo al massimo di quella “différance” di Derrida (termine coniato per rappresentare la dicotomia traducibile/intraducibile) che è parte del suo studio.

Fino ad allora il concetto di teoria della traduzione si era evoluto come se esistesse un significato determinabile che poteva esser trasferito da una cultura all’altra.

La teoria della decostruzione critica questa analisi e dimostra la realtà instabile della struttura teorica della traduzione.

I decostruzionisti, allo stesso modo dei traduttori, analizzano differenze, mancanze, cambiamenti e elisioni del testo. Come i formalisti, si concentrano sul testo in sé. Però rispetto ai formalisti russi, che si basavano su distinzioni forma/contenuto, significato/significante, tentando assegnare alla lingua un significato determinato, i decostruzionisti vogliono separare la lingua da questo tipo di struttura.

Uno dei maggiori esponenti di questa corrente fu Derrida secondo il quale, per quanto riguarda la traduzione, non è necessario concentrarsi sul messaggio originale né sulla sua decodificazione, ma bisogna far attenzione alle multiple forme e agli interventi che il testo soffre.

Derrida adotta il concetto di Walter Benjamin di «Überleben» della lingua per spiegare come la traduzione modifica o completa l’originale, in questo senso, la sua lettura dell’opera di Benjamin è di fondamentale importanza:

[…] la traduzione deriva dall’originale, e, per le opere importanti che mai incontrarono il loro traduttore predestinato all’epoca della loro nascita, caratterizza […] (la) loro sopravvivenza (Derrida, 1985a: 178 in Gentzler 203).

 

Per entrambi quindi, la traduzione rappresenta la «continuazione della vita dell’originale». Sempre secondo l’ottica di Derrida, il testo cede alle modificazioni che verranno fatte con la traduzione, il che non è un fatto negativo visto che subisce una modifica che lo rende più maturo, più completo. Un nuovo testo che ha il potere di parlare una lingua propria. Da un punto di vista più profondo, la traduzione ci mette in contatto non solamente con il significato originale, bensì con una pluralità di lingue e di significati. Esiste uno scambio continuo di significati attraverso lingue che sono in constante interrelazione.

 

2.7 Traduzione postcoloniale

I traduttori postcoloniali usano la traduzione come strategia di resistenza che altera, trasforma l’immagine delle culture non occidentali. Vengono ripresi i concetti tradizionali secondo i quali la traduzione deve essere trasparente, oggettiva e fedele permettendo in questo modo ai colonizzatori di costruire un’immagine immutabile di “altro” esotico. Questa immagine di “altro” che viene diffusa, non solo trasmette un’immagine alterata di queste culture, ma contribuisce anche a creare nelle culture emergenti una percezione alterata della propria identità.

Niranjana, che difende l’uso della decostruzione nelle traduzioni postcoloniali, critica il concetto di traduzione vista come fedele o libera, da un metatesto a un prototesto. Secondo l’autrice si dovrebbe trattare di uno scambio reciproco, bidirezionale che dovrebbe apportare delle modifiche nell’intendimento di culture o identità altre. Ribadisce inoltre che non è possibile, nel contesto della traduzione postcoloniale, ottenere uno «scambio senza perdite» (After Babel, Steiner 1975: 302 in Gentzler 218). Questo scambio trasparente non è possibile visto che le relazioni di potere tra le due culture sono ben differenti. L’egemonia e la superiorità esercitata dai colonizzatori implica inevitabilmente che la storia della cultura colonizzata venga oscurata. Vengono inoltre alterate le strutture e norme linguistiche e testuali dei metatesti anche se, secondo Toury «dal punto di vista del metatesto e del sistema emittente, le traduzioni quasi non hanno alcun significato» (Toury 1985: 19 in Niranjana 1992: 59-60). Questa visione erronea nasconde la realtà: senza dubbio esiste una modificazione nella relazione tra le lingue. L’immagine stereotipata di indigeno/selvaggio trasmessa, non solo conferma la superiorità dei colonizzatori nella cultura ricevente, ma porta ad una modifica nelle culture emergenti a partire dal momento che, attraverso le traduzioni, vengono esportati modelli di educazione, prestito di idee e valori europei. Secondo Niranjana una teoria della traduzione non può ignorare tali conseguenze.

A questo punto Niranjana fa una comparazione con gli studi antropologici e etnografici che dal suo punto di vista, progredirono maggiormente rispetto agli studi della traduzione della stessa epoca. Le scienze citate hanno l’obiettivo comune di trasferire, trasmettere e tradurre tutto un sistema di ideologie, modi di pensare e agire da un sistema culturale totalmente estraneo verso il proprio sistema culturale. Ma per affrontare questa grande responsabilità, incontrano lo stesso problema che i traduttori incontrano.

Nel panorama traduttivo post-coloniale, spiccano Susan Bassnet e Roman Jakobson che sono tra i pochi studiosi di traduzione che intendono profondamente le complessità intersemiotiche e i fattori interculturali in gioco nella traduzione.

Esistono comunque antropologi come Clifford che criticano l’illusione di trasparenza delle traduzioni ma che tuttavia non indagano le relazioni di potere e gli effetti della traduzione.

Le strategie della decostruzione, il cui maggior rappresentante è Derrida, teorizzano il concetto di doppia scrittura, intesa esattamente come scambio tra culture e arricchimento reciproco. Attraverso questa ottica i traduttori postcoloniali possono sfidare la pratica egemonica e proporre modelli di evoluzione culturale.

Questo è molto chiaro in Walter Benjamin secondo il quale la propria lingua dev’essere influenzata, espansa, approfondita e trasformata dalla lingua straniera. Una visione quasi storica dell’evoluzione di una cultura che, affettata da un nuovo avvenimento, se ne esce appunto trasformata.

Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo d’intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande (W.Benjamin 1962: 49 in Osimo 2002: 155)

 

Interpretando questa citazione capiamo che si forma un nuovo testo in una nuova lingua che porta con sé i segni, meglio dire, le influenze indelebili di un’altra lingua e un’altra cultura.

Niranjana inoltre concorda con le teorie di Venuti, ma oltre a riconoscere l’importanza di esotizzare o meno, la sua ottica tratta di questionare a fondo le differenze intendendole come evoluzione culturale e formazione di identità affinché il traduttore postcoloniale, l’antropologo o l’etnografo si distacchino e distacchino l’importanza del proprio ruolo nel contesto della traduzione postcoloniale. Ponendosi questo obiettivo sorge un dubbio. Cosa fare con quei testi che vennero tradotti da un punto di vista prettamente egemonico, di imposizione delle proprie ideologie sulle culture altre?

Chi contribuisce a rispondere a queste domande è Gayatri Spivak che analizza il soggetto postcoloniale che vive in una cultura ibrida – intendendo per cultura la storia, politica, arte e letteratura del nuovo popolo – frutto di una penetrazione da parte della lingua e delle istituzioni egemoniche.

Un’opera emblematica di quest’analisi è il suo saggio Can the Subaltern Speak? (1988). Ciò che Spivak rivela è che in realtà gli studiosi, traduttori, antropologi non avevano libero accesso alla cultura “altra”. Gli studiosi facevano una lettura tra le righe piena di silenzi e contraddizioni. L’idea che Spivak sviluppa è che i traduttori, anziché usare la traduzione per diffonderne un testo “originale”, avrebbero dovuto analizzare i soggetti della cultura in differenti situazioni. In questo modo se ne sarebbe rivelato il comportamento: se la sua condizione fosse di “subalterno” alienato, si sarebbe inquadrato nell’ambito linguistico del colonizzatore.

Uno tra i passi avanti della teoria elaborata dalla Spivak è quello di includere prefazioni, interviste e informazioni contestuali nelle sue traduzioni. Una tecnica di estrema importanza nella traduzione postcoloniale per fornire un contesto storico e culturale al lettore del testo tradotto. In questo modo affiorano nuove strutture linguistiche e nuovi contesti che non verranno più descritti come esotici.

Il traduttore è rivestito di una grande responsabilità: quella cioè di essere un ponte culturale e che non può permettersi di sapere la lingua straniera fluentemente, ma che deve conoscere anche l’epoca, l’ambientazione storica, il luogo, la traduzione e le politiche della cultura o almeno del testo emittente. Due saperi, quello della lingua e del contesto culturale, che sono essenziali ma che non sembrano avere lo stesso peso per tutti: queste idee sono per esempio estranee a chi si occupa esclusivamente di studi strettamente culturali. Da questa analisi si rivela la figura di un traduttore assente, nel senso di “invisibile”, ma allo stesso modo sempre presente visto che fornisce al lettore un apparato di contestualizzazione e intendimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.8 Riferimenti bibliografici

ECO, UMBERTO (2005) Come si fa una tesi di laurea, Milano: Tascabili Bompiani

ECO, UMBERTO (2010) Dire quasi la stessa cosa, Milano: Tascabili Bompiani.

GENTZLER, EDWIN (2009) Teorias contemporâneas da tradução, São Paulo: Madras.

JAKOBSON, ROMAN (1959) On linguistic aspects of translation, disponibilie in internet all’indirizzo isg.urv.es/library/papers/jakobson_linguistic.doc, consultato nel settembre 2010.

LUDSAKANOV, ALEKSANDAR (1967) Un approccio semiotico alla traduzione; edizione italiana a cura di Bruno Osimo, 2008, Milano: Hoepli .

OSIMO, BRUNO (2002) Storia della traduzione, Milano: Hoepli .

OSIMO, BRUNO (2004) Manuale del traduttore, Milano: Hoepli .

OSIMO, BRUNO (20101) Propedeutica della traduzione, Milano: Hoepli .

PICCHI, FERNANDO (2007) Grande dizionario inglese, Milano: Hoepli.

SPIVAK, GAYATRI CHAKRAVORTY (1988) «Can the subaltern speak?» disponibile in internet all’indirizzo http://www.maldura.unipd.it/dllags/docentianglo/materiali_oboe_lm/2581_001.pdf, consultato nel settembre 2010

 


 

 

 

 

 

 

2. Traduzione con testo a fronte

 


Panel 6: Translation and Ethnography – Modes of Representation

The Anthropology of Translation: Cultural Concepts and Intercultural Practice

 

Doris Bachmann-Medick

Independent scholar, Göttingen

 

Introduction: Translation and Anthropology Paula Rubel and Abraham Rosman

 

The central aim of the anthropological enterprise has always been to understand and comprehend a culture or cultures other than one’ own.

This inevitably involves either the translation of words, ideas and meanings from one culture to another, or the translation to a set of analytical concepts.

Translation is central to “writing about culture”.

However, curiously, the role that translation has played in anthropology has not been systematically addressed by practitioners, even though translation has been so central to data-gathering procedures, and to the search for meanings and understandings, which is the goal of anthropology. One of the reasons for this has been the ongoing internal dialogue about the nature of the discipline.

There are those who feel that anthropology is a social science, with the emphasis on science, whose methodology, which usually involves analytical concepts, sampling and quantification, must be spelled out in detail.

On the other side are those who emphasize the humanistic face of the field, and who feel that the way to do fieldwork cannot be taught. Still others, who focus on achieving understanding of another culture, think it can only be achieved by “total immersion” and empathy.

 


Panel 6: Traduzione ed etnografia – modalità di rappresentazione

L’antropologia della traduzione: concetti culturali e pratica interculturale

 

Doris Bachmann-Medick

ricercatrice indipendente

 

Introduzione: Traduzione e antropologia Paula Rubel e Abraham Rosman

 

Il principale obiettivo dell’attività antropologica è sempre stato quello di capire e comprendere una cultura o altre culture diverse dalla propria. Questo implica inevitabilmente o la traduzione di parole, idee e significati da una cultura all’altra o la traduzione di una serie di concetti analitici. Tradurre è il principale aspetto dello «scrivere di una cultura». Comunque, curioso è che il ruolo che la traduzione ha avuto nell’antropologia non è stato indagato sistematicamente dagli studiosi, anche se la traduzione è stata così importante nelle procedure di raccolta dati e nella ricerca di significati e intenzioni, che è l’obiettivo dell’antropologia. Uno dei motivi di ciò è stato il dialogo interno in corso sulla natura della disciplina. Alcuni percepiscono l’antropologia come una scienza sociale, dando enfasi alla parola «scienza», la cui metodologia, che solitamente implica concetti analitici, campionatura e quantificazione, dev’essere spiegata dettagliatamente. D’altra parte c’è chi percepisce che il modo di fare raccolta dati sul campo non può essere insegnato. Ci sono altri ancora che si concentrano sul raggiungere la comprensione della cultura altrui e pensano che ciò si possa realizzare solo con una «immersione totale» e con empatia.

 

 

Since its inception as a discipline and even in the “prehistory” of anthropology, translation has played a singularly important role. In its broadest sense, translation means cross-cultural understanding.

The European explorers and travellers to Asia and later the New World were always being confronted with the problem of understanding the people whom they were encountering.

Gesture and sign language, used in the first instance, were soon replaced by lingua francas and pidgins, and individuals who learned these lingua francas and pidgins became the translators and interpreters. These pioneers in cross-cultural communication not only brought back the words of the newly encountered people but also became the translators and communicators of all kinds of information about these people, and the interpreters of their very differing ways of life, for European intellectuals, and the European public at large.

They were also the individuals who were the basis for the conceptions which the Others had of Europeans.

With the development of anthropology as a formal academic discipline in the mid-nineteenth century, and later as a social science, translation of course continued to play a significant role. At this point in time, anthropologists such as Edward Tylor, Lewis Henry Morgan and Johann Bachofen remained in their offices and libraries at home, while they theorized about the development of human society and the evolution of culture. But their theories depended upon ethnographic information collected by missionaries, travelers, traders and colonial government officials. These were the individuals who were in first-hand contact with the “primitive peoples”, who were very different from themselves. Their descriptions of the ways of life of the people they were encountering were being published in the various professional journals and monographs, which were established during this period.

 

Fin dal suo inizio come disciplina e persino durante la “preistoria” dell’antropologia, la traduzione ha occupato un ruolo singolarmente importante. Nel suo significato più ampio, «traduzione» significa comprensione multiculturale.

Gli esploratori europei e i viaggiatori dell’Asia e più tardi del Nuovo Mondo hanno sempre dovuto affrontare il problema di capire le persone in cui s’imbattevano. La lingua dei gesti e dei segni, usata in un primo momento, venne presto sostituita dalle lingue franche e dai pidgin e quelli che imparavano queste lingue franche e pidgin divennero i traduttori e gli interpreti. Questi pionieri della comunicazione multiculturale non solo riportavano le parole della nuova gente, ma divennero anche i traduttori e comunicatori di ogni genere di informazione riguardo a queste persone e gli interpreti dei loro modi di vivere ben differenti per gli intellettuali europei e il pubblico europeo in generale. Loro furono anche quelli che rappresentarono le basi delle concezioni che gli Altri avevano degli Europei.

Con l’affermarsi dell’antropologia come disciplina formale accademica prima, nella metà dell’Ottocento e più tardi come scienza sociale, la traduzione continuò evidentemente ad avere un ruolo significativo. In questo momento, antropologi come Edward Tylor, Lewis Henry Morgan e Johann Bachofen, restavano nelle proprie case, nei propri studi e in biblioteca, mentre teorizzavano sugli sviluppi della società umana e sull’evoluzione della cultura. Solo che le loro teorie erano basate su informazioni etnografiche raccolte da missionari, viaggiatori, commercianti e rappresentanti dei governi coloniali.

Erano questi il contatto, di prima mano, con i “primitivi”, ben diversi da loro. Le loro descrizioni dei modi di vivere delle persone che avevano incontrato venivano pubblicati nelle riviste e nelle monografie scientifiche, che si affermarono durante questo periodo.

 

 

 

At this point in time, the sources of this data were not questioned, nor was there concern with, or any evaluation of this information in terms of how it was collected, whether it was based on actual observations or casual conversations, which languages were used, who was doing the translations and what were the methods used. The degree of expertise of these Europeans in the local languages or whether they used interpreters, and who these interpreters were, was also not considered.

Translation was the modus vivendi; however, the anthropologists of the time were not concerned with questions of translation but only with the information itself, and the ways in which it could be used to buttress the evolutionary schemas and theories which they were hypothesizing.

Even when anthropologists themselves began to do fieldwork and gather ethnographic data at the end of the nineteenth and beginning of the twentieth century, field methodology and the role translation would play in the data-gathering enterprise were not really addressed. Though Boas, the founding father of professional anthropology in the United States, emphasized the importance of linguistics and the central role that language played in culture, he did not deal with the question of translation. In the training of his students he emphasized the necessity of learning the native language. The students were to collect information about the various aspects of a culture by recording texts in the native language. He himself published the results of his research with the Kwakiutl in the form of texts as, for example, in the two-volume Ethnology of the Kwakiutl, with the Kwakiutl version of the text transcribed in phonetics on the bottom half of the page and the English translation on the top half. There was a brief note about transcription at the beginning of the work entitled Explanation of Alphabet Used in Rendering Indian Sounds (Boas 1921: 47).

 

 

A quel tempo, le fonti di questi dati non venivano messe in discussione e non c’erano nemmeno dubbi o alcun tipo di valutazione su come queste informazioni fossero state raccolte, se fossero basate su una vera osservazione o su una conversazione casuale, su quali lingue venissero usate, su chi facesse le traduzioni e su quali fossero i metodi utilizzati. Il grado di pratica di questi europei nelle lingue locali o se ci fosse l’intermediazione di interpreti, e chi fossero questi interpreti, erano ulteriori fattori che non venivano presi in considerazione.

La traduzione era il modus vivendi. In ogni caso, gli antropologi di quel tempo non erano concentrati sulla traduzione in sé, ma solo sull’informazione stessa e sul modo in cui questa potesse essere usata per confermare i modelli evolutivi e le teorie che loro postulavano.

Anche quando gli stessi antropologi cominciarono a fare ricerche sul campo e a raccogliere dati etnografici verso la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, non si studiava la metodologia sul campo né il ruolo che la traduzione avrebbe avuto nell’impresa di raccolta dati.

Nonostante Boas, padre fondatore dell’antropologia professionale negli Stati Uniti, enfatizzasse l’importanza della linguistica e il ruolo centrale che la lingua occupava nella cultura, lui non si occupò molto della questione della traduzione. Durante la formazione degli studenti, Boas insisteva sul bisogno di imparare la lingua indigena. Gli studenti dovevano raccogliere informazioni sui diversi aspetti della cultura, registrando testi nella lingua originale. Lui stesso pubblicò i risultati di una ricerca sul Kwakiutl sotto forma di testi, come per esempio nel volume doppio Ethnology of the Kwakiutl [Etnologia del Kwakiutl], dove la versione Kwakiutl del testo era trascritta foneticamente nella metà inferiore della pagina e la traduzione inglese nella metà superiore. È stata scritta una breve nota riguardo alla trascrizione, all’inizio del lavoro intitolato Explanation of Alphabet Used in rendering Indian Sounds [Spiegazione dell’alfabeto usato per rendere suoni indiani, Boas 1921:47].

 

He sent his Columbia University students to various American Indian tribes, whose languages were in danger of disappearing because of the shift to the use of English.

This was to record valuable linguistic information about these languages, using phonetic transcription, before knowledge of them was lost. Though he did not deal with translation in general, Boas recognized that the languages of the New World were organized in a totally different manner than European languages and Latin. Such differences in grammatical categories are central to problems of translation. The fact that grammatically, a speaker of the Kwakiutl language indicates how he knows about an action a particular individual is performing, whether he saw the action himself, or heard about it from someone else, while the speaker of English does not, surely plays a role in the translation of Kwakiutl to English or English to Kwakiutl.

Malinowski, in his Introduction to Argonauts of the Western Pacific, was the first anthropologist to systematically address the topic of the procedures which one should use to conduct fieldwork. Acquiring the local language was essential since it was to be used as the “instrument of inquiry”. Malinowski noted the necessity of drawing a line between, “… on the one hand, the results of direct observation and of native statements and interpretations, and on the other hand the insights of the author…” (1961 [1922]: 3). He noted that “pidgin English” was a very imperfect instrument for gaining information. He recognized the importance of acquiring a knowledge of the native language to use it as an instrument of inquiry. He talked about the way in which he himself shifted from taking notes in translation which, as he noted, “… robbed the text of all its significant characteristics – rubbed off all its points … at last I found myself writing exclusively in that language [Kiriwinian], rapidly taking note, word for word of each statement” (Malinowski 1961 [1922]: 23–4).

 

Boas mandò i suoi studenti della Columbia University in varie tribù indio-americane, le cui lingue erano in pericolo di estinzione a causa del passaggio all’uso dell’inglese. Questo serviva per registrare informazioni di carattere linguistico preziose su queste lingue, prima che se ne perdesse la conoscenza. Nonostante in generale Boas non si fosse occupato di traduzione, si rese conto che le lingue del Nuovo Mondo erano strutturate in un modo completamente diverso dalle lingue europee e dal latino. Tali differenze di categorie grammaticali rappresentano una parte rilevante dei problemi della traduzione. Grammaticalmente, chi parla Kwakiutl specifica come fa sapere di un’azione fatta da un dato individuo, se l’ha vista di persona o ne ha sentito parlare da qualcun altro; chi parla inglese invece non lo specifica. Tutto ciò sicuramente influisce sulla traduzione dal Kwakiutl verso l’inglese o dall’inglese verso il Kwakiutl.

Malinowsky, nell’introduzione ad Argonauts of the Western Pacific [Argonauti del Pacifico Occidentale], è stato il primo antropologo a indagare metodicamente le procedure da seguire per condurre una ricerca sul campo. Acquisire la lingua locale è essenziale dal momento che la si usa come «strumento di ricerca». Malinowski notò il bisogno di tracciare una linea tra, «… da un lato, il risultato dell’osservazione diretta e degli enunciati e delle interpretazioni dei nativi, e dall’altro le intuizioni dell’autore…» (1961 [1922]:3). Lui notò che l’«inglese pidgin» era uno strumento estremamente imperfetto per ricavare informazioni. Si rendeva conto dell’importanza di acquisire conoscenze sulla lingua nativa per usarla come strumento di ricerca. Parla di come lui stesso sia passato dal prendere appunti in traduzione che, come scrisse «[…] depreda il testo di tutte le sue caratteristiche significative, cancellandone tutti i punti essenziali […] alla fine mi sono ritrovato a scrivere esclusivamente in quella lingua [Kiriwiniano], annotando rapidamente, parola per parola, di ogni enunciato» (Malinowski 1961 [1922] 23:4).

 

By and large, though, anthropologists trained during the period of the ascendancy of British social anthropology and the functionalist paradigm–such as Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Fortes, Leach, Shapera, et al.–always considered it important to learn the language or languages being used in the areas in which they worked. They did long periods of intensive fieldwork during which translation was constantly involved, but they did not formally consider translation’s impact on their work or their theorizing. They recognized that it was important to use the languages spoken locally and not pidgins, lingua francas, interpreters or the languages in use by the hegemonic colonial governments, in order to understand the nature of the local culture and its meanings. More recently, the authors of Ethnographic Research: A Guide to General Conduct, a text devoted to an explication of research methods written for British social anthropologists, note that fieldwork “… requires some systematic understanding of it [the local language] and an accurate transcription. In the absence of a local writing system (which, in any case would have to be learned) one must make one’s own phonemic one, using a recognized system like the International Phonetic Alphabet” (Tonkin in Ellen 1984: 181). In addition, learning the lingua franca of the wider area, be it a pidgin or Creole, is also deemed essential. During the postwar period in America and Britain–despite the turn in interest toward symbolic and later interpretive anthropology with its primary focus on cultural understandings–translation, such a central part of the search for meaning, was never a subject of discussion and seems to have been of minimal importance. The same point can be made with respect to structuralism. Cultural meanings and understandings were significant for the structuralist enterprise, which was also important in the postwar era, since the data being analyzed were the products of translation, yet translation issues were never directly confronted by structuralists.

 

Nonostante tutto comunque, gli antropologi formati nel periodo del predominio dell’antropologia sociale britannica e del paradigma funzionalista, come Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Fortes, Leach, Shapera e altri, hanno sempre ritenuto importante imparare la lingua o le lingue usate nelle zone nelle quali lavoravano. Affrontarono lunghi periodi di intensa raccolta dati sul campo, nei quali la traduzione era sempre necessaria, ma non hanno mai dato riconoscimento formale all’impatto della traduzione sul loro lavoro o sulle loro teorie. Si rendevano conto che era importante usare le lingue parlate localmente anziché usare pidgins, lingue franche, interpreti o le lingue in uso presso i governi colonizzatori egemonici, al fine di comprendere la natura della cultura locale e i suoi significati. Più recentemente, gli autori di Ethnographic Research: A Guide to General Conduct [Ricerca etnografica: guida di condotta generale], testo dedicato a una spiegazione dei metodi di ricerca scritto per gli antropologi sociali britannici, afferma che la ricerca sul campo «[…] richiede una comprensione sistematica [della lingua locale] e una trascrizione accurata. In caso di inesistenza di un sistema di scrittura locale [che va imparato se esiste] se ne deve creare uno proprio sulla base della fonemica, usando un sistema riconosciuto come l’Alfabeto fonetico internazionale» (Tonkin in Ellen 1984:181). Inoltre, imparare la lingua franca di un’area più estesa è ritenuto essenziale. Nel dopoguerra, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, nonostante la svolta degli interessi verso l’antropologia simbolica e successivamente interpretativa con la sua attenzione rivolta primariamente alla comprensione culturale, la traduzione, parte così importante della ricerca di senso, non è mai stata oggetto di discussione sembra sia stata d’importanza minima. Si può osservare lo stesso riguardo allo strutturalismo. I significati e le interpretazioni culturali sono importanti per l’impostazione strutturalista, pure importante nel dopoguerra, poiché i dati analizzati erano prodotti della traduzione, tuttavia le questioni traduttive non vennero mai affrontate dagli strutturalisti.

 

Postmodernism has been the subject of continuing debate and controversy among American cultural anthropologists. James Clifford and other postmodernists have forced us to reconsider the anthropological enterprise, from fieldwork and data gathering to the production of the ethnographic text. Since cultural understanding is based on the premise that translation is possible, translation and all its aspects should be a primary focus in this discussion, but this has not been the case. Clifford in a recent work finally confronts the issue of translation. He supports the idea embodied in the crucial term traduttore traditore, that is “the translator is a traitor”. He notes further that one should have an appreciation of the reality of what is missed and what is distorted in the very act of understanding, appreciating and describing another culture (Clifford 1997).

In the United States, cultural anthropology is still going through a period of assessment and the rethinking of its goals, procedures and raison dêtre. Thus, this is an excellent time to consider a series of issues arising from the fact that for anthropology, translation is and must be a central concern. Is translation from one culture to another possible and if so under what conditions? Can an anthropological researcher control another language adequately enough to carry out a translation? How should a researcher deal with the presence of class dialects, multilingualism and special-outsider language use? What constitutes an acceptable translation, one which contains more of the original or source language or one which focuses on the target language and the reader’s understanding? What is the relationship between translation and the conceptual framework of anthropology?

At the outset we should explore where translation fits in terms of what anthropologists do during fieldwork, the analysis of the data and the writing of the ethnographic text.

 

 

Il post-modernismo è stato oggetto di una discussione duratura e controversa tra gli antropologi culturali statunitensi. James Clifford e altri posto modernisti ci hanno obbligato a riconsiderare l’attività antropologica, dalla ricerca sul campo e dalla raccolta dati fino alla produzione di testi etnografici. Dato che la comprensione culturale si basa sulla premessa che la traduzione è possibile, la traduzione e tutti i suoi aspetti dovrebbero essere il centro di questa discussione, ma non è stato così. In un suo recente lavoro, Clifford ha finalmente affrontato il problema della traduzione. Lui difende l’idea contenuta nel detto popolare traduttore traditore. Clifford nota inoltre che si deve riconoscere la realtà da ciò che si perde e ciò che si manipola nell’atto di comprensione, apprezzamento e descrizione di un’altra cultura (Clifford 1997).

Negli Stati Uniti, l’antropologia sta ancora affrontando un periodo di valutazione e riconsiderazione dei propri obiettivi, procedimenti e raison d’être. È un eccellente momento per valutare una serie di problemi che sorgono dal fatto che secondo l’antropologia, la traduzione è e deve rappresentare una preoccupazione fondamentale. È possibile la traduzione da una cultura all’altra e, se sì, quali sono le condizioni? Un antropologo è in grado di padroneggiare un’altra lingua in modo sufficientemente adeguato da fare una traduzione? Come deve comportarsi un ricercatore in presenza di dialetti di classe, multilinguismo e uso di lingue speciali da outsider? Com’è una traduzione accettabile: quella che contiene più elementi della lingua originale o emittente oppure quella che si incentra sulla lingua ricevente e sulla comprensione del lettore? Qual è il rapporto tra la traduzione e la struttura concettuale dell’antropologia? Per cominciare dobbiamo valutare dove la traduzione si inserisce per ciò che riguarda quello che fanno gli antropologi nella ricerca sul campo, nell’analisi dei dati e nella stesura del testo etnografico.

 

 

 

Anthropologists, going to do fieldwork in a culture foreign to their own, usually try to ascertain which language or languages are spoken in the area of their interest and to begin to learn these before they leave their home base or immediately upon arriving at the field site. Field assistants or interpreters may need to be used at first, and it is their translations upon which the anthropologist relies. Data that the fieldworker records, what people recount to him or her, words associated with rituals or conversations and observations may initially be written in the native language to be translated into their own language–English, German, etc.–soon after or in a procedure which combines both, which Malinowski used, as his field notes reveal. The phonetic recording of the material in the native language is essential, but often this is not the procedure used.

We might call this translation in the first instance. How does one approximate as closely as possible the original words and ideas of the culture being studied in the translation? Glossing and contextualizing is one of the methods used, which we will discuss later in greater detail. Clifford has made us very aware of the constructed nature of the ethnographic text and the various messages such texts convey. The ethnographic texts, which anthropologists publish today, never consist of the data exactly as collected in the field. Only Boas frequently did publish texts in the same form as they were received from his primary field assistant, George Hunt. Taking the postmodern message of subjectivity to heart, some postmodernist anthropologists publish their ethnographic material in very self-reflexive accounts, which describe what happened to them in the field, and the understandings of the other society which they themselves gained. They usually do not deal with the question of translation. This emphasizes the humanistic, hermeneutic focus on how the self constructs understandings of the Other.

 

 

Di solito gli antropologi, facendo ricerca sul campo in una cultura estranea alla propria, indagano quale lingua o quali lingue vengono parlate nell’area di loro interesse per iniziare ad impararle prima di partire o no non appena arrivano al sito di ricerca. Forse, all’inizio, è necessario coinvolgere assistenti di ricerca e interpreti: sono le loro traduzioni quelle su cui si basano gli antropologi . i dati raccolti, ciò che le persone raccontano loro, le parole legate a rituali o conversazioni e osservazioni, all’inizio magari vanno scritte nella lingua nativa per essere poi tradotte nella loro lingua: inglese, tedesco, ecc. poco dopo o con una procedura mista, come faceva Malinowski, secondo quanto rivelano le sue note. Registrare foneticamente il materiale della lingua nativa è fondamentale, ma non sempre è questa la procedura usata.

Ciò può essere subito chiamato traduzione. Come si fa ad avvicinare il più possibile le parole e le idee originali di una cultura studiata in traduzione? La chiosatura e la contestualizzazione sono uno dei metodi usati, dei quali parleremo dettagliatamente più avanti.

Clifford ci ha fatto prendere coscienza della natura costruita del testo etnografico e dei vari messaggi che tali testi trasmettono. I testi etnografici, che gli antropologi pubblicano oggi, non rispecchiano mai i dati esattamente come vengono raccolti sul campo. Solo Boas, spesso, pubblicava testi nella stessa forma in cui li riceveva dal suo primo assistente di ricerca, George Hunt. Prendendo alla lettera il messaggio postmoderno della soggettività, alcuni antropologi postmoderni pubblicano il materiale etnografico da una prospettiva autoriflessiva, descrivendo ciò che succedeva loro sul campo e il riconoscimento che si guadagnava all’intero dell’altra società. Loro di solito non affrontavano la questione traduttiva. Questo dà enfasi al focus umanistico, ermeneutico su come il proprio costruisce la comprensione dell’Altrui.

 

 

Other anthropologists, after doing their translations from the source language, chose to examine their data in terms of reoccurring patterns of behaviour and ideas and present their understandings of the culture in a series of generalizations.

At this level, the translation is in terms of the analytical concepts developed in anthropology, which permit the possibility of considering cross-cultural similarities if such are relevant. The question of the fit between the cultural understandings of one group and the level of analytical constructs is a very important issue. The development of analytical concepts in anthropology was based upon the premise of cross-cultural similarities at a higher analytical level than the generalizations formed about a single culture. At this level of generalization, some of the individuality and specificity of cultural phenomena which translation has revealed “falls by the wayside”. This last step is one which some younger American anthropologists today do not wish to take, precisely because they feel that analytical concepts do not cognitively resonate sufficiently with the meanings of the particular culture they have studied. More importantly, some see these analytical concepts as emanating from the hegemonic West to be imposed upon the Third World Others compromising the specificity of their cultural concepts.

Though translation in anthropology clearly involves a more complex procedure than literary translation, Translation Studies, which has recently emerged in the United States as a distinct discipline dealing not only with the historical and cultural context of translation, but also with the problems associated with translating texts, may offer some assistance to anthropologists confronting similar problems in their own work. The work of translation specialists has revealed that at different historic periods in the Western world, there were different translation paradigms. These varied in terms of the degree to which translations were oriented toward the target language or to the source language.

 

Altri antropologi, dopo aver redatto le loro traduzioni dalla lingua emittente hanno scelto di esaminare i loro dati sulla base di modelli ripetitivi di comportamento e idee e hanno presentato le proprie opinioni sulla cultura attraverso una serie di generalizzazioni.

A questo livello, la traduzione avviene in base ai concetti analitici sviluppati in antropologia, che permettono di prendere in considerazione somiglianze tra culture, qualora siano rilevanti. Il problema della comprensione culturale di un gruppo e il livello dei costrutti analitici è un tema molto importante. Lo sviluppo di concetti analitici in antropologia si basava sulla premessa di similitudini tra culture a un livello analitico superiore alle generalizzazioni su una singola cultura. E proprio a causa di queste generalizzazioni, si perdono alcune delle individualità e specificità dei fenomeni culturali che la traduzione ha scoperto. Quest’ultimo passo è quello che alcuni antropologi americani più giovani non vorrebbero fare, proprio perché capiscono che i concetti analitici non hanno risonanza sufficiente a livello cognitivo con i significati della cultura specifica che hanno studiato. Ma la cosa più importante è che alcuni antropologi hanno preso questi concetti analitici come provenienti dall’Occidente egemonico e imposti al Terzo Mondo Altrui, compromettendo le specificità dei loro concetti culturali.

Nonostante la traduzione in antropologia comporti una procedura più complessa rispetto alla traduzione letteraria, la scienza della traduzione, disciplina nata recentemente negli Stati Uniti che tratta non solo del contesto storico e culturale della traduzione, ma affronta anche i problemi connessi al tradurre testi, può essere d’aiuto agli antropologi che affrontano difficoltà simili durante il lavoro. Il lavoro dei professionisti della traduzione ha rivelato che a periodi storici distinti nel mondo occidentale, corrispondevano paradigmi traduttivi distinti. Questi variavano a seconda del grado di orientamento delle traduzioni verso la cultura emittente o ricevente.

 

What kind of connection should there be between the original text and the translation? Is the role of the translator, as it is imprinted on the translation, parallel to the role of the anthropologist as the interpreter of a culture not his own (though some anthropologists today study their own cultures)?

Translation theory rests on two different assumptions about language use. The instrumental concept of language, which sees it as a mode of communication of objective information, expressive of thought and meanings where meanings refer to an empirical reality or encompass a pragmatic situation.

The hermeneutic concept of language emphasizes interpretation, consisting of thought and meanings, where the latter shape reality and the interpretation of creative values is privileged (Venuti 2000: 5).

Competing models of translation have also developed. There are those who see translation as a natural act, being the basis for the intercultural communication which has always characterized human existence. This approach emphasizes the commonality and universality of human experience and the similarities in what appear, at first, to be disparate languages and cultures. In contrast, there is the view that translation, seen as the uprooting and transplanting of the fragile meanings of the source language, is unnatural. Translating is seen as a “traitorous act”. Cultural differences are emphasized and translation is seen as coming to terms with “Otherness” by “resistive” or “foreignizing” translations which emphasize the difference and the foreignness of the text. The foreignized translation is one that engages “… readers in domestic terms that have been defamiliarized to some extent” (Venuti 1998: 5) These models clearly reveal the ideological implications of translation, one of the features which translation-studies specialists have strongly emphasized.

 

 

Che tipo di legame deve instaurarsi tra prototesto e metatesto? Il ruolo del traduttore, la cui azione è indelebile sulla traduzione, è di pari passo al ruolo dell’antropologo come interprete di una cultura altrui (anche se alcuni antropologi attualmente studiano le proprie culture)?

La teoria della traduzione si basa su due presupposti diversi dell’uso della lingua. Il concetto strumentale di «lingua», che la vede come modalità di comunicazione, di informazione oggettiva, espressione del pensiero e di significati i quali si riferiscono a una realtà empiria o includono una situazione pragmatica.

Il concetto ermeneutico di «lingua» è incentrato sull’interpretazione, costituita da pensiero e significati dove i significati danno forma alla realtà e si privilegia l’interpretazione dei valori creativi (Venuti 2000:5).

Si sono inoltre sviluppati modelli competitivi della traduzione. Alcuni vedono la traduzione come un atto naturale, alla base della comunicazione interculturale che ha sempre caratterizzato la cultura umana. Questo approccio fa risaltare la comunanza e universalità dell’esperienza umana e le somiglianze di quelle che sembrano, in un primo momento, lingue e culture diverse. Di contro, esiste l’opinione che la traduzione è innaturale, vista come lo sradicamento e il trapianto dei fragili significati della cultura emittente. La traduzione è vista come «atto proditorio». Vengono messe in evidenza le differenze culturali e la traduzione affronta l’«altrui», attraverso traduzioni «resistenti» o «estranianti» che mettono in risalto la diversità e l’estraneità del testo. La traduzione estraniante è quella che impegna «… i lettori con termini locali che in una certa misura sono stati resi meno familiari». Questi modelli rivelano chiaramente le implicazioni ideologiche della traduzione, una delle caratteristiche che gli studiosi della traduzione hanno vivamente messo in risalto.

 

 

 

 

As Basnett notes, “All rewritings, whatever their intention reflect a certain ideology and a poetics and as such manipulate literature to function in a society in a given way. Rewriting is manipulation, undertaken in the service of power and in its positive aspect can help in the evolution of a literature and a society” (Basnett in Venuti 1995: vii). Hierarchy, hegemony and cultural dominance are often said to be reflected in translations, especially those which were done during the colonial period. These features are also said to be present in translations, which are being done now in the postcolonial period. The translation of foreign texts may also reflect the ideological and political agendas of the target culture. As Cronin notes, “Translation relationships between minority and majority languages are rarely divorced from issues of power and identity, that in turn destabilize universalist theoretical prescriptions on the translation process” (Cronin 1996: 4). The values of the culture of the source language may be different from those of the target language and this difference must be dealt with in any kind of translation.

It is clear that the translations done by anthropologists cannot help but have ideological implications. How does one preserve the cultural values of the source language in the translation into the target language, which is usually the aim of the translation. The values of the local culture are a central aspect of most of the cultural phenomena which anthropologists try to describe, and these may differ from and be in conflict with the values of the target culture. How to make that difference comprehensible to audiences is the major question at issue.

What constitutes “fidelity” to the original text? Walter Benjamin, in his famous essay entitled “The Task of the Translator”, notes that “The task of the translator consists of finding that intended effect [intention] into which he is translating, which produces in it the echo of the original” (Benjamin 1923 in Venuti 2000).

 

 

Come nota Basnett, «tutte le riscritture, qualsiasi sia la loro intenzione, rispecchiano una certa ideologia e poetica e come tali manipolano la letteratura per funzionare in un certo modo in una società. Riscrittura è manipolazione, al servizio del potere e nel suo aspetto positivo può aiutare l’evoluzione della letteratura e della società» (Basnett in Venuti 1995: vii). Gerarchia, egemonia e dominanza culturale spesso si riflettono nelle traduzioni, in particolare in quelle del periodo coloniale. Queste caratteristiche sarebbero presenti anche nelle traduzioni attuali, del periodo post-coloniale. La traduzione di testi stranieri a volte rispecchia anche i programmi ideologici e politici della cultura ricevente. Come rileva Cronin: «I rapporti traduttivi tra lingue minoritarie e maggioritarie, raramente sono separati da questioni di potere e identità, che a loro volta destabilizzano i principi teorici universalisti del processo traduttivo» (Cronin 1996: 4). I valori della cultura emittente sono diversi da quelli della cultura ricevente e in ogni tipo di traduzione la differenza va affrontata.

È chiaro che le traduzioni fatte dagli antropologi non possono non avere implicazioni ideologiche. Come si mantengono i valori della cultura emittente durante la traduzione nella cultura ricevente, che di solito è lo scopo della traduzione. I valori della cultura locale sono l’aspetto centrale della maggior parte dei fenomeni culturali che gli antropologi provano a descrivere e questi possono essere diversi dai valori della cultura ricevente ed entrare in conflitto con loro. Il problema maggiore in discussione è come rendere questa differenza comprensibile al pubblico.

Cosa significa essere “fedeli” al prototesto? Walter Benjamin, nel suo noto saggio intitolato «Il compito del traduttore», specifica che «il compito del traduttore consiste nel trovare quell’effetto intenzionale verso il quale sta traducendo, che produce l’eco dell’originale» (Benjamin 1923 in Venuti 2000).

 

 

 

To him, a translation constituted the continued life of the original. Benjamin is seen by translation specialists as espousing what is referred to as “foreignizing translation”. Benjamin sees the basic error of the translator as preserving the state “… in which his own language happens to be, instead of allowing his language to be powerfully affected by the foreign tongue. He must expand and deepen his language by means of the foreign language. It is not generally realized to what extent this is possible, to what extent any language may be transformed” (Benjamin in Venuti 2000: 22). The nineteenth-century German theorist Schleiermacher, who wrote “On the Different Methods of Translating” in 1813, thought that a translation could move in either of two directions: either the author is brought to the language of the reader or the reader is carried to the language of the author. In the latter case, when the reader is forced from his linguistic habits and obligations to move within those of the author, there is actual translation (Venuti 2000: 60). Foreignizing a text means that one must disrupt the cultural codes of the target language in the course of the translation. This method seeks to “… restrain the ethnocentric violence of translation and is an intervention … pitted against hegemonic English language nations and the unequal cultural exchanges in which they engage their global others” (Venuti 1995: 20). This approach would seem to be compatible with the goals of anthropology. Moving in the direction of the reader is referred to as the domestication of translation. The position of Venuti, and others, is that in this way translation has served the global purposes of the Western modernized industrial nations, at the expense of the subaltern nations and peoples around the world. Foreignizing translation is a way of rectifying the power imbalance by allowing the voice of these latter nations to be heard in their own terms.

 

 

 

 

Secondo l’autore, una traduzione rappresenta la continuazione della vita dell’originale. Benjamin è visto dagli specialisti in traduzione come fautore della «traduzione esotizzante». Benjamin considera errore basilare del traduttore quello di mantenere la situazione «…nella quale la sua lingua si trova, anziché permetterle di farsi influenzare energicamente dalla lingua straniera. Il traduttore deve espandere e approfondire la sua lingua per mezzo della lingua straniera. In generale non si sa fino a che punto questo sia possibile, fino a che punto una lingua possa esser trasformata» (Benjamin in Venuti 2000: 22). Schleichermacher, teorico tedesco dell’Ottocento che scrisse Metodi del tradurre nel 1813, pensava che la traduzione potesse muoversi in due direzioni: o lo scrittore viene portato alla lingua del lettore oppure il lettore viene portato alla lingua dello scrittore. [Manuale, 5: “O il traduttore lascia stare il più possibile lo scrittore e sposta il lettore verso lo scrittore, oppure lascia stare il più possibile il lettore e sposta lo scrittore verso il lettore”] Nel secondo caso si ha una vera traduzione, quando il lettore è costretto a trasferire le sue abitudini e obblighi linguistici verso quelli dello scrittore (Venuti 2000:60). Estraniare un testo significa ostacolare la lettura dei codici della cultura ricevente durante la traduzione. Questo metodo cerca di «… impedire la violenza etnocentrica della traduzione ed è un intervento … che mette in contrapposizione le nazioni egemoniche di lingua inglese e gli scambi culturali impari nei quali vengono coinvolti gli altri globali» (Venuti 995:20). Questo approccio è compatibile con gli obiettivi dell’antropologia. Lo spostamento verso il lettore è chiamato addomesticamento della traduzione. In questo modo, secondo Venuti e altri, la traduzione era al servizio degli obiettivi globali delle moderne nazioni occidentali industrializzate, a spese delle nazioni e dei popoli sottomessi di tutto il mondo. L’estraniazione è un modo di rettificare lo squilibrio di potere permettendo che la voce di queste ultime nazioni sia udita con parole proprie.

 

 

Minoritizing translation which relies on discursive heterogeneity contrasts with fluency which is assimilationist, according to Venuti (1998: 12).

In the 1970s in the United States, notions of cultural and linguistic relativity began to come to the fore. This direction, in anthropology, led to the postmodernist position, discussed above, that all cultures are unique and different and that cultural translation is a difficult if not impossible task but that cultural translation into a Western language should be attempted since cross-cultural understanding is an important goal. However, there are also some who support the position that at some level of generalization there are universals of language and culture. Given this perspective, foreign texts are seen as entities with invariants, capable of reduction to precisely defined units, levels and categories of language and textuality.

Jakobson, whose research has had significance for both linguists and anthropologists, takes his perspective from Pierce, the semiotician, and points out that “… the meaning of a linguistic sign is its translation into some further alternative sign, especially one which is more fully developed” (Jakobson 1959 in Venuti 2000). Jakobson distinguishes between intra-lingual translation – the rewording or interpretation of verbal signs by other signs of the same language; inter-lingual translation–translation proper, the interpretation of verbal signs by means of some other language; and inter-semiotic translation – the interpretation of verbal signs by signs of a non-verbal sign system. He recognized, as did Boas before him, that the grammatical pattern of a language determines those aspects of experience which must be expressed and that translations often require supplementary information since languages are different in what they must convey, and in what they may convey (Jakobson 1959 in Venuti 2000: 114). He cites an excellent example of the kind of supplementary information, which must be provided, in his discussion of inanimate nouns which are personified by gender.

 

 

Secondo Venuti, la traduzione minoritaria, basata sull’eterogeneità discorsiva, si oppone alla scorrevolezza assimilazionista (1998:12).

Negli anni Settanta, i concetti di «relativismo culturale e linguistico» divennero importanti negli Stati Uniti. Questa direzione, in antropologia, condusse alla posizione post-modernista, di cui si è già parlato, secondo cui tutte le culture sono uniche e diverse e la traduzione culturale è un compito difficile, se non impossibile, ma è necessaria questa traduzione culturale verso una lingua occidentale, visto che la comprensione multiculturale è un obiettivo importante. C’è tuttavia anche chi sostiene che, generalizzando, esistano universali delle lingue e delle culture. Da questo punto di vista i testi stranieri sono visti come entità con invarianti, riducibili a unità, livelli e categorie linguistiche e testuali definite precisamente.

Jakobson, le cui ricerche sono state significative sia per i linguisti che per gli antropologi, si basa su Peirce, semiotico, e specifica che «… il significato di qualsiasi segno linguistico è la sua traduzione in un segno ulteriore, alternativo, specialmente un segno in cui è ancor più pienamente sviluppato» (Jakobson 1959 in Venuti 2000). Jakobson distingue tra la traduzione intralinguistica che è la riformulazione o interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua; la traduzione interlinguistica, la traduzione vera e propria, che è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua; la traduzione intersemiotica che è l’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali. Così come Boas, riconobbe che la struttura grammaticale di una lingua determina quegli aspetti dell’esperienza che si devono esprimere e che le traduzioni spesso richiedono informazioni aggiuntive dato che le lingue si distinguono per ciò che devono esprimere non in ciò che possono esprimere (Jakobson 1959 in Venuti 2000:114). Jakobson cita un eccellente esempio del tipo di informazione aggiuntiva, che dev’essere fornita, nella discussione sui nomi inanimati, personificati per mezzo del genere.

 

 

In Russian, the word death is feminine, represented as a woman, while in German, the word is masculine and therefore represented as a man (Jakobson 1959 in Venuti 2000: 117). Clearly, distinctions of this sort are significant when one does any type of translation. The cultural context of the translation must always be presented.

How close can any translation come to the original text or statement? Nida notes that “Since no two languages are identical either in meanings given to corresponding symbols, or in ways in which such symbols are arranged in phrases and sentences, it stands to reason that there can be no absolute correspondence between languages … no fully exact translation … the impact may be reasonably close to the original but no identity in detail” (Nida 1964 in Venuti 2000: 126). Therefore, the process of translation must involve a certain degree of interpretation on the part of the translator. As Nida describes it, the message in the receptor language should match as closely as possible the different elements of the source language; constant comparison of the two is necessary to determine accuracy and correspondence. Phillips’ method of back translation in which equivalencies are constantly checked is one way to achieve as exact a correspondence as possible. One must reproduce as literally and meaningfully the form and content of the original, and make as close an approximation as possible. One should identify with the person in the source language, understand his or her customs, manner of thought, and means of expression. A good translation should fulfil the same purpose in the new language as the original did in the source language. It should have the feel of the original. This would seem to be a prescription which most anthropologists should follow in their own fieldwork. But Nida also attends to the needs of the reader, noting that the translation should be characterized by “naturalness of expression” in the translation and that it should relate to the culture of the “receptor”.

 

 

In russo, la parola «morte» è femminile e rappresentata come una donna mentre in tedesco è maschile e rappresentata come un uomo (Jakobson 1959 in Venuti 2000:117). Chiaramente, distinzioni di questo tipo sono significative per qualsiasi traduzione. Il contesto culturale della traduzione dev’essere sempre illustrato.

Fino a che punto una traduzione riproduce il testo o gli enunciati originali? Nida afferma che «Dato che non esistono due lingue identiche nei significati dei simboli corrispondenti né nei modi in cui questi simboli sono organizzati in frasi e enunciati, è corretto affermare che non può esserci corrispondenza esatta tra le lingue … né una traduzione totalmente esatta … ragionevolmente l’impatto può essere simile all’originale, ma non identico nei dettagli» (Nida 1964 in Venuti 2000:16). Inoltre il processo traduttivo richiede un certo grado di interpretazione da parte del traduttore. Secondo Nida, nella lingua ricevente il messaggio deve corrispondere il più possibile ai diversi elementi della lingua emittente; la comparazione costante tra le lingue è necessaria per definire accuratezza e corrispondenza. Il metodo di Philips della back translation, dove le equivalenze sono verificate costantemente, è un mezzo per ottenere una corrispondenza più esatta possibile. Bisogna riprodurre il più letteralmente possibile la forma e il contenuto dell’originale e produrre un’approssimazione più simile possibile. Bisogna identificarsi con una persona della lingua emittente, capire le sue abitudini, il modo di pensare, le modalità espressive. Nella lingua ricevente, una buona traduzione deve prefiggersi lo stesso obiettivo del testo originale nella lingua emittente. Deve creare la stessa impressione dell’originale. Questa sembrerebbe una norma che gli antropologi devono rispettare durante il lavoro sul campo. Nida però si occupa anche delle esigenze del lettore, notando che la traduzione deve dimostrare «naturalità espressiva» e deve far riferimento alla cultura «ricevente».

 

 

For this reason, he is seen as being in the camp of those who advocate the “domestication” of translation. In Nida’s eyes, the translation must make sense and convey the spirit and manner of the original, being sensitive to the style of the original, and should have the same effect upon the receiving audience as the original had on its audience (Nida in Venuti 2000: 134).

The solution, as he sees it, is some sort of dynamic equivalence that balances both concerns. Though the equivalence should be source-oriented, at the same time it must conform to and be comprehensible in the receptor language and culture. Nida goes into details in his volume, The Science of Translation, regarding the methods the translator should use to get the closest approximation of the source language, including using footnotes to illuminate cultural differences when close approximations cannot be found. This is what has been referred to above as glossing. He also talks about problems of translating the emotional content of the original, and the need to convey the sarcasm, irony, whimsy, and emotive elements of meaning of the original (Nida in Venuti 2000: 139–40). Nida’s theories are based on a transcendental concept of humanity as an essence unchanged by time and space, since “that which unites mankind is greater than that which divides, hence even in cases of very disparate languages and cultures there is a basis for communication” (Nida in Venuti 2000: 24). However, one must keep in mind that Nida’s work, in general, is informed by missionary values since he developed his science of translation with the express purpose of being used by missionaries in their task of translating biblical and religious texts for use by people speaking languages in remote parts of the world.

Venuti sees people like Nida as emphasizing semantic unity while those who emphasize foreignization stress discontinuities and the diversity of cultural and linguistic formations, translation being seen as the “…violent rewriting of the foreign text” (Venuti 1995: 24).

 

Per questo motivo, Nida è visto come colui che difende l’«addomesticamento» della traduzione.

Secondo la visione di Nida, la traduzione deve avere un senso e trasmettere lo spirito e il modo dell’originale, e deve produrre sul pubblico ricevente gli stessi effetti che l’originale ha prodotto sul suo pubblico (Nida in Venuti 2000:134).

La soluzione, secondo lui, è una specie di equivalenza dinamica che mette in equilibrio le due questioni. Sebbene l’equivalenza debba essere orientata verso l’emittente, allo stesso tempo deve adeguarsi alla lingua e alla cultura ricevente e essere comprensibile. Nida entra più in dettagli nel suo The Science of Translation [La scienza della traduzione], sui metodi che il traduttore deve usare per avvicinare il testo il più possibile alla lingua emittente, includendo note a piè di pagina per chiarire le differenze culturali, laddove non esista una similitudine stretta. Questa è la chiosatura, di cui abbiamo già parlato. Nida spiega inoltre i problemi del tradurre il contenuto emotivo dell’originale e la necessità di riprodurre sarcasmo, ironia, stravaganze e emozioni significative dell’originale (Nida in Venuti 2000: 139-40). Le teorie di Nida si basano su un concetto trascendentale dell’umanità come un’essenza immutabile nel tempo e nello spazio, dato che «ciò che unisce l’umanità è più forte di ciò che la divide, anche in caso di lingue e culture diverse esiste una base per comunicare» (Nida in Venuti 2000:24). Bisogna a ogni modo ricordare che il lavoro di Nida nasce da valori missionari, visto che lui ha sviluppato la sua scienza traduttiva con il chiaro obiettivo di essere usata dai missionari nei loro compiti di traduzione biblica e di testi religiosi a disposizione di persone che parlano lingue diverse in varie parti del mondo. Venuti osserva che persone come Nida danno importanza all’unità semantica mentre chi enfatizza l’estraniazione dà importanza alle discontinuità, alla diversità di formazione culturale e linguistica, e la traduzione è vista come «…violenta riscrittura del testo straniero» (Venuti 1995:24).

 

 

The differences of the foreign text are to be stressed. A foreignized translation is one which reflects and emphasizes the cultural differences between source and target languages. In anthropology, the goal is to present the different aspects of the culture or society being examined in a “translation” which is as true to the original as possible. No concessions should be made to make the description more acceptable and palatable to the target audience except for intelligibility.

Venuti also talks about “the illusion of transparency”, meaning that the translation must be characterized by easy readability, making the translator and the conditions under which the translation was made invisible. Different societies have different traditions regarding translation.

Fluency is the dominant idea for the English. This means that there is a preference for the use of current English usage in translation, rather than colloquial and archaic language though the translator may see the latter as more suitable in conveying the meanings and genre of the original. The importance of immediate intelligibility is associated with the purely instrumental use of language and the emphasis on facts (Venuti 1995: 1-5). Since domesticating the text is said to exclude and conceal the cultural and social conditions of the original text to provide the illusion of transparency and immediate intelligibility, this is referred to as “the ethnocentric violence of translation”. The “canonization of fluency in English language translations”, developed during the early modern period, dominated and limited the translator’s options (Venuti 1995: 810). Other translation specialists talk about the need to seek functional equivalence even if one must make explicit in the target language what is implicit in the source language (Levý in Venuti 2000: 167). One must realize in the target language the textual relations of the source language with no breach of the target language basic linguistic system.

 

 

Le differenze del testo straniero devono essere accentuate. La traduzione estraniante riflette e accentua le differenze culturali tra lingua emittente e lingua ricevente. L’obiettivo in antropologia, è presentare gli aspetti diversi della cultura o della società esaminata in una «traduzione» che è più fedele possibile all’originale. Non si possono fare concessioni, eccetto per motivi di intelligibilità, per rendere la descrizione più accettabile e gradevole al pubblico ricevente.

Venuti parla anche dell’«illusione della trasparenza»: la traduzione dev’essere facilmente leggibile, rendendo invisibili il traduttore e le condizioni sulle quali si è basata. Società diverse hanno tradizioni traduttive diverse.

La scorrevolezza è la dominante principale per l’inglese. Questo significa che si preferiscono forme dell’inglese corrente nella traduzione, e non un linguaggio colloquiale e arcaico anche se il traduttore può considerare questi ultimi più adatti per rendere i significati e il genere testuale dell’originale. L’importanza dell’intelligibilità immediata è associata al puro uso strumentale della lingua e all’enfasi sui fatti (Venuti 1995: 1-5).

Visto che l’addomesticamento esclude e nasconde le condizioni culturali e sociali del testo originale a favore dell’illusione della trasparenza e dell’intelligibilità immediata, ci si riferisce a ciò come «violenza etnocentrica della traduzione».

La «canonizzazione della scorrevolezza nelle traduzioni in inglese», sviluppata all’inizio del periodo contemporaneo, ha dominato e limitato le opzioni del traduttore (Venuti 1995:810). Altri specialisti della traduzione rivelano il bisogno di cercare equivalenze funzionali anche nel caso in cui si debba rendere esplicito nella lingua ricevente ciò che è implicito nella lingua emittente (Levý in Venuti 2000:167). Nella lingua ricevente si devono rendere le relazioni testuali della lingua emittente senza violare il sistema linguistico basilare della lingua ricevente.

 

 

However, incompatibilities will always be present which must be dealt with by additional discussion and contextualization, what we called glossing above.

Clearly, anthropologists need to deal with these different aspects of translation and to concern themselves with which kind of balance should be achieved in the work that they do.

An important point raised, which relates more directly to translations by anthropologists, is that the foreign text depends upon its own culture for intelligibility. It is therefore usually necessary to supply supplementary information, annotations and the like to anthropological translations. This is what is referred to as glossing. This is especially necessary when the source language and its culture have no exact linguistic and cultural equivalent in the target language. Quine suggests that one “…steep oneself in the language disdainful of English parallels to speak it like a native, eventually becoming like a bilingual” (Quine 1959 in Venuti 2000: 108). The turn toward thinking, which emphasizes cultural relativity, revived “…the theme of untranslatability in translation theory” (Venuti 2000: 218).

Irreducible differences in language and culture, the inherent indeterminacy of language, as well as the unavoidable instability of the signifying process, are seen as problems which must be overcome if one is to do a translation. The polysemy of languages and the heterogeneous and diverse nature of linguistic and cultural materials which “destabilize signification” and make meaning plural and divided, are now seen as complicating factors in translation (Venuti 2000: 219).

Translation is doomed to inadequacy because of irreducible differences not only between languages and cultures, but within them as well. The view that language itself is indeterminate and the signifying process unstable would seem to preclude the possibility of any kind of adequate translation.

 

 

Ad ogni modo, esisteranno sempre incompatibilità che bisognerà affrontare attraverso una discussione e contestualizzazione aggiuntiva, che abbiamo precedentemente denominato di chiosatura. Chiaramente, gli antropologi devono affrontare questi differenti aspetti della traduzione e devono preoccuparsi del tipo di equilibrio da conferire al lavoro che stanno facendo.

Un’importante questione sollevata, legata più direttamente alle traduzioni degli antropologi, è che il testo estraneo dipende dalla sua cultura per essere intelligibile. A volte è necessario fornire informazioni aggiuntive, annotazioni e simili alla traduzione in antropologia. Ciò è detto «chiosatura». Questa si rivela particolarmente necessaria quando la lingua emittente e la sua cultura non hanno un equivalente linguistico e culturale nella lingua ricevente. Quine afferma che ci «…si immergerà nella lingua, rifuggendo i parallelismi inglesi, al punto che la si parlerà come un nativo, diventando alla fine bilingue» (Quine 1959 in Venuti 2000:108).

La svolta del pensiero, che accentua la relatività culturale, ha fatto rivivere «…il tema dell’intraducibilità nella teoria traduttiva» (Venuti 2000:218).

Le irriducibili differenze nella lingua e cultura, l’intrinseca indeterminatezza della lingua, così come l’inevitabile instabilità del processo di significazione, sono visti come problemi che devono essere superati quando si traduce. La polisemia delle lingue e l’eterogeneità e la diversa natura del materiale linguistico e culturale che «destabilizza la significazione» e rende il significato plurale e diviso, adesso vengono visti come fattori che rendono la traduzione più difficoltosa (Venuti 2000:219).

La traduzione è destinata all’inadeguatezza a causa di differenze irriducibili non solo tra lingue e culture, ma anche al loro interno. L’idea che la lingua sia indeterminata e il processo di significazione instabile, sembrerebbe impedire qualsiasi tipo di traduzione adeguata.

 

 

Interestingly, Venuti sees the foreign text itself as the site of “many different semantic possibilities” which any one translation only fixes in a provisional sense. Meaning itself is seen as a “… plural and contingent relation, not an unchanging unified essence” (Venuti 1995: 18). When a text is retranslated at a latter period in time, it frequently differs from the first translation because of the changes in the historical and cultural context.

However, many subscribe to the counter-argument, holding that translation is possible if it “…seeks to match [the] polyvalences or plurivocatives or [the] expressive stress of the original…, [resisting the] constraints of the translating language and interrogates the structure of the foreign text” (Lewis in Venuti 2000: 218). Translation is a re-codification, a transfer of codes. Synonymy is not necessarily possible, but a form of translation can still take place. As Frawley notes, “Translation when it occurs has to move whatever meanings it captures from the original into a framework that tends to impose a different set of discursive relations and a different construction of reality” (Frawley in Venuti 2000: 268). The inadequacies of the translation must be dealt with in an accompanying commentary. The transformations, which a translation embodies, should take place on the semantic, syntactic and discursive levels.

As Venuti notes, “Translation is a process that involves looking for similarities between language and culture–particularly similar messages and formal techniques–but it does this because it is constantly confronting dissimilarities. It can never and should never aim to remove these dissimilarities entirely. A translated text should be the site at which a different culture emerges, where a reader gets a glimpse of a cultural other and resistency.

 

 

È interessante che Venuti veda il testo estraneo come luogo di «molte combinazioni semantiche diverse» che una traduzione fissa provvisoriamente. Il significato di per sé è visto come «relazione plurale e contingente, non un’essenza unificata immutabile» (Venuti 1995:18). Quando un testo viene ritradotto in un secondo tempo, normalmente è diverso dalla prima traduzione a causa dei cambiamenti del contesto storico e culturale.

Ad ogni modo, molti sostengono la contro-argomentazione secondo la quale la traduzione è possibile se «… prova a unire le polivalenze o plurivocità o l’accento espressivo dell’originale…, [opponendosi alle] restrizioni della lingua traducente e interroga la struttura del testo estraneo» (Lewis in Venuti 2000:218). La traduzione è una ricodifica, un trasferimento di codici. La sinonimia non è necessariamente possibile, ma una forma di traduzione può comunque essere realizzata. Come nota Frawley, «la traduzione, quando si verifica, deve trasferire qualsiasi significato colto dall’originale in una struttura che tende a imporre un quadro diverso di relazioni discorsive e una costruzione diversa della realtà (Frawley in Venuti 2000:268). Le inadeguatezze della traduzione vanno affrontate con commentari aggiuntivi. La trasformazione, incorporata nella traduzione, deve verificarsi a livello semantico, sintattico e discorsuale.

Come nota Venuti, «la traduzione è un processo che richiede di osservare le similitudini tra lingua e cultura, particolarmente messaggi simili e tecniche formali, ma lo fa perché affronta costantemente differenze. Non può e non deve mai rimuovere queste differenze completamente. Un testo tradotto dev’essere il luogo in cui emergono culture diverse, dove il lettore ottiene una visione di una cultura diversa e di una resistenza.

 

 

A translation strategy based on an aesthetic of discontinuity can best preserve that difference, that otherness, by reminding the reader of the gains and losses in the translation process and the unbridgeable gaps between cultures” (Venuti 1995: 305).

To Venuti, translation has become a battleground between the hegemonic forces – the target culture and language, and the formerly subjugated non-Western world. The nature of translation must be shifted to emphasize the resistance of the latter to the domination of the former. Where does translation in anthropology stand in this ongoing dialogue in Translation Studies? Certainly, anthropology tries to preserve as much as possible of the source culture and language (the object of investigation) in the “translation” or ethnography. This begins in the field, in the recording of information, and continues in the analysis of data and in decisions as to the nature of the ethnographic text which will be produced. In this respect, Venuti’s remarks parallel the position of most anthropologists. On the other hand, the text must be comprehensible to the readership of that text, professional or non-professional. In some ways, writing a popular version of one’s ethnographic text is itself a translation from the ethnographic text, which is oriented toward the professional anthropologist. In the final analysis, it is a matter of the balance or trade-off between the need to be comprehensible to the particular readership of the text and the need to convey as much of the original as is possible. The question at issue is how to achieve this balance. Translations should, in the final analysis, negotiate the linguistic and cultural differences between the source language and culture and that of the target audience for the translation.

 

 

Una strategia traduttiva basata sull’estetica della discontinuità conserva meglio quelle differenze, quella altruità, ricordando al lettore i guadagni e le perdite del processo traduttivo e l’incolmabile gap tra culture» (Venuti 1995:305).

Secondo Venuti, la traduzione è diventata un campo di battaglia tra le forze egemoniche, la lingua e cultura riceventi e il mondo non occidentale un tempo sottomesso. La natura della traduzione va spostata in modo da enfatizzare la resistenza di queste ultime alla dominazione delle prime. Dove si colloca l’antropologia in questa discussione in corso nella scienza della traduzione? Chiaramente, l’antropologia cerca di mantenere il più possibile della cultura e lingua emittente (oggetto dell’investigazione) nella “traduzione” o etnografia. Questo comincia sul campo, registrando informazioni, continua nell’analisi dei dati e nelle decisioni riguardo alla natura del testo etnografico che verrà prodotto. A questo proposito, le osservazioni di Venuti sono simili alla posizione della maggior parte degli antropologi. D’altro canto, il testo dev’essere comprensibile ai lettori di quel testo, professionisti oppure no. In un certo modo, redigere una versione divulgativa di un testo etnografico, quest’ultimo rivolto all’antropologo professionale. In ultima analisi, è una questione di equilibrio o compromesso tra il bisogno di comprensione del testo per certi lettori e il bisogno di riportare il più possibile dell’originale. Il punto in questione è come raggiungere questo equilibrio. In definitiva, la traduzione deve negoziare le differenze linguistiche e culturali tra la lingua e la cultura emittente e quella del pubblico ricevente.

 

 

 

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