Dove non si parla d’amore Opera recensita: Nina Berbérova, Dove non si parla d’amore, traduzione dal russo di Margherita Crepax, p. 222, L. 26.000 del settembre 1997

Nina Berbérova, Dove non si parla d’amore, traduzione dal russo di Margherita Crepax, p. 222, L. 26.000

 

La notorietà di Nina Berbérova (1901-1993) in Italia risale agli ul­timi anni della sua vita, quando la scrittrice viveva negli Stati Uniti. È però stato l’editore francese Actes Sud a ripubbli­carne l’opera e a pro­porla all’estero. Inizialmente i titoli tradotti in ita­liano sono stati scelti con l’inten­zione di attirare un lettore che non la cono­sceva, pescando tra le opere conside­rate più impor­tanti: L’accompagnatrice, Feltrinelli 1987, da cui è tratto il film di Claude Miller (1992), Alleviare la sorte (Feltrinelli 1988, che con­tiene anche il racconto «Pianto»). In séguito, anche dopo la monumentale au­tobio­grafia Il cor­sivo è mio (Adelphi 1989), Berbérova è di­venuta un punto di riferimento per il let­tore ita­liano, e sono uscite altre cinque raccolte di racconti, sempre per Adelphi, perciò sa­rebbe lecito quanto meno so­spettare che Dove non si parla d’amore sia un tentativo di pro­pinare al lettore gli avanzi, ben con­fezionati in un polpet­tone.

Ma non è così.

I diciannove racconti qui pubblicati, scritti tra il 1931 e il 1940 in Francia, prima di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti, sono poesie in prosa accomunate da rilevanti motivi di fondo — il vuoto/la vanità, il ritorno parallelo nello spazio e nel tempo, la modesta autostima femmi­nile versus la tracotante arroganza maschile — che ne fanno un’opera com­patta e coesa.

«Poema in prosa», titolo di un racconto, sarebbe facilmente esten­sibile all’in­tera raccolta per la prevalenza del simbolico, del connotativo, del caden­zato. Quelli che in superficie si pre­sentano come rac­conti sulla mi­seria, sull’emi­grazione, sulla Francia degli anni Trenta vista dall’oc­chio stra­niante di una russa fuggita dalla Russia della rivoluzione, a un esame più attento si fanno leg­gere e ri­leggere come poesie, in cui il let­tore è libero di tracciare acapo mentali per for­giare, sciogliere e rifor­giare i versi che più lo av­vincono.

La fo­glia d’acero prota­go­nista del «Poema in prosa» ha resistito sull’al­bero nonostante il freddo, e trema — sensibile al mi­nimo alito di vento — davanti alla po­tenza, alla rumorosa vio­lenza del rullo schiaccia­sassi. Solo la de­formazione paranoide di Kroon — impotente inventore fallito di gio­chi di distruzione, di conqui­sta, di sopraffazione — può de­formarla al punto di con­siderarla «una foglia egoista che è riuscita a mettersi in salvo», meccanismo patologico in cui l’esistenza, per quanto inno­cente, viene caricata di sensi di colpa del tutto fuori luogo.

Perla nella trattazione po­etica del ritorno spaziotemporale è «Souvenir di Pietroburgo», dove, alla va­nità dei souvenir «che già adesso non ricor­davano niente a nes­suno e che anche in futuro sa­rebbero ser­viti solo a ricordare una gior­nata in una città estra­nea», si contrappone il viaggio autentico di Gastón Gastónovič a Pietroburgo (dove Berbérova è nata), un luogo dove «ogni tanto bisogna ritor­nare». È facile illudersi, rian­dando ai profumi, alle luci, agli spazi, di poter ripercorrere a ri­troso l’esistenza, ripresentandosi agli stessi bivi ma compiendo scelte di per­corso diverse. E il ri­torno al presente viene alleviato dal gesto di Gastón Gastónovič di regalare una stilografica al «figlio che Ólen’ka avrebbe po­tuto avere da lui». «“Dev’essere molto costosa” aggiunse stringendo la penna nella mano.» Il giovane non ha fazzoletto nel taschino, e la penna cade proprio a fagiolo, puntuale nel colmare un vuoto.

La donna in questi rac­conti è spesso vittima della pro­pria scarsa autostima. In «Gli stessi, senza Konstantìn Ivànovič», Natàl’ja Petróvna non può conside­rarsi «in niente una donna eccezionale», e ha una ri­ve­renza assoluta per Konstantìn Ivànovič. Invece ha capacità creative non indifferenti, tant’è vero che immagina di trasporre per il teatro il dramma della propria vita, in cui Konstantìn Ivànovič figurerebbe «quasi sempre dietro le quinte», ossia in posizione di potere. L’uomo è in realtà «“una caricatura” e “un ciarlatano”», un esibizioni­sta che pro­nuncia parole «scritte sul quaderno con la let­tera maiuscola», e proprio dal fumo di queste maiuscole Natàl’ja si lascia accecare. La poesia del racconto tocca il suo apice nella descrizione di come Natàl’ja vive la propria partecipazione alla conferenza del rimpianto ex convi­vente, Konstantìn Ivànovič: «Ha detto: sono fe­lice. Anch’io lo penso: è felice. Ah, mio Dio, non riesco assolu­tamente a seguire».

A lui, d’altronde, «non interessa af­fatto sapere» se gli altri lo ascol­tano: perciò ha bisogno di circondarsi di un pubblico rispettoso e pas­sivo; la stessa funzione svolta durante la convivenza da Natàl’ja, che alla conferenza crede di non riu­scire a seguirlo perché parte dal presuppo­sto che, die­tro la vanità di quelle pa­role, stia un senso. E la mancanza di que­sto senso viene da lei interpretata come propria inca­pacità di capire. Natàl’ja si per­cepisce come ca­pace solo di cre­scere e mante­nere un fi­glio non proprio, ma di lui, e lui, liberatosi di quel fardello, prosegue le sue predi­cazioni per il mondo, offeso perdipiù dal­l’in­comprensione di quel — simpa­ticisssimo — nu­cleo famigliare sui ge­neris, in cui l’impor­tanza di ciascuno si stempera nell’i­dentità di gruppo. Ma anche questa apparte­nenza viene vis­suta con sensi di colpa dalla protagonista. «E aveva ra­gione, rifletteva Natàl’ja Petróvna, c’è qualcosa di ridi­colo nel nostro andare dapper­tutto insieme, in sette, a trovare gli amici, a fare la spesa, al ci­nema». La poesia del prosaico viene vissuta come ossimoro solo dal­l’ottusa superficialità del predicatore. «E non c’è pensiero né bellezza in una pentola piena di boršč o in una tinozza d’ac­qua». Intellettuale non è chi lo è, ma chi vi si atteggia. Vengono in mente le re­centi polemiche sul­l’uso improprio, da parte di al­cuni filosofi, di termini scientifici per get­tare fumo negli occhi al­l’ignaro lettore…

Il vertice della poesia sul­l’eccessiva modestia nella con­cezione del Sé femmi­nile è in «Sua moglie», “la moglie di lui”, per intenderci. In fa­miglia si svolge un gioco lettera­rio ma senza pretese. Bisogna prendere la coppia nome+patronimico di tutti i pre­senti e i conoscenti e cercare l’opera let­teraria in cui compare un per­sonaggio dallo stesso nome. Anche qui il nucleo fami­gliare è massimamente strampa­lato, e conduce una vita modesta che si ravviva soltanto a Natale, con l’arrivo dall’estero di Ósip Ivànovič, e con il gioco dei nomi dei personaggi. L’estero è un mondo di fiaba, l’arrivo di Ósip Ivànovič è l’arrivo di un perso­naggio, e con lui la vita diventa let­teratura e la letteratura vita. «Forse qualcuno dirà […] che c’è sempre da insospettirsi quando le donne fanno ah! e uh! e che il nostro Ósip Ivànovič era solo un chiacchierone inna­morato di se stesso, incapace perfino di notare le “persone vere” accanto a lui…» Ecco il prototipo del maschio vincente. Ma se in «Gli stessi, senza Konstantìn Ivànovič» c’era il dramma autentico nel dramma immagi­nato, qui c’è il gioco au­tentico nel gioco immaginato: il gioco delle con­getture su che tipo potrebbe essere la moglie di lui, che a que­ste riu­nioni “come ai vecchi tempi” non è mai presente, ma lo aspetta nell’al­bergo.

Le donne di famiglia proiettano scopertamente: «Vicino a lui an­che una donna in­telligente sembrerebbe scema. Sua moglie fa bene a non farsi vedere in giro». «Gli uomini di genio adorano sposare le cuo­che […] in casa gliene piacerà una che non parla, sotto­messa, man­sueta… E io lo capisco». Ergo: nessuna di noi potrebbe essere sua moglie perché siamo troppo evolute. Sulla scorta di queste proiezioni infondate, alla morte di Ósip Ivànovič, il gruppo fa una colletta e si pre­senta per consegnarla alla “scema”, alla “cuoca” vedova col figlio Alëša. La doccia fredda, dopo la quale la colletta verrà ridistri­buita agli offerenti, non po­trebbe essere più ge­lida: «Alëša studia arte». «Ad Alëša piace andare a ca­vallo». Bastano due o tre di que­sti macigni per frantumare le fantasie di anni e allon­ta­nare dal­l’albergo di lusso i malcapitati, che inciampano nelle poltrone. E il gioco è continuato fino alla fine: la vedova si chiama Ànna Arkàd’evna: come la moglie di Karénin nel romanzo di Tolstój.

Bruno Osimo

settembre 1997

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