ELISA ONGARO Savory: traduzione filologica e traduzione leggibile Savory: philological and readable translation

Savory: traduzione filologica e traduzione

leggibile
Savory: philological and readable translation

ELISA ONGARO

Scuole civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 Milano

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Marzo 2008

© Theodore Horace Savory, London, 1957 © Elisa Ongaro per l’edizione italiana 2008

Savory: traduzione filologica e traduzione leggibile Savory: philological and readable translation

ABSTRACT IN ITALIANO
Il tema della cosiddetta “fedeltà” al testo, o più precisamente la scelta tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile, ha sempre costituito materia di dibattito tra gli studiosi di traduzione. La traduzione filologica risulta dettata da un orientamento di conservazione del prototesto come espressione della cultura emittente, producendo una traduzione «source- oriented». Al contrario, la scelta di avvicinare il testo al lettore, esaltando la leggibilità nella cultura ricevente, porta ad una traduzione «target- oriented». Vengono sintetizzate teorie di alcuni studiosi ed è stata proposta la traduzione di un capitolo del libro The Art of Translation di Savory, seguendo quanto più possibile l’approccio filologico sostenuto dall’autore. L’analisi ha portato alla definizione del testo come principalmente aperto, mentre la dominante risiede nel suo carattere informativo, rivolto a studiosi e studenti della traduzione come lettori modello.

ENGLISH ABSTRACT
The subject of so-called “faithfulness” to a text, or more precisely the choice between a philological translation and a readable one, has always been a topic for discussion among translation experts. A philological translation aims to maintain as much of the prototext as possible as expression of the source culture; the result is a “source-oriented” translation. On the contrary, the decision to bring the text nearer to the reader, favouring readability by readers of the target culture, leads to a “target-oriented” translation. Theories of different experts are summarized. A translation of a chapter of The Art of Translation by Savory is given, and as far as possible the philological approach followed is that suggested by the author. The analysis allows the text to be defined as an open text, whereas the dominant is its informative character and the model readers identified are scholars and students of translation.

DEUTSCHES ABSTRACT
Das Thema der so genannten “Texttreue“ oder genauer die Wahl zwischen philologischer Übersetzung und lesbarer Übersetzung hat unter den Übersetzungswissenschaftlern immer Anlass zur Diskussion gegeben. Die philologische Übersetzung hängt mit der Absicht zusammen, den Prototext als Ausdruck der Ausgangskultur möglichst getreu zu bewahren und führt zur Produktion einer ausgangsorientierten Übersetzung. Die Entscheidung, den Text dem Leser näher zu bringen und die Lesbarkeit in der Zielkultur in den Mittelpunkt zu stellen, führen dagegen zu einer zielorientierten Übersetzung. In dieser Diplomarbeit wurden die Theorien von verschiedenen Experten kurz vorgestellt. Sie enthält auch die Übersetzung eines Kapitels von Savorys Werk The Art of Translation, wobei der vom Autor empfohlene philologische Ansatz bestmöglich befolgt wurde. Die Analyse konnte den Text als hauptsächlich offen definieren. Die Modell- Leser sind Übersetzungswissenschaftler und Studenten und die Dominante des Textes liegt in seinem informativen Charakter.

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SOMMARIO
I – TRADUZIONE FILOLOGICA E TRADUZIONE LEGGIBILE………………………………………. 5

1.1 INTRODUZIONE………………………………………………………………………………………………………………… 6 1.2 GIDEON TOURY ……………………………………………………………………………………………………………….. 6 1.3 VLADÌMIR NABÓKOV ……………………………………………………………………………………………………….. 9 1.4 UMBERTO ECO ………………………………………………………………………………………………………………. 10 1.5 JACQUES DERRIDA…………………………………………………………………………………………………………. 14 1.6 GEORGE STEINER ………………………………………………………………………………………………………….. 15 1.7 WALTER BENJAMIN ……………………………………………………………………………………………………….. 16 1.8 EUGENE A. NIDA ……………………………………………………………………………………………………………. 17 1.9 THEODORE SAVORY……………………………………………………………………………………………………….. 18

II – THEODORE SAVORY: ANALISI DEL TESTO DA TRADURRE……………………………….. 21

2.1 FATTORI EXTRATESTUALI ………………………………………………………………………………………………. 22 2.1.1. Funzione del testo ………………………………………………………………………………………………………. 22 2.1.2. Autore empirico e autore modello ………………………………………………………………………………… 24 2.1.3. Lettore modello del prototesto ……………………………………………………………………………………… 24 2.1.4. Lettore modello del metatesto ………………………………………………………………………………………. 25 2.1.5. Canale del messaggio …………………………………………………………………………………………………. 26 2.2 ELEMENTI INTERNI AL TESTO………………………………………………………………………………………….. 26 2.2.1. Lessico ………………………………………………………………………………………………………………………. 26 2.2.2 Sintassi ………………………………………………………………………………………………………………………. 27 2.2.3 Registro ……………………………………………………………………………………………………………………… 27 2.2.4 Dominante del prototesto e dominante del metatesto ………………………………………………………. 28 2.3 Strategia traduttiva ………………………………………………………………………………………………………… 28 2.4 Difficoltà e residuo traduttivo………………………………………………………………………………………….. 30

III – TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE ………………………………………………………………….. 33 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI …………………………………………………………………………………….. 54 RINGRAZIAMENTI …………………………………………………………………………………………………………. 56

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I

TRADUZIONE FILOLOGICA E TRADUZIONE LEGGIBILE

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1.1 Introduzione
Numerosi autori, allo scopo di sviluppare e proporre teorie della traduzione, hanno analizzato la problematica della cosiddetta “fedeltà” al testo, o più precisamente il dilemma tra la produzione di una traduzione filologica o leggibile. Le diversità di opinioni scaturiscono dal diverso approccio verso la traduzione, ovvero dalla scelta di porre in primo piano la cultura emittente piuttosto che la cultura ricevente. Le diverse teorie riguardo alle strategie e alle scelte traduttive dipendono quindi da questa differenza. Una strategia orientata verso la cultura emittente porterà quindi alla produzione di una traduzione filologica, mentre al contrario un orientamento verso la cultura ricevente favorirà una traduzione leggibile.
L’analisi da me svolta prende in considerazione le teorie esposte da numerosi autori, tra cui teorici della traduzione, traduttori, scrittori e semiotici. Numerosi studiosi e teorici della traduzione si sono poi concentrati in modo particolare sulla traducibilità della poesia, questione strettamente legata alla tematica da me considerata. Tuttavia ho scelto di trattare il problema dell’individuazione di una strategia traduttiva tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile secondo gli aspetti generali e considerando in modo più ampio tutti i generi e i tipi di testo. Numerosi infatti sono gli scrittori e gli studiosi che hanno affrontato il problema della traducibilità della poesia, alcuni dei quali vengono citati anche in questa analisi, come per esempio Umberto Eco. Nonostante ciò questa tematica, per quanto molto interessante, non verrà trattata direttamente nella mia analisi.

1.2 Gideon Toury
Gideon Toury (1942- testologo israeliano) ascrive le traduzioni, considerandole in termini di processi semiotici, all’interno di due sistemi differenti e interrelati: il sistema ricevente e il sistema emittente. Secondo Toury questi sistemi si trovano in una posizione gerarchica l’uno rispetto all’altro in termini di importanza, in quanto la caratteristica di una traduzione di far parte del sistema ricevente prevale rispetto alla funzione di rappresentare il sistema emittente. In altre parole una traduzione viene definita ed inquadrata secondo il sistema ricevente, che contribuisce in

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misura maggiore alla sua formazione. Si preferisce quindi una traduzione leggibile per la cultura di destinazione, ponendo in secondo piano l’aspetto filologico della traduzione. Vediamo ora come Toury sviluppa le proprie teorie verso questa caratterizzazione. Toury definisce il processo di traduzione come un «trasferimento (transfer)», attraverso il quale una singola entità semiotica appartenente ad un sistema emittente viene trasferito in una nuova entità semiotica all’interno di un sistema differente. Ne consegue che l’entità risultante presenterà un’ambiguità evidente:

a) come qualsiasi altra entità semiotica sarà parte integrante del sistema cui appartiene (vale a dire del sistema di arrivo);
b) a differenza di entità semiotiche ordinarie (cioè primarie e non derivate), sarà anche la rappresentazione (più o meno parziale) di un’altra entità appartenente a un diverso sistema, in funzione di un fattore costante comune a entrambe le entità. (Toury 1979: 106)

La conseguenza logica di questa ambiguità, derivante dal fatto che le due entità semiotiche considerate fanno parte di due sistemi distinti, è la creazione di tre tipi di relazione intercorrenti tra di loro. La prima è la relazione esistente tra le due stesse entità semiotiche, ognuna considerata all’interno del proprio sistema di appartenenza. Da questo scaturisce il concetto di «accettabilità» di ognuna di esse secondo i criteri del proprio sistema. La seconda relazione è quella che intercorre tra le due entità, considerate secondo una costante pertinente al tipo di trasferimento apportato, definita generalmente con «adeguatezza». Il terzo e ultimo tipo di relazione è quella esistente tra i due sistemi ai quali le entità semiotiche appartengono, ovvero i codici soggiacenti. Secondo Toury è proprio quest’ultima relazione a rappresentare il criterio più importante per determinare e descrivere i diversi tipi di trasferimento. La predeterminazione del tipo di relazione esistente tra i codici è fondamentale per l’operazione di traduzione:

Conseguenza della predefinizione del tipo di relazione instaurata tra i codici è la possibilità di gestire i trasferimenti fra le entità codificate in maniera altamente economica, cioè di potere trasferire un predefinito ‘nucleo’ costante in maniera ottimale (quindi con un alto valore di corrispondenza tra le due entità), ottenendo

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allo stesso tempo il massimo grado di adeguatezza dell’entità risultante al sistema ricevente (varrebbe a dire un alto tasso di accettabilità). (Toury 1979: 106)

Secondo Toury, nell’operazione di trasferimento qui descritta e quindi nella formazione di una traduzione, il fatto di essere ascritta al contesto ricevente, sia in termini linguistici che in termini culturali, è fondamentale. Egli definisce infatti il sistema ricevente come un «sistema di innesco (initiating system)» che porta ad una scomposizione e all’analisi anche del testo di partenza per poi procedere all’operazione di trasferimento da lui descritta. Le teorie di Toury quindi si indirizzano al riconoscimento e all’enfatizzazione della caratteristica della traduzione di essere finalizzata ad uno scopo, ovvero di essere «target-oriented» (o «goal-oriented»). A essere poste in rilievo sono quindi le necessità che devono essere soddisfatte nella cultura e nella lingua ricevente, le quali influenzano poi in modo notevole le scelte e le strategie adottate durante il processo traduttivo. Viene quindi sviluppata una teoria contrastante rispetto alle teorie da lui considerate tradizionali che suggeriscono invece una traduzione «source-oriented», più materiale e maggiormente concentrata sulla produzione. In breve, Toury sostiene che:

Per uno studio della traduzione non risulta essere solo ingenuo, ma anche inutile e fuorviante, muovere dall’assunto che il tradurre consista nel semplice tentativo di ricostruire il testo originale o alcuni suoi aspetti rilevanti, o nel salvare predefinite strutture originarie di un certo sistema di segni incondizionatamente considerate come costanti, dal punto di vista del sistema di partenza. (Toury 1979: 116)

I traduttori devono quindi procedere verso il processo traduttivo tenendo presente che si trovano ad operare per la cultura ricevente, mettendo quindi in secondo piano la cultura del testo originario. Bisogna quindi partire dal presupposto che «le traduzioni siano fatti appartenenti a un solo sistema: il sistema di arrivo (target system)» (Toury: 186). Ne deriva che qualsiasi tentativo di giungere alla formulazione di teorie della traduzione e perciò qualsiasi analisi dei processi coinvolti nella traduzione debba di fatto partire dalle realtà osservabili, ovvero dagli enunciati tradotti, per poi procedere a

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ritroso verso il testo originale. È necessario pertanto partire esclusivamente dall’analisi dei testi tradotti dal punto di vista della loro accettabilità all’interno del sistema ricevente di appartenenza. Dopodiché si passa a esaminare i loro corrispondenti nel testo di origine, quindi all’interno del sistema emittente, descrivendo poi le relazioni che intercorrono tra i sistemi. Solo allora sarà possibile procedere nell’analisi del processo traduttivo, quindi delle decisioni e delle scelte del traduttore e dei limiti da lui incontrati. Viene quindi ripreso il concetto di accettabilità già menzionato in precedenza, in quanto ogni testo che si presenti come una traduzione, o che si presume lo sia, dovrà essere analizzato esclusivamente secondo i termini dell’accettabilità nel sistema ricevente, cioè «nei termini della sua sottomissione alle norme dominanti in quello specifico sistema» (Toury: 194). Solo in seguito si potrà passare ad un’analisi comparativa dei due testi.

1.3 Vladìmir Nabókov
Vladìmir Nabókov (1899-1977) è stato uno scrittore di romanzi, racconti e poesie in lingua russa e successivamente in inglese e francese. È un artista che si è interessato profondamente alla traduzione, in quanto fu costretto a constatare come le traduzioni delle sue opere sfigurassero totalmente il genio in esse espresso e dovette far fronte ad uno scarso successo di pubblico nel suo paese natio. Si sentì così costretto ad abbandonare la scrittura in russo e a passare alla lingua inglese, occupandosi anche della traduzione di diverse opere del periodo russo. Nabókov patì profondamente di questa scelta e visse questo cambiamento come una costrizione. La sua concezione della letteratura, così come della traduzione, si è sempre basata su un culto quasi ossessivo verso il dettaglio, concezione che lo ha indotto a esprimere forti critiche verso traduttori a lui contemporanei, che hanno portato i poeti russi ad essere «martirizzati a opera di qualcuno dei miei famosi contemporanei» (Nabókov: 81). Basandosi su queste sue visioni piuttosto pessimistiche della traduzione, Nabókov riconosce l’utilità del tradurre solo se ci si basa sulla più precisa traduzione letterale possibile.

L’unico oggetto e l’unica giustificazione della traduzione è veicolare le informazioni più esatte possibili e ciò può essere ottenuto soltanto con una traduzione letterale, con note. (Nabókov: 81)

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Le sue teorie si basano quindi su una traduzione precisa e filologica, che ponga in secondo piano la leggibilità del testo nella cultura ricevente, in modo da invogliare i lettori a leggere direttamente il testo originale. Ammette quindi l’esistenza esclusivamente della traduzione letterale, in quanto qualsiasi altra forma non sarebbe una traduzione, bensì un’imitazione o una parodia. Per Nabókov la leggibilità del testo non è da considerare, al contrario risulta strettamente necessario abbandonare definitivamente l’idea tradizionale secondo la quale una traduzione debba essere scorrevole e non debba sembrare una traduzione, tentando di farla passare per l’originale. Infatti, una traduzione di questo tipo sarebbe inesatta, in quanto la scorrevolezza della lettura dipende dall’originale non dalla traduzione. Nabókov riconosce che l’unico pregio della traduzione è quello di essere fedele e completa, attenta ai dettagli e precisa. Fa affidamento al lettore e alle sue capacità di discernere un riferimento implicito o esplicito che non faccia parte della sua cultura, bensì della cultura originaria e l’unico modo per poter andare incontro ai lettori è quello di utilizzare l’apparato metatestuale, quali le note a piè di pagina:

Voglio traduzioni con note a piè di pagina copiose, note a piè di pagina che salgano come grattacieli fino in cima a questa o quella pagina in modo da lasciare unicamente il barlume di una sola riga di testo tra commentario ed eternità. (Nabókov 1955: 512)

Viene espressa inoltre una dura critica verso la tendenza di alcuni traduttori a correggere le imprecisioni degli autori del testo originario. Secondo Nabókov di fatti il traduttore deve sacrificare il suo desiderio di correttezza alla necessità di essere quanto più fedele e preciso verso il testo originario. In conclusione, quella sostenuta dal Nabókov è una traduzione totalmente filologica a forte discapito della leggibilità del testo nella cultura ricevente, che non solo è messa in secondo piano, ma anzi viene duramente criticata.

1.4 Umberto Eco
Nettamente differenti risultano essere le teorie di Umberto Eco al riguardo. Nello sviluppo delle sue teorie, Eco parte anche dal punto di vista dello stesso scrittore che si trova a seguire la traduzione del proprio testo, dando

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consigli e indicazioni ai traduttori e contribuendo in questo modo all’adeguatezza della traduzione. Si parte dal presupposto che qualsiasi autore desidererebbe che fosse rispettata la «fedeltà» al proprio testo. Al contrario di altri teorici, alcuni considerati anche in questa analisi, che si concentrano principalmente sul risultato nella lingua e nel sistema ricevente, Eco sostiene che la fedeltà al testo in questo senso sia da considerare un aspetto importante. La traduzione è descritta come una forma di interpretazione, quale il riassunto o la parafrasi, e di conseguenza dovrebbe sempre cercare di ritrovare se non l’intenzione dell’autore, per lo meno l’intenzione del testo, tenendo sempre presente la cultura ricevente. È fondamentale quindi capire quello che il testo esprime in relazione alla propria lingua e alla cultura dalla quale si sviluppa. Eco quindi considera la traduzione come un fenomeno che va ben oltre al sistema linguistico, tesi ulteriormente supportata dall’ormai dimostrata inesistenza della sinonimia. Secondo Eco, la fedeltà al testo

è sempre fedeltà-a-qualcuno, ovvero fedeltà di qualcuno rispetto a qualcosa d’altro al servizio di qualcun altro ancora. (Eco 1995: 124)

Durante le sue esperienze come traduttore delle sue stesse opere, Eco avvertì il problema di creare una traduzione che fosse fedele a quelle che erano state le sue intenzioni come autore, ma al contempo sentì di apprezzare con entusiasmo le nuove e diverse possibilità interpretative che il testo tradotto poteva scatenare, possibilità interpretative talvolta non previste dall’autore. Secondo Eco, queste nuove potenzialità di interpretazione potevano addirittura portare ad un miglioramento del testo. Da qui la necessità di trovare un equilibrio creativo tra una traduzione che rispetti l’universo semiotico dell’originale, ma che parimenti riesca a trasformare «l’originale adattandolo all’universo semiotico del lettore» (Eco 1995: 125). Le sue esperienze e considerazioni lo portano a sviluppare una teoria che esprime il bisogno di questo equilibrio:

Di fronte alla domanda se una traduzione debba essere source o target oriented, ritengo che non si possa elaborare una regola, ma usare i due criteri

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alternativamente, in modo molto flessibile, a seconda dei problemi posti dal testo a cui ci si trova di fronte. (Eco 1995: 125)

Eco propone numerosi esempi del tutto efficaci tratti da traduzioni sia dei propri romanzi sia di altri testi letterari. Vorrei riproporne due che ritengo possano essere esemplificativi di questa necessità di utilizzare i due criteri in modo alternato a seconda del testo e del contesto. Come esempio di traduzione «target-oriented» Eco cita la traduzione del suo Pendolo di Foucault. I personaggi di quest’opera pronunciano molto spesso numerose citazioni letterarie, la cui funzione è quella di mostrare al lettore come i personaggi osservino il mondo solo attraverso citazioni e riferimenti ad opere letterarie. Riporto ora una parte del testo in italiano del capitolo 57, nel quale viene descritto un viaggio in macchina sulle colline:

[…] man mano che procedevamo, l’orizzonte si faceva più vasto, benché a ogni curva aumentassero i picchi, su cui si arroccava qualche villaggio. Ma tra picco e picco si aprivano orizzonti interminati – al di là della siepe, come osservava Diotallevi […]

Nel far pronunciare a Diotallevi l’espressione «al di là della siepe» Eco intendeva rinviare all’Infinito di Leopardi. Eco racconta quindi di aver ritenuto utile dare come indicazione ai traduttori del testo che non era importante il riferimento alla siepe in sé, ma piuttosto era necessario mantenere un rimando letterario. Per questo motivo i traduttori hanno inserito un rimando ad un’opera letteraria presente nella propria letteratura, in modo che questa implicazione fosse percepibile chiaramente anche ai lettori delle culture riceventi. Quello appena proposto è un esempio di traduzione «target-oriented», mentre come esempio di traduzione «source- oriented» Eco propone un dilemma traduttivo che ci si potrebbe porre riguardo alla traduzione di Guerra e Pace di Tolstoj, che inizia con un capitolo interamente in francese. Lo scopo di questo capitolo è quello di presentare i costumi della società aristocratica russa del periodo napoleonico, così distanti dalla vita nazionale russa da parlare la lingua francese, considerata al tempo la lingua della letteratura e della raffinatezza. Il dilemma sorge nel caso della traduzione di quest’opera in francese. Ci si potrebbe domandare se sia opportuno tradurre questo capitolo iniziale in

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un’altra lingua, per esempio l’inglese, allo scopo di rendere evidente anche ai lettori francesi che la lingua utilizzata è diversa rispetto al russo e quindi di adattare il testo alla cultura ricevente. In questo modo però si altererebbe l’intenzione del testo, in quanto gli aristocratici russi parlavano francese, non inglese, particolare non di secondaria importanza se si considera l’opera nel suo insieme, che narra del conflitto tra russi e francesi. Si opta quindi per il mantenimento del primo capitolo in lingua francese, esplicitando questa importante caratteristica con l’apparato metatestuale, per esempio con una nota. In questo caso quindi si preferisce una traduzione filologica rispetto ad una leggibile che porterebbe ad un’alterazione delle intenzioni dell’opera.

Eco prende poi in considerazione una questione spesso controversa tra gli studiosi, ovvero la presunta esistenza di una lingua pura a cui si debba fare riferimento nelle scelte prese durante il processo traduttivo, in modo da riuscire a riprodurre il senso della lingua d’origine in una lingua di destinazione. Si presentano quindi tre possibilità. La prima è che esista una lingua perfetta, intesa come una lingua convergente fra tutte le lingue, un’espressione in linguaggio formalizzato, una sorta di linguaggio neutro rispetto alle lingue naturali a confronto. Questa lingua pura rinvia alle lingue sante, alla lingua di Dio e ha a che fare con il tentativo di recuperare una lingua Adamica originaria, ovvero quella parlata prima della formazione delle diverse lingue, nella situazione pre-babelica. La necessità di attingere da questa lingua perfetta per la traduzione fu ipotizzata da Walter Benjamin (1892-1940, filosofo e scrittore tedesco). La seconda possibilità è che sia possibile individuare e creare una lingua razionale che sia in grado di dare espressione a tutte le idee, i concetti astratti, gli oggetti, le emozioni proprie di una cultura o una lingua del pensiero espressa in un linguaggio formalizzato. L’ultima possibilità riguarda il desiderio, molto ambito dai sostenitori della traduzione automatica, di fare riferimento ad un «tertium comparationis», permettendo di riprodurre la lingua di partenza in una lingua di destinazione passando per una lingua terza, nella quale le due espressioni si trovano ad essere equivalenti in una proposizione di quest’ultimo codice, indipendentemente da come trovavano espressione nelle due diverse lingue. Eco esclude la possibilità che esista una lingua

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perfetta, o una lingua del pensiero e tanto meno un «tertium comparationis». Tradurre significa infatti riuscire a comprendere il genio espresso dall’autore in una cultura e in una lingua emittente ed essere in grado di riprodurre tale genio, avvalendosi della lingua ricevente e all’interno di una differente cultura. Ricorda che la traduzione è un’interpretazione e in questo senso è necessario “scommettere”, come in una roulette.

Il senso che il traduttore deve trovare, e tradurre, non è depositato in alcuna pura lingua. È soltanto il risultato di una congettura interpretativa. Il senso non si trova in una no language’s land: è il risultato di una scommessa (Eco 1995: 138).

Secondo Eco una traduzione può dirsi soddisfacente se è in grado di rendere «e cioè di conservare abbastanza immutato, ed eventualmente ampliare senza contraddire» (Eco 1995: 138) il senso del testo originario. In conclusione, Eco non ritiene che esista una regola che stabilisca come una traduzione dovrebbe essere fedele e per quale motivo, ma tuttavia sostiene che per valutare una traduzione è necessario basarsi sull’assunto che una traduzione dev’essere fedele.

I criteri di fedeltà possono mutare, ma (i) debbono essere contrattati all’interno di una certa cultura e (ii) debbono mantenersi coerenti nell’ambito del testo tradotto. (Eco 1995: 139)

1.5 Jacques Derrida
Nella sua opera Des Tours de Babel, Jacques Derrida (1930-2004, filosofo francese) esprime le sue teorie riguardo al compito del traduttore. Si chiede se il traduttore debba sentirsi sottomesso alla resa del testo originale e giunge alla conclusione che il suo compito è tutt’altro che questo. Presenta quattro princìpi sui quali fonda la sua teoria della libertà assoluta del traduttore. Il primo principio è quello secondo il quale il «compito del traduttore non si rivela da una ricezione» (Derrida: 386). Benché la teoria della traduzione possa essere supportata dalla ricezione, non è questo lo scopo dell’atto traduttivo. Il secondo principio esposto stabilisce che la traduzione non ha come «fine essenziale» quello di «comunicare» (Derrida: 386). Questa tesi si fonda sulla negazione dell’ipotesi secondo la quale esiste una distinzione tra il contenuto comunicabile e l’atto linguistico della

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comunicazione. Secondo il terzo principio, la traduzione non è un atto «rappresentativo o riproduttivo. La traduzione non è né un’immagine né una copia» (Derrida: 387). Allo scopo di enunciare il suo quarto e ultimo principio, Derrida descrive l’esistenza di un contratto tra le varie lingue, che renderà poi possibile una traduzione e autorizzerà la libera espressione nell’altra lingua. In sostanza la traduzione non ha come obbiettivo quello di trasporre dei contenuti o dei carichi di senso, ma bensì quello di «far rimarcare l’affinità tra le lingue, di esibire la sua propria possibilità». È in questo senso che Derrida intende liberare la traduzione dal debito all’originale come viene tradizionalmente inteso. La conclusione a cui si arriva è la totale libertà di espressione lasciata al traduttore, allo scopo di esibire le possibilità che la propria lingua offre. Lo scopo della traduzione in questo senso è quello di liberare, trasformare, estendere e far crescere il linguaggio, eventualmente trasgredendo i limiti posti dalla lingua. Esalta quindi una sorta di ignoranza dell’originale, verso un narcisismo egoistico nei confronti della propria lingua. I contenuti e le parole dell’originale non hanno nessuna importanza rispetto al riflesso che producono sul traduttore, liberando la sua espressione, senza fedeltà ai contenuti. È questo per Derrida l’atto traduttivo.

1.6 George Steiner
Steiner (1929- saggista e scrittore) è stato uno dei maggiori studiosi della traduzione. Per esporre la propria teoria riguardo alla fedeltà nella traduzione, Steiner parte dal contesto associativo, ovvero da tutte quelle libere associazioni che scaturiscono nella mente del singolo individuo partendo da una parola, associazioni che non possono che essere soggettive e diverse per ognuno di noi. In questo senso, la fedeltà e la vicinanza al testo, così come i concetti di letteralità e libertà, risultano essenzialmente soggettivi e individuali, concetti intangibili, impossibili da teorizzare e descrivere in modo preciso e perciò del tutto inutili per lo sviluppo di teorie della traduzione. Tuttavia Steiner individua una necessaria fedeltà al testo a livello etico, nello sforzo che il traduttore deve compiere nel tentare di ricostruire il testo che durante il processo individuale di interpretazione era

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andato scomponendosi, ridonandogli una nuova espressione e una nuova vita:

Il traduttore, l’esegeta, il lettore è fedele al proprio testo, rende responsabile la propria risposta, solo quando si sforza di ripristinare l’equilibrio di forze, di presenza integrale, che la sua comprensione appropriativa ha infranto. (Steiner: 318)

1.7 Walter Benjamin
Benjamin (1892-1940, filosofo e scrittore tedesco) scrisse «Il compito del traduttore», saggio in cui viene trattato il tema della traduzione, che assume un significato e un’importanza quasi mistica e metafisica. La traduzione infatti è considerata un mezzo per elevare l’uomo verso il supremo, verso Dio, così come ogni azione dell’uomo ha la stessa direzione. Facendo riferimento al rapporto tra da un lato il contenuto delle parole e la lingua nella cultura emittente e dall’altro lo stesso rapporto nella cultura ricevente, Benjamin propone una metafora molto espressiva, nella quale se da una parte il rapporto tra il contenuto e la lingua va a formare un frutto e la sua scorza, la traduzione invece ricopre il suo contenuto «come un mantello regale in ampie pieghe» (Benjamin: 46). Alla luce di questa concezione, assumendo che il modo in cui un oggetto viene interpretato dipende dalle differenze tra le varie lingue, Benjamin sostiene che è impossibile riprodurre il pieno senso dell’originale solo attraverso la fedeltà nella traduzione delle singole parole, che non si esauriscono nell’interpretazione data, ma hanno valore in relazione al modo di essere intese nella cultura originaria. Il traduttore deve quindi fare un’opera di ricostruzione, nel tentativo di riformare un vaso andato in frantumi. In questa opera di ricostruzione, il traduttore deve riunire e ricomporre in modo estremamente minuzioso i vari frammenti, in modo da creare anche nella cultura ricevente lo stesso modo di intendere la parola della lingua originaria. Secondo Benjamin però, le fessure che necessariamente si ritrovano tra un pezzo e l’altro non devono essere celate e il vaso non deve più sembrare come era originariamente. Riapplicando la metafora alla traduzione, il testo tradotto non deve sembrare e non deve essere letto come l’originale.

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La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua. (Benjamin 1962)

Ecco inoltre come ritorna nuovamente ciò a cui abbiamo già accennato, ovvero l’esistenza di una lingua pura, commistione di tutte le lingue, alla quale il traduttore attinge nel suo atto traduttivo.

1.8 Eugene A. Nida
Eugene A. Nida (1914- ) è uno dei maggiori esperti di traduzione dei testi sacri del mondo cristiano. I suoi studi e le sue teorie si concentrano quindi sui problemi e le strategie traduttive nell’ambito dei testi sacri, testi di natura estremamente particolare, diversi sotto numerosi aspetti da tutti gli altri tipi di testo. Nella Bibbia infatti è facilmente individuabile una forte dominante ideologica, dettata dal fatto che lo scopo di questi scritti è la diffusione dell’ideologia cristiana. Non si tratta quindi della diffusione di un testo caratterizzato da diverse interpretazioni, né della produzione di una traduzione strettamente filologica al testo originario. Secondo Nida infatti «uno dei compiti essenziali del traduttore della Bibbia è ricostruire il processo comunicativo come testimoniato nel testo scritto della Bibbia» (Nida: 15). È alla luce di queste considerazioni che Nida si concentra in modo particolare sulle differenze culturali tra le diverse culture, differenze che porterebbero a produrre nelle culture riceventi un’idea deformata dei contenuti espressi dal testo. L’unico modo per mantenere la dominate ideologica dei testi sacri è quindi quello di modificare il contenuto semantico del testo, allo scopo di trasmettere al lettore ignorante della fede cristiana lo stesso significato e gli stessi messaggi.

La traduzione consiste nel produrre nella lingua ricevente il più prossimo equivalente naturale del messaggio della lingua emittente, prima nel significato e secondariamente nello stile. […] Ossia, una buona traduzione non deve rivelare la propria origine non indigena. (Nida: 19)

Ecco quindi espressa la conclusione delle teorie di Nida, ovvero la preferenza verso una traduzione falsificante, una traduzione che abbia lo scopo di passare per un’originale. Viene quindi favorita una cosiddetta

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«“equivalenza” naturale», intesa come un omologo che culturalmente possa esprimere lo stesso significato, a discapito della traduzione prettamente filologica. Secondo Nida, lo scopo è sempre quello di avvicinare il testo al lettore e mai il contrario.

1.9 Theodore Savory
Theodore Savory, autore del testo da cui ho tratto il brano da me tradotto, presenta alcune teorie riguardo alla scelta tra una traduzione filologica e una traduzione leggibile. Secondo Savory risulta vano qualsiasi tentativo di sviluppare teorie della traduzione in forma succinta, impossibilità generata anche dall’enorme mole confusa di indicazioni, tesi e princìpi proposti nel tempo dagli stessi traduttori. Queste indicazioni, spesso chiaramente in contraddizione l’una con l’altra, possono essere enunciate come segue:

1. Una traduzione deve rendere le parole dell’originale.
2. Una traduzione deve rendere i concetti dell’originale.
3. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare un testo originale.
4. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare una traduzione.
5. Una traduzione dovrebbe riflettere lo stile dell’originale.
6. Una traduzione dovrebbe possedere lo stile del traduttore.
7. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca dell’originale.
8. Una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca del traduttore.
9. Una traduzione può aggiungere né omettere elementi rispetto all’originale.
10. Una traduzione non deve mai aggiungere o omettere elementi rispetto all’originale.
11. Una traduzione di versi dovrebbe essere in prosa.
12. Una traduzione di versi dovrebbe essere in versi.

Molte di queste indicazioni hanno a che fare con il controverso tema della cosiddetta “fedeltà” al testo. Le tesi presentate da Savory sono a favore di una traduzione “fedele”, in quanto questo risulta il compito principale di un traduttore. Una traduzione “fedele” però

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non significa una traduzione letterale, parola per parola, in quanto quest’ultima costituisce la forma più primitiva di traduzione, adatta solo alle situazioni più banali e prosaiche.

Questa ipotesi viene scartata anche in nome del fatto che non esistono “equivalenti” a cui attingere tra le lingue. Il traduttore deve riconoscere di non essere l’autore del testo e il suo compito è quello di essere un interprete, di «agire da ponte» e di «permettere che Roma o Berlino parlino direttamente con Londra o Parigi». Viene tuttavia riconosciuta la difficoltà di mettere in pratica questo presupposto, ovvero la difficoltà di aderire con “fedeltà” al testo, difficoltà che induce i traduttori ad optare per la “libertà”. Tuttavia questa scelta viene criticata da Savory, secondo il quale in questo modo il traduttore «ha eluso la fatica di aderire strettamente alle parole e alle frasi originali», nel tentativo di appellarsi a un «principio» per poter giustificare le proprie scelte verso la libertà traduttiva e «tacitando la propria coscienza». Una traduzione di questo tipo, ovvero una traduzione che si “distacchi” dal testo e si avvalga di una maggiore “libertà”, può essere sostenuta da tre considerazioni, che Savory tuttavia smentisce. La prima è che se un’originale alla lettura appare come un originale, anche la sua traduzione dovrebbe sembrarlo. Secondo Savory tuttavia questa constatazione logica è strettamente dipendente dal lettore che fruisce della traduzione, concetto ripreso anche in seguito nell’analisi. In secondo luogo, se il traduttore ha un debito nei confronti dell’autore del testo, si potrebbe considerare altrettanto vero che anche l’autore sia in debito con il traduttore, che si trova ad essere il solo vero autore del testo che sta scrivendo. Questo potrebbe indurre i traduttori a concedersi una maggiore estensione di libertà, che però deve mantenersi entro dei limiti: essa può esprimere con esattezza la correttezza e la bellezza della lingua del traduttore, ma non deve essere più di questo. In terzo luogo, si potrebbe considerare il fatto che un traduttore spesso si trova ed essere l’ultimo di una lunga serie di altri traduttori che lo hanno preceduto, fatto che lo porterebbe a ricercare soluzioni sempre diverse, per non dover cadere nel confronto con altri traduttori. Savory smentisce anche questa ultima considerazione,

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sottolineando che questa propensione verso un’alternativa sempre diversa è insensata:

Quest’ultima prescrizione, se applicata in modo rigoroso, non ha senso. Virgilio scrisse, all’inizio della seconda parte dell’Eneide, «Conticuere omnes», che qualcuno ha tradotto con «tutti sono stati zittiti» e qualcun altro con «tutti erano in silenzio». Cosa può suggerire un nuovo traduttore? «Tutti tennero la lingua a freno».

È ingiustificabile inoltre sostenere a priori che il principale requisito di una traduzione sia quello di sembrare un’originale, in modo da poter essere letta con piacere. Savory sostiene che la caratteristica di sembrare alla lettura un testo originale dipende dal tipo di lettore e dalle sue ragioni per leggere quel determinato testo. Savory distingue quattro gruppi di ipotetici lettori: il lettore che ignora completamente la lingua d’origine, che legge per curiosità o interesse un testo tradotto; lo studente che sta imparando la lingua, avvalendosi dell’aiuto di una traduzione di un testo; il lettore che in passato conosceva la lingua, ma l’ha dimenticata; il lettore che conosce ancora la lingua. Dato che ognuno di questi lettori ha ragioni differenti per leggere una traduzione, risulta impossibile proporre una versione di traduzione che sia adatta a tutti. È necessario che la proposta di traduzione cambi sulla base del tipo di lettore: il lettore che non conosce la lingua è soddisfatto da una traduzione libera, lo studente è meglio aiutato da una traduzione letterale, il terzo preferisce una traduzione che sembri una traduzione per riportargli alla mente le conoscenze passate e il quarto può meglio divertirsi a valutare una traduzione più libera.

Per concludere, in linea di principio Savory è in favore di una traduzione filologica, che rispetti l’originale e vi aderisca. Sottolinea tuttavia che «una resa troppo letterale è sbagliata» e perfino

la sintassi dell’autore può aver bisogno di essere modificata per trasferire il suo effetto in un’altra lingua […]È un fatto ineluttabile, che i sostenitori di una traduzione precisa, accurata e letterale non possono negare.

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II

THEODORE SAVORY

ANALISI DEL TESTO DA TRADURRE

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Nell’analisi del testo da tradurre è importante prendere in considerazione numerosi aspetti che possono contribuire a facilitare il successivo processo traduttivo e soprattutto a rendere la traduzione del testo più adeguata possibile. Una traduzione viene definita adeguata quando conserva il prototesto come espressione di una cultura diversa, aiutando il lettore ad avvicinarsi all’originale e quindi alla cultura emittente.

È necessario quindi ricercare nel prototesto tutte quelle informazioni che ci possano essere d’aiuto. Queste informazioni possono essere suddivise in due categorie. La prima è quella dei fattori extratestuali, ovvero fattori esterni al testo linguistico e inerenti al contesto, quali la funzione del testo; l’autore empirico e l’autore modello; il lettore modello del prototesto e il lettore modello del metatesto; le coordinate spaziotemporali; il canale del messaggio. La seconda categoria è quella degli elementi interni al testo e comprende: il lessico, la sintassi, il registro e le marche per ognuna di queste categorie. Un ultimo ambito importante da prendere in considerazione nell’atto di analisi del testo da tradurre è quello della dominante, sia del prototesto, sia del metatesto.

2.1 Fattori extratestuali

2.1.1. Funzione del testo
La funzione del testo è un elemento fondamentale nell’individuare le strategie traduttive più adeguate. Seppur di regola sia necessario distinguere tra la funzione del prototesto nella sua cultura e la funzione del metatesto nella cultura ricevente, questa distinzione non risulta strettamente necessaria nel caso specifico del testo che ho tradotto, in quanto nell’atto traduttivo la funzione viene mantenuta identica anche per la cultura ricevente. La principale e fondamentale distinzione da fare riguardo alla funzione di un testo consiste nel determinare se si tratti di un testo chiuso o di un testo aperto, o cosa più probabile, se si collochi in una posizione intermedia tra questi due tipi estremi di testi. Un testo chiuso è un testo che si apre ad una sola interpretazione univoca, convogliando informazioni precise ad un genere di lettore altrettanto consapevole e preciso. Il libretto di istruzioni di un elettrodomestico costituisce un evidente esempio di testo chiuso, come

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anche un orario del treno o un elenco del telefono. Un testo aperto è invece un testo che si presta ad una molteplicità di interpretazioni, portando alla continua formulazione di ipotesi interpretative da parte del lettore, che verranno poi confermate o al contrario smentite andando avanti nella lettura. Questo atto di inferenze da parte del lettore e la loro smentita o conferma viene definito «circolo ermeneutico». L’esempio più evidente, per quanto estremo, di testo aperto è quello di una poesia.

Il prototesto da me preso in considerazione può essere definito come un testo principalmente aperto o espressivo. L’autore presenta la tematica da lui affrontata proponendo le proprie opinioni e i propri giudizi, producendo un testo in alcuni ambiti critico. È caratterizzato da molti degli elementi costitutivi di un testo aperto, come per esempio la presenza di rimandi intertestuali e un particolare stile marcato, con l’utilizzo talvolta di registri leggermente differenti a seconda del messaggio che intende trasmettere. In alcuni casi la decodifica del testo può essere molteplice e le asserzioni presentate dall’autore possono essere condivisibili o non condivisibili. Queste caratteristiche sono mantenute il più possibile anche nella traduzione.

Proviamo ad esemplificare queste caratteristiche prendendo in considerazione un passo del testo di Savory:

If, therefore, the proposition that translation is an art may be assumed in our opening chapters to have been established, translators must expect themselves to be subject to instruction, advice, correction and comment from all the three classes of persons who delight in offering these things – the informed, the uninformed, and the misinformed. Yet none of these three types of persons, not even the last and most dangerous, can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all unless they hold certain illuminating principles, in the light of which they speak. These principles now invite our attention. (Savory: 49)

In questo passo del testo l’autore introduce il tema fondamentale che verrà poi trattato in seguito, ovvero il bisogno di ricercare dei princìpi della traduzione che possano essere una guida sia per il traduttore principiante nell’avvio della sua professione, sia per coloro che svolgono attività di critica delle traduzioni, a partire dai critici professionali fino agli stessi

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lettori, i quali si trovano ad essere i primi veri fruitori di una traduzione e che sviluppano necessariamente propri giudizi riguardo alla traduzione che hanno davanti. Per quanto la funzione del passo citato sia quella appena esposta, il brano risulta avere diversi significati e implicazioni laterali, non espressamente indicati. Può essere infatti interpretato anche come una sorta di critica nei confronti di coloro che espongono le proprie valutazioni e i propri giudizi senza basarsi però su princìpi illuminanti che possano giustificare le loro esternazioni, critica ancor più evidente nell’uso di espressioni quali «[…] Yet none of these three types of persons […] can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all […]». Siamo quindi di fronte ad un testo principalmente aperto, come viene dimostrato, anche in questo esempio, dall’ambiguità nelle intenzioni dell’autore e quindi dalla decodifica molteplice del testo.

2.1.2. Autore empirico e autore modello
Di norma non è detto che l’autore modello (o autore implicito) coincida necessariamente con l’autore empirico, ovvero lo scrittore materiale del testo. In modo esplicito o implicito, quest’ultimo presenta al lettore modello una descrizione dell’autore, che talvolta può portare alla creazione di un autore implicito che non corrisponde alla persona che materialmente si trova ad essere l’autore del testo. Nel testo da me tradotto invece l’autore si presenta come se stesso, ovvero come Theodore Savory, rivolgendosi al lettore in prima persona. In questo brano quindi autore empirico e autore modello si trovano a coincidere.

2.1.3. Lettore modello del prototesto
Il lettore modello al quale il prototesto si rivolge è individuato nella figura di uno studente di traduzione o uno studioso che si avvicini alla pratica della traduzione. Indipendentemente dall’età, dal sesso o dall’origine geografica, l’autore si rivolge ad un gruppo specifico di studiosi o studenti che desiderano apprendere le nozioni principali della pratica della traduzione, ma anche ad un pubblico più ampio costituito da chiunque si interessi dell’argomento per motivazioni personali. Tuttavia ritengo che l’autore

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abbia anche avuto l’obbiettivo di rivolgersi a quei traduttori già affermati che si avvalgono di teorie e strategie traduttive differenti da quelle sostenute e praticate dall’autore, con lo scopo di sostenere le proprie tesi anche su una base critica nei confronti dei colleghi. Potremmo considerare l’apprendista traduttore come il lettore modello esplicito scelto dall’autore, mentre il traduttore già affermato a cui l’autore rivolge i propri giudizi come il lettore modello implicito.

2.1.4. Lettore modello del metatesto
Nell’analisi del testo da tradurre è importante considerare che il lettore modello del metatesto potrebbe non coincidere con il lettore modello del prototesto per diverse ragioni. I due testi presi in considerazione infatti nascono e vengono prodotti in due culture differenti e i lettori a cui si riferiscono provengono da due culture diverse. Inoltre bisogna considerare anche un terzo polo costituito dal traduttore e dalla sua cultura. È possibile che un testo sia perfettamente comprensibile dai lettori del prototesto in quanto facente perfettamente parte della loro cultura, ma non lo sia per i lettori del metatesto. Le funzioni dei due testi saranno di conseguenza diverse e così lo saranno anche i lettori modello. È quindi necessario prendere attentamente in considerazione le cosiddette coordinate cronotopiche, attraverso le quali si tiene conto di tutte le differenze tra le diverse culture, sia in termini cronologici che in termini spaziali. Fatta questa premessa, possiamo considerare il testo che ho deciso di tradurre. È stato scritto negli anni ‘50 in Inghilterra, mentre la mia proposta di traduzione è stata prodotta nel 2008 in Italia. C’è quindi una certa distanza cronotopica tra il testo originale e la mia versione e questo si evince particolarmente dallo stile e dal lessico dell’autore, che verrà esaminato in seguito. Tuttavia, la funzione del testo e di conseguenza il lettore modello rimangono invariati nonostante questa distanza, se si considera inoltre la particolare natura dell’argomento trattato, che prende in considerazione la difficoltà di trovare princìpi della traduzione universalmente riconoscibili, tentando però di fornire alcune indicazioni utili a coloro che si propongono di imparare a tradurre in modo adeguato. Allora come oggi il testo si rivolge agli apprendisti traduttori e le teorie presentate sono tuttora valide. Il lettore

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modello del metatesto quindi coincide con il lettore modello del prototesto e si è tenuto costantemente conto di questo elemento nella traduzione del testo da me proposta.

2.1.5. Canale del messaggio
Il canale del messaggio è un ulteriore elemento fondamentale da considerare nell’analisi traduttologica del testo da tradurre. Per canale si intende il mezzo, il medium attraverso il quale la comunicazione si svolge, fattore molto importante in quanto ci fornisce delle indicazioni indispensabili sulle modalità di trasmissione, la quantità delle informazioni convogliate e le modalità di ricezione del messaggio. Quello che ho tradotto è un testo scritto e il tipo di medium è quello di un libro, o più specificatamente un saggio. È importante inoltre considerare anche le dimensioni del medium, ovvero la quantità di lettori a cui il testo è rivolto. In questo ambito è necessario fare alcune considerazioni. Il testo è rivolto ad una quantità ipoteticamente ampia di lettori, non essendo un testo particolarmente scientifico o settoriale. È però da notare che il numero di lettori è ristretto a coloro che si interessano in maniera specifica della materia della traduzione. È inoltre necessario accennare alla difficile reperibilità del testo originale in Italia, il che costituisce un ulteriore limite al numero di lettori che potrebbero essere a conoscenza di questo testo.

2.2 Elementi interni al testo

2.2.1. Lessico
Benché la funzione del testo sia prettamente informativa, allo scopo di fornire suggerimenti e critiche per quanto riguarda lo sviluppo di teorie della traduzione, il lessico dell’autore, in alcuni casi caratteristico della ricerca traduttologica, non risulta essere particolarmente settoriale. I termini più tipici del settore sono infatti generici, mentre non vengono utilizzati termini settoriali e più scientifici. Alcuni esempi possono essere i termini «faithful» e «faithfulness», già di per sé generici e astratti anche nell’ambito delle teorie della traduzione. Anche le espressioni «literal» o «word-for-word translation» non risultano essere intese come espressioni peculiari nel

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contesto specifico e settoriale della scienza della traduzione. Il lessico dell’autore quindi è particolarmente semplice e non costituisce una difficoltà o un ostacolo alla lettura e alla comprensione del testo, quanto invece potrebbe costituirne al contrario la sintassi.

2.2.2 Sintassi
Il testo da me preso in considerazione presenta una struttura ben articolata in paratassi e ipotassi. In questo contesto risulta importante notare la presenza di periodi particolarmente lunghi. Questa lunghezza è data anche dalla frequenza di frasi subordinate, benché la caratteristica principale della sintassi del testo sia invece da ricercare nella prevalenza di frasi coordinate, con l’affiancamento di diverse proposizioni semplici, o nei frequenti elenchi. Si considerino i seguenti passi del prototesto:

The answer to this question is that a statement of the principles of translation in succinct form is impossible, and that a statement in any form is more difficult than might be imagined; and further that this difficulty has arisen from the writings of the translators themselves. (Savory: 49)

In consequence we are told, often enough, that it is entirely legitimate to include in a translation any idiomatic expression that the original may seem to suggest, or that first requisite of an English translation is that it shall be English, or that a translation should be able to pass itself off as an original and show all the freshness of original composition. (Savory: 52)

In questi paragrafi si può notare la struttura a elenco della periodo, secondo la costruzione «that…and that…and further that…» per il primo passo e «that…that…or that…or that…and…» per il secondo. Una struttura di questo genere contribuisce anche a rendere il ritmo del testo più rapido.

2.2.3 Registro
Il registro utilizzato dall’autore non risulta essere particolarmente alto. Il testo è infatti caratterizzato da uno stile prettamente discorsivo, in alcuni casi quasi colloquiale, allo scopo di avvicinarsi il più possibile al lettore. Questo obbiettivo è realizzato anche attraverso l’uso di espedienti particolari per coinvolgere il lettore in quello che si trova a leggere. Sono proposti

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numerosi esempi e alcuni racconti di episodi della vita dell’autore che hanno chiaramente lo scopo di coinvolgere e attrarre il lettore nella lettura. A questo scopo l’autore si rivolge in prima persona ai propri lettori, talvolta comprendendosi nell’esposizione di alcuni concetti, ponendosi allo stesso loro livello:

A reading of this paragraph would leave most of us in no doubt that a literal translation is too difficult a task, and would make us turn at once into the easier paths of freedom. (Savory: 52)

In consequence, we are told, often enough, that […] (Savory: 52)

Si può quindi dire che il registro utilizzato dall’autore è un registro standard, ma molto colto e raffinato, pervaso da una sottile ironia che lo rende molto godibile e lo stile del testo risulta essere discorsivo.

2.2.4 Dominante del prototesto e dominante del metatesto
La dominante del testo considerato viene individuata nello scopo di questa pubblicazione di esporre le teorie dell’autore riguardo al complesso ambito della traduzione, fornendo indicazioni e suggerimenti utili a chiunque si avvicini alla traduzione per interesse, studio o motivazioni personali. La dominante coincide, quindi, con la funzione informativa del testo, attraverso lo sviluppo di tesi e teorie e l’individuazione di limiti e difficoltà.
Oltre alla dominante del testo appena esposta, è possibile rintracciare una sottodominante: il testo esprime, in modo talvolta esplicito, numerose critiche ad altri traduttori e studiosi di traduzione. L’esposizione delle proprie tesi non risulta scevra di valutazioni e giudizi personali, presentati anche a sostegno delle teorie esposte. Per quanto riguarda la cultura ricevente, la dominante e le sottodominanti del prototesto rimangono tali anche nel metatesto, come rimangono tali anche molti altri fattori, quali il lettore modello e la funzione del testo.

2.3 Strategia traduttiva
Come è stato possibile constatare dall’analisi di alcuni autori e traduttori che si sono occupati durante la loro esperienza di teorie della traduzione e in modo più specifico, della contrapposizione tra traduzione filologica e

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traduzione leggibile, non è possibile arrivare alla creazione di una traduzione corretta in termini assoluti e universalmente riconosciuta. Durante il processo traduttivo, il traduttore si trova a fare una lunga serie di scelte interpretative e di associazioni, che necessariamente non possono che essere intese come personali e soggettive e che lo porteranno poi ad ulteriori e conseguenti scelte nell’atto traduttivo. Inoltre bisogna considerare le analoghe scelte adottate soggettivamente dall’autore del testo, che possono talvolta non essere riconosciute in modo esatto dal traduttore e che possono quindi andare a costituire un residuo. Il traduttore è quindi investito dell’arduo compito di trasferire un testo appartenente ad una cultura emittente, regolato dalle proprie regole, caratterizzato dalla proprie associazioni, interpretazioni e intenzioni, in un diverso testo appartenente ad una cultura ricevente, cultura che sarà dominata necessariamente da diverse regole e da diverse possibilità di interpretazione. Nell’atto di tradurre bisogna quindi assumersi la responsabilità di prendere numerose decisioni riguardo alle strategie traduttive, alcune delle quali possono modificare in modo cospicuo il risultato.

Per quanto concerne la strategia traduttiva da me seguita nella traduzione del testo di Savory, mi sono orientata verso una traduzione adeguata del testo. Alla luce dell’approfondimento teorico da me svolto, ritengo infatti che la scelta più giusta nell’ambito della strategia traduttiva sia quella di mantenere il prototesto come espressione della cultura in cui nasce, invogliando il lettore a coprire la distanza cronotopica tra i due testi e le due culture, piuttosto che avvicinare il prototesto ai lettori, appellandosi quindi al principio dell’accettabilità. Per quanto sia possibile che producendo un testo secondo il criterio dell’adeguatezza si vada ad offrire al lettore un testo probabilmente più difficile da seguire e di non facile comprensione immediata, non ritengo che questo sia il caso della mia proposta di traduzione, date alcune caratteristiche del testo originale, quali il lessico semplice e lo stile discorsivo, che hanno contribuito a produrre anche nella nostra metacultura un testo altrettanto semplice e scorrevole. Durante la traduzione ho sempre tenuto conto inoltre di tutti gli elementi costitutivi del testo, sia extratestuali che interni al testo. Ho quindi mantenuto inalterato il lettore modello e la funzione del testo, tenendo sempre presente la

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dominante del testo. Infine, ove possibile, la sintassi è stata riprodotta in modo simile anche nel metatesto.

2.4 Difficoltà e residuo traduttivo
Nella comunicazione interlinguistica, così come in ogni altro tipo di comunicazione, viene inevitabilmente a costituirsi un residuo. L’emittente riformula il proprio materiale psichico in un messaggio verbale, compiendo quindi un’operazione di codifica, che però avrà già di per sé un determinato residuo, costituito da tutto ciò che l’emittente si era riproposto di comunicare, ma che non è stato comunicato. Dopodiché avviene l’enunciazione verbale, durante la quale si possono verificare delle interferenze, risultanti in un nuovo residuo. Il traduttore poi dovrà compiere un ulteriore atto di codifica, producendo un nuovo residuo ogniqualvolta non comprendesse interamente il messaggio. Dovrà poi compiere nuovamente tutte le operazioni in precedenza svolte dall’autore del testo, che porteranno al formarsi di ulteriori residui, fino alla ricezione del messaggio da parte del lettore. È quindi fondamentale considerare che dalle intenzioni dell’autore del testo da me tradotto e il lettore della mia proposta di traduzione possono essersi verificati numerosi residui, ragione per la quale risulta necessario adottare tutte le misure possibili atte a limitarli. Nella traduzione del testo di Savory ho incontrato alcune difficoltà traduttive, soprattutto inerenti alla diversa ampiezza dei campi semantici tra le parole inglesi e quelle italiane. Si consideri per esempio la seguente frase:

A translation should read like an original work. (Savory: 50)

La forma verbale «to read like» ricorre in diversi punti del testo e fa sorgere alcune difficoltà traduttive, se si considera che in italiano non esiste un’analoga forma verbale che esprima il senso della frase. In italiano è quindi necessario riformulare il periodo per riuscire a trasmettere lo stesso significato semantico. Nella traduzione del testo, la soluzione da me proposta è stata:

Alla lettura la traduzione dovrebbe sembrare un testo originale.

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Mi sono perciò avvalsa di una forma verbale più generica, ovvero il verbo «sembrare», integrandola con l’espressione «alla lettura» per poter rendere il significato del verbo inglese «to read like».
Similmente, nel testo originale viene utilizzato il sostantivo «contemporary» nella seguente frase:

A translation should read as a contemporary of the original. (Savory: 50)

Anche in questo caso in italiano risulta necessario riformulare il periodo per riuscire a convogliare lo stesso significato semantico della frase originale. Ho deciso di risolvere questo problema utilizzando la seguente espressione: «la traduzione deve sembrare della stessa epoca dell’originale». Una difficoltà analoga è insorta nella traduzione del termine «“average borrower”», impossibile da esprimere in un’unica parola nella nostra lingua. È stata perciò necessaria una riformulazione della frase come segue: «“utente medio” che prende in prestito un libro».

Nella traduzione del testo ho inoltre incontrato alcune difficoltà derivanti dal frequente utilizzo nella lingua inglese di termini piuttosto generici che in italiano potrebbero essere resi avvalendosi di un ampio spettro di traducenti. Si prenda l’esempio del termine «business», causa di non pochi problemi in qualsiasi ambito lo si incontri. In alcuni casi può essere mantenuta la parola originale inglese anche in italiano, alla luce del sempre più frequente uso di inglesismi e americanismi nella nostra lingua. Tuttavia non è il caso del testo da me tradotto, nel quale questo termine si trova all’interno della seguente frase:

The very fact of their existence is in itself a real phenomenon for which an explanation must be sought; if it can be found it is likely to shed some light on the business of translation in general. (Savory: 50)

Lo spettro semantico di questo termine risulta essere piuttosto ampio e le possibilità di traduzione in italiano sono molteplici. Alcune proposte potrebbero essere: «azienda», «impresa», «affare», «attività», «faccenda», «questione», «compito», «lavoro». In questo caso ho deciso di cercare una soluzione individuando con esattezza quale fosse l’informazione che

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l’autore intendeva convogliare attraverso l’uso di questa espressione, distaccandomi dal significato del termine considerato al di fuori di un contesto. A questo scopo, ho perciò scelto di tradurre «business» con «processo», intendendo quindi il processo traduttivo, come segue:

Proprio il fatto stesso della loro esistenza costituisce di per sé un vero fenomeno, del quale va ricercata una spiegazione. Questa spiegazione, se trovata, potrebbe fare luce sul processo della traduzione in generale.

Infine, ho incontrato alcune difficoltà nella traduzione della frase: «Many must surely have shared this experience, which I have met in my own Common Room […]». Questo rappresenta un evidente esempio di come le differenze culturali possano portare il traduttore a dover fare delle precise scelte traduttive. In questo caso avrei potuto optare per un avvicinamento del prototesto al lettore, ovvero avrei potuto ricercare un termine nella nostra lingua che potesse riprodurre grosso modo il significato del termine inglese. Tuttavia ho ritenuto ancora una volta che la scelta migliore fosse quella di avvicinare il lettore alla cultura emittente. Il termine «Common Room» indica infatti un concetto ben preciso nella cultura anglosassone. Si tratta di fatti di un salottino presente nei college britannici, che difficilmente potrà essere tradotto in alcun modo nella nostra lingua, non esistendo una struttura analoga nelle nostre università. Mi sono quindi avvalsa dell’apparato metatestuale, spiegando in una nota il significato di questo termine così caratteristico della cultura emittente.

In conclusione, ho tentato di affrontare le diverse difficoltà di traduzione incontrate durante il lavoro, così come i residui traduttivi, mantenendo una strategia basata sul principio dell’adeguatezza, allo scopo di mantenere la massima espressione della cultura emittente nella cultura ricevente italiana.

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III

TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

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THE PRINCIPLES OF TRANSLATION

True translation is a metempsychosis. WILAMOWITZ

The artist, practise what he may, is never without his mentors, who are anxious to tell him what he ought to do, or his critics, who are as ready to tell him how he has done it. If, therefore, the proposition that translation is an art may be assumed in our opening chapters to have been established, translators must expect themselves to be subject to instruction, advice, correction and comment from all the three classes of persons who delight in offering these things – the informed, the uninformed, and the misinformed. Yet none of these three types of persons, not even the last and most dangerous, can continue to raise their voices with the sustained confidence that characterizes them all unless they hold certain illuminating principles, in the light of which they speak. These principles now invite our attention. Can they, from the mass of words they have provoked, be disinterred, recognizably enunciated, and justified?

The answer to this question is that a statement of the principles of translation in succinct form is impossible, and that a statement in any form is more difficult than might be imagined; and further that this difficulty has arisen from the writings of the translators themselves. The truth is that there are no universally accepted principles of translation, because the only people who are qualified to formulate them have never agreed among themselves, but have so often and for so long contradicted each other that they have bequeathed to us a volume of confused thought which must be hard to parallel in other fields of literature.

To make plain the nature of the instructions which would-be translators have received, a convenient method is to state them shortly in contrasting pairs, as follows:

  1. A translation must give the words of the original.
  2. A translation must give the ideas of the original.
  3. A translation should read like an original work.
  4. A translation should read like a translation.

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I PRINCÌPI DELLA TRADUZIONE

La vera traduzione è una metempsicosi, WILAMOWITZ

L’artista, quale che sia la sua attività, non è mai senza i suoi mentori, sempre ansiosi di dirgli quello che deve fare, o i suoi critici, ugualmente pronti a dirgli come l’ha fatto. Pertanto se dai nostri capitoli iniziali possiamo presupporre fondata l’affermazione che la traduzione è un’arte, i traduttori devono aspettarsi di essere soggetti a insegnamenti, consigli, correzioni e commenti da parte di tutte e tre le categorie di persone che più si dilettano a offrirli: gli informati, i non informati e disinformati. Eppure nessuno di questi tre tipi di persone, neppure l’ultimo e il più pericoloso, può continuare ad alzare la voce con quella sostenuta fiducia in sé stesso che li caratterizza tutti, quando non ha alcuni princìpi illuminanti, alla luce dei quali parlare. Sono questi princìpi ad attirare ora la nostra attenzione. Possono essere dissotterrati dalla massa di parole che hanno provocato, enunciati in modo riconoscibile e giustificati?

La risposta a questa domanda è che risulta impossibile affermare i princìpi della traduzione in forma succinta e che affermarli in qualsiasi forma è più difficile di quanto si potrebbe immaginare; e inoltre che questa difficoltà è emersa dagli scritti dei traduttori stessi. La verità è che non esistono princìpi della traduzione universalmente accettati, in quanto le sole persone qualificate per la loro formulazione non sono mai giunte a un accordo, ma si sono così spesso e così a lungo contraddette a vicenda da tramandarci una massa di pensieri confusi che non ha uguali in altri campi del sapere.

Per spiegare la natura delle indicazioni che un aspirante traduttore riceve, un buon metodo è quello di enunciarle sinteticamente in coppie contrapposte come segue:

1. Una traduzione deve rendere le parole dell’originale.
2. Una traduzione deve rendere i concetti dell’originale.
3. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare un testo originale. 4. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare una traduzione.

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  1. A translation should reflect the style of the original.
  2. A translation should possess the style of the translator.
  3. A translation should read as a contemporary of the original.
  4. A translation should read as a contemporary of the translator.
  5. A translation may add to or omit from the original.
  6. A translation may never add to or omit from the original.
  7. A translation of verse should be in prose.
  8. A translation of verse should be in verse.

While some of these are clearly modifications or subdivisions of others, there is nevertheless a sufficient richness of choice to give the would-be translator a cause for embarrassment and bewilderment. The last two pairs of alternatives will be reserved for consideration in Chapter VI, after some attempt has been made to understand the existence of the rest. The very fact of their existence is in itself a real phenomenon for which an explanation must be sought; if it can be found it is likely to shed some light on the business of translation in general.

The pair of alternatives at the head of the list given above can be easily recognized as giving one form of expression to the distinction between the literal or faithful translation and the idiomatic or free translation. There has always been support for the translation which is as literal as it can well be made, support based on the conception that it is the duty of a translator to be faithful to his original. A translator, no less than any other writer, would not wish to incur the charge of being unfaithful; but before he can be certain of escaping this, he must have clearly in mind what faithfulness implies and in what faithfulness consists. It does not mean a literal, a word-for-word translation, for this is the most primitive type of translating, fit only for the most mundane and prosaic of matters; and even if faithfulness could be taken to mean this, there would remain the unavoidable fact that any one word in any language cannot invariably be translated by the same word in any other language.

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5. Una traduzione dovrebbe riflettere lo stile dell’originale.
6. Una traduzione dovrebbe possedere lo stile del traduttore.
7. Alla lettura una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca dell’originale.
8. Una traduzione dovrebbe sembrare della stessa epoca del traduttore.
9. Una traduzione può aggiungere né omettere elementi rispetto all’originale.
10. Una traduzione non deve mai aggiungere o omettere elementi rispetto all’originale.
11. Una traduzione di versi dovrebbe essere in prosa.
12. Una traduzione di versi dovrebbe essere in versi.

Mentre alcuni di questi princìpi sono chiaramente modifiche o suddivisioni di altri, c’è tuttavia una scelta tanto ricca da dare all’aspirante traduttore motivo di confusione e disorientamento. Le ultime due coppie di alternative verranno prese in considerazione nel sesto capitolo, dopo che saranno stati compiuti diversi tentativi per capire l’esistenza delle altre. Proprio il fatto stesso della loro esistenza costituisce di per sé un vero fenomeno, del quale va ricercata una spiegazione. Questa spiegazione, se trovata, potrebbe fare luce sul processo della traduzione in generale.

Si può facilmente riconoscere come le prime due alternative della lista sopra delineata esprimano la distinzione tra la traduzione letterale o fedele e la traduzione idiomatica o libera. Che la traduzione debba essere più letterale possibile ha sempre trovato appoggio, un appoggio basato sulla concezione che sia obbligo del traduttore essere fedele all’originale. Un traduttore, non meno di qualsiasi altro scrittore, non vorrebbe mai incorrere nell’accusa di essere infedele; ma prima di essere certo di sfuggire a questa accusa, deve tenere ben in mente che cosa implichi la fedeltà e in che cosa consista. Non significa una traduzione letterale, parola per parola, in quanto quest’ultima costituisce la forma più primitiva di traduzione, adatta solo alle situazioni più banali e prosaiche; e anche se si intendesse questo per «fedeltà», rimarrebbe il fatto ineluttabile che una parola in una determinata lingua non può essere tradotta invariabilmente con la stessa parola in ogni altra lingua.

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Most of us have read something of a man who was always described as pius Aeneas, and while we were quite sure that the adjective could not be translated by `pious’, we were equally sure that no one English word could properly be offered as its equivalent in every context.

One reason for the advocacy of faithfulness is that the translator has never allowed himself to forget that he is a translator. He is not, he recognizes, the original author, and the work in hand was never his own; he is an interpreter, one whose duty is to act as a bridge or channel between the mind of the author and the minds of his readers. He must efface himself and allow Rome or Berlin to speak directly to London or Paris. If he feels that he has done this, he may well be proud of his achievement. `My chief boast,’ said William Cowper, in writing of his Homer, `is that I have adhered closely to the original.’

But the translator who attempts to follow this principle soon runs into difficulties, which have never been better described than in the words of Rossetti.

The work of the translator (and with all humility be it spoken) is one of some self-denial. Often he would avail himself of any special grace of his own idiom and epoch, if only his will belonged to him; often would some cadence serve him but for his author’s structure – some structure but for his author’s cadence… Now he would slight the matter for the music, and now the music for the matter, but no, he must deal with each alike. Sometimes too a flaw in the work galls him, and he would fain remove it, doing for the poet that which his age denied him; but no, it is not in the bond.

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La maggior parte di noi ha letto qualcosa riguardo a un uomo che è stato sempre descritto come «pius Aeneas», e anche se eravamo tutti convinti che l’aggettivo non potesse essere tradotto con l’inglese «pious», eravamo altrettanto certi che nessuna parola inglese potesse essere offerta in modo appropriato come suo equivalente in qualsiasi contesto.

Una ragione per sostenere la fedeltà è che il traduttore non deve mai permettersi di dimenticare di essere un traduttore. Lui non è l’autore originale, lo ammette, e il lavoro che fa non sarà mai il suo; è un interprete, è colui il cui dovere è quello di agire da ponte o canale tra la mente dell’autore e la mente dei suoi lettori. Deve cancellare sé stesso e permettere che Roma o Berlino parlino direttamente con Londra o Parigi. Se riconosce di esserci riuscito, può essere fiero del suo risultato. «Il mio vanto maggiore» disse William Cowper durante la stesura del suo Homer, «è che sono stato molto aderente all’originale».

Ma il traduttore che tenti di seguire questo principio incontra presto delle difficoltà che non sono mai state descritte meglio che dalle parole di Rossetti:

Il lavoro del traduttore (sia detto con tutta l’umiltà possibile) è una sorta di abnegazione. Si avvarrebbe spesso di qualche grazia speciale del suo idioma e della sua epoca, se soltanto il suo arbitrio appartenesse a lui; spesso una certa cadenza farebbe proprio al caso suo, se non fosse per la struttura del suo autore o una certa struttura, se non fosse per la cadenza del suo autore… Ora preferirebbe la musicalità rispetto al contenuto e ora il contenuto rispetto alla musicalità, invece no, deve occuparsi allo stesso modo di entrambi. Qualche volta un’imperfezione nel lavoro lo infastidisce e la rimuoverebbe di buon grado, facendo per il poeta ciò che la sua epoca gli ha negato; e invece no, questo non è negli accordi.

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A reading of this paragraph would leave most of us in no doubt that a literal translation is too difficult a task, and would make us turn at once into the easier paths of freedom. This is why Postgate was moved to say that the principle of faithfulness was set up as a merit of true translation `by general consent, though not by universal practice’. Much that has been written in support of freedom in translation gives just this impression: the translator has shirked the labour of making a close approach to the original words and phrases, and lacks the discipline of self-denial described by Rossetti; whereupon he seeks to discover or to invent a `principle’ to which he can appeal, justifying his own actions and salving his own conscience.

In consequence we are told, often enough, that it is entirely legitimate to include in a translation any idiomatic expression that the original may seem to suggest, or that the first requisite of an English translation is that it shall be English, or that a translation should be able to pass itself off as an original and show all the freshness of original composition. These instructions all add up to a general implication that a translation must be such as may be read with ease and pleasure, coupled with the suggestion that if it is not easy and pleasant it will never be read and might as well never have been made.

The risks lie in the extent of the latitude which the translator permits himself. The limit is found, perhaps, in the casual words of our linguistic friends when we appeal to one of them for help with an almost illegible postcard just received from a foreign correspondent. Amused, they scan the document with an air of superior wisdom, and say `I can’t make it out, exactly, but roughly speaking what it means is … ‘ Many must surely have shared this experience, which I have met in my own Common Room, and they will agree that the only thing to do is to examine the card with a magnifying glass and decipher it word by word with a dictionary. Our friend’s free translation is too often quite valueless.

A more careful discussion of the characteristics of a translation which is both free and acceptable will bring to light three important points.

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La lettura di questo paragrafo non farebbe dubitare alla maggior parte di noi che la traduzione letterale sia un compito troppo arduo e ci farebbe prendere subito i sentieri più semplici della libertà. Questa è la ragione per la quale Postgate fu mosso a dire che il principio di fedeltà era riconosciuto come punto di merito della vera traduzione «per consenso generale, ma non pratica universale». Molto di ciò che è stato scritto a sostegno della libertà nella traduzione dà proprio questa impressione: il traduttore ha eluso la fatica di aderire strettamente alle parole e alle frasi originali e difetta di quella disciplina di abnegazione descritta da Rossetti; al che cerca di scoprire o di inventare un «principio» al quale appellarsi, giustificando le proprie azioni e tacitando la propria coscienza.

Di conseguenza ci sentiamo dire, abbastanza spesso, che è completamente legittimo inserire in una traduzione qualsiasi espressione idiomatica che l’originale sembra suggerire o che il primo requisito di una traduzione in inglese è che sia in inglese o che una traduzione riesca a passare per un originale e mostrare tutta la freschezza della composizione originale. Tutte queste istruzioni in genere implicano che una traduzione debba poter essere letta con facilità e piacere, insieme all’idea che se non è facile e piacevole non verrà mai letta e potrebbe anche non essere mai stata fatta.

I rischi stanno nella misura della libertà d’azione che il traduttore si concede. Il limite forse è da ricercare nelle parole un po’ casuali dei nostri amici linguisti quando ci rivolgiamo a uno di loro per farci aiutare con una cartolina quasi indecifrabile che abbiamo appena ricevuto da un corrispondente straniero. Divertiti, scrutano il documento con aria di saggezza superiore, e dicono: «Non riesco a decifrarla con esattezza, ma grosso modo il significato è…». Molti hanno sicuramente fatto questa esperienza che a me è capitata nella Common Room1 e concorderanno che l’unica cosa da fare è esaminare la cartolina con una lente di ingrandimento e decifrarla parola per parola con un dizionario. La traduzione libera del nostro amico è troppe volte quasi priva di valore.

Una discussione più approfondita delle caratteristiche di una traduzione che sia al contempo libera e accettabile porterà alla luce tre importanti punti.

1 Salottino presente nei college britannici.

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First, the too brief and dogmatic statement that a translation must read like an original may be supported by a show of reason. The original reads like an original: hence a translation of it should do so too. Common sense suggests that this is so; and the logical development of the notion is that from the translation alone the reader should not be able to determine whether it had been translated from French or Greek, from Arabic or Russian. Whether this is important or not seems to depend solely on the reader and on his reasons for using the translation. To this point we shall return.

Secondly, while there is admittedly a distinction between the original author and his translator, who must constantly remember his debt to the former, a translation is equally the result of original thought and considerable work by the translator. The author has an equivalent debt to his translator, who is in an undeniable degree the proprietor of the translation as such. This proprietorship may be assumed to permit, without further questioning, the introduction of departures from the precise phrasing of the original; and the only doubt remaining is the extent of the departure. This doubt is resolved not by the wishes of the translator, but by the nature of his language. The latitude may be sufficient to make of the translation an example of the translator’s language correct in idiom, expression and structure, but it should not be more than this.

Thirdly, there is the fact that, unlike the author, the translator is often one of a number, perhaps a large number, of writers who have preceded him at his task, and a translator of Goethe or Maupassant works with the knowledge that he is the latest of a series of writers who in the past have tried to find the best solutions to the many problems that now face him. This raises a question of some delicacy. If he has conceived a phrase which, he believes, exactly expresses the author’s meaning, and if he then finds that one or more of his predecessors have used it already, what should he do? Authority has spoken, not for the first time, with divided opinions.

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Innanzitutto, l’affermazione troppo concisa e dogmatica che la traduzione alla lettura debba sembrare un originale potrebbe essere sostenuta da una constatazione logica. Alla lettura l’originale sembra un originale, quindi anche una sua traduzione dovrebbe sembrarlo. Il senso comune suggerisce che sia così e lo sviluppo logico del concetto è che dalla sola traduzione il lettore non dovrebbe essere in grado di stabilire se sia stata tradotta dal francese o dal greco, dall’arabo o dal russo. Se questo sia importante o no sembra dipendere esclusivamente dal lettore e dalle ragioni per cui ricorre a una traduzione. Torneremo su questo punto in séguito.

In secondo luogo, se per ammissione generale esiste una distinzione tra l’autore originale e il suo traduttore, che deve costantemente ricordarsi del suo debito nei confronti del primo, una traduzione è comunque il risultato di riflessioni originali e di un considerevole lavoro da parte del traduttore. L’autore ha un equivalente debito nei confronti del traduttore il quale è innegabilmente il proprietario della traduzione in quanto tale. Si può presumere che questo diritto di proprietà permetta, senza ulteriori interrogativi, di distaccarsi dalla precisa formulazione dell’originale e l’unico dubbio che rimane è la misura di questo distacco. Questo dubbio viene risolto non dalla volontà del traduttore, ma dalla natura della sua lingua. In certi casi la libertà d’azione è sufficiente a fare della traduzione un esempio della lingua del traduttore corretta per idioma, espressione e struttura, ma non dovrebbe essere più di questo.

In terzo luogo, c’è il fatto che, diversamente dall’autore, il traduttore è spesso uno di un certo numero, magari un gran numero, di scrittori che lo hanno preceduto nel suo compito, e il traduttore di Goethe o Maupassant lavora con la consapevolezza di essere l’ultimo di una serie di scrittori che nel passato hanno cercato di trovare le migliori soluzioni ai molti problemi che ora sta affrontando lui. Questa affermazione solleva una questione di una certa delicatezza. Se crede di aver elaborato una frase che esprime esattamente il senso dell’autore e poi scopre che uno o più dei suoi predecessori l’avevano già utilizzata, cosa deve fare? Le autorità si sono espresse, non una sola volta, con opinioni contrastanti.

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There have been those who have said that a translation, when once made, must not be improved by comparison with its forerunners; and those who have gone further and asserted that such a comparison must be made for the purpose of removing any `fortuitous coincidences’. This, if strictly applied, is nonsense. Virgil wrote, at the beginning of the Second Aeneid, `Conticuere omnes’, which one has translated `All were hushed’ and another as `All were silent’. What can a new translator suggest? `They all held their tongues.’

A more acceptable point of view, put forward by Professor Postgate, gives a diametrically opposite opinion. If a translator who has done his best finds that some of his phrases have been used by others before him, he should in no way feel obliged to alter them. On the contrary, he has `one more reason for their retention’.

A translation may include any of the idiomatic expressions that are peculiar to its language and which the translator sees fit to adopt; but it need not, because of this, possess the style which every reader may expect. Style is the essential characteristic of every piece of writing, the outcome of the writer’s personality and his emotions at the moment, and no single paragraph can be put together without revealing in some degree the nature of its author. What is true of the author is true also of the translator. The author’s style, natural or adopted, determines his choice of a word, and, as has been seen, the translator is often compelled to make a choice between alternatives. The choice he makes cannot but be influenced by his own personality, cannot but reflect, though dimly, his own style. What does the reader expect; what does the critic demand?

One of the reasons for a preference for a literal translation is that it ought to come nearer to the style of the original. It ought to be more accurate; and any copy, whether of a picture or a poem, is likely to be judged by its accuracy.

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Ci sono stati quelli che hanno detto che una traduzione, una volta fatta, non deve essere migliorata attraverso il confronto con i suoi precursori e altri che sono andati oltre e hanno asserito che un tale confronto va fatto allo scopo di rimuovere qualsiasi “coincidenza fortuita”. Quest’ultima prescrizione, se applicata in modo rigoroso, non ha senso. Virgilio scrisse, all’inizio della seconda parte dell’Eneide, «Conticuere omnes», che qualcuno ha tradotto con «tutti sono stati zittiti» e qualcun altro con «tutti erano in silenzio». Cosa può suggerire un nuovo traduttore? «Tutti tennero la lingua a freno».

Un punto di vista più accettabile, presentato dal professor Postgate, dà un’opinione diametralmente opposta. Se un traduttore che ha fatto del suo meglio scopre che qualcuna delle sue espressioni è stata usata da altri prima di lui, non si deve assolutamente sentire obbligato a modificarla. Al contrario, ha un’ulteriore ragione per mantenerla.

Una traduzione può contenere qualunque di quelle espressioni idiomatiche caratteristiche della sua lingua e che il traduttore ritiene opportuno adottare; ma non deve per questo possedere lo stile che ogni lettore si aspetti. Lo stile è la caratteristica essenziale di ogni scritto, il risultato della personalità dell’autore e delle sue emozioni in quel momento, e nemmeno un paragrafo può essere composto senza rivelare in una certa misura la natura del suo autore. Quello che è vero per l’autore è vero anche per il traduttore. Lo stile dell’autore, naturale o adottato, determina la sua scelta di una parola e, come è stato visto, il traduttore è spesso obbligato a fare una scelta tra diverse alternative. La sua scelta non può che essere influenzata dalla sua personalità e non può che riflettere, anche se vagamente, il suo stile. Cosa si aspetta il lettore? Cosa pretende il critico?

Una delle ragioni per preferire una traduzione letterale è che deve avvicinarsi allo stile dell’originale. Deve essere più accurata e ogni copia, che sia di un dipinto o di una poesia, è probabile che venga giudicata sulla base della sua accuratezza.

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Yet the fact is that in making an attempt to reproduce the effect of the original, too literal a rendering is a mistake, and even the construction of the author’s sentences may need alteration in order to transfer their effects to another tongue. As Dr E. V. Rieu says, in introducing his translation of the Odyssey, `In Homer, as in all great writers, matter and manner are inseparably blended … and if we put Homer straight into English words neither meaning nor manner survives.’

This is the inescapable fact, which advocates of precise, accurate and literal translation cannot gainsay. The ideal that a translator may set before himself has been so admirably described by Ritchie and Moore1 that their words must be quoted:

Suppose that we have succeeded in writing a faithful translation of a characteristic page of Ruskin, and that we submit it for criticism to two well-educated French friends, one of whom has but little acquaintance with English, while the other has an intimate knowledge of our language. If the first were to say `A fine description! Who is the author?’ and the second ‘Surely that is Ruskin, though I do not remember the passage,’ then we might be confident that in respect of style our translation did not fall too far short of our ideal. We should have written French that was French, while it still kept the flavour of the original.

Here is a striking paragraph. One may feel that the situation envisaged is likely to occur but seldom, and yet as a touchstone of success it is invaluable.
Style is influenced not only by the personality of the writer but also by the period of history in which he lives; and translation includes the bridging of time as well as the bridging of space. Chaucer is usually said to have written English, yet many a reader of The Canterbury Tales finds them to be difficult to understand, and is glad to read them in a `translation’ or a version in contemporary English.

1 R. L. G. Ritchie and J. M. Moore, Translation from French (C.U.P., 1918). 46

Tuttavia il fatto è che nel tentativo di riprodurre l’effetto dell’originale, una resa troppo letterale è sbagliata e persino la sintassi dell’autore può aver bisogno di essere modificata per trasferire il suo effetto in un’altra lingua. Come dice il professor E. V. Rieu nell’introduzione alla sua traduzione dell’Odissea: «In Omero, così come in tutti i grandi scrittori, contenuto e stile sono fusi in modo inseparabile […] e se mettiamo Omero direttamente in parole inglesi, non sopravvive né il contenuto né lo stile».

È un fatto ineluttabile, che i sostenitori di una traduzione precisa, accurata e letterale non possono negare. L’ideale che un traduttore deve porsi è stato descritto in maniera così ammirevole da Ritchie e Moore1 che non si può non citare le loro parole:

Supponiamo di essere riusciti a scrivere una traduzione fedele di una pagina caratteristica di Ruskin e di sottoporla al giudizio di due cólti amici francesi, il primo con solo una limitata conoscenza dell’inglese, mentre il secondo con una conoscenza approfondita della nostra lingua. Se il primo dicesse: «Un’eccellente descrizione! Chi è l’autore?» e il secondo: «È sicuramente Ruskin, anche se non ricordo questo passo», potremmo essere sicuri che riguardo allo stile la nostra traduzione non si è allontanata troppo dal nostro ideale. Avremmo scritto in un francese che era francese, mantenendo l’essenza dell’originale.

Si tratta di un paragrafo sorprendente. Per quanto si possa pensare che la situazione immaginata accada solo raramente, è senza dubbio un’inestimabile pietra di paragone del successo.
Lo stile è influenzato non solo dalla personalità dell’autore, ma anche dal periodo storico nel quale vive, e la traduzione implica un ponte nel tempo così come un ponte nello spazio. Si dice solitamente che Chaucer abbia scritto in inglese, tuttavia molti lettori dei The Canterbury Tales li trovano difficili da comprendere e preferiscono leggerli in “traduzione”, in una versione in inglese contemporaneo.

1 R.L.G. Ritchie e J.M.Moore, Translation from French (Cambridge University Press, 1918). 47

Later than Chaucer, Archbishop Cranmer wrote in the Book of Common Prayer some of the loveliest English in existence, and yet there are clergymen today who think it desirable to change his words, and to read to their congregations such improvements as `truly and impartially administer justice’, lest our magistrates be thought to be administering an `indifferent’ system of law.

With regard to translation in general, the problem may be put thus. Cervantes published Don Quixote in 1605; should that story be translated into contemporary English, such as he would have used at that time had he been an Englishman, or into the English of today? There can be, as a rule, very little doubt as to the answer, for in most cases a reader is justified in expecting to find the kind of English that he is accustomed to use. If a function of translation is to produce in the minds of its readers the same emotions as those produced by the original in the minds of its readers, the answer is clear. Yet there is need to notice in passing the possibility of exceptions whenever the original author is read more for his manner than his matter. We may read the speeches of Cicero, for example, chiefly that we may have an opportunity to appreciate his eloquence. Of recent years the most eloquent speaker of English has been Sir Winston Churchill, and Churchill’s style was not Cicero’s style. Should a speech by Cicero be so translated as to sound as if it had been delivered by Churchill? No.

We return to the statement made above that the existence of so wide a divergence of opinions among the experts is in itself a phenomenon that calls for explanation.
Part of the explanation is no doubt to be found in the normal variability of the human mind, and this alone is enough to account for a preference by some readers for a literal translation and a preference by others for a free one; for a preference by some for continual reminders that they are reading a translation, and a preference by others for no such thing. But this is not enough to account for the whole of the diversity.

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Successivamente a Chaucer, l’arcivescovo Cranmer scrisse il Book of Common Prayer in un inglese tra i più amabili che esistano, e tuttavia vi sono ancora ecclesiastici che ritengono auspicabile cambiare le sue parole, e leggere alle loro congregazioni varianti come: «truly and impartially administer justice», per paura che si pensi che i nostri magistrati amministrino un sistema di legge “indifferente”.

Per quanto riguarda la traduzione in generale, la questione si può porre come segue. Cervantes pubblicò il suo Don Quijote nel 1605; quell’opera va tradotta in un inglese seicentesco, come quello che avrebbe usato a quel tempo Cervantes se fosse stato inglese, o in inglese odierno? Di regola ci possono essere ben pochi dubbi riguardo alla risposta, in quanto nella maggior parte dei casi è giustificabile che un lettore si aspetti di trovare il tipo di inglese che è abituato a usare. Se una funzione della traduzione è quella di produrre nella mente dei lettori le stesse emozioni prodotte dall’originale nella mente dei lettori, la risposta è chiara. Tuttavia incidentalmente è necessario considerare la possibilità di eccezioni ogni volta che l’autore originale viene letto più per il suo stile che per i contenuti. Potremmo leggere i discorsi di Cicerone, per esempio, principalmente per poter avere la possibilità di apprezzare la sua eloquenza. Negli ultimi anni l’oratore inglese più eloquente è stato Winston Churchill, e lo stile di Churchill non era lo stile di Cicerone. Un discorso di Cicerone va tradotto in modo da sembrare pronunciato da Churchill? No.

Torniamo all’affermazione fatta in precedenza che l’esistenza di una così ampia divergenza di opinioni tra gli esperti è di per sé un fenomeno che richiede una spiegazione.
Parte della spiegazione è indubbiamente da ricercare nella normale variabilità della mente umana e già questo è sufficiente a giustificare la preferenza di alcuni lettori per una traduzione letterale e la preferenza di altri per una libera; che alcuni lettori preferiscano avere sempre presente che stanno leggendo una traduzione e che altri preferiscano ignorarlo. Ma questo non è sufficiente a giustificare tanta diversità di strategie.

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The most probable reason is neglect by the critic of the reader’s point of view. Readers of translations do not differ only in their personal preferences, they differ also, and most significantly, in the reasons for which they are reading a translation at all. The primitive function of translation, let it be repeated, is the utilitarian one of overcoming ignorance of the language of the original; but many translations are read by those who know the original language quite as well as does the translator, and who, when they see fit to criticize, cannot rid their minds of this fact. They seem to forget that to the reader who is completely ignorant of the original language, and likely to remain so, their criticisms may seem to be quite pointless, and that such a reader may have found the translation to be pleasing and satisfying. He may even be led to study the original language.

For whom, then, are translations intended? At least four groups can be distinguished.
The first is the reader who knows nothing at all of the original language; who reads either from curiosity or from a genuine interest in a literature of which he will never be able to read one sentence in its original form. The second is the student, who is learning the language of the original, and does so in part by reading its literature with the help of a translation. The third is the reader who knew the language in the past, but who, because of other duties and occupations, has now forgotten almost the whole of his early knowledge. The fourth is the scholar who knows it still.

These four types of readers are obviously using translations for recognizably different purposes, and it must follow from this that, since different purposes are usually achieved by different methods and with the help of different tools, the same translation cannot be equally suited to them all. In other words, this concept of reader-analysis will demonstrate that each form of translation has its own function, which it adequately fulfils when used by the type of reader for whom it was intended.

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La ragione più probabile è il disinteresse della critica per il punto di vista dei lettori. I lettori delle traduzioni non differiscono solo per le preferenze personali, differiscono anche, e in maniera più significativa, proprio per le ragioni per cui leggono una traduzione. La funzione primigenia della traduzione, ripetiamolo, è quella utilitaria di superare l’ignoranza della lingua dell’originale; ma molte traduzioni sono lette da persone che conoscono la lingua d’origine quasi come il traduttore e che, quando pensano che sia il caso di criticare, non riescono a dimenticarsi di questo fatto. Sembrano dimenticare che al lettore completamente ignorante della lingua d’origine, e che probabilmente lo rimarrà, le loro critiche possono sembrare poco pertinenti, e che questo stesso lettore potrebbe aver trovato la traduzione piacevole e soddisfacente. Potrebbe anche essere invogliato a studiare la lingua d’origine.

Per chi, quindi, sono concepite le traduzioni? Si possono distinguere almeno quattro gruppi.
Il primo è il lettore che non sa nulla della lingua d’origine, che legge o per curiosità o per un interesse autentico per una letteratura della quale non sarà mai in grado di leggere nemmeno una frase nella sua forma originale. Il secondo è lo studente che sta imparando la lingua dell’originale, e lo fa in parte leggendo la letteratura con l’aiuto di una traduzione. Il terzo è il lettore che conosceva la lingua in passato, ma che, a causa di altri compiti e occupazioni, ha ora dimenticato quasi tutto ciò che sapeva in precedenza. Il quarto è lo studioso che la conosce ancora.

Questi quattro tipi di lettori ovviamente usano una traduzione per scopi evidentemente differenti, e da questo consegue che, dato che scopi differenti si raggiungono generalmente attraverso metodi differenti e con l’ausilio di strumenti differenti, la stessa traduzione non può essere parimenti adatta a tutti loro. In altre parole, questa concezione di analisi del lettore dimostrerà che ogni forma di traduzione ha la propria funzione che adempie in modo adeguato quando viene utilizzata dal tipo di lettore per il quale era stata concepita.

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Let this be amplified. One can so easily imagine the words that form themselves on the lips of readers as they pick up a new volume in translation. The first says to himself, `What is this book about? Why do I hear other people mention it so often? What of interest has the writer got to say?’ The second says, `This will help me more quickly to understand what the writer had to say about his subject; by quicker reading I shall get a better grasp of his ideas.’ The third says, ,Only to think that once, and not so long ago, I was able to read this book properly for myself. How the translation brings it all back: those were the days!’ And the fourth says, `Let me see what poor old So-and-so has made of this. I love it myself; I hope he has not ruined its beauty.’

To these four kinds of readers our four alternative kinds of translations fit themselves naturally and completely.
The ignoramus is happy with the free translation; it satisfies his curiosity, and he reads it easily without the pains of thought. The student is best helped by the most literal translation that can be made in readable English: it helps him to grasp the implications of the different constructions of the language he is studying, and points out the correct usage of the more unfamiliar words. The third prefers the translation that sounds like a translation; it brings back more keenly the memories of his early scholarship and gives him a subconscious impression that he is almost reading the original language. And the fourth, who knows both the matter and style of the original, may find pleasure in occasional touches of scholarship or may, perhaps, enjoy making comments that are more caustic and critical.

Readers of all these kinds abound. Anyone who, like the present writer, has served for nearly twenty years on a Public Library Committee, knows that the `average borrower’ is a fictitious personage who is not to be found among the rate-payers of his district; and that of any work of great reputation every translation that is put on the library shelves will have its own share of admirers. Further than this, many a borrower may consult more than one translation. Two translations are four times as good as one, and in the broad span of literary adventure there is a welcome place for them all.

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Si sviluppi ora questo concetto. Ci si può facilmente immaginare le parole che si delineano sulle labbra dei lettori quando prendono in mano un nuovo volume tradotto. Il primo si chiede: «Di cosa tratta questo libro? Perché ne sento parlare così spesso dalla gente? Cosa ha da dire di interessante l’autore?». Il secondo dice: «Questo mi aiuterà a capire più velocemente quello che l’autore aveva da dire su questo argomento; con una lettura più veloce afferrerò meglio le sue idee». Il terzo dice: «E pensare che una volta, e non molto tempo fa, ero in grado di leggere questo libro correttamente da solo! La traduzione mi fa rivivere tutto quanto: quelli erano giorni!». E il quarto dice: «Vediamo cosa ne ha fatto il povero vecchio Tizio. Io lo trovo molto bello; speriamo che non l’abbia rovinato».

A questi quattro tipi di lettore le nostre quattro traduzioni alternative si addicono in modo naturale e completo.
L’ignorante si trova bene con la traduzione libera; la sua curiosità è soddisfatta, e la legge con facilità senza darsi pena di pensare. Lo studente è aiutato nel migliore dei modi dalla traduzione più letterale che si possa fare in un inglese leggibile: lo aiuta ad afferrare le implicazioni delle diverse costruzioni della lingua che sta studiando e indica l’uso corretto delle parole meno familiari. Il terzo preferisce una traduzione che sembri una traduzione: gli riporta alla mente in modo più vivido i ricordi della conoscenza di un tempo e gli dà l’impressione inconscia di leggere quasi la lingua originale. E il quarto, che conosce sia il contenuto che lo stile dell’originale, può trovare piacevoli gli occasionali tocchi di erudizione o forse può divertirsi a fare commenti più caustici e critici.

Abbondano lettori di tutti questi tipi. Chiunque, come il sottoscritto, sia stato al servizio per quasi vent’anni nella commissione di una biblioteca pubblica, sa che l’“utente medio” che prende in prestito un libro è un personaggio finzionale che non si concretizza in nessuno degli utenti del distretto; e sa che, per ogni opera che gode di una buona reputazione, qualsiasi traduzione posta sugli scaffali della biblioteca avrà la sua porzione di ammiratori. Inoltre, molti utenti della biblioteca potrebbero consultare più di una traduzione. Due traduzioni sono quattro volte meglio di una, e nell’ampio arco dell’avventura letteraria c’è posto per dare il benvenuto a tutte.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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  • –  OSIMO B. 2004, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario.

    Milano, Hoepli.

  • –  OSIMO B. 2005, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con

    tavole sinottiche. Milano, Hoepli.

  • –  OSIMO B. 2006, Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio

    traduttivo dall’antichità ai contemporanei. Milano, Hoepli. 54

  • –  PAZ O. 1970 Traducciòn: liberatura y literalidad, Barcellona, Tusquets, tratto da Sigma, nn. 33-34, 1972, 3-14. In Nergaard 1995, (Traduzione: letteratura e letteralità, traduzione dallo spagnolo di Valeria Scorpioni, 283-297).
  • –  SAVORY T. H. 1896, The Art of Translation, London, Cape, 1957, 49- 59.
  • –  STEINER G., 1992, After Babel. Aspects of language and translation, Oxford, Oxford University Press, 1998.
  • –  TOURY G. 1979 Communication in Translated Texts. A semiotic Approach. Tratto da Gideon Toury, In Search of a Theory of Translation, The Porter Institute of Poetics and Semiotics, Tel Aviv, 1980, 11-18. In Nergaard 1995, (Comunicazione e traduzione. Un approccio semiotico, traduzione dall’inglese di Andrea Bernardelli, 103- 119).
  • –  TOURY G. 1980 A Rationale for Descriptive Translation Studies, tratto da Theo Hermans (a cura di), The Manipulation of Literature: Studies in Translation, London-Sydney, Croom Helm, 1985, 16-41. In Nergaard 1995, (Principi per un’analisi descrittiva della traduzione, traduzione dall’inglese di Andrea Bernardelli, 181-223).

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RINGRAZIAMENTI

Innanzitutto, un ringraziamento particolare va al mio relatore, il professor Osimo, per aver accettato anche all’ultimo momento e già sovraccarico di impegni di seguirmi in questo lavoro e per avermi pazientemente aiutata con i suoi consigli e le sue indispensabili indicazioni durante tutto il percorso.

Un grazie sentito alla professoressa Colosio per avermi dato un aiuto nell’analisi traduttologica che è andato ben oltre le mie aspettative. I suoi suggerimenti e le sue correzioni sono stati fondamentali.

Vorrei infine ringraziare il professor Ross e la professoressa Aichner per essere stati così gentili da correggere i miei abstract in inglese e in tedesco in così poco tempo.

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