Gideon Toury: Communication in Translated Texts LAURA AGOSTINELLI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Gideon Toury: Communication in Translated Texts

LAURA AGOSTINELLI

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Autunno 2009

© GIDEON TOURY, Porter Institute, Tel Aviv, 1980 © Laura Agostinelli per l’edizione italiana 2009

Abstract in italiano

Gideon Toury: Communication in Translated Texts

Gideon Toury è sempre stato in prima linea per trovare una teoria della traduzione ed è stato uno dei primi a concepire la traduzione come una materia a sé stante e come oggetto di ricerca. In questo libro Toury riflette sull’importanza del metatesto e di tutto ciò che comporta, così allontanandosi dalle teorie più tradizionali. Diversamente dai tradizionalisti Toury mette in primo piano la cultura ricevente alla quale il testo tradotto deve innanzitutto rispondere. Le traduzioni devono soddisfare i bisogni della cultura ricevente che a sua volta influisce sulla stesura del testo tradotto. Il fattore culturale ha molta importanza ed è anche per questo motivo che l’interesse s’incentra sulle norme descrittive e sugli studi descrittivi che, contrariamente alle norme prescrittive e agli studi teorici, analizzano il prodotto dell’attività traduttiva nel mondo reale.

English abstract

Gideon Toury has always been in the front line to find a theory of translation and he has been one of the first scholars to see translation as a subject in its own right and as an object of research. In this book he meditates on the importance of the target text and on everything it involves. By doing so, he moves away from the most traditional theories. Unlike the traditionalists, Toury brings the target culture to the fore — the culture to whom the translated text has to meet first and foremost with. Translations have to satisfy the needs of the target culture that, in its turn, influences the writing of the translated text. The cultural factor is very important and it is for that reason, too, that the interest pivots on the descriptive norms and on the descriptive translation studies that, unlike the prescriptive norms and the theoretical studies, analyse the product of the translation activity in the real world.

Résumé en français

Gideon Toury a toujours été en première ligne à fin de trouver une théorie de la traduction et il a aussi été un des premiers savants à concevoir la traduction comme une matière indépendante et comme un objet de recherche. Dans ce livre, Toury réfléchit sur l’importance du texte récepteur et sur tout ce qu’il comporte, en s’éloignant ainsi des théories les plus traditionnelles. A la différence des traditionalistes, il met au premier plan la culture réceptrice à laquelle le texte traduit doit avant tout répondre. Les traductions doivent satisfaire les besoins de la culture réceptrice qui, à son tour, influence l’écriture du texte traduit. Le facteur culturel a beaucoup d’importance et pour cette raison aussi, l’intérêt est centré sur les normes et les études descriptives qui, au contraire des normes prescriptives et des études théoriques, analysent le produit de l’activité de traduction dans le monde réel.

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Sommario

1. Prefazione ________________________________________________ 3

  1. 1.1.  Biografia________________________________________________ 3
  2. 1.2.  In Search of A Theory of Translation ________________________ 4

1.2.1. Communication in Translated Texts __________________________ 4

1.2.2. Le norme traduttive ________________________________________ 6

1.2.3. Gli studi traduttivi ________________________________________ 10

1.2.3.1. Traduzione naturale versus traduttori nativi________________________ 10

1.2.4. Storia della traduzione ebraica ______________________________ 11

1.2.4.1. La letteratura per l’infanzia ____________________________________ 14

1.3. Riferimenti bibliografici _____________________________________ 15

2.1 Traduzione con testo a fronte _______________________________ 16

2.2 References _________________________________________________ 33 2.2 Riferimenti bibliografici _____________________________________ 34

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1. Prefazione

1.1 Biografia

Gideon Toury è figlio di immigranti tedeschi ebrei che si sono trasferiti in Israele durante gli anni Trenta. Toury, come lui stesso ha affermato, essendo figlio di immigranti, era abituato a tradurre non solo in ambito linguistico ma anche pragmatico e culturale. È cresciuto a Haifa e durante gli anni scolastici, come ogni bambino, aveva il compito di tradurre dall’inglese e dall’arabo verso l’ebraico (anche se si traduceva solo a livello lessicale per capire cosa si stava studiando). L’inglese era una lingua già praticata da Toury visto il contatto diretto che aveva con i bambini provenienti dall’estero, figli di colleghi di suo padre, che insegnava in un liceo affiliato al Technion. Inoltre Toury non si dimenticò mai la lingua tedesca tenendola viva con la lettura di numerosi libri (Shlesinger 2000). Da bambino è diventato vicedirettore di un settimanale per bambini, traducendo poi molte storielle, al liceo era direttore della versione ebraica del Popular Photography dove ha affrontato per la prima volta i problemi della lingua ebraica priva di molti termini (probabilmente coniati poi da lui stesso), mentre nell’esercito è stato redattore di riviste di kibuz. Ha iniziato gli studi accademici solo a ventiquattro anni iscrivendosi, dopo essere stato deluso dal corso di giornalismo, al Dipartimento degli Studi Letterari diventando assistente, oltre che membro direttivo della rivista HaSifrut del suo dipartimento traducendo molti degli articoli non israeliani. Iscritto anche al Dipartimento di Lingua e Letteratura ebraiche, ha studiato le lingue semitiche antiche con le quali si esercitava nella traduzione (Shlesinger 2000)

Per Toury in quegli anni era ancora impensabile concepire la traduzione come una professione e come oggetto di ricerca, era solo uno strumento. La svolta si è verificata grazie al professor Kadiri, il quale vedendo che l’interesse del suo alunno andava oltre l’aspetto materiale, gli portò una copia di Science of Translating di Nida (Shlesinger 2000). Questo libro era basato sulla Bibbia e fece capire a Toury che la traduzione era una materia a sé stante e che poteva essere studiata in modo metodico. Even-Zohar è stato una guida per Toury, facendo da supervisor per la sua tesi di dottorato riguardante la teoria polisistemica, una rete di sistemi correlati in un rapporto dialettico all’interno del quale egli inserisce anche il sistema della letteratura tradotta. Altre figure importanti sono stati James Holmes e Catford.

Inizialmente Toury si è concentrato sugli scritti a lui contemporanei, solo in un secondo momento ha preso in considerazione anche le teorie precedenti (Shlesinger 2000).

Queste importanti figure della traduttologia avevano però accesso alle varie teorie sparse nel mondo solo tramite un sistema di conoscenze e amicizie, non vi era una scuola di teorici bensì un nucleo di studiosi che si scambiavano informazioni e opere a loro disposizione. Solo nel 1970 fu creato il primo seminario per l’arte della traduzione letteraria, TRANSST, nel quale Toury entrò su invito di Zohar. Nello stesso anno Toury avviò il primo corso sulla teoria della traduzione.

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Toury è diventato direttore della rivista Target e del TRANSST (International Newsletter for Translation Studies) insieme a Lambert, è stato per quattro anni Direttore della School of Cultural Studies, ha fatto il critico della traduzione e in tutti questi anni si è dedicato allo studio della traduzione pubblicando diversi saggi e teorie nei quali parla di norme descrittive, che descrivono ciò che si riscontra comunemente nelle traduzioni analizzate e che quindi non vogliono essere delle regole da seguire come nel caso delle norme prescrittive (Shlesinger 2000).

Toury è insegnante, scrittore, direttore, traduttore e studioso, in poche parole uno degli uomini che hanno contribuito all’avvio della scienza della traduzione.

1.2 In Search of A Theory of Translation

Il libro di cui ho tradotto il primo capitolo si intitola non a caso In cerca di una teoria della traduzione, è uno dei primi scritti pubblicati da Toury e anche se datato (pubblicato nel 1980), è ancora uno spunto per vari studi. L’intero libro è stato scritto dal 1975 al 1980 ed è composto da saggi scritti in periodi diversi e che quindi ripercorrono lo sviluppo degli studi di Toury. Già nel titolo si nota che l’autore è ancora in cerca di una teoria quindi si presta a dare indicazioni e non teorie assolute (Toury 1980: 7). In ogni capitolo Toury ha lo stesso approccio, si basa su traduzioni vere, non su quelle ipotetiche, e su prodotti reali invece che sul processo di traduzione o sulla traducibilità a priori. Toury si distingue proprio perché punta l’attenzione sul metatesto e concepisce la traduzione come attività e prodotto semiotico. Il libro è diviso in quattro parti:

La prima parla della natura degli studi sulla traduzione ed è composta da scritti metateorici. È il capitolo da me tradotto.

La seconda si concentra sulla natura della traduzione e Toury spiega il concetto di «norme traduttive». A questo proposito prenderò in esame il secondo capitolo di un altro suo importante libro, Descriptive Translation Studies and Beyond.

La terza parte parla degli studi sulla traduzione descrittiva (Toury 1980: 8) mentre nella quarta parte si concentra sulla traduzione ebraica e sulla letteratura per l’infanzia sulle quali mi soffermerò brevemente.

1.2.1 Communication in Translated Texts

Nel saggio che ho tradotto, Toury adotta un approccio semiotico per l’analisi della traduzione. Il saggio, come molti dei suoi scritti, è di natura programmatica al fine di dare nuove idee su cui gli studiosi possano riflettere (Toury 1980: 11). Infatti sottolineo che Toury difficilmente formula dei giudizi o delle prescrizioni; tende semmai a descrivere le traduzioni che analizza.

Toury concepisce la semiotica come uno studio sistematico allo scopo di descrivere i vari processi semiotici, ma per Toury è importante focalizzarsi maggiormente sull’unione dei segni discreti per la creazione di sistemi di segni differenti e focalizzarsi sui processi più complessi e “reali” (Toury 1980: 11) in

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relazione ai sistemi appena citati e alla comunicazione (facendo una selezione tra entità codificate e la loro combinazione in messaggi).

Toury ha introdotto il concetto di trasferimento, cioè di un processo intersistemico col quale un’entità semiotica che fa parte di un certo sistema, viene trasferita in un altro sistema creando una nuova entità semiotica. Ogni trasferimento implica un’invariante in trasformazione (Toury 1980: 12). L’entità derivante, come ogni altra entità semiotica, fa parte del sistema a cui appartiene, e diversamente dalle entità semiotiche ordinarie, è la rappresentazione di un’altra entità che fa parte di un sistema diverso (in virtù dell’invariante che le accomuna). Ogni trasferimento implica tre serie di relazioni: tra le due entità e il sistema a cui appartengono (si parla di accettabilità), tra le due entità in base all’invariante (si parla di adeguatezza, equivalenza…), tra i codici o i sistemi soggiacenti.

Per fare una divisione tra i tipi di trasferimento bisogna considerare il rapporto tra i codici, bisogna quindi distinguere i processi nei quali c’è una relazione tra i sistemi dai processi nei quali non vi è. Questa relazione ha conseguenze sull’invariante intersistemica e intertestuale pertinente al tipo in questione e anche sulle relazioni tra entità iniziale e derivante. In trasferimenti di questo tipo, l’operazione è svolta correttamente quando l’entità derivante è una realizzazione dell’entità iniziale alla quale si applicano le relazioni predefinite tra il sistema in cui si trova e il sistema ricevente. Queste operazioni sono reversibili (Toury 1980: 13).

I singoli codici autonomi non sono concepiti per effettuare trasferimenti, quindi quando si verifica un trasferimento tra entità codificate al loro interno ci si focalizza sugli altri due tipi di relazioni. In questo caso ogni relazione presupposta tra entità emittente e ricevente è arbitraria e in ogni trasferimento si possono avere entità derivanti diverse che quindi fan sì che queste operazioni siano irreversibili.

La traduzione è una sottocategoria di trasferimento (Toury 1980: 14) e Toury la definisce come: a) trasferimento interlinguistico ma ancora meglio intertestuale poiché di fatto ci sono due messaggi codificati in due lingue diverse e in alcuni altri sistemi di modellizzazione secondaria (come ideologie, stili, mode ecc.), b) indipendente dalle relazioni tra sistemi soggiacenti anche se l’esistenza di alcune relazioni tra le due lingue e i sistemi di modellizzazione secondaria sono un grande fattore di traducibilità, c) mezzo per creare o per mantenere una relazione tra i due testi.

Per Toury è importante riuscire a spostare l’attenzione dalle relazioni interlinguistiche a quelle intertestuali per trovare la specificazione di queste relazioni. Per fare una traduzione, è fondamentale interrogarsi sull’influenza di questa specificazione (Toury 1980: 14).

Toury afferma che bisogna stabilire una relazione tra testo emittente e ricevente, non si può concepire la traduzione come una comunicazione interlinguistica, o per meglio dire, come una «comunicazione di messaggi verbali al di là di un confine culturale-linguistico», altrimenti la ridurremmo a un mero aspetto di trasferimento e non terremmo conto di tutte le altre fasi di produzione del messaggio tradotto. Toury dà molta importanza al sistema ricevente, lo considera infatti il sistema che dà inizio all’intero processo traduttivo (Toury 1980: 16); la

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traduzione deve fungere da messaggio nel contesto culturale-linguistico ricevente e questo molto probabilmente influisce sulla produzione del testo tradotto e sulla determinazione delle relazioni testo emittente-ricevente e del nucleo invariante (vedi parte 2). È facile ipotizzare che influisca sulla ricomposizione del testo tradotto e sulla scomposizione e sul trasferimento del testo emittente. Molte teorie tradizionali della traduzione sono incentrate sul testo emittente e non si pongono problemi di teleologia, si concentrano sull’origine dei fenomeni traduttivi senza capire la loro finalità (Toury 1980: 16). Una grande lacuna è infatti il non domandarsi come funzionino le traduzioni per soddisfare i bisogni della cultura ricevente e in che modo questi bisogni influenzino e contribuiscano alla produzione del testo tradotto.

È fuorviante per Toury pensare alla traduzione come a un tentativo di ricostruzione del testo originale o cercare di mantenere alcuni elementi invarianti nel testo originale che però fungono da «invariante in trasformazione» in un altro sistema di segni. Le traduzioni basandosi sui messaggi della cultura emittente creano una mappa dei testi della cultura ricevente e della loro posizione nei sistemi di modellizzazione pertinenti al testo ricevente. Per Toury la traduzione è una comunicazione in messaggi tradotti all’interno di un sistema culturale-linguistico; non hanno un’identità materiale costante, e per questo Toury propone di pensare alla traduzione come a una classe di fenomeni le cui relazioni sono quelle di somiglianza familiare dove non ci siano relazioni tra testo emittente e ricevente postulate come condizioni necessarie (Toury 1980: 18). Toury suggerisce invece di usare un insieme di proprietà dove le relazioni vengano valutate in base al loro grado di pertinenza, che non è né a priori né assoluta.

1.2.2 Le norme traduttive

In questa parte mi soffermerò maggiormente sull’importanza dato da Toury al testo ricevente e alle norme traduttive, riscontrati nell’analisi della traduzione.

Come già accennato nella prima parte, la traduzione deve avere un significato culturale, deve essere in grado di svolgere un ruolo sociale, cioè deve adempiere alla funzione datale da una comunità in modo tale che sia appropriata ai suoi termini di riferimento. Ne consegue che per diventare un traduttore all’interno di un ambiente culturale è importante acquisire una serie di norme per stabilire come meglio rapportarsi a una certa comunità. Nella dimensione socio-culturale la traduzione è soggetta a limitazioni di vari tipi e gradi, che in termini della loro potenza sono descritte come una scala ancorata a due estremità: da una parte si trovano le leggi generali, dall’altra parte ci sono le peculiarità (Toury 1995: 54). Tra questi due poli vi sono le norme. Possiamo dire che le leggi sono norme più oggettive mentre le peculiarità sono più soggettive. Vi sono norme che si accostano di più alle leggi e quindi risultano essere più forti contrariamente alle norme che si avvicinano alle peculiarità. Il confine tra i vari tipi di limitazione è perciò vago e anche i concetti risultano relativi. Toury parla anche di un asse temporale dove ogni tipo di limitazione potrebbe, e molte volte è questo il caso, spostarsi verso un’estremità o l’altra e quindi per esempio una norma può acquisire tanta validità da diventare una

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regola vincolante. I cambiamenti in termini di validità e di forza molto spesso dipendono dai cambiamenti di status di una società (Toury 1995: 54). Le norme sono sempre state viste come la traduzione dei valori delle idee di una comunità stabilendo così cosa è giusto e cosa è sbagliato in una certa dimensione comportamentale. Le norme sono acquisite durante la crescita dell’individuo all’interno di una società e queste implicano sempre una sanzione – reale o potenziale, negativa o positiva che sia – e servono per valutare i vari tipi di comportamento. Di conseguenza in determinate situazioni ci sarà una regolarità di comportamento e queste regolarità permetteranno un più facile studio delle norme (Toury 1995: 55).

Le norme assicurano la creazione e il mantenimento di un ordine sociale. Può esserci un comportamento che non si uniformi alle norme ma «non rispettare una norma in un determinato caso non invalida la norma» (Hermans 1991: 162). È importante ricordare che non è necessario che ci sia identità tra le norme stesse e la loro formulazione in lingua, quest’ultime rispecchiano la consapevolezza dell’esistenza delle norme e del loro significato ma implicano anche altri interessi, ad esempio il desiderio di controllare il comportamento.

La traduzione coinvolge due lingue e due tradizioni culturali cioè due sistemi normativi diversi. La traduzione quindi implica un testo in una lingua che occupa una posizione nella cultura appropriata, e la rappresentazione in una lingua e cultura di un testo preesistente in un’altra lingua e cultura.

Questi testi derivano da due culture differenti che saranno sempre e comunque diverse e perciò incompatibili. Il comportamento traduttivo in una cultura tende a manifestare certe regolarità e la persona che vive in quella determinata cultura può spesso riconoscere quando un traduttore si è discostato dalle norme (Toury 1995: 56).

È importante considerare la scelta che può essere fatta tra i requisiti delle due culture come la norma iniziale, iniziale poiché superiore alle norme particolari che appartengono a livelli più bassi e specifici. Questa nozione è a base logica e serve come mezzo esplicativo. Si prendono in esame le regolarità ma è assurdo pensare di trovare regolarità ovunque. Le decisioni per la traduzione implicano necessariamente delle combinazioni o dei compromessi tra i due estremi implicati dalla norma iniziale. Come spiega Toury, un traduttore potrebbe scegliere di sottostare o al testo originale o alle norme attive nella cultura ricevente. Nel primo caso ci saranno probabilmente varie incompatibilità con le norme della cultura ricevente, oltre a quelle linguistiche, nel secondo caso sarà inevitabilmente uno spostamento dal testo emittente. Perciò si parla di adeguatezza quando vi è aderenza alle norme della cultura emittente, si parla invece di accettabilità quando si sottostà alle norme della cultura ricevente (Toury 1995: 56). Anche la traduzione che mira alla maggiore adeguatezza possibile metterà in atto dei cambiamenti dal testo emittente (la realizzazione dei cosiddetti cambiamenti obbligatori sono governati dalle norme).

Le norme possono operare a ogni stadio traduttivo, perciò Toury ha trovato opportuno dividere le norme in due gruppi: 1) le norme preliminari che hanno a che fare con la politica della traduzione (cioè i fattori che decidono quale testo deve essere immesso in un’altra cultura attraverso la traduzione in un determinato periodo storico) e la chiarezza della traduzione (che implica la soglia di tolleranza per tradurre

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da lingue diverse da quella del testo ricevente); 2) le norme operative che dirigono le decisioni prese durante l’atto traduttivo stesso. Influiscono sulla matrice del testo e sulla formulazione verbale, decidono cosa resterà invariato durante la trasformazione e cosa invece cambierà.

Vi sono poi le norme della matrice che si occupano dell’esistenza del materiale della lingua ricevente inteso come sostituto del materiale linguistico del testo emittente, perciò del grado di completezza della traduzione, della sua distribuzione e della segmentazione del testo. Il limite tra i diversi fenomeni riguardanti la matrice non sono ben definiti, per esempio varie omissioni possono essere viste come un cambiamento di segmentazione e così via (Toury 1995: 59).

Le norme testuali-linguistiche controllano la selezione del materiale con il quale formulare il metatesto o col quale sostituire il materiale linguistico e testuale originale. Possono essere generali e applicarsi a ogni traduzione, o particolari e quindi appartenere a un particolare tipo di testo e a una sola modalità traduttiva. Le norme preliminari hanno precedenza sia logica che cronologica rispetto a quelle operazionali (Toury 1995: 59). Ciò non significa che non ci sia un’influenza reciproca fra i due gruppi per lo meno per quanto riguarda la norma iniziale. Le norme operative servono da modello e, dando delle indicazioni, possono agire da fattore restrittivo cioè possono proporre delle opzioni e escluderne delle altre.

Quindi, quando si sceglie la prima opzione, la traduzione difficilmente sarà stata fatta completamente nel linguaggio della cultura ricevente, utilizzerà invece un linguaggio modello, cioè una varietà inesistente e artificiale. Dunque la traduzione non è introdotta nella cultura ricevente ma piuttosto è imposta. Quando si sceglie la seconda opzione si introduce una versione del testo adatta a inserirsi senza troppi traumi nella cultura ricevente. Bisogna però ricordarsi che comunque sono le norme a determinare il tipo e l’estensione dell’equivalenza manifestata dalle traduzioni (Toury 1995: 60).

Altri fattori da considerare sono senza dubbio la specificità socio-culturale delle norme e la loro instabilità. Una norma non si applica allo stesso modo in tutti i settori della società, tantomeno tra le diverse culture. La somiglianza tra norme è pura coincidenza dovuta ai continui contatti tra sottosistemi all’interno di una cultura, o diverse culture, perciò una manifestazione di interferenza. Il significato dato a una norma è dato dal sistema nel quale si trova, e i sistemi rimangono diversi anche se esternamente il comportamento sembra lo stesso.

Le norme sono entità in evoluzione, quindi instabili (Toury 1995: 62). Molti traduttori non rimangono passivi di fronte a tutto questo e tramite il loro lavoro aiutano a dare forma al processo; che lo vogliano o meno tutti loro interferiscono nel naturale corso degli eventi e lo indirizzano secondo lo loro preferenze. Comunque, adattarsi ai cambiamenti delle norme modificando il proprio comportamento non è così facile e si riesce solo fino a un certo punto. Non è raro trovare in una società tre tipi di norme: quelle che influiscono sul comportamento della cosiddetta «corrente principale»; i resti delle precedenti norme e i rudimenti delle nuove norme (Toury 1995: 62). È per questo che si può parlare, nella traduzione così come in ogni altro campo, di essere “trendy”, “fuori moda” o “avanti”. Questo porta al concetto di «asse

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storico», per esempio una norma è definita datata se questa era attiva in un periodo precedente e non era classificata come datata. La contestualizzazione storica è necessaria non solo per uno studio diacronico ma anche sincronico. Se non si adatta ai cambiamenti, la carriera di un traduttore può risultare breve. È importante tenere presente la complessità della vita reale e contestualizzare ogni fenomeno, testo o tematica per dare alle norme il loro giusto valore. È impensabile trattare tutti i temi nello stesso modo, come se occupassero la stessa posizione sistemica, avessero lo stesso significato e occupassero lo stesso livello di rappresentatività della cultura ricevente e delle sue limitazioni (Toury 1995: 63). Ma sfortunatamente questo approccio è stato a lungo diffuso fino al punto di affermare che non si potesse riscontrare nessuna norma e oscurare così il quadro normativo. Anche nelle traduzioni si può riscontrare un comportamento non normativo, talvolta dei comportamenti devianti hanno portato a cambiamenti all’interno del sistema, ed è a questo punto che ci si domanda chi ha il permesso di apportare dei cambiamenti e in quali circostanze lo può fare.

Siccome si possono osservare i comportamenti governati dalle norme e i loro prodotti ma non le norme in sé, Toury le considera un tentativo di ricostruire il comportamento traduttivo. Ci sono due grandi fonti per la ricostruzione delle norme traduttive: 1) quelle testuali, cioè i testi tradotti, per tutti i tipi di norme e gli inventari analitici delle traduzioni e per le varie norme preliminari, 2) quelle extratestuali, cioè formulazioni semiteoriche o critiche, come le teorie prescrittive della traduzione, affermazioni di traduttori, redattori, editori…

C’è una differenza fondamentale tra questi due tipi di fonte. I testi sono i prodotti primari di un comportamento regolamentato, mentre le affermazioni normative sono semplicemente sottoprodotti dell’esistenza e dell’attività delle norme, sono parziali e devono essere trattati con cautela. Tutto questo non deve però indurre ad abbandonare le formulazioni critiche o semiteoriche come fonte per lo studio delle norme; esse devono essere considerate come presistemiche e bisognerebbe cercare di chiarire lo status di ogni affermazione per capire per quale scopo è stata prodotta. In seguito bisognerebbe confrontarle con i diversi enunciati normativi tenendo conto della loro contestualizzazione (Toury 1995: 66). È molto utile fare una ricerca sul comportamento traduttivo concentrandosi su norme isolate facenti parte di dimensioni comportamentali ben definite ma la traduzione è multidimensionale, i fenomeni sono interconnessi e non è facile isolarli. Bisognerebbe procedere attraverso una fase “sintagmatica” (non paradigmatica) che preveda l’integrazione delle norme appartenenti a diversi campi, e in seguito stabilire le relazioni che esistono tra queste norme. Più questa rete è fitta più si può parlare di «struttura normativa» o di «modello» (Toury 1995: 67).

Bisogna ricordarsi che un traduttore non è un automa, le sue decisioni possono cambiare a seconda dei casi.

Questa in breve è la concezione di «norme» in Toury, viste come condizionamenti sociali che portano il traduttore a “normalizzare” il testo emittente, cioè ad adattarlo alla cultura ricevente. Per questo le traduzioni dello stesso testo

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realizzate in diversi periodi storici e da diversi traduttori sono il prodotto non solo della personalità del traduttore ma soprattutto delle norme che cambiano nel tempo.

1.2.3 I translation studies

In questo ambito Toury fa riferimento agli studi di Holmes che suddivide gli studi sulla traduzione in due gruppi principali. Gli studi descrittivi fanno parte degli studi traduttologici “puri” e si distinguono dagli studi teorici. Hanno l’obiettivo di descrivere il prodotto dell’attività traduttiva e la sua funzione in un certo contesto socio-culturale, focalizzandosi anche sul processo cognitivo che avviene all’interno del cervello umano durante la realizzazione del testo tradotto. Questi aspetti della traduzione vengono studiati empiricamente, vale a dire come fenomeni che si manifestano nel mondo della nostra esperienza. Gli studi teorici elaborano dei princìpi generali e dei modelli teorici che cercano di spiegare l’esistenza di questi fenomeni e prevedere la loro fisionomia nel futuro con l’aiuto dei risultati della ricerca descrittiva con i dati forniti dalle discipline attinenti (come ad esempio le scienze sociali e le scienze cognitive).

Oltre agli studi “puri” vi sono anche quelli “applicati” che Toury ha rinominato «estensioni applicate» poiché si estendono al di là della disciplina stessa. I loro ambiti di ricerca sono: «formazione dei traduttori», «strumenti per la traduzione», «politica nel campo della traduzione» e «critica della traduzione» [«translation training», «translation aids», «translation policy» e «translation criticism»].

1.2.3.1 Traduzione naturale versus traduttori nativi

Una parentesi che tenevo ad aprire tratta di un’altra puntualizzazione di Toury riguardante il concetto di «traduzione naturale» – traduzione sia scritta che orale – di Brian Harris e Sherwood intesa come: «la traduzione fatta da persone non specializzate nelle circostanze di tutti i giorni» (Harris and Sherwood 1978: 155). Con questa espressione s’intende l’attività traduttiva delle persone bilingui, in particolar modo dei bambini che, secondo i due studiosi, sono in grado di tradurre in qualsiasi lingua e cultura dal momento in cui diventano bilingui. Harris afferma che «la traduzione coincide con il bilinguismo» (Harris and Sherwood 1978: 155) e per questo sostiene che l’abilità traduttiva aumenta seguendo delle fasi ben precise. Toury critica queste idee nel suo saggio Descriptive Studies and Beyond dichiarando che è l’attitudine per la traduzione a coincidere con il bilinguismo, tutto ciò che comporta la capacità traduttiva dipende dall’interlinguismo, cioè dall’abilità di stabilire una relazione tra le differenze e le somiglianze tra lingue diverse. Toury critica anche le fasi introdotte da Harris in quanto basate fondamentalmente sul criterio dell’età, non partono dal momento in cui il bambino diventa bilingue ma dalla sua nascita, trasformando così l’età in un fattore biologico anziché linguistico. Gli esempi portati da Harris mostrano che le traduzioni dei bilingue diventano sempre più

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funzionali e razionali a livello sociale, lasciando però così sottintendere che, crescendo, l’atto traduttivo perde la sua naturalezza. Questo ovviamente è in contraddizione con il principio primo di Harris (Toury 1995).

Inoltre Harris non si concentra minimamente sul carattere e le caratteristiche proprie dell’individuo e sulle circostanze nelle quali può avere tradotto. Secondo Toury, le traduzioni differiscono da individuo a individuo poiché la capacità di trasportare idee da una lingua all’altra cambia a seconda della persona.

Per Toury quindi i fattori da considerare sono altri e fare coincidere la traduzione con il bilinguismo è una sorta di semplificazione. Secondo lo studioso, l’espressione «traduzione naturale» è sinonimo di «bilinguismo». È per questo che propone di utilizzare il concetto di «traduttori nativi» (Kaya 2007). I traduttori nativi producono enunciati spontanei non appena fanno proprie le norme di una data cultura, ed è durante il loro periodo di socializzazione che riescono a sviluppare delle strategie per affrontare eventuali problemi nel campo della traduzione (come si può notare Toury parte da un punto di vista socio-culturale). Toury parla anche di «generalizzazione» e di «specializzazione». Col primo termine intende il metodo del traduttore nativo che utilizza sempre un solo tipo di procedura sia per le sanzioni positive che negative, mentre il secondo termine è in antitesi col concetto di «adattabilità», cioè la facoltà di una persona di tradurre in modo flessibile a seconda delle diverse norme e situazioni a cui deve far fronte (Toury 1995).

Sono stati fatti diversi studi per sapere se si può o meno affermare che un bilingue è un traduttore ma non si ha ancora una risposta definitiva anche perché molto dipende da cosa si intende per «traduzione» che di per sé è un concetto soggettivo e quindi relativo.

1.2.4 Storia della traduzione ebraica

Quest’ultima parte si concentra sulle norme che caratterizzano la traduzione verso l’ebraico — per questo argomento mi sono rifatta al testo Hebrew [Traslation] Tradition (1998) — e alla letteratura infantile alla quale farò un breve accenno.

La traduzione verso l’ebraico, così come l’utilizzo della lingua ebraica, ha una storia lunga e discontinua marcata da numerosi passaggi già a partire da molti secoli prima di Cristo (Toury 1998: 439).

L’ebraico ha sempre avuto e mantenuto una posizione privilegiata nel contesto sacro-religioso acquisendo lo status di Lingua Sacra, perciò non stupisce se uno dei primi testi su cui si è lavorato con la traduzione è la Bibbia. Nella Bibbia ebraica si nota l’interferenza di altre tradizioni linguistiche e testuali, infatti molti passi dell’antico testamento potrebbero essere stati tradotti da altre fonti (Toury 1998: 439). I testi che abbiamo a disposizione oggi sono per lo più versi biblici tradotti nel tipo di ebraico usato in un determinato periodo storico. In seguito questi versi sono stati tradotti verso l’aramaico e il greco per consentire ai meno istruiti di riuscire a seguire le funzioni religiose.

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Durante il medioevo la traduzione verso l’ebraico ha riacquisito una certa importanza. Molte famiglie ebraiche cominciarono a migrare dalle regioni arabe verso quelle cristiane e, poiché i loro figli non erano in grado di leggere in arabo, si diffuse l’ebraico come lingua principale, diventando poi l’unico mezzo di comunicazione tra gli ebrei che vivevano lontani. Ci sono casi in cui i trattati erano tradotti su commissione. L’interesse maggiore era diretto verso i testi scientifici; nel mondo accademico i primi testi tradotti erano trattati di etica e di legge ebraica scritti da ebrei in arabo. In seguito l’interesse si è spostato verso tematiche e libri non ebraici. In questo caso l’arabo fungeva da lingua di mediazione. Ma la traduzione di opere letterarie è sempre stata considerata di minore importanza. Lo stesso fenomeno si è verificato in tempi moderni dove, sempre in ambito scolastico, i primi testi a essere stati presi in considerazione sono stati quelli scientifici (Toury 1998: 440). Vi sono poi eccezioni alla regola dove però la traduzione è stata usata come mezzo di sperimentazione ed esercizio preparatorio. Nelle traduzioni medievali era solito trovare delle lunghe introduzioni dove il traduttore si scusava con il lettore perché o non aveva familiarità con l’argomento di cui trattava il testo, per quanto riguarda i testi scientifici, o per paura di trattare un tema superficiale, per quanto riguarda i testi letterari. Altre volte le scuse erano dovute alle scelte linguistiche, ma le scuse iniziali erano oramai diventate una convenzione. È interessante constatare che nell’introduzione si parlava anche della traduzione e di come tradurre ma anche i traduttori stessi si accorgevano che v’erano discrepanze tra i princìpi esposti e la traduzione fatta (Toury 1998: 441). Questo problema sorge soprattutto dal fatto che la lingua ebraica è stata usata in pochi àmbiti impedendo così un suo arricchimento linguistico.

Il problema si aggravava quando il traduttore nel tradurre dall’arabo si faceva fuorviare dalla somiglianza tra le due lingue. I traduttori medievali avevano due approcci diversi a seconda se il testo era scientifico o letterario (Toury 1998: 441). Nel primo caso stavano più vicino possibile alla struttura del testo originale, e per ridurre il divario lessicale proponevano termini nuovi o utilizzavano calchi. Nel secondo caso si accostavano ai modelli domestici soprattutto alla poesia medievale ebraica basata su un linguaggio quasi biblico. Diversamente dalla traduzione letteraria, la strategia usata per la traduzione scientifica ha avuto un grande successo: le strutture e i vocaboli sono stati gradualmente assimilati nella lingua ebraica creando così il cosiddetto “ebraico tibbonide” prendendo nome dalla più importante famiglia di traduttori del periodo.

Durante il Rinascimento, soprattutto in Italia, si è continuato a tradurre verso l’ebraico ma questo tipo di traduzione non è riuscita a delinearsi al meglio soprattutto per l’ostilità verso il popolo ebraico.

Durante la metà del Settecento una parte del popolo ebraico si spostò verso la Germania. Questo periodo coincide con la nascita della Haskala, il movimento illuminista ebraico, con lo scopo di avvicinare la cultura ebraica a quella europea (Toury 1998: 442). Ma questo era possibile solo investendo maggiormente sulla traduzione vista come mezzo di sperimentazione e per produrre velocemente molti testi. Come è stato detto precedentemente, l’ebraico non riusciva a esprimere tutto ciò

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che era stato formulato dalle altre culture, per questo i traduttori cominciarono a indagare la versatilità della lingua soprattutto in àmbito letterario. Preservare l’ebraico puro era però diventato un requisito fondamentale ai fini di non far soccombere la cultura ebraica sotto tutti i testi importati. Così la Bibbia, in particolare il Vecchio Testamento, fu l’unico testo preso in considerazione, vista come pozzo da cui attingere espressioni fisse e da colmare con nuovo materiale linguistico. Come punto di riferimento, i traduttori scelsero il tedesco antico selezionando temi e modelli che avevano già funto da canoni. Molte volte si creavano lunghe file di parole formate da una concatenazione di frasi prese dai contesti originali così da restringere le scelte dei traduttori e da ottenere testi sempre più uniformati. Nella maggior parte dei casi i testi non erano definiti traduzioni ma prodotti dei loro traduttori. All’inizio le traduzioni interessavano testi brevi o loro frammenti perché erano più semplici da tradurre ed erano adatti ai giornali (sui quali si pubblicava maggiormente). Passò molto tempo prima che si cominciasse a tradurre testi drammatici e romanzi (Toury 1998: 443).

Alcuni testi tradotti dal tedesco erano stati a loro volta tradotti da altre lingue (soprattutto inglese e francese), perciò in questo modo la cultura ebraica veniva indirettamente a contatto con altre culture e il tedesco diventò la lingua di mediazione. La maggior parte dei testi tradotti non erano ben accetti poiché troppo connotati sul piano storico. Inoltre la cultura ebraica non puntava di certo l’attenzione sull’adeguatezza del testo di mediazione visto che il suo obiettivo era di staccarsi dalle caratteristiche del prototesto per preservare la natura della lingua ebraica. Si può dunque affermare che questo periodo traduttivo non ha contribuito a un’ evoluzione della cultura ebraica ma all’aumento dei testi tradotti, soprattutto nel ramo della letteratura per l’infanzia.

Nell’Ottocento il centro culturale ebraico si spostò verso le regioni slave facendo entrare in contatto gli scrittori ebrei con nuove culture e creando nuove differenze a livello traduttivo (non solo per quanto riguarda il tipo di testo, la tematica e la sua composizione ma anche il linguaggio). Il modello tedesco e la lingua ebraica del momento non erano più adatti e perciò hanno lasciato il posto al sistema russo che è diventato anche la fonte principale dei testi da tradurre (Toury 1998: 444). La purezza dell’ebraico non si basava più unicamente sulla Bibbia ma anche su un modello russo rimasto saldo per generazioni e che era diventato parte dell’ebraico contribuendo ad arricchire e diversificare il repertorio della lingua ebraica. In questo periodo, conosciuto come «periodo della Rinascita», l’ebraico tornò a essere una lingua parlata (Toury 1998: 445), si cominciò a considerare l’importanza del prototesto e non si spacciarono più le traduzioni come testi originali. Tutto questo acquisì maggior peso quando l’ebraico e lo yiddish entrarono più a stretto contatto, erano viste come due componenti della stessa cultura e per aumentare il prestigio di entrambe le lingue molti testi sono stati tradotti in ebraico.

Con la nascita del sionismo verso la fine dell’Ottocento molti ebrei migrarono verso la Palestina ma la maggior parte dei traduttori, vissuti in Russia, continuarono a lavorare seguendo il metodo russo. La situazione cominciò a cambiare agli inizi del Novecento. Alcuni ebrei dell’Europa orientale migrarono verso gli Stati Uniti, dove

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in seguito si è formato un secondo centro culturale ebraico. Tra loro emersero scrittori e traduttori che avevano familiarità con la lingua e la letteratura inglese. Molti di loro si trasferirono poi in Palestina dove si integrarono senza difficoltà poiché, in seguito al mandato britannico sulla Palestina, l’inglese era una lingua in uso (Toury 1998: 445). L’inglese e il modello anglo-americano divennero così i nuovi punti di riferimento per la traduzione.

A causa della Shoah la cultura ebraica si chiuse maggiormente su di sé e sviluppò diverse varietà linguistiche che solo recentemente sono utilizzate nella traduzioni (Toury 1998: 446).

1.2.4.1 La letteratura per l’infanzia

Per quanto riguarda le letteratura infantile si nota che nella cultura ebraica non vi sono molti testi per bambini. Toury è stato uno dei pochi ad accostarsi al mondo della letteratura infantile notando che molto spesso le traduzioni di questi testi si avvicinano al polo dell’accettabilità semplicemente perché si presuppone che il lettore modello abbia più difficoltà ad accettare un elemento estraneo alla propria cultura. Da sottolineare anche il fatto che questo tipo di letteratura è considerato di un livello inferiore perciò i traduttori tendono a non mettere tutto in discussione.

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1.3 Riferimenti bibliografici

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Consorzio ICoN – Italian Culture on the Net, 2000-2009. La disciplina dei Translation Studies. Disponibile nel sito: www.masterintraduzionespecialistica.it/modulo.asp?M=T00014&S=4&P=2

Harris, Brian e Sherwood, Bianca, 1978. «Translation as an Innate Skill» in Gerver, D. & Sinaiko, H. (A cura di) Language, Interpretation and Communication. (New York e Londra: Plenum Press), 1978: 155-170.

Hermans, Theo, 1991. «Translational Norms and Correct Translations». Kitty M. van Leuven-Zwart e Ton Naaijkens, (a cura di) Translation Studies: The State of the Art. Proceedings of the First James S Holmes Symposium on Translation Studies. (Amsterdam e Atlanta, GA: Rodopi), 1991: 155-169.

Shlesinger, Miriam, 2000. My Way to Translation Studies. (Academia Publishers: Publisher website). Disponibile nel sito: www.tauc.ac.il/~toury/interview.html Toury, Gideon, 1980. In Search of a Theory of Translation. (Tel Aviv: Tel Aviv

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Toury, Gideon, 1995. Descriptive Translation Studies and Beyond. (Amsterdam e

Philadelphia: John Benjamins), 1995: 53-69. Disponibile nel sito:

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Gideon,

1998. «Hebrew

[Translation]

Routledge

Encyclopedia

of

Translation

cura di Mona Baker

e

Kirsten

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2.1 Traduzione con testo a fronte

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Communication in Translated Texts. A semiotic approach∗ In Search of A Theory of Translation

Porter Institute, Tel Aviv University, 1980: 11-18

I
One of the main tasks of semiotics is no doubt a systematic study aiming at an exhaustive account of semiotic processes, that is, the various possible manipulations of individual signs, their components, their combinations, etc. Thus, the efforts of the practitioners of this quickly and vastly developing discipline should no longer be confined to the most obvious and most elementary (though by no means simple) process of semiosis in discrete signs, i.e., to the establishment of “variable relationship between signans and signatum” (Jakobson, 1971: 701) to form various types of signs, Rather, they should first and foremost be concerned with the joining of the discrete signs to form different sign-system and with the more complex and “real” processes and procedures connected with these systems and their modes of operation on one hand, and with communication on the other, that is, with the selection of codified entities (which are units of various hierarchical levels which have already gained an established status as signs within a certain system) and their combination into messages (“texts”) according to certain sets of principles, or rules.

In this paper I wish to devote some thought to the basic principles of a further type of semiotic process, which is connected not with the mere existence of semiotic systems, but – more precisely – with the co-existence of various types of semiotic systems, and with various instances of performance within these types (section II). I then wish to sort out one of the sub-types of this process, that which is connected with the [co-]existence of different natural languages (along with the secondary modeling systems which may be imposed on them [cf., e.g., Lotman, 1972: 40]), and to approach it on the basis of the general principles outlined in the course of presentation of the entire process and to discuss some of its characteristics within a tentative semiotic framework (Section III-V). The paper as a whole is intended as a programmatic position-paper rather than as a well-rounded presentation of the type of process in question (which is, after all, far from possible at this stage), and I see its main aim as stirring and provoking discussion rather than as summing anything up.

∗ A somewhat different version of this paper was presented at the second Congress of the International Association for Semiotic Studies (IASS), Vienna, 2 – 6 July, 1979. This paper will appear in Wilss, 1980.

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La comunicazione nei testi tradotti. Un approccio semiotico∗ In Search of A Theory of Translation

Porter Institute, Tel Aviv University, 1980: 11-18

I
Uno dei principali compiti della semiotica è senza dubbio uno studio sistematico che abbia l’obiettivo di descrivere in modo esaustivo i processi semiotici, cioè le diverse possibili manipolazioni di singoli segni, delle loro componenti, delle loro combinazioni… Pertanto gli sforzi degli studiosi di questa disciplina di vasto e veloce sviluppo non dovrebbero più limitarsi, per quanto riguarda i singoli segni, al processo della semiosi più ovvio ed elementare (sebbene questo non significhi più semplice), come ad esempio lo stabilire una «relazione variabile tra signans e signatum» ai fini di creare vari tipi di segni. Piuttosto, come prima cosa, dovrebbero riguardare l’unione dei segni distinti allo scopo di creare sistemi di segni differenti e dovrebbero interessare le procedure e i processi più complessi e «reali» in relazione, da un lato, a questi sistemi e alle loro modalità di funzionamento, dall’altro lato, alla comunicazione, cioè facendo una selezione di entità codificate – unità appartenenti a livelli gerarchici diversi che hanno appena ottenuto lo status consolidato di segno facente parte di un certo sistema – e della loro combinazione in messaggi (testi) che corrispondono a un certo insieme di princìpi o regole.

In questo saggio desidero riflettere sui princìpi che stanno alla base di un ulteriore tipo di processo semiotico, che non è legato alla mera esistenza di sistemi semiotici, ma più precisamente, alla coesistenza di numerosi tipi di sistemi semiotici e ai diversi risultati che si ottengono all’interno di quest’ultimi. Desidero inoltre scegliere uno dei sottotipi di questo processo, che sia legato alla [co]esistenza di diverse lingue naturali (insieme ai sistemi di modellizzazione secondaria a cui possono essere soggette), trattarlo sulla base dei principi generali evidenziati nel corso della presentazione dell’intero processo ed esaminare alcune delle sue caratteristiche all’interno di un modello semiotico sperimentale. Il saggio nel suo insieme vuole essere un saggio di posizione programmatica piuttosto di una presentazione a tutto tondo del tipo di processo preso in esame (che è, dopo tutto, quasi impossibile a questo livello) e trovo che il suo obiettivo principale sia quello di stimolare e suscitare dibattiti anziché fare un semplice resoconto.

∗ Una versione un po’ diversa di questo saggio è stata presentata al secondo Congress of the International Association for Semiotic Studies (IASS), Vienna, 2 – 6 Luglio, 1979. Il saggio apparirà in Wilss, 1980.

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II
The type of process which I have in mind involves transfer operations performed on one semiotic entity, belonging to a certain system, to generate another semiotic entity, belonging to a different system.1 In other words, this category of processes is inter- (or, rather, cross-) systemic.

Obviously, the resultant entity of any transfer operation differs from the initial entity of the same process, if only by virtue of their being members of different systems, i.e., of their being coded in different (primary and/or secondary) codes. However, for transfer to take place, the two entities should also have something in common, which is really that which is being transferred over the systemic (semiotic) border. In other words, every transfer operation involves an “invariant in transformation” (cf., e.g., Brandt, 1969).

It follows that the resultant entity, the existence of which (actual, or at least potential) is, from a semiotic point of view, the differentia specifica of this type of process, is of a twofold nature:

(a) like any other semiotic entity, it is part of the system to which it belongs (namely, the “target,” or “recipient” system);

(b) unlike “ordinary” (that is, primary, underived) semiotic entities, it is also a representation of another entity, belonging to another system, in a certain way and/or to a certain extent, by virtue of the invariant common to it and to the initial entity.

Since every instance of transfer has to do with two semiotic entities and the two respective systems underlying them, it is clear that every transfer operation involves three basic sets of relationships:

(i) between each one of the two entities and the system within which it is situated (that is, its position within this system, or the nature and extent of its acceptability according to the system’s own norms);

(ii) between the two entities themselves, determined and measured on the basis of the invariant pertinent to the type of transfer in question and usually entitled adequacy, equivalence, correspondence, or the like;

(iii) between the respective systems, or underlying “codes.”

Owing to the logical priority of the code to the message, if not for any other reason (and there are such reason which deserve our attention), it is the relationship between the codes which should be regarded as the first distinctive criterion when one moves on to distinguish between various types of transfer. Thus, the first division to be made is between processes where a certain relationship (whatsoever) between the underlying systems is postulated as a condition and processes where no such relationship serves as a precondition.

Moreover, it appears that the interdependence between the three sets of relation between the systems is postulated; this relationship has immediate bearings on the inter-systemic and inter-textual invariant pertinent to the type in question, hence also

1 Not only discrete, elementary signs on one hand and messages on the other can have semiotic value, but also, e.g., the rules and norms according to which signs are combined into higher-order signs or into messages, the institutionalized models, etc. This implies that they can also be subject to transfer operations, hence my use of the more general label “semiotic entity.”

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II
Il tipo di processo che ho in mente implica delle operazioni di trasferimento eseguite su un’entità semiotica appartenente a un certo sistema, al fine di creare un’altra entità semiotica appartenente a un sistema differente2. In altre parole, questo tipo di processo è inter- (o piuttosto cross-) sistemico.

Ovviamente l’entità derivante da ogni operazione di trasferimento differisce dall’entità iniziale del medesimo processo, anche se solo in virtù dell’essere membro di un sistema diverso, per esempio dell’essere codificata diversamente (in codici primari e/o secondari). Comunque per fai sì che si verifichi un trasferimento, le due entità devono inoltre avere qualcosa in comune , cioè l’essere trasferite al di là del confine sistemico (semiotico). Detto altrimenti, ogni trasferimento implica un’ «invariante in trasformazione» (citazione, Brandt, 1969).

Ne consegue che l’entità derivante, la cui esistenza (reale o quanto meno potenziale) è da un punto di vista semiotico la differentia specifica di questo tipo di processo, è di duplice natura:

(a) come ogni altra entità semiotica, è parte del sistema al quale appartiene (cioè il sistema «oggetto» o «ricevente»);

(b) diversamente dalle entità semiotiche «ordinarie» (cioè primarie e non derivate), è anche una rappresentazione di un’altra entità appartenente a un sistema differente, in un qual modo e/o in una certa misura, in virtù dell’invariante che è comune a questa entità e all’entità iniziale.

Poiché ogni caso di trasferimento ha a che fare con due entità semiotiche e con i due rispettivi sistemi su cui poggiano, è chiaro che ogni operazione di trasferimento implica tre serie fondamentali di relazioni:

(i) tra ciascuna delle due entità e il sistema nel quale si trova (vale a dire, la sua posizione all’interno di un certo sistema o la natura e la misura della sua accettabilità tenendo presente le norme insite al sistema);

(ii) tra le due entità stesse, determinata e misurata in base all’invariante relativo al tipo di trasferimento in questione e solitamente denominata adeguatezza, equivalenza, corrispondenza o simili;

(iii) tra i rispettivi sistemi o i «codici» che vi stanno alla base.

A causa della priorità logica del codice rispetto al messaggio, se non per qualsiasi altra ragione (e ce ne sono molte che meritano la nostra attenzione) , quando si cerca di fare una distinzione tra diversi tipi di trasferimento bisogna considerare come primo criterio distintivo il rapporto che intercorre tra i codici. Bisogna quindi effettuare una prima divisione tra processi nei quali si presuppone come condizione una certa relazione (qualsiasi) tra i sistemi soggiacenti, e i processi nei quali nessuna relazione del genere è una precondizione.

Sembra inoltre che l’interdipendenza tra le tre serie di relazioni coinvolte nel trasferimento si riscontri nei tipi di trasferimento dove è postulata una certa relazione

2 Non sono solo i segni discreti ed elementari da un lato, e i messaggi dall’altro, ad avere valore semiotico, ma anche le regole e le norme secondo le quali i segni sono combinati in segni di più alto ordine o messaggi, modelli istituzionalizzati e così via… Questo implica che inoltre possono essere soggetti a operazioni di trasferimento, da qui il mio uso dell’etichetta più generale di «entità semiotica».

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on the relationships between the resultant and initial entities. Actually, what any prior definition of the relations between codes brings forth is the possibility of highly “economical” transfers between entities encoded in them, that is, of transferring an a priori defined, and well-defined, invariant core in a maximal way (i.e., a high rate of correspondence between the two entities), while achieving at the same time a maximal fit of the resultant entity to the recipient system, that is, a high rate of acceptability. This twofold goal, which obviously corresponds to the twofold nature of the resultant entity (cf. supra), can be achieved in such an optimal manner precisely because any a priori relationship between codes never applies to them as overall, multileveled systems, but to a certain level (or levels) only. It is self-evident that these levels serve as the variables of this pre-defined type of transfer, whereas the other levels remain unaltered and therefore gain the status of invariants.

It follows that, in any type of transfer where a certain relationship between the underlying codes is a necessary condition, there tends to be one way of carrying the operation in a “correct” way, the “correctness” being a function of the invariant, which, in turn, is derived from the pre-defined relationships between the codes pertinent to the type of process in question. In other words, in transfers of this kind, any actual resultant entity tends to be a mere realization of a potential established on the basis of the initial entity by applying to it the pre-defined relationships between the system in which it is situated and the system in which the resultant entity is going to be situated. No wonder, then, that such operations also tend to be reversible.

On the other hand, distinct, autonomous codes, especially if of the same ontological status, are devised so as to fulfill their own internal functions, with no eye to transfer, either from or to them. Therefore, whenever transfer between entities encoded in them does take place, the emphasis quite obviously shifts to the other two sets of relationships common to transfer operations, (i) and (ii).

As regards the invariant in transfer processes of this kind, it is important to note, if only in passing, that any attempt at positing a certain relationship between target and source entities is in an important sense arbitrary. Any motivation given to any such relationship will necessarily draw from “outer” disciplines and will give the relationship in question not only a predictive, but also a prescriptive status. Therefore, in any type of transfer where a certain relationship between the underlying codes is not a necessary condition, there is inherent the possibility of arriving at various resultant entities on the basis of one initial entity, each of which stands in different relations (in essence and/or in extent) both to it (i.e., shares with it a different invariant) and to its own “home” system. Thus, operations of this type tend to be irreversible; in other words, there is also inherent in them the opposite possibility of reconstructing several hypothetical initial entities on the basis of one resultant entity.

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tra i sistemi. Questa relazione ha conseguenze immediate sull’invariante intersistematica e intertestuale pertinente al tipo in questione e quindi anche sulle relazioni tra l’entità iniziale e derivante. In realtà qualsiasi definizione passata riguardo le relazioni tra codici porta avanti l’idea di trasferimento altamente «economici» tra entità codificate al loro interno, cioè del trasferimento in modo massimale (vale a dire una grande coincidenza tra le due entità) di un nucleo invariante, a priori definito e ben definito, mentre l’entità derivante si adegua nel modo maggiore possibile al sistema ricevente, cioè ha un alto grado di accettabilità. Questo duplice obiettivo, che ovviamente corrisponde alla doppia natura dell’entità derivante (vedi sopra), può essere raggiunto in modo ottimale proprio perché nessun tipo di relazione a priori tra codici vale mai per sistemi visti nella loro globalità o strutturati a più livelli, ma si applica solo a un certo livello (o certi livelli). È chiaro che tali livelli fungono da variabili per questo tipo di trasferimento predefinito, mentre gli altri livelli rimangono inalterati e quindi acquisiscono lo status di invarianti.

Ne consegue che in ogni tipo di trasferimento dove è necessario avere una relazione tra i codici di base, si tende ad avere un solo modo per far svolgere “correttamente” l’operazione, dove per “correttezza” si intende una funzione dell’invariante che a sua volta deriva dalle relazioni predefinite tra i codici pertinenti al tipo di processo in questione. Detto in altri termini, in trasferimenti di questo tipo, ogni entità derivante effettiva tende a essere una mera realizzazione di un potenziale stabilito sulle basi dell’entità iniziale alla quale sono applicate le relazioni predefinite tra il sistema in cui si trova e il sistema al quale l’entità derivante apparterrà. Non c’è da meravigliarsi poi, che tali operazioni tendano anche a essere reversibili.

Dall’altro lato, singoli codici autonomi, soprattutto se dello stesso status ontologico, sono concepiti al fine di soddisfare le proprie funzioni interne, senza pensare a trasferimenti da o verso di loro. Perciò ogni qualvolta si verifichi realmente un trasferimento tra entità codificate al loro interno, l’enfasi si sposta in modo del tutto ovvio sulle altre due serie di relazioni comuni alle operazioni di trasferimento, (i) e (ii).

Per quanto riguarda l’invariante in trasferimenti di questo tipo, è importante notare, anche se solo di sfuggita, che ogni tentativo di presupporre un certo tipo di relazione tra entità emittente e di ricevente è arbitrario per certi aspetti importanti. Ogni motivazione data a ogni relazione di questo tipo dovrà necessariamente emergere da discipline esterne e darà alla relazione in questione uno status non solo predittivo ma anche prescrittivo. Dunque, in ogni tipo di trasferimento dove non è necessario un certo tipo di relazione tra i codici di base, è insita la possibilità di pervenire a entità derivanti diverse, sulla base di un’unica entità iniziale, ognuna delle quali intrattiene relazioni diverse (per sostanza e/o per estensione) sia con l’entità iniziale (cioè ha un’invariante diversa) che con il suo sistema «emittente». Così operazioni di questo genere tendono a essere irreversibili, in altre parole, è insita in loro anche la possibilità opposta di ricostruire svariate ipotetiche entità iniziali partendo da un’entità derivante.

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III
In terms of the type of entities involved, their underlying codes (or the systems in which they are situated) and the above-mentioned sets of relationships, that sub- category of transfer which traditionally – both presystematically and according to the “traditional” theories striving at a systematic account – has come to be known as translation can be defined as follows:

(a) interlingual transfer, the two codes involved being two different natural languages, or, to be more precise, inter-textual, since the actual entities involved are two messages (texts) encoded in these two languages and in some secondary modelling system (religious, political, literary, etc.) imposed on them. Like the linguistic codes, which may be said to serve as primary modelling systems, the secondary modelling systems also differ from each other, at least on the basis of their being members of different cultural (poly)systems; but they may, in addition, differ by virtue of their positions within these systems (such as when a religious initial text is rendered as a literary text, or the like; and cf. to this Toury, in press: Section 1),

(b) irrespective if the relationships between the underlying systems. Of course, this does not imply that no such relationships may exist, and if they exist – they are never in a position to affect the formation and formulation of the target, resultant text. As a matter of fact, quite the opposite is true: the existence of certain relationships between languages and secondary modelling systems, be they genetic or evolutional in nature, constitutes a major factor of translatability, that is, of the initial, a priori interchangeability of messages belonging to different languages and/or textual traditions (cf. Even-Zohar, 1971: 41-44, 133-137 [English summary: IX, XVIII- XIX]; Toury, in press a: section 2.4). it simply means that none of the possible relationships, which are in fact great in number and highly divergent, has any bearing on the classification of a certain transfer process where they serve as source and target “home” systems for the two texts involved, hence of the resultant text of such a process, as translation;

(c) providing that some relationships between the two texts, which are asymmetric in nature (cf. section II) are retained, or established.

One of the main achievements of the theory of translation in the last decades, hence one of the main distinctions established between translation studies and contrastive linguistics, has been precisely a gradual shift of emphasis from focusing on interlingual relationships to centering upon inter-textual relationships (cf., e.g., Ivir, 1969; Koller, 1978: 77; Toury, in press a: section 2.5). Still, one of the main preoccupations of the various theories of translation at this point in the development of the discipline is with the specification of these inter-textual relations.

Obviously, given the necessary apparatus, every type of relationship can be defined and every actual relation described (and cf. my own attempt at supplying a framework for the description of the relationships between target and source: Toury, 1976 [in this collection]); but the question to be asked is whether the necessary condition for translation is the mere retainment, or establishment, of some asymmetric, unidirectional relationship, as claimed above, or should some specification too enter as part of the condition for the classification of a certain

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III
Per quanto riguarda il tipo di entità coinvolte, i codici che vi stanno alla base (o i sistemi nei quali sono presenti) e le serie di relazioni sopra citate, questa sottocategoria di trasferimento che tradizionalmente – sia nelle teorie presistematiche sia secondo le teorie “tradizionali” che mirano a una spiegazione sistematica – chiamiamo traduzione, può essere definita come segue:

(a) trasferimento interlinguistico, poiché i due codici coinvolti sono due diverse lingue naturali, o per essere più precisi, trasferimento intertestuale siccome le due entità di fatto coinvolte sono due messaggi (testi) codificati in queste due lingue e in alcuni sistemi di modellizzazione secondaria (religiosi, politici, letterari…) imposti a loro. Così come per i codici linguistici che potrebbero essere considerati i sistemi di modellizzazione primaria, anche i sistemi di modellizzazione secondaria differiscono uno dall’altro, per lo meno per il fatto di far parte di (poli)sistemi culturali diversi; ma potrebbero inoltre differire in virtù della loro posizione all’interno di tali sistemi (per es. quando la parte iniziale di un testo religioso è resa come testo letterario o simili; vedi Toury, in corso di stampa, sezione 1);

(b) a prescindere dalle relazioni tra i sistemi soggiacenti. Chiaramente ciò non significa che non possano esistere tali relazioni, e che nel caso ce ne fossero, non siano mai nella posizione di influenzare la formazione e la formulazione del testo derivante, ricevente. Di fatto, è vero il contrario: l’esistenza di alcune relazioni tra lingue e sistemi di modellizzazione secondaria, che siano di natura genetica o evolutiva, rappresenta un grande fattore di traducibilità, cioè, dell’iniziale intercambiabilità a priori di messaggi appartenenti a lingue e/o tradizioni testuali diverse (vedi Even-Zohar, 1971: 41-44, 133-137 [sintesi inglese: IX, XVIII-XIX]; Toury, in corso di stampa, sezione 2.4). Questo significa semplicemente che nessuna delle possibili relazioni, che sono di fatti numerosissime e molto divergenti tra loro, può esercitare alcun tipo di influenza sulla classificazione di un certo processo di trasferimento, dove esse fungono da sistemi emittente e ricevente per i due testi coinvolti, e perciò del testo derivante da tale processo, da traduzione;

(c) a condizione che sia mantenuta o creata una relazione tra i due testi, asimmetrici di natura (vedi sezione II).

Negli ultimi decenni, uno dei principali successi della teoria della traduzione, pertanto una delle principali distinzioni stabilite tra la traduttologia e la linguistica contrastiva, è stato proprio lo spostare gradualmente l’attenzione dalle relazioni interlinguistiche a quelle intertestuali (Ivir, 1969; Koller, 1978: 77; Toury, in corso di stampa, sezione 2.5). ma, a questo punto dello sviluppo della disciplina, uno dei principali interessi delle varie teorie sulla traduzione è la specificazione di queste relazioni intertestuali.

Ovviamente, con l’apparato necessario, si può definire ogni tipo di relazione e descrivere ogni relazione effettiva (vedi il mio tentativo nel fornire un insieme di regole per la descrizione delle relazioni tra testo emittente e ricevente: Toury, 1976 [in questa raccolta]); ma bisogna domandarsi se la condizione necessaria per la traduzione è il semplice mantenimento, o la creazione di alcune relazioni unidirezionali e asimmetriche, come dichiarato sopra, o se dovrebbero condizionare

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message as a translation in relation to another message, and hence be regarded also as “property” of the definition of this type of transfer (in the broad sense assigned to the notion of “property” by Peter Achinstein in his thorough discussion of “definition,” opening his 1968 Concepts of Science).

A major part of the evolution in translation studies in the last few years could be accounted for precisely in terms of the attempts to specify an inter-textual invariant for translation, which goes on to show that most of the existing theories have questioned neither the possibility of achieving such a specification nor its theoretical status as a necessary condition for translation. However, every such specification draws on other, “outer” disciplines (mainly semantics and pragmatics of natural languages), and is not done strictly in the framework of translation theory itself. This is why every postulated invariant sooner or later tends to cause some uneasiness, namely, when it is found out of contradict with observational facts, i.e., with messages regarded as translations even though the postulated relationship does not obtain between them and other messages in other languages, either in full, or as a dominanta, or even not at all.

Thus, it turns out that the persistent harping on the string of target-source relationships has led translation studies to stagnation, and that the time has come to take one step backwards in the hope of giving the discipline a new momentum, namely, to question the need, indeed – the possibility – of regarding any specific relationship whatever as a necessary – not to mention a sufficient – condition for translating, while still covering the entire field of phenomena in question.

IV
Any approach which does not question the need and/or the possibility of establishing some specified target-source relationship as a condition for translation actually presupposes – if only by implication – that translation can be exhaustively accounted for from the point of view of its being inter- (or cross-) lingual communication. In other words, if we take it that linguistic communication is, according to Jakobson’s formulation, “the communication of verbal messages” (1971: 698), such an approach would claim that translational communication (i.e., translation) should be defined as “the communication of verbal messages across a cultural-linguistic border.” If we compare this formulation with the issues dealt with in Section II, we are immediately struck by the equality which establishes itself between “communication” (here) and “transfer” (there). Such an equality implies – however reluctant we may be to admit it – the reduction of the overall inter-systemic communication act to its transfer aspect.

To be sure, there can be no doubt that translation does, as it were, broaden the communicational scope of verbal messages by taking them over a cultural-linguistic border. Nevertheless, such a conception of this type of communication seems to me at best partial, hence at least inaccurate, if not entirely misleading. Its main flaw lies in fact that it purports to isolate transfer, which is only part of the phase of the actual production of a translated message, from the other phases of translational communication and from their interrelationships. It is important to bear in mind that, once produced, every translation goes on to serve as an ordinary message, in a

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la classificazione di un certo messaggio sotto forma di traduzione in relazione a un altro messaggio anche alcune specificazioni, e perciò essere considerate anche «proprietà» della definizione di questo tipo di trasferimento (nel senso lato dato al concetto di «proprietà» nella trattazione esaustiva di «definizione» di Peter Achinstein che apre il suo Concepts of Science del 1968).

Negli ultimi anni grande parte dell’evoluzione degli studi sulla traduzione potrebbe essere spiegata proprio tramite una serie di tentativi volti a identificare un’ invariante intertestuale per la traduzione, il che dimostra che la maggior parte delle teorie esistenti non si sono interrogate né sulla possibilità di pervenire a una tale specificazione né sul suo status teorico come condizione necessaria per la traduzione. Comunque ogni specificazione di questo tipo attinge da altre discipline “esterne” (soprattutto dalla semantica e dalla pragmatica delle lingue naturali), e questo non avviene necessariamente nell’ambito della teoria traduttiva. Ecco perché, prima o poi, ogni invariante postulata tende a creare scompiglio, soprattutto quando si trova in contraddizione con i fatti osservabili, per esempio con dei messaggi considerati delle traduzioni anche se la relazione postulata non prevale né completamente, né in minima parte e né come dominante tra loro e altri messaggi resi in altre lingue.

Ne risulta che continuare a battere sul tasto delle relazioni testo emittente e ricevente ha fatto stagnare gli studi sulla traduzione ed è dunque giunto il momento di fare un passo indietro nell’attesa di dare alla disciplina un nuovo slancio, vale a dire, di interrogarsi sulla necessità, o piuttosto, sulla possibilità di considerare sempre ogni relazione specifica come condizione necessaria – per non dire sufficiente – per la traduzione; sempre trattando l’intero campo dei fenomeni in questione.

IV
Ogni approccio che non si interroghi riguardo la necessità e/o la possibilità di stabilire una sorta di relazione specifica tra testo emittente e ricevente come condizione per la traduzione, in realtà presuppone – anche se solo per implicazione – che la traduzione possa essere spiegata esaustivamente partendo dal fatto che essa è una comunicazione inter- (o cross-) linguistica. In altre parole, se riteniamo che la comunicazione linguistica sia, secondo la formulazione di Jakobson, «la comunicazione dei messaggi verbali» (1971:698), un approccio del genere sosterrebbe che la comunicazione traduttiva (la traduzione) va definita come «comunicazione di messaggi verbali al di là di un confine culturale-linguistico». Se confrontiamo questa formulazione con i problemi affrontati nella sezione II, siamo immediatamente colpiti dall’equazione che si crea tra «comunicazione» (qui) e «trasferimento» (là). Tale equazione – per quanto potremmo essere restii nell’ammetterlo – implica la riduzione dell’intero atto comunicativo intersistemico al suo mero aspetto di trasferimento.

A dire la verità, non ci può essere nessun dubbio riguardo al fatto che la traduzione, portando i messaggi verbali al di là di un confine culturale-linguistico, ampli, per così dire, il loro ambito comunicativo. Eppure mi sembra che una concezione tale di questo genere di comunicazione sia, nel migliore dei casi, parziale, e come minimo imprecisa, se non completamente fuorviante. La sua pecca principale

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regular intrasystemic act of communication, without, however, necessarily losing its distinct identity as a special kind of message, namely a translation (to this point, cf. Toury, 1979: Section E; in press a: section 3.2).

What is more important, however, and not yet fully appreciated, is the fact that this ultimate goal, to serve as a message in the target cultural-linguistic context, and in it alone, is by no means an indifferent factor in the production of the translated text. Rather, it may well be one of the main factors determining the formation and formulation of any translation, hence the respective target-source relationships and the invariant core as well. It no doubt affects the last stage in the production, namely the recomposition of the translated text, but there are good grounds to assume that the recipient system, which may therefore justifiably be termed “the initiating system,” has its impact also on the decomposition of the source text and on the transfer proper (including the choice of transfer procedures) (cf. two descriptive studies of literary translation proceeding from this very hypothesis: Toury, 1977; Yahalom, 1978).

The emphasis laid by most of the existing theories on translation as a well- defined (or at least definable) sub-class of the entire category of inter-textual (linguistic) transfer, sometimes to the complete exclusion of the constraints exerted by the target systems, is highly faulty precisely from the semiotic point of view.

It is a well known, and widely accepted argument that

With respect to a semiotic entity, one can understand neither the entity itself nor any given part of it nor any changes which might take place within the entity without asking the fundamental question: why does it exist? What end does it serve? What is its function? (Waugh, 1976: 17, while summing up Roman Jakobson’s views on semiotics.)

In the case of the “traditional” theories of translation, however – the ones which are essentially source-oriented (cf. Toury, in press), or, to be more precise, restricted theories of translatability (cf. Toury, in press a: section 3) – almost all problems of teleology are excluded, at least in practice. They focus, as it were, on the “origin” of translational phenomena, while refusing to recognize that these phenomena are goal- directed. They study translations in “material” terms, from the point of view of their production, but do not refer them to questions of how they function to satisfy certain needs in the recipient pole, and how these needs and functions contribute to, or even condition their mode of production, and – above all – their significance as distinct semiotic entities in themselves.

Nor is this approach unique in the history of semiotics and its various branches. Rather, it seems quite a common feature of an interim phase in the evolution of a number of semiotic, and especially linguistic sub-disciplines. Thus, for instance, it is interesting to note the astounding validity of Jakobson’s characterization of one of the first stages in the evolution of modern phonetics, the neo-grammarian period, for the case in point:

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sta nel pretendere di isolare il trasferimento, che è solo parte della fase della produzione effettiva di un messaggio tradotto, dalle altre fasi della comunicazione traduttiva e dalle loro interrelazioni. È importante tenere a mente che, una volta prodotta, ogni traduzione continua a fungere da messaggio normale in un regolare atto di comunicazione intrasistemico, senza comunque necessariamente perdere la sua identità precisa di messaggio di tipo particolare, ossia traduzione (Toury, 1979: sezione E; in corso di stampa, sezione 3.2).

Comunque la cosa più importante, e non ancora capita fino in fondo, è che quest’ultimo obiettivo di fungere da messaggio nel conteso culturale-linguistico ricevente, e unicamente in questo, non è affatto un fattore irrilevante nella produzione del testo tradotto. Piuttosto è possibilissimo che sia uno dei principali fattori che determinano la formazione e la formulazione di ogni traduzione e quindi, anche le rispettive relazioni testo emittente e ricevente e il nucleo invariante. Senza dubbio influisce sull’ultimo stadio della produzione, vale a dire sulla ricomposizione del testo tradotto, ma ci sono i giusti presupposti per ipotizzare che il sistema ricevente, che dunque potrebbe giustificatamente essere considerato «il sistema che dà inizio al processo», influisca anche sulla scomposizione del testo emittente e sul trasferimento stesso (compresa la scelta delle procedure del trasferimento) (vedi i due studi descrittivi della traduzione letteraria procedendo proprio da questa ipotesi: Toury, 1977; Yahalom, 1978).

L’enfasi attribuita dalla maggior parte delle teorie esistenti alla traduzione vista come una sottocategoria ben definita (o al limite definibile) dell’intera categoria del trasferimento intertestuale (linguistico), alle volte fino all’esclusione totale delle restrizioni esercitate dai sistemi riceventi, è fortemente lacunosa, soprattutto dal punto di vista semiotico.

È una cosa nota e largamente accettata che

per quanto riguarda l’entità semiotica non si può comprendere né l’entità in sé, né nessuna sua parte determinata, né nessun cambiamento che potrebbe verificarsi al suo interno, senza porsi l’interrogativo fondamentale: perché esiste? A quale fine? Qual’ è la sua funzione? (Waugh, 1976:17, riassunto del punto di vista sulla semiotica di Roman Jakobson).

Tuttavia, nel caso delle teorie «tradizionali» della traduzione, essenzialmente volte verso il testo emittente (Toury, in corso di stampa), o più precisamente, teorie limitate della traducibilità (Toury, in corso di stampa, sezione 3), sono esclusi, per lo meno nella pratica, quasi tutti i problemi di teleologia. Si concentrano, per così dire, sull’ «origine» dei fenomeni traduttivi ma allo stesso tempo si rifiutano di riconoscere che questi fenomeni hanno un obiettivo. Studiano la traduzione e le traduzioni in termini «materiali», dal punto di vista della loro produzione, ma non si interrogano su come funzionino al fine di soddisfare alcuni bisogni nel polo ricevente, e su come questi bisogni e funzioni contribuiscano alla loro modalità di produzione, e lo condizionino anche, e, soprattutto sulla loro importanza in quanto singole entità semiotiche.

Né questo approccio è unico nella storia della semiotica e dei suoi diversi rami, piuttosto sembra una caratteristica comune di una fase ad interim durante l’evoluzione di svariate sottodiscipline semiotiche, e soprattutto, linguistiche. Perciò,

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According to this doctrine, […] the genetic perspective was the only one considered acceptable. They chose to investigate not the object itself but the conditions of its coming into being. Instead of describing the phenomenon one was to go back to its origins (1978: 6; French original version: Jakobson, 1976: 25).

To push the analogy a little further by giving the phonetic terms used by Jakobson a metaphorical turn, translation theory as of now “concerns itself in the first place with the articulation” of translated texts, “and not with [their] acoustic aspect” – whereas it is precisely the acoustic aspect which gives “articulated” phenomena which may differ in substance including target-source relationships and translational invariant!) the functional identity of one and the same phenomenon (and cf. further in Toury, in press: section 4.2.3.).

V
Thus, it appears not only as naive, but also as misleading and infertile for translation studies to start from the assumption that translation is nothing but an attempt to reconstruct the original, or certain parts or aspects thereof, or the preservation of certain predetermined features of the original, which are (or are to be) unconditionally considered the “invariant under transformation,” in another sign- system, as it is usually defined from the source’s point of view. Focusing on the “acoustic” aspect of translation and translations, a much more suggestive formulation would be that translations are functions which map target messages, along with their position in the target’s relevant primary and secondary modelling systems (or their “valency” in them), on source messages, along with their likewise position (or “valency”; after a definition used by Kamp, 1970: 5, with reversal in the respective positions of the two messages and a few further modifications).

Turning back to our original communicational terms (cf. Section IV), the basis for semiotic, teleological translation studies seems to me to state not that translation is the communication of verbal messages across a cultural-linguistic border, but that it is communication in translated messages within a certain cultural-linguistic system, with all the relevant consequences for the decomposition of the source message, the establishment of the invariant, its transfer across the cultural-linguistic border and the recomposition of the target message.

Why, then, do we call something “a translation,” if translations have no fixed “material” identity? I believe that a paraphrase of one of the most renowned theses of Wittgenstein may serve as a good introduction for an answer to this troubling question (unlike the great philosopher, however, I would not accept the claim that “das hat [aber] dich noch nie gestört, wenn du das Wort […] angewendet hast”…[1967: section 68]):

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per esempio, è interessante notare la validità sorprendente della caratterizzazione fatta da Jakobson delle prime fasi nell’evoluzione della fonetica moderna, il periodo neo- grammatico, per il caso in questione:

Secondo questa dottrina, […] il punto di vista genetico era l’unico a essere considerato accettabile. Hanno scelto di indagare non l’oggetto in sé ma le condizioni della sua nascita. Invece di descrivere il fenomeno, bisognava risalire alle sue origini (1978: 6; versione originale francese: Jakobson, 1976: 25).

Per spingersi un po’ oltre con l’analogia, dando ai termini fonetici usati da Jakobson un senso metaforico, la teoria sulla traduzione attualmente «ha a che fare in primo luogo con l’articolazione» dei testi tradotti, «e non con il loro aspetto acustico», quando invece è proprio l’aspetto acustico a dare ai fenomeni “articolati” – che possono differire per sostanza – (comprese le relazioni testo emittente-ricevente e l’invariante traduttiva!) l’identità funzionale di uno stesso fenomeno (Toury, in corso di stampa, sezione 4.2.3).

V
Perciò sembra non sia solo ingenuo, ma anche fuorviante e sterile che gli studi traduttivi partano con il presupposto che la traduzione non sia altro che un tentativo di ricostruire il testo originale, o alcune sue parti o aspetti, o che sia la conservazione di certi elementi prestabiliti del testo originale che incondizionatamente sono (o saranno) considerati l’«invariante in trasformazione» in un altro sistema di segni, come è spesso definito dal punto di vista della cultura emittente. Concentrandosi sull’aspetto «acustico» della traduzione e delle traduzioni, una formulazione molto più suggestiva sarebbe che le traduzioni sono funzioni che creano una mappa dei testi della cultura ricevente, e della loro posizione nei sistemi di modellizzazione primaria e secondaria (o la loro “valenza” al loro interno) pertinenti al testo ricevente, basandosi su messaggi della cultura emittente e creano una mappa della loro posizione (o “valenza”; secondo una definizione usata da Kamp, 1970: 5, con un capovolgimento delle rispettive posizioni dei due messaggi e alcune altre modifiche).

Tornando ai nostri termini comunicativi originali (vedi Sezione IV), le basi per gli studi traduttologici semiotici e teleologici non mi sembrano affermare che la traduzione sia la comunicazione di messaggi verbali al di là del confine culturale- linguistico, ma che invece sia una comunicazione in messaggi tradotti all’interno di un certo sistema culturale-linguistico, con tutte le relative conseguenze per la scomposizione del messaggio originario, per individuare l’invariante, per il suo trasferimento al di là del confine culturale-linguistico e per la ricomposizione del metatesto.

Allora perché chiamiamo qualcosa «traduzione» se le traduzioni non hanno un’identità «materiale» costante? Credo che una parafrasi di una delle tesi più rinomate di Wittgenstein possa essere una buona introduzione per una risposta a questa domanda preoccupante(diversamente dal grande filosofo comunque non accetterei l’affermazione che «das hat [aber] dich noch nie gestört, wenn du das Wort […] angewendet hast»…[1967: sezione 68]):

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Nunetwa, weil es eine – direkte – Verwandtschaft mit manchem hat, was man bisher [Übersetzung] gennant hat; und dadurch, kann man sagen, erhält es eine indirekte Verwandtschaft zu anderem, was wir auch so nennen. Und wir dehnen unseren Begriff der [Übersetzung] aus, wie beim Spinnen eines Fadens, Faser an Faser drehen. Und die Stärke des Fadens liegt nicht darin, dass irgend eine Faser durch eine ganze Länge läuft, sondern darin, dass viele Fasern einander übergreifen (1967: section 67; the original deals with the notion of “number” [“Zahl”]).

Like language and games (two other examples used by Wittgenstein),

es ist diesen Erscheinungen garnicht Eines gemeinsam, weswegen wir für alle das gleiche Wort verwenden, – sondern sie sind mit einander in vielen verschiedenen Weisen verwandt. Und dieser Verwandtschaft wegen nennen wir sie alle [Übersetzung] (1967: section 65).

What I suggest, in brief, is to try and think of translation as a class of phenomena, the relations between the members of which are those of family resemblance (Wittgenstein’s “Familienähnlichkeiten”; “denn so übergreifen und kreuzen sich die verschiedenen Ähnlichkeiten, die zwischen den Gliedern einer Familie bestehen” [1967: section 67]). This will mean that no one specified relationship between target and source will be postulated as a necessary and/or sufficient condition for translation, nor even a fixed hierarchical order of different relations, unless translation studies wish to stay out of keeping with those empirical phenomena, which are regarded as translations within the framework of certain target systems. Instead, a cluster of properties, plus a set of further factor which may serve as conditions for the establishment of such a hierarchy of relevance for every single case in question, should serve to determine the “correct” classification of a phenomenon in this class, or, rather, to account for its classification. Thus, any relationship postulated by any “traditional” theorist may, and probably will, find its place among the properties forming the cluster; but the nature and extent of its relevance will be neither a priori nor absolute.

Obviously, such a discussion can hardly be said to conclude aptly by a mere declaration that the relationships between the members of the “translation” class be regarded as those of family resemblance. But, as I said earlier, I regard this paper as nothing but a programmatic position-paper. The point where it comes to an end is precisely where, in my opinion, real work should start; and future conferences and publications on both “semiotics and translation” and “the semiotics of translation” will reveal where this work would lead us.

Tel Aviv, June 1979

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Nunetwa, weil es eine – direkte – Verwandtschaft mit manchem hat, was man bisher [Übersetzung] gennant hat; und dadurch, kann man sagen, erhält es eine indirekte Verwandtschaft zu anderem, was wir auch so nennen. Und wir dehnen unseren Begriff der [Übersetzung] aus, wie beim Spinnen eines Fadens, Faser an Faser drehen. Und die Stärke des Fadens liegt nicht darin, dass irgend eine Faser durch eine ganze Länge läuft, sondern darin, dass viele Fasern einander übergreifen (1967: sezione 67; il testo originale affronta il concetto di «numero» [«Zahl»]).

Come la lingua e i giochi (due altri esempi usati da Wittgenstein),

es ist diesen Erscheinungen garnicht Eines gemeinsam, weswegen wir für alle das gleiche Wort verwenden, – sondern sie sind mit einander in vielen verschiedenen Weisen verwandt. Und dieser Verwandtschaft wegen nennen wir sie alle [Übersetzung] (1967: sezione 65).

Quello che propongo, in breve, è di provare a pensare alla traduzione come a una classe di fenomeni, le cui relazioni sono quelle di somiglianza familiare (la «Familienähnlichkeiten» di Wittgenstein; «denn so übergreifen und kreuzen sich die verschiedenen Ähnlichkeiten, die zwischen den Gliedern einer Familie bestehen» [1967: sezione 67]. Questo significa che nessuna relazione specifica tra testo ricevente ed emittente è postulata come condizione necessaria e/o sufficiente per la traduzione, e non è postulato neanche un ordine gerarchico fisso delle diverse relazioni; a meno che gli studi traduttologici non vogliano tenere conto di questi fenomeni empirici, considerati delle traduzioni all’interno di determinati sistemi riceventi. Bisognerebbe invece usare un insieme di proprietà con una classe di ulteriori fattori che fungano da condizioni per la creazione di una tale gerarchia di pertinenza per ogni singolo caso per determinare la classificazione “corretta” di un fenomeno in questa classe, o piuttosto, per giustificare la sua classificazione. Ne consegue che ogni relazione postulata da qualsiasi teorico “tradizionale” potrebbe trovare posto tra le proprietà che formano l’insieme, ma la natura e l’estensione della sua pertinenza non è né a priori né assoluta.

*
Ovviamente tale discussione non può certo dirsi conclusa con la sola dichiarazione che le relazioni tra i membri della classe «traduzione» sono considerate come quelle di somiglianza familiare. Ma come ho detto prima, questo articolo per me non è altro che un saggio di posizione programmatica. Secondo la mia opinione, il punto in cui si arriva alla fine è precisamente il punto in cui dovrebbe partire il vero lavoro; e le conferenze sia sulla «semiotica e traduzione» sia sulla «semiotica della traduzione»

sveleranno dove ci porterà questo lavoro.

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Tel Aviv, Giugno 1979

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