La traduzione e la semiotica dei giochi e delle decisioni Dinda L. GORLÉE Raffaella Giovanna ROSSI Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

La traduzione e la semiotica dei giochi e delle decisioni

Translation and the semiotics of games and decisions

Dinda L. GORLÉE

Raffaella Giovanna ROSSI

FONDAZIONE SCUOLE CIVICHE DI MILANO DIPARTIMENTO INTERPRETI E TRADUTTORI Via Alex Visconti, 18 – MILANO

Relatore Prof. Bruno OSIMO

Diploma di Interprete e Traduttore Indirizzo Traduttore

3 novembre 2000

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© Editions Rodopi B.V., Amsterdam – Atlanta, GA 1994 © Raffaella Giovanna Rossi per l’edizione italiana 2000

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PREFAZIONE

CHARLES SANDERS PEIRCE

Peirce è il fondatore di uno dei due filoni della semiotica, la pragmatica, quello secondo cui il segno è sempre relazionale. Il secondo filone della semiologia, di matrice strutturalista, è quello che fa capo al linguista svizzero Ferdinand de Saussure. Peirce ha elaborato importanti teorie sulle basi cognitive della semio- tica e ha studiato il problema del significato in termini di interpretazione. Sviluppa la sua semiotica filosofica che fonde il realismo scolastico di Locke e l’idealismo kantiano; è una teoria della conoscenza alternativa a ogni teoria in- tuizionista, ma che si discosta dalla visione di Kant della realtà, esterna, opaca ma sempre afferrabile.

L’ARGOMENTO

Come nell’albero delle decisioni di Levý (1967) ogni traduttore si trova davanti una serie di ramificazioni e ogni decisione comporta un percorso, quindi anche un risultato differente.
Il saggio di Gorlée si configura come lo studio di tale precorso e dei processi che stanno alla base della traduzione: il traduttore come il giocatore si trova di fronte a scelte cruciali che ne segneranno la strada. È proprio su questo paralle- lismo tra il ruolo del traduttore e quello del giocatore che fa perno il lavoro dell’autrice sullo sfondo delle teorie semiologiche del modello peirceiano se- condo le quali il segno è sempre relazionale e il significato non è intrinseco bensì traspositivo.

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ANALISI TRADUTTOLOGICA

Questo saggio, che si inserisce nel vasto panorama delle disquisizioni semioti- che sulla la traduzione, ha un impianto retorico argomentativo molto solido e articolato, che ho cercato di adattare alle strutture tipiche della lingua italiana, vale a dire esplicitando gli atti linguistici e utilizzando i verbi di atteggiamento proposizionale.

I costrutti con will sono stati resi in italiano con il futuro semplice oppure con il presente indicativo a seconda della “forza” che avevano in inglese.
Ho scelto di usare la terminologia specifica della psicologia per tradurre insight (p. ) per non perdere riferimenti impliciti fatti dall’autore.

Il testo è piuttosto scorrevole, lineare benché talvolta presenti sequenze pluri- membri di aggettivi che costituiscono un problema per la versione italiana per- ché vanno smembrati.
Per quel che concerne la varietà mi sono rifatta all’italiano standard di registro medio-alto giustificato non tanto dal linguaggio – in cui per esempio è stata uti- lizzata il forestierismo settoriale explication de texte invece della locuzione in- glese text analysis, la quale innalza lievemente il tono – quanto dal contesto semiotico, destinato a un pubblico di nicchia di esperti e ricercatori di semioti- ca in relazione al problema traduttivo.

Eccomi qui, seduta davanti al mio computer, alle prese con ragionamenti sugli aspetti metalinguistici di questa tesi: forse sono io che sto giocando con le sca- tole cinesi? Io, studente di traduzione scrivo un commento a una traduzione dall’inglese di una parte di un saggio sulla traduzione in cui il traduttore viene paragonato a un giocatore.

Certo, il termine gioco può sembrare riduttivo soprattutto se concordiamo con Peter Newmark (1991) nell’affermare che «la traduzione ha a che vedere con la

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realtà morale e fattuale». Il traduttore riveste un ruolo molto importante perché è contemporaneamente punto d’arrivo (lettore nella lingua di partenza) e punto di partenza (autore nella lingua d’arrivo). Il gioco è un piacevole passatempo mentre il traduttore deve sempre essere concentratissimo e affrontare seriamen- te il proprio lavoro, nonché assumere la responsabilità delle sue scelte; scelte che non sono soltanto terminologiche ma che concernono, in uno stadio prece- dente, la strategia da seguire, nel difficile tentativo di ricreare lo stesso effetto emotivo dell’originale, il desiderio di «aprire il testo come se fosse una fisar- monica, di analizzarne tutte le piegoline e poi di richiuderlo» per presentare al lettore un ottimo prodotto finito.

Questo testo presenta uno scarsissimo residuo traduttivo, infatti il vocabolario tecnico-settoriale della traduttologia si evolve di pari passo nelle due lingue ed esistono sempre i traducenti esatti; così come le incursioni di altri settori, peral- tro poco frequenti non hanno creato incovenienti.

MOTIVO DELLA SCELTA

Ho scelto questo testo per la mia tesi perché penso che non sia del tutto soddi- sfacente seguire un corso di studi come questo ignorando completamente il piano teorico; credo di essere una persona piuttosto riflessiva che vuole capire il perché delle cose e questo lavoro mi ha dato la possibilità di approfondire un aspetto di un’attività che amo e che desidero coltivare sempre.

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio il mio relatore Professor Bruno Osimo per il tempo dedicatomi e per il sostegno non solo dal punto di vista strettamente legato a questa tesi. Ringrazio i miei genitori che mi sono stati vicino in questi mesi di tensione a- cutizzata.

Un grazie particolare a chi mi ha ricordato il valore di un sorriso nei momenti di maggiore ansia.

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TRANSLATION AND THE SEMIOTICS OF GAMES AND DECISIONS

INTRODUCTORY REMARKS

In translation theory, “translation” is used to refer to both the act of transla- ting and to the translating text which is a result of this operation or, indeed, this sequence of operations. Translating has been considered traditionally as a prac- tical, goal-oriented activity aiming at producing a concrete result, the transla- tion. At the same time has there been a growing awareness that translation is not merely reducible to its end product, but that it is also, and indeed, first and foremost, search, attempt to find solutions for problems. Thanks to the progress made in the study of the heuristic element in translation, the process-oriented activity, aimed at problem-solving, has come to complement the product- oriented approach to translation.

TRANSLATION AS SIGN INTERPRETATION

In the following I will first propose that translation involves a dual inci- dence of semiosis. Hermeneutics, almost in the traditional sense, forms the first interpretative instance and precedes heuristic interpretation in translation proper. Following the intuition, based upon empirical evidence, that translating implies a semiotic process of decision-making, I will posit that translation the- ory and the formal theory of games can and may be considered to be basically the same in kind; i.e., translating is in some way similar to plying a “game with complete information”, such as a jigsaw puzzle or chess. Support for this work- ing hypothesis is the practical applicability of the conceptual tools used in game theory to the translation situation. I will not propose a formalized model for translation based on the theory of games. Instead I shall venture a tentative exploration of what may be called the game of translation.

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My first proposition is thus that in translation one can distinguish a double incidence of interpretation. The first is of a hermeneutic nature. In order to ac- quire a full understanding of both surface and in-depth meaning (or meanings) of the text, it involves a penetrating explication de texte, including its extralin- guistic references. Such a close reading of the text in the light of the sociohisto- rical and cultural context surrounding and conditioning its production makes cognition of its referential meaning or meanings possible. As the translation theoretician, George Steiner, argues in After Babel, “comprehensive reading [is] in the heart of the interpretative process” and is in itself a “manifold act of interpretation” (Steiner 1975:5,17). This first interpretative step made by the translator, the gaining of insight into the text “inner world”, is followed by, and alternative to, a second interpretative move which is outwardly focused. This creative, or reproductive, interpretation constitutes translation proper and con- sists of the actual transfer of the text from source language into target language. Steiner reaches the same conclusion when he states that the view of translation as interpretation

…will allow us to overcome the sterile triadic model which has dominated the history and theory of the subject. The perennial dis- tinction between literalism, paraphrase and free imitation, turns out to the wholly contingent. It has no precision or philosophical basis. (Steiner 1975:303)

Seen from this perspective, interpretation is inherent in any mode of transla- tion, be it intralingual, interlingual, or intersemiotic translation, i.e., Jakobsón’s three “ways of interpreting a verbal sign” (1959:233).

The dual occurrence of interpretation, with its inward and outward orienta- tions, is reminiscent of Saussure’s signifier and signified. But Saussurean se- miology excludes extraliguistic referentiality and restricts interpretation to pa- radigms

of sign. Signifier (that is, sign-vehicle or sound-image) and signified (that is, mental image or concept of meaning) merge into a twofold relation based upon

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mutual “solidarity”, or complementarity. Here, the meaning of a sign, however, is actually twice removed: once by conventional and once by individual, “arbi- trary” interpretation. The static quality of Saussure’s dyadic signification con- centrates on the former and does no justice to the creative potential of interpre- tation which happens to be the core of the argument here.

If, on the other hand, we follow Jakobsón and adopt Peirce’s theory of signs and their manifold meanings, we may expand the twosided paradigmatic structure and expediently (re-)introduce the dynamic element which is crucial in interpretation, and hence in the concept of translation put forward here. This dynamic element is embodied in the Peircean concept of interpretant, which is the third dimension in the triadic relation, sign-object-interpretant. In Peirce’s much-quoted definition.

A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something on some respect or capacity. It addresses somebody, that is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. The sign which it creates I call the interpretant of the first sign. (CP:2.228,c.1897)

The interpretant as a sing interpretative of another sign implies that interpre- tation is a generative process of signification. The idea that the meaning of a sign is always another sign generates an endless series of interpretative signs. This unlimited process of making sense heuristically is called, in semiotic par- lance, semiosis; and translation (that is, any translational process in the semi- otic sense) is semiosis because it produces interpretant signs that, according to Eco (1979:71), “beyond rules provided by codes, explain, develop, interpret a given sign”.

Returning to the definition of sign quoted above, we may now supplement it as follows: “The sign stands for something, its object”. It stands for that o- bject, not in all respects, but in reference of a sort of idea, which I have some- times called the ground of the representamen” (CP:2.228,c.1897). Once we de- fine the object in this way as that which is signified and the interpretant as that

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in which it is interpreted, the multiplicity of different possible interpretant- signs or translations for each sign is in turn determined by the relation the “first” sign has to its object. The multiplex modes of signifying are counterba- lanced by the different modes of representational abstraction.

In order to function as a sign, a sign needs to lead to an interpretation. And in order to be meaningful, a sign must invariably be embedded in some code or system, which Peirce called “ground”. Signs signify because the previous ac- quaintance their interpreter has with the rules that underlie their particular mo- de of being encoded, enables him or her in turn to produce interpretant-signs.

Without sign representation there is no possibility of sign interpretation. Interpretation, translation, or any type of semiosis, means, in effect, tracing out the ground as it is operative in actual sign use. Meaning arises from exploratory interpretation of sign in their natural habitat: the world of context in which hu- mans use verbal (and nonverbal) signs in order to meaningfully (for themsel- ves) organize the reality surrounding them, thereby mastering it. This implies a partly experiential and partly cognitive frame of reference which is Peirce’s ground.

TRANSLATION, A GAME1

This second characterization, mentioned above, of a simple jigsaw puzzle as a heuristic game, may with good reason seem fanciful at first. It is, however, worth pursuing this view here, because it points towards a more complex game, the language game of translation. My proposition here is that translation may be consid-

ered as a game, comparable to the jigsaw puzzle as characterized above2. In the “game” of translation, however, the main element is Thirdness, not Fir- stness. Not only is translation governed by strict rules, but at the same time it challenges ingenuity while also involving logical processes. The game of tran- slation is, it would seem, a more intellectual version of the jigsaw puzzle and represents a superior form of mental gymnastics. The translation problem is further represented in a less tangible and portable form than the jigsaw puzzle,

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and so represents a higher level of abstraction as it is found in the Peircean symbol, or sign of Thirdness.

All verbal language is mainly symbolic in the sense of Peirce’s doctrine of signs. “A symbol” wrote Peirce ” is a sign which refers to the object that it de- notes by virtue of law, usually an association of general ideas” (CP:2.249,1903). Whereas the icon, or sign of Firstness, bears a physical and static resemblance to the object it evokes, the association between a symbol and its object rests upon an agreement, a consensus. There exists thus an incre- ased, dynamic distance between the symbolic sign and its object. Accordingly, the symbol only becomes meaningful in a practical way because the sign user (or better, the community of sign users) makes logical decisions about its scope and usage.

Iconic and symbolic signs both exclude any chance similarity between the sign-vehicle and the object of reference, and rely on some general, conventio- nally established connection, which consists in their ground. But symbols differ from icons insofar as the ground of the former stresses differences while that of the latter stresses similarities. What icons and symbols have in common is the idea of replica. This idea is salient to both the jigsaw puzzle and translation: in order to become meaningfully recognized, the symbolic, as the leading element in language-based translation, must even imply the iconic, the idea of replica. This replica need not be conventional, just as convention need not be standard but may, in a Peircean spirit, be or, at least, originate from an individual choi- ce, So, while the referentiality of the jigsaw puzzle limits itself to the single- ness of replication, language games, based as they are on linguistic signs, are primarily symbolic activi-

ties in the original meaning of the word symbol “Etymologically”, wrote Peir- ce, “it should mean a thing thrown together… But the Greeks used ‘throw toge- ther’ (symballein) very frequently to signify the making of a contract or convention” (CP:2.297,c.1895) 3.

Whereas the jigsaw puzzle exhibits, so to speak, its meaning, language games are not univocal in the same sense, they do not say what they mean, but possess an inherent polysemy which needs to be deciphered and interpreted.

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The basic symbolicity of language grants the signs used in language a great mobility. This dynamic quality is what distinguishes the game of translation from the jigsaw game. To be sure, the pictorial text conveying all purported in- formation immediately and simultaneously, appears transformed into a textual “image” consisting of sequentially-ordered linguistic signs which the player is required to translate into a different linguistic mode or code, without violating the rules of the game.

In its pure and traditional form the game of translation is a one-person deci- sion game based on rule-regulated, reasonable choices between alternative so- lutions. There is commonly one solitary player, the translator, who is engaged in this struggle against Nature, his or her impersonal opponent facing him or her in the text to be translated, embodied in its complex of puzzles. The player knows that each action invariably leads to a specific outcome, while the order and nature of the series of actions build and depend in the previous choices the player himself or herself has made. The game is productive of an intricate interrelation pattern, the generation of which can be symbolized by the game tree proposed by Luce and Raiffa in their (1967) Games and Decisions: Intro- duction and Critical Survey and applied to the translation situation by Levý4.

My argument here corresponds essentially to the theoretical perspective in Levý’s (1967) article, “Translation as a decision process”, in that translation is considered from the viewpoint of both game theory and semiotics. In his arti- cle, however, Levý concentrates on the problems found in the translation of li- terary texts; and within translation as a total semiotic process, he focuses on the pragmatic di-

mension (following Morris’s division of the field of semiotics into syntactics, semantics, and pragmatics) as he pays particular attention to assessment by re- aders, that is interpreters “in the second degree” (as Peirce might have been tempted to call them). In the framework of translation as a decision process, Levý used graphs called “decision trees”. Levy’s trees show how an omniscient translator has to deal with decisions, nodes, and branches that typically arise in the course of the translation process. The method of choice is to select that branch leading to the most desired result. Once one branch is chosen from a set

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of variants, all other branches are thereby eliminated and other solutions blo- cked for the rest of the game. Thus when a game situation, such as translating, is entered at one end of the decision tree, current values of variants determine a path to an appropriate action. This would mean that translating is not unlike “finding a way through a maze… the first time – not, as in studies of animal le- arning, to learn to run the maze without error” (Taylor 1968:509).

In contradistinction to the jigsaw puzzle, which aims at finding the one pre- specified solution, the game of translation is a game of seeking and finding “a” solution that is as relevant as possible to the purpose of the game: maximizing the player’s expected payoff. In translation, this aim can hardly be specified in terms of straightforward gain or loss, because in this solitary game there are no real points to score. Instead comes the gratification provided by the game itself and by its concrete result, measured in terms of success vs. failure. The transla- tor gains the desired (by him or her) outcome if by his or her choices he or she produces an equivalent 7, well formed translation; and in order to reach this go- al he or she tends to avoid time- and energy-consuming trial and error beha- vior, and to adopt an implicit or explicit strategy that will help him or her to sort out the consecutive problems. As this rational strategy is, more often than not, the minimax principle discussed above, translators, according to Levy,

…are content to find for their sentence a form which, more or less, expresses all the necessary meanings and stylistic values, though it is probable that, after hours of experimenting and rewriting, a better solution might be found… Translators, as a rule, adopt a pessimistic strat- egy, they are anxious to accept those solutions only whose “value” –even in case of the most unfavourable reactions of their readers– does not fall under a certain minimum limit admissible by their linguistic or aesthe- tic standards. (Levý 1967:1180)

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Surely the translator often has no other choice than to be satisfied with his or her own minimax performance (for instance, because exhaustive analysis of the alternatives is impossible, or because he or she has to adapt, as economi- cally as possible, his or her own standards to the constraints of the particular game). But such a policy reduces the translator’s choices to his or her own stra- tegic options which, at best, are lucky guesses about his or her own capacities.

Systematization of translational performance as rule-bound step-by-step behavior is, however, only a one-sided view of the language game of transla- tion, one which is based on a view of the linguistic code as a collective entity dealing with combinational rules. In reality, however, this code goes far be- yond such categories as “grammar” and other rule-bound linguistic feature, however comprehensive they may be. In the game of translation, solutions for problems must often be other than grammar-generated and may be the result of non- systematic search in a certain direction. Rule-consistency in decision- making needs to coexist with free discovery if the game of translation is to yield optimal results. Goal-directed heuristics is essential in translation because only this thinking method may produce chance discoveries and intuitive inspi- rations beyond the constraints of grammatical rules. In a heuristic program — based upon Peirce’s abduction8 — humans obtain plausible if not perfect solu- tions without examining all of a (possibly enormous)

mass of relevant information. In this way a problem, translational or otherwi- se, may be solved not by conducting an exhaustive search for a solution but by making use of certain rules of thumb and the various approximations and shor- tcuts that characterize human judgments. It is precisely this aspect of transla- tion which is largely ignored in the game-theoretical consideration of transla- tion, with its emphasis on rational decision-making.

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LA TRADUZIONE E LA SEMIOTICA DEI GIOCHI E DELLE DECISIONI

NOTE INTRODUTTIVE

In teoria della traduzione il termine «traduzione» è usato per indicare sia l’atto del tradurre sia il testo tradotto, frutto di questa operazione o, meglio, di questa sequenza di operazioni. Tradurre è stata considerata tradizionalmente un’attività pratica orientata all’obiettivo, il cui scopo è quello di fornire un risul- tato concreto: la traduzione. Allo stesso tempo c’è una coscienza sempre mag- giore del fatto che tradurre non può venire ridotto al solo prodotto finale, ma che, anzi, è prima di tutto una ricerca, una serie di tentativi per trovare solu- zioni ai problemi. Grazie ai progressi raggiunti nello studio della componente euristica nella traduzione, l’attività che si concentra sul processo, il cui scopo è risolvere i problemi, è andata a completare l’approccio che si focalizza sul pro- dotto della traduzione.

LA TRADUZIONE COME INTERPRETAZIONE DEL SEGNO

Sosterrò anzitutto che la traduzione implica una doppia incidenza della semiosi. L’ermeneutica, almeno nell’accezione tradizionale, rappresenta la pri- ma istanza interpretativa e precede l’interpretazione euristica della traduzione propriamente detta. Seguendo l’intuizione, basata su dati empirici, che la tradu- zione implica un processo semiotico decisionale, postulo che la teoria della tra- duzione e la teoria formale dei giochi possono essere considerati essenzialmen- te dello stesso tipo; ovverosia che la traduzione è, in un certo senso, simile al «gioco a informazione completa» così come lo sono i puzzle o gli scacchi. Ciò che conforta questa ipotesi di lavoro è l’applicabilità pratica degli strumenti concettuali della teoria dei giochi al contesto traduttivo. Non proporrò un mo- dello formale per la traduzione basato sulla teoria dei giochi. Piuttosto vorrei azzardare un’esplorazione per scoprire quello che si potrebbe definire il gioco della traduzione.

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Quindi il primo punto che affronterò è che nella traduzione si può distin- guere una doppia incidenza dell’interpretazione. La prima è di natura ermeneu- tica. Per capire appieno sia il significato (o i significati) superficiale del testo sia quello profondo è necessaria un’explication de texte esauriente che com- prenda anche i riferimenti extralinguistici. Una lettura del testo così attenta, che tiene conto del contesto socio-storico e culturale in cui è inserito e che condi- ziona la sua produzione, fa trasparire il significato, o i significati, possibili. Come George Steiner, teorico della traduzione, sostiene in After Babel [Dopo Babele], «la lettura contestuale è il cuore del processo interpretativo» ed è in sé «un atto molteplice di interpretazione» (Steiner 1975 p.7,20).

Questo primo passo interpretativo compiuto dal traduttore, l’indagine del «mondo interiore» del testo, è seguita da – o alternativa a – una seconda mossa interpretativa che si focalizza sull’esterno. Quest’interpretazione creativa, o ri- produttiva, costituisce la traduzione propriamente detta e consiste nel trasferi- mento vero e proprio del testo dalla lingua di partenza alla lingua d’arrivo. Stei- ner perviene alla stessa conclusione quando enuncia la sua visione della tradu- zione come interpretazione

(…) ci consentirà di superare lo sterile modello triadico che ha do- minato la storia e la teoria della materia. L’eterna distinzione fra la resa verbatim, la parafrasi e l’imitazione libera si dimostra total- mente contingente. Non è precisa e manca di base filosofica (Stei- ner 1975 p. 346)

Considerata in questa prospettiva, l’interpretazione concerne qualsiasi ap- proccio traduttivo, si tratti di traduzione intralinguistica, interlinguistica o in- tersemiotica, cioè i tre «modi per interpretare il segno verbale» di Jakobsón (1959 p. 267).

La doppia occorrenza dell’interpretazione, con il suo orientamento sia ver- so l’interno che verso l’esterno, ricorda il significato e il significante di de Saus- sure. Ma la semiologia saussuriana esclude la referenzialità extralinguistica e

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limita l’interpretazione al paradigma dei segni. Il significante (vale a dire se- gno-veicolo o suono-immagine) e il significato (vale a dire l’immagine mentale o il concetto del significato) si fondono in una relazione binaria basata sulla mutua «solidarietà» o complementarità. Qui il significato di un segno è forte- mente vincolato dalla convenzione. Tuttavia è rimosso due volte: una dall’in- terpretazione convenzionale e una da quella individuale, “arbitraria”. La carat- teristica statica della struttura diadica di de Saussure si concentra sul primo tipo di interpretazione e non rende giustizia al potenziale creativo dell’interpretazio- ne che qui costituisce la parte centrale dell’argomentazione.

Se, d’altra parte, si segue Jakobsón e si adotta la teoria dei segni e dei si- gnificati molteplici elaborata da Peirce, si potrebbe espandere la struttura para- digmatica binaria e opportunamente (re)introdurre l’elemento dinamico fonda- mentale nell’interpretazione e quindi il concetto di traduzione qui esposto. Que- sto elemento dinamico è rappresentato dal concetto peirceiano di interpretante, il terzo termine della relazione triadica segno-oggetto-interpretante. Nella cita- tissima frase di Peirce

Un segno, o representamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità. Si rivolge a qualcuno, cioè, crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Chiamo il segno che crea interpre- tante del primo segno (C.P. p. 2.228, c.1897)

L’interpretante come segno interpretativo di un altro segno implica che l’in- terpretazione un processo generativo di significazione. L’idea che il significato di un segno sempre un altro segno genera una serie infinita di segni interpreta- tivi. Questo processo illimitato di associazione euristica è chiamato, in semioti- ca, semiosi; e la traduzione (cioè qualsiasi processo traduttivo in senso semioti- co) è semiosi perché produce segni interpretativi che, secondo Eco (1979 p.71). «al di là delle regole stabilite da codici, spiega, sviluppa e interpreta il segno dato».

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Ritornando alla definizione di segno sopracitata, può essere ampliata di- cendo «il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quell’oggetto, non in ogni aspetto ma in riferimento di un tipo di idea che ho chiamato a volte base (ground) del representamen» (CP p.2.228, c.1897). Una volta definito l’oggetto in questi termini ovverosia come ciò che è significato e l’interpretante come ciò in cui è interpretato, la molteplicità di diversi interpretanti-segni possibili o tra- duzioni per ciascun segno è a sua volta determinata dalla relazione che il “pri- mo” segno ha con il suo oggetto. Le molteplici modalità di significato sono controbilanciate dalle diverse modalità di astrazione rappresentativa. Per fun- zionare come segno, il segno deve condurre a un’interpretazione. E per avere senso, deve assolutamente inserirsi in un codice o sistema, che Peirce chiama «ground». I segni significano per via della previa conoscenza da parte dell’in- terprete delle regole che sottendono il modo particolare con cui i segni vengono codificati, che a sua volta permette all’interprete di produrre segni interpretanti.

Senza la rappresentazione del segno non è possibile la sua interpretazione. L’interpretazione, la traduzione o qualsiasi altro tipo di semiosi significano, in- fatti, delineare come ground operi nell’uso pratico del segno. Il significato na- sce dall’interpretazione esplorativa dei segni nel loro ambiente naturale: il mondo del contesto in cui gli esseri umani usano segni verbali (e non) per or- ganizzare significativamente (per loro) la realtà che li circonda e, attraverso ciò, padroneggiarla. Questo implica una cornice di riferimento, ovverosia il ground di Peirce, composta sia di una parte esperita sia di una cognitiva.

LA TRADUZIONE, UN GIOCO1

La definizione di semplice puzzle come gioco euristico potrebbe, di primo acchito, giustamente sembrare bizzarra. Tuttavia vale la pena di adottare questo punto di vista perché spiana la strada a un gioco più complesso: il gioco lingui- stico della traduzione. Sosterrò qui che la traduzione può essere considerata un

gioco, paragonabile al puzzle sopra citato2. Eppure nel “gioco” della traduzio- ne l’elemento principale è la Terzità e non la Primità. La traduzione non è sol-

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tanto governata da regole ferree, ma sfida anche l’ingegno e, al contempo, coinvolge processi logici. Il gioco della traduzione sarebbe quindi una versione più intellettuale del puzzle e rappresenterebbe una forma superiore di ginnasti- ca mentale. Il problema della traduzione è presentato in una forma assai meno tangibile e trasportabile del puzzle e comporta quindi un livello superiore di a- strazione così come nel simbolo peirciano, o segno della Terzità.

L’intero linguaggio verbale è prevalentemente simbolico, inteso nel senso della dottrina dei segni di Peirce. «Un simbolo è un segno che si riferisce al- l’oggetto che denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee ge- nerali» (C.P. p.2.249,1903). Laddove l’icona, o segno della Primità, possiede una somiglianza fisica e statica con l’oggetto che evoca, l’associazione tra sim- bolo e il suo oggetto si fonda su un accordo, un consenso. Tra il segno simboli- co e il suo oggetto vi è quindi una distanza dinamica maggiore. Conseguente- mente il simbolo acquista un significato pratico soltanto poiché chi usa il segno (o meglio la comunità di coloro i quali usano il segno) prende decisioni logiche sulla sua estensione e sul suo impiego.

Sia i segni simbolici sia quelli iconici escludono ogni possibilità di somi- glianza tra il segno-veicolo e l’oggetto di riferimento e si fondano su una con- nessione generale, convenzionale e prestabilita che è il loro ground. Ma i sim- boli differiscono dalle icone proprio perché il ground dei primi mette in risalto la differenza mentre quello delle seconde mette in risalto la somiglianza. Ciò che i simboli e le icone hanno in comune è l’idea di replica. Questo concetto è fondamentale sia nel puzzle sia nella traduzione: affinché il significato venga riconosciuto, il simbolico, l’elemento guida nella traduzione basata sul linguag- gio, deve implicare anche l’iconico, l’idea di replica. Non è necessario che que- sta replica sia convenzionale, così come la convenzione non deve essere ne- cessariamente standard ma, in linea con Peirce, può essere contraddistinta o almeno scaturire da una scelta individuale. Così, mentre la referenzialità del puzzle si limita a una replica singola, i giochi linguistici, in quanto basati su segni linguistici, sono essenzialmente attività simboliche, nel senso originario

della parola «simbolo»: «Etimologicamente dovrebbe significare una cosa gettata insieme … Ma, molto spesso, i Greci utilizzavano gettare insieme

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(symballein) intendendo la stipulazione di un contratto o il raggiungimento di una convenzione» (C.P. p.2.297, c.1895)3.

Mentre il puzzle mostra, per così dire, il suo significato, i giochi con la lin- gua non sono altrettanto univoci, non esprimono il loro significato in modo chiaro ma hanno una polisemia insita che deve essere decifrata e interpretata. La simbolicità essenziale del linguaggio garantisce ai segni usati nella lingua una grande mobilità. Questa caratteristica dinamica è quella che permette di di- stinguere il gioco della traduzione da quello del puzzle. Ovviamente, il testo visivo che comunica tutte le informazioni immediatamente e simultaneamente appare trasformato in un’immagine testuale composta da segni linguistici di- sposti in sequenza che il giocatore deve tradurre in un altro codice o modo lin- guistico, senza trasgredire le regole del gioco.

Nella sua forma pura e tradizionale il gioco della traduzione è un gioco di decisioni fatto da una sola persona sulla base di scelte ragionate fondate su re- gole, tra soluzioni alternative. Di solito c’è un unico giocatore, il traduttore, che è impegnato in questa lotta contro la Natura, la sua antagonista impersonale che lo fronteggia nel testo da tradurre, rappresentata nel suo insieme di puzzle. Il giocatore sa che ogni azione porta inevitabilmente a un risultato specifico, mentre l’ordine e la natura della serie di azioni dipendono dalle scelte che sono state prese in precedenza dal giocatore e si basano su di esse. Il gioco dà vita a un intricato schema di interrelazioni, la cui creazione può essere simboleggiata dall’albero del gioco proposto da Luce e Raiffa nel loro Games and Decisions: Introduction and Critical Survey [Giochi e Decisioni: Introduzione e Indagine Critica] (1967) e applicato alla situazione traduttiva a Levý.

La mia argomentazione qui corrisponde in sostanza alla prospettiva teore- tica dell’articolo di Levý Translation as a Decision Process [La traduzione co- me processo decisionale] (1967) nel quale la traduzione è considerata sia dal punto di vista della teoria dei giochi sia da quello semiotico. In questo articolo, tuttavia, Levý si concentra sul problema della traduzione letteraria; e nell’ambito della traduzione quale processo interamente semiotico, ne eviden-

zia la dimensione pragmatica (in linea con la suddivisione di Morris della se- miotica in sintattica, semantica e pragmatica) prestando particolare attenzione

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al giudizio dei lettori, cioè degli interpreti «di secondo grado» (come Peirce sa- rebbe stato tentato di chiamarli). Nel quadro della traduzione come processo decisionale, Levý utilizza grafici chiamati «alberi decisionali». Questi mostra- no come un traduttore onnisciente debba affrontare le decisioni, i nodi e le ra- mificazioni che sorgono durante il processo traduttivo. Il metodo consiste nello scegliere il ramo che conduce al risultato più desiderabile. Una volta scelto un ramo tra una serie di varianti, tutti gli altri vengono automaticamente eliminati e le altre soluzioni per il resto del gioco sono bloccate. Perciò quando si è en- trati in una situazione di gioco cosìcome la traduzione, da un ramo dell’albero decisionale si attivano delle varianti che determinano il percorso verso l’azione appropriata. Ciò significa che tradurre non è diverso da «trovare la strada in un labirinto, […] la prima volta e non, come negli studi sull’apprendimento anima- le, imparare a percorrere il labirinto senza errori» (Taylor 1968 p.509).

A differenza del puzzle, il cui scopo è quello di trovare la soluzione stabili- ta a priori, il gioco della traduzione è un gioco in cui si cerca e si trova “una” soluzione più pertinente possibile con lo scopo del gioco: massimizzare le a- spettative del giocatore in termini di soddisfazione. Nella traduzione è molto difficile che questo scopo venga specificato in termini netti di perdita o di vin- cita, perché in questo gioco solitario non c’è un vero e proprio punteggio. C’è invece la gratificazione del gioco in sé e del suo risultato concreto, misurato in termini di successo o insuccesso. Il traduttore ottiene le conseguenze desiderate se, con le scelte cha ha compiuto, produce una traduzione “equivalente” e for- malmente gradevole; e, per conseguire questo obiettivo, deve evitare di ricorre- re ai tentativi per prova ed errore – sia per quanto riguarda il tempo, sia per quanto riguarda l’energia che viene impiegata – e di adottare una strategia, im- plicita o esplicita, che lo aiuti a risolvere i vari problemi. Poiché questa strate- gia razionale è molto spesso il principio minimax discusso sopra, i traduttori, secondo Levý,

[…] sono contenti di trovare per le loro frasi una forma che, più o meno, esprima tutti i significati necessari e riproduca le scelte stilistiche, tuttavia, dopo ore di sperimentazione e riscrittura, si po-

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trebbe trovare una soluzione migliore […] I traduttori di regola a- dottano una strategia pessimistica, ansiosi di accettare solamente quelle soluzioni il cui “valore” – persino nei casi delle reazioni più sfavorevoli dei loro lettori – non vada sotto un certo limite minimo ammissibile dai loro criteri linguistici ed estetici. (Levý 1967 p. 79)

Sicuramente il traduttore spesso non ha altra scelta che essere soddisfatto della sua prestazione minimax (per esempio perché è impossibile l’analisi esau- stiva delle alternative o perché deve adattare, con la maggiore economia possi- bile, i suoi criteri ai limiti imposti da quel gioco specifico). Ma se si segue una linea simile le scelte del traduttore si riducono alle sue opzioni strategiche che, nella migliore delle ipotesi, sono congetture fortunate sulle proprie capacità.

La sistematizzazione della performance traduttiva che si configura come un procedere a tappe delimitato da regole dà conto soltanto di un aspetto par- ziale del gioco linguistico della traduzione, il quale invece si basa su una con- siderazione del codice linguistico come entità collettiva governata da regole combinatorie. Ma, a ben guardare, questo codice va ben al di là di categorie come la «grammatica» e altre unità linguistiche delimitate da regole, per quan- to estese possano essere. Spesso, nel gioco della traduzione le soluzioni ai pro- blemi devono necessariamente essere altre da quelle generate dalla grammatica e possono essere il risultato di una ricerca non sistematica. Se il gioco della traduzione deve produrre risultati ottimali, il ricorso a regole coerenti nel prendere decisioni deve coesistere con la libera scoperta. L’euristica finalizzata all’obiettivo è di capitale importanza nella traduzione perché solo quest’attitudine mentale può dar luogo a scoperte casuali e ispirazioni intuitive al di là dei limiti delle regole grammaticali. In un programma euristico – basato sull’abduzione di Peirce – si ottengono soluzioni plausibili, se non perfette, sen- za esaminare tutta la massa (eventualmente enorme) di informazioni pertinenti.

In questo modo un problema, traduttivo o di altra natura, può essere risolto non attraverso una ricerca esauriente della soluzione ma facendo uso di alcune re-

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gole a orecchio e delle varie approssimazioni e scorciatoie che caratterizzano i giudizi umani. È proprio questo aspetto della traduzione che viene perlopiù i- gnorato quando si considera la traduzione nell’ambito della teoria dei giochi, che attribuisce tanta importanza alla razionalità delle decisioni.

NOTE

1 È importante sottolineare il fatto che questo paragone non è dovu- to ad alcuna necessità “oggettiva” né ad alcuna verità eterna sulla tra- duzione o sui giochi. Come ci ricorda Toury, «Ogni paragone è per sua natura parziale e indiretto: è sviluppato considerando soltanto certi aspetti condivisi esclusivamente dagli oggetti paragonati, aspetti che non costituiscono che una parte delle loro proprietà totali, ed è fatto con l’aiuto di “concetti intermedi” correlati a questi aspetti e che ser- vono come una base fissa e invariabile del paragone. Questa invariabi- le, e con essa l’intero paragone, dipendono dalla teoria» (Toury 1978 p.93). Dovrebbe essere chiaro che la prospettiva teoretica normale scelta qui è semiotica, basata sulla filosofia del segno. L’analogia tra il concetto di gioco e quello di traduzione non dovrebbe quindi essere spinta fino a ricoprire entrambi, ignorando il carattere che contraddi- stingue le due entità. Sarebbe un errore di ragionamento pretendere, senza ulteriori garanzie, che se condividono alcuni caratteri (come la scelta, le regole, la strategia, e il processo decisionale) ne devono an- che condividere altri, ma ciò non si verifica. Oltre a realizzare i loro caratteri comuni in modi diversi, è anche ovvio che differiscono nella portata teoretica generale così come nell’uso pratico e nella funzionali- tà. Conseguentemente, la tendenza qui ad assimilare la traduzione (u- sata in senso stretto) al (più ampio) concetto di gioco e a riferirsi ai “concetti intermedi” reciproci nasce solo dalla strategia di fornire una fonte di insight creativo, una strategia orientata verso l’incoraggiamen- to a compiere alcuni collegamenti che altrimenti sarebbero impensabi-

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li. Si vedano anche i relativi problemi epistemiologici sollevati in Ja- ckson 1992, in cui viene riscontrata un’analogia tra il concetto di gioco e quello di legge.

2 Le riserve e le note precauzionali della nota 1 sono da applicare, a fortiori, all’analogia tra un gioco particolare, il puzzle, e il “gioco” del- la traduzione (che è, come ribadito nella nota 1, trattato come un gioco per sostenere l’argomentazione qui presentata).

3 Una trattazione più ampia del contratto verrà fatta nel Capitolo 10.

4 Si veda anche Levý 1970. L’attualità della traduzione come metodo per risolvere i problemi e prendere le decisioni è discusso in Wilss (si vedano specialmente i Capitoli 4 e 5).

5 Per una discussione dell’equivalenza nella traduzione si vedano i Capitoli 7 e 9.

6 Per una discussione dell’adduzione perciana si veda il Capitolo 3, in modo particolare la sezione su “Il ragionamento e la logica”.

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1 It is important to underscore that this comparison is not determined by any “objective” necessity, or by any eternal truth about translation or about games. As Toury reminds us: “Every comparison is by nature both partial and indirect: it is carried out regarding certain aspects only common to the objects com- pared, aspects constituting but a part of their total properties, and it is done with the aid of some ‘intermediary concept’ related to these aspects and serving as a fixed, invariant basis for the comparison. This invariant, and with it the comparison as a whole, are theory-dependent” (Toury 1978:93). It should be clear that the common theoretical perspective chosen here is semiotic, sign- philosophical. The analogy between the game concept and translation should, therefore, not be pressed as far as to slide from one to the other, thereby ignor- ing the characters that distinguish both entities. It would be an error of reason- ing to claim, without further warrant, that if they share some characters (such as choice, rules, strategy, and decision-making) they must also share others; they don’t. In addiction to realizing their common characters in different ways, it is also obvious that they differ in general-theoretical scope as well as practi- cal usage and functionality. Accordingly, the tendency here to assimilate trans- lation (here used in the narrow sense) to the (broader) game concept and to re- fer to mutual “intermediary concepts” comes only from the strategy to provide a source of creative insight, a strategy geared towards the goal of encouraging to make some connections one might otherwise not conceive of making. See also the relevant epistemological issue raised in Jackson 1992, in which an analogy is drawn between the concepts of game and law.

2 The cautionary remarks and reservations made in note 1 apply, a fortiori, to

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the analogy between one particular game, and the “game” of translation, (which is, as pointed out in note 1, discussed as a game for the sake of the ar- gument here).

3 More on contract in Chapter 10.

4 See also Levý 1970. The state-of-the-art of translation as problem-solving and decision-making is discussed in Wilss 1988 (see especially Chapters 4 and 5).

5 For a discussion of equivalence in translation, see Chapters 7 and 9.

6 For a discussion of Peirce’s abduction, see Chapter 3, particularly the section on “Reasoning and logic”.

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