L’inserimento dei bambini stranieri come problema di traducibilità culturale: il caso di Y.

L’inserimento dei bambini stranieri come problema di traducibilità culturale:

il caso di Y.

ELISA LAZZARON

 

 

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

        Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione Linguistica

                             Ottobre 2010


 

© Elisa Lazzaron per l’edizione italiana 2010

 

Abstract in italiano

 

Attraverso l’analisi di Agar, lingua e cultura sono un’unica realtà. La cultura emittente comporta numerosi ostacoli alla comprensione in quanto possono emergere elementi apparentemente impossibili da tradurre, i rich point. Il traduttore compie un’opera di mediazione linguistica e culturale per contestualizzare il messaggio e trovare una soluzione, accessibile a una cultura che non gli è propria. Sulla base di un’esperienza di stage come facilitatrice linguistica la candidata ha analizzato come l’inserimento scolastico di un bambino straniero possa risultare un problema di traducibilità culturale e un esempio più che valido di applicazione pratica della teoria di Agar sui rich point e la linguacultura.

 

English abstract

Through Agar’s analysis, the concepts of «language» and «culture» are one. The source culture involves a certain amount of obstacles to comprehension because we can find elements that seem impossible to translate, called «rich point». The translator has to carry out a work of linguistic and cultural mediation to contextualize the message and find a possible solution that is accessible to another culture. On the basis of an experience as « language facilitator» I have analysed how the school integration of a foreign student can turn out to be a problem of cultural translatability and an effective and practical example of Agar’s theory on «rich point» and «languaculture».

 

 

Résumé en français

Selon l’analyse de Agar, langue et culture sont une seule réalité. La culture émettrice peut comporter des nombreaux obstacles à la compréhension dus à la presence d’éléments apparemment impossible à traduire, appelés «rich point». Le traducteur doit donc intervenir en offrant une médiation linguistique et culturelle pour contextualiser le message et proposer une possible solution, accessible à une culture différente. Mettant à profit l’expérience acquise au cours d’un stage de “facilitateur linguistique” on a analysé comment l’intégration des étudiants étrangers peut etre considérée comme un problème de traduisibilité culturelle et un exemple valable de la théorie de Agar sur la «langue-culture» et les «rich point».

 

 

Sommario

 

1. La condizione dei minori stranieri nell’inserimento scolastico  5

1.1. Quadro introduttivo dell’integrazione scolastica  6

1.2. Diverse situazioni sociali e migratorie  9

Il caso di Y. 13

1.3. Aspetti psicologici del minore e possibili soluzioni adottate nel processo di integrazione culturale  15

Il caso di Y. 16

2. L’integrazione come problema di traducibilità culturale  21

2.1 L’interculturalità e il processo traduttivo  22

2.2 I residui comunicativi 23

2.3 Il concetto di «linguacultura»   25

2.4 I I «rich point» e la strategia traduttiva  26

2.5 Il delicato compito del traduttore  28

3. Un nuovo concetto di cultura  30

3.1 Il vecchio concetto di cultura  31

3.2 La cultura è relazionale  32

3.3 La cultura è parziale e plurale  34

4. Il caso di Y. e i rich point  36

4.1 La «cugina-sorella»   38

4.2 La «chiesa»   41

5. La traduzione come mediazione culturale  43

5.1 Il facilitatore linguistico  44

5.2 Il facilitatore linguistico e il mediatore linguistico  47

Riferimenti bibliografici 49

 

 

 

 

 

 

  1. La condizione dei minori stranieri nell’inserimento scolastico


1.1.       Quadro introduttivo dell’integrazione scolastica

L’immigrazione non è un fenomeno nuovo in Italia e negli ultimi trent’anni ha assunto un’importanza rilevante nel nostro paese così come nell’intera Europa. Per questa ragione, non può più essere considerato solo un evento transitorio; si tratta di una realtà che riguarda il nuovo assetto del mondo, un fenomeno destinato a espandersi a causa del divario fra paesi ricchi e paesi poveri e dei molteplici conflitti in atto sui diversi territori.

La presenza costante e sempre più massiccia di immigrati, ha avuto un effetto determinante sulla crescita demografica italiana, nonché il cospicuo aumento dei ricongiungimenti familiari che determinano quello che si può definire un “radicamento” dell’immigrazione. In altre parole, si passa da un’immigrazione a tempo e a scopo determinato (vale a dire per motivi lavorativi), ad un’immigrazione che mira all’”insediamento” in Italia delle famiglie straniere. Questo comporta un considerevole aumento di bambini stranieri nelle scuole italiane e impone al sistema scolastico italiano una maggiore apertura alle esigenze di una scuola sempre più multiculturale e un miglioramento delle strutture e dei percorsi di accoglienza.

È necessaria una distinzione tra i concetti di interculturalità e inserimento, spesso confuse tra loro e considerate solo in presenza di un bambino d’origine minoritaria. L’interculturalità, invece, dovrebbe essere una metodologia trasversale a tutte le discipline e allargata a tutta la scuola, indipendentemente dalla presenza in classe di allievi di cultura straniera. Attuare questo metodo, vorrebbe dire porre le basi per un inserimento e un’integrazione più solida. Conoscere un’altra cultura vuol dire evidenziarne gli aspetti che la rendono «diversa» dalla nostra, significa contemporaneamente capire che la nostra visione di «cultura altra» non sempre coincide con la visione che essa ha di sé, né con le varie rappresentazioni che altre culture si possono costruire. L’intercultura agisce come una sorta di «promemoria», un richiamo ad alcuni valori comuni come il dialogo, l’accettazione, la non-violenza e la pace.

Attualmente, le nostre strutture educative, accolgono circa 574.512 bambini e adolescenti immigrati di prima e seconda generazione e le nazionalità maggiormente coinvolte sono quella albanese, marocchina ed ex jugoslava; in forte aumento risultano anche gli studenti provenienti da Romania ed Ecuador.

Tale presenza, sebbene disomogenea sul territorio nazionale, è rilevabile in ogni realtà scolastica e ha determinato nel corso degli anni differenti modalità di risposta, che si sono concretizzate nella riorganizzazione degli spazi e dei tempi scolastici, nell’impiego di nuove figure professionali (assistenti di lingua e/o facilitatori), nell’adeguamento delle attività didattiche alle nuove caratteristiche della scuola. L’istituzione scolastica ha messo in campo una serie di attività e iniziative tra loro molto diverse, che rientrano inseme nel nuovo concetto di «educazione interculturale».

Purtroppo però non è sempre facile e immediato garantire questi bisogni per carenze di politiche sociali e istituzionali del nostro paese.

La scuola vive nella costante contraddizione di una discrepanza fra direttive e legislazioni e un cronico taglio di fondi, che finisce per compromettere sia sul piano culturale che su quello organizzativo l’applicazione stessa delle indicazioni legislative.

 

 

 

 

 

 

 

 

1.2.       Diverse situazioni sociali e migratorie

Ogni bambino ha un retroterra culturale, una situazione familiare diversa, un percorso migratorio diretto o indiretto, vissuto. Ognuno di loro ha una storia personale, un passato da rispettare e da tenere in considerazione nel corso del suo inserimento scolastico. E, proprio all’avvio del processo di integrazione, è necessario conservare questo bagaglio personale e da queste fondamenta partire per la costruzione di una nuova vita nella cultura ricevente. La possibilità di crescere tra due culture, come avviene per i figli di immigrati, può costituire, se gestita correttamente, un’ottima opportunità: rappresenta la preziosa occasione di impossessarsi di una doppia ricchezza, quella di due mondi che possono arricchirsi a vicenda.

Tuttavia, affinché i bambini possano sfruttare questa duplice ricchezza, è necessario che trovino le condizioni ottimali per superare alcune difficoltà che potrebbero incontrare lungo il loro cammino. Alcuni di questi ostacoli dipendono dalla loro situazione sociale e migratoria, altri sono legati in modo più specifico alla difficoltà stessa di crescere tra due culture.

I bambini stranieri si confrontano con situazioni e realtà assai diverse tra loro e sono queste diversità a determinare la serena crescita psicologica del bambino.

Svariate sono le condizioni di partenza:

  • Bambini nati in Italia da genitori con regolare permesso di soggiorno: questa è senz’altro la condizione più favorevole. I bambini crescono sostanzialmente come i loro coetanei italiani, imparano facilmente la lingua e la loro socializzazione viene agevolata fin dai primi anni di vita. Non conoscono traumi di separazione e di dislocazione nello spazio e le loro eventuali difficoltà sono riconducibili alla gestione delle dinamiche interculturali oppure alla mancata coincidenza tra la cultura emittente e il complesso dei valori, delle opinioni, delle norme, delle regole e degli ideali che caratterizzano la cultura ricevente.
  • Bambini nati all’estero e immigrati con i genitori: si tratta in questo caso di bambini che conoscono il trauma di una separazione dal loro mondo di origine.

Conoscono un “prima” e un “dopo” che devono ricostruire. Lo spostamento in un altro paese avviene durante la fase del loro sviluppo e lo sradicamento dal paese di origine unito all’impatto con la nuova realtà socio – culturale vengono vissuti simultaneamente, con rilevabili conseguenze sulla qualità e la natura dei processi familiari. In questo caso, essi attraversano un trauma doloroso, fatto di separazione da persone care, dal contesto in cui sono cresciuti, per essere “catapultati” in un ambiente nuovo, nei confronti del quale si sentono spesso degli estranei. Inoltre, non sono spinti dalle stesse intense motivazioni che hanno portato i loro genitori a migrare e vivono il viaggio come qualcosa che subiscono passivamente, spesso come una vera e propria violenza.

  • Minori ricongiunti dopo una prolungata separazione dai genitori:  questa modalità di strutturazione familiare è la più diffusa nel nostro paese. In genere questi bambini subiscono un doppio sradicamento, segnato da fratture e cambiamenti improvvisi. Non sono loro a scegliere il primo distacco dai loro genitori e subiscono passivamente anche la scelta di staccarsi nuovamente da quelle persone e da quei luoghi che avevano caratterizzato fino a quel momento tutta la loro vita. Questo duplice trauma si ripercuoterà sul loro inserimento nella cultura ricevente.
  • Figli di genitori non in regola: è questo il caso meno frequente, perché normalmente quando si tratta di bambini, le famiglie sono già ben inserite o in ogni caso c’è stato un discreto radicamento sociale, espresso dall’ottenimento del permesso di soggiorno e da un impiego relativamente stabile. Tuttavia esistono dei minori che vivono nel nostro paese come dei clandestini e questa situazione è spesso legata a realtà di emarginazione socio-economica: si tratta di famiglie molto povere senza un casa né un lavoro. Per il bambino non è una situazione facile e avrà molte difficoltà prima di raggiungere un equilibrio psicologico e integrarsi correttamente.
  • Bambini stranieri adottati: questi bambini sono immediatamente classificati come italiani, o comunque come appartenti alla nazionalità della famiglia che li ha accolti e questo può provocare dei gravi traumi sul piccolo, perché una parte della sua realtà preesistente, quella stessa realtà che li ha condotti alla condizione di adattabilità, non viene tenuta da subito in considerazione, provocando a volte disagi psichici non indifferenti e una conseguente mancanza di identità.
  • Giovani non accompagnati: si tratta di bambini che hanno tentato l’avventura migratoria in modo del tutto autonomo, soli. Sono per lo più legati a organizzazioni criminali o a situazioni a rischio e molto pericolose. Si trovano a dover fronteggiare notevoli complessità di natura giuridica, ma anche psicologica: si sentono adulti, per le oggettive situazioni che affrontano autonomamente, ma vivono in una società che li considera ancora, come in effetti sono, bambini.
  • Figli di genitori separati, che ricongiungono uno dei due genitori nel nuovo paese: questi minori subiscono un duplice trauma, difficilmente quantificabile. Già nel loro paese natale sono “costretti” a vedere i genitori in tempi diversi e il trasferimento in un altro paese da parte di uno dei due genitori implica una separazione molto più dolorosa. Si tratta di un nuovo ricongiungimento con il genitore biologico che però, sul piano affettivo, è considerato un vero e proprio sconosciuto. È una situazione ad altissimo rischio: è come creare artificialmente piccoli orfani, che vengono poi forzatamente adottati.

 

Il caso di Y.

La situazione che ho appena descritto è riconducibile al caso analizzato durante il mio stage in qualità di «facilitatrice linguistica» presso la scuola Paolo Sarpi di Settimo Milanese.

Y. è una bambina di 11 anni, nata nel dipartimento di Arequipa, in Perù, dove vive con suo padre e la «tata», che la cura quando lui non c’è. Il 7 gennaio 2010 è venuta in Italia da sola, per raggiungere sua mamma che già viveva a Milano da 5 anni. Catapultata in un mondo a lei sconosciuto, dopo aver affrontato un viaggio di molte ore verso l’ignoto ha incontrato la sua mamma biologica.

Ormai da anni i suoi genitori sono separati e la bambina è già abituata a vederli “a turno”. Qui in Italia però, la situazione è molto diversa: il papà lo potrà vedere solo a Natale e Pasqua, due festività che Y ricorda con molta nostalgia. Ora per lei ricordare il Perù è motivo di tristezza e sofferenza.

Il caso di Y. non può essere ricondotto semplicemente a un modello o a un tipo di «bambino straniero»: occorre piuttosto ripercorrere il suo viaggio fino all’arrivo in Italia, soffermansosi sul modo in cui la sua «diversità» viene percepita dai suoi compagni di classe, coetanei, e dalle insegnanti e su come queste rappresentazioni influiscano sull’immagine che lei ha di sé e del nuovo contesto in cui è inserita.

 

 

1.3.       Aspetti psicologici del minore e possibili soluzioni adottate nel processo di integrazione culturale

 

L’ipotesi di fondo è che i bambini di cultura straniera siano sottoposti ad un duplice processo di acculturazione e socializzazione che determina una lacerazione dell’Io, diviso tra istanze culturali e affettive in conflitto: quella di cui sono portatori i genitori e quella del paese d’arrivo. Al minore è affidato il compito di mediare tra due mondi lontani, con i rischi connessi.

In questa realtà, il bambino tenta di ricomporre le lacerazioni che si trova a vivere adottando alcune soluzioni provvisorie:

1)  Resistenza culturale: questo termine sottolinea l’atteggiamento assunto dallo straniero nei confronti della cultura ricevente e il suo tentativo di preservare l’identità etnica originaria propostagli dai genitori mantenendo la propria lingua, cucina, abbigliamento e il proprio modo di comportarsi nella cultura ricevente. Conseguenza immediata di questo atteggiamento è una riduzione minimale delle possibili nuove amicizie nei confronti dei coetanei non connazionali, un aumento del distacco del bambino con il resto della comunità scolastica. La resistenza culturale non è altro che un momento di rafforzamento della propria identità etnica, un modo per ritrovare se stessi e le proprie origini anche in un cultura diversa.Il rischio di una chiusura ghettizzante è evidente e se gestito in modo inadeguato finirebbe con il far sentire il minore sempre più “straniero” nella cultura ricevente.

 

Il caso di Y.

Y nei primi giorni di scuola arriva sempre prima dei suoi compagni, siede al primo banco di fianco alla bambina più brava e diligente della classe, una soluzione che agli insegnanti è parsa strategica e che si è rivelata per i primi giorni utile.

Y non parla molto in classe e anche per semplici domande come: « A che pagina siamo?», «Mi presti le forbici?» parla in spagnolo.

Con i professori è molto educata e rispettosa, non risponde mai male a nessun loro rimprovero e si stupisce che i suoi compagni lo facciano così liberamente:

Y: « Ma non vi sgridano in Italia?»;

IO: « Sì, infatti avranno compito di castigo!»

Y.: « Anche in Perù la Diretora è cattiva, batte i bambini. E la mia amica è pobre y non pode fazer nada perché è la Diretora che la fa studiare!».

Y. mi racconta spesso della sua scuola in Perù perchè ricordare la sua terra le fa sentire meno la mancanza.

Y. è molto attenta alle differenze che nota rispetto al suo paese. Mi dice spesso che la sua migliore amica in Perù è molto diversa dai suoi nuovi compagni di classe e che qui a Milano, non riesce a socializzare facilmente.

Un giorno in classe, doveva scrivere una lettera a un amico/a descrivendogli la sua nuova vita a Milano…

Y: «Hola Eliza, espero que estas bien, te mando esta carta para saludarte y darte grazias por ensenarme a hablar italiano. Yo aqui estoy masomenos porque extrano a mi familia, a mis amigos y aca no tengo amigos. No se porque! Y voce? Aqui no tengo una mejor amiga para contarle todos lo que me pasa. Mi clase esta bien mas las demas personas que e conosido e que son buenas son: la Profesora Formaggioni, la Profesora Amadori e la Profesora Eliza…».

Il disagio di Y è immediato e il suo desiderio di trovare delle risposte è chiaro sin da subito. È per questo che ho deciso di rispondere a quella sua prima lettera, instaurando una sorta di corrispondenza segreta. Era un modo per farle ricordare il Perù, per farmi raccontare tutto quello che in classe non potevamo dirci. Per Y era un modo di evadere la realtà di Milano, che la rattristava.

2)   Processo di assimilazione: il bambino straniero in questo caso segue pienamente la proposta identitaria della cultura ricevente e come diretta conseguenza tende a rifiutare o meglio, a rinnegare la propria cultura emittente. Questa complicata situazione può avere numerosi effetti, sia positivi che negativi. Sicuramente la ferma volontà del bambino di appartenere pienamente alla nuova cultura, facilita il suo apprendimento e il suo adattamento nel paese che lo ospita. Tuttavia, vi sono dei rischi da non sottovalutare: questa volontà di rinnegare le sue origini e la sua vita precedente può portare a una graduale perdita di fiducia, a una progressiva svalorizzazione della sua cultura e delle sue tradizioni creando una maggiore conflittualità nei confronti dei suoi legami familiari. Si viene a creare una situazione per molti versi paradossale: da una parte il modello culturale dominante nel paese d’immigrazione è percepito dal bambino come quello vincente, dall’altra sono praticamente svanite o non sono mai state realizzate a pieno le procedure per una vera assimilazione. Ne consegue una netta instabilità tra quello che si aspetta il minore e la disponibilità della cultura ricevente.

 

3)   Marginalità: questa terza soluzione è generalmente considerata la più diffusa. L’identità di questi bambini è confusa; essi vivono ai margini della cultura emittente, che in certi casi ricordano vagamente e che non riconoscono a pieno, e la cultura ricevente che non riescono ancora a identificare come una possibile proposta identitaria alternativa. Questi bambini sono totalmente spaesati, non sentono di appartenere a nessuna delle due culture e si collocano passivamente in entrambe. Spesso questo vivere ai margini determina un maggiore attaccamento ai propri affetti, ai propri ricordi e alle ultime esperienze vissute.

 

Il caso di Y.

Durante i miei incontri con Y. le chiedo spesso di raccontarmi qualcosa di lei e della sua famiglia. Lei sorride, finchè non le chiedo:

«Parli italiano con la mamma, vero? Vive a Milano da molto tempo ormai, ti potrebbe aiutare non credi?»

Inizialmente Y. non risponde ma poi, in tono freddo e distaccato, dice:

«Lei non è italiana, non sa parlare italiano! Deve parlare spagnolo».

La sua risposta mi ha lasciato molto perplessa ma successivamente sono arrivata alla conclusione che la bimba volesse preservare,almeno con la mamma, una parte della sua cultura. In un contesto in cui lei non ha scelto di inserirsi e che è stato la causa del suo primo distacco dalla mamma lei preferisce parlare la sua lingua d’origine forse per mantenere vivo il ricordo del Perù.

4)   Doppia cultura: quest’ultima soluzione è considerata la migliore, poiché permette al bambino un maggiore equilibrio, una maggiore capacità critica e una maggiore sensibilità e obiettività. La doppia cultura non è altro che un lento ma profondo lavoro analitico interiore, in cui l’identità del bambino viene formata basandosi sul continuo confronto tra due mondi, la cultura emittente e la cultura ricevente. Questo confronto non comporta soluzioni definitive e precostituite, bensì un processo di analisi e di selezione. Rispettare e valorizzare le origini e le tradizioni del bambino è il principio cardine di una buona integrazione e di un positivo adeguamento. Il bambino riesce così ad avere un’identità formata dall’armonizzazione e dall’integrazione dei valori appartenenti a entrambe le culture, senza rinnegarne una o idolatrarne un’altra. Si sviluppa così un duplice sentimento di appartenenza del bambino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. L’integrazione come problema di traducibilità culturale


2.1 L’interculturalità e il processo traduttivo

Parlare di inserimento dei bambini stranieri non può prescindere dal parlare di interculturalità, e quindi di una dimensione espressa nei concetti ricorrenti di «accoglienza», «differenza», «apprendimento», «scambio» e «tolleranza».

Tutti questi concetti sono legati al concetto di «traduzione». Normalmente, quando si parla di traduzione si ha in mente una sottospecie molto particolare del processo comunicativo, ossia la riespressione di un testo in una lingua (codice naturale) diversa da quella in cui il testo è stato originariamente concepito e scritto.

In Italia, in riferimento al processo traduttivo, si parlava un tempo di “testo di partenza” e di “testo d’arrivo”, quasi a voler attribuire alla traduzione un percorso unicamente spaziale (Osimo 2002).

La traduzione invece, oltre a possedere una dimensione spaziale, possiede una dimensione culturale e temporale. Non volendo utilizzare questi termini che riconducono ironicamente ad un gara di corsa agonistica, si potrebbe chiamare il primo testo, «originale» e il secondo, il frutto del processo traduttivo «traduzione». Questa parola però ha il difetto di non distinguere il processo dal prodotto: «traduzione» infatti indica anche il processo attraverso il quale si arriva al secondo testo.

Gli esperti preferiscono quindi parlare di «proto testo» (primo testo) e di «metatesto» (testo modificato, testo trasferito, testo successivo…)

2.2 I residui comunicativi

Tradurre è necessario per comunicare, è necessario per avvicinare un concetto a persone provenienti da Paesi diversi e da realtà culturali differenti. Un elemento importante nel processo traduttivo è la presa di coscienza che ogni atto comunicativo comporta un “residuo comunicativo”, un concetto, una parola o anche solo un’espressione davanti alla quale sembra bloccarsi la nostra traduzione, davanti alla quale sembra impossibile tradurre. Questo comporta una particolare attenzione nel vedere quali parti del messaggio hanno elevate probabilità di non essere comprese a pieno e in modo immediato e quali strumenti metatestuali pensare di mettere in azione per la gestione di tale residuo comunicativo. La strategia comunicativa viene così a coincidere in buona parte con la strategia traduttiva.

In particolare quando si parla di bambini stranieri che cercano di integrarsi e inserirsi in un contesto diverso da quello in cui vivevano prima, è importante, anzi necessario, tradurre tenendo conto dei possibili “residui comunicativi”. Qualsiasi enunciazione che facciamo, infatti, scritta o orale, verbale o no, è inserita in un contesto che influenza il senso dell’enunciazione.

Possiamo quindi affermare che la traduzione permette la comunicazione tra culture diverse. Proprio questo importante rapporto di influenza tra autore e ambiente culturale è stato analizzato da diverse prospettive:

– Il semiotico estone Jurij Lotman ha scritto un saggio sull’argomento intitolato La semiosfera (1985). L’universo della cultura è paragonato a un organismo, le cui cellule, rappresentate dalle singole culture, interagiscono, arricchendosi tra loro.

Concetto chiave di questa teoria è quello di «confine» che è permeabile proprio come la membrana di una cellula. Questo confine unisce due diverse culture e nello stesso tempo le divide mostrando le varie diversità. Ed è proprio in questo confine che prende forma la traduzione. È nella semiosfera che due culture interagiscono tra loro. Lotman vede il rapporto tra cultura propria e cultura altrui come una benefica possibilità di arricchimento, di crescita per le due culture che possono così fecondarsi ed evolversi. Questa dinamica proprio/altrui, che è lontana dal creare uniformità e omogeneità, sviluppa le singole culture anche quelle minoritarie, che prendono coscienza della propria differenza e identità nel confronto con l’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

2.3 Il concetto di «linguacultura»

Possiamo ormai affermare che lingua e cultura sono due realtà imprescindibili l’una per l’altra: non possiamo affermare di conoscere a pieno una lingua se non conosciamo anche la cultura che essa esprime e da cui essa deriva. A sottolineare il forte legame che intercorre tra questi due aspetti di un’unica realtà, Agar ha coniato il termine «linguacultura». Con questo termine, egli intende un linguaggio che comprende non solo elementi quali grammatica e lessico, ma anche conoscenze pregresse, informazioni locali e culturali, abitudini e vari comportamenti. Il concetto di “cultura” e la sua comprensione, implicano il legame tra due “linguaculture” che Agar definisce LC1 (linguacultura emittente) e LC2 (linguacultura ricevente). L’apprendimento della linguacultura ricevente è veicolato da “rich point”: momenti, definiti dall’autore, di incomprensione e di aspettativa mancata. Si tratta di una relazione tra due estremi, nel mezzo dei quali si trova la traduzione. Ed è proprio la quantità di materiale che viene trasmesso da un estremo all’altro, la cultura, a determinare poi la portata della traduzione e stabilire il ruolo maggiore o minore del traduttore che convoglia tutte queste informazioni. Tutto dipende quindi dai confini e dai limiti posti tra la lingua emittente e quella ricevente. Potremmo aggiungere che si tratta di una sorta di residuo comunicativo, un momento della conversazione che viene interrotto da una parola, un’espressione che non è facile comprendere immediatamente e che denota differenze culturali fondamentali tra i due soggetti della comunicazione. Questo è un momento delicato della comunicazione e conseguentemente della traduzione perché necessita di un’analisi approfondita dei confini e dei limiti culturali, geografici e spaziali del soggetto emittente e del soggetto ricevente.

Il traduttore deve quindi essere formato a essere una sorta di mediatore culturale. La parola «mediatore» deriva dal verbo latino medio e ha due significati: da un lato si riferisce all’azione di acquisire (e ottenere) e di trasmettere e prestare (per esempio la conoscenza) e dall’altro riferisce ad un’azione di mediare, di intervenire. Nel mondo in cui viviamo oggi è più che mai necessario parlare di pluralità. Mai parlare di cultura bensì di culture… (da finire, ma ho già letto il testo di Agar)

2.4 I «rich point» e la strategia traduttiva

Il concetto di «cultura» assume un valore sistemico. Ci rendiamo conto della presenza di una cultura diversa dalla nostra solo nel momento in cui ci troviamo di fronte a persone che hanno un comportamento diverso dal nostro e che ai nostri occhi risulta incomprensibile. Possiamo infatti affermare che il concetto di cultura viene alla luce solo quando si notano effettive diversità con una persona estranea con cui entriamo in contatto. Posto questo, non ha alcun senso parlare della cultura X senza considerare da che punto di vista viene osservata. Parlare di cultura e del suo significato richiede una spiegazione che possa rendere il concetto chiaro e visibile a un esterno.

Di qualsiasi differenza o parola incomprensibile si tratti, ci troviamo sempre sul piano culturale. Ed è qui che entra in gioco la traduzione. Solo con la traduzione è possibile dare un senso a queste differenze, ovvero a questi rich point.

Riconoscere una differenza è il primo passo per avviare una traduzione e la conseguente strategia traduttiva. Solitamente i rich point sono strettamente collegati a contesti e significati creati da un determinato «sistema», o anche da un singolo individuo e richiedono quindi la conoscenza non solo degli aspetti semantici, grammaticali e prettamente linguistici, ma anche comportamentali. Il problema della traduzione è così legato alla capacità di comprendere, interpretare e spiegare un linguaggio in cui sono condensate la cultura e la storia di un «sistema» (In semiotica per «sistema» si intende un’entità formata da uno o più individui all’interno della quale si danno per scontate le stesse cose, ossia si ha in comune l’«implicito culturale».

Il traduttore deve concentrarsi su queste differenze per creare un senso che tutti possano comprendere. Nella sua traduzione dovrà tenere conto di vari aspetti, il cui numero è molto variabile e dipende dalla natura del confine tra la cultura emittente e quella ricevente. Più la linguacultura emittente è “diversa” da quella ricevente, più il compito del traduttore è complesso, poiché deve confrontarsi con un numero maggiore di rich point e dare loro un senso anche nella linguacultura ricevente trasmettendo contemporaneamente i rapporti e i modelli comportamentali di un contesto culturale differente.

La traduzione, e di conseguenza la cultura, non è altro che una costruzione artificiale che rende possibile la traduzione, è qualcosa di intersoggettivo, che va poi rielaborato. La traduzione è indispensabile per ogni tentativo di comprensione e di comunicazione, tanto più quando la relazione implica orizzonti di significato, lingue, storia e culture diverse, straniere le une per le altre (Agar 2006).

 

Questa importante premessa ci aiuterà a individuare quali sano alcune caratteristiche della «cultura», intesa nel suo significato più moderno, indispensabili a comprendere perché la cultura è traduzione.

2.5 Il delicato compito del traduttore

In base a quanto appena detto, possiamo affermare che il traduttore si trovi al centro di un vero e proprio processo di mediazione culturale, prima ancora che linguistica e deve necessariamente tener conto delle varie difficoltà interpretative relazionandosi con le varie culture. La mediazione ha dunque tre poli:

– La cultura emittente (quella in cui nasce il «prototesto»);

– La cultura del traduttore (quella di mediazione tra il «proto testo» come testo altrui, la propria cultura e il «metatesto» come cultura altrui nella propria);

– La cultura ricevente (quella in cui nasce il «metatesto») (Osimo 2002).

 

La cultura di un testo può essere scomposta in vari elementi e la distanza culturale tra due testi può essere espressa sotto forma di coordinate (storiche, geografiche, culturali, linguistiche eccetera), che tengono conto della differenza nei due testi: le coordinate cronotopiche. Questo termine si riferisce all’insieme delle coordinate di un testo, necessarie a collocarlo all’interno della cultura in cui nasce (Osimo 2002: 39).

«Cronotopo» letteralmente significa «tempo-spazio» e quindi fermandosi al suo significato etimologico indica le coordinate spazio-temporali. Il concetto con il passare del tempo si è arricchito giungendo a indicare anche le coordinate cronologiche, geografiche, spaziali eccetera (Osimo 2002)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Un nuovo concetto di cultura


3.1 Il vecchio concetto di cultura

Per anni il concetto di «cultura» è stato all’origine dello storico conflitto tra antropologi e traduttori, oltre che dell’apparente incompatibilità ideologica e pragmatica delle due discipline.In antropologia, il concetto di «cultura» è onnicomprensivo e per questo viene spesso considerato in modo errato. In passato, gli antropologi usavano la parola «cultura» per descrivere, spiegare e generalizzare il comportamento altrui. Alfred Kroeber e Clyde Kluckhohn (1966), la definiva così:

 

La cultura è composta da un insieme, esplicito e implicito, di comportamenti acquisiti e trasmessi da simboli che costituiscono le particolari conquiste ottenute da un gruppo di esseri umani e che comprendono anche la loro personificazione sotto forma di artefatti; il nucleo essenziale della cultura è composto da idee tradizionali e in particolare dai valori ad esso collegati. Da un lato i sistemi culturali possono essere considerati come prodotti di azioni, e dall’altro come elementi condizionanti di ulteriori azioni (Kroeber e Kluckhohn 1952).

 

Dalla definizione sopracitata emerge un’idea di cultura come un sistema chiuso e coerente di significati e azioni, da cui vengono escluse sia la dimensione spaziale sia quella temporale. La cultura assume quindi la forma di un complesso di valori tradizionali tramandato da una generazione all’altra e che proprio come un prezioso documento scritto rimane invariato e non subisce alterazioni.

Il concetto di «cultura» aveva così un significato «autoreferenziale», legato a uno specifico modus operandi, proprio ad una determinata area geografica. Se una persona si comportava in un certo modo, l’antropologo riteneva che quel particolare atteggiamento derivasse dalla sua «cultura» e per il fatto di condividere una specifica identità culturale.

 

«Perché si comportano così?»

«Perché questa è la loro cultura».

«Chi sono?» «Sono tutti membri della stessa cultura».

 

Questa idea è ormai “superata” e non può più funzionare. In questo modo, si negava automaticamente qualsiasi possibile deviazione e cambiamento e si semplificava un concetto che in realtà, come ha sottolineato anche Michael Agar, è molto più complesso e ampio.

3.2 La cultura è relazionale

Il relativismo culturale ha rappresentato sicuramente un’importante scoperta in rapporto agli studi degli antropologi. Il punto centrale di questa teoria è che:

 

non è mai possibile apprendere chiaramente l’immaginazione di un altro popolo o di un altro periodo come fosse la propria (Geertz 1988:57).

 

Agar ha superato questa teoria, sostenendo che la cultura, così come la traduzione è anche relazionale. Risulta così senza senso parlare di cultura X senza affermare la cultura X per Y. Come la traduzione, anche la cultura unisce una linguacultura LC1 con un linguacultura LC2. Ogni volta che sentiamo parlare di cultura dobbiamo tenere in considerazione il confine di chi/per chi.

La cultura necessita di una traduzione quando il confine tra LC1 e LC2 è molto ampio. Possiamo quindi affermare che la cultura è una sorta di costruzione tra LC1 e LC2 e la quantità di materiale che finisce nella cultura, dipenderà dal confine tra le due: maggiore è il confine tra cultura emittente e cultura ricevente, maggiore sarà la quantità di materiale da analizzare.

Premettendo che il concetto di cultura emerge solo nel momento in cui ci percepiamo una differenza tra noi e l’altro, che entra in contatto con noi, il risultato che ne deriva è la presenza di diverse combinazioni LC1/LC2, diversi rich point. Tutto dipende da “cosa porta con sé” la linguacultura 1, può dipendere da chi è la persona che abbiamo davanti, la sua vita passata, il suo lavoro eccetera. Diversi possono essere i confini tra LC1 e LC2 e conseguentemente diversi saranno i rich point. Avranno differenti traduzioni perché avremo sempre differenti culture che entrano in contatto tra loro. Il più grande rich point consiste nella totale incomprensione dovuta a enormi differenze tra LC1 e LC2. Il momento di totale non comprensione è definito come «culture shock» ed è riconducibile a una sensazione di totale incomprensione che genera un profondo disorientamento. Il più piccolo, al contrario, potrebbe esistere probabilmente tra gruppi diversi della stessa società. Questi due casi citati sono l’esempio di due estremi opposti, tutti gli altri esempi che ne potrebbero derivare si collocherebbero nel mezzo. Inoltre non è possibile valutare una cultura in modo assoluto, perché in numero di rich points è una produzione del singolo ed è calcolabile in relazione ai confini esistenti tra la sua cultura e le altre. Pertanto non è possibile considerare il concetto di cultura nel suo concetto tradizionale, e quindi come una proprietà nostra o una proprietà loro. È una costruzione artificiale che rende possibile una traduzione tra loro e noi, tra cultura di partente e cultura ricevente. È intersoggettiva (Agar 2005). Necessita di un’analisi approfondita tanto più è ampio il divario tra LC1 e LC2. Quanto è necessario descrivere dipende da quale X e da quale Y delimitano gli estremi del confine.

Ne consegue che la traduzione che costruiamo altro non è che la cultura che descriviamo; in questo senso possiamo affermare che traduzione e cultura si equivalgono.

3.3 La cultura è parziale e plurale

Oggi più che mai abbiamo a che fare con sistemi aperti e dinamici, che crescono e si evolvono insieme nel loro ambiente, sistemi complessi. Cercare di far funzionare ancora il «vecchio concetto di cultura» come un sistema chiuso e coerente di significati e azioni condivise solo e sempre da alcuni individui non avrebbe più senso. Nessuno oggi vive in un concetto di cultura come quello appena citato. La cultura è parziale e plurale. Non possiamo parlare di cultura del singolo se ci riferiamo a una persona specifica o ad una situazione particolare. Il plurale è più che mai obbligatorio. Un momento particolare, una persona particolare così come un gruppo di persone non è possibile considerarlo una cultura singola. In questi casi si parla sempre di «culture». La domanda che ci sorge spontanea è:

 

«possiamo parlare realmente di cultura italiana?»

«si può davvero parlare di italiano?»

 

Si può solo parlare di «Italia» come di una cultura parziale che può esistere in qualsiasi parte del mondo, ma non avrebbe senso parlare di italiano o di cultura italiana. Ognuno di noi ha un suo essere italiano, un suo “vivere in Italia”. Ognuno di noi non è altro che un mix di “culture” che interagiscono l’una con l’altra internamente ed esternamente con le “culture” altrui. Sono queste le interazioni che ci consentono di avere una visione di noi e dell’altro. Ognuna di queste “culture” rappresenta una parte e non una totalità di ciò che un individuo o un gruppo è. Nessun sistema è identificabile con una cultura soltanto. Si tratta sempre e comunque di «culture» (Agar 2006).

 

  1. Il caso di Y. e i rich point

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quest’anno, dal mese di marzo al mese di giugno, ho lavorato presso la scuola media Paolo Sarpi di Settimo Milanese in qualità di facilitatrice linguistica e mi è stata affidata la bambina Y.

Y. ha 11 anni, è nata nel dipartimento di Arequipa, in Perù. Figlia di genitori separati, vive da sempre con il padre e una “tata”, che le fa da madre. La sua mamma biologica è ormai da 5 anni in Italia, a Milano e lavora come badante per una coppia di anziani.

Y. non voleva venire in Italia, perché nel suo piccolo paesino del Perù stava molto bene, aveva la sua scuola, aveva le sue amiche e una casa stupenda con un cavallo tutto suo.

Un solo grande pensiero non le permetteva di essere completamente felice: sua mamma non era con lei…

Decisa di far vedere alla figlia il suo nuovo mondo, la sua nuova realtà di vita e di lavoro, la mamma di Y. pagherà un biglietto aereo alla bimba e la terrà con sé per un intero anno.

Il 7 gennaio 2010 inizierà per Y. un nuovo cammino, il suo primo giorno di scuola in un ambiente “straniero”, diverso da quello di origine.

Il mio incontro con lei è avvenuto dopo circa due settimane di frequentazione presso la prima media a Settimo Milanese e non è stato facile inizialmente conquistarmi la sua fiducia, perché era molto timida e riservata.

 

4.1 La «cugina-sorella»

Concludendo quanto affermato nei capitoli precedenti in merito alla teoria di Agar sulla linguacultura e sui rich point, desidero citare un paio di esempi per me determinanti l’effettiva comprensione della complessità dell’argomento.

Nel corso del mio stage come facilitatrice linguistica Y. era spesso chiamata a scrivere dei brevi temi scegliendo tra diversi argomenti. Spesso gli argomenti trattati coinvolgevano lei e le emozioni legate alla sua nuova vita a Milano. Il primo scritto era proprio la descrizione di una persona a lei cara e che avrebbe voluto avere con sé.

Fu questa la prima volta in cui Y. mi parlò della sua «prima-hermana» (letteralmente tradotto «cugina-sorella»). È questa la parola utilizzata da Y. per parlare della cugina, nata però dalla relazione tra il fratello di sua mamma e la sorella di suo padre. Per lei questo legame era speciale, così come potrebbe apparire dalla descrizione che ho appena riportato, ma la mia attenzione non vuole concentrarsi sulle varie discendenze parentali nella famiglia di Y., bensì sulla difficoltà che ho riscontrato nella traduzione di questo termine.

Confrontando varie fonti, cartacee e non, e chiedendo ad alcuni amici spagnoli, ho riscontrato che nel contesto, questa parola racchiude un triplice significato: sicuramente contiene l’idea di «prima», che in italiano si traduce con «cugina» e sicuramente questa risulta anche la soluzione più immediata alla difficoltà, magari pensando a una semplice cugina di primo grado. Tuttavia, la presenza della parola «hermana» ci allontana, in italiano, dal singolo concetto di «cugina» e anche da quello di «cugina di primo grado». Di fatto la parola esiste, viene utilizzata nella lingua parlata anche se non compare in nessun dizionario di spagnolo. È un termine che Y. utilizza di frequente perché sostiene che in Perù sia normale, è un termine che tutti utilizzano perché è facile che si compongano famiglie come la sua, è normale che si abbiano figli tra zii di una stessa famiglia.

Il problema è nato dal momento in cui dovevo tradurre la parola in italiano. Non ero in grado di riprodurre lo stesso concetto nella cultura ricevente, in questo caso la mia. Parlare a qualcuno di «cugina-sorella», non significa nulla se non unisco al termine una definizione che ne spieghi il significato che Y. vuole dare alla parola. Per lei non è solo una cugina perché per metà è sua sorella dato che suo padre e il padre di sua cugina sono fratelli e le rispettive madri pure. Il termine utilizzato è ricco di un valore affettivo oltre che di un vero e proprio significato.

 

Consultando vari forum spagnoli e vari estratti di testi in lingua queste erano le ricorrenze che ho trovato:

 

–       Prima hermana = Una hija de algún hermano de tu mamá o tú papá.

–       A veces se especifica “hermana” cuando se quiere dar una idea de cercanía con esa prima. Se pode decir también “prima carnal”.

–       A veces se usa para parentescos más lejanos o incluso para personas sin parentesco conocido, es decir, simples (aunque buenos) amigos.

 

Dalle descrizioni emerge sicuramente il grado di parentela della ragazza in questione anche se il termine «hermana» è propriamente utilizzato per indicare lo stretto legame tra le due ragazze, che si considerano «quasi sorelle». In italiano la traduzione «cugina di primo grado» esiste, anche se viene abbandonato il significato affettivo che la cultura emittente racchiude in sé.

 

L’esempio che ho appena citato ci riconduce all’analisi di Agar secondo cui il concetto stesso di «cultura» è legato al rapporto tra due culture ben precise e dal loro contatto.

Y., parlandomi di questa «prima-hermana», intendeva parlarmi di una persona che per lei era quasi una sorella, più che una cugina e quando ho cercato di chiederle se X. fosse sua cugina di primo grado, lei mi ha risposto più di una volta che non era semplicemente sua cugina bensì erano metà sorelle e metà cugine.

La «cugina-sorella» è un chiaro esempio di come nella traduzione sia necessario tenere in considerazione tutte le sfumature proprie di una cultura che determinano o meno l’esistenza di un traducente dello stesso grado di intensità in un’altra cultura. La teoria di Agar ha rappresentato per me un elemento fondamentale per comprendere come nella traduzione intervengano molteplici fattori e come sia impossibile non tener conto della «cultura emittente» e della «cultura ricevente» per comunicare un messaggio e renderlo fruibile a tutti. La scelta del traduttore di tradurre una parola o un enunciato della cultura emittente deve rispettare tutte le sfumature e le informazioni che quel termine racchiude in sé e che potrebbero modificare il significato della stessa nella cultura ricevente.

4.2 La «chiesa»

Come spesso accade a chi non parla bene una lingua e si trova catapultato in un paese nuovo, spesso la comprensione risulta difficoltosa. Questo concetto vale ancor di più se parliamo di bambini stranieri che ancora non conoscono la loro lingua alla perfezione e che devono rapportarsi alle differenze linguistico-culturali del paese in cui si trovano. Se a paragone ci sono due persone che parlano due lingue differenti e che provengono da mondi differenti la comunicazione non sarà sempre facile e immediata. In questi casi, un fattore da tener sempre a mente è che non esistono definizioni banali o spiegazioni semplici e scontate; ogni frase detta, ogni parola pronunciata per noi ha un valore, ma questo stesso valore e/o grado di immediatezza non è lo stesso per un’altra persona, a maggior ragione se ci troviamo di fronte ad una bambina di 11 anni, non italiana.

Spesso, durante le lezioni curricolari, aiutavo Y. a tradurre termini ed enunciati di cui non comprendeva immediatamente il significato. Una volta in particolare, mi sono resa conto di come per me fosse scontata una risposta e di come invece per Y. la mia domanda non avesse lo stesso significato che io le attribuivo.

Era l’ultimo giorno di scuola, la classe era divisa in due gruppi e i bambini giocavano a farsi tra loro degli indovinelli… Quello che in particolar modo attirò la mia attenzione fu il seguente:

 

«Qual è il luogo per eccellenza dove si prega?»

 

La risposta che tutti diedero fu quella che io stessa avevo immaginato, ossia: «La chiesa».

Tutti risposerò così tranne Y., lei disse «Ovunque – In casa».

Da questa sua risposta iniziai a pensare dentro di me che la domanda dell’indovinello non fosse così scontata e che forse per una persona che proveniva da un altro paese e da un’altra cultura. Per noi componenti di quel gruppo di “ragazzi italiani”, la risposta era banale, tutti noi avevamo pensato che il luogo per eccellenza dove si prega è la chiesa, ma per lei non è stato così.

La risposta di Y. è un chiaro esempio di come la cultura sia plurale e relativa, di come non è possibile parlare di cultura X, se non specifichiamo la cultura X per Y. Parlare di risposta facile e scontata, vuol dire trascurare questo fatto, significa non dare valore al senso che la parola assume per una persona in un contesto specifico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1.  La traduzione come mediazione culturale


5.1 Il facilitatore linguistico

Il compito di facilitatrice consiste essenzialmente nella mediazione culturale tra la cultura emittente e la cultura ricevente.

In questo caso specifico tra Y. e la classe di cui fa parte.

Il facilitatore linguistico è un professionista esperto nella didattica dell’italiano come lingua seconda tanto che, se fosse ufficialmente prevista questa funzione nella scuola, potrebbe essere definito «insegnante di italiano L2» (Favaro 2002: 63).

 

I facilitatori linguistici sono quindi insegnanti ed educatori, di madrelingua italiana, con una adeguata formazione didattica, glottodidattica e pedagogico-interculturale, che collaborano, autonomamente o come membri di associazioni e cooperative che operano nel territorio, con gli enti locali (specialmente i Comuni) nei progetti di facilitazione linguistica, promossi e finanziati dalla scuola o dagli stessi enti locali. Questo personale esperto lavora con gli studenti stranieri gestendo e conducendo i laboratori di italiano L2 nelle scuole sia in orario scolastico che extrascolastico (per esempio attività di doposcuola finalizzate allo svolgimento dei compiti, al rafforzamento linguistico e allo studio disciplinare). Sono quindi persone che svolgono delicati compiti didattici ed educativi che richiedono preparazione e specifiche competenze sia nell’ambito dell’insegnamento della seconda lingua, una disciplina che adotta specifiche metodologie e strategie che devono essere conosciute e padroneggiate da coloro che ricoprono questo incarico, sia nel campo dell’educazione interculturale per promuovere e facilitare l’incontro, la conoscenza e lo scambio reciproco fra le persone portatrici di culture diverse presenti nelle scuole.

Nella scuola, i compiti di un facilitatore linguistico possono essere molteplici:

 

–       collaborare nella definizione di pratiche condivise all’interno della scuola in tema di accoglienza degli alunni stranieri;

–       sostenere e guidare gli alunni neo-arrivati nella loro fase di adattamento, diventando un punto di riferimento per richieste di informazioni e di aiuto;

–       facilitare l’apprendimento della lingua all’interno di laboratori di italiano L2;

–       ricostruire il profilo linguistico, cognitivo e culturale di ogni allievo straniero neo-arrivato nella scuola partecipando con gli insegnanti, i mediatori culturali ed altre figure preposte (ad esempio psicopedagogisti, membri della Commissione Intercultura) alla documentazione e valutazione iniziale delle sue competenze ed abilità e alla rilevazione dei suoi bisogni linguistici e comunicativi iniziali;

–       programmare un percorso didattico coerente e specifico in base alle competenze e i bisogni rilevati dell’alunno ma rispettando gli obiettivi comuni di apprendimento linguistico e disciplinare;

–       relazionarsi e collaborare con gli insegnanti in modo tale da un pieno inserimento dell’allievo straniero e garantire un livello sufficiente di apprendimento della lingua per comunicare e per studiare le diverse discipline scolastiche;

–       essere di supporto didattico agli insegnanti fornendo materiali e strumenti utili e suggerendo metodologie per l’insegnamento dell’italiano L2 e la gestione della classe plurilingue;

–       valutare e documentare i risultati ottenuti e gli obiettivi raggiunti dagli allievi stranieri al termine del periodo di facilitazione linguistica;

–       promuovere e facilitare il dialogo interculturale fra tutte le persone che vivono la scuola e in particolare favorire un dialogo costruttivo tra il bambino straniero e la classe (Itals 2010).

 

Come si può notare, il facilitatore linguistico è chiamato a facilitare l’inserimento dell’allievo straniero nella nuova scuola e nella nuova classe fornendogli gli strumenti linguistici necessari e, allo stesso tempo, fungendo da punto di riferimento per quanto riguarda la comunicazione tra lui e gli altri, coetanei e adulti, che operano nella scuola, diventando cosi una vera e propria figura ponte tra l’alunno straniero e la nuova classe in cui è inserito, gli insegnanti e la scuola.

5.2 Il facilitatore linguistico e il mediatore linguistico

Facendo questa esperienza lavorativa, mi sono resa conto delle grandi affinità di principio tra il ruolo di mediatrice linguistica (la qualifica che sto conseguendo con il mio corso di laurea triennale) e quello di facilitatrice linguistica.

Lo stesso mediatore linguistico opera nelle scuole o in altri ambiti formativi, educativi e sociali e gioca un ruolo indispensabile in materia di mediazione fra persone con radici, esperienze e valori culturali diversi ma che condividono gli stessi luoghi di vita o di lavoro. Dal punto di vista della normativa, le leggi sull’immigrazione (Legge n. 40 del 6 marzo 1998 e n. 189 del 30 luglio 2002) fanno esplicitamente riferimento a questa figura professionale: «lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni nell’ambito delle proprie competenze favoriscono la realizzazione di convenzioni con associazioni per l’impiego, all’interno delle proprie strutture, di stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali, al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi».Il mediatore linguistico e culturale, quando sia necessario distinguerlo dal facilitatore linguistico, può essere un madrelingua straniero già inserito in Italia o un italiano con una adeguata conoscenza di una delle lingue e culture di “migrazione” e che non necessariamente dispone di una formazione glottodidattica e pedagogica.

 

Il mediatore può collaborare e fungere così da supporto al ruolo educativo della scuola.

In particolare può svolgere compiti:

–        di accoglienza, tutoraggio e facilitazione nei confronti degli allievi neoarrivati e delle loro famiglie;

–       di mediazione nei confronti degli insegnanti fornendo loro informazioni sulla scuola nei paesi di origine, sulle competenze e sulla storia personale del singolo alunno;

–       di interpretariato e traduzione (avvisi, messaggi, documenti orali e scritti) nei confronti delle famiglie;

–       di assistenza e mediazione negli incontri dei docenti con i genitori, soprattutto nei casi di particolare problematicità;

–       proporre percorsi didattici di educazione interculturale, che prevedono momenti di conoscenza e valorizzazione dei paesi e delle lingue d’origine (Itals 2010).

 

 

Riferimenti bibliografici

 

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Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali 2000, Integrazione ed identità dei minori immigrati.

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Merriam-Webster 2000 Merriam Webster’s online dictionary, Springfield (MA): Merriam-Webster. disponibile in internet all’indirizzo www.merriam-webster.com, consultato nell’ottobre 2010.

Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore: guida pratica con glossario, Milano: Hoepli.

Osimo, B. 2010 Propedeutica della traduzione: corso introduttivo con tabelvole sinottiche, Milano: Hoepli.

The American Heritage 2000 The American Heritage Dictionary of the English Language, Boston: Houghton Mifflin, disponibile in internet all’indirizzo www.education.yahoo.com/reference/dictionary/., consultato nell’ottobre 2010.

The free dictionary 2009 The free dictionary, disponibile in internet all’indirizzo www.thefreedictionary.com, consultato nell’ottobre 2010.

Torop P. 2010 La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, Milano: Hoepli.

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