Maddalena Introzzi, Celan traduttore di Ungaretti. La poetica dell’incontro

CELAN TRADUTTORE DI UNGARETTI LA POETICA DELL’INCONTRO
MADDALENA INTROZZI
Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO
Relatrice Prof. Elisabetta Potthoff
Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica autunno 2007

© Maddalena Introzzi, Milano 2007.
ABSTRACT
L’attività di traduttore di Celan è rappresentativa del suo interesse per la lingua, dietro a cui si cela un progetto più ambizioso che intende ristabilire un rapporto autentico fra parola e realtà. La tragedia inaudita che ha sopraffatto il popolo ebraico sembra cancellare del tutto qualsiasi possibilità di “fare arte” dopo Auschwitz. Il confronto con Ungaretti, il più grande poeta ermetico italiano, si colloca lungo questo cammino umano e poetico che tenta di recuperare la forza creativa della lingua. La parola, per Celan, è sempre in viaggio, così come il traduttore è proteso alla ricerca di un Tu che si presti all’ascolto. La particolare vicinanza nei temi poetici, esistenziali e mitici fa di Ungaretti l’interlocutore ideale. L’incontro si realizza nel segno di un vero e proprio dialogo lirico, nel quale il poeta è l’unico testimone del mistero che si cela nella poesia e a cui spetta di intuirlo e riportarlo alla luce. La chiave del mistero è la parola, custode di questo segreto. La comunanza di temi e intenti poetici non sfocia nelle medesime soluzioni. I due percorsi poetici rimangono paralleli, ma disgiunti: mentre Ungaretti si salva grazie alle fedeltà al suo progetto poetico e alla riscoperta dimensione religiosa, lo smarrimento di Celan è senza ritorno. La perdita di fiducia nella forza evocativa della parola e la conseguente crisi del linguaggio lo portano alla distruzione della lingua e al fallimento definitivo della sua scommessa poetica.
Parole chiave: Celan, parola, Ungaretti, forza creativa, viaggio, incontro, poeta – testimone, fedeltà, forza evocativa, distruzione della lingua
ENGLISH ABSTRACT
Celan’s work as a translator is emblematic of his interest in language, behind which lies an even more ambitious project – his desire to reconcile the word and the universe. There seems to be no opportunity for “making art” after Auschwitz, that cruel tragedy that slaughtered so many Jews. The comparison to Ungaretti, the major Italian poet of the “hermetic” literary school, is based on this human and poetic approach, which strives to refashion language’s power of creation. For Celan, the word is always on the move, just as the poet himself is searching for his ideal listener. The strong affinity of poetic, existential and mythical aspects makes Ungaretti his ideal associate. This poetic encounter provides a real lyrical dialogue; only the poet can witness the mystery in poetry, sense it and bring it to light. The key to this mystery is the word, the custodian of the secret. While poetic themes and intents are very similar, they do not lead to the same solutions. The two poetic paths go in parallel, but remain separate. While Ungaretti was saved through his faith in his poetic undertakings as well as his rediscovery of a religious dimension, Celan lost his sense of direction and could find no return. His loss of faith in the evocative power of the word and his consequent linguistic crisis led him to destroy language and abandon once and for all his poetic quest.
Key words: Celan, word, Ungaretti, power of creation, journey, encounter, witness poet, faith, evocative power, language destruction
ZUSAMMENFASSUNG
Das übersetzerische Werk Paul Celans ist der manifeste Ausdruck seines Interesses an der Sprache, das allerdings ein noch zielstrebigeres Projekt verbirgt, nämlich die Beziehung zwischen Wort und Wirklichkeit zu erneuern. Die entsetzliche Vernichtung der Juden macht absolut undenkbar, Gedichte nach Auschwitz zu schreiben. Die Auseinandersetzung mit Ungaretti, dem bedeutendsten italienischen als „hermetisch“ bezeichneten Dichter, erfolgt im Rahmen dieses menschlichen und poetischen Werdegangs, der versucht, die sprachschöpferische Kraft neu zu entwickeln. Das Wort ist für Celan immer in Bewegung, so wie der Dichter selbst unentwegt auf der Suche nach einem „Du“ ist, das ihm zuhört. Die große Verwandtschaft hinsichtlich poetischer, existenzieller und topischer Aspekte macht für ihn Ungaretti zum idealen Verbündeten. Die Begegnung verwirklicht sich im Zeichen eines echten lyrischen Dialogs: der Dichter stellt sich als der einzige Zeuge des von der Poesie verborgen gehaltenen Geheimnisses heraus. Seine Aufgabe besteht darin, es zu erahnen und hiermit ans Licht zu führen. Das Wort wird zum Schlüssel und Hüter des Geheimnisses. Die gemeinsamen Topoi und Ziele ihrer Poetik führen jedoch nicht zu identischen Lösungen. Die Poetologie der beiden Lyriker verläuft zwar parallel, bleibt jedoch getrennt: während sich Ungaretti durch sein Vertrauen in die Dichtung und die wieder entdeckte religiöse Dimension rettet, kann sich Celan nicht mehr zurecht finden: infolge des mangelnden Vertrauens in die evokative Kraft des Wortes und der darauffolgenden Krise zerstört er die Sprache und bringt endgültig seine Poetik zum Scheitern.
Schlüsselwörter: Celan, Wort, Ungaretti, schöpferische Kraft, Reise, Begegnung, Dichter als Zeuge, Vertrauen, evokative Kraft, Zerstörung der Sprache
SOMMARIO
PREFAZIONE ………………………………………………………………………………………………………………………..1 CAPITOLO I: PAUL CELAN…………………………………………………………………………………………………..4 1.1 Ilprofilobiografico…………………………………………………………………………………………………………4 1.2 Laproduzionepoetica……………………………………………………………………………………………………..9 1.3 Lapoetica…………………………………………………………………………………………………………………….13
CAPITOLO II: CELAN TRADUTTORE …………………………………………………………………………………17 2.1 L’attività di traduttore …………………………………………………………………………………………………….17 2.2 Il primo accostamento a Ungaretti ……………………………………………………………………………………20
2.2.1 I colloqui editoriali sul progetto Ungaretti (1965-1967) ………………………………………………….24 2.3 La scelta delle poesie………………………………………………………………………………………………………27 2.3.1 Il metodo di lavoro …………………………………………………………………………………………………….29 2.3.2 Scambi epistolari e documenti inediti …………………………………………………………………………..32 2.4 Celan e l’Italia ……………………………………………………………………………………………………………….40 2.4.1 Assisi……………………………………………………………………………………………………………………….41 2.4.2 Celan e la poesia italiana…………………………………………………………………………………………….45
CAPITOLO III: STORIA DI UNA TRADUZIONE …………………………………………………………………..47 3.1 La genesi della Terra Promessa………………………………………………………………………………………..47 3.1.1 Metri e stilemi della Terra Promessa……………………………………………………………………………53
3.2 Il Taccuino del Vecchio ………………………………………………………………………………………………….54 3.3 La traduzione di Celan ……………………………………………………………………………………………………56 – Ultimi Cori per la Terra Promessa VIII ………………………………………………………………………………..56 – Cori descrittivi di stati d’animo di Didone XVIII…………………………………………………………………..61
CAPITOLO IV: CONCLUSIONI…………………………………………………………………………………………….67 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI …………………………………………………………………………………………..71
PREFAZIONE
La parola anima il progetto poetico di qualsiasi intellettuale: eppure, forse per nessun altro come per Celan, la parola è sempre stata «in viaggio»: un viaggio in cui si è edificata in tutta la sua forza espressiva, poi distrutta per mano dell’uomo e degli avvenimenti e infine rivisitata e recuperata dal fondo di queste esperienze.
Non per sua volontà testimone e complice dell’odio, la parola è d’altra parte indissolubilmente legata al sacro e a Colui che l’ha creata: simbolo autentico e tangibile della creazione dell’uomo, affonda le sue radici nella notte dei tempi.
Nella rivisitazione che Celan si propone di compiere, ripercorre le origini della lingua che inevitabilmente accompagnano la nascita del genere umano. Allora la parola si fa testimone fedele di quella di Dio e la meta di questa ricerca è una lingua nuova che giustifichi il male presente e recuperi la sua purezza ed espressività che il dolore ha cancellato.
Emblema di questo rapporto fra Celan, la parola e la religione è la lirica Schibboleth:
Assieme alle mie pietre, nutrite con il pianto dietro le sbarre,
mi trascinarono
al centro del mercato,
là dove
si dispiega la bandiera
cui io non prestai giuramento:
Flauto,
doppioflauto della notte: pensa all’oscuro gemello rosseggiare
a Vienna e Madrid.
Metti a mezz’asta la tua bandiera, memoria.
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A mezz’asta per oggi e per sempre.
Cuore:
fatti conoscere anche qui, qui, al centro del mercato. Gridalo, lo Schibboleth, nella patria estraniata: Febbraio. No Pasaran
Einhorn
tu ben conosci le pietre, ben conosci le acque, Vieni,
io ti porto laggiù,
ti porto alle voci
di Estremadura.
Schibboleth è parola ebraica che significa spiga, con tutti i richiami simbolici di cui si carica il termine: il pane era il simbolo di inizio della prima cultura contadina sedentaria e la fine degli spostamenti nomadi nel deserto. Per un ebreo come Celan, lo Schibboleth ricorda la manna che sfamò gli ebrei in cammino verso l’Egitto. Pane vuol dire abbondanza, salvezza, civiltà e quindi parola. Qui è ricordata perché venne usata come parola d’ordine nella guerra tra Galaiditi ed Efraimiti. Questi ultimi erano incapaci di pronunciarla correttamente; in tal modo, quando cercarono di infiltrarsi in territorio nemico, vennero riconosciuti e uccisi (cfr. Libro dei Giudici, 12,6). La parola che l’Io lirico (presumibilmente straniero) deve pronunciare al centro del mercato, ad alta voce di fronte alla gente, è impossibile da sillabare per lui che non è stato cresciuto con questa lingua, così lo sconosciuto viene notato subito quando cerca di imitarne la pronuncia: l’esitazione della voce e dei suoni articolati lo tradiscono immediatamente.
Quindi Schibboleth è la chiave d’accesso, la parola che deve essere interpretata per potersi rivelare. Sempre con la parola Celan ha cercato di orientarsi, parlare, definirsi, affrancarsi alla realtà, strappandola dall’ammutolirsi che la stava riducendo all’afasia.
La seconda strofa contiene un accenno all’internamento di Celan nel ghetto che i nazisti costituirono nel centro di Czernowitz nell’ottobre del 1941. L’accostamento di Vienna e
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Madrid rimanda invece a due momenti della lotta antifascista negli anni Trenta: l’insurrezione operaia del 1934 contro il governo reazionario di Engelbert Dollfuss e la difesa di Madrid da parte dei repubblicani durante la guerra civile. La medesima stretta connessione è ripresa nella quinta strofa; poiché il fallito tentativo rivoluzionario di Vienna ebbe luogo nel mese di febbraio; e «no pasaran» è il motto utilizzato da Dolores Ibarruri per rinfocolare la lotta delle formazioni repubblicane. Erich Einhorn è il destinatario ideale della poesia, in quanto fu, del poeta, compagno di studi e di entusiasmi democratico- rivoluzionari fin dall’anteguerra; terminato il conflitto preferì trasferirsi nell’Unione Sovietica. Nel finale Celan vorrebbe riportarlo agli ideali libertari della loro giovinezza facendogli sentire la voce degli emigrati spagnoli, che a Tours, nel 1938, gli avevano narrato degli asperrimi combattimenti sostenuti soprattutto in Estremadura.
Per il suo carattere polisemantico e allusivo, l’espressione «Einhorn» (oltre a richiamare il cognome di un caro amico di gioventù) permette un’ulteriore interpretazione, che crea un nesso profondo con i molteplici significati e piani del reale, insiti nella parola, con cui Celan gioca abilmente: «Einhorn» è animale particolare, l’unicorno, inesistente in quanto frutto della mitologia e dell’immaginario poetico.
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1.1 Il profilo biografico
Capitolo I Paul Celan
Il 23 novembre 1920 a Czernowitz, in Bucovina (regione oggi divisa fra Ucraina e Romania), nasce Paul Pessach Antschel, che adotterà da scrittore lo pseudonimo Paul Celan, anagramma della trascrizione rumena del cognome Antschel (Ancel). Figlio di genitori ebrei di lingua tedesca, riceve dalla madre l’amore per la lingua e la letteratura tedesca. Varie testimonianze e fotografie fanno supporre un’infanzia e una prima adolescenza senza particolari turbamenti; anzi, il primo ventennio trascorre sotto il segno della quotidiana normalità: una famiglia piccolo-borghese nell’ambito di una città di provincia. Czernowitz conserva largamente l’impronta sia della dominazione asburgica prima che della presenza rumena poi, che si riflettono nella società locale, ricca sia etnicamente che linguisticamente e culturalmente aperta. Un terzo della popolazione era di stirpe ebraica, lingua tedesca o yiddish. Dopo un anno alla scuola elementare ucraina di lingua tedesca, Paul viene iscritto alla scuola ebraica, per motivazioni legate all’ideologia sionista del padre. In seguito prosegue gli studi giovanili in un ginnasio rumeno. A 13 anni, pur avendo interrotto lo studio dell’ebraico, si sottopone alla cerimonia del Bar Mizwà, il rito con cui si viene accolti ufficialmente nella comunità religiosa ebraica. Paul avvia un’intensa lettura dei classici della letteratura tedesca (Hölderlin, Goethe, Schiller, Heine e soprattutto Rilke), nonchè di scrittori e poeti di lingua francese (fra cui Verlaine e Rimbaud), appropriandosi avidamente di moduli di ispirazione surrealista e simbolista. In questi anni di studio, il percorso del giovane poeta già rivela la sua eccezionale intelligenza e le sue qualità di apprendimento rapido delle lingue straniere, nel segno della ricca koinè linguistica della terra bucovina, dove si parlano il rumeno, l’ucraino, il tedesco, lo svevo e l’yiddish. Nonostante le inclinazioni letterarie, i genitori decidono di fargli studiare medicina a Tours, in Francia. Il treno che lo conduce in Francia sosterà a Berlino nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938, la famigerata “notte dei cristalli”. Sono di quest’anno le prime poesie note di Paul. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale ha dapprima una sola e non troppo rilevante conseguenza per Celan: ossia l’impossibilità di riprendere gli studi di medicina in Francia. Persino il passaggio di Czernowitz all’Unione Sovietica non incide più di tanto sull’esistenza del giovane, che qualche mese dopo si iscrive alla Facoltà di lettere della
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città natale e intensifica l’attività poetica.
Il vero terribile cambiamento, che interviene dopo l’invasione russa, è l’invasione nazista: nel 1941 le truppe rumene, d’accordo con i tedeschi, occupano Czernowitz. Parte degli abitanti fugge in Unione Sovietica, altri, soprattutto ebrei, sono deportati in Transnistria, altri ancora vengono rinchiusi nel ghetto. Paul è condannato ai lavori forzati. Nel 1942 riprendono le deportazioni; Paul cerca di convincere i genitori a trovare rifugio in un luogo più sicuro, ma questi, per fatalismo o forse perché increduli della precisa intenzione omicida implicita nella deportazione, si rifiutano di abbandonare la propria casa.
Non li rivedrà più: un mattino del giugno 1942, si ritrova dinnanzi all’uscio di casa sbarrato: Leo e Fritzi Antschel, i genitori, sono già lontani nel vagone che li porta verso i campi di sterminio in Transnistria e moriranno a distanza di poco tempo uno dall’altro. La neve di quell’inverno, che nella lontana Ucraina ricopre le spoglie, diventerà metafora assillante del lutto irrimediabile.
Questo strappo doloroso dalla famiglia, tragedia personale inserita all’interno di quella di proporzioni epiche del popolo ebreo, inciderà profondamente l’animo e l’ attività poetica dello scrittore per tutto il corso della sua vita. Paul, insieme ad altri ebrei, viene inviato ai lavori forzati in Moldavia, dove rimarrà fino al 1944, lavorando, per non incorrere in nuove deportazioni, come assistente in una clinica psichiatra. E’ la salvezza, a cui Celan capiterà di ripensare negli anni futuri. Nell’immediato ha la sua parte la giovinezza, l’istinto di conservazione, la solidarietà con i compagni di sciagura, il sostegno epistolare degli amici. Si iscrive poi alla facoltà di anglistica e ordina le sue prime poesie in due raccolte.
Nel 1945, a guerra ultimata, parte per Bucarest, dove lavora come traduttore e redattore per una casa editrice. Conosce Petre Solomon e altri poeti e letterati romeni: qui adotta ufficialmente lo pseudonimo Paul Celan. Sono di questi anni le sue prime poesie pubblicate su riviste, in particolare Todesfuge (Fuga della morte). Fuggendo dall’occupazione sovietica in Romania, nel 1947 Celan si rifugia a Vienna per un anno, dove pubblica alcune poesie e una prima raccolta, Der Sand aus den Urnen (La sabbia dalle urne). Oltre a vari personaggi dell’ambiente surrealista, conosce la poetessa Bachmann, con cui vive una breve e intensa relazione. Sarà la sua familiarità con il russo e il francese ad aiutarlo dal punto di vista economico, offrendogli una importante fonte di sostentamento come traduttore; e naturalmente anche culturale e letterario durante gli anni di permanenza a Bucarest (1945- 1947), Vienna (1947-1948) e infine Parigi (1948-1952), fino alla sua decisione di assumere la cittadinanza
francese. A Parigi prende alloggio nelle vicinanze della Sorbona, si iscrive all’università 5
scegliendo germanistica e scienze del linguaggio, e già nel luglio del 1950 consegue la Licence ès-Lettres che può aprirgli qualche prospettiva di un’occupazione stabile e più redditizia di quanto non siano gli incarichi saltuari (traduzioni e lezioni private). Sono gli anni parigini di una lirica di riflessione, quando ancora l’autentica sofferenza non può essere ancora espressa in forma poetica. L’urgenza del presente e l’ansia operosa di fronte ai problemi pratici di trovare un alloggio, proseguire gli studi e garantirsi una fonte di sostentamento direzionano il suo sguardo su una duplice prospettiva di passato e futuro e gli alleviano il rimorso di essere un sopravvissuto alla shoah.
L’ostacolo principale a Parigi era quello di essere un rifugiato straniero, il che gli impediva l’accesso a qualsiasi attività in scuole ed enti pubblici. Finchè, nel 1959, ottiene un lavoro a lui confacente: lettore di lingua tedesca presso l’Ecole Normale Superieure.
Inizialmente Celan incontra grandi ostacoli nell’avvicinarsi alla cerchia di scrittori francesi che si riunisce in quel periodo, e con pochi di loro riesce a creare un vero sodalizio: quasi nessuno è in grado di leggere i suoi versi nell’originale. Così l’isolamento è più o meno inevitabile. Stringe amicizia con il poeta alsaziano Ivan Goll, gravemente malato, e lo aiuta nella stesura delle sue opere.
Nel 1952 si unisce in matrimonio a Gisèle de Lestrange, giovane parigina dedita all’arte grafica. Nel 1953 nasce un primo figlio, che purtroppo muore alla nascita. Nel giugno 1955 nasce un secondo figlio, Eric. Questa paternità inizialmente felice ebbe un importante ruolo di stabilizzazione e certamente contribuì alla fioritura poetica che contrassegna il periodo creativo a cavallo del 1960. Iniziano a fioccare i riconoscimenti ufficiali per la grandiosa produttività lirica, sia quantitativa ma anche qualitativa, di colui che viene riconosciuto come una voce nuova, di grande valenza e significato nel panorama letterario. Riceve nel 1957 un primo premio letterario dall’Assessorato alla Cultura della Confindustria della Repubblica Federale. Nel 1958 gli viene conferito il premio di poesia della Città di Brema. L’apprezzamento di questo poeta era ormai pressochè unanime e culminò nell’assegnazione dell’ambitissimo Büchner Preis nel 1960 da parte della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung di Darmstadt. Celan si sentì fortemente coinvolto da questo riconoscimento e ne dedusse l’impegno a fare quello che non aveva mai fatto prima: rendere conto della sua poetica. Raccolse numerosi appunti per il discorso di ringraziamento che diverrà famoso con il titolo Der Meridian. Nel 1960 Claire Goll, vedova del noto poeta, ripropone con violenza contro Celan l’accusa di plagio delle opere del marito. Dopo la morte dell’autore, Celan aveva accettato di tradurre in tedesco le poesie francesi dell’amico. Queste traduzioni erano state redatte forse un po’ frettolosamente e la casa editrice cui erano state proposte le ritenne
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indegne e le respinse. Può essere che il fallimento di questo progetto abbia acuito l’astio della vedova, che iniziò una campagna diffamatoria contro il poeta.
L’affaire Goll, soprattutto per le insinuazioni relative alla “leggenda” della morte dei suoi genitori, provoca in Celan un trauma psichico che sarà fatale al suo già precario equilibrio. In una lettera all’amico Hans Bender, scrive:
Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza fra una poesia e
una stretta di mano.” e conclude “ viviamo sotto cieli cupi – e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche”.
Alla fine di maggio ha la fortuna di incontrare Nelly Sachs: i colloqui fra i due rimangono incentrati sull’ebraismo e su Dio, diverso negli esiti esistenziali e poetici per ognuno dei due. L’amicizia e l’intesa intellettuale fra i due sfocia nella ricezione da parte di Celan di diversi temi mistici ricavati dalla tradizione ebraica. Nelly Sachs aveva anticipato la metafora del Meridian nella sua opera teatrale: Beyll individua nella notte l’alfabeto perduto e ritrovato (E allora scrisse l’autore del Zohar / e aprì le vene del linguaggio / e attinse sangue dalle stelle / che invisibili ruotavano, accese / solo dalla nostalgia. / Il morto alfabeto risorse dalla fossa / angelo di lettere, antichissimo cristallo, / sepolto con gocce della creazione, / che cantavano1). E’ nella Bibbia e nella Zohar, Il Libro dello Splendore, tradotto in tedesco da Gershom Scholem nel 1935, che Nelly Sachs trova la sua più autentica fonte di ispirazione. Attraverso di lei, che aveva intuito la lezione segreta della Zohar, Celan si avvicina alla parola e alla funzione fondante che riveste nei cofronti del reale. Grazie alla rifrazione di metafore, la lingua è capace di contenere più livelli del reale, dal concreto e quotidiano dolore alla storia di una rinascita.La responsabilità del poeta, sfuggito alla morte, consiste nel salvare la lingua «tradita», almeno fino a quando non verrà sopraffatto dal dolore di essere un sopravvissuto.
Le condizioni della Sachs, da tempo afflitta da manie di persecuzione, peggiorano e viene ricoverata in una clinica psichiatrica. Durante il 1962 Celan lavora per alcuni mesi come traduttore presso il Bureau International du Travail di Ginevra. Contemporaneamente cresceva in lui il convincimento di un vasto ritorno dell’antisemitismo e dell’ideologia fascista, in Germania e anche altrove; e anche l’infondata persuasione di essere oggetto di un complotto volto a distruggerlo come autore. L’accusa di plagio, il ritorno dell’antisemitismo,
1 Mistero irruppe dal mistero. Zohar, capitolo della creazione, a cura di G. Scholem, Torino, Einaudi, 1998, p.52.
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l’esasperata suscettibilità per le critiche creano le premesse per il turbamento psichico che segna l’ultimo decennio di vita del poeta. All’inizio del 1967 le sue condizioni di salute si aggravano e si rende necessario un prolungato soggiorno in clinica. Nel frattempo si presenta l’occasione di conoscere Martin Heidegger, ma l’incontro con il filosofo che ha tributato lodi al nazismo non può non essere problematico. Questo incontro costituisce il tema del racconto Gespräch im Gebirge (Conversazione della montagna).
Nel 1968 esce per Suhrkamp un importante volume di traduzioni dedicato a Giuseppe Ungaretti con la versione di Terra Promessa e Il Taccuino del Vecchio: nel timbro del poeta italiano, Celan trova una particolare consonanza con la propria voce.2
Dal 30 settembre al 17 ottobre 1969 è in Israele, dove sono previste alcune sue letture. Visita Gerusalemme e i principali luoghi sacri. La visita in Israele «finisce da ultimo col ricacciare Celan ancor più nel profondo della sua solitudine»3 e gli fa percepire in via negativa l’essenza del suo rapporto con la religione ebraica. In occasione dell’incontro con l’Associazione ebraica degli scrittori, tiene una breve allocuzione:
Sono venuto a Voi in Israele perché ne ho sentito il bisogno. (…) Credo di avere un’idea di ciò che può essere solitudine ebraica.
Le grandi porte di Gerusalemme si fanno metafora di un approdo impossibile:
Noi trapassiamo, dormendo, alla grande/ porta della misericordia,// io ti perdo in tuo favore, è questo/ che mi consola della neve, // dì che
Gerusalemme esiste, // dillo, come se io fossi questo/ tuo biancore,/ come se tu fossi/ il mio…4
A novembre Celan non torna più a vivere con la famiglia, ma si trasferisce nel suo appartamento a pochi minuti dalla Senna e dal ponte Mirabeau. Parigi ormai gli appare estranea e agisce penosamente sui suoi nervi scoperti. Intorno al 20 aprile del 1970 si getta nella acque della Senna dal ponte Mirabeau. Ai primi di maggio un pescatore ne rinviene il corpo in una chiusa a una decina di chilometri a valle. Il 12 maggio viene sepolto nel cimitero di Thiais, alla periferia della città.
2 Giuseppe Ungaretti, Das verheißene Land / Das Merkbuch des Alten, Insel, Frankurt/ M. 1968
3 cfr. Celan, Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di G.Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. CXIX
4 «Wir schlafen hinüber, vors Tor / des Erbarmens, / ich verliere dich an dich, das / ist mein Schneetrost, / sag,
das Jerusalem ist, / das, als wäre ich dieses / dein weiß, / als wärst du meins./
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1.2 La produzione poetica
Il lascito letterario di Celan è assai consistente; paradossalmente una dichiarazione di poetica è rimasta astratta ad eccezione delle due allocuzioni di ringraziamento, dense di contenuti e di riflessioni e considerate ancora oggi un documento significativo e preziosissimo.
Sono rarissimi i casi di una spiegazione dei suoi versi che si basi su un’esperienza diretta dell’occasione che li ha provocati, senonche gli amici più vicini hanno facilitato la ricostruzione poichè partecipi alla nascita di una poesia. Tuttavia, non si possono ricondurre le sue poesie, seppur vi sia la presenza costante del tema dello sterminio, ad alcuni topoi poetici (storici, religiosi, filosofici) che permetterebbero solo una semplificazione. Alcuni componimenti sono esempio di una produzione poetica più ricca di temi e di forme: questo discorso vale anche per gli scritti inediti che si contraddistinguono per la loro maggiore libertà espressiva.
Secondo il curatore italiano Giuseppe Bevilacqua, l’attività poetica di Celan si scandisce in tre fasi ideali:
1. EROS (fino al 1952) comprende le prime creazioni della giovinezza e la raccolta Papavero e Memoria (Mohn und Gedächtnis). Il suo tirocinio poetico si contraddistingue per l’uso di forme audacemente innovative, ma altresì già sperimentate e per l’eccezionalità della sua produzione così matura. Benchè aggiornato in fatto di poetica moderna, Celan manifesta un certo radicalismo formale, temi e schemi psicologici sono più o meno o convenzionali: le perplessità per un amore difficile o la malinconia struggente davanti a un paesaggio notturno. Già da subito si notano tuttavia le influenze simboliste e surrealiste dell’anno passato a studiare in Francia. Percepibile è anche una certa inflessione della voce e la predilezioni per alcune scelte lessicali.
Nella sua attenta ricostruzione del profilo biografico di Celan, Bevilacqua ritiene che sin dalla giovinezza sia fortemente attirato dai giochi di parole tra le varie lingue: già nelle sue prime sperimentazioni letterarie Celan rivela implicitamente una costante della sua poetica. Secondo questa indicazione, si tratta di concepire la poesia non tanto come mediazione tra linguaggio e realtà, ma come una forma di mediazione fra vari linguaggi.
Il periodo bucarestino è ricco di attività e letterariamente fervido: raccoglie le sue poesie tedesche, ma scrive anche in rumeno. La celeberrima Fuga della morte (Todesfuge) appare nel 1947 sulla rivista Contemporanul.
Il primo ciclo ad essere pubblicato è quello di La sabbia dalle urne (Der Sand aus den Urnen, 1948) per la casa editrice A.Saxl: poco tempo dopo la sua pubblicazione Celan ne chiese il
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ritiro; sembra ormai confermata la supposizione che il poeta non si riconoscesse più nei versi giovanili disincantati. Celan ebbe la singolare consuetudine di ricavare il titolo della raccolta successiva da una propria poesia per lo più contenuta nella raccolta precedente: una scelta finalizzata a mostrare la continuità e lo sviluppo del suo progetto poetico. Così, anche La sabbia dalle urne si chiude con Corona, dalla quale Celan desume il binomio Mohn und Gedächtnis per il ciclo successivo. Gli amanti della poesia possono amarsi come solo due contrari sanno fare: l’oblio (il papavero) e la memoria. Dal frutto del papavero, come è noto, si ricava l’oppio, una droga dalle proprietà ipnotiche e stupefacenti che ottenebra la mente e offusca le capacità intellettuali. Celan ne ha esteso la valenza simbolica. Il poeta indicherebbe il contrasto che si trovava a vivere dopo la guerra e la speranza di poterlo conciliare in una relazione amorosa. L’opposizione è indubbiamente quella fra il ricordo delle tragiche esperienze e il tentativo di non farsene sopraffare, lasciandosi aperta la strada a una nuova esistenza.
Papavero e memoria (1952) costituisce una selezione di tutto il materiale della raccolta precedente e i nuclei tematici sono essenzialmente due: il ricordo dei lutti famigliari e la rappresentazione di situazioni amorose.
E’ caratterizzato dalla persuasione che l’amore possa ancora offrire lo spazio in cui gli opposti si riconciliano. Spesso si è ignorato la carica erotica della produzione giovanile e si è preferito il tema funereo. I poemi amorosi di Celan privilegiano i momenti più intimi e culminanti dell’atto amoroso che realizza con metafore oscure. Contenuti amorosi ricorrono e hanno una parte importante anche nella seconda raccolta poetica, la cui pubblicazione segue di tre anni quella di Papavero e memoria, ma il loro tenore è ben diverso.
2. NOSTOS (dal 1952 al 1965): le raccolte Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia), Die Niemandsrose (La rosa di nessuno), Atemwende (Svolta del respiro). Il dramma della persecuzione comincia a emergere con maggiore forza, anche in virtù del suo legame epistolare con Nelly Sachs. Tuttavia la poesia sembra poter ancora essere il luogo di consolazione.
In Di soglia in soglia (1955) le poesie sono un incalzante appello che il soggetto rivolge a se stesso affinchè si celebri una conciliazione ideale fra tutte le donne del suo passato (evocate coi loro tipici nomi ebraici), e l’amante gentile- la moglie Gisèle de Lestrange. La sposa assume una posizione chiave e subentra alla madre scomparsa del poeta: questo passaggio tenta di portare un germe di vita e un patrimonio di norme e tradizioni da una soglia che non c’è più (la vita fino a quando la madre era ancora presente) a una nuova. L’altro tema che percorre la raccolta è il nuovo rapporto con le ombre del passato, quelle che visitano il
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protagonista venendo dalla prima “soglia”. Il poeta vive l’ansia di poter offrire una dimora nella nuova casa alle ombre del passato, così che si concilino con la nuova dimensione umama e familiare. La soglia sembra dunque ricostituita e accessibile anche a queste ombre. Questo terzo ciclo avvia il tema che diventerà predominante nelle tre raccolte successive: il poeta si accinge ad affrontare il viaggio “alla volta dell’isola” (il NOSTOS freudiano). In un certo senso è l’inverso di quanto affrontato finora: non più le ombre sono invitate a render visita e a invadere la nuova casa, bensì il poeta si sente attratto e chiamato a visitare le ombre nel loro remotissimo laggiù, a muoversi per ritrovare la prima soglia.
Con il terzo volume, Grata di parole (Sprachgitter) Celan ammette che nel titolo si presentano in tensione una pluralità di significati che richiamano la precarietà di ogni dire. Il poeta vuole alludere alla sua ardua aspirazione di ristabilire un rapporto con il mondo dei “sommersi” e indicherebbe qui il linguaggio come le coordinate da usare di fronte a una realtà altrimenti sfuggente. La grata ricorda anche la ‘porta parlatoria’ attraverso la quale i religiosi di clausura comunicano con i visitatori, ma anche la grata che separa il sacerdote dal fedele durante il momento della confessione.
I successivi La rosa di nessuno e Cristallo di respiro formano il vertice dell’opera celaniana. La trilogia trae il suo significato globale dal viaggio di ritorno, dal Nostos, che il poeta intraprende con l’aiuto della poesia per recuperare il vitale rapporto con tutto ciò che era alla base della sua esistenza, della sua cultura, della sua ragion d’essere. Al di là di un fine personale, vi è il fine più alto di riuscire a giustificare il male nel nostro tempo, così come si è terribilmente manifestato e rendere accettabile il vivere nel presente, concludendo con un segno di salvezza questa vicenda alterna di terrore.
Niemand (nessuno) designa colui, o meglio coloro che morirono ignoti, cancellati e privati anche della sopravvivenza nella memoria dei viventi. A questa cancellazione il poeta tenta di opporsi, tentando di far sbocciare una rosa dal nulla che avvolge entrambi, i “sommersi” perché sono tali, e i “salvati” perché, se non giungono a ridare un’ideale esistenza ai primi, sono anch’essi ridotti a nullità. Se il Nostos fallisce, il poeta è Niemand quanto gli altri viventi e davanti a lui si apre il nulla. Per ora, la rosa sembra affermata come esistente e la poesia riuscire a trascendere questa prospettiva di nullità.
Il nome della rosa è da tempi immemorabili al centro del dibattito della mistica e, nell’iconografia cristiana, si lega a diversi significati simbolici: per la sua forma viene associata alla coppa che raccolse il sangue di Cristo, alla trasfigurazione dello stesso o alle piaghe di Cristo. Anche la coppa del Graal rievoca questo fiore, mentre Dante paragona l’amore paradisiaco al centro della rosa nella sua Divina Commedia. Per i romani è il fiore del
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ricordo, per i musulmani simboleggia la contemplazione, per i rosacroce la conoscenza integrale. Oltre a questa molteplicità di valenze simboliche, la rosa si può definire anche come ‘flos orationis’.
Cristallo di respiro (Atemkristall, 1963) è l’opera più compatta e può essere considerata il vero culmine dell’operare di Celan. Come prova vale indirettamente il fatto che questo ciclo ha un titolo a sé e che Celan- prima di includerlo nella raccolta Svolta del respiro- ne fece una pubblicazione a parte. Ruota attorno a una sola figura femminile da tratti materni che il poeta sogna di vedere staccarsi dalle altre ombre e venirgli incontro offrendo la chiave per raggiungere l’obiettivo della sua ricerca.
Con Svolta del respiro (Atemwende) Celan ammette ancora la possibilità che all’atto dell’inspirazione, segua una espirazione che, usufruendo del mezzo artistico, restituisca come poesia la realtà che ci circonda.
3. THANATOS (dal 1965 alla morte)
Filamenti di sole (Fadensonnen, 1968) e i tre volumi postumi Luce coatta (Lichtzwang, 1970), Parte di neve (Schneepart, 1971) e Dimora del tempo (Zeitgehöft, 1976) rappresentano unitariamente il tratto terminale e discendente della parabola. Si accentuano le caratteristiche ermetiche della sua produzione poetica: la lingua non sembra più offrire un pur precario asilo alla testimonianza.
Il corpus in prosa di Celan si costituisce di un unico testo, nato dalla mancata intesa con Adorno. Ne La conversazione della montagna (Gespräch im Gebirge, 1959) questo episodio diventa il pretesto per rimeditare, tra cronaca e allegoria, la condizione ebraica e la difficoltà a superare la barriera della solitudine che perseguita i sopravvissuti. Anche questo incontro è un evento in cammino, traccia biografica che si trasforma in un discorso sulla poesia. L’incontro mancato è quello che Peter Szondi, uno dei suoi amici più intimi, aveva predisposto a Sils con Theodor Adorno. Quindi proprio il poeta votato a scrivere la poesia dopo Auschwitz avrebbe dovuto incontrare chi aveva dichiarato che dopo quell’evento non era più possibile scriverla. Così, questo 20 gennaio, non è solamente la data che segna il cammino solitario dell’ebreo attraverso i monti, ma è anche il 20 gennaio 1942, quando la conferenza di Wannsee decide di adottare per gli ebrei la “soluzione finale”.
Fra le traduzioni più importanti del suo periodo parigino come traduttore, si ricordano quelle degli scrittori francesi più noti quali Rimbaud, Simenon, Valery; dall’inglese i 21 sonetti di Shakespeare, dall’italiano un volume di opere selezionate di Ungaretti e infine le poesie del russo Ossip Mandelstamm.
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1.3 La poetica
“Non ho mai scritto una riga che non abbia avuto a che fare con la mia esistenza-, io sono come vedi, realista a mio modo”, così scrive Paul Celan in una lettera all’amico Erich Einhorn, che reca la data del 24 aprile 1962. Al confine tra la ripresa di moduli simbolistici, in prospettiva surrealista, e una nuova tensione sperimentale in chiave ermetica, di continuo tentata dalla dissoluzione della forma e della semantica, è la poesia dell’ebreo Celan, indicato come uno fra i maggiori poeti tedeschi del ‘900. Lo sterminio del suo popolo, cornice entro la quale si consuma la tragedia personale della morte dei genitori, diviene il passaggio insuperabile della sua scrittura. Su questa base così duramente storica e concreta Celan costruisce una poesia irreale e impervia, tutta chiusa in sé: sfiduciata nella possibilità di una comunicazione sociale e di redimere un mondo irreparabilmente segnato da insensatezza e morte. Molti lettori e critici di formazione filosofica hanno riconosciuto il lui il paradigma dell’intellettuale che si interroga di fronte al mistero del male e della violenza: l’ermetismo caratteristico degli ultimi scritti di Celan sembra una complessa smentita della concezione di Adorno per cui è impossibile fare arte dopo Auschwitz e lo sterminio. La poesia ermetica è già di per sé arte, si impone quindi come dimostrazione della sua volontà di superare il veto adorniano.
La poesia si costituisce come spazio a sé stante, nel quale tentare di restituire una dimora ai morti, alla vita negata e interrotta e al bisogno di significato e di un’identità credibile. Da queste premesse potrebbe facilmente scaturire una poetica mistica, volta a rilanciare il privilegio dell’espressione poetica, e invece in Celan questo spazio faticosamente ritagliato non diviene un valore alternativo: il peso delle cose nei suoi componimenti resta centrale, benchè relegato in un non-detto, in un margine di indicibilità che la poesia circonda e scruta senza possibilità di contatto. Prevale il senso del fallimento, anche solo concepire l’esistenza di Dio è ora impossibile, così come assurda pare la stessa scommessa insita nella scrittura poetica.
L’orrore si impone come ricordo, ma anche come presente concreto e spettrale: non c’è gesto che possa rimuovere quel che è successo. La stessa poesia non può in questa condizione che divenire complice dell’orrore, in quanto cede alla logica di normalizzazione nella quale l’armonia e la bellezza riprendono il loro posto, fingendo e celebrando una conciliazione tra vittime e carnefici che invece è impossibile. Il bello estetico, e quindi l’espressione poetica di un dolore indicibile, lo rende funzionale a un piacere. Dall’altro lato l’arte è il mezzo di gran
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lunga più efficace per conferire perennità alla memoria di un fatto, e i fatti, quanto più sono terribili, chiedono di essere eternati nella memoria degli uomini. Va ricordato anche che per Celan la memoria non conosce il tempo, i particolari dell’esperienza e quelli della riflessione non si distinguono fra loro. Questa memoria del presente è una delle apparenti difficoltà che si incontrano nella lettura di Celan, che non offre riferimenti precisi ma è presupposta e cosciente in chi legge, è un carattere che va molto oltre il principio dialogico di ogni poesia: il Tu è ogni volta concreto, presente e provocatore.
Anche la “intransigente” fedeltà al tedesco, oltre che lingua materna e dunque sacrale fedeltà al ricordo della madre, è il segno di un rapporto mistico con il linguaggio: non è un mezzo di espressione, ma di salvezza e redenzione. E’ il legame, intoccabile perché unico oramai, con la sua origine sommersa.
Il discorso di ringraziamento per il conferimento del premio letterario Città di Brema (1958) può essere considerato una pietra miliare della sua riflessione sul tema della memoria e della storia, che si saldano strettamente alla funzione dialogante della lingua nel suo rapporto con la realtà. Il poeta cerca di ridefinire non tanto il concetto di “arte”, quanto di trovarvi una via alternativa per ciò che è Menschliches, la dimensione umana, la ricerca di una Heimkehr, di un ritorno a casa. Il discorso prende le mosse dall’esplorazione dei campi semantici di Denken, “pensare”, e Danken, “ringraziare”.
La poesia (…) può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione (…) che essa possa un qualche giorno da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore magari.
Le poesie sono anche in questo senso in cammino: hanno una meta. Quale? (…) forse un tu, o una realtà aperta al dialogo.
Questo intento poetico si chiarifica anche nel terzo ciclo di Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia), la raccolta celaniana che inaugura la missione del poeta e alla quale per questo viene attribuita una funzione centrale e di cerniera.
Il poeta si sente esortato a mediare il muto messaggio dei morti e a scavare la parola del loro silenzio, istituendo quindi un rapporto con il mondo dei sommersi. Questo allora darà testimonianza della Notte in cui sprofondarono. Celan a questo punto ha ancora la forza e l’impegno positivo di ammonire: gli uomini possono ancora ritrovare il Giorno e la sua luce, un Giorno degno di essere vissuto, se avranno ripercorso e scontato moralmente fino in fondo l’abominio di cui si sono macchiati. Non c’è riscatto finchè lo spettro di Auschwitz non viene esorcizzato.
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La poesia può farlo, sembra voler dire Celan in questa fase iniziale del suo NOSTOS, e l’unico spazio in cui gli è concesso di abitare è quello della poesia, che concilia presenza e assenza. Come può tuttavia lo scrittore portare a compimento la sua missione? Dovrà farlo liberando non soltanto dalle catene del Vergessen (l’oblio). Celan dalla lirica Argumentum e Silentio ricava una riflessione sul rapporto possibile tra il dire poetico e l’indicibilità. Ammira uno scrittore come Renè Char perché è riuscito a rendere funzionale il linguaggio ermetico a una rappresentazione non retorica di alcuni momenti crudelissimi della storia.
Il fine ultimo della poesia di Celan, quello che conferisce proporzioni utopiche ed epiche alla sua impresa, è di giustificare il male commesso nel nostro tempo, in modo tale da rendere accettabile il vivere nel presente e progettare un futuro. E’ per questa ragione che Celan non voleva essere ascritto in nessuna corrente o movimento letterario coevo che avrebbe solamente generalizzato o sminuito la portata della sua missione poetica. Celan non voleva né essere inserito in una dimensione lirica totalmente disimpegnata, né essere ridotto al ruolo di cantore della tragedia ebraica. Celan puntava a una personale ridefinizione della realtà, passando attraverso il vissuto di un male storico. Pensava di poter raggiungere un approdo liberatorio (NOSTOS) e il riscatto tramite la parola poetica di quel mondo sommerso avrebbe anche ridato senso alla dimensione del presente.
Nell’allocuzione a Brema Celan aveva detto:”
Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. (…)Ma ora dovette passare attraverso tutte le proprie risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. (…) Passò e le fu dato di riuscire alla luce, “arricchita” da tutto questo.5
Neppure dieci anni più tardi la speranza che traspare da queste righe è completamente frustrata. La lingua era sì passata attraverso quegli eventi, ma non attraverso la rivisitazione che Celan si era proposto di realizzare negli ultimi anni Cinquanta. Aver comunque tentato fece sì che la lingua risultasse alla fine distrutta. Questa crisi del linguaggio è il risultato della “illegibilità di questo / mondo. Tutto doppio”.6 Infatti, la scrittura sia poetica che epistolare non presenta segni ben riconoscibili della nevrosi che lo colpì negli ultimi anni di vita, né gli amici o i famigliari hanno notato questi disturbi fra le righe delle sue lettere; se quindi l’ultima produzione lirica assume a volte movenze deliranti, può essere dovuto alla finale e
5 Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, Torino 1993, cit.
6 cfr. Paul Celan, Luce coatta e altre poesie postume, traduzione di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1983, pp.
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rovinosa crisi del suo progetto poetico.
Celan se la prende con la lingua: la logica sconnessa dell’ultima produzione è la testimonianza che ha fallito nel suo obiettivo. Ecco allora l’atteggiamento di Celan nei confronti della lingua: aggressivo e vendicativo, tutto un disfare e invertire. Al poeta risulta impossibile recuperare questa realtà sepolta e inoltrarsi nella terra in cui avrebbe potuto trovare una chiave per una riconciliazione con la vita tra i viventi.
Celan è approdato a questi esiti esistenziali e poetici perché il terreno su cui si è voluto addentrare in una cupa solitudine è quello che si trova oltre il confine tracciato da Adorno. Sulla base di questi presupposti è dunque possibile dare una spiegazione a quella tensione spasmodica che si avverte nel lessico inconsueto, nei bizzarri neologismi e composti, nella logica sconnessa delle sue produzioni.
Anche la morte di Celan è da leggersi in questa direzione: il pensiero della morte- soprattutto quella del soggetto-poeta – domina la tarda poesia celaniana e si manifesta in forme sottili e dissimulate, quasi fosse progettata da tempo. Molti sono i richiami e le tracce che ricorrono nelle sue poesie e designano questa scelta: dal salto dal ponte ripreso da alcuni versi di Apollinaire agli emblematici numeri uno e cinque, che rimandano al 1 maggio, giorno in cui Celan è stato ritrovato senza vita nella Senna. Si colgono tracce evidenti anche nelle annotazioni di una lettura che aveva impegnato il poeta nei giorni a cavallo del 1 maggio 1967: il saggio freudiano in cui lo psicoanalista austriaco fondava i concetti di pulsione di morte e coazione a ripetere. Celan fu particolarmente toccato da quella “spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente” per cui “la meta di tutto ciò che è vivo è la morte”7: insomma il Thanatos è l’”al di là di quel principio di piacere” che presiede alla vita.
7 Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, in Gesammelte Werke, XIII, S.Fischer, Frankfurt/M. 1967, p.38 (trad.it. Al di là del principio di piacere, in Opere, IX 1917-1923, Boringhieri, Torino 1977, pp. 222 e 224).
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2.1 L’attività di traduttore
CAPITOLO II Celan traduttore
Se inizialmente la sua attività di traduttore era una semplice fonte di guadagno, nei tardi anni Cinquanta si consolidò gradualmente quale parte integrante della sua produzione poetica, sottostando alla stessa forza innovativa delle sue opere.
Le motivazioni che hanno indotto Celan a dedicarsi alla sua fervida attività di traduttore sono il segno di un grande progetto che si cela dietro al suo interesse per la lingua. La sua madrelingua, eletta lingua poetica per eccellenza in virtù della sacrale fedeltà alla figura materna, si afferma quale fonte del linguaggio. D’altro canto, sempre con un occhio di riguardo ai richiami biografici, anche lo pseudonimo Celan, anagramma della pronuncia in lingua rumena del cognome Antschel, altro non è che un matronimico, adottato dal padre in seguito al matrimonio. Quindi tradurre è un percorso di ritorno alle origini e al plurilinguismo della terra di Bucovina, “terra di uomini e di libri”, dove il tedesco si conferma lingua della cultura per Celan. Quella ufficiale è il rumeno, la lingua parlata in diversi quartieri è l’yiddish (per la forte presenza di popolazione tedesca di origine ebraica), per strada si possono udire parlanti di lingua ungherese o slava, mentre l’ebraico e il latino rimangono le lingue dei testi sacri e delle funzioni religiose. Inserito dalla nascita in questa babele linguistica, il poeta stesso sembra considerare più che naturali le sue eccellenti doti linguistiche.
In questo contesto di apparente assimilazione delle diversità, comunicare in una lingua ebraica è tuttavia un primo passo verso l’emarginazione. E’ così che la parola poetica si presta come mezzo di integrazione e prova estrinseca della sua identità. Francese, inglese e russo, lingue con cui si cimenta fin da subito, sono state quelle che, attraverso i loro autori e non da ultimo gli studi e i soggiorni di Celan in questi Paesi, hanno esercitato un’importante influenza nello sviluppo della sua poetica. Non è solo il caso di Ossip’Mandelstamm: a eccezione dei primi espedienti traduttivi, il suo metro di giudizio nella scelta degli autori si è sempre basato sulle opere che per lui possedevano una forte valenza poetica, o nella quali era possibile rinvenire una particolare vicinanza con le ragioni poetiche, esistenziali o politiche a lui intrinseche. Senza dubbio il richiamo alla sua fede ebraica non può non essere preso in considerazione fra i motivi della sua scelta traduttiva: l’ebraismo si appoggia al testo in forma scritta e in lingua originale e lo indica quale essenziale supporto di base nella preghiera che viene recitata, anzi, sempre pronuciata a voce alta. L’accento sul termine ‘pronuncia’, più che su ‘recita’, è
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rappresentativo di una religione della parola come l’ebraismo: pronunciare, dal latino pronuntiãre, ‘proclamare’, composto di prõ ‘davanti’ e ‘nuntiãre’, implica un ascolto maggiore della parola e del suo significato, articolando i suoni con la voce. La religione della Parola, attraverso la preghiera, si fa testimone della Parola di Dio vissuta. La lettura del testo sacro presuppone la conoscenza delle lingue antiche in un lavoro di interpretazione e traduzione che comporta il ritorno a una lingua precedente. In questo scambio reciproco fra Celan, la parola e la religione, «si assiste al recupero dell’autenticità» 8 e della storia del suo popolo. Al di là della scelta ermetica che lo ha accompagnato in tutta la sua produzione lirica, si manifesta dunque l’esigenza di un disegno di più ampio respiro sul recupero della parola e delle sue origini. Tradurre è portare con sé la sua storia e il senso di appartenenza alla religione ebraica.
Il fenomeno poetico ermetico attira la sua attenzione e si trasforma in un banco di prova per affinare la propria arte poetica mettendosi a confronto con altri illustri letterati. Il confronto con altre posizioni simboliste, P.Valery e S.Mallarmé su tutti, testimonia la volontà di assimilare la poesia altrui, in un movimento dell’interprete teso all’incontro con l’Altro, un lettore ideale in grado di percepire l’apertura indispensabile delle poesie più impervie e di porsi in ascolto. Questo movimento parte dal presupposto che l’interprete prenda le distanze da giudizi complessivi e dalla pretesa di capire il testo al primo tentativo. Il lettore e traduttore si trova ad affrontare una poetica socio-letteraria complessa: l’unica soluzione che gli si prospetta è di soffermarsi sui punti ‘aperti’ della poesia, dai quali può partire il processo di comprensione ermeneutica. La poetica dell’incontro permea la missione poetica di Celan traduttore. Tuttavia, lo stesso Celan si mostra fortemente scettico sull’esistenza di un simile lettore che «percepisca e interpreti questi aspetti nella presenza poetica, elevata dal segreto della sua unicità».
Questa apertura ermetica aveva trovato espressione ne Il Meridiano, uno dei documenti più ardui della sua riflessione poetologica. Esso esprime la tensione implacata di tutta la sua poesia, che tenta la via verso il Tu, definito come una realtà aperta al dialogo e, operando sulla lingua, trasformi il silenzio in incontro, colloquio:
8 Celan, Poesie (1998), cit., p.CLIII
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”Il poema è solitario. Solitario e in cammino.(…) Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dentro l’incontro- dentro il mistero dell’incontro? Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando, e vi si dedica. Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro,è figura di questo Altro”.
Oltre a costituire il titolo del discorso , il Meridiano è il luogo geometrico della poesia di Celan, che conferisce circolarità al percorso della sua poesia: “Trovo qualcosa / come la lingua / di immateriale, eppure terrestre, qualcosa di circolare, che attraverso i due poli ricade in sé e / con tutta gaiezza / attraversa persino i tropici: / io trovo…un Meridiano.”
Nella traduzione, prototesto (=primo testo, testo originale) e metatesto (= testo modificato, testo trasferito)9 sono percepiti come due testi distinti fra loro, all’interno dei quali si affiancano in parallelo due diversi mondi linguistici e la loro forma di realizzazione poetica. Celan non cerca analogia nè identità nella resa linguistica; struttura di dipendenza e gerarchia della traduzione sono solo secondarie alla costruzione di una relazione con l’Altro, in un rapporto dialogico che non prevede la rottura della comunicazione, bensì la sua apertura verso il mondo. Trascurando questi aspetti da lui messi in luce, i critici gli rimproveravano l’inaccessibilità delle sue poesie, poesie dell’assenza e dell’oggetto rimasto indicibile che non si prestano facilmente a modelli di ricezione.
Celan era solito paragonare il processo di traduzione a un viaggio per nave: durante la fase di dattiloscrittura, la traduzione raggiunge la sponda della ‘patria’ linguistica di Celan. Solamente giunti a questo stadio di rielaborazione finale, la traduzione guadagna una sua posizione: da qui diviene possibile entrare in relazione con la poetica del prototesto.
Nel corso della trascrizione si assiste a un momento di catarsi: il traduttore si allontana dal piano diretto e lessicale e rielabora nuovamente il risultato dei suoi sforzi.
Sarebbe questo l’obiettivo del traduttore: conservare l’identità dell’Altro e renderla visibile, poiché altrimenti non sarebbe possibile completare l’incontro; allo stesso tempo cercare un adattamento ed esprimere la propria identità nella sua forma, conservando l’Altro.
9 cfr. Osimo, Propedeutica della traduzione, corso introduttivo con tavole sinottiche, Hoepli, Milano 2001, pp.2-7 19
2.2 Il primo accostamento a Giuseppe Ungaretti
La traduzione delle poesie di Ungaretti rappresenta un unicum linguistico nell’attività traduttiva di Paul Celan. Così come gli sforzi destinati alla traduzione di Pessoa erano rimasti circostritti a poche poesie,10 anche il lavoro compiuto su Ungaretti si limitò alla pubblicazione di due cicli poetici, apparsi per la casa editrice Insel-Verlag nel 1968: La terra promessa (Das verheissene Land) e Il taccuino del vecchio (Das Merkbuch des Alten). In questo caso Celan non si è rivelato il pigmalione di un autore sconosciuto, come lo era stato per il portoghese Pessoa. La sua traduzione segna la conclusione di una fase piuttosto intensa di confronto con la lirica italiana in Germania, che fino a quel tempo non era riuscita a ritagliarsi un posto di primo piano nel panorama letterario contemporaneo.
Tutt’al più un numero esiguo di autori aveva ottenuto un riconoscimento fugace guadagnandosi non di frequente un posto in antologie e riviste.
Si può affermare tuttavia che per Ungaretti si tratti di un caso sui generis: l’interesse per questo autore, le cui opere in concomitanza con le circostanze culturali e ambientali hanno suggerito una poetica comune ascritta sotto i canoni dell’ermetismo, induce altri scrittori su posizioni simboliste a confrontarsi con le poesie dell’italiano. Indubbiamente il contesto poetico di ricezione di modelli e tematiche ungarettiane ha contribuito in modo sostanziale a far nascere in Celan la volontà di mettersi a confronto con Ungaretti.
E’ singolare che il termine ermetismo sia entrato in uso solo verso il 1930, così come il riconoscimento di uno status di ‘precursore’ per Ungaretti, quando egli ormai aveva già dato alle stampe molte sue composizioni, fra cui l’Allegria e Sentimento del Tempo. Non si può ancora parlare di scuola o di corrente consapevole; perché le scelte dei primi, che sono stati a posteriori definiti ermetici, non furono corali, ma piuttosto slegate e autonome. La ricezione da parte dell’opinione pubblica tedesca, mutata nel tempo, è stato uno dei motivi essenziali che spinsero Celan a scegliere proprio l’ultimo ciclo di opere.
Nei lavori ultimi e postumi celaniani, si manifesta l’interesse per i ‘modelli’ di altri autori esistenzialisti, quasi fosse un tentativo di inquadrare la propria posizione poetica, delineando una concezione personale di lingua, espressione delle vicende storiche vissute. Dall’interesse
10 cfr. Pessoa Fernando: Sieben Gedichte. In: Die Neue Rundschau (1956), n°2-3, pp.401-410; per le competenze linguistiche in portoghese e la trad. di Paul Celan, cfr. Peter Gossens, Ute Harbusch, Barbara Wiedemann: In: Fremde Nähe, pp.157-170. Celan als Übersetzer. Un’esposizione dell’archivio di letteratura tedesca con il patrocinio della città di Zurigo, del Schiller-Nationalmuseum di Marbach am Neckar e il municipio di Zurigo, Deutsche Schillergesellschaft, 1997.
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per l’ermetismo e per i simbolisti francesi e russi è scaturita in seguito una sua personale riflessione poetica.
Celan si è trovato ad affrontare, come Ungaretti del resto, il biasimo dei critici sull’uso metaforico
estremizzato della lingua e l’inaccessibilità dei neologismi. Alle critiche Celan risponde richiamandosi alla dimensione umana e reale a cui si rivolgono anche le sue poesie più impervie, e dunque alla possibilità di trovare una chiave di accesso per giungere a una comprensione anche solo basilare.
Sulla necessità di una lettura concentrata, che prenda le mosse dal materiale concreto e reale della poesia (Weltmaterialien), si esprime così in una lettera del 1953 indirizzata a Johannes Hübner e Lothar Klünner:
Sollte es nicht doch einen Schlüssel zur Poesie René Chars geben, einen Schlüssel, der zu den hermetischen Texten einen Zugang verschafft? 11
Nelle opere di Ungaretti veniva riconosciuta invece un’antitesi con/agli/degli gli ideali poetici della tradizione classica italiana: Sentimento del tempo è emblematico di questo sforzo alla ricerca di una connessione fra strutture poetiche tradizionali e linguistiche contemporanee:
ho ora cercato di trovare una coincidenza fra la nostra metrica tradizionale e le necessità espressive d’oggi12
La concezione poetica delle primissime opere, dove ancora tenta un rinnovamento radicale della lingua,
che prende spunto dalla sua poetica della parola, cede il passo all’atteggiamento più riflessivo degli ultimi scritti e si riflette simmetricamente nei topoi, la metrica e le strutture storico- letterarie.
I lavori dell’ultimo Ungaretti erano ben lontani dagli esperimenti degli inizi e il risultato di questa trasformazione è un lavoro di memoria, che offre una descrizione retrospettiva della vita.
L’apertura strutturale della lirica ungarettiana non è sfuggita a Celan traduttore, che ha colto nel confronto con l’italiano la possibilità di porre se stesso rispetto a questa ermetica ‘aperta’.
11 cfr. P. Gossens, Paul Celans-Ungaretti Übersetzung, Edition und Kommentar, Universitätsverlag C.Winter, Heidelberg 2000, p. 55
12 Ibidem, cit. p. 55
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Il raffronto tra i due si distingue per l’Unicità dell’incontro con l’Altro: sembra quasi che Celan voglia andare a verificare se e in che modo si possa parlare di ermetismo per Ungaretti. L’analisi traduttiva in questo caso non costituisce un atto di mera produzione linguistica, bensì una presenza13 che percepisce la poesia e la resa di questa presenza, così come viene percepita da Celan poeta e Celan traduttore. Ciononostante l’accostamento solamente temporaneo e le tematiche parallele non hanno impedito a Celan di sviluppare motivi stilistici e poetici alla luce dell’opera di Ungaretti, seppure i due poeti mantenessero un ruolo diverso nei propri progetti.
Quando comparvero le due raccolte nell’autunno del 1968, i due scrittori erano ormai all’apice della loro carriera che gli avrebbe procurato soprattutto fama postuma. A entrambi era nota la singolarità ed eccezionalità innovativa e artistica, sia propria che altrui. Se nella biblioteca di Celan sono presenti documenti a testimonianza della notorietà di Ungaretti al di là delle Alpi, è probabile che anche lo scrittore italiano avesse letto le opere di Celan. Per la traduzione dei due cicli poetici, un prezioso aiuto arrivò dalla Insel-Verlag, che gli ha fece pervenire i manoscritti delle poesie, nonché dizionari e grammatiche di supporto, fino alle traduzioni della Bachmann, di Marschall von Biebersteins e Viktor Wittkowski, che già si erano cimentati con Il taccuino del Vecchio e La terra promessa.
Altro punto di contatto sono stati un’ampia scelta di poesie raccolte in Une ouvre et un portrait14, antologie varie, giornali e rappresentazioni critico-letterarie. Contatti più personali hanno avuto luogo solamente dopo la pubblicazione delle due precedentemente citate raccolte di poesie nel 1968. La copia di una collana di saggi, Innocence e mémoire, ristampata nel 1969, reca in penna una dedica amichevole per Celan:
Pour mon cher ami / Celan qui a bien / voulu / consacrer son / attention / et son génie / à ma / poesie/ Giuseppe Ungaretti / Paris, le 27/2/1969
Prima di questo incontro a Parigi, si è a conoscenza di appena un altro incontro fra i due: una cartolina che dimostra come Ungaretti avesse già conosciuto di persona Celan tramite degli amici tedeschi, intorno alla metà degli anni sessanta. L’intensità e la frequenza dei loro scambi personali non sono però essenziali per comprendere il rapporto poetico e la misura in cui esso ha influenzato le scelte di Celan. Tre antologie nella sua biblioteca sono esempi di progetti a cui Celan ha partecipato in qualità di traduttore e hanno contribuito in modo
13 Fremde Nähe, p.398 14 collection Gallimard.
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notevole a mutare la sua posizione poetica e traduttiva durante il lavoro sulle opere di Ungaretti.
E’il caso di Die Lyra des Orpheus, das Museum der modernen Poesie e Zur Nacht.15
Oltre alla scelta di presentare alcuni scrittori in una manciata di poesie; per l’antologia Zur Nacht l’emittente televisiva WDR (Westfaelische-Deutsch Rundfunk) aveva deciso di trasmettere una serie di letture di queste poesie. Ungaretti apre la raccolta con Per sempre (tradotto da Celan in Für allezeit). Celan è presente invece con Köln am Hof e Allerseelen. Come dimostrazione di stima e affetto, durante la trasmissione Ungaretti non recita Per sempre seguendo il testo dalla sua edizione italiana, bensì tiene fra le mani la collana con le traduzioni di Celan. Questo messaggio iconografico riflette la reazione di Ungaretti alla traduzione di Celan.
L’ultima dedica personale da parte del poeta italiano è riportata proprio sulla copia di La terra promessa che Celan ha utilizzato durante il suo lavoro.
Caro Celan, / questo libro ha avuto / la fortuna di / pregiarsi e della sua / attenzione e della / sua / interpretazione / generosa. Con affetto e / ammirazione / Giuseppe Ungaretti / Parigi, il 27/2/1969
15 Die Lyra des Orpheus. Lirica popolare in lingua tedesca. A cura e con un saggio introduttivo di Felix Braun. Wien: Paul Zsolnay, 1952. Guillame Apollinaire, Mondschein, trad. di P.Celan, p.556; G.Ungaretti, I fiumi, trad. di Heinz Politzer, pp. 377-379. cfr. anche: Museum der modernen Poesie. A cura di Enzensberger. Frankfurt a.M, Suhrkamp, 1960. La raccolta si apre con Mattina di Ungaretti, trad. di I.Bachmann. Zur Nacht: autori alla WDR, pubblicato dall’ufficio stampa della WDR, a cura di J.Rick. Frankfurt a.M., Brauersche Gießerei, 1969.
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2.2.1 i colloqui editoriali sul progetto Ungaretti (1965-1967)
Anche se la ricerca del traduttore per le opere di Ungaretti si protrasse per alcuni anni, la redattrice della Insel Anneliese Botond non si fece intimorire dalle scadenze dell’agenda editoriale: la qualità aveva la precedenza rispetto a una pubblicazione affrettata. Il riserbo della redattrice è da attribuirsi anche all’importanta che Ungaretti aveva assunto negli ultimi anni: non era più lo scrittore conosciuto soltanto dagli esperti del settore; le sue opere, in particolare quelle più recenti, appartenevano di diritto ai più grandi capolavori letterari ed erano precedute dalla fama del loro autore. La Botond cercava a maggior ragione un traduttore che non fallisse di fronte alla fama e alla grandezza di queste opere.
I criteri su cui basò la sua scelta erano il risultato di un’interpretazione meditata dei possibili traducenti. La redattrice non difendeva una concezione di traduzione ‘libera’ intesa come identità culturale ed equivalenza linguistica.
Era fondamentale che il traduttore mantenesse una certa autonomia poetica di fronte al testo: lo scopo non è la resa traduttiva nella lingua e cultura del ricevente. La direzione in cui si deve muovere il testo tradotto è già implicita nel confronto con Ungaretti: la traduzione, seguendo le riflessioni della Botond, è un processo restitutivo che si avvicina al testo dall’interno e non si limita agli aspetti estrinsechi e alla loro marcatezza. Questo percorso richiede un’attenzione completa da parte del traduttore, che deve affrontare il suo lavoro con la necessaria libertà e fedeltà e dare una lettura critica della propria poesia, prima di riuscire a leggere quelle dell’altro.
A prima vista il traduttore non deve farsi sviare dalla lingua e dalla sintassi apparentemente prive di ostacoli. Le difficoltà maggiori sorgevano infatti nel tentativo di riportare in modo adeguato la concezione poetica e la polisemia linguistica proprie di Ungaretti. Celan si era espresso nel suo discorso Il Meridiano in merito alla capacità dell’artista di ritrarsi e prendere le distanze dal testo. E’ l’opera stessa a creare questa distanza e condurre l’artista in una precisa direzione, dove la meta di questo cammino è sempre l’Altro: sulla base di queste premesse, Annaliese Botond non ebbe più dubbi. Era Paul Celan il traduttore che possiedeva queste qualità.
E’ difficile risalire a quell’occasione che, abbia offerto il pretesto per iniziare l’attività di traduzione. Anche la supposizione più che valida di Leonard Oschner, in base a cui la traduzione sia un regalo per l’ottantesimo compleanno di Ungaretti, non è sufficientemente attendibile.
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Celan esprime il suo desiderio di prendere parte a questo progetto già nel 1965, un anno dopo aver acquistato una copia dell’edizione di Jean Chuzeville.
La Botond cita più volte nella sua lettera del 20 settembre 1965 i progetti letterari che la casa editrice ha messo in cantiere insieme a Celan:
Ihr Besuch im Insel-Verlag hat Spuren hinterlassen, die ich ungern sich verflüchtigen sähe. Ich will ihnen nachgehen.
(Botond 1965: 339)
In un viaggio a Francoforte effettutato ai primi di settembre nel 1965, Celan aveva spontaneamente dato a Klaus Reichert la sua disponibilità a questo progetto, che già veniva rinviato da tre anni.
Meiner Erinnerung nach erklärte sich Celan fast spontan bereit, Ungaretti (…) selber zu übersetzen, was mich überraschte, da mir seine Vertrautheit mit dem Italienischen nicht klar war.16
Il motivo di questo improvviso interesse è difficile da stabilire: forse un incontro fortuito fra i due poeti a Parigi, dove entrambi risiedevano in quel periodo, o ancora, uno studio più intenso delle opere di Ungaretti, che Celan conosceva già tramite le traduzioni francesi o quelle ben più note della Bachmann.
Queste ultime devono aver costituito un grande contributo, se, come si pensa, prima di dedicarsi di persona alla sua versione, Celan avrebbe messo a confronto tutti lavori pubblicati in precedenza da altri traduttori di Ungaretti, anche se, di fatto, il risultato finale conferma la volontà di volersi staccare dai precedenti modelli.Celan si prende del tempo prima di rispondere alla lettera della traduttrice, che insiste sul progetto in diverse occasioni.
Von Tag zu Tag warte ich auf eine Nachricht von Ihnen zu Shakespeare, zu Ungaretti. Vielleicht habe ich Sie mit allzu Plänen überfallen- ich dachte, sie kämen Ihnen entgegen. Ist Ungaretti es nicht wert, dass man sich seiner annimt?
(Botond 1965: 340)
Sembra quasi che il poeta si sia voluto concedere un periodo di riflessione prima di decidere. In realtà, se si presta attenzione al periodo di questo scambio epistolare, è evidente che si trattò di una fase di fervida produzione artistica per Celan: molti progetti si accumularono,
16 lettera di Klaus Reichert a Peter Gossens, 9 agosto 1995.
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lasciando la priorità ad altre pubblicazioni, e vennero ripresi successivamente con più calma. Solamente nell’ottobre 1967 vennero fissati i termini di questo lavoro di traduzione con Klaus Reichert.
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2.3 la scelta delle poesie
Annaliese Botond coglie al volo questa promessa e si affretta a inviargli il materiale necessario:
Sehr geehrter, lieber Herr Celan,
Jetzt erst erfahre ich, erfahre durch Herrn Reichert, dass Sie die Ungaretti Gedichte für uns übersetzen wollen. Ein alter Wunsch ist mir damit erfüllt, Sie wissen es. (…)
Bemühen Sie sich bitte nicht, die Texte zu beschaffen. Ich schicke Ihnen heute die italienischen Ausgaben und auch die französische. Wir haben die deutschen Rechte auf
La terra promessa
Il taccuino del vecchio
Un grido e paesaggi
Da questo momento fino al 8 luglio 1968, quando Celan si incontra con la Botond per un’ultima seduta di revisione del materiale prima della pubblicazione, il poeta lavora continuativamente all’ampia mole di lavoro che lo attende: 56 poesie dell’autore italiano. Se si escludono le brevi interruzioni che l’hanno caratterizzato, si tratta di una fase di lavoro molto intensa che il poeta nel corso di questo periodo non accantona mai per prediligerle altre attività.
Olte alle tre raccolte di poesie, stese da Ungaretti fra il 1950 e il 1960, la Insel aveva acquistato anche i diritti d’autore di alcune composizioni tratte dalla raccolta Sentimento del tempo, che la Botond nomina uno ad uno: da Inni: Danni con fantasia, Caino, La preghiera, Dannazione, La pietà romana, Sentimento del tempo; da La morte meditata: Canto primo- sesto; da L’amore: Canto, (Quando ogni luce), Preludio, Quale grido, Auguri per il proprio compleanno, Senza più peso, Silenzio stellato.
Anche le poesie dalla raccolta Sentimento del tempo appartengono agli ultimi lavori di Ungaretti: la poesia più recente è del 1928, quella più datata risale al 1934.
Celan, come dimostrano le sottolineature e i tentativi di traduzione sulla sua copia personale di Sentimento del tempo, ha analizzato attentamente anche la selezione proveniente da questa raccolta, ma ha poi finito per accettare le poesie proposte dalla Botond. Questo dipendeva anche dalla volontà editoriale di integrare la scelta di poesie tradotte dalla Bachmann con quelle a disposizione di Celan. Le poesie di Sentimento del tempo, ad eccezione di 4 di esse, portate a termine più avanti, vengono accantonate, forse per motivazioni politiche contrarie a quelle espresse in queste poesie degli anni Trenta. L’influenza della traduzione di Ingeborg
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Bachmann non è stato di certo uno dei motivi principali nella scelta della gamma di poesie, anzi, sottovaluterebbe le competenze letterarie di Celan e anche l’importanza di Ungaretti. Celan si è sempre rifiutato categoricamente di definire la sua Poesia entro i parametri di un ermetismo inteso come segno distintivo della lirica moderna. In questo contesto, la posizione di Ungaretti era una base interessante da cui partire per chiarire la propria situazione poetica. Nelle ultime poesie rinvenne una forte vicinanza, quasi ‘fratellanza’ di esperienze personali e letterarie: le poesie della vecchiaia in Ungaretti si distinguono per un’orazione poetica che trae spunto da modelli estetici di avanguardia classicista, a cui si aggiungono un processo di astrazione della materia di esperienza umana e di ispirazione topica e mitica che devono aver affascinato il poeta tedesco.
Da ultimo, motivazioni interiori: nelle ultime opere Ungaretti segue una direzione nuova, che corrisponde a quella presa dalle poesie di Celan, un processo che si fa sempre più ermetico, polifonico e che trasforma in modo decisivo il reale, «esasperando la tensione fra la graduale astrazione in corso e la ricostruzione che ne seguì ».17
Anche la fedeltà alla struttura ciclica, peculiarità di entrambi i poeti, è un altro elemento di comunanza fra i due e segnala la volontà sottintesa di seguire un percorso poetico involutivo ben preciso. Non è poi così azzardato pensare che Celan seguisse già con un occhio di riguardo l’attività poetica di Ungaretti sin dalla sua genesi letteraria, essendo già a conoscenza di questo suo progetto ciclico. Rimane da chiarire fino a che punto le competenze linguistiche in italiano del poeta tedesco fossero sufficientemente avanzate e approfondite da addentrarsi in un simile progetto e come sia riuscito a ovviare a presunte carenze sintattiche o lessicali.
17 cfr. Böschenstein (1982), p.317.
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2.3.1 il metodo di lavoro
La sua attività di traduzione da sette lingue è sempre stata degna di nota: Ciononostante, le sue doti linguistiche sono state accolte dai critici con una certa dose di scetticismo e riserva. Citando le lingue di lavoro, Celan ha sempre fatto riferimento ai soli inglese, francese e russo, tralasciando portoghese, rumeno, ebraico e naturalmente italiano. L’omissione della nostra lingua suscita a questo punto una certa curiosità nel momento in cui Celan si offre di tradurre Ungaretti. L’interrogativo che sorge più spontaneo riguarda la sua personale conoscenza dell’italiano. Tuttavia, in nessuna delle traduzioni proposte si notano errori tipicamente ‘scolastici’ di chi è alle prese con l’apprendimento della lingua: in questo senso si può affermare a maggior ragione che Celan mantenga l’atteggiamento di superiorità che si conviene a un traduttore.
A dire il vero, le sue conoscenze di italiano sono così solide che rappresentano una delle ragioni per cui Celan ha scelto di cimentarsi con questo autore e la qualità del risultato ne è una conferma.
Dizionari monolingue e bilingue, così come un’esaustiva grammatica e le altre pubblicazioni di Ungaretti, sono stati un sostegno indispensabile, reperiti tramite la Insel che si sobbarca i costi e la spedizione del materiale. Questo sostegno logistico lo aiuta nell’aggirare le prime insidie che il testo presenta:
Ich habe bereits angefangen, mich ein wenig darin zu orientieren: die ersten Hürden sind schon deutlich sichtbar. Nun, ich wills trotzdem versuchen- würden Sie bitte so liebenswürdig sein und mir für die Dauer der Übersetzung ein gutes italienisch-deutsches Wörterbuch und, wenn möglich, eine italienische Grammatik in deutscher Sprache zugänglich machen?
(Celan 1967: 341)
Il supporto cartaceo offerto dai dizionari presenta tuttavia un limite quando si traduce in versi: i termini raccolti sono aggiornati al periodo in cui Celan scrive; espressioni cadute in disuso o non ancora consolidatesi non vengono segnalate. Questo vuol dire che il patrimonio linguistico, sia attivo che passivo e funzionale alla mediazione fra le due lingue o al chiarimento di un termine, può offrire un’interpretazione innovativa o conservatrice.
Per prima cosa Celan si dedica all’analisi della genesi del testo e si orienta nell’ambito delle tradizioni culturali-letterarie. I commenti interpretativi di altri traduttori diventano la base stilistica per l’analisi.
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La prima fase di lavoro si riduce all’analisi lessicale, seguita da una lettura del testo originale e delle altre traduzioni a disposizione, reperite anche dall’ Ecole normale Superieure, dove insegna, e dalla Bibliotheque nationale.
Successivamente si concentra sugli aspetti grammaticali, più che altro sintattico-avverbiali, segnalando con un cerchio o un tratto a penna, sul testo o ai margini, i termini che gli danno più problemi.
Da questi segni grafici conservatisi nel tempo, si nota come le difficoltà principali siano di natura lessicale, anche se diverse tipologie di problemi sono presenti. A colpire subito è la completezza di queste annotazioni. Dopo questa prima fase, in cui Celan lavora esclusivamente a penna, inizia il vero e proprio lavoro di traduzione: quando le poesie sono particolarmente brevi, in fondo alla pagina dell’originale si trova la traduzione completa. Se la poesia occupa più spazio, la traduzione inizia in fondo al foglio e continua su una pagina a parte.
Osservando i documenti inseriti dal germanista Peter Gossens nella sua opera di critica Paul Celans-Ungaretti Übersetzung, già graficamente questi accorgimenti danno l’idea che il progetto si snodi in modo sistematico e con una certa regolarità.
La revisione avviene in un secondo momento, consentendo al poeta di riflettere su eventuali dubbi lessicali o semantici. Celan annota le possibili varianti, lascia spazi vuoti quando non è sicuro della soluzione raggiunta, aggiunge precisazioni se la morfologia di una parola non gli è chiara. Anche da questo modo scrupoloso di procedere si può ammirare la professionalità di Celan traduttore. Il lavoro successivo di dattiloscrittura consente di fissare definitivamente anche le correzioni più articolate: tenendo conto che quasi non vi sono tracce di correzioni a penna nella poesia trascritta a macchina, ma la differenza tra il manoscritto e la seconda copia è notevole, è plausibile pensare che fra le due sia trascorso un lungo lasso di tempo, occasione per nuove riflessioni. Durante la trascrizione il poeta vive un momento di catarsi: si stacca dal piano diretto e lessicale e lavora prendendo le distanze dal testo tradotto. La dattiloscrittura è segno di continuità nel processo di traduzione; allo stesso tempo funge da elemento di separazione e unione fra la traduzione ‘letterale’ e quella dove Celan ha già rielaborato anche la poetica traduttiva personale di Ungaretti, di cui la poesia si fa testimone. Il lavoro al Taccuino del vecchio si conclude nel febbraio 1968 e viene inviato(inoltrato) alla casa editrice il 7 febbraio. Solamente dopo si accinge a tradurre La terra promessa. Le poesie del Taccuino sono infatti decisamente più brevi e I Cori più vicini sia tematicamente che linguisticamente alle poesie di Celan. Qui la lingua si allarga alla dimensione delle esperienze private. Dunque Celan potrebbe aver tradotto prima la seconda raccolta perché rappresentava una chiave di
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accesso più semplice a Ungaretti. Celan sceglie di chiudere la raccolta con Per sempre, che già era stato tradotto più volte in passato.
Al contrario, le poesie de La terra promessa, soprattutto quelle più lunghe, come Canzone o Recitativo di Palinuro, presentano maggiori difficoltà, perchè fortemente caratterizzate dalla presenza di modelli della tradizione classicista sia sul piano metaforico che metrico.
Per esigenze editoriali, la pubblicazione delle due raccolte in un unico volume viene fissata per ottobre, quando si apre la stagione autunnale di pubblicazioni della Insel: il volume esce accompagnato dalle foto dei due poeti, affiancati l’uno all’altro in copertina e dalla precisazione: Zweisprachige Ausgabe (edizione bilingue). Il parallelo ottico fra titolo, testo e ritratti ricalca, in senso più ampio, il concetto poetico di incontro dialogico: non vi è luogo migliore per l’incontro con l’Altro se non quello della traduzione. Questo richiamo allusivo all’incontro, che sul piano biografico si limitò a qualche sporadica occasione, si trasferisce, anzi, si estende al piano poetico.
Celan non crede nel bilinguismo della poesia: essa è espressione dell’unicità della lingua. Vicini e nel contempo lontani, i due codici poetici avanzano paralleli senza mai sovrapporsi, rimanendo autonomi e indipendenti. Il poeta tedesco, pur partendo da una posizione differente, ermeticamente parlando, è riuscito a trasferire un codice in un altro, il suo.
In una delle tante critiche al suo lavoro, che riflettono la tensione del lettore, questa trasformazione viene presentata come se Celan avesse cercato di radicalizzarla:
Si può dire che Celan anche in queste traduzioni è stato più ungarettiano di Ungaretti stesso e che ha sviluppato ciò che ha trovato in lui, fondendolo con la sua propria poetica.18
Il tentativo di rilettura, così fedele e innovativo nel suo genere,e anche rinnovato, ha offerto una nuova chiave interpretativa, lasciando aperta al lettore – critico la possibilità di trovare una sua variante ermeneutica, che si differenzia comunque dal lavoro dei suoi predecessori e sottolinea il cambio qualitativo di questa traduzione.
18 cfr.Ursula Vogt: Il nome, il nome, la mano, la mano. Paul Celan traduttore di Giuseppe Ungaretti. Urbino: Montefeltro, 1980, p.38.
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2.3.2 scambi epistolari e documenti inediti
Gli estratti che seguono fanno tutti parte dello scambio epistolare fra la lettrice della Insel e Paul Celan nel periodo dal 1965 al 1968, riguardanti il progetto su Ungaretti. Le risposte di Celan costituiscono una minima parte di queste testimonianze inedite, molte delle quali persino la casa editrice Suhrkamp non è ancora riuscita a reperire per il suo archivio.
Annaliese Botond a Paul Celan, 20 settembre 1965:
Sehr geehrter Herr Celan,
Ihr Besuch im Insel-Verlag hat Spuren hinterlassen, die ich ungern sich verflüchtigen sähe. Ich will ihnen nachgehen.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 20 settembre 1965:
Gent. Sig.Celan,
la sua visita alla Insel ha lasciato dietro di sé delle tracce, che malvolentieri vedrei svanire. Ho intenzione di seguirle.
Annaliese Botond an Paul Celan, 28. Oktober 1965:
Sehr geehrter, lieber Herr Celan,
Von Tag zu Tag warte ich auf eine Nachricht von Ihnen zu Shakespeare, zu Ungaretti. Vielleicht habe ich Sie mit allzu vielen Plänen überfallen – ich dachte, sie kämen Ihnen entgegen. Ist Ungaretti es nicht wert, dass man sich seiner annimmt?
Mich schaudert bei dem Gedanken, dass ich den Knoten zerhauen muss, wenn die vermutlich einzig mögliche Lösung nicht zustande kommt. Schreiben Sie mir doch bitte eine Zeile; ich weiss sonst nicht, ob ich wegen des Valéry oder der Shakespeare Sonette zu Ihnen zurückkommen darf.
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Da Annaliese Botond a Paul Celan, 28 ottobre 1965:
Gentilissimo Sig. Celan,
ogni giorno che passa attendo una sua risposta su Shakespeare, Ungaretti. Credo di averla sommersa di fin troppi progetti – ero convinta che corrispondessero Le corrispondessero. La grandezza di Ungaretti non merita di essere presa in considerazione?
Inorridisco al pensiero di dover lasciar perdere, nel caso non si riuscisse ad attuare l’unica soluzione possibile. La prego di scrivermi poche righe; altrimenti non so se posso ritornare a a Lei per Valery o i sonetti di Shakespeare.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 20 ottobre 1967:
Sehr geehrter, lieber Herr Celan,
Jetzt erst erfahre ich, erfahre durch Herrn Reichert, dass Sie die Ungaretti Gedichte für uns übersetzen wollen. Ein alter Wunsch ist mir damit erfüllt, Sie wissen es.
Nachträglich bin ich fröh, alle bisherigen Übersetzungsversuche – es waren viele – standhaft abgewiesen zu haben. Ich brauche Ihnen nicht zu sagen, wie gern ich diesen Band mit Ihnen machen werde.
Bemühen Sie sich bitte nicht, die Texte zu beschaffen. Ich schicke Ihnen heute die italienischen Ausgaben und auch die französische. Wir haben die deutschen Rechte auf:
La Terra promessa
Il taccuino del vecchio Un grido e paesaggi
und aus Sentimento del tempo die Gedichte Inni
Danni con fantasia
Caino
La preghiera Dannazione
La pietà romana Sentimento del tempo
(/2) La morte meditata Canto primo – sesto L’amore
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Canto
Quando ogni luce…
Preludio
Quale grido
Auguri per il proprio compleanno
Senza più peso
Silenzio stellato.
Nichts zwingt uns aber, dieses alles in unseren Band aufzunehmen. Vielleicht könnten wir uns auf La Terra promessa und Il Taccuino del vecchio beschränken. Das wäre später zu besprechen.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 20 ottobre 1967:
Gentilissimo Sig. Celan,
solo ora sono venuta a sapere dal sig. Reichert che Lei ha intenzione di tradurre per noi le poesie di Ungaretti. Lei ha esaudito un mio vecchio desiderio, sa bene.
A posteriori ora sono lieta di aver rifiutato con così tanta fermezza tutti i precedenti tentativi –e ce ne sono stati tanti – di traduzione. Non c’è bisogno di ripetere che lavorerò più che volentieri a questa raccolta con Lei.
La prego, non si affanni a procurarsi i testi. Le invio oggi stesso le edizioni in italiano e in francese. Abbiamo ottenuto i diritti tedeschi su:
La terra promessa
Il taccuino del vecchio
Un grido e paesaggi
e da Sentimento del tempo, le poesie Inni
Danni con fantasia
Caino
La preghiera Dannazione
La pietà romana Sentimento del tempo
(/2) La morte meditata Canto primo – sesto L’amore
Canto
Quando ogni luce… Preludio
Quale grido
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Auguri per il proprio compleanno
Senza più peso
Silenzio stellato.
Nessuno ci obbliga a inserire tutte le poesie nella nostra raccolta. Potremmo limitarci a tradurre La terra promessa e Il taccuino del vecchio. Ritorneremo più avanti su questo punto.
Da Paul Celan a Annaliese Botond, 26 ottobre 1967: Sehr verehrte Frau Dr. Botond,
haben sie herzlichen Dank für Ihren Brief und die fünf Ungaretti-Bände
Ich habe bereits angefangen, mich darin ein wenig zu orientiere: die ersten Hürden sind schon deutlich sichtbar. Nun, ich wills trotzdem versuchen – würden Sie bitte so liebenswürdig sein und mir für die Dauer der Arbeit an der Übersetzung ein gutes italienisch-deutsches Wörterbuch und, wenn möglich, eine italienische Grammatik in deutscher Sprache zugänglich machen? Meinen Dank im voraus.
Da Paul Celan a Annaliese Botond, 26 ottobre 1967: Gent.ma dott.ssa Botond,
La ringrazio di cuore per la sua lettera e i 5 volumi dei Ungaretti
Ho iniziato a orientarmi: riesco già a intravedere i primi ostacoli. Voglio provare comunque; sarebbe dunque così gentile da farmi avere un buon dizionario italiano-tedesco per il periodo della traduzione e, se possibile, una grammatica italiana in lingua tedesca?
La ringrazio anticipatamente.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, senza data:
Sehr geehrter, lieber Herr Celan,
Ich trenne mich nicht ganz leicht von meinem dizionario, der heute an Sie abgesandt wird. Aber er soll ja Ungaretti zugute kommen. Eine italienische Grammatik ist bestellt, ich werde sie Ihnen später zuschicken.
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Da Annaliese Botond a Paul Celan, senza data:
Gentilissimo Sig. Celan,
non mi separo tanto facilmente dal dizionario che Le spedisco oggi, ma le tornerà utile per Ungaretti. Ho ordinato anche la grammatica, Le verrà inviata più avanti.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 13 gennaio 1968:
Sehr geehrter, lieber Herr Celan,
Sie fragen mit Recht nach der Übersetzung des Taccuino del vecchio. Ich bekam aber erst vor ein paar Tagen die Ausgabe zugeschickt, und was da ankam, hat ein so monströses Format, dass ich den Text zuerst abschreiben lassen musste. Glücklich scheint mir diese Übersetzung nicht zu sein, und ich sehe eigentlich noch keine vernünftige Lösung für unser Problem, baue also auf Sie (…)
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 13 gennaio 1968:
Gentilissmo Sig. Celan,
mi chiede a ragione la traduzione del Taccuino del vecchio. Ho ricevuto però solo qualche giorno fa l’edizione, ma quella che mi è arrivata è in un formato talmente inguardabile che ho chiesto di farla trascrivere. Fortunatamente non si può dire lo stesso di questa traduzione e non vedo altrimenti una soluzione più ragionevole al nostro problema; faccio affidamento su di Lei (…).
Da Paul Celan a Annaliese Botond, 23 gennaio 1968:
Sehr verehrte Frau Dr. Botond,
hier kommt der Supervielle – Umbruch – leider gibt es recht viel zu korrigieren, und ich weiss nicht, ob ihn nicht noch einmal zurückerbitten soll.
Bitte sehen Sie ihn durch und entscheiden Sie.
In den nächsten , vielleicht schon allernächsten Tagen hoffe ich Ihnen eine erste Fassung von Il Taccuino del Vecchio vorlegen zu können. (…)
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P.S. Die Durchsicht der Valéry-Übersetzungen möchte ich, um mich intensiver mit Ungaretti beschäftigen zu können, nicht übernehmen.
Da Paul Celan a Annaliese Botond, 23 gennaio 1968:
Gent.ma sig.Botond,
con la presente Le invio le correzioni di Supervielle19; purtroppo ci sono molte correzioni da fare e non so se devo chiedere ancora una volta di restituirmi il testo. La prego di leggere e decidere.
Nei prossimi giorni, forse prima, spero di poterle presentare la prima versione del Taccuino del vecchio.
P.S. Per concentrarmi meglio sul lavoro di Ungaretti, sarebbe meglio che NON mi venisse assegnata la revisione delle traduzioni di Valéry.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 30 gennaio 1968: Sehr geehrter Herr Celan,
schönsten Dank für die Supervielle-Korrekturen. Wir werden dafür versorgt, dass sie genau ausgeführt werde. Die Druckerei ist zuverlässig. Ich glaube, ich kann Ihnen die Revision guten Gewissens ersparen.
Sie haben Taccuino del Vecchio neu übersetzt: ich glaube, das ist die beste Lösung. Ich bin sehr gespannt auf Ihren Text.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 30 gennaio 1968: Gent. sig. Celan,
i miei ringraziamenti più sentiti per le correzioni di Supervielle. Ci occuperemo noi che vengano rispettate nei dettagli. Si può fare affidamento sulla stamperia. Credo di poterle risparmiare la revisione guten Gewissens.
Ha tradotto Il taccuino del vecchio in modo nuovo: la sua sembra la soluzione migliore. Attendo con ansia il suo testo.
19 cfr. Gedichte (Poesie) di Jules Supervielle, Insel, Frankfurt am Main, 1968.
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Da Paul Celan a Annaliese Botond, 07 febbraio 1968: Sehr verehrte Frau Dr. Botond,
hier kommt meine Übersetzung von Ungarettis Taccuino del Vecchio; es ist eine erste Fassung, und ich bitte Sie um eingehende, kritische Lektüre.
Ich habe mich vor allem darum bemüht, die Härten und Spannungen zu wahren, aus denen das Original lebt. Hoffentlich habe ich Ihre Erwartungen nicht enttäuscht.
Da Paul Celan a Annaliese Botond, 7 febbraio 1968:
Gent.ma dott.ssa Botond,
eccole la mia traduzione del Taccuino del vecchio di Ungaretti; si tratta di una prima versione, per questo Le chiedo di leggerla in modo critico e approfondito.
In particolare, mi sono sforzato di conservare le difficoltà e le tensioni che animano l’originale.
Spero di non deludere le sue aspettative.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 25 marzo 1968:
Sehr geehrter Herr Celan,
Wir werden in den nächsten Tagen die Umschläge unserer Herbst-Bücher in Auftrag geben, also nach Möglichkeit auch den zu Ungaretti. Ich denke, wir werden am besten die Titel beider Zyklen auf die Titelei stellen, also das Merkbuch des Alten und La terra promessa. Ob Sie mir jetzt schon sagen können, wie Sie diesen zweiten Titel wiedergeben wollen?
Ursprünglich, als wir neben den beiden Zyklen auch noch eine Auswahl aus den Späten Gedichten in den Band aufnehmen wollten, hatten wie vorgehabt, die Einleitung Ungarettis zu der französischen Ausgabe seiner Gedichte unserem Band voranzustellen.
Ich habe die französische Ausgabe leider nicht mehr hier und den Text nicht mehr so im Kopf, dass ich berurteilen könnte, ob diese Einleitung den beiden Zyklen, die wir bringen werdem vorangestellt werden kann. Ich vermute aber – nicht, und wäre Ihnen dankbar, wenn Sie sich den Text daraufhin nochmals ansähen und mir
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Bescheid gäben.
Da Annaliese Botond a Paul Celan, 25 marzo 1968:
Gentilissimo Sig.Celan,
nei prossimi giorni ordineremo le copertine per i libri in uscita questo autunno, tra cui, se possibile, anche quello di Ungaretti. Penso che i titoli – Il taccuino del vecchio e La terra promessa – di entrambi i cicli verranno inseriti nelle pagine iniziali del volume: sarebbe così gentile da comunicarmi già ora la traduzione che ha scelto per questi due titoli?
Originariamente, quando volevamo inserire nella raccolta anche una scelta delle ultime poesie, oltre ai due cicli, avevamo previsto di farla precedere dalla prefazione di Ungaretti all’edizione in francese delle sue poesie. Purtroppo non dispongo più dell’edizione francese, nè la mia mente riesce a ricordare il testo, ho un ricordo chiaro del testo, che mi permetta di calutare se è il caso di inserire la prefazione nei due cicli che pubblicheremo. Temo però di no; Le sarei grata quindi se rivedesse ancora una volta il testo e mi desse comunicazione.
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2.4 Celan e l’Italia
Un confronto tanto singolare quanto quello fra Celan e Ungaretti richiede un’analisi più attenta e articolata che ripercorra il contesto culturale italiano che lo ha influenzato e l’immagine dell’Italia che egli ha delineato nelle sue opere.
Questo percorso a ritroso dimostra come, in un certo qual modo, i due scrittori si siano sentiti vicini, se non accomunati, da motivi e strutture poetiche che sono poi sfociate in soluzioni anche distanti fra loro.
A questo risultato hanno contribuito senza dubbio le vicende biografiche parallele e non, dalle quali si può dire che la lirica di Celan è uscita ‘trasformata’.
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2.4.1 Assisi
Celan ha intrapreso due viaggi in Italia in circostanze ben diverse: ad Assisi nel 1953 per far visita ai luoghi sacri della storia francescana; a Roma e Milano undici anni più tardi (1964), in occasione della lettura di alcune sue poesie.
Dal primo viaggio ha riportato due souvenir: la monografia di G.K.Chestertons dal titolo St.Francis of Assisi e l’edizione italiana dei Fioretti del Santo. L’ispirazione che ha tratto da questo pellegrinaggio traspare nella poesia Assisi, la quarta del secondo ciclo – Con chiave alterna – inserita nella seconda raccolta Di soglia in soglia:
Umbrische Nacht.
Umbrische Nacht mit dem Silber von Glocke und Ölblatt. Umbrische Nacht mit dem Stein, den du hertrugst. Umbrische Nacht mit dem Stein.
Stumm, was ins Leben stieg, stumm. Füll die Krüge um.
Irdener Krug.
Irdener Krug, dran die Töpferhand festwuchs.
Irdener Krug, den die Hand eines Schattens für immer verschloß. Irdener Krug mit dem Siegel des Schattens.
Stein, wo du hinsiehst, Stein. Laß das Grautier ein.
Trottendes Tier.
Trottendes Tier im Schnee, den die nackteste Hand streut. Trottendes Tier vor dem Wort, das ins Schloß fiel. Trottendes Tier, das den Schlaf aus der Hand frißt.
Glanz, der nicht trösten will, Glanz. Die Toten – sie betteln noch, Franz.
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ASSISI20
Notte umbra.
Notte umbra con l’argento di ulivo e campana. Notte umbra con la pietra che portasti fin qui. Notte umbra con la pietra.
Muto, ciò che pervenne alla vita, muto. Travasa le urne.
Urna di terra.
Urna di terra, cui la mano del vasaio crebbe tenace.
Urna di terra, che la mano di un’ombra chiuse per sempre.
Urna di terra col sigillo dell’ombra.
Pietra, ovunque guardi, pietra. Fa’ entrare l’asinello.
Trotterellante.
Trotterellante nella neve sparsa da nudissima mano. Trotterellante davanti alla parola che si richiuse da sé. Trotterellante asinello, che bruca il sonno dalla mano.
Splendore, che non sa confortare.
I morti, francesco, implorano ancora.
La versione italiana esemplifica come alcune metafore ricorrenti in Celan (pietra, asinello e mano) rimandino alla traduzione biblica di Lutero e, a loro volta, agli affreschi di Giotto e ai motivi della monografia di Chestertons. In Assisi Celan ricorre a una struttura retorica che conferisce musicalità, una figura già sperimentata in precedenza in Fuga dalla morte (Todesfuge): la ripetizione. La sua forma e struttura sostituiscono la descrizione metaforica
20 Celan, Poesie, cit. pp. 180-181.
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dell’oggetto. L’ostinato delle strofe 1, 3 e 5, in una sorta di ‘gioco’ con le strofe più brevi e iniziatiche 2, 4 e 6, richiama la forma liturgica dei canti alternati (Wechselgesänge), dove nella funzione cantata, l’antifona del solista si alterna alla risposta del coro. A questo proposito anche il tema segue una struttura simile: l’ultimo verso della seconda e quarta strofa, così come il titolo Assisi, suggerisce il tema della strofa successiva, che si interrompe alla fine degli ostinati. Ogni motivo fa parte del patrimonio iconografico della vita francescana: questo fa sì che la poesia possa essere inserita in una dimensione di fede. Il componimento si chiude con l’immagine di un pellegrino privo di speranze, che ha fallito nel trovare ad Assisi un luogo per i morti. L’alternanza dei motivi nelle strofe si concretizza nelle immagini di Assisi e del suo Santo, a cui l’Io lirico rivolge un appello affinchè offra una dimora alle vittime della Shoah.
L’ordine francescano non è l’unico nodo centrale della poesia: la raccolta Di soglia in soglia è dedicata alla moglie Gisèle, con la quale aveva visitato Assisi. La somiglianza fra l’anagramma Celan, da Antschel, e il nome dell’autore della prima biografia di S.Francesco, Tomaso di Celano, potrebbe essere stata un’altra delle ragioni che hanno spinto il poeta a recarsi in questa città.
I rimandi biografici si susseguono: Grabschrift für François testimonia un’altra vicenda privata, la morte del figlioletto dopo soli pochi giorni; così che l’epitaffe per il figlio si traduce in un senso di fallimento che permea tutta la raccolta e acutizza l’impossibilità di trovare un rifugio ad Assisi. Lo sfarzo del luogo, custode di reliquie sacre, si contrappone ai morti che elemosinano: la traduzione di Bettler con ‘implorare’ non rende ragione del riferimento all’azione di elemosina portata avanti dai primi francescani, suggerita dal verbo ‘betteln’.
L’annientamento nei mulini della morte (Mühlen des Todes)21 e il seppellimento in fosse comuni, per cui si è reso impossibile riconoscere i propri famigliari, ha privato i morti della loro forma, nonché di un luogo dove poter riposare e su cui pregare.
Simbolicamente la pietra è tomba della vita, ma anche ricordo e commemorazione: delle vittime della Shoah, ma anche di François.
Allo stesso tempo, nella pietra si cela un’enorme potenzialità vitale, come prefigura la
21 ‘I mulini della morte’ (die Mühlen des Todes) non sono una metafora, bensì un’espressione nata per definire i campi di concentramento, quando ancora venivano considerati un tabù. In una lettera a Dietlind Meinecke, Celan scrisse: «Francesco in Assisi e i mulini della morte non sono poi così differenti», paragonando l’uso del nome Franz a quello dei mulini. Cfr. le note al colloquio tra D.Meinecke e Celan (settembre 1966) su Spät und Tief, in: Kartei Gedichte I, Celan-Arbeitsstelle.
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mitologia antica nella leggenda di Deukalion e Pyrrha,22 il titolo provvisorio che Celan aveva pensato per la sua Spät und Tief: Deucalione e Pirra erano gli unici sopravvissuti a un terribile diluvio, provocato dagli dei per punire gli uomini. Ritiratesi le acque, Deucalione chiese a Zeus di poter ricostituire il genere umano: questi gli ordinò di prendere delle pietre e lanciarle dietro le sue spalle. Subito, dalle pietre di Deucalione nacquero dei fanciulli; da quelle di Pirra della fanciulle.
E’ evidente che Celan aveva pensato a questo mito al momento di comporre la poesia: la pietra è dunque custode della vita e potrebbe restituirla a chi non può più parlare, perché è muto (stumm) e non ha più una vita, ma vorrebbe rinascere, come nel mito di Deucalione.
Se ci si limita a un’interpretazione del testo che trascuri il mito greco e si circoscriva all’appello al Santo, l’impressione è che Celan metaforizzi in Assisi la negazione della lingua, imprigionata nella pietra, quasi fosse la tomba del suo testo.
Diversamente, se si avanza un altro tipo di interpretazione sulla base del mito di Deucalione e Pirra, la creazione che riprende vita nella pietra può essere intesa come riscoperta della lingua. Se fosse così, paradossalmente ci troveremmo di fronta a una revisione della lingua dopo Auschwitz, che può ancora offrire un sostegno alla poesia e alla vita umana, capovolgendo i capisaldi e le conclusioni a cui Celan giunse nel dopoguerra.
Il primo soggiorno in Italia è stato nel suo genere un’esperienza catartica per Celan. In realtà sappiamo con certezza che il punto di partenza e di arrivo di Assisi, la ricerca vana di consolazione, che aveva auspicato di trovare in questo viaggio, non arrivò mai: le successive composizioni poetiche mostrano come questa speranza venga delusa. Questo primo momento iniziatico per il poeta è un’occasione per ripensare il tema del genocidio in termini poetici e di radicalizzare le sue possibilità linguistiche. Il tema del ricordo, che pesa così tanto alla coscienza del poeta, è il punto di partenza della revisione poetica successiva che l’ha portato a ritirarsi sempre più in un’ ‘apparente’ ermetismo e al cristallizzarsi delle figure retoriche in La rosa di nessuno.
22 Una delle fonti di questo mito antico è la Metamorfosi di Ovidio, I, pp.311-415. Cfr. anche la Saga dell’antichità classica di Gustav Schwabs, a cura di Böschenstein-Schäfer, Heidelberg 1989, p.8.
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2.4.2 Celan e la poesia italiana
La biblioteca di Celan, che tante volte si è rivelata un’importante fonte di documenti inediti, non può essere d’aiuto nel caso dei poeti italiani: se la adottiamo come criterio per valutare il suo interesse nei confronti della cultura di questo paese, allora il suo interesse per la letteratura italiana sembra quasi irrisorio. Lo spazio più consistente è dedicato naturalmente a Ungaretti; mentre gli altri autori italiani di spicco – Montale, Pasolini, Pavese e Saba – sono rappresentati con un volume ciascuno. A questi si aggiungono diverse antologie che offrono più che altro un compendio di letteratura italiana a carattere orientativo e non un tentativo di approfondimento. I grandi maestri del classicismo Leopardi, Michelangelo e Manzoni non sono neppure presenti. Tuttavia, tre nomi di altri autori e le loro rispettive opere compaiono tra gli scaffali e affiancano l’interesse per Ungaretti: Parmenide, Dante e Petrarca.
Ora, potrebbe sembrare alquanto insolito citare Parmenide fra gli autori italiani, essendo ben nota a tutti la sua origine greca: eppure, molti pre-socratici, i cosidetti eleati, vivevano nelle regioni costiere del Sud Italia che rientravano a quel tempo nelle colonie della Magna Grecia. Anche Parmenide può essere dunque annoverato fra i più antichi filosofi attivi anche in Italia. L’interesse per i frammenti pre-socratici si inserisce nella lista di topoi che si riconoscono nelle opere di Celan, che è giunto alla loro lettura passando per Heidegger.
Sempre partendo dal pensiero pre-socratico, Celan si è avvicinato a Dante Alighieri. Nella sua Stretta (Engführung), si legge al verso 4-5:« wir lasens im Buche, war Meinung. / War, war / Meinung. Wie / faßten wir uns / an – an mit / diesen / Händen?»23 L’immagine della coppia che legge può essere solo dedotta dal Canto V (127-138) dell’Inferno dantesco, nel quale i due amanti Paolo e Francesca leggono le peripezie del cavaliere Lancillotto. Celan gioca con questa allusione e crea un filo diretto con la sua esistenza: Paolo è un rimando al suo nome, mentre Francesca, così come era stato per Francesco di Assisi, si lega per analogia alla provenienza della moglie (Francesco= colui che proviene dalla Francia – François; Francesca – Gisèle, la francese).
Una mediazione così ‘stretta’ fra i due si trova anche nelle altre poesie che alludono a Dante. L’allocuzione pubblicata con il titolo Il Meridiano è stata letta dal critico Klaus Manger in relazione diretta al viaggio di Dante nell’Aldilà. Molti elementi del discorso suggeriscono che Celan abbia personalmente rielaborato la lettura della Divina Commedia, soffermandosi sull’Inferno in particolare.
23 «Noi / lo leggemmo nel Libro, / ed era / opinione. / Era, era / opinione. Come / ci afferrammo / l’un l’altro – con / queste / mani?» cfr. Stretta, nella raccolta Grata di parole, in: Poesie, Celan, cit. pp. 336-337-338-339.
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Il percorso che l’ha portato ad avvicinarsi a Dante si spiega interpretando le tracce storiche e ben documentate che ha lasciato dietro di sé: era stato Mandel’stam a introdurlo a queste lettura, prestandogli una versione russa di Michail Lozinskij della Divina Commedia. Celan legge e lavora a questa edizione nel Dicembre 1961, quando si intensifica anche la ripresa della letteratura russa. Questo atteggiamento è il riflesso di un desiderio di cultura mondiale, per cui le letture ‘cosmopolite’ di Celan si rivolgono soprattutto a Ossip Mandel’stam. Il legame con il russo viene rafforzato dal paragone con il Petrarca in Incoronato della raccolta La rosa di nessuno. Qui, come per Dante, Celan avverte una forte vicinanza, quasi fisica, oltre che poetica, ai russi e il Petrarca stesso assurge al ruolo di mediatore: «Und wir sangen die Warschowjanka. Mit verschilften Lippen, Petrarca. In Tundra-Ohren, Petrarca».24 La memoria di Mandel’stam, morto in esilio, si estende ai due più grandi poeti italiani che videro la stessa sorte; per cui esilio e destino sono il trait d’union fra questi poeti, affiancati dalla figura stessa di Celan, la cui sorte lo ha separato dal paese di origine in maniera definitiva. Senza che vi sia una particolare vicinanza tematica, la ripresa di forme preistoriche – testimonianze dei primi modelli di riproduzione e memoria dell’uomo – lo riportano al punto di partenza della storia dell’uomo, intesa anche come nascita della lingua e delle prime forme espressive. Il ritorno alle fonti arcaiche e mitiche è forse l’ultimo tentativo di riscoprire una lingua che sia conforme alla sua poetica esistenziale e lo sorregga nell’intento di ricostruire la parola dopo Auschwitz.
Anche queste coordinate storiche contribuiscono ad allontanare Celan dalla poesia espressionista contemporanea che contempla il ritorno alle forme classiciste come modello per tutte le correnti letterarie successive.
24 «E noi cantavamo la Warschowjanka. Con labbra invase dal giunco, Petrarca. In orecchi da tundra, Petrarca». Ibidem, pp-466-467.
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CAPITOLO III
STORIA DI UNA TRADUZIONE
3.1 LA GENESI DELLA TERRA PROMESSA
La Terra promessa è fra le più impervie raccolte di versi di Ungaretti. Le difficoltà che il lettore riscontra sono per certi aspetti il riflesso di quelle che l’autore ha incontrato nella stesura di quest’opera tormentata. Ideata come il grande capolavoro che avrebbe dovuto esprimere il meglio del messaggio ungarettiano, La Terra Promessa rimase nella mente del poeta per lungo tempo: la datazione di inizio del lavoro (1935) non è convincente e diversi passi di precedenti opere fanno pensare che Ungaretti avesse già in animo questa composizione. Le disgrazie personali in Brasile (la perdita dell’unico fratello Costantino e del figlio Antonietto per malattia) lo privarono dell’occasione di terminare il lavoro, cosicchè la stesura definitiva non è l’opera organica immaginata, ma solo una raccolta dei frammenti trascritti e rielaborati fino al 1953.
La Terra Promessa è un libro scritto con grande lentezza perché continuamente interrotto, anche da altra poesia come quella del Dolore. C’era una tragedia nel mondo, c’era anche una tragedia che mi aveva colpito nei miei particolari affetti, e naturalmente le ricerche di pura poesia dovevano cedere il posto alle angosce, ai tormenti di quegli anni. 25
Tutta l’opera risente della frequentazione di Petrarca e di Leopardi, nonché di Virgilio: questo vale soprattutto per la tecnica espressiva, ma anche per i motivi tematici. Il lavoro si comprende meglio alla luce delle influenze nella sua formazione da parte di Valéry, Mallarmé e di altri decadenti francesi.
Il motivo più evidente di tutta questa composizione è quello della decadenza nella sue varie accezioni: dell’uomo alla soglia della vecchiezza, di una civiltà oltre una certa soglia di sviluppo, di una cultura giunta alle sue estreme conseguenze. In questa chiave l’opera si potrebbe definire il poema dell’assenza della giovinezza, dell’amore o della vita. Assenza intesa non come inesistenza assoluta, ma come perdita di qualcosa di esistente, magari posseduto più o meno consciamente in precedenza.
25 crf. G. Ungaretti: Vita d’un uomo. Tutte le poesie. A cura di Leone Piccioni. Milano: Mondadori, 1990 [=UP], p.549
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Il ritorno terreno al paradiso perduto è inammissibile in quanto l’uomo tende ad allontanarsi sempre più dalla perfezione primordiale; ma determinate condizioni ambientali e mentali gli permettono di giungere alla conoscenza di tale mondo sia pure per brevissima illuminazione, durante la quale la realtà comune scompare (e con essa la memoria, figlia del tempo) e diviene percepibile la realtà autentica, slegata dal tempo e dallo spazio.
Di tale esperienza rimane solo la poesia, tenue testimonianza. In tal senso la parola è più reale dell’imperfetta materia: mentre questa tende al nulla, al deserto, quella, sia pure imperfettamente, indica la vera meta, la Terra Promessa.
La struttura ciclica delle precedenti opere è tutta percorsa dall’intento di seguire il cammino dell’uomo dall’innocenza infantile alla meta post-mortem, dall’Eden alla Terra Promessa. Il paese innocente che nella Terra Promessa diventa l’ossessiva mira del poeta, era già l’oggetto della ricerca ne l’Allegria: questa raccolta era nata nel 1931 dalla fusione di due precedenti sillogi, il Porto Sepolto del 1916 e Allegria di Naufragi del 1919, con l’aggiunta di alcune composizioni.
Il mito del Porto sepolto che dà il nome alla primissima raccolta venne suggerito dalla notizia di un porto sommerso in Egitto di origini pretolemaiche che per il poeta simboleggiava il segreto che esiste in ogni uomo. Questa sarà la base non casuale per tutta l’Allegria e buona parte della successiva produzione. Ungaretti ne aveva sentito parlare durante l’infanzia in Egitto da due cari amici, i fratelli Thuile; il porto era quello di Faros, colossale costruzione di epoca faraonica che il tempo aveva appunto sepolto. A loro deve quindi l’immagine a cui legherà il suo titolo, forse il più emblematico. Ma nel carme rappresenta, come ha annotato lo stesso autore, «ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile». Compito del poeta è portare alla luce questo segreto, svelare il mistero; solo il poeta può fare questo in quanto può attingere certi piani dell’essere lontani dal reale, insiti tuttavia in ogni uomo. La divulgazione del messaggio scoperto avviene attraverso l’unico strumento idone: il canto, che, trascritto, diviene quasi una creatura viva. La scoperta rappresenta l’essenza della vita, la sconfinata conoscenza di una purezza che può essere intuita solo parzialmente anche dal poeta ( «a lampi», o per mezzo di «momentanee intuizioni») e da questi testimoniata. Il poeta si inabissa nel fondo oscuro del proprio essere, per poi prendere la parola tornando alla luce: riemergendo cioè dai territori sepolti dell’inconscio. Il suo canto non sarà altro che eco lontano, reminescenza di quell’«inesauribile segreto».
Parallelamente, nel Commiato che conclude il Porto, la parola della poesia, quando viene ritrovata, “scava” nella vita “come un abisso”. Nella vita di chi la scrive (ma anche di chi la ascolta), ogni poesia è dunque traccia immanente dell’abisso che solo il poeta può perlustrare.
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Il porto è il luogo di ogni avventura e di ogni incontro, ma anche porta sempre aperta alla tentazione di scappare, luogo di ogni possibile partenza, che per l’esule è nient’altro che il fantasma del ritorno, sempre rinviato, ma al quale mai cessa di anelare. Lo stesso ritorno verso quella terra che tanti anni dopo Ungaretti chiamerà Terra Promessa. «Il porto è per me il miraggio dell’Italia, di quel luogo imprecisato e perdutamente amato». La lingua resta l’unico cordone ombelicale a legare l’esule alla patria mai vista, la stessa lingua che aiuta il poeta a fissare nella memoria i miti e e le immagini famigliari.
Il Porto Sepolto svela anche il senso ideologico del naufragio. La linea mitica che ripercorre Ungaretti per l’immagine del naufragio si ispira direttamente a Dante e Virgilio e giunge fino a Leopardi. Il naufragio altro non è che un segno dell’esistenza sempre in marcia dell’uomo e della sua tensione verso l’innocenza.
L’allegria è interamente percorsa da immagini di sprofondamento e di immersione. Il poeta è colui che si immerge nell’oscurità di un universo sommerso e sfuggente nei contorni: è il riflesso della sua esistenza prenatale. Si capisce come la spasmodica ricerca di appartenenza del poeta non potesse che restare un limite. Il paese innocente al quale anela, il porto di arrivo (Nostos), non potrà che rimanere sempre sepolto all’interno di sé e del proprio corpo.
Appare necessaria una precisazione dei contorni e della sostanza della sua intuizione: messaggio umano e messaggio poetico non sono disgiunti. Così, se per la sua opera ha scelto significativamente il titolo di Vita d’un uomo, per lui si potrebbe creare il soprannome di “Poeta della Terra Promessa”. Il suo protestarsi esule in quanto uomo è, infatti, la premessa per una vita intesa come itinerario verso una meta la cui definizione si evolve e si chiarisce di continuo. In tale ricerca ha esercitato la funzione ritenuta più peculiare per il poeta: la scoperta del mistero che è in ognuno di noi, illuminando gli altri uomini, riconciliando per essi mistero e vero. Per vero non intende la realtà quotidiana, ma quella autentica di un favoloso mondo perduto.
Il momento della rivelazione individuato nell’aurora (con tutto quel senso di nascita, speranza, rinnovamento, colore e sogno di cui è carico letterariamente il termine) è angosciante perché il poeta si sente nella dimensione edenica e il rientro improvviso dall’illusione è crudele.
La vita terrena è un esilio dalla vera dimensione, della quale rimane un vago ricordo, tramandato dalle varie tradizioni; e il singolo come l’umanità tendono a reintegrarsi nelle posizione preternaturale.
La morte è l’unico elemento di certa comunione dell’amore terreno e divino; rimane pertanto il misterioso strumento di purificazione dello spirito umano per giungere a quella ‘materia
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innocente’ che sola può entrare nella Terra Promessa. Amore e morte sono dunque i pilastri della poesia ungarettiana, come del resto egli stesso racconta nel Taccuino del Vecchio.
Il mito racchiuso nel titolo, quello della Terra Promessa, era anche nelle religioni più antiche quello a cui gli uomini tendevano per appagare da mortali il loro bisogno di immortalità. Rivincita sulla materia che si dissolve, della vita oltre la morte, la terra di Ungaretti trasferisce il richiamo biblico alla promessa evangelica.
E’ fondamentale ricordare che nel tradurre La Terra Promessa Celan deve aver pensato alle sue radici ebraiche, ma sapendo che Ungaretti aveva altri intendimenti, tra cui quelli appena esposti in questa tesi, ha tradotto con verheissen e non gelobt, in quanto Das gelobte Land è appunto la Terra Promessa della legge mosaica. In questo si è dimostrato attentissimo non solo nel rendere i concetti, ma anche le formule espressive proprie di Ungaretti, senza snaturarli della loro sostanza.
La raccolta si suddivide in sette sezioni minori, delle quali la parte più corposa, i diciannove Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, allude al racconto virgiliano di Didone ed Enea nel quarto libro dell’Eneide. L’eroe troiano era naufragato sull’isola della sovrana mentre stava fuggendo dalla sua patria distrutta dalla guerra. L’amore fra i due è destinato a durare per breve tempo: Enea non può sottrarsi al compito ricevuto dagli dei di cercare la Terra Promessa, individuata in quelle coste italiche dove avrebbe dovuto dare vita alla discendenza latina. Né la sua volonta né l’amore per Didone lo possono trattenere dal proseguimento del viaggio, incalzato anche dall’anima del padre defunto che lo esorta a ripartire. Didone non vuole credere alle spiegazioni di Enea e maledice la sua impresa, invocando odio e guerra fra i loro due popoli La tragica situazione in cui precipita la regina dopo la partenza di Enea non è solamente dovuta alla sofferenza amorosa, ma alla paura di rimanere sola. Salpata la nave dal porto, la regina, che già durante l’ultima notte aveva meditato di togliersi la vita, decide di mettere al rogo tutti i ricordi e le armi dell’amato e di trafiggersi con una spada sulla pira. Senza entrare nel merito del fatto tragico e delle sue cause reali, Ungaretti cerca di avvicinarsi alla persona di Didone. Il momento che scatena l’epilogo per la regina non è il distacco da Enea; la sua ‘caduta’ era già iniziata ben prima, quando la sua figura fa la comparsa nel primo libro.
Le riflessioni sull’autunno della vita, la perdita della giovinezza e dell’attrattività vissuti in prima persona dalla figura mitica della regina, non cercano solamente di carpire le vicende antiche nella loro sfera più intima: la presenza della materia antica, esplicitata nel titolo, si rivela un’occasione per meditare sulla condizione dell’uomo contemporaneo, una cornice di riferimento per gli stati d’animo rappresentati in riferimento alla perdita e alla morte. Alla
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stregua di Palinuro, Didone non viene presentata unicamente come figura storica, bensì modello di esperienze umane.
Didone veniva a rappresentare l’esperienza di chi, nel tardo autunno, stia per varcarlo; l’ora in cui il vivere stia per farsi deserto: l’ora della persona dalla quale stia per separarsi, tremendo, orribile, l’ultimo fremito della gioventù. Didone è l’esperienza della natura contro quella della morale (Palinuro).26
I sentimenti di Didone di fronte alla partenza di Enea sono il paradigma dell’invecchiamento dell’uomo, del suo fare esperienza di solitudine e tristezza nel momento della morte della persona amata. L’esempio del destino del singolo si estende come esempio del destino dell’umanità, di una civiltà intera. Si ha l’impressione che Ungaretti, come Leopardi, chieda all’Antico non modelli di sapere, né di fruizione o intrattenimento letterario come il Petrarca, ma esempi di vita. Il motivo della «solitudine umana»27 è una costante significativa della sua poesia che trova le sue radici nelle rappresentazioni epiche di Virgilio e nel cambiamento di valori dei racconti mitici che Leopardi opera nei suoi ‘esempi di vita’.
Vengono ora presentati i principali componimenti de La Terra Promessa, ripresi in seguito anche nella sezione dedicata al confronto fra l’originale e la traduzione di Celan.
Canzone – Il motivo tematico centrale non è nuovo nella poesia di Ungaretti: egli individua nell’aurora quel momento particolarmente favorevole all’esperienza preternaturale che alcuni critici individuavano nella malattia. La momentanea liberazione dal tempo è crudele perché, quando la visione sembra divenuta realtà, si dilegua. E’ tuttavia l’avventura più grande che possa avvincere l’uomo, in quanto comporta la conoscenza non del relativo, ma dell’assoluto; di qui il riferimento all’Ulisse dantesco che vaga sospinto non da un avverso fato, ma per seguire «virtute e conoscenza». Questa non è, secondo Ungaretti, folle ambizione, ma innata ansia di purezza, cui l’uomo tende da quando ha perduto la sua primordiale innocenza. Lo stesso Ungaretti attribuiva particolare importanza a questa lirica, tanto da dedicarle un ciclo di quattro lezioni alla Columbia University nel maggio del 1964.
Recitativo di Palinuro – Il mito virgiliano di Palinuro viene reinterpretato in questa lirica costruita secondo il complesso schema della sestina provenzale. Tutto Virgilio ha influenzato La Terra Promessa (cfr. Cori descrittivi di stati d’animo di Didone), ma particolare importanza riveste l’intepretazione allegorica che il poeta dà alle peregrinazioni di Enea:
26 UP, p. 430
27 cfr. G. Ungaretti, Lezioni su Giacomo Leopardi. A cura di Mario Diacono e Paola Montefreschi. Saggio introduttivo di Leone Piccioni. Roma, Istituto Poligrafico, 1989, p. 51.
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come Virgilio aveva ben presente la memoria dell’età dell’oro, un pagano Eden perduto, così anche Enea è alle ricerca, nel suo vagare, di un paese innocente. La morte di Palinuro è per Virgilio il prezzo che Nettuno esige da Venere per la tranquillità dell’ultimo viaggio dei Troiani verso la meta; per Ungaretti Palinuro è vittima delle passioni scatentate dall’impresa assurda di ritrovare in questa dimensione la felicità perduta; simbolo della vecchia poetica dell’innocenza in questa rielaborazione della nuova poetica della memoria.
La fedeltà di Palinuro al mito supera lo stesso personale naufragio quando tenta di raggiungere a nuoto la nave da cui è caduto e, lottando con le onde, viene colto dalla furia crescente del sonno che simboleggia la morte.
Finale- «Evoca quella solitudine e quel deserto che, alla resa dei conti, alla somma di tutto, sono le cose materiali» così lo stesso Ungaretti annota questa composizione. Senza i sogni, neppure il mare, incantevole e immenso, può veramente destare delle emozioni: ogni sensazione non è determinata direttamente dal mondo fisico, ma solo dai valori che ognuno di noi ha attribuito a cose e circostanze.
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3.1.1 METRI E STILEMI DELLA TERRA PROMESSA
La Terra Promessa è la silloge in cui Ungaretti porta alle estreme conseguenze il suo recupero delle forme classiche. Non vi mancano tuttavia composizioni a verso libero come Segreto del poeta.
Variazioni su nulla è costituita da tre quartine di endecasillabi piano (tranne uno sdrucciolo) variamente rimati, con ripetizioni anche all’interno del verso (clessidra e sabbia).
Più complessa la costruzione della Canzone, tutta di endecasillabi piani e sdruccioli.
I primi due Cori descrittivi di stati d’animo di Didone sono anch’essi interamente rimati, ma secondo uno schema libero. I cori successivi come i primi di settenari ed endecasillabi sono rimati solo saltuariamente.
Il Recitativo di Palinuro risulta senza dubbio il più arduo esperimento metrico di Ungaretti: costituito da sei stanze di sei endecasillabi ciascuna, più una terzina di commiato, pure di endecasillabi, riproduce anche nelle rime il complesso sistema metrico della sestina provenzale.
Il Finale è costituito da endecasillabi, novenari e settenari. Ossimori e metafore sono le figure più ricorrenti ne La Terra Promessa.
Nella ultime composizioni Ungaretti ha alternato versi tradizionali con altri più liberi, accordando tuttavia la preferenza agli ormai consueti settenari ed endecasillabi. Con tali metri sono costruiti gli Ultimi cori per la Terra Promessa, riportati nel Taccuino del Vecchio, appartenente a una delle sillogi dell’ultima stagione poetica ungarettiana, segno che il poeta non aveva smesso di pensare al suo capolavoro incompiuto.
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3.2 IL TACCUINO DEL VECCHIO
In questi versi viene affrontato più esplicitamente il problema della condizione prenatale del singolo, equivalente alla condizione primordiale dell’umanità. La memoria dell’Eden è la guida verso la Terra Promessa e non è dato di sapere del primo errore dell’uomo; ma l’ingenuità del bimbo e la pace dei sensi del vecchio sono le condizioni ottimali per accostarsi al vero.
La presenza della morte è costante in queste ultime liriche; essa è tuttavia spogliata di gran parte della propria tragicità, inserita nella normalità e quotidianità di ogni altro fenomeno naturale.
Morte, deserto, vuoto mentale sono dunque forme del nulla, attraverso cui passare per la costruzione del vero. Completare il proprio ciclo esistenziale equivale a riscoprire le proprie origini da un’ottica mutata dall’esperienza degli anni.
E’ quindi falsa l’identificazione che era stata data dai critici dell’ Eden con l’infanzia: in realtà il riferimento alla perdita dell’infanzia è quanto mai concreto, avendo il poeta perso in questo periodo il fratello (unico testimone rimasto della sua infanzia) e il figlio che gliela faceva rivivere. Senz’altro Ungaretti rimpiange l’età infantile perché più vicina al paradiso perduto, e, per la sua forte attività onirica, più vivida di ricordi; ma anche se da questa riuscisse a rammentare o intuire qualcosa della Terra Promessa, è a quest’ultima che aspira e non a recuperare l’età fisica di quando era giovane.
I diversi motivi si fondono e la ricerca di un linguaggio poetico che ridia alla parola il senso smarrito s’identifica nel viaggio verso il paese innocente. In realtà fra i due momenti esiste opposizione solo apparente: non va infatti dimenticato il mito platonico cui il poeta spesso si è rivolto per costruire il proprio mondo poetico: tutta la realtà comune sarebbe solo una pallida ombra della dimensione perduta; la stessa parola e prima l’idea deriverebbero dalla memoria di un vero intuito solo a sprazzi poco lucidi. Ritrovare la dimensione perduta non può non comportare anche il recupero di un’espressione assoluta, da non dover continuamente reinventare per adattare alle condizioni storiche. Queste, peraltro, sembrano promettere male per il futuro della poesia. Per sopravvivere essa ha dovuto ridursi a frammento; mentre per Ungaretti, con l’avanzare dell’età, s’avvicina il momento del «gran silenzio» e sembra che anche la sua forma espressiva prediletta, la lirica, stia perdendosi in un «urlo muto».28
28 cfr. G. Ungaretti, Il Taccuino del Vecchio, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1997, n°10 p.80.
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Negli Ultimi cori per la terra promessa, ventisette frammenti collegati fra loro sia da comunanza di temi, sia per impostazione stilistica, il tema della vanità del mondo fisico si intreccia a quello dell’ansia di comunicazione e di creazione poetica e la ricerca espressiva si identifica con quella della perduta facilità. Riemerge il motivo dell’esilio:
Profugo come gli altri
Che furono, che sono, che saranno
Il fastidio che Ungaretti prova sentendosi un po’ straniero in patria, essendo nato all’estero, ed esule in Europa, sempre per il ricordo dell’adolescenza trascorsa in Egitto, non fa altro che aggravare quella sensazione di essere profugo che comunque deriva dal suo stesso esistere.
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti. (…)
Addio desideri, nostalgie.
(…)
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane più nulla da profanare, nulla da sognare. 29
Perché l’umano agire abbia un senso, bisogna avere la certezza della via, mentre della Terra Promessa si ha solamente «qualche immagine di prima mente». Una tale incertezza porta a dubitare non solo nella via, ma persino nella meta: forse la morte non è una porta che si apre per far ritrovare l’innocenza, ma per svaporare nel mondo delle apparenze; anche le chimere della lirica, cercano di sviare il profugo dalla vera meta, portandolo lontano dalla Terra Promessa verso il Sinai, il deserto dove le giornate si scandiscono monotone, simbolo dell’afasia poetica e del senso di vuoto che offre qualunque meta terrena raggiunta. Ma anche la vecchiezza offre i suoi vantaggi: se l’incanto edenico è lontano, anche le passioni sono smorzate; il posto degli abbagli giovanili viene preso «da un faro» che si intravede di lontano, meta più lontana, ma anche più certa per «il vecchio capitano».
29 G. Ungaretti, Vita d’un uomo: Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1974, p.95.
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3.3 LA TRADUZIONE DI PAUL CELAN: ULTIMI CORI PER LA TERRA PROMESSA 8
Le traduzioni di Celan hanno la fortuna di essere accompagnate da una quantità di documenti, conservati fino ad oggi nella sua biblioteca, che testimoniano tutti gli stadi di lavoro che Celan ha compiuto sul testo: correzioni, aggiunte, sottolineature a lato o in fondo al testo se di fronte a una struttura lessicale o sintattica sconosciuta.
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Sovente mi domando
Come eri ed ero prima.
Vagammo forse vittime del sonno?
Gli atti nostri eseguiti
Furono da sonnambuli, in quei tempi?
Siamo lontani, in quell’alone d’echi, E mentre in me riemergi, nel brusío Mi ascolto che da un sonno ti sollevi Che ci previde a lungo.
Oft frag ich mich,
wie du wohl warst, wie ich war, früher.
Ob wir dahintrieben, Opfer des Schlafs?
Damals, alles Getane – wars Schlafwandlerwerk?
Fern, im Echohof , sind wir,
in mir tauchst du herauf, aufs neue, ich höre
mich im Gewisper, das hebst du aus einem Schlaf,
der sah uns voraus, lang schon.
Se andiamo a osservare la traduzione proposta da Celan, notiamo delle innovazioni piuttosto evidenti: i versi sono separati da tre spaziature marcate che isolano le quattro diverse situazioni presentate nella lirica e inevitabilmente contribuiscono alla lunghezza maggiore della traduzione di Celan rispetto all’originale; così l’Io lirico è solo mentre si interroga nei versi 1 e 2 sul passato suo e dell’amata, i due si riuniscono nel sonno (verso 3), dove la presenza di due identità distinte viene resa con l’utilizzo del pronome personale oggetto wir, ‘noi’, che sostituisce la prima persona delle strofe precedenti. Complice il sonno, i due amanti compiono atti non meglio precisati, indicati come azioni tipiche di un sonnambulo che per ovvietà della condizione in cui si trova non può avere il controllo dei suoi movimenti (verso
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4). Quando infine il ‘noi’ della poesia prende distanza dal sonno e si desta, allora le due identità sembrano separarsi di nuovo, o forse rimanere vicine, in un alone di echi che rende ancora più vacua la dimensione spazio-temporale in cui si trovano.
Celan apporta questi accorgimenti nel segno di una grande abilità formale, rimanendo fedele alla scansione di Ungaretti e, nel contempo, trasferendo la poesia nella dimensione poetica celaniana secondo lo stile traduttivo che gli appartiene.
Anche le sue scelte lessicali si esprimono in questa stessa direzione: sovente mi domando Oft frag ich mich,
Come eri, ed ero prima wie du wohl warst, wie ich war, früher
‚frag ich mich’, che comporta l’elisione della ‚e’ alla prima persona del verbo ‘fragen’, si avvale di una soluzione piuttosto informale, un’inflessione tipica del tedesco parlato che tenta, per quanto possibile, di dare un ritmo più incalzante alla conversazione. Anche ‘wohl’ può essere letto così: dal canto suo questa particella ha funzione rafforzativa o attributiva e si accompagna sempre a espressioni idiomatiche o accentuate. In questo caso il «wohl» viene aggiunto da Celan per creare una sonorità cadenzata che rimandi a quella di Ungaretti.
Queste soluzioni di straordinaria abilità lessicale si spiegano nella scelta di usare per le proprie poesie il tedesco informale e parlato, quello in cui si esprimevano gli abitanti della Bucovina, contadini e gente del popolo in particolare; arricchito poi da termini del linguaggio scientifico, botanico e della zootecnia di cui Celan vantava conoscenze approfondite.
La versione tedesca riproprone le strutture verbali scelte da Ungaretti: al presente il presente, al passato remoto italiano, il preterito in tedesco. L’unica differenza a distinguerle, e non potrebbe essere altrimenti, è l’imperfetto italiano che non trova un corrispettivo in tedesco se non lo stesso preterito, che accoglie in sé tutte e due le forme verbali. Oltretutto, la forma del tempo passato (segnalata, in questo caso, dall’avverbio temporale) viene collocata in modo inusuale a fine verso, a conferma della sua fedeltà alla struttura italiana, ma in contrasto con quella tedesca. La sua posizione nella frase per una struttura grammaticale corretta prevederebbe il complemento di tempo subito dopo il verbo coniugato e prima dei complementi di causa, modo, luogo e addirittura prima dell’accusativo e del dativo.
Come eri ed ero prima wie du wohl warst, wie ich war, früher
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La tendenza di Celan a prediligere i sostantivi ai verbi e agli attributi, riportando questi ultimi nella loro forma sostantivata, si nota al verso 4:
Gli atti nostri eseguiti Damals alles Getane – Furono da sonnambuli, in quei tempi? wars Schlafwandlerwerk?
Le prime due versioni erano ancora distanti dalla soluzione finale:
Was wir vollbrachten,
war es im Schlaf geschehen, damals?
Qui la posizione della forma avverbiale viene ripensata durante le fasi di lavoro; infine Celan decide di invertire l’ordine della frase, spostando la locuzione avverbiale all’inizio della frase, un avanzamento che è consentito anche dalla grammatica tedesca, se il parlante decide di focalizzarsi sulla dimensione temporale del suo enunciato.
Oltre che per l’eccessiva lunghezza del verso, la decisione di rinunciare alla forma attiva, ripiegando sul suo corrispettivo passivo, è un segno della rinuncia ad agire di Celan; l’intervento, l’azione poetica delle ultime liriche non gli appartengono più, è il momento in cui l’Io lirico non riconosce come in passato un appiglio nella poesia; il suo mondo linguistico ha abbandonato le ricerche e la fiducia nel soggetto: un contrasto forte e definitivo con Ungaretti, che, dopo un percorso di distruzione della parola parallelo al poeta tedesco, proprio negli ultimi anni di vita riesce a recuperare il rapporto con essa e il suo valore salvifico.
Per Ungaretti la presente lirica era espressione dell’angosciosa incognita («sovente mi domando come eri ed ero prima») sulla condizione umana primordiale di cui il poeta intuisce l’esistenza, ma non le circostanze («gli atti nostri eseguiti / furono da sonnambuli, in quei tempi?»)
Il sonno in cui l’Io e la sua donna sembrano essere più che assopiti, come ‘immersi’ già da molto tempo «lang schon», è un torpore di membra e forse anima che li salva dal risveglio e che nel sogno premonitore mostra la loro sorte.
La distanza, inizialmente percepita dall’Io solamente in termini temporali – «lang schon», «früher» – si estende anche ai confini spaziali. «Quell’alone di echi»- dove l’aggettivo dimostrativo «quello» invece di «questo» indica che è avvenuto un allontanamento o perlomeno uno spostamento dalla posizione precedente – che li distanzia dal sonno sembra
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tenerli vicini nell’eco per un ultimo istante (l’eco già di per sé è un fenomeno acustico, un riflesso di suono e voci che si verifica già nel sonno), quasi fosse un altro segnale del brusio che sta per sopraffarli, mentre l’Io lirico precede l’amata nell’atto del ridestarsi e la osserva riemergere.
Celan ha ricercato una struttura che gli permettesse di semplificare il più possibile e di districare la sintassi complessa; rende esplicito il che riferito al ‘brusio’, che introduce ‘da un sonno ti sollevi’. Il brusio è fatto di voci indistinte, incomprensibili perché sommesse, la Parola si confonde e non si fissa nella mente di chi cerca di ascoltare, l’Io si ascolta ma non riesce a carpire di più di questo brusio. Tutti gli elementi, dal finale rimasto aperto all’«alone», che trasmette un’immagine vaga delle presenze visibili attorno, sono espressi sotto il segno della provvisorietà. Tuttavia, Celan sceglie di tradurre «alone» con «Hof» che in lingua tedesca ha un’accezione ben diversa e più definita: è il cortile, l’atrio, uno spazio più delimitato, ma sempre antistante a qualcosa che rimane ancora intangibile, perché non si è stati accolti, non si ha per ora accesso alla porta principale. Volutamente Celan rinuncia al significato polivalente della parola per mantenere quello poetico.
Come si può osservare dalla copia dell’originale qui di seguito riportata, Celan si era soffermato più a lungo sulla scelta del traducente migliore per gli ultimi due versi che dovevano forse apparirgli come la chiave d’accesso della lirica, densa di riferimenti ermetici – Mi ascolto (…) ti sollevi, ci previde – e decide di sciogliere il verso 7 con un enjambement che separa i due termini contigui e legati «höre» e il pronome riflessivo «mich». I versi brevi e la metrica classica sono un segno distintivo delle poesie ungarettiane. Anche quando Celan sceglie per la sua traduzione il verso libero senza legami metrici al posto della struttura classica, ciò non vuol dire che la lunghezza dei versi e la struttura delle strofe non siano per lui un importante elemento per la forma poetica. I suoi sforzi per cercare, dove possibile, di ricorrere al verso breve, lo spingono a eliminare alcuni paralleli sintattici: è il caso dei versi 4- 5 e 7, 8 e 9. E’ vero che mantiene tutte e due le forme interrogative, ma sceglie di sacrificare il «mentre» temporale, a scapito della versione ungarettiana che evidenzia la contemporaneità delle due azioni.
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3.4 CORI DESCRITTIVI DEGLI STATI D’ANIMO DI DIDONE XVIII
Questo Coro è il penultimo dei 19 Cori che costituiscono La Terra Promessa, ma possono essere letti come un corpo unico.
Lasciò i campi alle spighe l’ira avversi,
E la città, poco più tardi, Anche le sue macerie perse.
Àrdee errare cineree solo vedo
Tra paludi e cespugli,
Terrorizzate urlanti presso i nidi
E gli escrementi dei voraci figli Anche se appaia solo una cornacchia.
Per fetori s’estende
La fama che ti resta,
Ed altro segno più di te non mostri Se non le paralitiche
Forme della viltà
Se ai tuoi sgradevoli gridi ti guardo.30
Der Zorn ließ die den Ähren feindlichen Äcker mit sich allein,
und die Stadt, ein weniges später, selbst ihren Schutt verlor sie.
Aschenreiher seh ich umherirren
zwischen Bruch und Busch,
verängstigt kreischen sie auf bei den Nestern, bei ihres gefräßigen Nachwuchses Kot,
wenn auch nichts weiter geschieht,
als daß eine Krähe auftaucht.
Er breitet sich aus durch Gestank,
der dir verbliebene Ruhm,
und kein Zeichen sonst deiner selbst läßt du sehn
als nur die Lähmungs-
formen der Feigheit,
wenn ich dich anschau, indessen du widerlich schreist.
30 UP, p. 249.
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La poesia si suddivide in tre strofe di diversa lunghezza: la prima è una terzina cui seguono due strofe rispettivamente di 5 e 6 versi. I 14 versi complessivi seguono la metrica classica del settenario, novenario ed endecasillabo. La struttura polimetrica ed eterogenea delle strofe non permette di classificare la poesia tra le forme conosciute. Alle immagini di una città distrutta nella prima strofa seguono la descrizione degli uccelli impauriti dalle sensazioni esterne e un grido che si alza dove una una volta c’era la fama, ora solo «fetori».
Le immagini insolite colpiscono per l’intensità lessicale e si possono interpretare, a una prima lettura, come la descrizione degli stati d’animo di Didone: la città rasa al suolo sembra una premonizione della sorte che si abbatterà su Cartagine. La terra, desolata, oppressa dalle grida e maleodorante, è lo scenario dove si ode il grido di una persona disperata e torturata. L’immagine finale verrà ripresa nel Coro XIX dall’abbandono di ogni speranza e resistenza dell’Io lirico sofferente.
E’ possibile arrivare alla supposizione che si tratti di associazioni e accostamenti alla figura di Didone solamente considerando La Terra Promessa nella sua integrità. I frammenti di «esperienza umana» che Ungaretti cerca di trasmettere, sono più che evidenti anche nel Coro analizzato.
Tuttavia, delle situazioni descritte non vi è traccia né nell’Eneide, né in altri testi che si riferiscono esplicitamente alla figura della regina Didone.
Il primo ostacolo che Celan si trova ad affrontare, è l’espressione «ardee cineree», che del resto metterebbe in difficoltà una qualsiasi persona di lingua madre italiana. Nei dizionari moderni di italiano-tedesco il termine non trova spazio e lo stesso vale per alcuni monolingue italiani; ma una consultazione del dizionario di Oscar Bulle e Giuseppe Rigutini risolve la questione: sotto la voce «ardea» viene suggerito: cfr. airone. «Ardea cinerea» non è altro che il termine usato dagli ornitologi per descrivere l’airone cinerino, uccello acquatico dei Ciconiformi dalla testa piccola e il piumaggio grigio. Si può risalire all’uso di «ardee» solamente attraverso alcune fonti scritte latine o letterarie.
La metafora dell’«ardea cinerea» rappresenta la chiave ermeneutica della poesia, un motivo squisitamente letterario, per cui nella traduzione di Celan diventa necessario e indispensabile riuscire a trovare un traducente in tedesco che conservi il carattere estetico e immaginifico. In un testo poetico risulterebbe alquanto riduttivo usare commenti e note a pié per riportare la metafora. Celan affronta in modo del tutto particolare l’etimologia di questa parola italiana, di cui non può conoscere la formazione e l’uso nella letteratura del nostro Paese. Dopo un primo confronto con la traduzione di Viktor Wittwoski, che ha rappresentato durante il lavoro un’importante fonte di spunti e idee, si decide per Aschenreiher, ignorando le possibilità date
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da Grauereiher e Reiher, aschfarbne della versione di Wittwoski. Mettendo da parte le sue approfondite conoscenze di ornitologia, Celan crea un neologismo, sostantivando l’attributo cineree e post-ponendogli il vero sostantivo. Facendo così, mantiene la carica espressiva ed etimologica di ardee cineree che trae le sue origini dagli scritti di Ovidio. Il cinerino era un animale che si allontanava in volo dalle città in un momento più che particolare, dopo una battaglia che nella città aveva distrutto qualsiasi testimonianza di vita: il piumaggio grigio doveva ricordare il colore della macerie in cui era stata ridotta.
In questo caso Celan riesce a conservare il significato etimologico e visivo a scapito della vicenda storica associata a questo uccello.
La tendenza a sostantivare complementi attributivi o verbi è tipica del mondo linguistico di Celan. Per adattare i motivi ungarettiani alla sua persona concezione di poesia, spesso Celan ha sacrificato la loro dimensione morale e critica. Inoltre, è bene ricordare che la componente Asche (cenere) è un primo indizio di tutta una serie di topoi che Celan svilupperà nelle ultime raccolte Svolta di respiro, Filamenti di sole e Luce coatta ( il colore dei capelli della madre, la cenere dei morti nei Lager e molto altro ancora). Lo stesso indizio testimonia lo sforzo critico di Celan di produrre un proprio lessico poetico.
Diversamente da Wittwoski, Celan cerca di tradurre tutte le parole straniere che incontra e che non appartengono al suo bagaglio conoscitivo, poiché appartengono a un’altra cultura: crea molti neologismi e composti e un corrispettivo tedesco anche quando non esiste.
Così le «paralitiche forme» diventano «die Lähmungs-formen», dove Celan opta per la divisione del verso 8 in due versi distinti, separando «Lähmungs» e «formen» con un enjambement. La scelta in tedesco corrisponde perfettamente a quella italiana sia sul piano linguistico che metrico: la soluzione precisa e letterale non è solo espressione della sua volontà di riprodurre in modo fedele e mimetico le forme ungarettiane, bensì il frutto di una riflessione poetica più profonda.
«Lähmungs-formen» permette altresì di evitare il riferimento al campo medico, implicito in «paralitische-formen», e con esso alla patologia della paralisi; ma anche il richiamo alla paralisi poetica, che secondo molti critici del tempo era una delle caratteristiche pregnanti dell’ermetismo.
Mentre nel testo originale gli uccelli volano via impauriti tutto d’un tratto, nella traduzione di Celan la loro paura si rinnova di continuo: a terrorisiert (Terrorizzate) del primo manoscritto sostituisce «verängstigt», dove la forma participale già contiene la radice di Angst (=paura). «Cespugli, nidi, (…) figli», legati fra loro dalla rima, richiamano l’attenzione sugli ‘abitanti’ della palude. Spostando «escrementi» alla fine del verso, Celan evita qualsiasi riferimento alla
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forme di vita che popolano il paesaggio e rende gli escrementi un elemento dello stesso. Questi due cambiamenti semantico-testuali confermano l’immagine del panorama ‘apocalittico’ che Celan cerca di avvicinare alla propria poesia esistenziale.
In «solo una cornacchia», sceglie di mantenere la forma diminutiva «solo una», a cui attribuisce una funzione importante nella descrizione della cornacchia, dedicandole addirittura un intero verso:«wenn auch nichts weiter geschieht, als daß (…)»
A un’analisi più attenta, la ritmica si snoda in uno schema di strofe da 3, 5 e 6 versi. Rompendo il verso 8 in due versi di 7 e 8 sillabe, lo schema si modifica in tre strofe da 3, 6 e ancora 6 versi. Dal momento che anche la prima bozza della traduzione reca queste modifiche, Celan deve aver concepito la ritmica in questo modo da subito.
Il tentativo di attenersi con fedeltà ai versi brevi del testo lo spinge a ridurre ‘all’osso’ i versi: il risultato finale non doveva andare oltre i 16 versi della prima bozza.
L’abbandono di tutte le forme attive per quelle passive – ließ sich allein, läßt du sehen – conferma la volontà di prediligere gli stati d’animo all’agire, in un arco di sentimenti che la collera traccia (der Zorn) al verso 1 e ridiscende, dissolvendosi nel grido (du schreist) al verso 14.
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CAPITOLO IV CONCLUSIONI
L’incontro fra Celan e Ungaretti si è realizzato perchè entrambi trovarono una particolare consonanza nella voce poetica dell’altro. Questa rassomiglianza ha permesso una ricezione di temi storici e mitici che, col tempo, si è fatta sempre più sottile e sofisticata.
Abbandonata l’idea che l’attività traduttiva di Celan avesse prettamente motivazioni empiriche, i critici si sono persuasi che dietro a questo progetto vi fosse un disegno più grande: un’autentica motivazione esistenziale che ha spinto Celan ad accostarsi a Ungaretti. L’attività del tradurre, secondo George Steiner, si gioca costantemente sulla categoria del dono e del debito, per cui il traduttore si trova in debito nei confronti del testo, che è il vero ‘dono’ di questo rapporto. L’opera da tradurre viene definita in questi termini se ha qualcosa da comunicare: Steiner identifica questa prima fase con la parola ‘fiducia’. La comprensione del messaggio e della sua forma poetica può avvenire solamente se il traduttore ‘aggredisce’ il testo, nell’intento di comprenderlo e incorporarne il messaggio. Se questo gli riesce, il metatesto o testo finale sarà il risultato dell’equiparazione fra i due.
Celan era consapevole del dono che poteva ricevere dalle liriche di Ungaretti e per questo si è avvicinato al grande poeta ermetico, riconoscendo in lui il paradigma dell’intellettuale che si interroga di fronte al potere della parola sulla realtà. Anche in Ungaretti si riconosce un’adesione spirituale della sua parola, come afferma Carlo Bo. Non si ha nozione di libertà se non tramite l’atto poetico, e il nome viene riscoperto come fatto religioso.31 Il fine ultimo della poesia viene dunque a coincidere con la funzione della parola capace di salvaguardare la memoria, oltre la barriera dei sensi e il disfacimento. Essendo illusorio il mondo, pallida imitazione della Terra promessa in cui l’uomo viveva prima del peccato, la memoria è lo strumento per avvicinarsi al ricordo di questa materia innocente e, nel contempo, rammentare le vite perse. La memoria si configura come l’unica possibile conquista, ma il peso per la dissoluzione nella morte che incombe è così grave, che il sollievo della futura resurrezione o della morte stessa, con la prospettiva del ritorno alla materia innocente, è quasi un sollievo. La vita è per altro «un attimo interrotto» e Ungaretti attende di buon grado che il tempo vi ponga fine: solo così si può riedificare la realtà autentica. La morte ha perso il suo contenuto tragico e viene accettata come fatto pienamente naturale e necessario. Sembra quasi che la
31 Giuseppe Ungaretti, a cura di Carlo Ossola, Milano, Mursia, 1975, p.15
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morte non sia il mezzo per raggiungere la Terra Promessa, ma la Terra Promessa. Anche se Ungaretti pare aver assorbito i frutti della dolorosa esperienza in guerra (vissuta come soldato in trincea) e dentro di sé i segni della battaglia umana e personale, la parola per lui è ancora salvifica, in virtù di questo recupero della dimensione spirituale. Sembra che sia stata la religione cristiana maturata in lui a salvarlo. La sua poetica della parola è un segno di umanità, in cui ricorre a una lingua atemporale che può superare queste barriere fisiche e riconciliare umano e divino, tradizione e esistenza dell’uomo contemporaneo, cosa che dopo lo scempio della seconda guerra mondiale sembrava impensabile.
Così riflette Ungaretti sulla sua poetica:
Uno scrittore, un poeta, è sempre, secondo me, engagé, impegnato: impegnato a fare ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere e a disseccare.
L’impegno in arte deve costituire uno dei caratteri fondanti del poeta, ma tutt’altro che asservito a una struttura politica. L’impegno del poeta sarebbe quello di far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale, quindi il mistero di cui parla anche nel Porto sepolto. Rigenerando il verbo, il poeta scopre la perduta dimensione. Si delinea così la funzione del poeta che, per avere qualcosa da comunicare, deve prima aver svelato a se stesso, o, almeno, intuito il mistero. Questo spiega la sua necessità di di reinventare ogni volta il proprio mezzo espressivo per adattarlo all’ispirazione e al mistero che vuole portare alla luce.
Eros, Nostos e Thanatos sono i tre concetti freudiani ripresi anche da Celan, in cui si condensa la poetica di Ungaretti: un viaggio per ritrovare una lingua che unisca topoi mitici e forme metriche classiche, ma si adegui all’uomo contemporaneo e gli indichi esempi di vita, come era stato per Didone, simbolo della passione sensuale e carnale unite a quella sacrale.
La guerra e la morte dei suoi affetti lo spingono a interrogarsi sul senso della vita: E’sopravvivere alla morte, vivere?32
Sembra concludere che il contenuto tragico della morte riviva nella sofferenza dei sopravvissuti per i famigliari persi e nel dolore che si rinnova.
Difficilmente Ungaretti affronta nelle sue poesie il tema famigliare, e, quando lo fa, è solo per ricordare i cari defunti. Non in un atto di egoismo, bensì per preservare gli affetti a lui cari.
32 G.Ungaretti, Vita d’un uomo: Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1974, p. 275
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Anche Celan era partito da simili premesse che sembravano condurre la sua poesia lungo un cammino difficile, ma pieno di speranze per quel messaggio in bottiglia che doveva raggiungere la ‘regione’ del cuore dell’Altro. Da questo percorso, tuttavia, non riesce a sviluppare una poetica mistica e la rivisitazione della lingua, che si promette di fare nel corso degli anni, fa sì che la parola ne esca distrutta. Al ritorno dal suo viaggio in Israele, dove aveva ripercorso le vie dei suoi antenati, anche gli amici testimoniano che Celan affondò in una depressione sempre più cupa: la visita del 1970 gli permise di percepire il suo rapporto con l’ebraismo in via negativa.
I propositi di azione e ricostruzione della parola dopo il genocidio e Auschwitz falliscono nel momento in cui Celan si addentra da solo sul sentiero oltre il quale Adorno aveva tracciato una linea e con essa il suo veto. La parola non è più salvifica in nessun caso e non offre quegli appigli o, ancora meglio, quella dimora che Celan aveva cercato per sé e per i suoi morti. Questo rapporto di quasi ‘fratellanza’ fra Celan e Ungaretti, che venivano da due percorsi simili, se non in certi casi disgiunti per i risultati ottenuti, rivive nell’incontro a metà strada delle loro posizioni poetiche opposte. Il risultato è che, terminato il lavoro di traduzione, i due poeti si riallontanarono di nuovo: il confronto con Ungaretti non ha portato Celan a modificare la sua posizione o a distaccarsi in modo netto da essa; non ne è stato più così influenzato, se non solamente quando ha deciso di confrontarsi con lui e creare un parallelo, limitato a quell’unico lavoro.
Le costanti che percorrono la loro poetica sono mito, infanzia, assenza, esilio, metafore e forza creativa della parola. Questa comunanza di temi, come già ripetuto, non è sfociata nella stessa soluzione: Ungaretti è riuscito a recuperare e ricostruire la parola e la dimenzione collettiva, mentre Celan si è addentrato per una strada tutta individuale. Protesto alla ricerca di un luogo della memoria, ha smarrito la fiducia nella poesia e nella funzione del poeta quale portatore del segreto con cui doveva riemergere e ristabilire un rapporto con la realtà.
La parola perde tutta la sua forza evocativa e anche il respiro si fa ‘muto’: nell’ultima fase della sua produzione poetica si accentuarono le caratteristiche afatiche della sua lirica.
Per Ungaretti si è trattato di un’apparente crisi, dovuta alla presa di coscienza che sembri impossibile transitare dalla dimensione temporale a quella eterna: questa convinzione ha generato in lui indubbiamente sconforto e anche cedimento, ‘soppesati’ però da un continuo ricercare e rigenerare e sostenuti dalla fedeltà al suo progetto. Anche l’eterna crisi che grava sul mondo, frutto delle guerre dell’uomo, può essere superata nel momento in cui un individuo di particolare statura, il poeta, riesce a intuire poeticamente la realtà, a carpirne il segreto. Il mezzo espressivo, giunto per logoramento quasi all’afasia, è ricreabile nella nuova
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innocenza; questo ciclo può ripetersi all’infinito, seguendo il concetto di crisi permanente che viene continuamente superato e alimentato.
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