Sütiste, Torop: I confini processuali della traduzione Processual Boundaries of Translation

Sütiste, Torop: I confini processuali della traduzione

Processual Boundaries of Translation

 

   

IRENE CALABRIA

 

 

 

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

 

 

 

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2011


 

 

 

 

 

© Walter de Gruyter, 2007

© Irene Calabria per l’edizione italiana, 2011

 


Abstract

 

In their essay «Processual Boundaries of Translation: Semiotics and translation studies», Elin Sütiste and Peeter Torop analyse the evolution of translation science applying a semiotic approach to it. They start from the consideration that translation activity in culture cannot take place in isolation from experience of culture and technological environment: the progression from printed media towards hypermedia and new media is underlying the diversity of communication processes. In this new situation, the peculiarity of translation activity consists in the actualization of intralingual and intersemiotic translation alongside interlingual translation. The widening of the boundaries of translation process results in the intensified search for appropriate methodologies. One indication of this is the repeated reconceptualization or further elaboration of Jakobson’s typology of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation at the intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication. This dissertation presents a translation into Italian of Sütiste and Torop’s article and its analysis.


Sommario

 

 

1. Traduzione con testo a fronte. 7

2. Analisi testuale dell’originale. 9

2.1 Contenuto. 67

2.2 Struttura. 71

2.3 Qualche considerazione aggiuntiva. 72

3. Analisi traduttologica. 67

3.1 Introduzione. 74

3.2 La dominante e il residuo traduttivo: Jakobson e la semiotica della traduzione. 77

3.3 Strategia traduttiva. 79

3.3.1 Una questione d’invariante. 79

3.3.2 All’insegna della traduzionalità. 82

3.4 Conclusione. 84

3.5 Riferimenti bibliografici 88

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte

 

Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies*

ELIN SÜTISTE and PEETER TOROP

 

The development of sciences –­ regarded as scientific disciplines mapping cultural terrain – is dependent on the dynamics of culture and does not take place as a linear movement. In order to see the logic of exchange and development in such disciplines, the relations both between the ways of thinking characteristic of different times as well as between the metalanguages in which the ways of thinking are expressed have to be understood. This understanding in turn is shaped by the dynamics of the cultural environment and, hence, also by the (technological) dynamics of modes of communication that influence creative processes. The technological dynamics concern primarily textual messages since the proportions of the oral, the written, the pictorial, and the aural in one and the same text depend on the environment of text consumption or generation. A written text on paper or in hyper- or multimedia form may be the same text, but its interpretation as an original text or as a translation requires taking into account the nature of the medium in which it is presented.

The arising semiotics of multimedia refreshes the study of ordinary texts (for example, a multimedia approach to a picture book) establishing a new methodological perspective for the analysis of this new type of texts. Accordingly, the concept of communication changes into ‘multimedia communication’ defined as

. . . the production, transmission, and interpretation of a composite text, when at least two of the minitexts use different representational systems in either modality. Each minitext needs to have its own organization: any of syntactic categories of individual, linguistic, schematic, temporal, or network may be used. (Purchase 1999:255)


I confini processuali della traduzione: semiotica e scienza della traduzione*

ELIN SÜTISTE e PEETER TOROP

 

Lo sviluppo delle scienze – considerate in quanto discipline scientifiche che mappano il terreno culturale – dipende dalla dinamica della cultura e non avviene secondo un movimento lineare. Per capire la logica di scambio e sviluppo in tali discipline si devono comprendere i rapporti sia tra i modi di pensare tipici di periodi diversi, sia tra i metalinguaggi in cui si esprimono i modi di pensare. Questa comprensione è, a sua volta, condizionata dalla dinamica dell’ambiente culturale e perciò anche dalle dinamiche (tecnologiche) delle modalità di comunicazione che influenzano il processo creativo. Le dinamiche tecnologiche riguardano in primo luogo i messaggi verbali, poiché le proporzioni tra orale, scritto, pittorico e uditivo nello stesso testo dipendono dall’ambiente di consumo o creazione del testo. Un testo scritto su carta, o in forma ipermediale o multimediale sarà anche lo stesso testo, ma la sua interpretazione in quanto testo originale o in quanto traduzione richiede che si prenda in considerazione la natura del medium in cui si presenta.

La semiotica della multimedialità che ne deriva rinnova lo studio dei testi ordinari (per esempio, con un approccio multimediale a un libro d’immagini) affermando una nuova prospettiva metodologica per l’analisi di questo nuovo tipo di testi. Di conseguenza, il concetto di «comunicazione» si trasforma in «comunicazione multimediale», definita come:

[…] la produzione, trasmissione e interpretazione di un testo composito, quando almeno due dei minitesti usano sistemi di rappresentazione diversi in qualsiasi modalità. Ogni minitesto deve avere la propria organizzazione: si può usare qualunque categoria sintattica, individuale, linguistica, schematica, temporale o di rete (Purchase 1999:255)[1] .


The relation of message to its medium has acquired a new meaning and the message’s dependence on and/or independence of the medium has become a methodological problem. In a discipline close to translation studies – narratology – a new branch, transmedial narratology, has arisen from the hypothesis that ‘although narratives in different media exploit a common stock of narrative design principles, they exploit them in different, media-specific ways, or rather, in a certain range of ways, determined by the properties of each medium’ (Herman 2004: 51). This hypothesis also makes it necessary to review traditional approaches and to establish a productive dialogue. In the article referred to above, this is done using the structure of thesis-antithesis. The thesis is ‘narrative is medium independent’: ‘The strong version of thesis, that all aspects of every narrative can be translated into all possible media, has enjoyed prominence in the study of narrative. But a weaker version, that certain aspects of every narrative are medium independent, forms one of the basic research hypotheses of structuralist narratology’ (Herman 2004: 51). The antithesis that opposes this thesis is ‘narrative is (radically) medium dependent’ so that ‘the basic intuition underlying antithesis is that every retelling alters the story told, with every representation of a narrative changing what is presented’ (Herman 2004: 53).

Narratology is a good example of how fast disciplinary boundaries can shift. It also demonstrates the connection between recognizing empirical narrative forms and the dynamics of the terminological field as well as points to the fact that the relationship between narrative forms and the metalanguage signifying these is specifically semiotic. In 1975, Roman Jakobson as associate of the semiotics of Charles S. Peirce, put forward the concept of ‘invariance’ relevant for scholarship in different sciences. Jakobson stated:


Il rapporto di un messaggio con il suo medium ha acquisito un nuovo significato e la dipendenza e/o l’indipendenza del messaggio dal medium è diventata un problema metodologico. In una disciplina vicina alla scienza della traduzione – la narratologia – dall’ipotesi che «anche se le narrazioni in media diversi sfruttano una scorta comune di princìpi di progettazione narrativa, li sfruttano in modi diversi, specifici del medium, o piuttosto, in una serie particolare di modi, determinati dalle proprietà di ogni medium» (Herman 2004: 51) è nata una nuova disciplina: la narratologia transmediale. Quest’ipotesi rende necessario anche rivedere gli approcci tradizionali e istituire un dialogo produttivo. Nell’articolo citato qui sopra, lo si fa usando la struttura tesi-antitesi. La tesi è «la narrazione è indipendente dal medium»: «La versione forte della tesi, ovvero che tutti gli aspetti di ogni narrazione possono essere tradotti in tutti i media possibili, ha ottenuto una certa rilevanza nello studio della narrazione. Ma una versione più debole, ovvero che certi aspetti di ogni narrazione sono indipendenti dal medium, costituisce una delle ipotesi di ricerca fondamentali della narratologia strutturalista» (Herman 2004: 51). L’antitesi è «la narrazione dipende (radicalmente) dal medium» e quindi «l’intuizione essenziale alla base dell’antitesi è che ogni nuova versione altera la storia raccontata, e ogni rappresentazione di una narrazione cambia ciò che è presentato» (Herman 2004: 53).

La narratologia è un buon esempio di quanto velocemente possano cambiare i confini di una disciplina. Dimostra anche la connessione tra il riconoscimento di forme narrative empiriche e le dinamiche in campo terminologico, oltre a mostrare che il rapporto tra forme narrative e il metalinguaggio che le esprime è specificamente semiotico. Nel 1975, Roman Jakobson, rifacendosi a Charles S. Peirce, ha introdotto nella semiotica il concetto di «invarianza», importante a livello accademico in varie scienze. Jakobson ha affermato:


Peirce belonged to the great generation that broadly developed one of the most salient concepts and terms for geometry, physics, linguistics, psychology, and many other sciences. This is the seminal idea of INVARIANCE. The rational necessity of discovering the invariant behind the numerous variables, the question of the assignment of all these variants to relational constants unaffected by transformations underlies the whole of Peirce’s science of signs. The question of invariance appears from the late 1860s in Peirce’s semiotic sketches and he ends by showing that on no level is it possible to deal with a sign without considering both an invariant and a transformational variation. (Jakobson 1985 [1977]:252)

‘Invariance’ is one of those concepts that enable different areas of study to be combined in terms of their common methodology, so that the approaches to narrative and translation can be observed together.

In order to better understand the development of cultural and communication processes, it is necessary to create a dialogue between different disciplines both on the object level and metalevel, with special attention to the dialogue between old and new ideas. Each culture develops in its own way, has its own technological environment and its own traditions of analyzing culture texts. A culture’s capacity for analysis reflects its ability to describe and to understand itself. In the process of description and understanding, an important role is played by the multiplicity of texts, by the interrelatedness of communication with metacommunication. The multiplicity of texts makes it possible to view communication processes as translation processes. But besides immediate textual transformations, the analysis of these transformations – that is, their translation into various metalanguages – has a strong significance in culture. Both in the case of textual transformations and their translations into metalanguages, an important role is performed by the addressees, their ability to recognize the nature of the text at hand, and their readiness to communicate. Just as in translation culture, there is also an infinite retranslation and variation taking place in translation studies. In order to understand different aspects of translation activity, new description languages are constantly being created in translation studies, and the same phenomena are at different times described in different metalanguages.


Peirce apparteneva alla grande generazione che sviluppò ampiamente un concetto e termine saliente per la geometria, la fisica, la linguistica, la psicologia e molte altre scienze. Si tratta dell’idea fondamentale di INVARIANZA. La necessità razionale di scoprire l’invariante dietro le numerose variabili, la questione dell’assegnazione di tutte queste varianti a costanti relazionali non influenzate dalle trasformazioni è alla base dell’intera scienza dei segni di Peirce. La questione dell’invarianza appare negli appunti semiotici dalla fine degli anni 1860 e Peirce conclude mostrando che a nessun livello è possibile prendere in considerazione un segno senza prendere in considerazione sia un’invariante sia una variazione trasformazionale (Jakobson 1985 [1977]:252).

«Invarianza» è uno di quei concetti che fanno sì che diverse aree di studio abbiano una metodologia comune, così che gli approcci alla narrazione e alla traduzione possano essere studiati insieme.

Per comprendere meglio lo sviluppo dei processi culturali e di comunicazione è necessario creare un dialogo tra discipline diverse sia a livello dell’oggetto, sia a metalivello, con un’attenzione speciale per il dialogo tra idee vecchie e nuove. Ogni cultura si sviluppa a modo proprio, ha il proprio ambiente tecnologico e le proprie tradizioni di analisi dei testi culturali. La capacità di analisi di una cultura riflette la sua abilità nel descrivere e capire sé stessa. Nel processo di descrizione e comprensione, la molteplicità di testi, l’interrelazione tra comunicazione e metacomunicazione hanno un ruolo importante. La molteplicità di testi rende possibile considerare i processi di comunicazione processi traduttivi. Ma, oltre alle trasformazioni testuali immediate, l’analisi di queste trasformazioni – ovvero la loro traduzione in vari metalinguaggi – ha una profonda rilevanza nella cultura. Nel caso sia di trasformazioni testuali, sia delle loro traduzioni in metalinguaggi, i riceventi, la loro capacità di riconoscere la natura del testo in questione e la prontezza con cui comunicano svolgono un ruolo importante. Proprio come nella cultura della traduzione, anche nello studio della traduzione ha luogo una ritraduzione e una variazione infinita. Per comprendere i diversi aspetti dell’attività traduttiva, nella scienza della traduzione si creano di continuo nuovi linguaggi descrittivi e si descrivono gli stessi fenomeni in momenti e con metalinguaggi diversi.


And just as in culture, also in disciplines studying cultural phenomena, variance has its limits and at some point an invariant is needed in order to organize the variance.

1.         On the identity of translation studies

The present-day translation studies do not form a methodologically unified discipline, although a movement into this direction takes place. The existing textbooks and readers on translation studies are either school- or problem-centered or arranged chronologically. They register metalingual variety, but do not strive to hierarchize the history of translation studies. At the same time there is also some invariance observable in this variety of metalanguages, especially if we start looking for the implicit roots of explicitly formulated views.

It is interesting to observe the dynamics that the attitudes of influential translation scholars have undergone in the course of some thirty years of modern translation studies. Eugene Nida distinguished three tendencies in the translation studies of the 1970s. Philological theories are interested in literature, in the translatability of genre and other literary characteristics; linguistic theories are engaged in the relationships between content and form found in languages and in the structural comparison of languages; sociolinguistic theories regard translation as part of a concrete communi- cation process (see Nida 1976). Two decades later, Nida also characterizes multimedial communication as natural, ordinary communication: ‘But even in printed texts, differences of typeface, format, and book covers have also carried messages’ (Nida 1999:119). At the end of this article he advises the leaders of Bible Societies to understand ‘that the use of new media is not designed to replace the printed text, but to lead people to the text’ (Nida 1999:130).


E proprio come nella cultura, anche nelle discipline che studiano i fenomeni culturali, la variante ha i suoi limiti e, a un certo punto, si ha bisogno di un’invariante per organizzare la variante.

1.         Sull’identità della scienza della traduzione

La scienza della traduzione contemporanea non è una disciplina unificata a livello metodologico, anche se si sta muovendo in questa direzione. I libri di testo e le antologie di scienza della traduzione o si concentrano su un problema o sulla scuola di appartenenza, oppure sono organizzati cronologicamente. Riconoscono la molteplicità metalinguistica, ma non si sforzano di creare una gerarchia nella storia della scienza della traduzione. Nello stesso tempo, si può anche osservare un’invarianza in questa molteplicità di metalinguaggi, in special modo se cominciamo a ricercare le radici implicite delle opinioni formulate in modo esplicito.

È interessante osservare la dinamica delle opinioni di influenti studiosi della traduzione nel corso di circa trent’anni. Eugene Nida ha individuato tre tendenze nella scienza della traduzione degli anni Settanta. Le teorie filologiche s’interessano di letteratura, della traducibilità del genere e di altre caratteristiche testuali; le teorie linguistiche si occupano dei rapporti tra contenuto e forma presenti nelle lingue e del raffronto strutturale tra lingue; le teorie sociolinguistiche considerano la traduzione parte del processo concreto di comunicazione (Nida 1976). Vent’anni più tardi, Nida descrive anche la comunicazione multimediale come comunicazione naturale, ordinaria: «Ma perfino nei testi stampati, le differenze di carattere, formato e copertina sono stati portatori di messaggi» (Nida 1999:199). Alla fine di questo suo articolo, consiglia ai coordinatori delle Bible Societies di capire «che l’uso dei nuovi media non è pensato per sostituire il testo stampato, ma per condurre le persone verso il testo» (Nida 1999:130).


Translation activities performed on cultural facts and phenomena cannot take place in isolation from experience of the whole of culture and technological environment. Underlying the diversity of communication processes is the process from printed media towards hypermedia and new media, and in the course of this process complementary text forms and modes of communication are born. Gunther Kress has formulated this new shift as follows:

I would say in relation to communication that we have come from a period in which there had been a stable constellation of the mode of writing with the medium of the book […]. The new constellation, culturally increasingly dominant, is that of the mode of the image and the medium of the screen. This will lead to quiet new representational forms, new possibilities for communicational action, and new understandings of human social meaning making. (Kress 2004:446)

The new situation also influences the study of traditional communication forms. The peculiarity of translation activity relevant in this new situation consists in the actualization of intralinguistic and intersemiotic translation alongside interlinguistic translation: first, in synthetic form, combining all three types of translation (interlinguistic translation is characterized as including intralinguistic and intersemiotic translation) and second, in analytic form, where the three autonomous types of translation produce their own types of texts. The evolution of Nida’s views reflects the attempt to accommodate the changes happening in the entire culture in one segment of culture – translation culture.

Modern translation studies (1970–1980s) are characterized by a growing tendency to (1) bring closer translation practice and theory; (2) increase the capacity of different concepts for the dialogue within translation studies; and (3) arrive at the creation of comprehensive systematic translation studies. The first tendency is represented by Wolfram Wilss who held that translation studies could escape their immanent stagnation by expanding their methodological perspective. In his pursuit of explicit analysis of translation process Wilss aimed for the study of general translation problems


Le attività traduttive compiute sui fatti e i fenomeni culturali non possono avvenire in isolamento dalla cultura e dall’ambiente tecnologico nell’insieme. Alla base della molteplicità dei processi di comunicazione vi è il processo che va dai media stampati agli ipermedia e ai nuovi media, e durante questo processo nascono forme testuali e modalità di comunicazione complementari. Gunther Kress ha così descritto questo nuovo cambiamento:

Per quanto riguarda la comunicazione, direi che veniamo da un periodo in cui c’è stata una costellazione stabile della modalità della scrittura con il libro come medium […]. La nuova costellazione, sempre più dominante a livello culturale, è quella della modalità dell’immagine e dello schermo come medium. Ciò porterà a nuove forme di rappresentazione, nuove possibilità di azione comunicazionale e una nuova concezione della creazione sociale umana di significato (Kress 2004:446).

La nuova situazione influenza anche lo studio delle forme di comunicazione tradizionali. La peculiarità dell’attività traduttiva importante in questa nuova situazione consiste nell’attualizzazione della traduzione intralinguistica e intersemiotica insieme alla traduzione interlinguistica: in primo luogo, in forma sintetica, combinando tutti e tre i tipi di traduzione (la traduzione interlinguistica è caratterizzata dal fatto che racchiude in sé la traduzione intralinguistica e quella intersemiotica) e in secondo luogo, in forma analitica, dove i tre tipi di traduzione producono i propri tipi di testo in modo autonomo. L’evoluzione dell’opinione di Nida riflette il tentativo di adeguare a un segmento della cultura, la cultura della traduzione, i cambiamenti che avvengono nell’intera cultura.

La scienza della traduzione moderna (anni Settanta-Ottanta) è caratterizzata da una crescente tendenza a (1) avvicinare la pratica e la teoria della traduzione; (2) aumentare la portata di diversi concetti per il dialogo all’interno della scienza della traduzione; e (3) arrivare alla creazione di una scienza della traduzione sistematica e completa. La prima tendenza è rappresentata da Wolfram Wills che ritiene che la scienza della traduzione possa salvarsi dalla stagnazione immanente espandendo il proprio orizzonte metodologico. Nella ricerca di un’analisi esplicita del processo traduttivo Wills punta ad avvicinare al massimo grado lo studio dei problemi traduttivi


independent of a particular language pair (competence in translation) to be brought maximally close to the study of questions rising from immediate contacts between two languages (performance in translation) (Wilss 1982).

By that time, translation studies as a discipline – methodologically still in the development phase – had arrived at a state of multidisciplinarity using disparate metalanguages (which is different from interdisciplinarity as a methodological whole). The second tendency is therefore well represented by György Radó who held that for the development of translation studies the synthesis of the existing trends and languages would be crucial. Synthesis should start from the composition of bibliographies in order to record dispersed studies (Radó 1985:305). Also characteristic of this period is the call to use general academic metalanguage, accessible to all scholars in their discussion of theory (Bassnett-McGuire 1980:134).

The third tendency is represented by James S. Holmes who, in his works, deductively created a new translation studies as a taxonomically describable hierarchical system resting on the complementarity of several theories together. He held that first of all a theory of translation process is needed in order to reflect on what happens when a person decides to translate something. Next comes a theory of translation product, which is required in order to determine the specifics of translation as a particular text type. Third, there is a need for a theory of translation function in order to understand the behavior of translation in the receiving culture. These three theories cannot be normative as they try to describe the already existing situation and do not prescribe any rules. Normativity, however, is important in the fourth, theory of translation didactics (Holmes 1988:95). Holmes has, in effect, formulated a program of interdisciplinary translation studies although different translation theories elaborate it in different ways and the development is far from being balanced.


generali, indipendenti dalla particolare coppia di lingue (competenza traduttiva), allo studio dei problemi derivanti dai contatti diretti tra due lingue (prestazione traduttiva) (Wilss 1982).

A quell’epoca la scienza della traduzione come disciplina – ancora in fase di sviluppo metodologico – era arrivata a un livello di multidisciplinarità con metalinguaggi disparati (da non confondersi con l’interdisciplinarità come insieme metodologico). La seconda tendenza è perciò ben rappresentata da György Radó che crede che per lo sviluppo della scienza della traduzione sia vitale la sintesi delle tendenze e dei linguaggi esistenti. La sintesi deve partire dalla creazione di bibliografie per documentare i vari studi (Radó 1985:305). Un’altra caratteristica di questo periodo è l’invito a usare un metalinguaggio accademico generico, accessibile a tutti gli studiosi (Bassnett-McGuire 1980:134).

La terza tendenza è rappresentata da James S. Holmes che, nei suoi scritti, ha abduttivamente creato i translation studies come sistema gerarchico descrivibile in chiave tassonomica, basandosi sulla complementarità di diverse teorie messe insieme. Sostiene che, per prima cosa, sia necessaria una teoria del processo traduttivo per poter riflettere su ciò che accade quando una persona decide di tradurre qualcosa. L’esigenza successiva riguarda la teoria del prodotto traduttivo, che serve per determinare lo specifico della traduzione in quanto tipo di testo particolare. E, come terza esigenza, una teoria della funzione traduttiva per comprendere il comportamento della traduzione nella cultura ricevente. Queste tre teorie non possono essere normative, poiché cercano di descrivere la situazione e non impongono alcuna regola. Tuttavia, la normatività è importante nella quarta teoria, quella della didattica della traduzione (Holmes 1988:95). Holmes ha, infatti, formulato il programma di una scienza interdisciplinare della traduzione, anche se le varie teorie della traduzione elaborano il programma in modi diversi e lo sviluppo è lungi dall’essere equilibrato.


Holmes did not create any illusions for himself, calling balanced translation studies a disciplinary utopia (Holmes 1988:109). Although Holmes’s taxonomy is in active use today, methodological innovation has not yet taken place and it is too early to speak of integrated translation studies. In the opinion of Edwin Gentzler who values Holmes’s model highly the enrichment of translation studies adding other cultural disciplines is still neglected: ‘With regard to the future of translation theory within the field of Translation Studies, while many date the cultural turn in Translation Studies as beginning in the 1990s, it is still in its infant stages’ (Gentzler 2003:22). Thus, before consolidation translation studies should open up. Gentzler states:

James Holmes called for a dialectical interchange among the various branches within Translation Studies. I agree with him and yet would open his directive to a broader enterprise. My hope is that a truly open, interdisciplinary, and dialectical interchange of ideas can now take place with scholars outside the discipline, from any number of other fields. (2003:23)

 

2.         The aspect of translation semiotics

Translation semiotics has its own identity but it is also closely related to translation studies. On the one hand, translation semiotics and, more generally, semiotics of culture are metadisciplines that enable translation studies to move towards the necessary methodological synthesis and provide a descriptive language. On the other hand, it can be argued that explicit translation semiotics is at the same time implicit translation studies. It is characteristic that when projecting modern translation studies on Holmes’s model of translation studies, semiotic translation theoreticians are forced to admit that the ‘pure’ theoretical branch of translation studies is still weak. This is expressed, among other things, in the incompetence of translation theory to answer the basic question what makes a translation a translation (Stecconi 2004:472-473).


Holmes non si era fatto illusioni, considerando i translation studies equilibrati un’utopia disciplinare (Holmes 1988:95). Anche se la tassonomia di Holmes è ancora in auge, non è avvenuta un’innovazione metodologica ed è troppo presto per parlare di scienza della traduzione integrata. Secondo Edwin Gentzler, che dà molta importanza al modello di Holmes, l’arricchimento dei translation studies aggiungendo altre scienze della cultura è ancora trascurato: «Per quanto riguarda il futuro della teoria della traduzione nell’ambito dei Translation Studies, anche se molti fanno risalire la svolta culturale all’inizio degli anni ’90, i Translation Studies sono ancora in una fase infantile» (Gentzler 2003:22). Perciò, prima di consolidarsi i translation studies dovrebbero aprirsi. Gentzler afferma:

James Holmes invocava uno scambio dialettico tra le varie discipline all’interno dei Translation Studies. Sono d’accordo con lui, ma amplierei il senso della sua indicazione. Ciò che spero è che possa esserci uno scambio interdisciplinare e dialettico veramente aperto con studiosi al di fuori della disciplina, provenienti da tanti ambiti diversi (2003:23).

 

2. L’aspetto della semiotica della traduzione

La semiotica della traduzione ha una propria identità, ma è anche strettamente collegata alla scienza della traduzione. Da un lato, la semiotica della traduzione e, più in generale, la semiotica della cultura sono metadiscipline che permettono alla scienza della traduzione di spingersi verso la necessaria sintesi metodologica e forniscono un linguaggio descrittivo. Dall’altro, si può sostenere che la semiotica della traduzione esplicita è allo stesso tempo la scienza della traduzione implicita. Un aspetto curioso è che nel proiettare la scienza della traduzione moderna sul modello dei translation studies di Holmes, i teorici di semiotica della traduzione sono obbligati ad ammettere che l’ambito “puramente” teorico della scienza della traduzione è ancora debole. Ciò si esprime, tra le altre cose, nell’incapacità della teoria della traduzione di rispondere alla domanda di base su cosa fa di una traduzione una traduzione (Stecconi 2004:472-473).


At the same time, the search for an answer to this question demonstrates that translation studies are essentially semiotic.

The key point for defining translation is establishing the boundaries of the translation text, which in semiotic analysis is one of the first procedural moves towards understanding something in its wholeness or as a whole. Thus, the starting point for defining translation is the question of the boundary between translation and non-translation. One possible answer to this question is ‘translation is everything called translation,’ in which case the notion of boundary has to be further specified. The result is a distinction between two more boundaries. The first one is the boundary between the translation and the original, and the second one is the boundary between the translation and the recipient culture (Torop 2000c:599).

Another option for defining translation has been suggested by Andrew Chesterman and Rosemary Arrojo. They have employed the polarity ‘essentialism versus non-essentialism’ to emphasize the complexity of the problem for translation studies in the twenty-first century, arguing:

In general, essentialism claims that meanings are objective and stable, that the translator’s job is to find and transfer these and hence to remain as invisible as possible. Non-essentialism, on the other hand, basically claims that meanings (including the meaning of the concept of ‘translation’) are inherently non-stable, that they have to be interpreted in each individual instance, and hence that the translator is inevitably visible. (Chesterman and Arrojo 2000:151)

From this polarity, a new logic for defining translation can be derived. Chesterman and Arrojo argue further:

The question ‘What is a translation?’ is closely linked to the question ‘What is a good translation?’. TS [1⁄4 translation studies] is interested in studying how opinions and criteria concerning translation quality vary within and across cultures and periods. It is also interested in seeing whether there are quality criteria that are shared across cultures and periods. (2000:154)

From this argument, we are back at the issues of invariance and variance.

By the end of the 1990s, the replacement of the concept of adequacy by the concept of acceptability had created a new need for paying close attention to the issue of translation quality (Schäffner 1998).


Allo stesso tempo, la ricerca di una risposta a questa domanda dimostra che la scienza della traduzione è essenzialmente semiotica.

Il punto chiave nel definire «traduzione» è stabilire i confini del testo tradotto, che nell’analisi semiotica è uno dei primi passi della procedura per comprendere qualcosa nella sua interezza o nell’insieme. Perciò il punto di partenza per definire «traduzione» è la questione del confine tra «traduzione» e «non traduzione». Una risposta possibile è «traduzione è tutto ciò chiamato “traduzione”», nel qual caso il concetto di «confine» dev’essere specificato ulteriormente. Il risultato è la distinzione tra altri due confini. Il primo è il confine tra la traduzione e l’originale e il secondo è il confine tra la traduzione e la cultura ricevente (Torop 2000b:599).

Un’altra opzione per definire «traduzione» è stata suggerita da Andrew Chesterman e Rosemary Arrojo, che hanno utilizzato la polarità «essenzialismo versus non essenzialismo» per evidenziare la complessità del problema della scienza della traduzione nel ventunesimo secolo, sostenendo:

In generale, l’essenzialismo afferma che i significati sono oggettivi e stabili, che il compito del traduttore è di trovarli e trasferirli e perciò di rimanere invisibile il più possibile. Il non essenzialismo, invece, praticamente afferma che i significati (compreso il significato del concetto di «traduzione») sono intrinsecamente non-stabili, che devono essere interpretati in ogni singolo caso, e perciò il traduttore è inevitabilmente visibile. (Chesterman e Arrojo 2000:151)

Da questa polarità può derivare una nuova logica per definire «traduzione». Chesterman e Arrojo continuano:

La domanda «Cos’è una traduzione?» è strettamente legata alla domanda «Cos’è una buona traduzione?» La scienza della traduzione s’interessa di studiare in che modo variano le opinioni e i criteri che riguardano la qualità della traduzione in culture e periodi diversi. S’interessa anche di scoprire se ci sono criteri qualitativi condivisi in culture e periodi diversi. (2000:154)

Da quest’argomentazione ritorniamo ai concetti d’invarianza e varianza.

Alla fine degli anni ’90, la sostituzione del concetto di accettabilità al concetto di adeguatezza aveva creato la necessità di fare molta attenzione alla questione della qualità della traduzione (Schäffner 1998).


The concerns with the quality of translation brought into focus the possibility of a theory of ‘good’ translation, which started from distinguishing two levels of questions. First, when comparing two texts, the questions that need to be asked on the first level are: ‘Is this text a translation of the other, or is it not? And if it is, is it a good translation?’ (Halliday 2001:14). On the second level, the same questions become more precise: ‘Why is this text a translation of the other? And why is it, or is it not, a good translation? In other words: how we know?’ (Halliday 2001:14).

But these new kinds of questions are really eternal questions. For a long time attempts have been made to find out the reasons why readers, given the choice between two (or more) translations of one original text, prefer certain translation(s) over others. A possible answer (the whole question is problematic) is the perceptual integrity of translation. The convincing proof is that both linguistic well-formedness and semiotic coherence are functional. It is vital for both translators as well as readers of translations that the text would activate flights of imagination, engaging all human senses. The senses include perceiving the visuality of the text, a feature difficult to pinpoint. In addition to translators’ own comments on their visualization techniques, it has also been argued within translation theory that the precondition to composing a ‘good’ translation is the translator’s recognition of the visual perceptibility of the text to be translated (Schulte 1980:82), while the failure to recreate the visual perceptibility of the text is listed among the shortcomings of translation (Caws 1986:60-61). Thus, a ‘good’ translation is perceptually an integrated whole and can be effectively visualized in the imagination of the reader.

The study of textual visuality and more broadly of all perceptibility of a verbal translation has developed in three main directions.


preoccupazioni per la qualità della traduzione hanno messo a fuoco la possibilità di una teoria della traduzione “buona”, che cominciava distinguendo due livelli di domande. Per prima cosa, nel raffrontare due testi, le domande che vanno poste al primo livello sono: «Questo testo è la traduzione dell’altro, o non lo è? E se lo è, è una buona traduzione?» (Halliday 2001:14). Al secondo livello, le stesse domande diventano più precise: «Perché questo testo è la traduzione dell’altro? E perché è, o non è, una buona traduzione? In altre parole: come facciamo a saperlo?» (Halliday 2001:14).

Ma questi nuovi tipi di domande in realtà sono domande che continueremo a porci per sempre. A lungo si è cercato di scoprire le ragioni per cui i lettori, dovendo scegliere tra due (o più) traduzioni di un testo originale, preferiscano certe traduzioni rispetto ad altre. Una possibile risposta (l’intera questione è problematica) è l’integrità percettiva della traduzione. La prova decisiva è che sia una buona struttura linguistica, sia la coerenza semiotica sono determinanti. È vitale sia per i traduttori, sia per i lettori delle traduzioni, che il testo riesca ad attivare fughe d’immaginazione, coinvolgendo tutti i cinque sensi. I sensi includono la percezione della visualità del testo, un aspetto difficile da individuare. Oltre ai commenti dei traduttori riguardo alle proprie tecniche di visualizzazione, all’interno della scienza della traduzione si è anche sostenuto che la condizione necessaria per fare una “buona” traduzione sia il riconoscimento da parte del traduttore della percettibilità visuale del testo da tradurre (Schulte 1980:82), mentre l’impossibilità di ricreare la percettibilità visuale del testo è catalogato tra i difetti della traduzione (Caws 1986:60-61). Perciò una “buona” traduzione è un tutto integrato a livello percettivo e può essere visualizzata in modo efficace nell’immaginazione del lettore.

Lo studio della visualità testuale e, in senso più ampio, dell’intera percettibilità di una traduzione verbale si è sviluppato in tre direzioni principali.


One direction is the wide uses of linguistic means including paralinguistic elements in the analysis (Poyatos 1997). This direction pays attention to the performance qualities of a text and regards narrative or other non-dramaturgic texts as framing scenes to which are added the author’s comments on the objects, movements, facial expressions, manner of speaking, and so forth. A second direction is psychological, and focuses on the interaction between the verbal and the visual, the speech and the picture both in inner speech as well as in the processes of perception and reception (cf. Osimo 2002). The third direction is comparative, displaying the broader nature of translation activity through film, especially through film adaptations of literary works. The last alternative is not only material but reveals the semiotic side of translation mechanisms and shows the division of the verbal text into audial, visual, and verbal components (Cattrysse 1992; Remael 1995; Torop 2000a).

With the introduction of multimedia studies, many authors who had so far focused on comparing translation with film adaptation of literary works, turned their attention to multimedia. The study of multimedia and of the related phenomenon of multimodality has broadened the methodological perspective towards a more accurate understanding of the semiotic nature of translation. Thus Aline Remael assures that

[…] the nature of multimodal or even multimedia texts need not require translation scholars to abandon all their trusted methods . . . I have demonstrated the usefulness of the simple application of a few concepts from a branch of socio-semiotics concerned with the production of multimodal texts which can easily be incorporated into existing methods in translation studies. (Remael 2001:21)

Whereas Patrick Cattrysse ends his article with his own proposal for a new kind of collaboration that would benefit all parties:

To me, the largest challenge for multimedia translation seems to be the new types of collaboration. Such new types of collaboration will be necessary on three levels: on the level of scientific research, on the level of education and training, and on the level of MM [multimedia] production. (Cattrysse 2001:11)


Una di queste riguarda gli ampi usi del mezzo linguistico, inclusi gli elementi paralinguistici, nell’analisi (Poyatos 1997). Questa direzione fa attenzione alle qualità della prestazione di un testo e considera le narrazioni, o altri testi non drammaturgici, cornici nelle quali vengono aggiunti i commenti dell’autore sugli oggetti, i movimenti, le espressioni facciali, i modi di parlare e così via. Una seconda direzione è quella psicologica, che si focalizza sull’interazione tra il verbale e il visivo, il discorso e l’immagine sia nel discorso interno, sia nei processi di percezione e ricezione (Osimo 2002).  La terza direzione è quella comparativa, che mostra la natura più ampia dell’attività traduttiva attraverso i film, in special modo attraverso gli adattamenti filmici di opere verbali. Quest’ultima alternativa non è solo materiale, ma rivela il lato semiotico dei meccanismi traduttivi e mostra la divisione di un testo in componenti uditive, visive e verbali (Cattrysse 1992; Remael 1995; Torop 2000a).

Con l’introduzione degli studi sulla multimedialità, molti autori, che fino ad allora si erano concentrati sul paragone tra traduzione e adattamento filmico di opere verbali, hanno rivolto la loro attenzione alla multimedialità. Lo studio della multimedialità e il relativo fenomeno della multimodalità hanno ampliato l’orizzonte metodologico verso una più accurata comprensione della natura semiotica della traduzione. Perciò Aline Remael assicura che

[…] la natura dei testi multimodali o addirittura multimediali non rende necessario che gli studiosi abbandonino tutti i loro metodi fidati. […] Ho dimostrato l’utilità della semplice applicazione di alcuni concetti, provenienti da un ramo della sociosemiotica che si occupa della produzione di testi multimodali, che possono essere facilmente compresi nei metodi esistenti nella scienza della traduzione (Remael 2001: 21).

Mentre invece Cattrysse conclude il suo articolo con la proposta di un nuovo tipo di collaborazione, di cui tutti beneficerebbero:

A me la sfida più grande per la traduzione multimediale sembrano i nuovi tipi di collaborazione. Questi nuovi tipi di collaborazione saranno necessari a tre livelli: a livello di ricerca scientifica, a livello di istruzione e formazione e a livello di produzione multimediale (Cattrysse 2001: 11).


Cattrysse links comparative communication studies (or better, comparative semiotics) with translation studies (2001:6) in order to reply to these essential questions of modern translation activity:

How can we compare messages expressed in different semiotic systems? How can we establish tertia comparationes? How can we describe and explain the different translational processes in a systemic way? How can we describe and explain the final results of the translational processes? How can we describe and explain the functioning of these results within their respective target contexts? (Cattrysse 2001:8–9)

These are just some of the fundamental questions that Cattrysse poses in his article.

Disciplines studying translation have thus reached a stage where the nature of translation text is being reinterpreted and the semiotic fidelity of the translation text to the original is being defined. Therefore, it has become important to distinguish between isosemiotic and polysemiotic texts, both on the level of autonomous texts as well as on the level of textual parameters (Gottlieb 2003:178-179). The changes that the ontology of the translation text and the status of translation activity have undergone in culture imply that the object of translation studies is equally subject to a complex semiotic treatment and that the methodology of translation studies needs to reach an agreement with the dynamics of culture.

The contacts between translation studies and translation semiotics have multiplied and created a common methodological translatability. As part of translation studies, translation semiotics has provided a different outlook on the problems of translatability, from the linguistic worldview to the functions of translation text as a text of culture. A new approach to translatability has in turn made it possible to raise the problem of semiotic coherence. As part of semiotics, translation semiotics engages in comparative analysis of sign systems and functional relations between different sign systems. As an autonomous discipline, translation semiotics is one of the primary disciplines


Cattrysse collega lo studio della comunicazione comparativa (o meglio, la semiotica comparativa) con la scienza della traduzione (2001:6) per rispondere a queste domande fondamentali sull’attività traduttiva moderna:

Come facciamo a comparare messaggi espressi in diversi sistemi semiotici? Come facciamo a stabilire i tertia comparationis? Come facciamo a descrivere e spiegare i diversi processi traduttivi in modo sistemico? Come facciamo a descrivere e spiegare i risultati finali dei processi traduttivi? Come facciamo a descrivere e spiegare il funzionamento di questi risultati all’interno dei rispettivi contesti di ricezione? (Cattrysse 2001:8-9)

Queste sono solo alcune delle domande fondamentali che Cattrysse pone nel suo articolo.

Le discipline che studiano la traduzione hanno, quindi, raggiunto uno stadio in cui si reinterpreta la natura del testo tradotto e si definisce la fedeltà semiotica del testo tradotto all’originale. Perciò è diventato importante distinguere tra testi isosemiotici e polisemiotici, sia a livello di testi autonomi, sia a livello di parametri testuali (Gottlieb 2003:178-79). I cambiamenti dell’ontologia del testo tradotto e dello status dell’attività traduttiva nella cultura implicano che l’oggetto della scienza della traduzione sia ugualmente soggetto a un complesso trattamento semiotico e che la metodologia della scienza della traduzione debba trovare un accordo con la dinamica della cultura.

I contatti tra scienza della traduzione e semiotica della traduzione si sono moltiplicati e hanno determinato una traducibilità metodologica comune. Come parte della scienza della traduzione, la semiotica della traduzione ha fornito una prospettiva diversa riguardo ai problemi di traducibilità, dalla visione linguistica del mondo alle funzioni del testo tradotto in quanto testo della cultura. Un nuovo approccio alla traducibilità ha a sua volta reso possibile sollevare il problema della coerenza semiotica. Come parte della semiotica, la semiotica della traduzione si occupa dell’analisi comparativa dei sistemi di segni e dei rapporti funzionali tra diversi sistemi di segni. Come disciplina autonoma, la semiotica della traduzione è una delle discipline primarie


of cultural analysis as it provides the means, through its semiotic approach, to distinguish and discern the degree of sign systems’ translatability, then to describe both communication and metacommunication, and subsequently to associate these communication processes with the intertextual, interdiscursive, and intermedial space in the present-day culture (Torop 2001). But the theoretical formulation of present-day problems already had its beginnings a long time ago, and the present problems of translation studies and translation semiotics have largely been formulated already in the works of Roman Jakobson. This means that the endeavor to innovate can sometimes lead us into historical perceptions.

3.         Jakobsonian perspective

The genesis of Jakobson’s translation semiotic thinking was influenced by his reading of Peirce. This aspect of genesis has been closely observed by one of the most renowned representatives of translation semiotics, Dinda L. Gorlée, in her chapter ‘Translation after Jakobson after Peirce’ (Gorlée 1994:147-168). The aim of this chapter is

[…] to discuss translation as singled out by Jakobson among Peirce’s sign- theoretical concepts, and which Jakobson utilized again in a more restricted sense than originally intended by Peirce. For Jakobson, and in contradistinction to Peirce, translation is a metalinguistic process always involving language. I will propose and argue that the three kinds of translation put forth by Jakobson (1959:233; 1971b:261) can be construed and (re)refined in terms of Peirce’s three ontological categories, or modes of being. (Gorlée 1994:148)

Thus, Jakobson can be analyzed by means of methodological back translation into the contours that had earlier inspired him, into the works of Peirce. Gorlée, as a true expert on Peirce, carries out this project. Without stopping there, Gorlée develops a concept of semiotranslation, which ‘is a unidirectional, future-oriented, cumulative, and irreversible process, a growing network which should not be pictured as a single line emanating from a source text toward a designated target text’ (Gorlée 2004:103-104).


dell’analisi culturale, poiché fornisce i mezzi, attraverso il suo approccio semiotico, per distinguere e discernere il grado di traducibilità dei sistemi segnici, poi per descrivere sia la comunicazione, sia la metacomunicazione, e di conseguenza per associare questi processi di comunicazione allo spazio intertestuale, interdiscorsivo e intermediale nella cultura contemporanea (Torop 2001). Ma la formulazione teorica dei problemi contemporanei ha avuto inizio molto tempo fa e gli attuali problemi della scienza della traduzione e della semiotica della traduzione sono stati ampiamente elaborati già negli scritti di Roman Jakobson. Ciò significa che lo sforzo verso l’innovazione talvolta può portarci verso prospettive storiche.

3. La prospettiva di Jakobson

La nascita delle riflessioni semiotiche di Jakobson intorno alla traduzione è stata influenzata dalla lettura di Peirce. Questo aspetto è stato studiato minuziosamente da uno dei più noti rappresentanti della semiotica della traduzione, Dinda L. Gorlée, nel suo capitolo «Translation after Jakobson, after Peirce» (Gorlée 1994:147-168). Lo scopo di questo capitolo è:

[…] discutere la traduzione individuata da Jakobson tra le teorie del segno di Peirce, e che Jakobson ha riutilizzato in senso più ristretto di quanto intendesse Peirce in origine. Per Jakobson, e in contraddizione con Peirce, la traduzione è un processo metalinguistico che coinvolge sempre la lingua. Io propongo e sostengo che i tre tipi di traduzione elaborati da Jakobson (1959:233; 1971b:261) possono essere interpretati e (ri)rifiniti nei termini delle tre categorie ontologiche di Peirce, o modalità dell’essere. (Gorlée 1994:148)

Perciò si può analizzare Jakobson per mezzo di una traduzione metodologica inversa nei termini degli scritti di Peirce che lo avevano ispirato. Gorlée, in quanto vera esperta di Peirce, realizza questo progetto. Ma non si ferma qui. Sviluppa, infatti, il concetto di «semiotraduzione», che è «un processo unidirezionale, orientato al futuro, cumulativo e irreversibile, una rete in espansione che non deve essere rappresentata come una linea singola che deriva da un prototesto verso un determinato metatesto» (Gorlée 2004:103-104).


Semiotranslation is a complex metadisciplinary concept, which also influences the definition of translator’s competence and defines the knowledge of the translator as follows:

[…] the professional translator must have learned and internalized a vast number of associations and combinations with reference to individual languages (intralingual translation), language pairs (interlingual translation), and the interactions between language and nonverbal sign systems (intersemiotic translation). (Gorlée 2004:129)

Other scholars associated with semiotics have developed Jakobson’s views on translation according to their own ways of thinking and aims. A good example is provided by a series of modifications based on Jakobson’s typology of three kinds of translation, proposed by Gideon Toury in 1986, Umberto Eco in 2001, 2003 and Susan Petrilli in 2003.1 All of these authors have their own interpretation of Jakobson’s typology seen from their own angle, and come with their own theoretical premises.

In Jakobson’s now classic article of 1959 ‘On linguistic aspects of translation’ he distinguishes ‘three ways of interpreting a verbal sign’ (Jakobson 1971 [1959]:261): a verbal sign may be translated into other signs of the same language (intralingual translation), into another language (interlingual translation), or into another, nonverbal system of symbols (intersemiotic translation or transmutation).2 At the time of its appearance, the victory of Jakobson’s article lay in the introduction of a wider perspective on translation (cf. Levy ́ 1974:35; Steiner 1998 [1975]:274), which made possible the introduction of intersemiotic translation (Eco 2001:67).

The first revision of Jakobson’s typology was offered by Gideon Toury in his article ‘Translation: A cultural-semiotic perspective’ written for the Encyclopedic Dictionary of Semiotics (1986). Toury tries to form a systematic view of translation-related issues as seen from a cultural-semiotic angle and is forced to admit that translation studies is short of typologies of translating processes and translating activities.


La semiotraduzione è un complesso concetto metadisciplinare, che influenza anche la definizione della competenza del traduttore e definisce la conoscenza del traduttore come segue:

[…] il traduttore professionale deve aver imparato e interiorizzato un gran numero di associazioni e combinazioni in riferimento a singole lingue (traduzione intralinguistica), coppie di lingue (traduzione interlinguistica) e le interazioni tra lingua e sistemi di segni non verbali (traduzione intersemiotica) (Gorlée 2004:129).

Altri studiosi che si occupano di semiotica hanno sviluppato le opinioni di Jakobson sulla traduzione in base ai loro modi di pensare e ai loro scopi. Una serie di modifiche basate sulla tipologia di Jakobson dei tre tipi di traduzione, proposte da Gideon Toury nel 1986, da Umberto Eco nel 2001 e nel 2003 e da Susan Petrilli nel 2003 ne offrono un buon esempio1. Tutti questi autori hanno interpretato dal proprio punto di vista la tipologia di Jakobson e sono partiti dai propri presupposti teorici.

Nell’articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione», ormai diventato un classico, Jakobson distingue «tre modi di interpretare un segno verbale» (Jakobson 1971 [1959]: 261): un segno verbale può essere tradotto in altri segni della stessa lingua (traduzione intralinguistica), in un’altra lingua (traduzione interlinguistica) o in un altro sistema non verbale di simboli (traduzione intersemiotica o trasmutazione)2. Al momento della pubblicazione, la conquista dell’articolo di Jakobson stava nell’introduzione di una prospettiva più ampia sulla traduzione (Levy 1974:35; Steiner 1998 [1975]:274), che ha reso possibile l’introduzione della traduzione intersemiotica (Eco 2001:67).

Gideon Toury ha proposto la prima rilettura della tipologia di Jakobson nel suo articolo «Translation: A cultural-semiotic perspective», scritto per l’Enciclopedic Dictionary of Semiotics (1986). Toury cerca di formare un punto di vista sistematico sulle questioni inerenti alla traduzione, viste da una prospettiva semiotico-culturale ed è obbligato ad ammettere che la scienza della traduzione è a corto di tipologie per i processi traduttivi e le attività traduttive.


Jakobson’s classification, Toury maintains, is the ‘only typology which has gained some currency’ in translation studies (Toury 1986:1113), and is an elaboration of the relations between the basic types of two codes. Toury has several objections to Jakobson’s classification: his typology is obviously biased towards linguistic translating,3 and it is ‘readily applicable only to texts, that is, to semiotic entities which have surface, overt representations’ (Toury 1986:1113) adding that Jakobson’s typology is unable to account for the fact that texts, ‘when undergoing an act of translating … may have more than one semiotic border to cross’ (Toury 1986:1113). For Toury, however, the notion that ‘translating is an act (or a process) which is performed (or occurs) over and across systemic borders’ (1986:1112) is precisely the differentia specifica of translating as a type of semiotic activity and should therefore be taken account of. In his opinion, a typology of translating processes based on the relations between the underlying codes could have been rendered more general, and by way of example, he offers his own version based on Jakobson’s typology where the most general division is made between intrasemiotic and intersemiotic translating, with the first category further divided into intrasystemic and intersystemic translating. Thus, in Toury’s scheme, ways of translating that involve language (intralingual, interlingual, and translation from language to non-language) are reduced to the level of possible examples of translative processes within or between different systems (Toury 1986:1114).

Toury’s typology is constructed from a different viewpoint than Jakobson’s approach. Jakobson’s point of departure is natural language: he outlines the various possibilities of interpreting a verbal sign. Toury so-to-say steps outside the natural language, decentralizes it, and reorganizes Jakobson’s single-level tripartition into a two-level typology.

Another scholar to have taken up Jakobson’s typology and developed it according to his views is Umberto Eco


La classificazione di Jakobson, afferma Toury, è «l’unica tipologia che ha ottenuto un minimo di diffusione» nella scienza della traduzione (Toury 1986:1113), ed è un’elaborazione dei rapporti tra i tipi base di due codici. Toury contesta in vari modi la classificazione di Jakobson: la sua tipologia è ovviamente sbilanciata verso la traduzione verbale3 ed è «applicabile senza difficoltà solo ai testi, ovvero a entità semiotiche che hanno delle rappresentazioni superficiali ed evidenti» (Toury 1986:1113) e aggiunge che la tipologia di Jakobson non è in grado di giustificare il fatto che i testi «quando sono soggetti a un atto traduttivo […] possono avere più di un confine semiotico da attraversare» (Toury 1986:1113). Tuttavia, per Toury l’idea che «tradurre è un atto (o un processo) che si compie (o avviene) al di là di e attraverso confini sistemici» (1986:1112) è precisamente la differentia specifica della traduzione come tipo di attività semiotica e perciò dovrebbe essere presa in considerazione. Secondo lui, una tipologia dei processi traduttivi basata sui rapporti tra i codici coinvolti sarebbe potuta essere più generale e, con un esempio, propone la propria versione basata sulla tipologia di Jakobson, in cui la divisione più generale è tra traduzione intrasemiotica e intersemiotica e la prima categoria è a sua volta divisa in traduzione intrasistemica e intersistemica. Perciò, secondo lo schema di Toury, i modi di tradurre che coinvolgono la lingua (traduzione intralinguistica, interlinguistica o traduzione da una lingua a una non lingua) si riducono al livello di possibili esempi di processi traduttivi in o tra sistemi diversi (Toury 1986:1114).

La tipologia di Toury è costruita da un punto di vista diverso dall’approccio di Jakobson. Il punto di partenza di Jakobson è il linguaggio naturale e delinea le varie possibilità d’interpretazione di un segno verbale. Toury, per così dire, esce dal mondo del linguaggio naturale, lo decentra e riorganizza la tripartizione Jakobsoniana a un livello in una tipologia a due livelli.

Un altro studioso che ha ripreso la tipologia Jakobsoniana e la ha sviluppata secondo il proprio punto di vista è Umberto Eco,


in his book Experiences in Translation (2001) and later in its Italian and expanded version Dire quasi la stessa cosa (2003). Eco suggests, first, that Jakobson most probably meant that his three types of translation are in fact three types of interpretation, and if one did not pay closer attention, ‘it would be easy to succumb to the temptation to identify the totality of semiosis with a continuous process of translation; in other words, to identify the concept of translation with that of interpretation’ (Eco 2001:68). Eco explains Jakobson’s indifference towards clarifying the relations between translation and interpretation with the fact that Jakobson, the first linguist to discover ‘the fecundity of Peircean concepts’ (Eco 2001:68), fell prey to Peirce’s ‘notoriously protean and often impressionistic’ vocabulary (Eco 2001:69), which led to the use of the word ‘translation’ as a synecdoche for ‘interpretation.’ Eco, however, insists that the identification of the concepts of translation and interpretation should be avoided and sets out to ‘to show that the universe of interpretations is vaster than that of translation proper’ (Eco 2001:73).

Thus, Eco proposes a different classification of the forms of interpretation, a classification where ‘due importance is attached to the problems posed by variations in both the substance and the purport of the expression’ (Eco 2001:99-100). As is evident from Eco’s choice of words, his point of reference here is Louis Hjelmslev’s theory of language with the distinctions between form, substance, and purport (or continuum).4 Besides the influence of Hjelmslev and the obvious point of departure in Jakobson’s tripartition, Eco’s classification shows also some similarities with Toury’s typology as discussed above (although Toury’s name goes unmentioned in Eco). While Jakobson’s original typology distinguished between three categories and Toury’s modification resulted in four general categories divided between two levels, Eco’s classification has a total of thirteen categories divided between three levels.


nel suo libro Experiences in Translation (2001) e poi in Dire quasi la stessa cosa (2003), la versione italiana più estesa. Eco sostiene, per prima cosa, che molto probabilmente Jakobson pensava che i suoi tre tipi di traduzione fossero in realtà tre tipi di interpretazione e se non ci si prestasse particolare attenzione «sarebbe facile soccombere alla tentazione di identificare la semiosi nella sua totalità con un continuo processo di traduzione; in altre parole, di identificare il concetto di “traduzione” con quello d’“interpretazione”» (Eco 2001:68). Eco spiega l’indifferenza di Jakobson nei confronti della precisazione dei rapporti tra traduzione e interpretazione con il fatto che Jakobson, il primo linguista a scoprire «la fecondità delle idee di Peirce» (Eco 2001:68), è stato vittima del vocabolario di Peirce «notoriamente mutevole e spesso impressionistico» (Eco 2001:69), che ha portato all’uso della parola «traduzione» come sineddoche di «interpretazione». Tuttavia, Eco sostiene che si debba evitare l’identificazione dei concetti di «traduzione» e «interpretazione» e si propone «di mostrare che l’universo delle interpretazioni è più vasto di quello della traduzione vera e propria» (Eco 2001:73).

Perciò Eco propone una diversa classificazione delle forme d’interpretazione, una classificazione in cui «si dà la giusta importanza ai problemi posti dalle variazioni sia nella sostanza, sia nella portata dell’espressione» (Eco 2001:99-100). Come appare evidente dalla scelta di parole di Eco, qui il suo punto di riferimento è la teoria del linguaggio di Louis Hjelmslev e le distinzioni tra forma, sostanza e portata (o continuum)4. Oltre all’influenza di Hjelmslev e all’ovvio punto di partenza nella tripartizione di Jakobson, la classificazione di Eco mostra anche qualche somiglianza con la tipologia di Toury di cui sopra (anche se il nome di Toury non viene menzionato da Eco). Mentre la tipologia originale di Jakobson distingueva tre categorie e la variazione di Toury ha avuto come risultato quattro categorie generali divise in due livelli, la classificazione di Eco ha un totale di tredici categorie divise in tre livelli.


Similarly to Jakobson, Eco’s initial division on the highest level is tripartite, but since the first class, interpretation by transcription, is soon dismissed as taking place by automatic substitution and therefore as uninteresting for the discussion at hand (Eco 2001:100), the initial division is left essentially with two classes, intrasystemic interpretation and intersystemic interpretation.

This division is already rather similar to Toury’s typology, with the main difference lying in the fact that for Toury, the word ‘semiotic’ is more general than ‘systemic’ (e.g. in Toury’s typology, intrasemiotic translating is subdivided into intrasystemic and intersystemic translating). For Eco, on the contrary, ‘systemic’ is a wider concept than ‘semiotic.’ As already mentioned, the first class of the most general level (interpretation by transcription) has no further subdivisions at all. The second class (intrasystemic interpretation) has three subclasses (intralinguistic interpretation, intrasemiotic interpretation, and performance), and the third class (intersystemic interpretation) falls into two subdivisions (with marked variation in the substance and with mutation of continuum), the first one of which has three further subclasses (interlinguistic interpretation, rewriting, and translation between other semiotic systems) and the second has two subclasses (parasynonymy and adaptation).

Since Eco’s central concern is to single out ‘translation proper’ (that is, what is generally understood by ‘translation’ and takes place between natural languages) from among other types of interpretation, translation in natural language remains the implicit focal point of his typology. This may explain why the word ‘linguistic’ appears in Eco’s classification on the same classificatory level as ‘semiotic,’ not as a subclass of ‘semiotic.’ The semiolinguistic category is further supported by the long tradition in (anthropo)semiotics that regards natural language as the central and pri- mary means of communication, the primary modeling system.5


Similmente a Jakobson, la divisione iniziale di Eco al livello più elevato è tripartita, ma poiché la prima classe, «interpretazione per trascrizione», viene presto scartata perché avviene tramite sostituzione automatica e perciò non è rilevante per la discussione in questione (Eco 2001:100), la divisione iniziale rimane essenzialmente con due classi, l’interpretazione intrasistemica e l’interpretazione intersistemica.

Questa divisione è già piuttosto simile alla tipologia di Toury; la differenza principale risiede nel fatto che per Toury la parola «semiotico» è più generica di «sistemico» (per esempio, nella tipologia di Toury la traduzione intrasemiotica è suddivisa in traduzione intrasistemica e intersistemica). Per Eco, invece, «sistemico» è un concetto più ampio di «semiotico». Come già accennato, la prima classe del livello più generico (interpretazione per trascrizione) non ha ulteriori suddivisioni. La seconda classe (interpretazione intrasistemica) ha tre sottoclassi (interpretazione intralinguistica, interpretazione intrasemiotica e performance) e la terza classe (interpretazione intersistemica) è soggetta a due suddivisioni (in base a una variazione marcata nella sostanza o a una mutazione del continuum), la prima delle quali ha altre tre sottoclassi (interpretazione interlinguistica, riscrittura, e traduzione tra altri sistemi semiotici) e la seconda ha due sottoclassi (parasinonimia e adattamento).

Poiché l’interesse principale di Eco è selezionare la «traduzione vera e propria» (ovvero, ciò che generalmente s’intende con «traduzione» e che avviene tra linguaggi naturali) da altri tipi d’interpretazione, la traduzione in una lingua naturale rimane il punto focale implicito della sua tipologia. Questo forse spiega perché la parola «linguistico» nella classificazione di Eco appaia allo stesso livello classificatorio di «semiotico», non come sottoclasse di «semiotico». La categoria semiolinguistica è inoltre sostenuta dalla lunga tradizione dell’antroposemiotica che considera il linguaggio naturale il mezzo di comunicazione principale e più importante, il sistema di modellizzazione più importante.5


The most recently published interpretation of Jakobson’s typology comes from Susan Petrilli in her article ‘Translation and semiosis. Introduction’ (2003). Combining Jakobson’s typology with Peircean semiotics, she states at the very beginning that ‘in the first place to translate is to interpret’ (Petrilli 2003:17), that translation is constitutive of the sign and that sign activity is, in fact, a translative process. This means that, quoting Petrilli, ‘translation does not only concern the human world, anthroposemiosis, but rather is a constitutive modality of semiosis, or more exactly, of biosemiosis’ (Petrilli 2003:17) and therefore, translative processes can be said to pervade the entire living world, the biosphere.6

Petrilli proposes a comprehensive typology of translating processes, ranging from intersemiosic translation (translative processes across two or more sign systems) and endosemiosic translation (translative processes internal to a given system) in biosemiosphere to diamesic, diaphasic, and diglossic translation (translation between written and oral language, across registers, and between a standard language and a dialect, respectively) (Petrilli 2003:19-20). Petrilli prefers to use the prefix endo- instead of intra- in the terms endosemiosic, endolinguistic, endoverbal, endolingual. Usually, terms that work together belong to the same system: thus, a term with a prefix ‘endo-’ would normally assume the use of its counterpart, a term with a prefix ‘exo-,’ and similarly, ‘inter-’ would assume its counterpart ‘intra-’. Therefore the terminological field of Petrilli’s classification makes a somewhat heterogeneous and disorienting model, particularly in the case of endolingual translation which essentially corresponds to Jakobson’s intralingual translation. Also, following Petrilli’s argument, it seems that the typology could include two more categories, endosemiotic and interverbal translation, which, however, are missing.


L’interpretazione della tipologia di Jakobson di più recente pubblicazione è quella di Susan Petrilli, nel suo articolo «Traduzione e semiosi. Considerazioni introduttive» (2000). Unendo la tipologia di Jakobson con la semiotica di Peirce, afferma fin dall’inizio che «tradurre è in primo luogo interpretare» (Petrilli 2000:9), che la traduzione è una parte costitutiva del segno e che l’attività segnica è di fatto un processo traduttivo. Ciò significa che, citando Petrilli, «la traduzione non riguarda soltanto il mondo umano, l’antroposemiosi, ma è una modalità costitutiva della semiosi […], della biosemiosi» (Petrilli 2000:9) e perciò si può affermare che i processi traduttivi pervadono l’intero mondo vivente, la biosfera6.

Petrilli propone una tipologia globale dei processi traduttivi, spaziando dalla traduzione intersemiosica (processi traduttivi tra due o più sistemi di segni) e dalla traduzione endosemiosica (processi traduttivi all’interno di un sistema dato) nella biosemiosfera alla traduzione diamesia, diafasica e diglossica (rispettivamente la traduzione tra lingua scritta e orale, tra registri diversi e tra una lingua standard e un dialetto) (Petrilli 2000:10). Petrilli preferisce usare il prefisso «endo-» invece di «intra-» nei termini «endosemiosico», «endolinguistico», «endoverbale», «endolinguale». Di solito i termini collegati tra loro appartengono allo stesso sistema: perciò un termine con il prefisso «endo-» dovrebbe di norma far presumere l’uso della sua controparte, ovvero un termine con il prefisso «eso-» e, similmente, «inter-» dovrebbe avere come controparte «intra-». Di conseguenza, il campo terminologico della classificazione di Petrilli forma un modello alquanto eterogeneo e confusionario, in particolare nel caso della traduzione endolinguale che in realtà corrisponde alla traduzione intralinguistica di Jakobson. E poi, seguendo l’argomentazione di Petrilli, sembra che la tipologia possa comprendere altre due categorie, la traduzione endosemiotica e interverbale, che, tuttavia, mancano.


When compared to Jakobson’s typology and its later modifications by Toury and Eco, Petrilli’s scheme has an explicit conceptual innovation: the inclusion of translative processes outside the human world. In contrast to Eco, who tries to establish the boundaries of translation (in its ‘proper’ sense), drawing attention to the fact that ‘the variety of semiosis gives rise to phenomena whose difference is of the maximum importance for the semiologist’ (Eco 2001:73), Petrilli goes to the other extreme, maximally extending the notion of translation.

It seems natural that the search for translational processes extending beyond human verbal language would start with the generality of semiotic laws. Jakobson found in Peirce’s works fundamental rules for discussing the nature of sign and meaning as well as translation and ‘insisted that a widened definition of translation – as the interpretation of sign by another – was an essential aspect of semiotic activity’ (Rudy and Waugh 1998:2262). Peirce is naturally present in the discussions about translation of the semioticians Eco and Petrilli. Toury is the only one of the three who, commenting on Jakobson, does not mention Peirce at all (even though he is writing for a specifically semiotic encyclopedia); his semiotic background is more in line with the tradition of semiotics of culture. Surprisingly, Toury radically decentralizes natural language in his typology of translation. Eco remains centered on translation in natural language and, in fact, so does Petrilli, even though she extends the notion of translation beyond the human sphere. Petrilli’s typology unfolds into more and more detail with regard to specifically natural language, ending with a tripartite division between varieties of translational processes within a single natural language. In general, however, ‘methodologically the tradition that has its roots in Jakobson and in part also in Peirce has been characterized by bringing the concepts of meaning, interpretation and translation close to one another and viewing culture as a mechanism of translation’ (Torop 2002:598).


Se messo a confronto con la tipologia Jakobsoniana e le successive modifiche di Toury ed Eco, lo schema di Petrilli ha un’innovazione concettuale esplicita: l’inserimento dei processi traduttivi al di fuori della sfera umana. Diversamente da Eco, che cerca di stabilire i confini della traduzione (in senso “vero e proprio”) e si concentra sul fatto che «la molteplicità della semiosi dà origine a fenomeni di cui la differenza è dimassima importanza per il semiologo» (Eco 2001:73), Petrilli va verso il polo opposto e amplia al massimo grado il concetto di «traduzione».

Sembra del tutto naturale che la ricerca di processi traduttivi che si estendono al di là del linguaggio verbale umano parta dai concetti generali delle leggi semiotiche. Negli scritti di Peirce, Jakobson ha trovato le leggi fondamentali per discutere della natura sia del segno e del significato, sia della traduzione e «ha sostenuto che una definizione estesa di traduzione – come interpretazione di un segno in un altro – fosse un aspetto essenziale dell’attività semiotica» (Rudy and Waugh 1998:2262). È naturale che, nella discussione sulla traduzione dei semiotici Eco e Petrilli, sia presente Peirce. Toury è l’unico dei tre che, commentando Jakobson, non cita per nulla Peirce (anche se scrive per un’enciclopedia specificamente semiotica); la sua formazione semiotica è più in linea con la tradizione della semiotica della cultura. A sorpresa, nella sua tipologia della traduzione, Toury decentra il linguaggio naturale in modo radicale. Eco rimane concentrato sulla traduzione nel linguaggio naturale e, in effetti, anche Petrilli, anche se quest’ultima estende il concetto di traduzione al di là della sfera umana. La tipologia di Petrilli ha delle suddivisioni sempre più dettagliate riguardo al linguaggio naturale nello specifico e si conclude con una divisione tripartita tra le varietà dei processi traduttivi all’interno di una singola lingua. Tuttavia, in generale, «a livello metodologico la tradizione che affonda le proprie radici in Jakobson e, in parte, anche in Peirce è caratterizzata dall’avvicinamento dei concetti di significato, interpretazione e traduzione e dalla considerazione della cultura come meccanismo traduttivo» (Torop 2002:598).


Jakobson’s concepts of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation as a repeatedly reconceptualized three-way typology brings the problems of the present-day translation studies as well as semiotics back to the turning point that Jakobson seems to represent. Jakobson’s interest in the issues of translation can be regarded as a quest for deeper understanding of communication processes, and his views on translation cannot be isolated from his general theory of communication. Jakobson envisioned a total science of communication within which he distinguished between linguistics as a means to study verbal messages and semiotics as a means to study any messages (Jakobson 1971:666). He anticipated that the study of communication would grow increasingly aware of the relevance of translation and related issues, for example: ‘Besides encoding and decoding, also the procedure of recoding, code switching, briefly, the various facets of translation, is becoming one of the focal concerns of linguistics and of communication theory […]’ (Jakobson 1971 [1961]:576).

Part of the complexity of the phenomenon of communication comes from the realization that ‘the nature of the signans itself is of great importance for the structure of messages and their typology. All five external senses carry semiotic functions in human society’ (Jakobson 1971 [1968]:701). From here, Jakobson starts to unfold the logic of translation: ‘Signans meant the perceptible and signatum the intelligible, translatable aspect of the signum (sign)’ (Jakobson 1985 [1974]:99). Intelligibility as translation is, however, only the first step, for understanding messages in a communication process presupposes a more elaborated approach: ‘The study of communication must distinguish between homogeneous messages which use a single semiotic system and syncretic messages based on a combination or merger of different sign patterns’ (Jakobson 1971 [1961]:705).


I concetti Jakobsoniani di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica in quanto tipologia a tre riconcettualizzata più volte, riportano i problemi della scienza della traduzione contemporanea e la semiotica al punto di svolta rappresentato da Jakobson. Si può considerare l’interesse di Jakobson verso la questione della traduzione la ricerca di una comprensione più profonda dei processi di comunicazione e non si possono separare le sue considerazioni sulla traduzione dalla teoria generale della comunicazione. Jakobson ha immaginato una scienza totale della comunicazione all’interno della quale distingueva tra la linguistica come mezzo per studiare i messaggi verbali e la semiotica come mezzo per studiare qualsiasi messaggio (Jakobson 1971:666). Ha previsto che lo studio della comunicazione sarebbe diventato sempre più consapevole della rilevanza della traduzione e delle questioni affini, per esempio: «Oltre alla codifica e alla decodifica, anche la procedura di ricodifica, il cambiamento di codice, in poche parole le varie sfaccettature della traduzione stanno diventando uno degli interessi fondamentali della linguistica e della teoria della comunicazione […]» (Jakobson 1971 [1961]:576).

Una parte della complessità del fenomeno della comunicazione deriva dalla presa di coscienza che «la natura del signans in sé è di grande importanza per la struttura dei messaggi e la loro tipologia. Tutti e cinque i sensi esterni hanno funzioni semiotiche nella società umana» (Jakobson 1971 [1968]:701). Da qui Jakobson comincia a sviluppare la logica della traduzione: «Il signans è percepibile e il signatum intellegibile, l’aspetto traducibile del signum (segno)» (Jakobson 1985 [1974]:99). Tuttavia, l’intelligibilità come traduzione è solo il primo passo, perché la comprensione dei messaggi in un processo comunicativo presuppone un approccio più elaborato: «Lo studio della comunicazione deve fare una distinzione tra messaggi omogenei che usano un signolo sistema semiotico e messaggi sincretici basati sulla combinazione o fusione di pattern di segni diversi» (Jakobson 1971 [1961]:705).


This means that the investigation of the functions of language must be transferred to a more semiotic framework:

The cardinal functions of language – referential, emotive, conative, phatic, poetic, and metalingual – and their different hierarchy in the diverse types of messages have been outlined and repeatedly discussed. This pragmatic approach to language must lead mutatis mutandis to an analogous study of the other semiotic systems: with which of these or other functions are they endowed, in what combinations and in what hierarchical order? (Jakobson 1971 [1961]:703)

Seeing language and other sign systems in their mutual relationship and juxtaposing them hierarchically, paying attention to both the processes of perception and of understanding as well as the processes of message production and reception, leads to a systemic view of communication, which accommodates syncretic messages and the association of (sensual) perception with (intellectual) understanding. On the other hand, an important presumption to understanding translation process as well as any communication is the realization that language as a means of communication works not only in interpersonal communication, but has an equally important role also in intrapersonal communication: ‘While interpersonal communication bridges space, intrapersonal communication proves to be the chief vehicle for bridging time’ (Jakobson 1985 [1974]:98).

These considerations form the background to Jakobson’s distinction between three kinds of translation. The interest of various outstanding scholars in a deeper examination of these kinds of translation is brought about by the need to understand in the present-day culture the ways of existence of both the inter- and intrapersonal, of the homogeneous and the syncretic, of the invariant and the variance. As the concept of translation broadens, it approaches the concept of understanding – understanding through translation and understanding the translation itself. To understand different kinds of translation means to understand both communication and autocommunication processes, and to understand


Ciò significa che l’indagine sulle funzioni del linguaggio deve essere inserita in una struttura più semiotica:

Le funzioni cardinali del linguaggio – referenziale, emotiva, conativa, fatica, poetica e metalinguistica – e la loro diversa gerarchia in diversi tipi di messaggi sono state esposte e discusse più volte. Questo approccio pragmatico al linguaggio deve portare, mutatis mutandis, a uno studio analogo degli altri sistemi semiotici: di quali tra queste o altre funzioni sono dotati, in quale combinazione e secondo quale ordine gerarchico? (Jakobson 1971 [1961]:703)

Prendere in considerazione il linguaggio e altri sistemi di segni nei loro rapporti reciproci e confrontandoli a livello gerarchico, prestare attenzione sia ai processi di percezione e comprensione, sia ai processi di produzione e ricezione dei messaggi porta a una visione sistemica della comunicazione, che concilia i messaggi sincretici e l’associazione della percezione (dei sensi) con la comprensione (dell’intelletto). D’altro canto, un presupposto importante per la comprensione sia del processo traduttivo, sia di qualsiasi (atto di) comunicazione è la consapevolezza che il linguaggio come mezzo di comunicazione non è attivo solo nella comunicazione interpersonale, ma ha un ruolo ugualmente importante anche nella comunicazione intrapersonale: «Mentre la comunicazione interpersonale crea ponti nello spazio, la comunicazione intrapersonale prova di essere il veicolo fondamentale per creare ponti nel tempo» (Jakobson 1985 [1974]:98).

Queste considerazioni formano il contesto della distinzione jakobsoniana fra tre tipi di traduzione. L’interesse di vari eminenti studiosi per un esame più profondo di questi tipi di traduzione nasce dal bisogno di comprendere le modalità di esistenza sia della componente interpersonale, sia di quella intrapersonale, di quella omogenea e di quella sincretica, dell’invariante e della varianza nella cultura contemporanea. A mano a mano che il concetto di «traduzione» si amplia, raggiunge il concetto di «comprensione»: comprensione attraverso la traduzione e comprensione della traduzione stessa. Comprendere tipi di traduzione diversi significa comprendere sia i processi di comunicazione, sia di autocomunicazione, e comprendere la


communication means to understand the infinite transformation processes of culture, including translation.

4.         Conclusion: Processual boundaries

The dynamics of the development of culture towards integrating interdiscursivity and intermediality have strongly affected the conceptions of identities. Alongside textual identity, we speak of discursive or medial identity, but also of interdiscursive and inter- or multimedial identity. Translation is no longer simply translation of a text into another text; it is also a translation of a text into a medium or a discourse. The ontological status of the text in culture has changed as well. One and the same verbal text may exist within culture simultaneously as a verbal, multi-medial, audiovisual, or audial text. These diverse texts form a simultaneous set in which causal relations, the order of original text production and translation do not play any significant role any more. More important is the influence of this set as a simultaneous semiotic whole on the processes of reception, on cultural memory, and hence on the mental existence of the text in culture. This intracultural process of translation is as important as intercultural translation for it reflects the changing of verbal language under the influence of different communication technologies and environments, but also the ways in which verbal language is related to other semiotic systems in culture.

Today, translation studies are in a difficult position, especially considering the integration of the technological aspect of cultural dynamics. However, the processes taking place within new media can be regarded as a transfer of the experiences of earlier periods in culture into new technological conditions. This means that one result of the use of new media is a better understanding of traditional interlinguistic translation, since several aspects of translation activity, which had so far remained implicit,


comunicazione significa comprendere gli infiniti processi di trasformazione della cultura, compresa la traduzione.

4. Conclusione: i confini processuali

La dinamica dello sviluppo della cultura verso l’integrazione di interdiscorsività e intermedialità ha influenzato in modo considerevole le concezioni delle identità. Insieme all’identità testuale parliamo di identità discorsiva o mediale, ma anche di identità interdiscorsiva e intermediale, o multimediale. La traduzione non è più la semplice traduzione di un testo in un altro testo; è anche la traduzione di un testo in un medium o in un discorso. Anche lo status ontologico del testo nella cultura è cambiato. Uno stesso testo verbale può esistere in una cultura contemporaneamente come testo verbale, multimediale, audiovisivo o uditivo. Questi testi diversi formano una serie simultanea in cui i rapporti causali, l’ordine della produzione del testo originale e la traduzione non hanno più un ruolo fondamentale. È più importante l’influenza di questa serie, in quanto blocco semiotico simultaneo, sui processi di ricezione, sulla memoria della cultura e perciò sull’esistenza mentale del testo nella cultura. Questo processo intraculturale di traduzione è importante quanto la traduzione interculturale poiché riflette il cambiamento del linguaggio influenzato da tecnologie e ambienti di comunicazione diversi, ma anche i modi in cui il linguaggio verbale è collegato ad altri sistemi semiotici della cultura.

Oggi la scienza della traduzione è in una posizione difficile, specie se si prende in considerazione l’integrazione dell’aspetto tecnologico della dinamica culturale. Tuttavia, si possono considerare i processi che hanno luogo all’interno dei nuovi media come trasferimento delle esperienze di periodi precedenti della cultura nelle condizioni tecnologiche nuove. Ciò significa che uno dei risultati dell’uso dei nuovi media è la migliore comprensione della traduzione interlinguistica tradizionale, poiché diversi aspetti dell’attività traduttiva, che finora erano rimasti impliciti,


have become explicit under new conditions. The visual side of a verbal (translation) text, once an invisible problem regarding the quality of the text, has become visible by the comparison of translation and film adaptations of literature. The new multimedia and new media environment has brought back the relevance of the old methods of translator training, that in the first stages of teaching placed great emphasis on intralinguistic translation in the form of either interdiscursive translation or textual manipulation (abridgement, recomposition etc.). Another new tendency in the training of translators is the introduction of intersemiotic translation, for reasons that are both pedagogical (comprehension of the visual aspect of the text) and pragmatic (translating into a visual environment, such as newspaper layout etc.). Translation pedagogy is perhaps the best indication of the changing boundaries of translation processes.

The widening of the boundaries of translation process results in the intensified search for appropriate methodologies. One indication of this is the repeated reconceptualization or further elaboration of Jakobson’s typology of intralingual, interlingual, and intersemiotic translation at the intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication. This broadening of Jakobson’s works must be integrated into the growth of translation studies, where the signs of methodological innovation are accompanied by steps toward semiotics. Semiotics, on the other hand, seems to be undergoing an actualization of translation issues, and the concept of semiotranslation refers to the possibilities of methodological synthesis between translation studies and semiotics. Methodological innovation is needed both in translation studies as a separate discipline and within semiotics in its complex interpretation of communication processes. Translating into the totality of culture exists side by side with culture as total translation.


sono diventati espliciti alle condizioni nuove. Il lato visivo di un testo verbale (traduzione), una volta un problema invisibile che riguardava la qualità del testo, è diventato visibile grazie al confronto fra traduzione e adattamenti filmici delle opere testuali. L’ambiente dei nuovi multimedia e dei nuovi media ha reintrodotto la rilevanza degli antichi metodi di formazione del traduttore, che nelle prime fasi d’insegnamento davano grande importanza alla traduzione intralinguistica sotto forma di traduzione interdiscorsiva o manipolazione testuale (versioni ridotte, ricomposizioni, eccetera). Un’altra nuova tendenza nella formazione dei traduttori riguarda l’introduzione della traduzione intersemiotica, per ragioni sia pedagogiche (comprensione dell’aspetto visivo del testo) sia pragmatiche (tradurre in un ambiente visivo, come per esempio l’impaginazione di un giornale, eccetera). La pedagogia della traduzione è forse il segno migliore del cambiamento dei confini dei processi traduttivi.

L’ampliarsi dei confini del processo traduttivo ha come risultato una ricerca più intensa di metodologie appropriate. La riconcettualizzazione ripetuta o l’ulteriore elaborazione della tipologia Jakobsoniana di traduzione intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica come punto d’incrocio tra semiotica, scienza della traduzione, analisi della cultura e comunicazione è indicativa di questo fenomeno. Questo patrimonio allargato delle opere di Jakobson va inserito nello sviluppo della scienza della traduzione, dove i segni dell’innovazione tecnologica sono accompagnati dal progresso verso la semiotica. La semiotica, invece, sembra sottoposta all’attualizzazione delle questioni traduttive e il concetto di «semiotraduzione» fa riferimento alle possibilità di sintesi metodologica tra scienza della traduzione e semiotica. È necessaria un’innovazione metodologica sia nella scienza della traduzione in quanto disciplina a sé stante, sia all’interno della semiotica nella complessa interpretazione dei processi di comunicazione. La traduzione della cultura nella sua totalità esiste fianco a fianco con la cultura come traduzione totale.


Notes

* Special thanks are due to the Estonian Science Foundation (ETF) for its support (Grant no. 5717), which granted us the time to devote to writing this article.

1 An affinity with Jakobson’s typology and thought is discussed in Peeter Torop’s model of total translation. As a taxonomic model of the translation process it is based on ‘the general characteristics of text and communication and leads to the conviction that a description of the translation process is applicable to other types of text communication’ (Torop 2000a:72). For further details, see Torop (1995, 2000b).

2 Although references to Jakobson’s distinction between three kinds of translation are generally made on the basis of his article published in 1959, one can be reminded here that Jakobson spoke of the three kinds of translation already in 1952 in his concluding report at the conference of anthropologists and linguists. This report was also published as an article in 1953 (Jakobson 1971 [1953]). Here, Jakobson discussed the possibilities of interpreting the word ‘pork’: it can be interpreted by using the intralingual method, that is, by circumlocution; or it can be interpreted by using interlingual method, that is, it can be translated into another language; and finally, it can be interpreted by using the intersemiotic method if, for example, non-linguistic pictorial signs are resorted to (Jakobson 1971 [1953]:566).

3 Toury softens his objection stating that Jakobson’s ‘preference [for linguistic translating] is understandable, if not to say acceptable’ (Toury 1986:1113) – perhaps especially in view of the fact that, for Jakobson, language always remained the primary communication system and linguistics, respectively, the science around which other sciences of man centered (Jakobson 1971 [1961], 1971).

4 For an overview of Eco’s interpretation of Hjelmslev, see Eco (2001:82-88).

5 In his book Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003), Eco sets forth a similar classification with slight but nonetheless significant adjustments comparable to those made by Toury in his revision of Jakobson’s typology (1986). Compared to the classification presented in Experiences in Translation, in the subdivision of intrasystemic interpretation (interpretazione intrasistemica) Eco exchanges the positions of intralinguistic (intralinguistica) and intrasemiotic (intrasemiotica) interpretations. At the same time, in the subdivision of intersystemic interpretation (interpretazione intersistemica) he rearranges the order of the slightly rephrased types of interlinguistic interpretation, rewriting, and translation between other semiotic systems. Eco now gives: first, interpretazione intersemiotica, second, interpretazione interlinguistica, and last, rifacimento (Eco 2003: 236). In other words, Eco reorders his types according to the logic that ‘semiotic’ is a broader, more comprehensive category than ‘linguistic’ and should therefore come first.

Note

 

1 Nel modello di traduzione totale di Peeter Torop si discute l’affinità con la tipologia e il pensiero di Jakobson. In quanto modello tassonomico del processo traduttivo, si basa sulle «caratteristiche generali del testo e della comunicazione e porta all’idea che una descrizione del processo traduttivo è applicabile ad altri tipi di comunicazione» (Torop 2000a:72). Per ulteriori dettagli consultare Torop (1995, 2000b).

2 Anche se generalmente i riferimenti alla distinzione Jakobsoniana fra tre tipi di traduzione si fanno sulla base del suo articolo pubblicato nel 1959, in questo caso bisogna ricordare che Jakobson aveva parlato di tre tipi di traduzione già nel 1952 nella sua relazione finale a una conferenza di antropologi e linguisti. Questa relazione è stata anche pubblicata come articolo nel 1953 (Jakobson 1971 [1953]). Qui Jakobson discuteva le possibilità d’interpretare la parola «carne di maiale»: si può interpretarla usando il metodo intralinguistico, ovvero con la circonlocuzione; o si può interpretarla usando il metodo interlinguistico, ovvero si può tradurla in un’altra lingua; e infine si può interpretarla usando il metodo intersemiotico se, per esempio, si ricorre a segni pittorici non linguistici (Jakobson 1971 [1953]:566).

3 Toury smorza il suo dissenso affermando che «la preferenza» di Jakobson «[per la traduzione linguistica] è comprensibile, anche se non accettabile» (Toury 1986: 1113), forse proprio in vista del fatto che, per Jakobson, il linguaggio è sempre rimasto il sistema primario di comunicazione e la linguistica, rispettivamente, la scienza intorno a cui gravitavano la altre scienze umane (Jakobson 1971 [1961], 1971).

4 Per una panoramica dell’interpretazione di Hjelmslev da parte di Eco consultare Eco (2001:82-88).

5 Nel suo libro Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003), Eco mette in atto una classificazione simile con cambiamenti minimi ma comunque significativi, paragonabili a quelli fatti da Toury nella sua revisione della tipologia Jakobsoniana (1986). Facendo un confronto con la classificazione presentata in Experiences in Translation, nella suddivisione dell’interpretazione intrasistemica Eco scambia le posizioni delle interpretazioni intralinguistica e intrasemiotica. Allo stesso tempo, nella suddivisione dell’intepretazione intersistemica, riorganizza l’ordine dei tipi – leggermente riformulati – d’interpretazione interlinguistica, rifacimento e traduzione tra altri sistemi semiotici. Ora Eco espone per prima l’interpretazione intersemiotica, per seconda l’interpretazione interlinguistica e per ultimo il rifacimento (Eco 2003:236). In altre parole Eco riordina le tipologie in base alla logica che «semiotica» è una categoria più ampia, più generale di «linguistica» e perciò deve venire per prima.


6 The idea of translational processes taking place outside human culture transpiring in the rest of the biosphere, has been dealt with in the description of biotranslation in the article written by Kalevi Kull and Peeter Torop (2003). Translation is said to mean ‘that some signs in one Umwelt are put into correspondence with some signs in another Umwelt’ (Kull and Torop 2003:318).


6 Nella descrizione della biotraduzione presente nell’articolo scritto da Kalevi Kull e Peeter Torop (2003) si affronta l’idea che i processi traduttivi che avvengono al di fuori della cultura umana si espandono nel resto della biosfera. Si dice che la traduzione significa «che alcuni segni in un Umwelt corrispondono ad alcuni segni in un altro Umwelt» (Kull e Torop 2003:318).

 

 


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2. Analisi testuale dell’originale

 

 


2.1 Contenuto

Il saggio che ho tradotto s’intitola «Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies» ed è stato scritto a quattro mani nel 2007 da Peeter Torop ed Elin Sütiste, allora dottoranda dell’Università di Tartu. Come si evince già dal titolo, l’articolo propone un’analisi dei confini processuali della traduzione e del rapporto tra scienza della traduzione e semiotica.

La trattazione comincia con la constatazione che, per riuscire a comprendere l’evoluzione delle scienze – di qualunque scienza, che sia la scienza della traduzione, la sociologia, o la psicologia –, bisogna per prima cosa comprendere i metalinguaggi usati e i modi di pensare che si celano dietro quest’ultimi nei diversi periodi storici. Per dirla con parole che ricordano quelle di Lyotard, bisogna analizzare le «piccole narrative» (Lyotard:74) tramite le quali si esprimono i concetti all’interno di una scienza, senza perdere di vista il medium utilizzato per esprimerli.

Nella nostra società, soprattutto nell’ultimo secolo, i mezzi di comunicazione si sono rapidamente evoluti e si è verificato un grande cambiamento nei metodi di rappresentazione, caratterizzati sempre più da una crescente presenza di multimedialità e ipermedialità. Gunther Kress ha affrontato in modo molto esaustivo questo argomento, constatando che i cambiamenti tecnologici hanno portato alla compenetrazione di diverse forme di rappresentazione – immagine e testo scritto, per esempio – e alla compresenza di diversi media in un solo testo:

Multimedia messaging is already available. […] a Californian company is developing ‘multimodality’ in the form of programs that convert gesture to writing. […] the possibility of direct voice-to-machine interaction has existed for some time now, even though with limitations. There are the major forms of transduction which already exist – in the latter case from a mode based on sound to a mode based on graphic substance. All we can do at the moment is […] to imagine the characteristics of a theory which can account for the processes of making meaning in the environments of multimodal representation in multimediated communication, of cultural plurality and of social and economic instability. Such a theory will represent a decisive move away from the assumptions of mainstream theories of the last century about meaning, language and learning. The major shifts concern a whole range of hitherto taken-for-granted understandings, for instance about stable systems of representation, about the stability (guaranteed by the force of convention) of rule-systems, about the arbitrariness of the constitution of signs (Kress 2003:245).

 

Tenendo ben presente quest’evoluzione e osservando come nella nostra quotidianità l’immagine ormai è un elemento quasi imprescindibile per un testo scritto (siti web, le icone di qualsiasi programma informatico di elaborazione testuale) appare inevitabile la graduale scomparsa delle regole fisse legate al concetto di «testo», così come a quello di «traduzione». Un metatesto (testo tradotto) non può prescindere dal prototesto, dal suo originale, ma la domanda che s’interroga su “cosa è testo” complica ulteriormente la questione: sono proprio i confini processuali analizzati da Sütiste e Torop a sfumare sempre di più e a rendere difficile l’individuazione di un confine netto tra ciò che è traduzione e ciò che non lo è. Le categorie classificatorie della narratologia di Genette non possono più esserci d’aiuto, proprio a causa di quei continui cambiamenti che rendono sdrucciolevole il terreno su cui si muove la scienza della traduzione.

Superando la questione dei media in cui si presenta una traduzione e di quanto essi possano influenzare il significato, l’unico appiglio che «enable(s) different areas of study to be combined in terms of their common methodology» (Sütiste, Torop:2) è il concetto di «invarianza»[2] che rappresenta quella costante comune a diverse discipline in grado di mettere ordine tra le numerose variabili. Nel caso della scienza della traduzione, tra il concetto di «traduzione», i media di rappresentazione, la cultura della traduzione, la ricezione del testo e tutte le trasformazioni insite nel processo traduttivo. Di questo concetto si occupa ampiamente il semiotico bulgaro Lûdskanov, mettendo in evidenza come sia inevitabile un approccio semiotico alla traduzione.

Nel saggio di Sütiste e Torop viene messo in evidenza come la scienza della traduzione non sia ancora una disciplina unificata a livello metodologico, soprattutto a causa della sua “giovane età”. Gli studi sulla traduzione – translation studies – sono una disciplina nata nel secolo scorso e sviluppatasi soprattutto negli ultimi decenni, a partire dalle tre tendenze della scienza della traduzione individuate da Nida negli anni Settanta. Le teorie di Wolfram Wills hanno poi spostato il focus verso un orizzonte puramente metodologico – la necessità di una metodologia comune sia alla teoria, sia alla pratica della traduzione, considerata anche in quanto fenomeno culturale – mentre il contributo di James Holmes ha puntato verso la creazione di una teoria del processo traduttivo tenendo conto della ricezione del testo nella cultura ricevente. Tutte queste teorie sono tutt’oggi valide, anche se quello che manca è un vero dialogo multidisciplinare, soprattutto in Italia, dove la traduzione è considerata pura letteratura e non viene analizzata da un punto di vista scientifico, e ancor meno semiotico.

Tornando alla domanda «da cosa capiamo che una traduzione è una traduzione?», la risposta non è certo semplice. Innanzitutto bisogna riconoscere un confine tra la traduzione e il testo originale, e poi la traduzione e la cultura ricevente. Una traduzione è facilmente riconoscibile da numerosi tratti della sua struttura e a questo proposito si è già espresso il teorico slovacco della letteratura Anton Popovič, teorizzando il concetto di «traduzionalità»[3]. Un metatesto – in quanto prodotto di una metacomunicazione – può presentare un livello di traduzionalità più o meno elevato, ovvero possiamo accorgerci più o meno immediatamente che il testo in questione è stato tradotto. Un elemento determinante nel riconoscere la qualità di una traduzione, inoltre, è «the perceptual integrity of translation» (Sütiste, Torop:3), ovvero una buona struttura linguistica, la coerenza semiotica e la capacità del testo di attivare delle fughe d’immaginazione, nonché il fatto che la traduzione sia «perceptually an integrated whole and can be effectively visualized in the imagination of the reader» (Sütiste, Torop:4).

Il fenomeno della multimedialità ha perciò contributo alle riflessioni sulla natura semiotica della traduzione, ma si deve fare un passo indietro per citare la preziosissima classificazione jakobsoniana[4] di traduzione interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica, espressa nel suo famoso articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione». Queste categorie sono state riviste nel corso degli anni da molti studiosi, tra cui Gideon Toury, Umberto Eco e Susan Petrilli. L’articolo di Sütiste e Torop prende in esame tutte queste rielaborazioni della classificazione traduttiva di Jakobson, evidenziandone le differenze e le premesse di base. È interessante rilevare come lo studioso israeliano consideri la «differentia specifica» della traduzione proprio il fatto che sia un’attività semiotica, ovvero che si muova tra sistemi di segni diversi:

[…] from a semiotic point of view, the differentia specifica of this type of process, is of a twofold nature:

(a) like any other semiotic entity, it is part of the system to which it belongs (namely, the “target,” or “recipient” system);

(b) unlike “ordinary” (that is, primary, underived) semiotic entities, it is also a representation of another entity, belonging to another system, in a certain way and/or to a certain extent, by virtue of the invariant common to it and to theinitial entity (Toury 1980:13).

 

Per quanto riguarda la tipologia traduttiva, Toury divide la traduzione in intersemiotica e intrasemiotica, proponendo una classificazione generale dei fenomeni interpretative di un segno verbale senza concentrarsi sul linguaggio naturale – allontanandosi, quindi, dal punto di partenza di Jakobson.

La classificazione proposta da Eco, invece, è molto più complessa e orientata verso la catalogazione dei fenomeni traduttivi “veri e propri”. Secondo il semiotico italiano, infatti, Jakobson non avrebbe compreso bene i concetti peirciani facendosi trarre in inganno dallo stile del grande semiotico americano e accostando il concetto di «traduzione» a quello più generico di «interpretazione»:

È noto come il lessico peirciano sia mutevole e non di rado impressionistico, ed è facile accorgersi che […], Peirce usi translation in senso figurato: non come una metafora, bensì come pars pro toto (nel senso che assume traduzione come sineddoche di interpretazione) (Eco 2003:227).

 

Petrilli, dal canto suo, presenta una tipologia globale dei processi traduttivi sia tra sistemi di segni diversi, sia all’interno dello stesso sistema di segni. La sua classificazione, però, risulta incoerente dal punto di vista terminologico poiché teorizza l’esistenza di alcune tipologie traduttive – come la traduzione endolinguale – senza proporne poi un corrispettivo con il prefisso opposto.

Nonostante le varie rielaborazioni successive, bisogna tener presente che le considerazioni di Jakobson sulla traduzione non prescindevano affatto dalla teoria generale della comunicazione, sia interpersonale sia intrapersonale. Ampliando l’orizzonte di analisi si può quindi arrivare ad affermare che «to understand communication means to understand the infinite transformation processes of culture, including translation» (Sütiste, Torop:17).

La summa delle riflessioni di Sütiste e Torop si può riassumere nella consapevolezza che la scienza della traduzione necessita di un approccio semiotico e di una metodologia comune per ampliarsi ed evolversi, mantenendo come punto di partenza e concetto cardine la tipologia jakobsoniana quale «intersection of semiotics, translation studies, analysis of culture, and communication».

2.2 Struttura

La struttura del saggio appare molto chiara ed efficace, rispetta i parametri del genere in cui si inscrive il testo e rende la lettura abbastanza scorrevole. L’articolo è diviso in quattro paragrafi, ciascuno dei quali affronta un aspetto specifico dell’argomento generale indicato dal titolo, ed è corredato di una breve introduzione.

Il primo paragrafo s’intitola «Sull’identità della scienza della traduzione» ed è una panoramica dell’evoluzione di questa disciplina negli ultimi decenni. Risulta scorrevole, piuttosto breve e con due sole citazioni ad altri testi.

Anche il secondo paragrafo, «L’aspetto della semiotica della traduzione», non è particolarmente lungo, ma sono presenti numerosi riferimenti ad altri testi. In questo paragrafo si affronta l’annosa questione “cosa è traduzione” e, a sostegno della tesi di fondo, sono forniti diversi estratti da pubblicazioni di altri studiosi, quali Cattrysse, Chesterman e Arrojo e Remael.

Il terzo paragrafo, intitolato «La prospettiva di Jakobson», è il più lungo tra i quattro ed è quello in cui si affronta la tipologia jakobsoniana e la sua rielaborazione nel corso degli anni da parte di diversi studiosi che si sono occupati di scienza della traduzione.

Nel quarto e ultimo paragrafo «Conclusione: i confini processuali» troviamo un breve riassunto delle riflessioni dei due autori che funge, appunto, da conclusione del saggio.

2.3 Qualche considerazione aggiuntiva

Sarebbe del tutto superfluo dilungarsi in una disquisizione sullo stile degli autori di questo saggio, poiché il testo è una pubblicazione accademica usata come parte di una tesi di dottorato. Però si può comunque riflettere sul modo in cui è stato scritto.

Il lessico appare appropriato e la ricerca terminologica è evidente, come si può facilmente intuire non solo dalla terminologia, ma anche dall’ampia documentazione fornita dalle numerose citazioni a sostegno della tesi espressa. La sintassi è caratterizzata dalla presenza di paratassi, i periodi sono di media lunghezza e non sono presenti frasi particolarmente involute o oscure. Essendo un trattato di semiotica di traduzione, però, il lessico molto specifico e la complessità dei contenuti rendono la lettura poco scorrevole. Per un testo di questo tipo, infatti, è necessaria una lettura attenta e molta concentrazione da parte del lettore.

Nonostante gli autori non siano di madrelingua inglese, mostrano una perfetta padronanza della lingua in cui scrivono e non sono presenti errori di alcun tipo.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Analisi traduttologica

 

 


3.1 Introduzione

Dopo aver tradotto il saggio di Sütiste e Torop ho capito che il concetto imprescindibile alla base di tutte le riflessioni sul rapporto tra semiotica e scienza della traduzione presuppone che la traduzione – intesa come semiosi, ma a maggior ragione anche come traduzione interlinguistica – sia considerata un insieme di processi traduttivi intersemiotici. Quando facciamo associazioni mentali osservando un oggetto compiamo un atto semiotico, ma la questione si complica quando dobbiamo tradurre un testo scritto in una lingua diversa da quella dell’originale o, per usare un termine coniato da Lûdskanov, in un diverso «linguaggio d’intermediazione»:

Il traduttore deve individuare il significato facendo riferimento a qualcosa. Questo “qualcosa” è il suo “sistema di riferimenti”. Per i traduttori e per tutti i bilingui, questo sistema è un metalinguaggio in cui deve essere codificata la conoscenza della lingua della cultura emittente, della lingua della cultura ricevente e della realtà riflessa in entrambe le lingue (Lûdskanov in Osimo 2008:XIII-XIV).

Per prima cosa, durante la lettura, ogni simbolo – parola – che leggiamo scatena nella nostra mente una serie pressoché infinita di interpretanti, ovvero di segni mentali tramite i quali interpretiamo le parole scritte. Questa è una prima forma di traduzione intersemiotica, ovvero una traduzione da un codice verbale scritto al nostro codice mentale. La presenza di un «linguaggio interno» è stata teorizzata negli anni Trenta dallo psicolgo russo Lev Vygotskij durante i suoi studi sulla relazione tra linguaggio e pensiero nei bambini e negli adulti. Il linguaggio interno è un linguaggio particolare, a sé, che necessita di una traduzione nel linguaggio esterno – quello naturale, con cui ci esprimiamo in qualsiasi atto di comunicazione interpersonale – proprio per le sue caratteristiche intrinseche:

La prima e più importante caratteristica del linguaggio interno è la sua particolare sintassi. […] Questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del linguaggio interno rispetto a quello esterno. […] conserva il predicato e le parti della proposizione che gli sono legate a spese dell’omissione del soggetto e delle parole che gli sono legate (Vygotskij in Osimo 2002:139).

Già a questo livello, quindi, avviene una prima traduzione interlinguistica e intersemiotica spontanea, perché traduciamo automaticamente le parole di una lingua straniera in interpretanti nella nostra lingua madre. La componente intersemiotica si ha poiché si verifica un passaggio dalla parola al pensiero, ossia un processo di «volatilizzazione»:

Qui abbiamo un processo […] dall’esterno all’interno, un processo di volatilizzazione del discorso nel pensiero. Da qui la struttura di questo linguaggio e tutte le sue differenze rispetto alla struttura del linguaggio esterno (Vygotskij in Osimo 2002:138).

Quando poi ci accingiamo a produrre un metatesto scritto, la traduzione interlinguistica si compie del tutto grazie a un ulteriore passaggio di traduzione intersemiotica: dal linguaggio mentale traduciamo in linguaggio verbale scritto – ma questa volta in un’altra lingua – il materiale mentale formatosi dalla prima fase. Questa seconda fase si chiama «materializzazione del pensiero»:

[…] il linguaggio interno è una formazione particolare per la sua natura psicologica, un tipo particolare di attività linguistica, che ha caratteristiche assolutamente specifiche e sta in un rapporto complesso con gli altri tipi di attività linguistica. […] Il linguaggio esterno è un processo di trasformazione del pensiero nella parola, la sua materializzazione e oggettivazione (Vygotskij in Osimo 2002:138).

Oggi questi concetti possono sembrare scontati, soprattutto a chi si occupa da anni delle riflessioni sul rapporto tra semiotica e traduzione, ma non è sempre stato così. La scienza della traduzione è una scienza molto giovane e ancora oggi non molto diffusa in Italia, perché il nostro ambiente accademico è lungi dal considerare la traduzione – soprattutto la pratica quotidiana della traduzione – una scienza. In Italia paghiamo le conseguenze di una classe di studiosi e accademici antiquata e rigida nel sostenere l’obsoleta distinzione tra scienza e letteratura. La traduzione e gli studi riguardanti questa materia ricadono nell’ambito della “letteratura” intesa come insieme di opere letterarie, perciò non viene loro riservato un approccio scientifico. A tale proposito si è espresso lo studioso bulgaro Aleksandăr Lûdskanov nella sua pubblicazione, uscita nell’edizione italiana a cura di Bruno Osimo nel 2008, Un approccio semiotico alla traduzione:

[…] i primi passi dei fautori della concezione linguistica della traduzione hanno incontrato una forte resistenza da parte degli esponenti della concezione teorico-letteraria (soprattutto dei traduttori stessi). Questi contestavano la natura linguistica del processo traduttivo che, secondo loro, avrebbe carattere puramente letterario (o quasi) (Lûdskanov 1967:61).

Leggendo questo estratto, però, ci rendiamo subito conto che, per comprendere a fondo il significato delle parole dello studioso bulgaro, è necessario specificare che con «concezione linguistica» egli intendeva  quella che noi chiamiamo «concezione scientifica», ossia semiotica, la controparte di quella concezione che fa ricadere la scienza della traduzione all’interno del grande gruppo delle letterature comparate. In base a questa concezione, imperante nel nostro Paese, per la traduzione letteraria è necessario un approccio letterario, quindi a rigor di logica per ogni tipo di testo sarà necessario un approccio particolare:

Si pensi al punto di vista molto diffuso e in sé giusto secondo cui il traduttore di testi scientifici (per esempio un trattato di chimica organica o zoologia) deve avere conoscenze nei rispettivi àmbiti scientifici. Queste conoscenze però sono necessarie unicamente alla realizzazione dell’analisi extralinguistica. Questo incontestabile fatto ci permette di affermare che la traduzione di testi scientifici di questo tipo è di natura chimica o zoologica e richiede un approccio chimico o zoologico? (Lûdskanov 1967:62-63).

È evidente l’ironia di fondo di Lûdskanov ma, nonostante il suo prezioso contributo, in Italia l’approccio semiotico alla traduzione resta quasi inesistente e gli accademici che si occupano dell’insegnamento di questa disciplina in numerosi atenei potranno giovarsi di queste riflessioni. Considerata la natura del saggio che ho tradotto, oltre alla tradizionale analisi traduttologia in cui individuo e spiego i concetti cardine di lettore modello, dominante e strategia traduttiva, mi accingo a fornire una panoramica cronologica dell’evoluzione del rapporto tra semiotica e scienza della traduzione, che è andato sviluppandosi soprattutto negli ultimi sessant’anni grazie a numerosi contributi. Il tema è talmente ampio che sarebbe sciocco prefiggersi come scopo quello di delineare una panoramica esaustiva e approfondita di tutti i contributi dati in questo campo negli ultimi decenni. Per questo motivo mi concentrerò su alcuni autori – o su alcuni concetti elaborati da questi autori – che ho incontrato durante il mio percorso di studi e che hanno stimolato la mia curiosità.

 

3.2 La dominante e il residuo traduttivo: Jakobson e la semiotica della traduzione

Il punto di partenza delle mie riflessioni non può che essere l’opera di Roman Jakobson, personalità poliedrica e complessa, nonché pilastro in molteplici discipline: linguistica, critica letteraria, semiotica, filologia e molte altre. Ma, soprattutto, è di Jakobson la famosa tipologia della traduzione – interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica – rielaborata più volte negli anni ed esaminata nell’articolo di Torop e Sütiste. Jakobson espone per la prima volta la sua tipologia nell’articolo del 1959 «Sugli aspetti linguistici della traduzione», che, però, non è stato del tutto compreso dagli studiosi europei: si è diffusa la convinzione che Jakobson, parlando di traduzione intralinguistica e intersemiotica, parlasse di un tipo di traduzione totalmente diverso da quella interlinguistica. Quando Jakobson parla del processo traduttivo come intersemiotico e intralinguistico, non vuole fare riferimento soltanto a processi traduttivi diversi da quello interlinguistico, ma alla traduzione vera e propria. Non bisogna dimenticare che Jakobson aveva già ampiamente studiato Peirce, e si era anche già allontanato dalla semiologia saussuriana, criticandola in termini peirceiani. Jakobson pone alla base delle sue riflessioni il secondo elemento della significazione secondo Peirce, l’interpretante, che nasce proprio nella mente soggettiva dell’individuo: l’interpretante è nella mente dell’interprete. E questo elemento è riconducibile al discorso interno di Vygotskij: si tratta di decodificare mentalmente un segno e di collegarlo a un oggetto, collegamento che ha una coincidenza solo parziale con quello operato da altre persone che parlano la stessa lingua, poiché in ognuno di noi nasce una lunga serie di interpretanti diversi:

For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which is more fully developed”, as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Jakobson 1959:261).

Da queste riflessioni si evince che ogni processo traduttivo interlinguistico può essere considerato un insieme di processi traduttivi intersemiotici:

[…] intersemiotic translation or transmutation is an in interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems (Jakobson 1959:261).

Un altro problema che ha portato molti studiosi a interpretare in modo forse incompleto l’articolo di Jakobson è l’aggettivo «linguistic» nel titolo: Jakobson suggeriva un approccio scientifico alla traduzione, mentre nell’Europa Occidentale – a causa del’enfasi saussuriana sulla componente verbale – l’aggettivo linguistico è stato interpretato in riferimento a un testo senza alcuna implicazione extraverbale. Jakobson partiva da premesse totalmente diverse rispetto agli studiosi europei, considerava la traduzione e la lingua da un punto di vista scientifico, molto vicino a quello della matematica e della fisica:

[…] linguistics is recognized both by anthropologists and pychologists as the most progressive and precise among sciences of man and, hence, as a methodological model for the remainder of those disciplines (Jakobson 1967:656).

È abbastanza chiaro che l’approccio jakobsoniano alla traduzione, imbevuto della semiotica peirceiana e inserito in un contesto in cui la traduzione è considerata una scienza, sia stato la prima grande svolta nell’evoluzione della scienza della traduzione, senza la quale oggi non potremmo nemmeno concepire un approccio semiotico alla traduzione e baseremmo le nostre riflessioni solo sulla dicotomia signifiant-signifié di Saussure.

Alla luce di tutte queste affermazioni, la dominante applicata nella traduzione del saggio di Sütiste e Torop è sicuramente orientata verso la precisa e impeccabile trasposizione del contenuto del prototesto. Durante la traduzione è stato inevitabile considerare non solo la forma, ma anche il contenuto di ciò che stavo traducendo, e questo mi ha spinto a privilegiare scelte non addomesticanti – anche se, considerata la natura del testo, non ho incontrato frasi che necessitassero di essere “addomesticate”, ovvero rese più vicine alla cultura ricevente. La dominante nella mia traduzione si è fondata, quindi, sulla necessità di rendere chiari i concetti enunciati nel prototesto, senza però rinunciare alla precisione terminologica e all’esattezza lessicale in favore di generalizzazioni che avrebbero impoverito il testo o alterato il senso delle enunciazioni.

3.3 Strategia traduttiva

3.3.1 Una questione d’invariante

Ho potuto attuare senza difficoltà una strategia traduttiva che avesse come dominante la piena conservazione del contenuto del prototesto anche grazie al fatto che il mio lettore modello è un lettore adulto, colto e specializzato nella materia e nell’argomento di cui tratta il saggio in questione. Essendo un articolo di scienza della traduzione – nonché parte di una tesi di dottorato dell’Università di Tartu – il prototesto sarà letto da studiosi di scienza della traduzione, teorici, semiotici e, presumibilmente, accademici in generale. All’individuazione di questo tipo di lettore modello si lega anche la mancanza di un cospicuo apparato metatestuale, proprio perché la presenza di lessico specialistico in un articolo pubblicato su una rivista specializzata Semiotica fa sì che non ci sia bisogno di note esplicative che avvicinino il lettore italiano al testo. La precisione lessicale elimina casi di ambiguità nella cultura ricevente, ulteriormente ridotti dalla totale mancanza di realia o riferimenti culturali impliciti alla cultura emittente.

Perciò alla base della mia strategia traduttiva, per dirlo in termini un po’ più semiotici, c’è stato il trasferimento di un nucleo informativo necessario e per forza presente sia nel prototesto sia nel metatesto. Questo mi permette di riallacciarmi al pensiero di Aleksandr Lûdskanov, che ho già citato nel paragrafo 3.1. Bisogna per prima cosa affermare che l’intento di Lûdskanov era quello di teorizzare e riuscire a mettere in pratica la traduzione automatica: il suo scopo ha certamente contribuito a rendere il suo approccio alla traduzione il più scientifico possibile. Non si deve però fare l’errore di considerare le riflessioni di questo grande studioso pertinenti soltanto all’area della traduzione tecnico-scientifica, bensì sono utili e fondamentali per lo studio e l’approccio verso qualsiasi tipo di testo. Come ho già sottolineato nell’introduzione, la formazione dello studioso bulgaro non risente della divisione tra scienza e letteratura tipica dell’Europa occidentale: Lûdskanov rientra nel novero di quegli studiosi dell’Europa dell’Est che non considerano “scandaloso” un approccio scientifico anche alle cosiddette traduzioni “letterarie”.

Lûdskanov parla di approccio e punto di vista semiotico proprio perché crede che la semiotica, con la sua terminologia esatta e precisa, sia la scienza migliore per approcciarsi alla traduzione: la traduzione interlinguistica non è altro che la comunicazione di informazioni in codici diversi e la semiotica si occupa dello studio della trasformazione di un messaggio da un codice all’altro, ovvero della formazione del senso. Il rapporto tra semiotica e traduzione è imprescindibile, così come l’applicazione pratica delle sue teorie. La scienza della traduzione trova posto all’interno della semiotica: Lûdskanov non crede che il suo posto sia nella linguistica, nella letteratura o in altre discipline:

Una scienza della traduzione è possibile. Questa scienza deve essere una teoria generale delle trasformazioni semiotiche. (ciò definisce l’oggetto di studio di questa scienza.) Il suo posto è nella semiotica, non nella linguistica, né nella letteratura (Lûdskanov in Osimo 2008:XVII).

Dovendo riuscire a mettere in pratica la traduzione automatica, ovvero a ridurre il processo traduttivo a varianti e invarianti logiche – algoritmi traduttivi – per Lûdskanov era impensabile scindere la teoria dalla pratica. È per questo che le sue riflessioni possono esserci oggi molto utili.

Essendo la traduzione il trasferimento di informazioni da un codice all’altro, Lûdskanov teorizza un concetto fondamentale, quello di «invariante», ovvero quell’informazione che si trasmette in ogni atto di comunicazione:

Poiché lo scopo di qualsiasi atto comunicativo consiste nella trasmissione di una certa informazione, lo scopo del processo traduttivo è lo stesso, cioè trasmettere la medesima informazione. […] il processo che si è abituati a chiamare «traduzione» consiste in una trasformazione (sostituzione) di elementi linguistici del messaggio nel linguaggio naturale del prototesto con elementi di linguaggio naturale del metatesto, conservando la stessa informazione (Ludskanov 1967:41).

In ogni traduzione c’è una parte d’informazione che deve necessariamente essere trasferita da un codice in un altro. L’invariante è sicuramente un parametro molto importante per la valutazione delle traduzioni e per la pratica della traduzione stessa, perché permette un vero e proprio approccio scientifico (approccio che però non sostituisce la creatività nella traduzione). Anche nella traduzione interlinguistica, che sia traduzione di poesie, testi per il teatro, film, manuali, eccetera, bisogna essere certi che nulla si distrugga, ma qualcosa si crei, e in tutto questo resta comunque un residuo.

Il passaggio tra linguaggi naturali o tra diversi sistemi di segni implica per forza un residuo, una perdita – loss, in inglese -, ormai considerato parte integrante del processo traduttivo: «In qualsiasi forma di comunicazione, che comporti traduzione o no, si verifica una perdita» (Lefevere in Osimo 2004:104). Uno dei primi a individuare la presenza di un residuo in qualsiasi forma di comunicazione è stato John Dryden nel 1700 quando, alle prese con la traduzione di Chaucer, si è resto conto di non riuscire ad affrontare l’originale senza aiuti: «I grant that that something must be lost in all transfusion, that is, in all translations» (Dryden in Osimo 2004:33).

3.3.2 All’insegna della traduzionalità

Nel tracciare il percorso che ha portato alla formazione e consolidamento della scienza della traduzione sarebbe imperdonabile non citare il contributo apportato dallo slovacco Anton Popovič, soprattutto poiché la mia strategia traduttiva si è rivelata all’insegna di uno dei concetti coniati proprio da questo studioso, la «traduzionalità». Con «traduzionalità» Popovič intende tutte quelle caratteristiche che fanno capire che un testo è stato tradotto, che a monte della traduzione si trova un originale scritto in un diverso linguaggio naturale:

La traduzionalità è l’espressione della contraddizione proprio versus altrui nel testo, e può essere suddivisa in una serie di opposizioni come per esempio naturalizzazione (addomesticamento) versus erotizzazione, folklorizzazione versus urbanizzazione, storicizzazione (arcaizzazione) versus modernizzazione. […] parliamo di traduzionalità come norma di ricezione in una certa situazione comunicativa (Popovič 2006:48).

Nel tradurre l’articolo di Sütiste e Torop avevo bene in mente questo concetto e non temevo certo di creare un metatesto ad alta traduzionalità, anzi. Ma, come ho già spiegato nel paragrafo 3.2, il prototesto non presenta punti in cui ho dovuto ricorrere alla creazione di un apparato metatestuale, elemento che avrebbe sicuramente fatto aumentare l’indice di traduzionalità della mia traduzione.  Questo concetto non è certo qualcosa di astratto senza alcuna utilità pratica, ma si rivela molto utile nella valutazione delle traduzioni e, insieme al resto della terminologia precisa coniata da questo studioso, contribuisce a rendere sempre più scientifico l’approccio alla traduzione.

Superando e rendendo obsolete tutte le altre definizioni – testo di partenza, di arrivo, eccetera – Popovič conia i termini «prototesto» e «metatesto» per fare riferimento al testo originale e a quello tradotto. Ma la terminologia popoviciana non si ferma qui: la forte impostazione semiotica mutuata perlopiù dalla scienza sovietica della traduzione lo spinge ad aggiungere a tale terminologia termini nuovi nel caso in cui il concetto che vuole esprimere non sia ancora stato individuato. Conia, per esempio il termine «quasimetatesto» per descrivere quel tipo di metatesto che sfrutta le aspettative che ha il lettore modello per la formazione di un testo proprio, e anche il termine «metatesto conflittuale», ovvero una traduzione critica, polemica e negativa nei confronti dell’originale. Popovič approfondisce l’analisi dei concetti di «variante» e «invariante» postulati da Lûdskanov e condivide l’approccio scientifico alla traduzione:

Il tratto principale comune al testo della comunicazione primaria […] e di quella secondaria è il passaggio del nucleo semantico da un testo all’altro. Ciò che unisce i due testi viene definito «invariante intertestuale». Accanto a tale nucleo invariante nel metatesto ci sono “perdite”, o residui, e “guadagni”, che costituiscono la componente variante del testo (Popovič 2006:128).

Popovič considera controproducente la concezione di un approccio “letterario” alla traduzione, proprio perché proviene dall’Europa dell’Est come lo studioso bulgaro. In Slovacchia come in Bulgaria, tutti i tipi di traduzione prevedono un approccio scientifico, semiotico, siano essi testi chiusi o testi aperti (dal manuale d’istruzioni alla poesia). A questa concezione si ricollega la necessità di una precisione terminologica estrema da parte di Popovič , che considerava controproducente l’uso di aggettivi come «fedele» o «libero» per descrivere le traduzioni: «la contrapposizione empiricamente riconoscibile tra le cosiddette traduzioni “fedele” e “libera” non spiega le operazioni traduttive dal punto di vista funzionale, pertanto è inaccettabile» (Popovič in Osimo 2006:XVI). Dopo aver stabilito la necessità di fondamenta terminologiche solide nel campo della traduzione, Popovič va ricordato anche per le riflessioni sulle categorie dello stile, influenzate dalla stretta collaborazione con František Miko. Quest’ultimo si è distinto per la categorizzazione stilistica del testo e la sua impostazione è stata molto utile per l’analisi e la critica della traduzione di Popovič, permettendo di analizzare molti tipi di testo sulla base di categorie fisse e di raffrontarli con facilità. In questo modo, si possono raffrontare anche tutti i tipi di prototesto e metatesto, ovvero di traduzioni:

[…] tale sistema è utilizzabile nell’analisi del testo letterario, del testo scientifico e del testo di altri tipi, ossia ovunque si abbia a che fare con problemi di stile. In un certo senso la lingua del sistema dei mezzi espressivi è universale, perché possono essere utili nell’analisi di qualunque testo. […] Grazie al suo carattere universale, si può usare il sistema delle categorie stilistiche anche nel raffronto prototesto-metatesto (Popovič in Osimo 2006:XXII).

Popovič ha dato un forte contributo all’approccio semiotico della traduzione anche perché egli considera la traduzione un processo di «metacomunicazione» e sostiene che il suo aspetto semiotico riguardi tutti quei cambiamenti che ci sono in un metatesto dovuti al processo traduttivo. Questi cambiamenti sono inevitabili perché derivanti da un processo trasformativo, dalla creazione di un testo diverso sia nello spazio sia nel tempo:

(la traduzione è una) attività derivata, di secondo grado. In relazione al ricevente è metacomunicazione. L’aspetto semiotico della traduzione riguarda le differenze che occorrono nel processo traduttivo in conseguenza della diversa realizzazione spaziotemporale del metatesto (Popovič in Osimo 2006:XXIII).

 

3.4 Conclusione

Per concludere la breve panoramica dei concetti che contribuiscono a creare una scienza della traduzione e che mi hanno sicuramente influenzato durante il processo traduttivo, non mi resta che citare il co-autore dell’articolo che ho tradotto, Peeter Torop. Con la sua pubblicazione del 1995 tradotta in italiano con il titolo La traduzione totale, Torop s’inserisce in una tradizione accademica ormai consolidata, quella della semiotica nell’Europa dell’est, che dà per scontati molti concetti poco diffusi in Europa occidentale. Primo fra tutti, il concetto di linguaggio interno di Vygotskij, che non è un linguaggio verbale e di cui ho già parlato nel paragrafo 3.1. Bisogna considerare anche che in Paesi come l’Estonia (e la Finlandia) la semiotica è una disciplina molto importante, se non addirittura fondamentale, perciò un approccio semiotico alla traduzione è dato per scontato, come possiamo evincere dal saggio scritto a quattro mani con Sütiste. In Italia, invece, questa materia viene spesso considerata difficile, incomprensibile ai più e marginale. Questo rende ancora più importanti le riflessioni di Torop che, avendo come base un approccio scientifico e semiotico alla traduzione, può regalare molti stimoli allo sviluppo della scienza della traduzione anche nel nostro Paese o in altri meno “fortunati” da questo punto di vista.

Anche le riflessioni di Lotman sono considerate fondamentali da Torop, che non potrebbe prescindere dal concetto di semiosfera e dalla semiotica della cultura elaborate dal suo predecessore nonché maestro. Lotman considera la cultura come un processo di pretraduzione, ovvero un filtro imprescindibile che ogni traduttore non può fare a meno di usare quando traduce. Questo concetto è molto diffuso in Estonia e nella scuola semiotica di Tartu:

Ogni libro può essere letto, ogni film può essere visto e ogni sinfonia può essere suonata liberamente, e questa libertà di percezione (che giunge all’interpretazione arbitraria) è un fatto di qualsiasi cultura. Ma esiste anche la cultura come istruzione, memoria e percezione da parte del lettore di ciascun nuovo testo a seconda dell’esperienza culturale di chi percepisce, al punto che in un certo senso qualsiasi testo che finisca nelle mani di un lettore è già stato letto; in altre parole, viene subito convenzionalizzato (Torop 2010:70).

Un altro punto fondamentale trattato nel libro di Torop è la necessità di uniformare il metalinguaggio usato nella scienza della traduzione che, in quanto interdisciplina, non dispone di una terminologia uniforme nei vari Paesi e permette agli studiosi di rimanere nel limbo dell’indeterminatezza terminologica, creando solo caos e imprecisioni. Un approccio scientifico alla traduzione è, in questo caso, molto più difficile:

Da una parte l’abbondanza di metalinguaggi ostacola la comprensione reciproca nell’àmbito di una stessa disciplina scientifica. Dall’altra parte, lo sfruttamento eccessivo di uno-due metalinguaggi nei quali vengono tradotti i risultati di tutte le analisi, e questa stessa traduzione nel metalinguaggio semiotico, creano l’illusione di acquisire conoscenze, conferendo una parvenza di scientificità anche a risultati banali (Torop 2010:6).

Per Torop, come per gli altri studiosi già citati, l’approccio scientifico è, invece, fondamentale: bisogna abolire il «liberismo terminologico» a favore di una maggiore chiarezza, anche in questa disciplina, per eliminare ogni forma di sinonimia.

Due concetti importantissimi nella concezione di traduzione di Torop sono quello di «traducibilità», legato alla presenza imprescindibile di un residuo in ogni processo traduttivo. Torop si allontana ovviamente dalle teorie che sostengono una traducibilità assoluta dei testi. Egli analizza le singole traduzioni in termini di intraducibilità (o traducibilità) relativa e di residuo:

La traduzione senza residuo non esiste. Perciò, alla base dell’attività traduttiva, sta la «scelta dell’elemento che consideri più importante nel testo tradotto» (Brûsov 1975: 106), ossia un’analisi oggettiva del testo che faccia emergere la dominante come vertice della struttura gerarchica intorno a cui si integra il testo (Torop 2010:99).

Anche se in Estonia Peirce non è molto studiato, forse oscurato dal gigante Lotman e dalla presenza del muro di Berlino, alla base delle riflessioni di Torop si riconosce la triade peirceiana – già presente nei filtri traduttivi bilingui di Lotman – per la presenza di una componente mentale, l’interpretante, che determina l’unicità di ogni metatesto creato. Avremo quindi tante traduzioni quanti sono i traduttori: ogni traduttore sceglie una propria strategia traduttiva dettata dai propri criteri di traducibilità e questa strategia ha lo scopo di far prevalere una dominante su tutte le altre. Ritorniamo quindi al concetto di «dominante», espresso per la prima volta da Jakobson nel 1935:

Nel processo traduttivo la dominante […] può stare nel prototesto, nel traduttore o nella cultura ricevente. Nel primo caso, è il prototesto stesso a dettare la propria traducibilità ottimale (Torop 2010:79).

 

Il pensiero di Torop mi è utile per specificare ulteriormente la dominante della mia strategia traduttiva: ho deciso di individuarla nel prototesto, mettendo in atto questo primo caso enunciato da Torop. Questa riflessione, inoltre, è di fondamentale importanza per la valutazione delle traduzioni, un altro argomento affrontato da Torop nella suo libro. Ogni traduzione deve essere valutata in base alla strategia traduttiva adottata, dopo un’appropriata analisi traduttologica, tenendo ben presente che non esiste una traduzione assoluta e perfetta, ma che da ogni prototesto può nascere una serie di metatesti diversi per ogni traduttore. Tutto ciò, purtroppo, non è affatto scontato nella valutazione quotidiana delle traduzioni italiane.

Il saggio che ho tradotto parte senza dubbio dalle considerazioni che ho appena illustrato, essendo frutto di una scrittura a quattro mani di Torop ed Elin Sütiste, una sua allieva. L’articolo va sì inserito nel contesto di un’ampia riflessione sul rapporto tra scienza della traduzione e semiotica, senza però prescindere dal background degli autori.

 

3.5 Riferimenti bibliografici

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ECO, U. 2003, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani.

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KRESS, G. R. 2003, Literacy in the New Media Age, New York, RoutledgeFalmer.

LOTMAN, Y. 1990, Universe of the mind. A semiotic theory of culture, New York, Tauris.

LÛDSKANOV, A. 1967, Un approccio semiotico alla traduzione, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli, 2008.

LYOTARD, J. F. 1979, La condizione postmoderna, traduzione di Carlo Formenti, Milano, Feltrinelli, 1985.

OSIMO, B. 2002, Storia della traduzione, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2004, Manuale del traduttore, Milano, Hoepli.

OSIMO, B. 2006, «Jakobson: meaning as imputed similarity», in Sign System Studies 34.2, Tartu University Press.

OSIMO, B. 2007, La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli.

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POPOVIČ, A. 1975, La scienza della traduzione, traduzione di Daniela Laudani e Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

SÜTISTE, E. e TOROP, P. 2007, «Processual boundaries of translation: Semiotics and translation studies», in Semiotica 123 (1/4), Tartu, Walter de Gruyter.

TOROP, P. 2010, La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo, Milano, Hoepli.

TOURY, G. 1980, «Communication in Translated Texts. A Semiotic Approach», in In Search of A Theory of Translation, a cura di Gideon Toury, Tel Aviv, Porter Institute Tel Aviv University:11-18.

VYGOTSKIJ, L. S. 1990, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Bari, Laterza.



[1] Tutte le citazioni, ove non diversamente indicato, sono da intendersi a cura dell’autrice del Mémoire.

[2] Si veda il paragrafo 3.3.1

[3] Si veda il paragrafo 3.3.2

[4] Si veda il paragrafo 3.2

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