Valentina Fortichiari, «Lezione di nuoto. Colette e Bertrand, estate 1920». Guanda 2009, pagine 176, ISBN 9788860884114

Nel tuo libro racconti un periodo della vita di Colette. È stata molto lunga la fase di documentazione? Nella tua scrittura ha prevalso la parte documentaria o quella creativa-finzionale?

 

Valentina: Lunga sì, la parte preparatorio-documentativa. Non mi dilungo sulle letture (Colette non la conoscevo bene, dunque full immersion nelle sue opere ma soprattutto nei suoi epistolari, saggi, grandioso Sido e  Il puro e l’impuro), se non per ricordare – tra le tante biografie su di lei – un librone gigantesco, zeppo di testi ma soprattutto foto (lo cito forse nella mia Nota in fondo), che feci arrivare da Parigi, dove finalmente potevo vedere il “gruppo” in Bretagna, la casa, la baia, Bertrand, i costumi che indossavano, le attività. Ma per entrare in quel mood, per stare con loro, per descrivere le  nuotate, sono andata un mese intero (agosto, of course) là, ho cercato di infilarmi (invano) nella villa che è tuttora bellissima, ho nuotato ogni giorno nella baia, per “sentire” l’acqua, le correnti, le maree (il crampo di Colette, il mio), osservare sulla casa (dal mare), il giro del sole, le luci, studiare gli animali (gabbiani e cormorani, ho una collezione di piume e penne sulla mia scrivania). Dopo questa parte documentativa, è iniziata la scrittura mentale (prima, mentre andavo a Mont Saint-Michel che già conoscevo e amavo eccetera) e poi reale, mentre ero ancora in Bretagna. Dopo, tornata, tutto filava liscio come nuotare. Il lavoro finale, lungo, in levare: ho scarnificato per lasciare un osso di seppia. Ho aggiunto qua e là frasi di Colette.

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Il nuoto è un Leitmotiv della tua vita e della tua scrittura. Mi verrebbe da domandarti, ma mi sembra una domanda stupida: «È nato prima il nuoto o prima la scrittura?» Allora provo a essere diversamente stupido e ti chiedo: «È dal nuoto che nascono le idee per scrivere, o è dallo scrivere che nasce l’esigenza del nuoto?»

Valentina: Leggendo, notavo che mi piacevano gli scrittori che parlavano “anche” di nuoto (Cheever, il racconto del nobel cinese Gao Xingjian sul crampo del nuotatore). Scrivendo, nei primi tentativi, mi accorgevo che avevo sempre voglia di parlare del nuoto  (i ricordi, per esempio: ho iniziato a sei anni, perché gracile e fragile di salute, come tanti nuotatori buttati in acqua dai medici, ho fatto i cinque brevetti del Coni, poi entrata nel Nuoto club milanese con Neumann, famosissimo medico, poi suicida, le gare, i campionati italiani a Roma coi famosi azzurri, poi caduti nel disastro aereo di Brema, poi l’insegnamento del nuoto). Dopo Colette, ho capito che VOGLIO scavarmi la nicchia dell’acqua, sempre. Ho scritto tre racconti per Sette, una trilogia di animali marini, il terzo esce a fine luglio. Sto lavorando a Leonardo e l’acqua. Insomma, io ho bisogno di parlare  sempre di questo. Il nuoto ce lo infilerò sempre. Ieri è venuta la voce di un ragazzino libico che rischia di annegare: era sulla carretta del mare, coi trenta morti soffocati nella stiva. L’incipit è lui in acqua che sta per annegare e poi come si salva; il finale, lui che vede la schiusa delle uova delle tartarughe marine che vanno verso il mare d’istinto. Questo racconto è venuto da solo. Ho ascoltato.

Tuttavia, non so se la scrittura muove anche il bisogno di nuotare. Forse in me nuoto e scrittura – in questo momento – vanno per mano.

 

Sono pochi gli autori italiani che hanno scritto sia romanzi sia manualistica (per esempio «Nuotare tutti subito e bene», Tea 1998); ti sei dedicata anche a edizioni club divulgative «Le cento pagine più belle di» Dostoevskij (1981) e Goethe (1982). Guardando i tuoi titoli sembra che tu non abbia la malattia dell’intellettuale e dell’accademico italiano: la paura di “sporcarsi le mani”. È un’impressione corretta?

Valentina: Sì, è corretta. Almeno in parte. Ora ho accettato anche di scrivere una biografia di Leonardo (me lo ha chiesto ##@#@##@). Così romanzo e saggio si aiutano vicendevolmente. All’inizio c’era il bisogno di scrivere (solo saggistica), poi i campi si sono ‘ristretti’ e specializzati sui miei due ‘angeli’: Zavattini e Morselli. Una specializzazione serve a entrare in profondità. E a me piace questo. Sono curiosa ma deve piacermi ciò di cui mi occupo. Deve avere un legame con me. Adelphi mi chiese l’inventario delle carte di Morselli, a due anni dal suicidio. Non ho ancora smesso di studiarlo e mi riserva sorprese. Idem Za.

Non so se «sporcarsi le mani» sia in opposizione a malattie (vizi) degli intellettuali e degli accademici. Forse. Insegnare ciò che mi ha appassionato nella vita è sporcarsi le mani?

La scrittura narrativa per me è recente, troppo recente per considerarmi una scrittrice.

 

A pagina 172 scrivi: «Ciò che non so capire lo scrivo, per comprendere». Per te la scrittura è anche autoanalisi?

Valentina: Sì, lo è. Sempre. Ho iniziato la scrittura diaristica, mai interrotta, a tredici anni. Quando ho avuto necessità (forse curiosità) di un breve “salvagente” psicoanalitico, ho fatto la gioia del medico al quale leggevo il mio diario dei sogni. Ho un diario degli anni editoriali. Un diario delle letture e dei film. Una raccolta di diari nella mia libreria. Sono nipote di Zavattini, che mi ha passato il virus dell’autofiction (così la chiamano oggi, termine orribile). Il mio è innocuo, non amo parlare di me. Non amo dire «Io». Persino queste domande mi mettono a disagio, mi pare di esibire. Adoro il motto del buon Cerati (che non c’è più e che ho amato come modello di funzionario editoriale) :«con ironia esserci  sempre, apparire mai».  Stavo nell’ombra nel fare pubbliche relazioni, dietro gli Autori, sempre. Forse devo anche a loro se ora scrivo.

Quando ho scritto Colette, dovevo sopravvivere alla mia esperienza di separazione, e trovare “frammenti di un discorso amoroso”, ragionare sulla natura del sentimento amoroso. Forse mi ha preso la mano. La vicenda comunque era talmente bella in sé, che poi si è innestato il piacere di raccontarla.

valentina fortichiari2Alle pagine 7 e 8 scrivi: «Le case che stanno chiuse a lungo trattengono la temperatura fredda, non fanno passare tepori e fiati. I muri sono scudi contro il sole. Contro ogni fonte di luce». Da un lato rilevo il senso pratico della narratrice, dall’altra la valenza metaforica. Che ne pensi?

Valentina: È una metafora. Amo le similitudini. Quando scrivevo quella frase, io mi sentivo al buio e soffrivo. Avevo chiuso ogni porta. Dunque evitavo la luce. In Bretagna la luce ha effetti strani, può essere una non-luce. Mi piaceva l’idea delle case che si aprono durante le vacanze ma che hanno continuato una loro vita nei mesi invernali. Sì, è una metafora. Mi ci fai ragionare tu.

«Quando l’acqua è all’altezza del cuore, ha inizio la lezione di nuoto. Lei lo fa distendere e, standogli accanto, gli regge la schiena, ma l’altra mano tiene la sua nuca come si tiene la testa delicata di un neonato. E, facendolo galleggiare, cammina per insegnargli l’abbandono calmo della posizione supina e i corretti movimenti delle gambe» (49-50). Qui sembra trapelare una relazione tra lezioni di nuoto e lezioni d’amore e lezioni di sesso.

Valentina: Inizia tutto da questa frase: all’altezza del cuore. Non è casuale. È l’altezza corretta dell’acqua, dove ancora si deve toccare (toccare), ma è anche lo scatto per l’amore, il sesso, l’erotismo, la vita. LezionE al singolare vuol dire che volevo fare dell’acqua la metafora per l’iniziazione all’amore fisico, alla vita. I gesti del nuoto, dove le mani hanno importanza primaria, sono i gesti dell’amore, dove le mani guidano. I cinque sensi si applicano al nuoto, al sesso.

Insomma una metafora, in senso lato.

valentina fortichiari«… l’amore perfetto è quello che viene interrotto repentinamente, mentre è ancora vivo e forte». Ma quindi il matrimonio è destinato a interrompersi? oppure continua ma senza amore?

Valentina: Non credo interessi nessuno come la penso in materia di matrimonio. Dribblo con una frase di Julian Barnes, da Il senso di una fine: «Personalmente  amavo  il pensiero della nostra lunga esistenza insieme: quando le cose si fanno più lente e tranquille e quando la memoria diventa una collaborazione». Adoro quell’uso dell’imperfetto. Sul diario, l’avevo riportata vedendo un giorno una coppia di anziani curvi, che si tenevano per mano. Mi aveva turbata l’idea che ero fuggita per sempre da quella… probabilità. E avevo perduto il senso della memoria, è questo che viene a spezzarsi, a mancare, con un amore finito. Fuori o dentro un matrimonio.

Colette in fondo non ha rifiutato il matrimonio. Ma ciò che pensava sulla durata di un amore lo ha detto egregiamente e io – in quel momento – avevo bisogno di prove che un matrimonio «non può continuare senza amore».

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