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Jana Králová: La traduzione dei nomi propri Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Jana Králová: La traduzione dei nomi propri EMANUELA ROGANTINI Fondazione Milano Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO Relatore: professor Bruno Osimo Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Ottobre 2010 © Jana Králová 2008 © Emanuela Rogantini per l’edizione italiana 2010

Traduzione del saggio di Roman Jakobson «The Twentieth Century in European and American Linguistics: Movements and Continuity»

 

Traduzione del saggio di Roman Jakobson

«The Twentieth Century in European and American Linguistics: Movements and Continuity»

 

   

 

FEDERICA BARTESAGHI

Université de Strasbourg

Institut de Traducteurs d’Interprètes et de Relations Internationales

Fondazione Milano

Master in Traduzione

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO

Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

 

Master: Arts, Lettres, Langues

Mention: Langues et Interculturalité

Spécialité: Traduction et Interprétation

Parcours: Traduction littéraire

estate 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Mouton Publisher, 1985.

 

© Federica Bartesaghi per l’edizione italiana, 2012.

 

 

 

 

 

 

Mia ferma convinzione è che non di “fedeltà” si dovrebbe parlare bensì di “lealtà”. Il termine fedeltà connota guanciali, lenzuola e sotterfugi; il termine lealtà due occhi che fissando altri occhi dichiarano amore ammettendo un momentaneo “tradimento”. Sono stato leale alla tua altezza poetica, tradendoti qui e qui e qui: l’ho fatto per restare il più lealmente possibile alla tua altezza. Questo è ciò che dico ogni sera ai poeti vivi e morti coi quali cerco di intessere il dialogo poietico.

Franco Buffoni

 

 

 

Abstract

 

In this essay, «The Twentieth Century in European and American Linguistics: Movements and Continuity», Roman Jakobson chronicles the growth of linguistic studies both in Western and Eastern Europe, as well as in the United States. He portrays the most important personalities of his time and reminds those works that gave an invaluable contribution to the development of this field of study. His aim was to encourage his colleagues, especially the young ones, to widen their horizons and start to cooperate with linguistic scholars and students all over the world so that perhaps, in time, the science of language may come to hold in every country its proper place among sciences. This dissertation presents a translation into Italian of Jakobson’s article and its analysis.

 

Sommario

 

1. Traduzione con testo a fronte. 7

2. Analisi testuale. 52

2.1 Struttura e argomento del saggio  53

2.2 Roman Jakoboson, un eclettico plurilingue  54

2.3 L’ignoranza linguistica dei… linguisti 55

2.4 Oriente e Occidente: più lontani (o più vicini) che mai?  56

3. Analisi traduttologica. 58

3.1 Trovare la giusta strategia  59

3.2 A proposito di residuo  61

3.3 Discorso orale vs. testo scritto vs. testo tradotto  63

3.4 Perché scegliere la parola più facile, se ce n’è una più bella?  65

3.5 In English, auf Deutsch, ou préférez-vous en français?  66

3.6 L’astruso gergo dei linguisti 67

3.7 La traduzione dell’apparato metatestuale  68

4. Riferimenti bibliografici 69

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Traduzione con testo a fronte


THE TWENTIETH CENTURY IN EUROPEAN AND AMERICAN LINGUISTICS: MOVEMENTS AND CONTINUITY

Dear friends! I was asked to speak at the present Symposium devoted to the European background of American linguistics about the science of language in America and in Europe in the twentieth century. Apparently this topic was suggested because I witnessed the international develop­ment of linguistic thought through the long period of six decades – I followed this development first in the upper classes of the Lazarev Institute of Oriental Languages, afterwards as a student of linguistics and subsequently as a research fellow at Moscow University, then from 1920 in Prague and in other Western-European, especially Scandina­vian, centers of linguistic thought, and since the forties in America, with frequent visits to other areas of intense linguistic research.

As my eminent colleague Einar Haugen said in his recent paper “Half a Century of the Linguistic Society”, “each of us treasures his own memories”.[1] Thus, may I refer to my first, though indirect, acquaintance with the LSA. In March of 1925, the pioneering Czech scholar expert in both English and general linguistics, Vilém Mathesius, together with his younger, devoted collaborator in these two fields, Bohumil Trnka, invited Sergej Karcevskij and me to a consultative meeting. Mathesius began by citing two events. The first of them was the tenth anniversary of the Moscow Linguistic Circle, which, let us add, was already dissolved at that time, yet whose creation in 1915 and whose vital activities were a durable stimulus in the Russian and international development of linguistics and poetics. On my arrival in Prague in 1920, Mathesius questioned me about the make-up and work of the Moscow Circle and said, “We will need such a team here also, but now it is still too early. We must wait for further advances.”


IL NOVECENTO NELLA LINGUISTICA EUROPEA E AMERICANA: MOVIMENTI E CONTINUITÀ

Cari amici, mi è stato chiesto di parlare della scienza del linguaggio in America e in Europa nel Novecento a questo symposium dedicato alle radici europee della linguistica americana. Un simile argomento pareva indicato dal momento che sono stato testimone dello sviluppo internazionale del pensiero linguistico nel corso di sei lunghi decenni: ho seguito questo sviluppo dapprima ai corsi superiori dell’Istituto Lazarev di lingue orientali, in seguito quale studioso di linguistica e dopo ancora in veste di borsista all’università di Mosca, dal 1920 in poi a Praga e in altri centri di pensiero linguistico dell’Europa occidentale, soprattutto scandinavi, e dagli anni Quaranta in America, con frequenti incursioni in altri Paesi dove la ricerca linguistica era intensa.

Come il mio stimato collega Einar Haugen ha affermato nel suo recente articolo «Half a Century of the Linguistic Society» [Mezzo secolo della Linguistic Society]: «Ognuno di noi fa tesoro dei propri ricordi»[2]. Di conseguenza, posso far riferimento al mio primo contatto, ancorché indiretto, con la LSA. Nel marzo del 1925, il pionieristico studioso ceco esperto di linguistica inglese e di linguistica generale, Vilém Mathesius, assieme al suo più giovane, devoto collaboratore in entrambi i campi, Bohumil Trnka, invitarono me e Sergej Karcevskij a un incontro consultivo. Mathesius cominciò menzionando due avvenimenti. Il primo era il decimo anniversario del Circolo linguistico di Mosca, il quale, com’è noto, a quei tempi si era già sciolto, sebbene la sua fondazione nel 1915 così come le sue vivaci attività siano state uno stimolo durevole per lo sviluppo della linguistica e della poetica russa e internazionale. Al mio arrivo a Praga nel 1920, Mathesius mi interpellò sulla composizione e sul lavoro del Circolo di Mosca e disse: «Avremo bisogno di un gruppo del genere anche qui, ma per il momento è ancora presto. Dobbiamo attendere ulteriori progressi».


At the outset of our debates in 1925, he announced the most recent and impelling news – the formation of the Linguistic Society of America. Mathesius was one of those European linguists who followed with rapt attention and sympathy the impressive rise of American research in the science of language.

In October 1926, the Prague Linguistic Circle had its first meeting. It is well-known that this Prague association, which, strange as it seems at first glance, has also been dissolved, gave in turn a powerful and lasting impetus to linguistic thought in Europe and elsewhere. From the beginning, there was a close connection between the Linguistic Society of America and the Prague Linguistic Circle. I don’t know whether the young generation of scholars realizes how strong these relations were. N. S. Trubetzkoy’s letters reveal some new data on the manifold ties between American linguistics and the “École de Prague”[3]. At the end of 1931, Trubetzkoy, at the time immersed in the study of American Indian languages, emphasized that “most of the American Indianists perfectly describe the sound systems, so that their outlines yield all the essentials for the phonological characteristics of any given language, including an explicit survey of the extant consonantal clusters with respect to the different positions within or between the morphemes”. Trubetzkoy had a very high opinion of the American linguist whom he called “my Leipzig comrade”. This was Leonard Bloomfield, who in 1913 shared a bench with Trubetzkoy and Lucien Tesnière at Leskien’s and Brugmann’s lectures. Bloomfield praised “Trubetzkoy’s excellent article on vowel systems” of 1929 and devoted his sagacious 1939 study on “Menomini Morphophonemics” to N. S. Trubetzkoy’s memory[4].


Quando nel 1925 ebbero inizio i nostri dibattiti, Mathesius annunciò l’ultima e più importante novità: la creazione della Linguistic Society of America. Era uno di quei linguisti europei che seguivano con rapito interesse e partecipazione l’ammirevole crescita della ricerca americana nella scienza del linguaggio.

Nell’ottobre del 1926, il Circolo linguistico di Praga si riunì per la prima volta. È risaputo che questa associazione di Praga, anch’essa sciolta, per quanto strano possa sembrare di primo acchito, diede a sua volta un impeto potente e duraturo al pensiero linguistico in Europa e nel resto del mondo. Sin dall’inizio, c’era un collegamento stretto tra la Linguistic Society of America e il Circolo linguistico di Praga. Non so se l’ultima generazione di studiosi comprenda quanto intensi fossero questi rapporti. Le lettere di N.S. Trubeckoj rivelano alcuni nuovi indizi sui molteplici legami esistenti tra la linguistica americana e l’«École de Prague»[5]. Alla fine del 1931, Trubeckoj, a quei tempi immerso nello studio delle lingue amerindie, sottolineò che «la maggior parte degli americanisti descrive perfettamente i sistemi vocalici, di modo che i loro profili riproducono tutto ciò che è essenziale per le caratteristiche fonologiche di qualsiasi lingua, compresa una panoramica esplicita dei gruppi consonantici esistenti per in riferimento alle diverse posizioni dentro o tra i morfemi». Trubeckoj aveva un’altissima opinione del linguista americano che chiamava «il mio compagno di Lipsia». Si trattava di Leonard Bloomfield, che nel 1913 sedeva al fianco di Trubeckoj e di Lucien Tesnière alle lezioni di Leskien e Brugmann. Bloomfield elogiò «l’eccellente articolo di Trubeckoj sui sistemi vocalici» del 1929 e dedicò alla memoria di N.S. Trubeckoj il suo brillante studio del 1939 sulla «Menomini Morphophonemics»[6] [La Morfofonemica dei Menomini].


The Prague Circle had very close ties with Edward Sapir. When we held the International Phonological Conference of 1930, Sapir, though unable to attend, kept up a lively correspondence with Trubetzkoy about his Prague assembly and the development of the inquiry into linguistic, especially phonological, structure. Almost nothing remains of this exchange. Those of Sapir’s messages which had not been seized by the Gestapo were lost when the Viennese home of Trubetzkoy’s widow was demolished by an air raid. In their turn, Trubetzkoy’s letters perished when Sapir, at the end of his life, destroyed his entire epistolary archive. However, some quotations from Sapir’s letters have survived in Trubetzkoy’s correspondence, and others were cited by Trubetzkoy at our meetings. It is noteworthy that Sapir underscored the similarity of his and our approaches to the basic phonological problems.

These are not the only cases of the transoceanic propinquity between linguists of the American and of the Continental avant-garde. We may recollect and cite a remarkable document published in Language (vol. 18, 307-9). In August 1942 the Linguistic Society of America received a cable forwarded by the Soviet Scientists’ Anti-Fascist Committee. This was a telegraphic letter of more than 4,000 words sent from Moscow and signed by a prominent Russian linguist, Grigorij Vinokur, the former secretary of the Moscow Linguistic Circle. In this cabled report Vinokur emphasized the particular affinity of the young Russian linguists, especially the Moscow phonologists, with the pursuits and strivings of the LSA. He noted how profoundly Sapir was valued by the linguists of the USSR. Apparently the first foreign version of Sapir’s Language was an excellent Russian translation of this historic handbook by the Russian linguist A. M. Suxotin, with interesting editorial notes about the parallel paths in international linguistics.[7]


Il Circolo di Praga aveva legami molto stretti con Edward Sapir. Quando nel 1930 tenemmo il Congresso fonologico internazionale, Sapir, malgrado non potesse essere presente, intrattenne una vivace corrispondenza con Trubeckoj riguardo al suo convegno praghese e allo sviluppo dell’indagine nella struttura linguistica, in particolar modo fonologica. Quasi nulla rimane di questo scambio. I messaggi di Sapir che non erano stati sequestrati dalla Gestapo andarono perduti quando la residenza viennese della vedova di Trubeckoj venne rasa al suolo in un raid aereo. A loro volta, le lettere di Trubeckoj scomparvero quando Sapir, ormai in fin di vita, distrusse il suo intero archivio epistolare. Malgrado ciò, alcune citazioni dalle lettere di Sapir sono sopravvissute nella corrispondenza di Trubeckoj e altre venivano riportate da Trubeckoj durante i nostri incontri. È significativo che Sapir enfatizzasse la somiglianza tra i suoi approcci e i nostri ai problemi fonologici di base.

Questi non sono gli unici esempi della vicinanza transoceanica tra i linguisti dell’avanguardia americana e continentale. Possiamo ricordare e menzionare un documento degno di nota pubblicato in Language [Lingua-Linguaggio] (vol. 18, 307-9). Nell’agosto del 1942 la Linguistic Society of America ricevette un telegramma dal comitato degli scienziati sovietici antinazisti. Si trattava di una lettera telegrafica di più di quattromila parole spedita da Mosca e firmata da un eminente linguista russo, Grigorij Vinokur, ex segretario del Circolo linguistico di Mosca. In questo rapporto cablato Vinokur sottolineava la peculiare affinità dei giovani linguisti russi, in particolar modo dei fonologi di Mosca, con i propositi e lo zelo della LSA. Accennava alla profonda stima che i linguisti dell’Unione Sovietica nutrivano nei confronti di Sapir. A quanto pare la prima versione straniera di Language[8] di Sapir fu un’eccellente traduzione verso il russo del suo storico manuale da parte del linguista russo A.M. Suhotin, con note del curatore di grande interesse sui sentieri paralleli nella linguistica internazionale[9].

In the light of all these and many other interconnections, the question of purported hostility between American and European linguists comes to naught. Any actual contact puts an end to the belief that these were two separate and impervious scientific worlds with two different, irreconcilable ideologies. Sometimes we hear allegations that American linguists repudiated their European colleagues, particularly those who sought refuge in this country. I was one of those whom the Second World War brought to the Western hemisphere, and I must state that the true scholars, the outstanding American linguists, met me with a fraternal hospitality and with a sincere readiness for scientific coopera­tion. If there were signs of hostility and repudiation – and they were indeed evident – they occurred solely on the side of a few inveterate administrators and narrow-minded, ingrained academic bureaucrats and operators, and I am happy to acknowledge the unanimous moral support and defence which came from such genuine men of science as Charles Fries, Zellig Harris, Charles Morris, Kenneth Pike, Meyer Schapiro, Morris Swadesh, Stith Thompson, Harry V. Velten, Charles F. Voegelin, and many others.

One of the first American linguists whom I met on my arrival in this country and who became a true friend of mine was Leonard Bloomfield. Both orally and in writing, he repeatedly expressed his aversion to any intolerance, and he struggled against “the blight of the odium theologi­cum” and against “denouncing all persons who disagree” with one’s interest or opinion or “who merely choose to talk about something else”(in 1946). The fact that one, Bloomfield wrote, “disagrees with others, including me, in methods and theories does not matter; it would be deadly to have one accepted doctrine” (in 1945). I recollect our cordial and vivid debates; Bloomfield wanted me to stay and work with him at Yale, and assured me that he would be happy to have someone with whom he could have real discussions. The great linguist severely repudiated any selfish and complacent parochialism.

 

Alla luce di queste e di molte altre interconnessioni, la questione della pretesa ostilità tra linguisti americani ed europei non ha più ragion d’essere. Ogni contatto reale pone fine alla convinzione che fossero due mondi scientifici separati e privi di influenze reciproche con due ideologie diverse, inconciliabili. Ci capita di sentire accuse infondate secondo le quali i linguisti americani avrebbero ripudiato i loro colleghi europei, in particolar modo chi cercava rifugio in questo Paese. Io sono stato tra quelli che la Seconda guerra mondiale ha portato in Occidente e mi sento in dovere di dichiarare che i veri studiosi, i grandi linguisti americani, mi hanno accolto con un’ospitalità fraterna e con una propensione sincera alla collaborazione scientifica. Se ci sono stati segnali di ostilità e ripudio – e sono stati evidenti – si sono verificati unicamente da parte di pochi amministratori inveterati, burocrati e funzionari del mondo accademico ostinati e ottusi, e sono felice di constatare l’unanime sostegno morale e la protezione che sono scaturiti da autentici uomini di scienza come Charles Fries, Zellig Harris, Charles Morris, Kenneth Pike, Meyer Schapiro, Morris Swadesh, Stith Thompson, Harry V. Velten, Charles F. Voegelin e molti altri.

Uno dei primi linguisti americani che conobbi al mio arrivo in questo Paese e che divenne mio grande amico fu Leonard Bloomfield. Sia a parole sia sulla carta, Bloomfield espresse più di una volta la sua avversione per ogni intolleranza e si batté contro «il flagello dell’odium theologicum» e contro «la condanna per chiunque è in disaccordo» con gli interessi e le opinioni di uno o «che semplicemente sceglie di parlare d’altro» (nel 1946). Il fatto che qualcuno, scrisse Bloomefield, «sia in disaccordo con altri, me compreso, per metodologie e teorie non ha importanza; sarebbe mortalmente noioso avere una sola dottrina accettata» (nel 1945). Ricordo i nostri dibattiti amichevoli e accesi; Bloomfield voleva che rimanessi a lavorare con lui alla Yale e mi assicurò che sarebbe stato felice di avere qualcuno con cui poter fare discussioni vere. Il grande linguista ripudiava appieno ogni provincialismo egoistico e compiaciuto.


From my first days in this country in June 1941 I experienced the deep truth in Bloomfield’s later obituary judgment on Franz Boas: “His kindness and generosity knew no bounds”.[10] The fundamental role in American linguistics played by this German-born scholar, 28 years old at his arrival in the United States, was wisely appraised by Bloomfield: “The progress which has since been made in the recording and description of human speech has merely grown from the roots, stem, and mighty branches of Boas’ life-work.” As to the founder and skillful director of the Handbook of American Indian Languages himself, I recall his amiable, congenial house in Grantwood, New Jersey, where the host, with his keen sense of humor, used to say to his sister in my presence: “Jakobson ist ein seltsamer Mann! He thinks that I am an American linguist!”

Boas strongly believed in the international character of linguistics and of any genuine science and would never have agreed with an obstinate demand for a regional confinement of scientific theories and research. He professed that any analogy to a struggle for national interests in politics and economics was superficial and far-fetched. In the science of language there are no patented discoveries and no problems of inter­tribal or interpersonal competition, of regulations for imported and exported merchandise or dogma. The greater and closer the cooperation between linguists of the world, the vaster are the vistas of our science. Not only in the universe of languages, but also throughout the world of convergent development of bilateral diffusion.

 

Sin dai miei primi giorni in questo Paese nel giugno del 1941, feci esperienza della profonda verità che c’è nel necrologio di Bloomfield per Franz Boas: «La sua gentilezza e generosità non conoscevano confini»[11]. Bloomfield stimò saggiamente il ruolo chiave che questo studioso di origini tedesche, arrivato negli Stati Uniti all’età di ventotto anni, ebbe nella linguistica americana: «Dopo Boas, i progressi fatti nel registrare e descrivere il discorso umano sono solo il frutto delle radici, del tronco e dei possenti rami del suo operato di una vita». Riguardo all’artefice ed esperto curatore del Handbook of American Indian Languages [Manuale delle lingue amerindie], rammento la sua splendida, gradevole residenza a Grantwood, New Jersey, dove il padrone di casa, con il suo spiccato senso dell’umorismo, diceva alla sorella in mia presenza: «Jakobson ist ein seltsamer Mann! [Jakobson è un uomo bizzarro!] Mi crede un linguista americano!».

Boas credeva fermamente nel carattere internazionale della linguistica e di ogni vera e propria scienza e non sarebbe mai stato d’accordo con un’ostinata pretesa di confinamento territoriale delle teorie e delle ricerche scientifiche. Sosteneva che qualsiasi analogia con una lotta per gli interessi nazionali in politica e in economia era superficiale ed eccessiva. Nella scienza del linguaggio non esistono scoperte brevettate e non ci sono problemi di competizione intertribale o interpersonale, di regolamentazioni per mercanzie o dogmi importati ed esportati. Più grande e più stretta è la collaborazione tra i linguisti del mondo, più sconfinati sono gli orizzonti della nostra scienza. Non solo nella sfera delle lingue, ma anche in tutto il mondo di evoluzione convergente della diffusione parallela.


One may add that isolationist tendencies in the scientific life of the two hemispheres were mere transient and insignificant episodes and that the international role of American linguistics and, in particular, the trans­oceanic influence of the American achievements in the theory of language appear as early as the European models do in American linguistics.

During the second half of the past century it was Germany which witnessed the widest progress and expansion of comparative Indo-European studies. Yet the new and fecund ideas in general linguistics emerged outside the German scholarly world. Toward the end of the nineteenth century Karl Brugmann and August Leskien, the two leading German comparatists and proponents of the world-famed Leipzig school of Neogrammarians, emphatically acknowledged the immense stimula­tion which the American linguist William Dwight Whitney gave to the European research in the history of languages by his original treatment of general principles and methods. At the same time, Ferdinand de Saussure stated that Whitney, without having himself written a single page of comparative philology, was the only one “to exert an influence on all study of comparative grammar”, whereas in Germany linguistic science, which was allegedly born, developed, and cherished there by innumerable people, in Saussure’s (as also in Whitney’s) opinion never manifested “the slightest inclination to reach the degree of abstraction necessary to master what one is actually doing and why all that is done has its justification in the totality of sciences”.[12] Having returned at the end of his scholarly activities to the “theoretical view of language”, Saussure repeatedly expressed his reverence for “the American Whitney, who never said a single word on these topics which was not right”. Whitney’s books on general linguistics were immediately translated into French, Italian, German, Dutch, and Swedish and had a far wider and stronger scientific influence in Europe than in his homeland.


Si può pensare che le tendenze isolazionistiche nella vita scientifica dei due emisferi siano state episodi a malapena transitori e insignificanti e che il ruolo internazionale della linguistica americana e, in particolare, l’influenza transoceanica delle conquiste americane nella teoria del linguaggio compaiano in concomitanza con i modelli europei nella linguistica americana.

Nella seconda metà del secolo scorso fu la Germania ad assistere al progresso e alla crescita più considerevoli degli studi comparativi sull’indoeuropeo. Non a caso le idee nuove e feconde in linguistica generale emersero dal mondo accademico tedesco. Verso la fine dell’Ottocento Karl Brugmann e August Leskien, i due più noti comparatisti tedeschi ed esponenti della rinomata Scuola neogrammaticale di Lipsia, riconobbero con chiarezza l’immenso stimolo che il linguista americano William Dwight Whitney diede alla ricerca europea sulla storia delle lingue attraverso il suo approccio originale ai principi e ai metodi generali. Parallelamente, Ferdinand de Saussure dichiarava che Whitney, pur non avendo scritto di suo pugno una sola pagina sulla filologia comparativa, era l’unico «a esercitare influenza su tutti gli studi di grammatica comparativa» mentre nella scienza linguistica tedesca, che in quel luogo era presumibilmente stata data alla luce, allevata e nutrita da innumerevoli persone, secondo Saussure (e anche Whitney) non si manifestò mai «la benché minima tendenza a raggiungere il grado di astrazione necessario a dominare ciò che uno fa e la risposta al perché una cosa viene fatta si trova nella totalità delle scienze»[13]. Essendo tornato verso la fine della sua attività accademica alla «visione teorica della lingua», Saussure espresse più di una volta la sua deferenza per «l’americano Whitney, che non pronunciò mai una sola parola sull’argomento che non fosse esatta». Il libro di Whitney sulla linguistica generale venne subito tradotto in francese, italiano, tedesco, olandese e svedese ed ebbe un’influenza scientifica assai più significativa e forte in Europa che in madrepatria.

 

For many years American students of language, absorbed in particu­lars, seemed to disregard Whitney’s old warning to linguists in which he adjured them not to lose “sight of the grand truths and principles which underlie and give significance to their work, and the recognition of which ought to govern its course throughout” (1867).[14] Leonard Bloomfield was actually the first American scholar who from his early steps in linguistic theory endeavored to revive Whitney’s legacy in the study of language.

As a parallel to the earlier and deeper naturalization of Whitney’s Principles of Linguistic Science in the Old World one may cite the reception of Saussure’s Cours de linguistique générale in the New World. Although it opened a new epoch in the history of linguistics, the appearance of this posthumous publication found, at first, only a few linguists ready to accept the basic lessons of the late Genevan teacher. Originally most of the Western-European specialists outside of his native Switzerland showed restraint toward Saussure’s conception, and, strange to say, France was one of the countries particularly slow in assimilating his theory. One of the earliest open-minded appraisers and adherents of the Cours was an American scholar. Its first two editions were commented on by Bloomfield not only in the separate review of the Cours for the Modern Language Journal (1923-24), but also in Bloomfield’s critiques of Sapir’s Language (1922) and of Jespersen’s Philosophy of Gramar (1927), and in a few further texts, all of them made e easily available by Charles F. Hockett in his magnificent anthology.[15]

According to the aforesaid review, the nineteenth century “took little or no interest in the general aspects of human speech”, so that Saussure in his lectures on general linguistics “stood very nearly alone”, and his posthumous work “has given us the theoretical basis for a science of human speech”.


Per molti anni gli studiosi della lingua americani, concentrati sui dettagli, sembravano non tener conto dell’antico monito che Whitney rivolgeva ai linguisti per esortarli a non perdere «di vista le grandi verità e i principi che stanno alla base del loro lavoro e gli danno un senso, e la cui identificazione dovrebbe governarne il corso in ogni dove» (1867)[16]. Leonard Bloomfield fu infatti il primo studioso americano che da quando mosse i suoi primi passi nella teoria linguistica si impegnò a ridare slancio all’eredità lasciata da Whitney allo studio della lingua.

Analogamente alle precedenti e più profonde naturalizzazioni dei Principles of Linguistic Science [I principi della scienza linguistica] di Whitney nel Vecchio mondo, possiamo menzionare l’accoglienza del Cours de linguistique générale [Corso di linguistica generale] di Saussure nel Nuovo mondo. Benché abbia segnato l’inizio di una nuova era nella storia della linguistica, la comparsa delle sue pubblicazioni postume trovò, dapprima, solo pochi linguisti pronti ad accettare gli insegnamenti basilari del defunto insegnante ginevrino. All’inizio la maggior parte degli specialisti dell’Europa occidentale al di fuori della Svizzera, sua terra natale, si dimostrarono prudenti verso la concezione di Saussure e, incredibile a dirsi, la Francia fu uno dei Paesi più lenti nell’assimilare la sua teoria. Uno tra primi estimatori e seguaci di ampie vedute del Cours fu uno studioso americano. Le prime due edizioni furono commentate da Bloomfield non solo nella recensione a sé stante del Cours per il Modern Language Journal (1923-24), ma anche nella sua critica a Language (1922) di Sapir e al Philosophy of Gramar [Filosofia della grammatica] (1927) di Jespersen e in alcuni altri scritti, tutti resi facilmente reperibili da Charles F. Hockett nella sua magnifica antologia[17].

Secondo la sopracitata recensione, l’Ottocento «si interessò poco o niente degli aspetti generali del discorso umano», di modo che Saussure, durante le sue lezioni di linguistica generale, «era quasi del tutto solo» e il suo lavoro postumo «ci ha fornito le basi teoriche per una scienza del discorso umano».

 

In reviewing Sapir’s Language, Bloomfield realizes that the question of influence or simply convergent innovations is “of no scientific moment”, but in passing he notes the probability of Sapir’s acquaintance with Saussure’s “book, which gives a theoretical founda­tion to the newer trend of linguistic study”. In particular, he is glad to see that Sapir “deals with synchronic matters (to use de Saussure’s terminology) before he deals with diachronic, and gives to the former as much space as to the latter”.

Bloomfield subscribes not only to the sharp Saussurian distinction between synchronic and diachronic linguistics, but also to the further dichotomy advocated by the Cours, namely a rigorous bifurcation of human speech (language) into a perfectly uniform system (langue) and the actual speech-utterance (parole). He professess full accord with the “fundamental principles” of the Cours:

For me, as for de Saussure *** and, in a sense, for Sapir ***, all this, de Saussure’s la parole, lies beyond the power of our science. *** Our science can deal only with those features of language, de Saussure’s la langue, which are common to all speakers of a community, – the phonemes, grammatical categories, lexicon, and so on. *** A grammatical or lexical statement is at bottom an abstraction.[18]

But in Bloomfield’s opinion, Saussure “proves intentionally and in all due form: that psychology and phonetics do not matter at all and are, in principle, irrelevant to the study of language”. The abstract features of Saussure’s la langue form a “system, – so rigid that without any adequate physiologic information and with psychology in a state of chaos, we are”, Bloomfield asserts, “nevertheless able to subject it to scientific treatment”.

According to Bloomfield’s programmatic writings of the twenties, the “newer trend” with its Saussurian theoretical foundation “affects two critical points”.


Analizzando Language di Sapir, Bloomfield capisce che il problema dell’influenza o anche solo delle innovazioni convergenti non ha «alcun valore scientifico», ma incidentalmente si accorge che Sapir doveva conoscere «il libro di Saussure, che getta le fondamenta teoriche per la tendenza più nuova degli studi linguistici». In particolar modo, è lieto di constatare che Sapir «tratta le questioni di sincronia (per usare la terminologia di Saussure) prima di trattare quelle di diacronia e concede alle prime tanto spazio quanto alle seconde».

Bloomfield condivide non solo la netta distinzione che fa Saussure tra linguistica sincronica e diacronica, ma anche un’altra dicotomia sostenuta dal Cours, vale a dire una rigorosa biforcazione del discorso umano (language) in un sistema perfettamente uniforme (langue) e in un enunciato reale (parole). Si dichiara in completo accordo con i «principi fondamentali» del Cours:

Per me, come per de Saussure […] e, in un certo senso, per Sapir […], tutto questo, la parole di de Saussure, esula dal campo della nostra scienza. […] La nostra scienza può trattare solo quegli aspetti della lingua, la langue di de Saussure, che sono comuni a tutti i parlanti di una comunità: i fonemi, le categorie grammaticali, il lessico e così via. […] Un’affermazione grammaticale o lessicale è di base un’astrazione[19].

Ma a giudizio di Bloomfield, Saussure «dimostra intenzionalmente e nella forma debita che la psicologia e la fonetica non hanno alcuna importanza e che, in linea di principio, sono irrilevanti per lo studio della lingua». Le caratteristiche astratte della langue di Saussure formano un «sistema così rigido che senza adeguate informazioni sulla fisiologia e con la psicologia nel caos» sostiene Bloomfield, «siamo comunque in grado di sottoporlo a un trattamento scientifico».

Secondo quanto afferma Bloomfield nei suoi scritti programmatici degli anni Venti, la «tendenza più nuova» del fondamento teorico di Saussure «riguarda due aspetti cruciali».


First, and once more he underscores this point in his paper of 1927 “On Recent Work in General Linguistics”,[20] Saussure’s outline of the relation between “synchronic” and “diachronic” science of language has given a “theoretical justification” to the present recognition of descriptive linguistics “beside historical, or rather as precedent to it”.[21]In this connection it is worth mentioning that even the striking divergence between the search for new ways in Saussure’s synchronic linguistics and his stationary, nearly Neogrammarian atti­tude toward “linguistic history”, was adopted by Bloomfield, who was disposed to believe that here one could hardly learn “anything of a fundamental sort that Leskien didn’t know”.[22]

Referring to the second critical point of the “modern trend” in linguistics, Bloomfield commends two restrictive definitions of its sole attainable goal: he cites the Saussurian argument for “la langue, the socially uniform language pattern”[23]and Sapir’s request for “an inquiry into the function and form of the arbitrary systems of symbolism that we term languages”.[24]

When maintaining that this subject matter must be studied “in and for itself”, Bloomfield literally reproduces the final words of the Cours. Strange as it seems, here he shows a closer adherence to the text of Saussure’s published lectures than the lecturer himself.


Primo, e torna a ribadire questo punto nel suo scritto del 1927 «On Recent Work in General Linguistics»[25] [Sulle ultime opere di linguistica generale], la descrizione saussuriana del rapporto tra la scienza della lingua «sincronica» e «diacronica» ha dato una «spiegazione teorica» al riconoscimento attuale della linguistica descrittiva «accanto a quella storica, o meglio come sua antecedente»[26]. A questo proposito vale la pena ricordare che persino la più grande divergenza tra la ricerca di nuove strade nella linguistica sincronica di Saussure e il suo approccio statico, quasi neogrammatico alla «storia linguistica»[27] venne adottata da Bloomfield, che era disposto a credere che qui difficilmente si sarebbe potuto imparare «qualcosa di fondamentale che Leskien non sapesse già»[28].

Riguardo al secondo punto cruciale della «tendenza moderna» in linguistica, Bloomfield encomia due definizioni limitanti dell’unico obiettivo perseguibile: ricorda l’argomentazione saussuriana per «la langue, il modello di lingua socialmente uniforme»[29] e l’insistenza di Sapir sulla necessità di «uno studio nella funzione e nella forma di quei sistemi di simbolismi arbitrari che chiamiamo lingue»[30].

Quando afferma che questo argomento di discussione deve essere studiato «dentro e per sé stesso», Bloomfield riporta alla lettera le ultime parole del Cours. Per quanto strano possa sembrare, qui Bloomfield mostra un’aderenza al testo delle lezioni saussuriane pubblicate maggiore dell’oratore stesso.


As has since been revealed, the final, italicized sentence of the Cours “la linguistique a pour unique et véritable objet la langue envisagée en elle-même et pour elle­-même” though never uttered by the late teacher, was appended to the posthumous book by the editors-restorers of Saussure’s lectures as “1’idée fondamentale de ce cours”. According to Saussure’s genuine notes and lectures, language must not be viewed in isolation, but as a particular case among other systems of signs in the frame of a general science of signs which he terms sémiologie.

The close connection between Bloomfield’s (and, one may add, Sapir’s) initial steps in general linguistics and the European science of language, as well as Whitney’s significance in the Old World, exemplify the continuous reciprocity between the linguists of the two hemispheres.

In his first approach to the “principle of the phoneme” Bloomfield pondered over the concepts developed by the school of Sweet, Passy, and Daniel Jones, and when we met, he cited his particular indebtedness to Henry Sweet’s “classical treatise” on The Practical Study of Lan­guages (1900).[31]


Come vi è stato ormai rivelato, l’ultima frase in corsivo del Cours: «La linguistique a pour unique et véritable objet la langue envisagée en elle-même et pour elle-même» [Il solo e vero oggetto della linguistica è la lingua in sé e per sé], sebbene non sia mai stata pronunciata dal defunto insegnante, venne inserita nel libro postumo dai curatori-restauratori delle lezioni di Saussure come «l’idée fondamentale de ce cours» [l’intuizione fondamentale di questo corso]. Secondo gli appunti e le lezioni originali di Saussure, la lingua non deve essere considerata isolatamente, ma come un caso particolare tra altri sistemi di segni nel quadro di una scienza dei segni generale che lui chiama «sémiologie».

Lo stretto legame tra i primi passi di Bloomfield (e, si potrebbe dire, quelli di Sapir) nella linguistica generale e la scienza del linguaggio europea, come anche l’importanza di Whitney nel Vecchio mondo, esemplificano la permanente reciprocità tra i linguisti dei due emisferi.

Nel suo primo approccio al «principio del fonema» Bloomfield rifletteva sui concetti sviluppati dalla scuola di Sweet, Passy e Daniel Jones, e quando ci incontrammo, ricordò il suo particolare debito verso il «trattato classico» di Henry Sweet su The Practical Study of Lan­guages (1900)[32] [Lo studio pratico delle lingue].


From the very outset of his concern for phonemic problems, Bloomfield confronted the difference between the discreteness of phonemes and “the actual continuum of speech sound” and Saus­sure’s opposition of langue/parole,[33] and he found “explicit formulations” in Baudouin de Courtenay’s Versuch einer Theorie der phone­tischen Alternationen of 1895.[34] From this book he also got the fruitful concept and term morpheme, coined by Baudouin.[35]Upon the same label, likewise borrowed from Baudouin’s terminology, French linguis­tic literature mistakenly imposed the meaning “affix”.

There are certain classical works in the European linguistic tradition which have constantly attracted special attention and recognition in the American science of language. Thus, the two books which so captivated Noam Chomsky, one by Humboldt and one by Otto Jespersen, have more than once since their appearance evoked lively and laudatory responses from American linguists: thus, in Sapir’s estimation, “the new vistas of linguistic thought opened up by the work of Karl Wilhelm von Humboldt”, and the latter’s treatise Uber die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues compelled Bloomfield to admire “this great scholar’s intuition”; as to Jespersen’s masterpiece, Bernard Bloch in 1941 praised “the greatness of the Philosophy of Grammar”, and Bloomfield’s review of 1927 pointed out that by this book “English grammar will be forever enriched”.[36]

 

Sin da quando iniziò a interessarsi di problemi fonemici, Bloomfield affrontò la differenza tra la discretezza dei fonemi e «la continuità del suono del discorso» come anche l’opposizione tra langue/parole[37] di Saussure, e trovò «formulazioni esplicite» nel Versuch einer Theorie der phone­tischen Alternationen [Tentativo di teorizzare le alternanze fonetiche] di Baudouin de Courtenay del 1895[38]. Da questo libro trasse anche il fruttuoso concetto e termine «morfema» coniato da Baudouin[39]. Alla stessa etichetta, egualmente presa in prestito dalla terminologia di Baudouin, la letteratura linguistica francese impose l’erroneo significato di «affisso».

Ci sono alcune opere classiche nella tradizione linguistica europea che destano da sempre particolare attenzione e riconoscimento nella scienza del linguaggio americana. Sin dalla loro comparsa, infatti, i due libri che tanto hanno affascinato Noam Chomsky, uno di Humboldt e uno di Otto Jespersen, hanno suscitato più di una volta le reazioni vivaci ed encomiastiche dei linguisti americani: secondo il parere di Sapir, infatti, «i nuovi orizzonti del pensiero linguistico si sono aperti con il lavoro di Karl Wilhelm von Humboldt» e il trattato di quest’ultimo, Uber die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues [Riguardo alla diversità delle costruzioni linguistiche umane], costrinse Bloomfield ad ammirare «questa grande intuizione dello studioso»; per quanto riguarda il capolavoro di Jespersen, nel 1941 Bernard Bloch elogiò «la magnificenza della Philosophy of Grammar» e la recensione di Bloomfield del 1927 proclamò che grazie a questo libro «la grammatica inglese [sarebbe stata] per sempre arricchita»[40].

 

The wide-spread myth of a sole and uniform American linguistic school and of its exclusive control throughout the country, at least during certain periods in the development of the science of language in the United States, is at variance with the actual situation. Neither the geographical nor the historical significance of one or another scientific trend can be based on the excessive number of students who, as Martin Joos neatly remarked (1957:v), “accept the current techniques without inquiring into what lay behind them”.[41] What really counts is the quality alone, both of theoretical and of empirical attainments.

In America, as well as in Europe, there has fortunately always been an imposing variety of approaches to the foundations, methods, and tasks of linguistics. In its initial output, the Linguistic Society of America displayed a remarkable diversity of views. Its first president, Hermann Collitz of the Johns Hopkins University, in his inaugural address (December 28, 1924) on “The Scope and Aims of Linguistic Science”, spoke about the rapidly improving conditions for a new advancement of “general or ‘philosophical’ grammar”, which for a while “had to be satisfied with a back seat in linguistics”.[42] Collitz laid stress on the principal problems of general linguistics, one of which concerns “the relation between grammatical forms and mental categories”. He referred in this connection to “an able study written by an American scholar, namely: Grammar and Thinking, by Albert D. Sheffield” (New York: 1912), a book, let us add, “heartily welcomed” in Bloomfield’s review of 1912 as “a sensible volume on the larger aspects of language”.[43]


Il mito ampiamente diffuso di una scuola linguistica americana unica e coesa e del controllo esclusivo che questa esercita in tutto il Paese, per lo meno durante certi periodi di sviluppo della scienza del linguaggio negli Stati Uniti, è in contrasto con la situazione reale. Né l’importanza geografica né quella storica di una o di un’altra tendenza scientifica possono essere basate sul numero eccessivo di studiosi che, come Martin Joos osservò chiaramente (1957:v), «accettano le tecniche odierne senza indagare su ciò che vi si cela dietro»[44]. L’unica cosa che conta davvero è la qualità, tanto delle conquiste teoriche quanto di quelle empiriche.

Per fortuna in America, così come in Europa, c’è sempre stata una formidabile varietà di approcci ai fondamenti, ai metodi e ai compiti della linguistica. Nella sua produzione iniziale, la Linguistic Society of America esibì una considerevole diversità di punti di vista. Il suo primo presidente, Hermann Collitz della Johns Hopkins University, nel suo discorso inaugurale (28 dicembre, 1924) su The Scope and Aims of Linguistic Science [L’ambito e gli obiettivi della scienza linguistica] parlò del rapido miglioramento delle condizioni per un nuovo progresso della «grammatica generale o “filosofica”» che per il momento «doveva accontentarsi di un posto marginale nella linguistica»[45]. Collitz mise in evidenza i problemi principali della linguistica generale, uno dei quali riguarda «il rapporto tra le forme grammaticali e le categorie mentali». Questo riferimento era rivolto a «un intelligente studio elaborato da un ricercatore americano, ovvero Grammar and Thinking [Grammatica e pensiero], di Albert D. Sheffield» (New York: 1912), un libro, per di più, «accolto con entusiasmo» nella recensione di Bloomfield del 1912 quale «brillante volume sugli aspetti più vasti della lingua»[46].


The other concern of general linguistics was defined by Collitz as “uniformi­ties and permanent or steadily recurring conditions in human speech generally”. The latter item shortly thereafter became a subject of controversy in the gatherings and publications of the LSA: skeptics were disposed to deny the existence of general categories, as long as no linguist can know which of them, if any, exist in all languages of the world, whereas Sapir with an ever growing persistence worked on a series of preliminaries to his Foundations of Language, a wide-ranging program of universal grammar that he cherished till the end of his life.

The passage of the aforementioned inaugural address on the “mental categories” as correlates of external forms hinted at a question about to become for decades an enduring casus belli between two linguistic currents in America, where they have been nicknamed respectively “mentalism” and “mechanism” or “physicalism”. With regard to the pivotal problems of general linguistics touched upon by Collitz, Bloomfield’s prefatory article – “Why a Linguistic Society?” – for the first issue of the Society’s journal Language adopted a conciliatory tone: “The science of language, dealing with the most basic and simplest of human social institutions, is a human (or mental or, as they used to say, moral) science. *** It remains for linguists to determine what is widespread and what little is common to all human speech.”[47]Yet the two integral theoretical articles which made up the second issue of the same volume – Sapir’s “Sound Patterns in Language” and “Linguistics and Psychology” by A. P. Weiss – brought to light a major scientific dissent. Sapir’s epochal essay (1925), one of the most farsighted American contributions to the apprehension and advance of linguistic methodology, asserts from its first lines that no linguistic phenomena or processes, in particular neither sound patterns nor sound processes of speech (for instance “umlaut” or “Grimm’s law”, so-called), can be properly understood in simple mechanical, sensorimotor terms.

 

L’altra questione spinosa della linguistica generale fu definita da Collitz come «conformità e condizioni stabili o costantemente ricorrenti nel discorso umano in generale». Quest’ultimo divenne in breve soggetto di controversie nelle riunioni e nelle pubblicazioni della LSA: gli scettici erano pronti a negare l’esistenza di categorie generali, dato che nessun linguista può sapere quali di loro, se ce ne sono, esistono in tutte le lingue del mondo, mentre con una persistenza sempre maggiore Sapir lavorava a una serie di premesse al suo Foundations of Language [I fondamenti della lingua], un programma comprensivo di grammatica universale che ebbe a cuore fino alla fine dei suoi giorni.

Il passo del predetto discorso inaugurale sulle «categorie mentali» quali correlati di forme esterne alludeva a una questione che nei decenni a seguire si sarebbe rivelata un duraturo casus belli tra due correnti linguistiche in America, dove sono state soprannominate rispettivamente «mentalismo» e «meccanicismo» o «fisicalismo». Per quanto riguarda i problemi centrali di linguistica generale sollevati da Collitz, l’articolo introduttivo di Bloomfield – «Why a Linguistic Society?» [Perché una Linguistic Society?] – per il primo numero della rivista della società Language assumeva un tono conciliante: «La scienza del linguaggio, che riguarda le istituzioni sociali umane più basilari e semplici, è una scienza umana (o mentale o, come erano soliti chiamarla, morale). […] Resta ai linguisti il compito di determinare cosa del discorso umano è diffuso e cosa non lo è»[48]. Ciononostante i due articoli teorici integrali che rappresentavano il secondo numero dello stesso volume – «Sound Patterns in Language» [I modelli vocalici della lingua] di Sapir e «Linguistics and Psychology» [Linguistica e psicologia] di A.P. Weiss – portarono alla luce un profondo dissenso scientifico. L’epocale saggio di Sapir (1925), uno dei più lungimiranti contributi americani alla comprensione e allo sviluppo della metodologia linguistica, afferma sin dalle prime righe che nessun fenomeno o processo linguistico, in particolare né i modelli vocalici né i processi vocalici del discorso (per esempio la cosiddetta «Umlaut» o «Legge di Grimm»), possono essere compresi appieno in semplici termini meccanici, sensorimotori.

 

The dominant role was said to pertain to the “intuitive pattern alignment” proper to all speakers of a given language. According to the author’s conclusion, the whole aim and spirit of the paper was to show that phonetic phenomena are not physical phenomena per se and to offer “a special illustration of the necessity of getting behind the sense data of any type of expression in order to grasp the intuitively felt and communicated forms which alone give significance to such expression”.

Sapir’s assaults against mechanistic approaches to language run counter to the radical behaviorism of the psychologist Albert Paul Weiss. The latter’s article appeared in Language thanks to the sponsor­ship of Bloomfield, who taught with Weiss at Ohio State University, 1921-27, and who was increasingly influenced by his doctrine. In this paper of 1925 Weiss envisions a “compound multicellular type of organization” produced by language behavior, and he assigns to written language the rise of an even “more effective sensorimotor inter­changeability between the living and the dead”. Bloomfield’s wide-scale outline of 1939, Linguistic Aspects of Science, with its numerous references to Weiss, picks up and develops this image: “Language bridges the gap between the individual nervous systems. *** Much as single cells are combined in a many-celled animal, separate persons arecombined in a speech community. *** We may speak here, without metaphor, of a social organism”.[49]

What, however, most intimately fastens Bloomfield to the works of Weiss is the latter’s demand that human behavior be discussed in physical terms only. “The relation between structural and behavior psychology”, examined by Weiss in the Psychological Review (1917), rejects the structuralist’s aim “to describe the structure of the mind or consciousness” and denies the possibility of cooperation between struc­turalism and behaviorism, so far as the fundamental conceptions underlying both methods and the theoretical implications of either method are subjected to a close scrutiny.[50]

 

Si diceva che il ruolo dominante spettasse agli «allineamenti di modelli intuitivi» propri di tutti i parlanti di una lingua. Secondo la conclusione tratta dall’autore, l’intero proposito e spirito dell’articolo era mostrare che i fenomeni fonetici non sono in sé fenomeni fisici e di offrire «una raffigurazione singolare della necessità di soffermarsi sui dati pratici di ogni tipo di espressione allo scopo di cogliere le forme intuite e comunicate che da sole danno senso alla suddetta espressione».

L’attacco di Sapir agli approcci meccanicistici alla lingua si oppone al comportamentismo radicale dello psicologo Albert Paul Weiss. L’articolo di quest’ultimo comparve su Language grazie al sostegno di Bloomfield, che insegnò assieme a Weiss alla Ohio State University, 1921-27, e che era sempre più influenzato dalla sua dottrina. Nel suo scritto del 1925 Weiss immagina un «tipo di organizzazione pluricellulare» prodotta dal comportamento linguistico e attribuisce alla lingua scritta l’origine di «un’interscambiabilità sensorimotoria più efficace tra i vivi e i morti». La vasta panoramica di Bloomfield del 1939, «Linguistic Aspects of Science» [Gli aspetti linguistici della scienza], con i suoi numerosi riferimenti a Weiss, raccoglie e sviluppa questa immagine: «La lingua colma le distanze tra i sistemi nervosi individuali. […] Quasi come le singole cellule si raggruppano in un animale multicellulare, persone diverse si raggruppano in una comunità discorsuale. […] In questo caso possiamo parlare, senza metafore, di un organismo sociale»[51].

Ciò che, tuttavia, lega più profondamente Bloomfield ai lavori di Weiss è la richiesta di quest’ultimo che il comportamento umano venga discusso unicamente in termini fisici. «La relazione tra psicologia strutturale e comportamentale» esaminata da Weiss nella Psychological Review (1917), si dissocia dall’intenzione dello strutturalista di «descrivere la struttura della mente o dei contenuti coscienti» e nega la possibilità di una collaborazione tra strutturalismo e comportamentismo, nella misura in cui le concezioni fondamentali che sottostanno tanto ai metodi quanto alle implicazioni teoriche di entrambi i metodi sono soggette a un controllo rigoroso[52].

 

In conformity with these suggestions, any “mentalistic view” was proscribed by Bloomfield as a “prescientific approach to human things” or even a “primeval drug of animism” with its “teleologic and animistic verbiage”: will, wish, desire, volition, emotion, sensation, perception, mind, idea, totality, consciousness, subconsciousness, belief, and the other “elusive spiritistic-teleologic words of our tribal speech”. In the mentioned Linguistic Aspects of Science one chances to come across a paradoxically phrased confession: “It is the belief [!] of the present writer that the scientific description of the universe *** requires none of the mentalistic terms.”[53]Bloomfield’s presidential address to the Linguistic Society of America in 1935 prophesied that “within the next genera­tions” the terminology of mentalism and animism “will be discarded, much as we have discarded Ptolemaic astronomy”.[54]

It is this drastic dissimilarity between the two leading spirits of the Linguistic Society in the very essence of their scientific creeds which found its plain expression in Sapir’s oral remarks on “Bloomfield’s sophomoric psychology” and in Bloomfield’s sobriquet for Sapir, “medicine man”.[55] A diametrical opposition between both of them with regard to such matters as “the synthesis of linguistics with other sciences” was deliberately pointed to in Bloomfield’s writings.[56]

This difference between two methods of approach deepened with the years and greatly affected the course and fortunes of semantic research in American linguistics.

 

In conformità a questi suggerimenti, ogni «visione mentalistica» venne bandita da Bloomfield in quanto «approccio prescientifico alle cose umane» o persino «droga primordiale dell’animismo» con la sua «prolissità teologica e animistica»: volere, speranza, desiderio, volontà, emozione, sensazione, percezione, mente, idea, totalità, coscienza, inconscio, convinzione e altre «vaghe parole spiritistico-teologiche del nostro discorso tribale». Nel già menzionato «Linguistic Aspects of Science» si rischia di incappare in una confessione espressa in modo paradossale: «Chi scrive è convinto [!] che la descrizione scientifica dell’universo […] non richieda alcun termine mentalistico»[57]. Il discorso di insediamento presidenziale di Bloomfield alla Linguistic Society of America nel 1935 profetizzava che «entro la prossima generazione» la terminologia di mentalismo e animismo «[sarebbe stata] scartata, proprio come abbiamo scartato l’astronomia Tolemaica»[58].

È questa divergenza drastica tra i due spiriti protagonisti della Linguistic Society nell’essenza stessa delle loro convinzioni scientifiche a trovare piena espressione nei commenti di Sapir sulla «psicologia da studentucolo di Bloomfield» e nell’epiteto di Bloomfield per Sapir: «Sciamano»[59]. Come ha intenzionalmente indicato nei suoi scritti[60], la posizione di Bloomfield su argomenti come «la combinazione della linguistica con altre scienze» è diametralmente opposta a quella di Sapir.

Questa differenza tra due metodi di approccio si è acuita con il passare degli anni e ha avuto forti ripercussioni sul corso e sulla fortuna della ricerca semantica nella linguistica americana.


On the one hand, the inquiry into the “commu­nicative symbolism” of language in all its degrees and on all its levels from the sound pattern through the grammatical and lexical concepts, to the “integrated meaning of continuous discourse”, was becoming of still higher import in the work of Sapir, and with an avowed reference to his enlightening teaching, it was said in 1937 by Benjamin L. Whorf that “the very essence of linguistics is the quest for meaning”.[61] On the other hand, Bloomfield, though realizing perfectly that the treatment of speech-forms and even of their phonemic components “involves the consideration of meanings”, admitted at the same time in his paper “Meaning” of 1943 that “the management of meanings is bound to give trouble” as long as one refuses to adopt “the popular (mentalistic) view” and to say “that speech forms reflect unobservable, non-physical events in the minds of speakers and hearers”.[62]

The difficulty in considering meaning while negating any “mental events” provoked repeated efforts by some younger language students to analyze linguistic structure without any reference to semantics, in contradistinction to Bloomfield’s invocation of meaning as an inevitable criterion. Bloomfield himself was ready to deny not only the validity of such claims, but even the possibility of their existence.[63] Nonetheless, experiments in antisemantic linguistics became widespread toward the late forties. I was invited in the summer of 1945 to give a series of lectures at the University of Chicago. When I informed the University of my title for the planned cycle – “Meaning as the Pivotal Problem of Linguistics” – there came a benevolent warning from the faculty that the topic was risky.


Da un lato, l’indagine nel «simbolismo comunicativo» del linguaggio ad ogni grado e a tutti i suoi livelli partendo dal modello vocalico, passando per i concetti grammaticali e lessicali, fino al «significato integrato del discorso continuo», stava assumendo un rilievo ancora maggiore nel lavoro di Sapir, e con una voluta allusione al suo istruttivo insegnamento, nel 1937 Benjamin L. Whorf disse che «l’essenza stessa della linguistica è la ricerca di significato»[64]. Dall’altro lato, Bloomfield, sebbene capisse perfettamente che occuparsi di forme del discorso e persino delle loro componenti fonemiche «[avrebbe comportato] la considerazione dei significati», ammetteva al contempo nel suo articolo «Meaning» [Significato] del 1943 che «la gestione dei significati è destinata a creare problemi» fintanto che uno si rifiuta di adottare «la visione popolare (mentalistica)» e di dire «che le forme del discorso riflettono eventi inosservabili, non fisici, che hanno luogo solo nelle menti dei parlanti e degli ascoltatori»[65].

La difficoltà nel considerare il significato ignorando ogni «evento mentale» spinse alcuni studiosi della lingua più giovani a compiere ripetuti sforzi di analizzare la struttura linguistica senza alcun riferimento alla semantica, in opposizione all’insistenza di Bloomfield sul significato quale criterio inevitabile. Lo stesso Bloomfield era pronto a negare non solo la validità di tali affermazioni, ma persino la possibilità che esistessero davvero[66]. Ciononostante, verso la fine degli anni Quaranta gli esperimenti di linguistica antisemantica si diffusero ampiamente. Nell’estate del 1945 fui invitato a tenere una serie di lezioni alla University of Chicago. Quando informai l’università circa il titolo del ciclo di lezioni che avevo programmato – «Meaning as the pivotal problem of linguistics» [Il significato ovvero il problema cruciale della linguistica] – dalla facoltà mi giunse il benevolo avvertimento che l’argomento era rischioso.


It would be fallacious, however, to view the avoidance of semantic interpretation as a general and specific feature of the American linguistic methodology even for a brief stretch of time. This tentative ostracism was an interesting and fruitful trial accompanied by simultaneous and instructive criticism, and it has been superseded by an equally passionate and acclaimed striving for the promotion of semantic analysis first in vocabulary, then also in grammar.

Yet, finally, what bears a stamp of American origin is the semiotic science built by Charles Sanders Peirce from the 1860’s throughout the late nineteenth and early twentieth centuries, a theory of signs to which, as was justly acknowledged (under Charles Morris’ influence) by Bloomfield, “linguistics is the chief contributor”, and which in turn has prepared the foundations for a true linguistic semantics. But in spite of this, Peirce’s semiotic remained for many decades fatally unknown to the linguists of both the New and the Old World.

Now to sum up. In America the science of language produced several remarkable, prominent, internationally influential thinkers – to men­tion only some of those who are no longer with us, Whitney, Peirce, Boas, Sapir, Bloomfield, Whorf. What we observe at present, and what proves to be timely indeed, is an ever higher internationalization of linguistic science, without a ludicrous fear of foreign models and of “intellectual free trade”.

One can still reproach American students and scholars, as well as those in diverse European countries, for a frequent inclination to confine the range of their scientific reading to books and papers issued in their native language and homeland and particularly to refer chiefly to local publications. In some cases this propensity results merely from an insufficient acquaintance with foreign languages, which is a debility widely spread among linguists. It is for this reason that important studies written in Russian and other Slavic languages have remained unknown, although some of them provide new and suggestive approaches.

 

Sarebbe fuorviante, tuttavia, considerare l’assenza dell’interpretazione semantica un tratto generale e specifico della metodologia linguistica americana anche solo per un breve lasso di tempo. Questo timido ostracismo è stato un tentativo interessante e fruttuoso accompagnato da una critica simultanea ed educativa, ed è stato soppiantato da una lotta egualmente accesa e acclamata per la promozione dell’analisi semantica dapprima nel vocabolario, poi anche nella grammatica.

Infine, però, ciò che porta il marchio d’origine americano è la scienza semiotica edificata da Charles Sanders Peirce dagli anni Sessanta dell’Ottocento fino alla fine del Diciannovesimo e gli inizi del Ventesimo secolo, una teoria dei segni a cui, com’è stato giustamente riconosciuto da Bloomfield (sotto l’influenza di Charles Morris), «la linguistica ha dato il contributo principale» e che a sua volta ha gettato le basi per una vera e propria semantica linguistica. Malgrado ciò, la semiotic di Pierce è rimasta per decenni disgraziatamente sconosciuta ai linguisti del Nuovo e del Vecchio mondo.

In definitiva: in America la scienza del linguaggio ha prodotto eminenti pensatori, degni di grande nota, influenti a livello internazionale – per menzionare solo alcuni di loro che non sono più tra noi: Whitney, Pierce, Boas, Sapir, Bloomfield e Whorf. Ciò che osserviamo oggi, e che si dimostra difatti tempestivo, è un’internazionalizzazione ancora maggiore della scienza linguistica, senza un’insensata paura dei modelli stranieri e del «libero scambio intellettuale».

Si possono biasimare gli studenti e studiosi americani, come anche quelli di svariati Paesi europei, per la frequente inclinazione a limitare la gamma delle loro letture scientifiche a libri e articoli pubblicati nella loro lingua madre e patria e in particolar modo perché fanno affidamento quasi unicamente sulle pubblicazioni locali. In alcuni casi questa propensione deriva solo da una scarsa conoscenza delle lingue straniere, che è una mancanza ampiamente diffusa tra i linguisti. È per questo motivo che importanti studi scritti in russo e altre lingue slave sono rimasti sconosciuti, sebbene alcuni di loro offrano spunti nuovi e suggestivi.


One should finally mention the most negative phenomenon of American linguistic life. Bloomfield, who in 1912 had expressed “a modest hope *** that the science of language may in time come to hold in America also its proper place among sciences”,[67]returned to this question in his notable survey, “Twenty-one Years of the Linguistic Society”, shortly before the end of his scholarly activity. He was certainly right in concluding that “the external status of our science leaves much to be desired though there has been some improvement”.[68] Now, however, this improvement is rapidly vanishing. Once again we observe that the blame does not lie with linguists, but with those bureaucrats who, under the pretext of scarcity and restraint, are prone to abolish or reduce departments and chairs of general linguistics, of comparative Indo-European studies, of Romance, Scandinavian, Slavic and other languages. In Sapir’s pointed parlance, efforts are being made to establish and perpetuate the “very pallid status of linguistics in America”, because this science seems to be hardly “convertible into cash value”.[69]Such antiscientific measures are most deplorable. In spite of the present crisis, America still remains more prosperous than most of the European countries, but even under their economic recession, none of them has dismantled its graduate schools and their linguistic programs.


Infine si potrebbe menzionare il fenomeno più negativo della vita linguistica americana. Bloomfield, che nel 1912 aveva espresso «una speranza modesta […] che con il tempo la scienza del linguaggio [potesse] arrivare ad avere anche in America il posto che le [spettava] tra le scienze»[70], ritornò sull’argomento nel suo prestigioso studio, «Twenty-one Years of the Linguistic Society» [Ventun anni della Linguistic Society], poco prima della fine della sua attività accademica. Aveva di sicuro ragione nel concludere che «lo status esterno della nostra scienza lascia molto a desiderare nonostante siano stati fatti alcuni progressi»[71]. Adesso, tuttavia, questo progresso sta sfumando rapidamente. Ancora una volta vediamo che la colpa non è dei linguisti, ma di quei burocrati che, con il pretesto della penuria e delle costrizioni, sono inclini ad abolire o a ridurre le facoltà e le cattedre di linguistica generale, di studi comparativi di indoeuropeistica, romanistica, scandinavistica, slavistica e di altre lingue. Per dirla con lo stile diretto di Sapir, si stanno compiendo degli sforzi per affermare e perpetuare «lo status anemico della linguistica in America» perché questa scienza sembra difficilmente «convertibile in danaro»[72]. Simili misure antiscientifiche sono oltremodo riprovevoli. Nonostante la crisi attuale, l’America continua a essere più prospera della maggior parte dei Paesi europei, che pure sotto il peso della recessione economica non hanno distrutto i propri corsi di specializzazione e i propri programmi linguistici.


Nevertheless, permit me, in conclusion, once more to quote Leonard Bloomfield. The forecast made 45 years ago (December 30, 1929) in his address before a joint meeting of the Linguistic Society of America and the Modern Languages Associations reads:

I believe that in the near future – in the next few generations, let us say – linguistics will be one of the main sectors of scientific advance.[73]

Do not all of us here share this belief?

First presented as the opening paper at the Golden Anniversary Symposium of the Linguistic Society of America, New York, Dec. 27, 1974. Elaborated in Peacham, Vermont, summer of 1975, and published in The European Back­ground of American Linguistics, ed. H. M. Hoenigswald (Dordrecht, 1979).


Ciononostante, per concludere, lasciatemi citare ancora una volta Bloomfield. La previsione fatta 45 anni fa (30 dicembre, 1929) durante il suo discorso in occasione di una riunione congiunta della Linguistic Society of America e della Modern Language Associations dice testualmente:

Credo che nel prossimo futuro – nel giro di poche generazioni, tanto per intenderci – la linguistica sarà uno dei principali settori del progresso scientifico.[74]

Non condividiamo forse tutti questa convinzione?

Presentato la prima volta come discorso inaugurale al Golden Anniversary Symposium della Linguistic Society of America, New York, 27 dicembre 1974. Elaborato a Peacham, Vermont, estate del 1975, e pubblicato in The European Back­ground of American Linguistics [Le radici europee della linguistica americana], ed. H. M. Hoenigswald (Dordrecht, 1979).


 


Riferimenti bibliografici:

BLOCH, B. recensione a «Efficiency in Linguistic Change, di Otto Jespersen», in Language, Linguistic Society of America, 1941, vol. 17, no. 4, pp. 350-353.

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2. Analisi testuale


2.1 Struttura e argomento del saggio

L’articolo di Jakobson non segue la struttura classica delle opere di saggistica: non parte da una tesi che deve argomentare, sostenere o eventualmente confutare, in poche parole non indaga un tema fino a giungere a delle conclusioni. Vediamo che non è diviso in parti, ma è un unico blocco discorsivo dove tematiche, personalità e teorie si succedono con naturalezza, senza artificio, ma sempre seguendo un ordine rigoroso. In questo caso specifico, infatti, Jakobson non espone le sue teorie linguistiche o le sue riflessioni in modo diretto e normativo, perché non si tratta di un saggio dal valore scientifico. È un omaggio, un ripercorrere le tappe principali e i progressi dalla linguistica nel corso del Novecento annoverando le più grandi autorità legate a questa disciplina e ricordando le formulazioni del pensiero più originali, quelle che si sono poi confermate principi cardini della scienza linguistica.

Jakobson inizia il suo discorso con un riferimento a Mathesius e Trnka, che nel 1925 gli annunciarono la creazione della Linguistic Society of America (LSA). Ricorda la fine del Circolo linguistico di Mosca e la vicinanza della la LSA con il Circolo linguistico di Praga, testimoniata dalle lettere di Trubeckoj. Questa vicinanza transoceanica, tuttavia, non si limitava alle scuole di pensiero linguistico americane ed europee: anche il comitato degli scienziati sovietici antinazisti si era fatto vivo sottolineando «l’affinità dei linguisti russi con i propositi e lo zelo della LSA». Jakobson afferma che molti studiosi americani si rivelarono «autentici uomini di scienza» quando lui giunse in America a causa della guerra. Ricorda il suo caro amico Leonard Bloomfield e la sua avversione per qualunque limitazione al libero pensiero; parla di Franz Boas, che ritiene il primo vero fautore di basi solide per uno studio della lingua, nonché fermamente convinto del carattere internazionale della linguistica e contrario a «una ostinata pretesa di confinamento territoriale delle teorie e delle ricerche scientifiche».

Rammenta come nella seconda metà del secolo scorso la Germania avesse concepito le idee più nuove e feconde per la linguistica generale, anche grazie a personalità quali Karl Brugmann e August Leskien della Scuola neogrammaticale di Lipsia, che nutrivano una profonda stima per il lavoro di William Dwight Whitney. La stessa ammirazione per questo americano e per le sue scoperte nel campo della grammatica comparativa veniva apertamente manifestata da Ferdinand de Sussure. In un primo momento anche il suo Cours de linguistique générale trovò maggiori riconoscimenti all’estero che in patria, precisamente in America. Ed è Bloomfield che più di ogni altro avverte la vastità delle intuizioni di Saussure. Come dice Jakobson, questa sua predilezione per la teoria saussuriana, così come l’importanza di Whitney nel Vecchio mondo «esemplificano la continua reciprocità tra i linguisti dei due emisferi». Afferma inoltre che ci sono opere della tradizione europea che hanno sempre destato particolare interesse nella scienza del linguaggio americana, come i libri di Humboldt e Jespersen nel caso di Noam Chomsky.

Jakobson conclude dicendo che tanto in America quanto in Europa c’è sempre stata una varietà di approcci formidabile alla ricerca linguistica, che ha spesso scatenato vivaci dibattiti e profondi dissensi, soprattutto per quanto riguarda le due correnti linguistiche principali sviluppatesi negli Stati Uniti: il mentalismo e il fisicalismo, rispettivamente sostenute da Bloomfield e Sapir. Ma se c’è una cosa che più di ogni altra porta il marchio americano, questa è la scienza semiotica di Charles Sanders Pierce. Infine, Jakobson elogia l’odierna internazionalizzazione della linguistica e il fruttuoso libero scambio intellettuale, esortando a continuare su questa strada proficua e deprecando quei burocrati che, con il pretesto della ristrettezza economica, vogliono ostacolare gli studi di linguistica e la sua affermazione come vera e propria scienza.

2.2 Roman Jakoboson, un eclettico plurilingue

Fondatore del Circolo linguistico di Mosca, cofondatore del Circolo linguistico di Praga e membro del Circolo linguistico di Copenhagen, Roman Jakobson ha insegnato in molte università del Vecchio e del Nuovo Continente, dove è sbarcato per sfuggire alle persecuzioni naziste della Seconda guerra mondiale. Ha intrattenuto rapporti di lavoro e stretto profonde amicizie con le più stimate personalità del mondo accademico linguistico di quegli anni, in particolar modo con Benjamin Whorf, Leonard Bloomfield e Franz Boas, che in un’occasione gli salvò persino la vita. Nato a Mosca ma naturalizzato statunitense, l’indole di Jakobson riflette le sue esperienze di vita: ha girato il mondo e si è avvicinato con curiosità ed entusiasmo a tutte le scuole di pensiero linguistico – e non solo – del suo tempo. Nel primo paragrafo del saggio, lui stesso si presenta come un «testimone dello sviluppo internazionale del pensiero linguistico nel corso di sei lunghi decenni» in cui ha praticamente esplorato il mondo e ampliato i suoi orizzonti senza pregiudizi, così da poter avere una prospettiva completa e globale della sua materia, ma senza limitare mai a quest’ultima il suo campo d’azione e di apprendimento. Fermamente convinto che la specializzazione in una disciplina porti a perdere di vista il tutto e, di conseguenza, non abbia ragione d’esistere, sono proprio la sua interdisciplinarietà e la sua capacità di avere una visione d’insieme i suoi più grandi punti di forza.

2.3 L’ignoranza linguistica dei… linguisti

Per una personalità così poliedrica, non esiste nulla di più demotivante di una concezione del mondo limitata al proprio orticello. In un paragrafo del saggio si appella direttamente agli studiosi, vecchi e giovani, americani ed europei, biasimandoli per la loro inclinazione a limitare le proprie letture – e quindi le proprie prospettive linguistiche – alle opere pubblicate nel loro Paese e soprattutto nella loro lingua. Disapprova questa limitata conoscenza linguistica che conduce, per forza di cose, a un panorama egualmente limitato. Afferma che il risultato di questa ignoranza è che molte opere di grande valore, soprattutto quelle scritte in lingue slave, sono rimaste per lo più sconosciute. In molti Paesi dell’Est Europa la ricerca linguistica aveva infatti raggiunto un livello decisamente avanzato e tante opere estranee al mondo occidentale contenevano formulazioni originalissime, che spesso precorrevano concezioni che in America o nel centro Europa avrebbero trovato espressione solo molto tempo dopo.

 

2.4 Oriente e Occidente: più lontani (o più vicini) che mai?

A una prima lettura è difficile cogliere tutti quei rimandi intratestuali che legano tra loro le varie parti del testo in una fitta rete di nessi e simboli. Con occhio attento, però, già a una seconda lettura il filo rosso che li unisce diventa visibile e aiuta a schiudere un significato più profondo, prima solo ipotizzabile. Rileggendo il testo una terza volta, poi, questa costellazione di simboli assume un valore ben preciso, che è anche il valore non più denotativo ma esemplificativo del saggio. In questo caso, parole come connetcions, links, ties si ripetono continuamente nel corso dell’articolo e su di loro viene posta un’enfasi particolare. Inoltre, Jakobson parla molto spesso al plurale, così da coinvolgere il suo pubblico in prima persona e allo stesso tempo farsi partecipe di quanto afferma:

What we observe at present, and what proves to be timely indeed, is an ever higher internationalization of linguistic science, without a ludicrous fear of foreign models and of “intellectual free trade”. (Pag.40)

Questo particolare metodo di analisi del testo venne formulato dal critico di stilistica letteraria Leo Spitzer [Ballerio, 2001]. Secondo lui, bisogna leggere il testo in modo sistematico fino a che qualche peculiarità linguistica non ci colpisce ed esaminando i piccoli casi specifici vedremo come questi rimandino più in generale al testo. È l’idea del circolo ermeneutico, ma per cogliere il significato profondo dell’opera giocano la loro parte anche il sentimento e l’intuizione personale, secondo quella mentalità romantica per cui la lingua è il frutto di un sentimento e dà sentimento; per necessità di cose, quindi, va studiata con sentimento. Di fronte al testo letterario, insomma, non si può avere un approccio solo scientifico ma anche umano. Sebbene le sue teorie siano state molto criticate per questa “invasiva” e poco giustificabile componente emotiva, resta uno spunto interessante su cui riflettere e, da lettori, ne facciamo tutti esperienza diretta.

Anche il critico letterario tedesco Ernst Robert Curtius [Curtius, 2009] ha descritto un processo di lettura che parte da un’intuizione e, come Spitzer, ha iniziato a collegare i fenomeni che si ripetono postulando che ci sia un’interpretazione comune per queste particolarità linguistiche. Il singolo è visibile grazie al tutto, al quadro generale dell’opera, e viceversa (ancora una volta il circolo ermeneutico); però lui va oltre dicendo che a partire dallo stile, dalla forma, si può arrivare a comprendere persino l’atteggiamento intellettuale dell’autore.

Detto questo, un’analisi stilistica dell’articolo di Jakobson mi ha permesso di capire che la questione fondamentale, quella che lo ha motivato a scrivere questo saggio, è senz’altro il rapporto “odio-amore” tra la scuola linguistica americana e quella del Centro e dell’Est Europa. Dopotutto, chi meglio di Jakobson poteva parlare di un simile argomento e chi più di lui poteva capirne la reale importanza? Tutto il saggio è teso a osservare i rapporti tra i due emisferi nel corso del secolo scorso e a sottolineare come l’interscambio di idee non fosse rilegato a eventi rari e isolati, ma fosse una costante storica che andava incoraggiata sempre più. Cita molti esempi di influenze e ammirazioni reciproche e dice che la supposta ostilità tra i due emisferi non è mai realmente esistita, ma veniva istigata solo da pochi burocrati ottusi e di vedute limitate.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Analisi traduttologica


3.1 Trovare la giusta strategia

Dopo aver letto per la prima volta questo saggio di Jakobson, mi sono posta due domande fondamentali che ogni traduttore ha il dovere di porsi prima di iniziare a tradurre un testo: «Per chi è stato scritto?» e «Perché è stato scritto?». Prima di affrontare qualsiasi traduzione, infatti, è necessario sottoporre il testo a un’attenta analisi linguistica e culturale, un’analisi che permetta di individuarne le ragioni profonde, quelle che hanno spinto l’autore a mettere per iscritto i suoi pensieri, per comprenderle appieno e formulare una strategia traduttiva che garantisca, in fase di traduzione, la maggior coerenza possibile.

Innanzitutto, mi sono chiesta a quale genere testuale appartenesse il saggio, e mi sono risposta che Jakobson lo ha concepito per un pubblico composto quasi unicamente da linguisti come lui o, per lo più, da persone operanti in quel settore (studenti, semiotici, accademici ecc.). Da questo dato possiamo dedurre che la maggior parte delle informazioni veicolate dal testo non compaiono per iscritte, ma sono sottintese tra persone che condividono uno stesso gergo specialistico e rientrano quindi in quell’universo denominato «implicito culturale» [Agar: 2006]. Può rivelarsi questo un problema al momento di tradurre? Decisamente sì. L’ostacolo consiste nel riuscire a colmare i “buchi” della propria conoscenza enciclopedica per poter seguire il filo del suo ragionamento, per comprendere davvero, fino infondo, e di conseguenza tradurre in maniera sensata e filologica. Bisogna però fare attenzione: un conto è inserire questi tasselli mancanti in fase di comprensione e di rielaborazione del testo, ovvero nella propria mente, ma quando si inizia a tradurre non si deve correre il rischio di banalizzare certi concetti andando a spiegare quanto nel testo non viene spiegato, ossia creando una ridondanza dove non c’era. Toccherà al lettore compiere lo stesso sforzo compiuto dal traduttore, nel caso in cui sia digiuno di nozioni linguistiche, mentre per un linguista o un semiotico italiano risulterà perfettamente normale leggere e comprendere il testo così come è stato formulato originariamente. Le agevolazioni del traduttore devono essere, in linea di massima, di tipo linguistico, o lì dove l’ostacolo culturale sia tanto insormontabile da compromettere la comprensione; ma ritorno su questo punto quando analizzo il residuo traduttivo.

Mi pongo a questo punto un’altra domanda relativa alla comprensione del saggio, ovvero: «Il lettore italiano che riceverà questo testo, assomiglierà al lettore modello che aveva in mente Jakobson quando lo ha scritto?» È molto probabile, in quanto tratta un argomento che possiamo definire «settoriale». Chi non è un linguista o non ha un’inclinazione personale per la materia difficilmente sceglierà di leggere questo articolo, per cui senza dubbio il lettore modello di Jakobson e il mio sono molto simili. Non posso ignorare, però, che se gli studi linguistici sono una disciplina fiorente negli Stati Uniti, come anche in molti paesi dell’Europa occidentale e orientale, in Italia i veri studiosi della materia sono pochi. Ne consegue che se il gergo settoriale in lingua inglese impiegato da Jakobson per rivolgersi ai suoi colleghi è ampiamente diffuso e condiviso, non si può dire altrettanto del gergo settoriale della linguistica italiana. È questo un problema all’ora di tradurre? Decisamente sì. Il saggio, infatti, presenta svariate espressioni gergali, anche se forse più che di termini si tratta qui di concetti, e trovare dei corrispondenti italiani calzanti è stato uno degli aspetti più complessi del mio lavoro.

Per tornare alle due domande “esistenziali” del tradurre, quanto detto rispondeva forse alla domanda: «Per chi?», ma non alla domanda: «Perché?». Innanzitutto, nessun testo ha senso se considerato isolatamente, ma va sempre analizzato in base al contesto in cui è nato. Allora mi sono immaginata Roman Jakobson, uno dei più straordinari esperti di linguistica del Novecento, stare di fronte a una platea di suoi colleghi tentando di convincerli che la loro materia di studio ha bisogno di essere affrontata come una vera e propria scienza: attraverso la collaborazione, il sostegno reciproco, il dialogo e un fruttuoso e sincero scambio di opinioni. Era un obiettivo ambizioso parlare di solidarietà, quando i fatti hanno dimostrato che il più delle volte le ambizioni personali e le gelosie sono state un ostacolo allo sviluppo di questa disciplina, che pure aveva e ancora ha tutte le carte in regola per elevarsi a rango di scienza. Il suo scopo era esortare e far riflettere, ma anche rendere omaggio a tutti coloro che nel corso degli anni hanno apportato un contributo inestimabile alla linguistica e lottato affinché due emisferi così lontani riuscissero a trovare un saldo punto di incontro. Questo ha spinto Jakobson ha scrivere il saggio, questa era la dominante del testo e dovevo tenerla bene a mente mentre traducevo. Individuare con chiarezza la dominante di un testo permette di compiere un’operazione di fondamentale importanza: scegliere – e non subire – il residuo.

3.2 A proposito di residuo

Arriviamo quindi al tanto temuto residuo. Voglio chiarire subito la mia posizione riguardo a questa componente, necessaria e inevitabile, della traduzione. Ho assimilato il concetto di «traduzione totale» elaborato da Peeter Torop [Torop, 1995] secondo il quale non può esistere una traduzione completa, così come non esistono equivalenti linguistici tra due lingue diverse. Può invece esistere una traduzione in cui il traduttore, dopo aver elaborato e messo in atto una strategia traduttiva adeguata, accetta il fatto che una parte del messaggio, per quanto piccola o irrilevante, è e resterà intraducibile. Questa presa di coscienza è il primo passo verso una buona traduzione, senza l’insensata pretesa di poter riscrivere un testo in un’altra lingua che sia un equivalente dell’originale. In traduzione le equivalenze non esistono, esistono solo versioni che si avvicinano in misura minore o maggiore all’originale. Ci sono tuttavia svariati modi per cercare di compensare il residuo che si viene a formare, vuoi con l’uso di note, vuoi con la più discutibile strategia dell’adeguamento.

In questo caso specifico, quando si è reso necessario, ho scelto di intervenire direttamente sul testo in due modi diversi. Nel primo caso ho fatto ricorso alle note a piè di pagina per sciogliere un’ambiguità nel testo originale: veniva più volte citato il titolo di un elaborato di Sapir, Language, e il titolo di un’omonima rivista linguistica. Con molta probabilità, un linguista americano avrebbe capito dal contesto che si trattava di due cose diverse e a quale delle due faceva riferimento Jakobson di volta in volta, ma forse un linguista italiano non ci sarebbe arrivato con la stessa immediatezza. Da qui il mio intervento nel testo per ovviare a un potenziale malinteso:

Qui Language non si riferisce più alla rivista nominata poche righe sopra, ma al libro di Sapir del 1921 il cui titolo completo è Language: an introduction to the study of speech. La rivista Language, viceversa, è l’organo della Linguistic Society of America dal 1925 in poi [N.d.T.]. (Pag.13)

A un certo punto, invece, parla delle differenze tra la linguistica sincronica e diacronica, ma lo fa usando una terminologia diversa. Per non provocare lo smarrimento del lettore, che avrebbe potuto non capire a cosa stesse facendo riferimento Jakobson, ho usato una nota a piè di pagina per spiegare quanto stava avvenendo nel testo:

Qui Jakobson sceglie di parlare di «storia linguistica» pur intendendo la «linguistica diacronica»; di conseguenza, ho rispettato la sua decisione autoriale [N.d.T.]. (Pag.25)

In un altro caso, Jakobson citava i titoli di alcuni articoli scritti da eminenti linguisti, americani e stranieri, la cui comprensione era fondamentale per riuscire a intendere le ragioni del suo intervento e il messaggio che voleva comunicare. Dare questa comprensione per scontata sarebbe stato indice di scarsa cura e poca attenzione verso un lettore italiano che non necessariamente ha una conoscenza delle lingue sufficiente da permettergli di capire in autonomia ciò che Jakobson vuole comunicargli quando cita un dato libro o articolo se i titoli di questi ultimi sono per lui incomprensibili. In simili circostanze ho ritenuto utile aggiungere una mia traduzione del titolo tra parentesi quadre, così che fosse ben chiaro che si trattava di un’agevolazione fornita dal traduttore, ad esempio:

Riguardo al fondatore ed esperto curatore del Handbook of American Indian Languages [Manuale delle lingue amerindie], rammento la sua amabile, gradevole residenza a Grantwood […] (Pag.17)

Lo stesso ho fatto per i titoli che erano in lingue diverse dall’inglese, per l’esattezza in francese e in tedesco, ad esempio:

[…] secondo l’opinione di Sapir, «i nuovi orizzonti del pensiero linguistico si sono aperti con il lavoro di Karl Wilhelm von Humboldt» e il trattato di quest’ultimo, Uber die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues [Riguardo alla diversità delle costruzioni linguistiche umane], costrinse Bloomfield ad ammirare «questa grande intuizione dello studioso» […] (Pag.29)

L’unico inconveniente di questa strategia è che il testo tradotto, il metatesto, risulta un po’ più lungo rispetto all’originale; ma ritengo insensato sacrificare la chiarezza di un testo a scapito di qualche riga in più di traduzione.

3.3 Discorso orale vs. testo scritto vs. testo tradotto

Come specificato alla fine del saggio, Jakobson tenne questo discorso nel 1974 al Golden Anniversary Symposium della Linguistic Society of America di New York, ma mise per iscritto quanto detto di fronte alla platea solo nell’estate del 1975. In quanto nato come discorso orale, trascritto in un secondo momento, possiamo dedurre che il testo del discorso originale pronunziato da Jakobson doveva essere un tantino diverso da quello che leggiamo. Non dimentichiamo inoltre che Jakobson era di origini russe, e benché abbia vissuto per la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti l’inglese non era la sua lingua madre. Eppure questo testo è scritto in un inglese impeccabile, anzi, si può dire che Jakobson padroneggi un inglese migliore di molti madrelingua.

Inutile pretendere che il passaggio dalla lingua orale a quella scritta non comporti delle conseguenze; incide infatti su una serie di fattori non trascurabili, primo fra tutti, la spontaneità. Già dalle sue primissime parole: «Dear friends! I was asked to speak…» vediamo che Jakobson vuole dare l’illusione che si tratti della trascrizione fedele del suo discorso originale e a questo proposito inserisce quella componente istintiva propria del linguaggio parlato. D’altra parte non c’è un solo errore di sintassi, una sola imprecisione o sbavatura linguistica. Insomma, sebbene questa pretesa di spontaneità conferisca al testo una certa freschezza, non è del tutto credibile.

Uno dei più grandi paradossi della traduzione e proprio voler far credere che il testo che si legge è stato concepito in quella lingua, e quando ho iniziato a tradurre questo saggio ho compiuto un’operazione molto simile a quella che ha compiuto Jakobson quando ha deciso di mettere le sue parole per iscritto. Per usare il gergo coniato dallo stesso Jakobson: nel mio caso si è trattato di una traduzione interlinguistica, «un’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua»; nel suo di una traduzione intersemiotica (o «trasmutazione»), ossia «un’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali» [Jakobson, 1959]. Nato come discorso orale, elaborato una prima volta come testo scritto e passato poi in altre mani per essere tradotto, è davvero possibile definirlo spontaneo? Io lo definirei piuttosto «due volte meno spontaneo», ma per questo motivo anche due volte meno bello? Temo che sia una domanda a cui non è possibile dare risposta, visto che ci rimanda indietro nel tempo all’opposizione secolare tra Hegel, che diceva che non v’è bello che non sia stato voluto tale e prodotto dallo spirito, e Kant, che ribatteva che l’oggetto estetico per eccellenza è un oggetto naturale o che pare naturale, quando l’arte nasconde l’arte [Genette, 1976].

Per ritornare alla questione della spontaneità, Aleksandăr Lûdskanov ha sviluppato una sua teoria riguardo alla differenza tra la traduzione di testi poetici, la cosiddetta «traduzione letteraria», e quella di testi scientifici, chiamata «traduzione professionale». Secondo il semiotico bulgaro, scopo ultimo della traduzione, in tutte le sue forme, è veicolare un messaggio. Secondo i “letteralisti” la traduzione letteraria si differenzia da quella professionale per gli elementi extratestuali che contiene, ma Lûdskanov ricorda che la componente emozionale, connotativa presente nel testo poetico non presuppone un’identica componente emozionale anche nell’atteggiamento del traduttore. Un testo tradotto è per forza di cose il frutto di un processo mentale razionale e di conseguenza non ha in sé nulla di spontaneo. Il fatto che l’oggetto della traduzione sia un testo artistico, quindi, non presuppone che debba esserlo anche il metodo e per questo stesso motivo non c’è ragione di distinguere la traduzione di un testo di narrativa dalla traduzione di un testo scientifico e da tutti gli altri tipi di traduzione. Il grado di precisione necessario in traduzione non varia a seconda del genere testuale tradotto, ma in base all’esattezza degli strumenti possibili. La conclusione che trae Lûdskanov è questa:

Il meccanismo del processo traduttivo verbale interlinguistico ha sempre, indipendentemente dal genere testuale che si traduce, un carattere creativo condizionato dalla natura linguistica di questa operazione e dallo specifico dei linguaggi naturali che presuppone scelte non predeterminate riguardo ai mezzi linguistici dovute a tutte le differenze strutturali dei linguaggi naturali. [Lûdskanov, 1967]

Concetto, questo, che stava molto a cuore anche a Jakobson, da sempre convinto che la linguistica fosse la più esatta tra le scienze umane e per questo motivo, secondo lui, un approccio scientifico ai linguaggi naturali non avrebbe posto alcun problema sia di carattere teorico, sia pratico [Jakobson, 1967].

3.4 Perché scegliere la parola più facile, se ce n’è una più bella?

Nei due anni di master, i miei professori di traduzione hanno ribadito questo concetto innumerevoli volte e spesso ne ho avuto la dimostrazione pratica, ma mai come quando ho tradotto questo saggio di Jakobson ne ho avuto la riprova schiacciante: tradurre un testo scritto bene, per quanto complesso, è mille volte più facile che tradurre un testo scritto male in partenza. L’ho detto e mi ripeto, la scrittura di Jakobson è impeccabile da un punto di vista grammaticale e sintattico. In più il testo è ordinato, nonostante spazi tra una moltitudine di argomenti e annoveri esempi pratici ma anche aneddoti curiosi. Non scordiamo che il titolo del saggio è: «Il Novecento nella linguistica europea e americana: movimenti e continuità», quindi Jakobson ripercorre un lungo pezzo di storia, ricco di avvenimenti per la linguistica americana ed europea, con la chiarezza e la lucidità che contraddistingue un vero maestro.

Non mi ha sorpreso la sua evidente capacità di mantenere un registro alto e costante per tutto il saggio, con qualche tocco di retorica sapientemente inserito, ma mai prolisso e ampolloso. Della sua scrittura mi hanno piacevolmente colpito le scelte linguistiche: sempre accessibili, mai scontate. In alcuni casi, quando poteva scegliere una parola ordinaria, standard per esprimere un concetto, Jakobson sceglieva di usare una parola meno abusata, che preservasse ancora intatto il suo significato denotativo ed esemplificativo; lo dimostra l’uso della parola di origine francese sobriquet per dire soprannome, o delle parole di origine latina impetus e per se per indicare rispettivamente un forte slancio e la locuzione «in sé». Per conservare questo aspetto, che dà valore aggiunto a un testo già ben scritto, il traduttore deve compiere scelte linguistiche altrettanto poco banali senza rischiare di farsi prendere la mano e cadere nell’errore opposto – che Jakobson è stato tanto bravo a scongiurare – cioè quello di nobilitare il testo lì dove scelte linguistiche attente e mirate sono sufficienti a riprodurre l’effetto desiderato. Un piccolo esempio pratico:

In the light of all these and many other interconnections, the question of purported hostility between American and European linguists comes to naught. (Pag.14) Alla luce di queste e molte altre interconnessioni, la questione della pretesa ostilità tra linguisti americani ed europei non ha più ragion d’essere. (Pag.15)

Mentre l’aggettivo purported non è di sicuro il più banale per esprimere il concetto di «ipotizzato» o «presunto», se cerchiamo naught nel dizionario troviamo esplicitamente detto che si tratta di un modo arcaico per dire «niente», mentre la locuzione «to come to nought» significa «fallire».

3.5 In English, auf Deutsch, ou préférez-vous en français?

Vale senz’altro la pena fare un discorso a parte per quanto riguarda l’inclinazione di Jakobson per le lingue straniere. Abbiamo ormai appurato che la sua cultura dominava molte sfere del sapere rendendolo un esperto conoscitore del mondo e, in quanto tale, la sua padronanza della lingue era ammirevole. Come si è già potuto notare, nel testo abbondano le contaminazioni (positive e volute) da lingue quali il francese, il tedesco, il latino e il greco. Per quanto riguarda i titoli di libri o saggi citati da Jakobson, spiego sopra qual è stato il mio approccio traduttivo; nel caso di queste “coloriture del testo”, invece, ho scelto di lasciarle così come le aveva inserite Jakobson, cioè cariche di tutta la loro esoticità e, non meno importante, rappresentati del suo stile personale. Già nella prima riga del saggio troviamo la parola symposium, di origine greca, e poco sotto un riferimento in francese alla Scuola di Praga: «École de Prague», poi il latino con odium theologicum, per se e via dicendo. In un solo caso ho inserito una traduzione di servizio dal tedesco, quando a un certo punto Jakobson ricorda l’amico e collega Franz Boas e accenna a un aneddoto che lo riguarda:

the host […] used to say to his sister in my presence: “Jakobson ist ein seltsamer Mann! He thinks that I am an American linguist!” (Pag.16) il padrone di casa […] diceva alla sorella in mia presenza: «Jakobson ist ein seltsamer Mann! [Jakobson è un uomo bizzarro!] Mi crede un linguista americano!». (Pag.17)

Avrei potuto tranquillamente lasciare solo il tedesco come nell’originale, nell’eventualità che il lettore conoscesse la lingua o al più che andasse a cercare da sé il significato in un dizionario; ma essendo un aneddoto simpatico, credo di aver reso un miglior servizio tanto a Jakobson quanto al lettore inserendo la traduzione.

3.6 L’astruso gergo dei linguisti

Sistemi vocalici, caratteristiche fonologiche, gruppi consonantici, morfemi, filologia comparativa, sincronia, diacronia, mentalismo, meccanicismo, animismo, allineamenti di modelli intuitivi, comportamentismo radicale, comunità discorsuale, simbolismo comunicativo, semantica linguistica… sono solo alcuni esempi di quello che si definisce «gergo». In ogni ambito lavorativo o accademico, ma non solo, in qualsiasi sfera della vita umana, assistiamo a ciò che i sociolinguisti chiamano «conversione di codice» [Brioschi e Di Girolamo, 1984], ovvero il passaggio di un parlante da una lingua a un’altra, da una lingua standard a una varietà regionale o a un dialetto. Lo stesso discorso vale per il passaggio da un registro all’altro all’interno della stessa lingua in base alla situazione, cioè al contesto. Nel complesso, registri, stili, varietà e sottocodici formano i generi del discorso: delle categorie testuali che hanno caratteristiche formali tradizionalmente riconosciute.

Questo per dire che spesso e volentieri usiamo “lingue speciali” per rivolgerci a persone con cui abbiamo una conoscenza condivisa: sono le lingue del mestiere e le usiamo quasi senza rendercene conto, tanto entrano a far parte del nostro uso quotidiano. È esattamente ciò che ha fatto Jakobson nel suo articolo rivolgendosi a linguisti e studiosi di semiotica come lui, ma anche io stessa, in questo elaborato, mi avvalgo di una terminologia perfettamente comprensibile per i miei colleghi o professori, ma non per chi ignora le nozioni basilari della teoria traduttiva. Grazie ai corsi di teoria della traduzione, molti dei concetti esplicitati – o sottintesi – da Jakobson non mi sono risultati troppo astrusi, ma la componente di conoscenza specialistica presupposta da questo saggio resta notevole.

3.7 La traduzione dell’apparato metatestuale

Nel suo excursus sulla storia della linguistica del Novecento, Jakobson cita molti degli autori e molte delle opere che hanno maggiormente influenzato il pensiero linguistico del secolo scorso. Nell’originale, a ogni riferimento nel testo corrisponde una nota a piè di pagina con le indicazioni bibliografiche; nella maggior parte dei casi non si avvale delle note per spiegare o completare le informazioni che dà nel saggio, ma piuttosto per elencare tutte quelle opere da cui ha tratto ispirazione. Le note sono molto numerose – addirittura trentasei – anche se in diversi casi la stessa opera viene citata più di una volta. Nella traduzione, per avere un apparato di note preciso, ben strutturato e soprattutto in linea con le norme stilistiche italiane, ho scelto di menzionare nelle note a piè di pagina solo il cognome dell’autore, l’anno di pubblicazione dell’opera o dell’articolo ed eventualmente i numeri di pagina a cui Jakobson rimanda. I riferimenti bibliografici completi, invece, sono ordinatamente elencati in una sezione a parte alla fine del saggio, come suggerito dalla norma UNI ISO 7144 del 1997: «Documentazione – Presentazione delle tesi e documenti simili».


4. Riferimenti bibliografici

AGAR, M. «Culture: Can You Take It Anywhere?», International Journal of Qualitative Methods, 2006, vol. 5, no. 2.

BALLERIO, S. «Ripercorrere Leo Spitzer. Il metodo e l’identità», in Letteratura e Letterature, Pisa, Fabrizio Serra editore, 2011.

BRIOSCHI, F. e DI GIROLAMO, C. Elementi di teoria letteraria, Milano, Principato: 1984.

CURTIUS, E. R. Marcel Proust, Ledizioni, Milano, 2009.

GENETTE, G. Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino, 1976.

JAKOBSON, R. «The Dominant» (1935), in Jakobson, 1987, pp. 41-46.

JAKOBSON, R. «On Linguistic Aspects of Translation» (1959), in Jakobson, 1987, pp. 428-435.

JAKOBSON, R. «Linguistics in Relation to Other Sciences», in Linguis­tics, in Main trends in Social Research, Unesco, 1967 e 1971, pp. 655-696.

LESINA, R. Il nuovo manuale di stile: guida alla redazione di documenti, relazioni, articoli, manuali, tesi di laurea, Bologna, Zanichelli, 2009.

LȖDSKANOV, A. Bruno Osimo (a cura di), Un approccio semiotico alla traduzione. Dalla prospettiva informatica alla scienza traduttiva, Milano, Hoepli, 2008 (1967).

OSIMO, B. «Jakobson: Translation as imputed similarity», in Sign Systems Studies, Tartu University Press, 2006, 34.2.

OSIMO, B. La traduzione saggistica dall’inglese, Milano, Hoepli, 2007.

OSIMO, B. «Jakobson and Cinderella’s parable of translation», in corso di stampa.

OSIMO, B. «Jakobson and the mental phases of translation», Mutatis Mutandis, 2009, 2(1), pp. 73-84.

TOROP, P. Bruno Osimo (a cura di), La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, Milano, Hoepli, 2010 (1995).



[1]Language 50 (1974), 619-621.

[2] Haugen 1974: 619-62.

[3]R. Jakobson, ed., N. S. Trubetzkoy’s Letters and Notes (The Hague: Mouton, 1975).

[4] See C. F. Hockett, ed., A Leonard Bloomfield Anthology (Bloomington-London: Indiana University Press, 1970), 247, 351-362.

[5] Jakobson 1975.

[6] Hockett 1970: 247, 351-362.

[7]Jazyk: Vvedenie v izučenie reči (Moscow-Leningrad: Gos. Social’no-Èkonomičeskoe izdatel’stvo, 1934).

[8] Qui Language non si riferisce più alla rivista nominata poche righe sopra, ma al libro di Sapir del 1921 il cui titolo completo è Language: an introduction to the study of speech. La rivista Language, viceversa, è l’organo della Linguistic Society of America dal 1925 in poi [N.d.T.].

[9] Suhotin 1934.

[10] A Leonard Bloomfield Anthology, 408.

[11] Hockett 1970: 408.

[12]See R. Jakobson, “The World Response to Whitney’s Principles of Linguistic Science”, reprinted supra, 219-236.

[13] Jakobson 1971.

[14] W. D. Whitney, Language and the Study of Language. Twelve Lectures on the Principles Of Linguistics (N.Y.: Scribner, 1867).

[15]A Leonard Bloomfield Anthology, 106-109, 91-94, 141-143.

[16] Whitney 1867.

[17] Hockett 1970: 106-109, 91-94, 141-143.

[18]Ibid., 141-142, 107.

[19] Hockett 1970: 141-142, 107.

[20]Ibid., 173-190.

[21] Ibid., 179.

[22]Ibid., 177-178, 542.

[23]Ibid., 177.

[24]Ibid., 92-93, 143.

[25] Hockett 1970: 173-190.

[26] Hockett 1970: 179.

[27] Qui Jakobson sceglie di parlare di «storia linguistica» pur intendendo la «linguistica diacronica»; di conseguenza, ho rispettato la sua decisione autoriale [N.d.T.].

[28] Hockett 1970: 177-178, 542.

[29] Hockett 1970: 177.

[30] Hockett 1970: 92-93, 143.

[31] In Cahiers Ferdinand de Saussure 32 (1978, p. 69) Calvert Watkins published remarkable excerpts from Bloomfield’s letter of December 23, 1919 to the specialist in Algonquin languages at the Smithsonian, Truman Michelson: “My models are Pāṇini and the kind of work done in I.-E. by my teacher, Professor Wackernagel. No preconceptions; find out which sound variations are distinctive (as to meaning), and then analyze morphology and syntax by putting together everything that is alike.” Bloomfield asks whether Michelson has got hold of de Saussure’s Cours de linguistique générale: “I have not yet seen it, but Professor Wackernagel mentioned it in a letter and I have ordered it and am anxious to see it.” The European and especially Swiss roots of Bloomfield’s innovative search – Jakob Wackernagel and Ferdinand de Saussure – become still clearer.

[32] In «Cahiers Ferdinand de Saussure» 32 (1978, p. 69) Calvert Watkins pubblicava estratti degni di nota dalla lettera di Bloomfield del 23 Decembre 1919 per lo specialista in lingue algonchine dello Smithsonian, Truman Michelson: «I miei modelli sono Pāṇini e il genere di lavoro svolto a I.-E. dal mio insegnante, il Professor Wackernagel. Niente preconcetti; scopri quali variazioni vocaliche sono distintive (in quanto a significato), e poi analizza morfologia e sintassi mettendo assieme tutto ciò che si somiglia». Bloomfield chiede se Michelson ha preso visione del Cours de linguistique générale di Saussure: «Non l’ho ancora visto, ma il Professor Wackernagel l’ha menzionato in una lettera e l’ho ordinato e sono impaziente di vederlo». Le radici europee e in particolar modo svizzere dell’innovativa ricerca di Bloomfield – Jakob Wackernagel e Ferdinand de Saussure – diventano ancora più evidenti.

[33]A Leonard Bloomfield Anthology, 179.

[34]Ibid., 248.

[35] Ibid., 130.

[36] B. Bloch, review of Jespersen’s Efficiency in Linguistic Change, Language 17 (1941), 350-353; A Leonard Bloomfield Anthology, 143, 180.

[37] Hockett 1970: 179.

[38] Hockett 1970: 248.

[39] Hockett 1970: 130.

[40] Bloch 1941.

[41] M. Joos, ed., Readings in Linguistics 1(Washington: American Council of Learned Societies, 1957), v.

[42] Language 1 (1925), 14-16.

[43] A Leonard Bloomfield Anthology, 34.

[44] Joos 1957.

[45] Language 1 (1925), 14-16.

[46] Hockett 1970: 34.

[47] Ibid., 109-112.

[48] Hockett 1970: 109-112.

[49] L. Bloomfield, “Linguistic Aspects of Science”, International Encyclopedia of Unified Science 1:4 (Chicago: University of Chicago, 1939).

[50] A. P. Weiss, “The Relation Between Structural and Behavioral Psychology”, Psychological Review 24 (1917), 301-317.

[51] Bloomfield 1939.

[52] Weiss 1917: 301-317.

[53] “Linguistic Aspects …”, 13.

[54] A Leonard Bloomfield Anthology, 322.

[55] Ibid., 540.

[56] Ibid., 227,249.

[57] Bloomfield 1939: 13.

[58] Hockett 1970: 322.

[59] Hockett 1970: 540.

[60] Hockett 1970: 227, 249.

[61] B. L. Whorf, Language, Thought and Reality (Cambridge, Mass. – London: M.LT. Press, 1956), 79.

[62] A Leonard Bloomfield Anthology, 401.

[63] Cf. Charles C. Fries, “Meaning and Linguistic Analysis”, Language 30 (1954), 57-68.

[64] Whorf 1956: 79.

[65] Hockett 1970: 401.

[66] Charles e Fries 1954: 57-68.

[67] A Leonard Bloomfield Anthology, 33.

[68] Ibid., 493.

[69] E. Sapir, “The Grammarian and His Language”, American Mercury 1(1924), 149-155.

[70] Hockett 1970: 33.

[71] Hockett 1970: 493.

[72] Sapir 1924: 149-155.

[73] A Leonard Bloomfield Anthology, 227.

[74] Hockett 1970: 227.

La nota del traduttore nel fumetto: risultati di un sondaggio Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

La nota del traduttore nel fumetto: risultati di un sondaggio

 

SILVIA ZECCA

 

 

Fondazione Milano

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

 

 

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Ottobre 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Silvia Zecca 2011


 

 

 

Ai miei genitori Alessandra e Cosimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ABSTRACT

Il fumetto è un testo multimediale in cui codice verbale e codice visivo sono strettamente connessi: questo può costituire problemi per la traduzione, soprattutto in presenza di giochi di parole, realia o altri elementi legati alla cultura emittente. Questo lavoro analizza dapprima i vincoli e le possibilità che si presentano nella traduzione di una striscia che contiene questi elementi e introduce una riflessione sulla nota del traduttore come una delle possibili soluzioni che permettono di ovviare alla perdita del senso della striscia tradotta. Si propone poi un lavoro di ricerca sulle strisce a fumetti tradotte e le note nel fumetto, effettuato tramite un questionario somministrato a duecento persone, per poi concludere con un’analisi dei dati che vede la preferenza per le strisce adattate ma anche un largo indice di apprezzamento per le note là dove sono state inserite.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sommario

 

Introduzione            4

1. I problemi della traduzione del medium fumetto            6

1.1  I giochi di parole……. 7

1.2  I realia……. 12

1.3  Ma il pubblico gradisce le note?……. 14

1.4  La nota……. 15

2. Metodo di raccolta dei dati            18

2.1  Creazione del questionario……. 18

2.2  Formulazione delle domande……. 19

2.3  L’indagine sulle note……. 20

2.4  Il questionario di Google Documents: come funziona……….. 21

2.5  Calibrazione delle risposte……. 21

3. Risultati e considerazioni finali            24

3.1  I dati……. 24

3.2  L’interpretazione dei dati……. 24

3.3 Gradimento delle note……. 27

3.3.1 Gradimento delle note per fascia di età… 27

3.3.2 Gradimento delle note per titolo di studio… 31

3.3.3 Gradimento delle note per professione… 37

3.4  Con le note o senza le note?……. 40

3.5 Casi particolari……. 43

3.5.1 Le versioni adattate… 43

3.5.2 La versione con nota del traduttore… 46

Conclusione            48

Ringraziamenti            50

Riferimenti bibliografici            51

 

 

 

 

Introduzione

 

Il fumetto è un testo multimediale che si compone di due diversi codici espressivi, quello visivo e quello verbale, e questo stretto legame tra il testo visivo e il testo verbale costituisce talvolta un elemento di difficoltà nella traduzione delle strisce a fumetti, dove il traduttore può lavorare soltanto sulla componente verbale e si trova vincolato dalla componente visiva.

Compito del traduttore è trasmettere il messaggio originale della cultura emittente alla cultura ricevente, cercando di limitare il residuo culturale che si viene a creare inevitabilmente nella traduzione interlinguistica.

Talvolta non è possibile trovare una soluzione brillante per una striscia in quanto non esiste un corrispondente dei realia o dei giochi di parole nella cultura ricevente, così il traduttore ricorre alla nota a piè di pagina che colma la mancanza dei giochi di parole o dei realia che non è stato possibile mantenere, tuttavia si pensa spesso, e non sempre con fondamento, che questa non sia apprezzata da buona parte dei traduttori e degli autori.

Questa tesi nasce con l’intento di analizzare il caso specifico delle note del traduttore nelle strisce a fumetti e avere un quadro più chiaro dell’opinione dei lettori in merito alla presenza della nota nel fumetto, così da capire se vi è un rigetto della nota da parte di chi legge o se questa può effettivamente essere un valido aiuto per la comprensione della striscia là dove non si riesce ad arrivare a un gioco di parole efficace simile alla versione originale.

Nel primo capitolo, Problemi di traduzione del medium fumetto, mi soffermo sugli elementi – realia e giochi di parole – potenzialmente problematici nella traduzione della striscia a fumetti e sulla definizione di «nota del traduttore».

Il secondo capitolo, Metodo di raccolta dei dati, è dedicato al sondaggio effettuato per ottenere i dati concreti sulle preferenze dei lettori: qui illustro il criterio dell’indagine svolta, il metodo di raccolta dei dati, di formulazione delle domande e di creazione del questionario.

Il terzo capitolo, Risultati e considerazioni finali, si compone dei dati forniti e degli esiti del sondaggio. Osservando e analizzando le risposte ottenute sotto vari punti di vista e ordinando i rispondenti per gruppi, si individuano le preferenze dei rispondenti al questionario e si interpretano i risultati ottenuti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. I problemi della traduzione del medium fumetto

 

Il fumetto è un testo multimediale in cui due codici espressivi diversi – parole e immagini – vanno a formare un linguaggio unitario. Spesso il codice visivo è strettamente legato al codice verbale e la traduzione del fumetto può comportare alcune difficoltà per il traduttore, che può manipolare esclusivamente il codice verbale adeguando le strategie traduttive adottate ai vincoli posti dal codice visivo (Zanettin 1998).

Nel processo di traduzione il traduttore ha il compito di trasmettere alla cultura ricevente il messaggio originale, cercando di limitare la creazione del residuo originato dalla differenza tra le due culture. Per «residuo» si intende quella parte di messaggio che non arriva a destinazione (Osimo 2004:159), una perdita che si viene a creare in ogni tipo di comunicazione, e quindi anche in una traduzione interlinguistica.

Gli elementi strettamente legati alla cultura emittente che possono creare problemi nella traduzione del fumetto sono frequenti e tra questi troviamo i riferimenti culturali, i nomi propri, i giochi di parole, i realia.

Quando si incontrano riferimenti ironici a elementi propri della cultura emittente particolarmente conosciuti, quali personaggi famosi o nomi di una certa rilevanza, nelle strisce si preferisce evitare di inserire note a piè di pagina. In questo caso, la soluzione più frequente è la sostituzione dell’elemento originale con un elemento della cultura ricevente altrettanto noto (Sanna 2006).

Il linguaggio del fumetto, inoltre, usa spesso un registro informale che si serve di frequenti espressioni idiomatiche e di uso comune, legate alla cultura emittente. Lo stretto legame tra codice visivo e codice verbale può talvolta rappresentare un ostacolo.

Un altro elemento che può creare difficoltà nella traduzione del fumetto è rappresentato dalle onomatopee, elementi propri della lingua inglese che sono parte integrante dell’immagine e hanno un proprio significato, che nella cultura ricevente viene perduto. Nella versione tradotta, diventano scritte all’interno del testo che fanno riferimento a un rumore senza rimandare a un verbo della cultura ricevente, così il lettore ne intuisce il significato con l’aiuto delle immagini.

Talvolta nel testo del fumetto possiamo trovare paronomasie (o pun), che prevedono l’uso, a scopo umoristico, di due o più parole dal suono simile o di una parola che ha due o più significati. È anche possibile che i giochi di parole vengano inseriti nel fumetto pur non avendo niente a che vedere con la scena illustrata nella vignetta o nella striscia, in tal caso il traduttore ha la possibilità di sostituire il testo nel balloon con un’espressione altrettanto efficace nella cultura ricevente, che sacrifica il gioco di parole originario a favore dell’ironia. In altri casi, se il contesto lo permette, si provvede all’eliminazione della parte di testo contenente l’elemento che crea problemi.

 

 

1.1  I giochi di parole

 

Cultura e traduzione sono due concetti strettamente connessi: ogni traduzione arricchisce la cultura ricevente con elementi e aspetti della cultura emittente.

Tra gli elementi verbali e quelli visivi vi è un rapporto di dipendenza e complementarità (Zanettin 2004) e talvolta nel fumetto si utilizzano giochi di parole talmente legati alla cultura emittente che una traduzione efficace che possa mantenere l’ironia della battuta e allo stesso tempo il gioco di parole originario è difficile da ottenere.

In The language of jokes: analysing verbal play, Delia Chiaro identifica il gioco di parole con ogni possibile utilizzo del linguaggio allo scopo di divertire (Chiaro 1992:5), mentre Delabastita fornisce la seguente definizione:

 

Wordplay is the general name for the various textual phenomena in which structural features of the language(s) are used are exploited in order to bring about a communicatively significant confrontation of two (or more) linguistic structures with more or less similar forms and more or less different meanings (Delabastita 1996:128)[1].

 

Delabastita individua quattro tipi di giochi di parole: omonimia, omofonia, omografia e paronimia (Delabastita 1996:128).

Per omonimia si intende un fenomeno in cui due parole si scrivono e si pronunciano allo stesso modo pur avendo significati diversi.

 

Figura 1.1: esempio di omonimia

 

L’omofonia prevede la presenza di due parole che, pur essendo scritte in modo diverso, si pronunciano allo stesso modo. Un esempio di omofonia è visibile nella striscia che segue, con il gioco di parole tra «nose all» e «knows all».

 

Figura 1.2: esempio di omofonia

 

L’omografia prevede la presenza di due parole che si scrivono allo stesso modo ma si pronunciano in modo differente.

Nella paronimia le parole utilizzate sono molto somiglianti, le differenze sono minime sia nella scrittura che nella pronuncia. La striscia sottostante propone un gioco di parole intraducibile basato sulla relazione tra «boot», che significa scarpone, e «booty» (bottino).

 

Figura 1.3: esempio di paronimia

 

L’effetto comico, scrive Zanettin, è dato dalla contrapposizione tra l’interpretazione denotativa del testo verbale e il riconoscimento dell’espressione figurata in cui compare la parola. Questo provoca una scissione tra due possibili interpretazioni della stessa parola: l’interpretazione suggerita dal testo verbale e quella suggerita dall’immagine (Zanettin 1998).

In una traduzione ideale che conservi il suo effetto umoristico, il codice visivo dovrebbe mantenere il legame con il testo scritto presente nella versione originale, ma nella maggior parte dei casi traducendo i giochi di parole si verifica una considerevole perdita, anche di ironia. Inoltre non tutte le culture hanno lo stesso tipo di battute e nemmeno la stessa concezione di humor, e anche trovando un’espressione corrispondente nella cultura ricevente, non è detto che l’effetto sul lettore della striscia tradotta sia lo stesso: ciò che fa ridere un italiano potrebbe non essere divertente per un inglese e viceversa.

Per i giochi di parole che funzionano solamente nella cultura emittente, in cui il codice visivo e il codice verbale non sono legati in modo vincolante, si può in alcuni casi ovviare al problema inserendo un gioco di parole che non ha legami con l’immagine e non corrisponde a quello originale ma ha comunque un effetto umoristico per il lettore.

Quando il testo è fortemente vincolato dall’immagine, come nel caso di pun visivi o della striscia precedente, spesso è possibile tradurre il testo concentrandosi sul significato e sulla scorrevolezza del testo e sacrificando il riferimento all’immagine. Nel peggiore dei casi, il lettore della vignetta tradotta si troverà disorientato dalla discrepanza tra testo scritto e immagine (Schnetzer 2003:21).[2]

Nell’impossibilità di trovare una traduzione efficace, si può compensare la perdita derivata dalla mancanza del collegamento tra immagine e parole inserendo una nota a piè di pagina che spieghi il gioco di parole nella cultura emittente.

 

Figura 1.4: nota a piè di pagina nel fumetto tradotto

 

Ci sono delle perdite che potremmo definire assolute. Sono casi in cui non è possibile tradurre, e […] il traduttore ricorre all’ultima ratio, quella di porre una nota a piè di pagina – e la nota a piè di pagina ratifica la sua sconfitta. Un esempio di perdita assoluta è dato da molti giochi di parole (Eco 2003:95).

 

Come spiegato da Eco, questa soluzione non è però considerata la migliore e in genere si preferisce evitarla, specialmente quando si tratta di strisce, che dovrebbero essere scorrevoli nella lettura e immediatamente comprensibili. Tuttavia, nonostante la perdita dell’immediatezza della striscia, la nota può anche essere vista come una chiave di lettura dei meccanismi dell’altra cultura.

 

 

 

1.2  I realia

 

In ambito traduttologico, i realia sono parole che denotano cose materiali culturospecifiche (Osimo 2006:63) e pur senza distinguersi in alcun modo dal co-testo verbale nell’originale possono essere problematici da tradurre, pertanto richiedono al traduttore un atteggiamento particolare.

Come sostiene Zanettin (2005), la traduzione del fumetto andrebbe considerata essenzialmente una traduzione interculturale. Anche nel caso dei realia si può operare una traduzione che si concentri sull’aspetto linguistico oppure una che si soffermi maggiormente sull’aspetto semiotico più in generale.

Mentre nel primo caso l’attenzione va alla componente verbale, il secondo approccio considera la relazione che intercorre tra la componente simbolica e quella iconica, e quindi tra il testo scritto e l’immagine (Zanettin 2005:95).

Il processo di traduzione coinvolge almeno due lingue e due tradizioni culturali. Nella traduzione, il traduttore può attenersi al testo originale e alle sue norme, oppure adattare il testo alle norme della cultura ricevente[3].

 

 

Una traduzione in cui il metatesto conserva poche caratteristiche del prototesto in favore della leggibilità è «accettabile» e vede la sostituzione di tutti i realia propri della cultura emittente con elementi familiari alla cultura ricevente, così che il lettore si trova a leggere un testo “comodo”, che tuttavia arricchisce di meno. Il metatesto «adeguato» mantiene invece molte caratteristiche del testo originale e i realia, i nomi e le costruzioni sintattiche vengono il più possibile conservati.

 

Il traduttore conserva il più possibile le caratteristiche di “cultura altrui” del prototesto, costringendo il lettore a uno sforzo per recepire il testo come altrui. Non viene compiuto alcun tentativo di far passare il metatesto per un originale. Il lettore si trova di fronte a un testo “scomodo” (non scorrevole), ma ricco di stimoli per la reciproca fecondazione tra culture nella dialettica proprio/altrui della semiosfera. (Osimo 2010:102).

 

Quando ci troviamo di fronte a elementi tipici della vita quotidiana, della storia e della cultura di un determinato paese che non si riscontrano altrove, il problema principale è trovare una traduzione soddisfacente (Zanettin) e non sono rari i casi in cui, nell’impossibilità di produrre un metatesto altrettanto efficace, il traduttore ricorre alle note a piè di pagina con cui spiega gli aspetti della cultura emittente che il lettore non ha afferrato nella lettura del testo.

 

 

1.3  Ma il pubblico gradisce le note?

 

Si pensa che il lettore modello della striscia a fumetti prediliga una lettura scorrevole e immediata, comoda, e quindi senza doversi soffermare troppo sul significato della striscia o “perdere tempo” a leggere la nota. Si suppone, quindi, che il lettore modello dei fumetti non apprezzi una striscia in cui si necessiti di note che spiegano il gioco di parole legato all’immagine o forniscono informazioni aggiuntive sulla cultura emittente.

Scopo di questa tesi è illustrare la funzione delle note a piè di pagina nelle strisce a fumetti e verificare l’opinione del lettore riguardo all’utilità di queste, ovvero capire se le note sono effettivamente percepite come un intralcio a quella che si ritiene debba essere una lettura scorrevole, immediata e divertente oppure se vengono in realtà considerate una chiave di lettura dell’humor altrui e apprezzate in quanto elemento integrante nel testo e strumento per comprendere elementi propri di culture più o meno distanti dalla nostra e sotto vari aspetti estranee.

 

1.4  La nota

 

Per proseguire si rende necessario soffermarsi sul significato di nota in ambito traduttologico.

In Seuils, Genette (1987:293) identifica la nota con un enunciato di lunghezza variabile relativo a un segmento più o meno determinato del testo e disposto in riguardo o in riferimento al segmento in questione, e tale stato di parzialità (caratterizzante sia il testo di riferimento che l’enunciato riportato in nota) costituisce il tratto formale più distintivo di questo elemento del paratesto[4].

La nota è infatti parte integrante del paratesto, il testo che accompagna l’edizione di un testo letterario (Osimo 2004:216) e che include, oltre alle note, anche frontespizio, errata còrrige, prefazione, sommario, glossario, bibliografia, didascalie ecc. L’apparato paratestuale è chiamato talvolta metatesto poiché, come il testo tradotto, è anch’esso frutto di un processo traduttivo di trasformazione del prototesto (Osimo 2004:30).

Le note possono inoltre essere d’aiuto per evidenziare testo di interesse rilevante o illustrare un passaggio in modo più dettagliato, o ancora possono citare una fonte.

Il destinatario della nota è in teoria il lettore del testo (Genette 1987:297), tuttavia le note sono facoltative nella lettura e di conseguenza sono indirizzate solo ad alcuni lettori, poiché il loro carattere accessorio giustifica il rigetto di queste.

Spesso l’apparato di note nel testo ha una relazione molto stretta e di continuità con la prefazione.

Nello stesso testo possono coesistere più tipi di note, e la prassi consiste nel richiamare le note nel testo attraverso diversi procedimenti (con cifre, lettere ecc) e segnalare ciascuna nota con un richiamo identico o una menzione del testo (1987:295).

Le note possono comparire in qualsiasi punto del testo, ma possono anche scomparire da un’edizione all’altra (1987:296) oppure coesistere insieme ad altre note di periodi diversi.

La nota è un elemento piuttosto ambiguo del paratesto. Alcuni tipi di nota hanno funzione di commento, mentre altre danno semplicemente luogo a modulazioni del testo e altre ancora contribuiscono alla finzionalità del testo (1987:314).

Genette individua vari tipi di nota: le più frequenti sono le note autoriali assuntive, suddivise in originali, ulteriori e tardive; le note allografe e infine le note finzionali. Le note possono essere relative a testi discorsivi (come saggi di storia) oppure riguardanti opere di finzione narrativa o poesia lirica (1987:298).

In nota si trovano spiegazioni di termini utilizzati nel testo o indicazioni e talvolta informazioni non necessariamente interessanti per il lettore ma che l’autore vuole comunque fornire per i lettori più esigenti.

La nota autoriale originale può essere di complemento, di digressione e più raramente di commento, e generalmente, scrive Genette, gli autori preferiscono astenersi dalle note o ridurle il più possibile (1987:301).

Su questo tuttavia non si può generalizzare, poiché non tutti gli autori considerano la nota un intralcio alla lettura, ma ne fanno ampio uso di proposito senza vederla  negativamente. È il caso dello scrittore inglese Jasper Fforde, che nelle sue opere, anche romanzi di genere fantastico come Persi in un buon libro, fa un ampio impiego di giochi di parole e note a piè di pagina[5].

Le note ulteriori e tardive sono molto più rare e hanno una forte relazione di continuità con la prefazione: la prolungano commentando singoli dettagli nel testo.

La nota allografa è spesso una nota editoriale e consiste in un commento esterno, in genere postumo, di cui l’autore non è responsabile.

La nota attoriale è una varietà della nota allografa e riveste l’autorità del suo oggetto che è spesso un autore (1987:311).

Le note di finzione sono note in cui il destinatore stesso è finzionale e questo tipo di nota è in genere attribuito a un personaggio narratore e gli conferisce una funzione autoriale verosimile (1987:314).

Le note a pié di pagina rappresentano comunque una manifestazione evidente della presenza del traduttore nel testo, che in questo modo limita però il suo intervento a un territorio esterno alla narrazione e, nell’ambito da noi preso in analisi, il loro scopo più comune è spiegare i giochi di parole del testo in lingua originale, illustrare la ragione di determinate scelte linguistiche o riportare il significato di parole straniere e non tradotte nel testo.

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Metodo di raccolta dei dati

 

Scopo di questa tesi è documentare una ricerca che abbiamo portato avanti al fine di scoprire la funzione che hanno le note del traduttore nelle strisce di fumetti per il lettore della striscia. Per raccogliere i dati abbiamo costruito un questionario a cui abbiamo sottoposto duecento persone in varie fasce di età, con titoli di studio e professioni differenti, e abbiamo poi raccolto i risultati nel terzo e ultimo capitolo.

 

2.1  Creazione del questionario

 

La costruzione di un questionario è una fase particolarmente delicata nel corso della pianificazione di un’indagine di valutazione e il questionario deve essere pensato in modo da incoraggiare coloro che rispondono a esprimere le loro reali preferenze con il minor condizionamento esterno possibile (Chiabai 2001:4).

Vi sono svariati tipi di questionario: l’indagine può avvenire tramite interviste personali, telefoniche o postali. Poiché la progettazione del questionario deve essere coerente con il tipo di indagine che si desidera svolgere e la nostra indagine, trattandosi di strisce a fumetti, prevedeva l’utilizzo di immagini, per portare avanti questa ricerca abbiamo creato un questionario online a scelta multipla che i rispondenti potevano compilare via internet all’indirizzo www.trad.it/strisce.htm in circa dieci minuti.

 

 

 

 

 

2.2  Formulazione delle domande

 

Una particolare attenzione va rivolta all’ordine e alla successione dei quesiti all’interno del questionario, anche perché in alcuni casi una domanda anteposta alle altre può influenzare la risposta alle successive. Trattandosi in questo caso di strisce a fumetti, era importante anche la disposizione di queste.

È consigliabile adottare una successione logica di temi, in modo da facilitare il passaggio da un quesito all’altro per chi risponde. Nel nostro caso abbiamo posto all’inizio del questionario tutte le domande più generali riguardanti l’età, il titolo di studio e la professione del rispondente, seguite poi da tutte le strisce da leggere e dalle relative domande e, per quanto riguarda le domande specifiche al seguito di ciascuna striscia, abbiamo collocato per prime quelle riguardanti direttamente le strisce, seguite poi da un quesito più specifico riguardante le note del traduttore.

Un criterio generale per la formulazione delle domande nei questionari consiste nel sistemare le domande più semplici all’inizio del questionario e quelle più delicate e complesse alla fine, altrimenti il rispondente che dà un primo sguardo al questionario potrebbe pensare che tutte le domande nel questionario saranno complesse e abbandonarlo prima della fine (Chiabai 2001:17).

Abbiamo applicato questo criterio al questionario da noi creato sistemando le strisce più brevi da leggere all’inizio, seguite poi da quelle più lunghe e “impegnative”.

Il questionario andrebbe concepito come uno strumento di comunicazione finalizzato a facilitare l’interazione tra il ricercatore e il rispondente, e per essere valido occorre che sia standardizzato, e quindi che presenti domande identiche per tutti i rispondenti, per garantire la confrontabilità delle risposte (Fontanella 2007:16).

È inoltre importante che le domande poste rappresentino lo stesso stimolo per tutti i rispondenti e che siano meno ambigue possibile, soprattutto se rivolte a un pubblico non omogeneo, che presenta livelli culturali differenziati e vari gradi di istruzione. I concetti devono essere familiari e facilmente comprensibili a tutti i rispondenti (Chiabai 2001:22).

 

 

2.3  L’indagine sulle note

 

Il questionario che abbiamo sviluppato allo scopo della ricerca propone sette strisce a fumetti tradotte in italiano. La versione originale di ciascuna striscia, in lingua inglese, presenta un gioco di parole o un elemento di realia proprio della cultura emittente, che in italiano solitamente non trova una traduzione efficace che sia semanticamente simile all’originale e allo stesso tempo divertente come l’originale.

Per ciascuna striscia vi sono due traduzioni: in una delle due versioni il testo ha subìto un adattamento per facilitare la lettura e divertire anche il lettore italiano, così è facile che il senso della battuta originale vada perso in favore di una lettura scorrevole e di una comprensione immediata. Nell’altra versione si è mantenuta l’espressione originaria traducendo le battute parola per parola, così che spesso si perde l’ironia che caratterizzava la battuta originale. Questa versione della striscia è accompagnata da una nota a piè di pagina che spiega al lettore qual era il senso della battuta originale, rimediando al senso di straniamento che può derivare dalla mancata comprensione della striscia.

 

 

 

2.4  Il questionario di Google Documents: come funziona

 

Per la costruzione del questionario abbiamo fatto uso del servizio gratuito offerto da Google Docs, Google Documenti nella versione italiana, che permette di creare sondaggi e questionari e poi di verificare i risultati, con il vantaggio della visualizzazione di report grafici ed editing immediato.

Attraverso un Google account, che dà accesso ai servizi di Google quali Gmail, è possibile creare il questionario scegliendo tra varie opzioni.

Nella creazione del modulo è possibile inserire qualsiasi informazione o testo che sia di aiuto al lettore che dovrà compilare il questionario. È possibile scegliere la modalità di risposta a ogni domanda (aperta, a scelta multipla, con griglia o caselle di controllo), si può decidere se rendere la risposta obbligatoria o meno ed è possibile personalizzare l’aspetto grafico del questionario scegliendo tra vari temi. L’autore del questionario ha la possibilità di visualizzare le risposte date dai lettori organizzate in una tabella e anche il riscontro grafico di queste.

Nella creazione del questionario abbiamo deciso di rendere obbligatorie tutte le risposte e abbiamo preferito domande con possibilità di risposta a scelta multipla.

 

 

2.5  Calibrazione delle risposte

 

Per la realizzazione di questo progetto necessitavamo di risposte accurate e di spiegazioni precise sul motivo della preferenza dei rispondenti, poiché una maggiore accuratezza nelle risposte e nelle motivazioni che hanno portato verso una determinata preferenza può costituire un valido aiuto nel fare chiarezza sul motivo delle scelte e sull’esito della ricerca.

Nelle opzioni a scelta multipla abbiamo posto cinque possibilità di scelta perché il motivo della preferenza del rispondente fosse il più preciso possibile e poco venisse lasciato al caso; è inoltre utile avere la possibilità di paragonare i risultati ottenuti e le risposte tra di loro nel tempo.

Le domande strutturate del questionario prevedono alcune alternative fisse di risposte predefinite e al rispondente si lascia il compito di scegliere quella che più si avvicina al suo caso (Fontanella 2007:22). Il vantaggio di questo metodo è la facilitazione nella codifica della risposta, che a differenza delle domande aperte non lascia spazio a dubbi o ambiguità e agevola il raggruppamento delle categorie. Lo svantaggio di questa modalità è che si possono avere come risultato risposte – almeno da una parte dei rispondenti – che non coincidono esattamente al pensiero del soggetto ma sono frutto di un adattamento del suo pensiero.

Il questionario da noi utilizzato per lo svolgimento della ricerca si presentava così:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Risultati e considerazioni finali

 

3.1  I dati

 

Al questionario hanno risposto duecento persone appartenenti a varie fasce di età e con diversi titoli di studio. Molti dei rispondenti sono in possesso di un titolo di studio non correlato alla taduzione o svolgono una professione che non riguarda la traduzione.

I partecipanti al questionario online sono stati suddivisi in quattro fasce di età: meno di 20 anni, tra i 21 e i 35 anni, tra i 36 e i 55 anni e oltre i 55 anni. Ciascuno di loro poteva selezionare il proprio titolo di studio tra le opzioni proposte, dalla scuola elementare fino ad arrivare al dottorato, e indicare se la propria formazione o professione è legata in qualche modo alla traduzione. Quest’ultima divisione è stata effettuata poiché l’approccio al questionario da parte di un traduttore professionale può essere tendenzialmente diverso da quello di una persona che è esterna all’ambito, e volevamo individuare e isolare le preferenze dei traduttori e quelle di chi non esercita la professione.

 

 

3.2  L’interpretazione dei dati

 

Il questionario è stato inizialmente proposto a un numero uguale di persone per ogni fascia di età, e coloro che hanno partecipato con maggiore entusiasmo alla ricerca e hanno contribuito in particolar modo a divulgarlo sono i rispondenti di età compresa tra i 21 e i 35 anni, che corrispondono al 57% del numero totale di rispondenti.

 

Per quanto riguarda il titolo di studio conseguito, i rispondenti avevano la possibilità di scegliere tra otto opzioni. Il titolo di studio più comune tra chi ha risposto al questionario è il diploma di scuola media superiore, con il 46%.

 

 

La maggioranza dei rispondenti ha conseguito un titolo di studio che non riguarda la traduzione o esercita una professione che non è correlata alla traduzione (66%).

 

Per ciascuna delle sette strisce sottoposte ai rispondenti del questionario vi erano due versioni, differenti nei dialoghi e nei giochi di parole o realia. Una delle due versioni si presentava senza note, di facile comprensione per il lettore, questo perché i giochi di parole e i realia della cultura di partenza sono stati tradotti e adattati perché fossero comprensibili, divertenti e scorrevoli nella lettura anche per il lettore della cultura di arrivo, in questo caso lettore italiano. Nella seconda versione tradotta, i giochi di parole e i realia sono rimasti invariati nella lingua italiana, a scapito della comprensibilità del senso della striscia, e in ognuna di queste strisce è stata aggiunta una nota a piè di pagina che spiega al lettore italiano il senso della battuta nella lingua originale.

Per evitare risposte casuali abbiamo alternato l’ordine delle due versioni, cambiandolo in ogni striscia, così che la versione con la nota non risultasse sempre la prima e viceversa.

3.3 Gradimento delle note

 

Ciascuno dei duecento rispondenti al questionario ha visualizzato due versioni di sette strisce differenti ed espresso un parere su ciascuna delle strisce e quindi anche sulle note impiegate in ognuna delle sette versioni non adattate. Abbiamo quindi ottenuto un totale di 1400 pareri sull’impiego delle note in ciascuna striscia e analizzato il gradimento di queste sotto vari punti di vista: fascia di età, titolo di studio, professione.

 

 

3.3.1 Gradimento delle note per fascia di età

 

Per analizzare il gradimento delle note da parte dei partecipanti al sondaggio in base all’età abbiamo preso come parametri di riferimento le stesse fasce create per il questionario, ovvero meno di 20 anni, tra i 21 e i 35 anni, tra i 36 e i 55 anni e oltre i 55 anni, per vedere quanti hanno trovato le note utili, quanti le hanno reputate inutili o di intralcio e quanti invece non le hanno lette.

Qui riporto i dati relativi alla prima fascia di età.

 

Tra i rispondenti di età inferiore ai 20 anni si è riscontrata un’opinione estremamente positiva in merito alle note nelle strisce di fumetti. Oltre ad averle lette quasi tutti (il 94% tra chi le ha trovate utili e chi no), l’84% ritiene che siano state d’aiuto e le ha lette volentieri, mentre soltanto il 10% le ritiene inutili. Pochissimi sono i rispondenti che non le hanno lette, il 4%, e che le consideravano d’intralcio alla lettura della striscia (2%).

 

Anche tra i rispondenti della seconda fascia di età l’opinione riguardo alle note nel fumetto è positiva. Il numero di chi ha letto le note e le ha trovate utili è inferiore rispetto alla fascia di età precedente, tuttavia ricopre all’incirca i tre quarti delle risposte totali, seguono i rispondenti che non hanno ritenuto le note di alcuna utilità nella lettura delle strisce, che rappresentano il 16% delle risposte totali, e poi chi non le ha lette (6%) e chi infine le considerava di intralcio alla lettura, con il 4%.

 

 

Nella terza fascia di età, quella dei rispondenti di età compresa tra i 36 e i 55 anni, aumenta leggermente il numero di chi ha ritenuto che le note fossero un impedimento alla lettura scorrevole delle strisce, tuttavia le note come parte integrante della striscia continuano a essere apprezzate dal 73% dei lettori che ne hanno usufruito durante la lettura. È invece minore il numero di chi le ha lette ma non le ha trovate di alcuna utilità, che ricopre in questa fascia di età l’11% delle opinioni. In questo gruppo si registra il numero più alto di lettori che hanno ignorato completamente le note mentre leggevano le strisce, che rappresenta il 9% dei rispondenti. Se paragonata al numero di coloro che hanno apprezzato le note, questa quota rimane comunque molto bassa.

 

 

Anche tra i rispondenti che superano i 55 anni di età vi è un sensibile interesse per le note del traduttore e l’apprezzamento di queste si riconferma, seppure in numero leggermente minore rispetto alle fasce di età precedenti.

Per quanto riguarda il non gradimento della nota, i partecipanti al sondaggio di età superiore ai 55 anni che la ritengono inutile pur avendola letta sono qui più numerosi e raggiungono il 18% delle opinioni generali. Anche in questa fascia di età sono comunque in pochi a non avere letto del tutto le note (il 7%) e a considerarle un intralcio (6%).

 

Da questi dati si può concludere che le note sono gradite in linea generale, la maggior parte dei rispondenti di tutte le età non considera leggere le note uno spreco di tempo, anche se si tratta di strisce a fumetti, e le trova inoltre utili alla comprensione della striscia. Una parte di lettori che “boccia” le note considerandole un intralcio alla lettura della striscia a fumetti è presente in tutte le fasce di età, tuttavia si tratta di una porzione decisamente ristretta, come anche la quota di chi le ignora completamente.

Allo stesso modo, abbiamo osservato ovunque una parte di rispondenti che non hanno gradito le note pure avendole lette, che è leggermente più ampia rispetto alla quota di chi le trova d’intralcio e di chi non le legge, ma in ogni caso non supera mai il 20% delle opinioni totali.

Il fatto che faccia piacere leggere le note, spesso contenenti spiegazioni di realia che non appartengono alla nostra cultura o di giochi di parole che altrimenti troveremmo incomprensibili, denota una certa apertura mentale: non solo da parte di lettori giovani ma anche da parte di chi supera i 55 anni e di chi in genere può non essere solito leggere strisce a fumetti.

 

 

3.3.2 Gradimento delle note per titolo di studio

 

I rispondenti al questionario potevano selezionare l’opzione più affine al titolo di studio da loro conseguito e ne sono derivate otto opzioni differenti, dalla licenza elementare al dottorato.

Abbiamo preso nuovamente in analisi i dati riguardanti il gradimento delle note del traduttore nelle strisce, stavolta dal punto di vista dell’istruzione e del titolo di studio conseguito.

 

 

I rispondenti con licenza elementare leggono le note per l’86%, le ritengono utili per il 57% mentre le trovano inutili per il 29%, la percentuale più alta tra tutti i gruppi. Chi non le legge rappresenta un numero molto basso, come anche i lettori che le considerano d’intralcio.

In questo gruppo troviamo il numero più alto di rispondenti che non hanno trovato le note di alcuna utilità pur leggendole.

 

 

Tra i lettori che hanno conseguito un titolo di studio pari a licenza media, che siano di età inferiore o superiore ai 18 anni, vi è un quasi totale gradimento delle note, lette, apprezzate e ritenute utili nel 91% dei casi a fronte di un 3% di chi le ha trovate inutili e di una percentuale identica anche per i rispondenti che rispettivamente non le hanno lette e le hanno considerate di intralcio.

Questo gruppo presenta la percentuale più alta di gradimento delle note, che non sembrano affatto rappresentare un problema per la lettura né risultano superflue o inutili per le informazioni che offrono al lettore.

 

La più bassa percentuale di lettori che considerano le note un ostacolo alla lettura delle strisce si trova tra i rispondenti che hanno conseguito il diploma di scuola media superiore. Il 14% di loro le ha lette ma non le ha trovate di alcuna utilità alla comprensione della striscia, mentre rimane anche qui notevolmente maggiore il numero dei rispondenti che hanno letto le note e le ritengono gradevoli e utili alla comprensione della striscia o del significato originale.

La percentuale di coloro che hanno completamente ignorato le note è del 7%, rimane stabile senza superare il 10%.

 

Tra chi ha conseguito un titolo di studio pari alla laurea triennale le note continuano ad essere apprezzate nella maggior parte dei casi, anche se la quota dei rispondenti che le trova inutili si avvicina al 20%. Il numero di lettori che ripudiano le note rimane molto basso (5%) e quello di chi non ha speso tempo a leggerle rimane sotto il 10%, in linea con la quota degli altri gruppi.

 

I rispondenti in possesso di una laurea specialistica confermano la tendenza dei dati precedenti per quanto riguarda l’apprezzamento delle note: il 67% le considera utili a fronte di un 14% di rispondenti che le ritengono inutili.

In questo gruppo le persone che considerano le note del traduttore un intralcio alla lettura sono più numerose rispetto agli altri e raggiungono il 10%, mentre i lettori che hanno evitato le note ricoprono il 9% del totale.

 

Larga parte dei rispondenti in possesso di un master continua ad apprezzare le note arrivando quasi al 75% delle opinioni totali. Le note sono quindi costantemente gradite dalla maggior parte dei lettori delle strisce, per i quali non sembrano rappresentare un problema. C’è invece una diminuzione nel numero di chi pur avendo letto le note le considera inutili, compensata dall’aumento delle persone che considerano le note un intralcio e che quindi avrebbero preferito non ci fossero affatto. Ristretta rimane invece la percentuale di rispondenti che non hanno letto le note.

 

Nel gruppo dei rispondenti al questionario che hanno conseguito un alto titolo di studi come il dottorato la percentuale di chi vede nelle note del traduttore un ostacolo alla lettura è di nuovo ridotta a un 3%, mentre il numero dei rispondenti che ha letto le note ma non le ha apprezzate sale nuovamente al 14%. I lettori che hanno evitato le note rimangono una piccola parte sotto il 10% delle opinioni totali.

Anche in questo gruppo le note continuano ad essere apprezzate e ritenute utili nei tre quarti dei casi (74%).

 

Spesso si pensa che le note abbiano maggiore probabilità di essere apprezzate da un pubblico che ha conseguito un titolo di studio più alto piuttosto che da chi ha ricevuto un grado di istruzione inferiore e si ritiene che maggiori studi siano spesso sinonimo di apertura mentale o di una maggiore curiosità. Dai dati ricavati si può dedurre che le note oltre a essere lette vengono apprezzate in linea di massima dalla maggior parte dei rispondenti, indipendentemente dal grado di istruzione ricevuta, e anche nel gruppo di rispondenti che hanno la licenza elementare come titolo di studio, pur osservando il più alto numero di opinioni sfavorevoli alle note, rimangono comunque in molti ad averle gradite (più della metà del totale con il 57%) e in ogni caso più dell’80% dei rispondenti si è soffermato a leggerle pur non considerandole sempre un aiuto alla comprensione delle strisce. In particolare, il gruppo di rispondenti che hanno conseguito la licenza media, presenta il numero più alto di gradimenti per quanto riguarda la nota e un numero estremamente basso di “rigetti”, decisamente inferiori a quelli osservati nei gruppi di lettori che hanno un titolo di studio più alto (come laurea, master o dottorato).

 

 

3.3.3 Gradimento delle note per professione

 

Al questionario hanno partecipato traduttori professionali e persone la cui professione o i cui studi sono in qualche modo correlati al mondo della traduzione, ma anche persone e studenti che si occupano di campi che non sono in alcun modo legati alla traduzione.

La terza suddivisione organizza i rispondenti in due grandi gruppi, uno di persone che studiano o lavorano con la traduzione e uno di persone il cui titolo di studio o mestiere non ha nulla a che fare con essa.

Con questa suddivisione desideriamo vedere se e quanto cambia l’approccio alle note del traduttore nelle strisce tra i due gruppi e quale dei due gruppi mostra il maggiore indice di apprezzamento delle note.

 

La maggior parte di chi si occupa di traduzione apprezza le note e le ritiene utili, mentre il 17% dei rispondenti non le trova utili per la comprensione della striscia. Rimane basso il numero di chi non le ha lette e di chi le trova di intralcio alla lettura.

 

 

 

I rispondenti che svolgono una professione estranea alla traduzione sembrano gradire le note del traduttore in misura maggiore rispetto a chi si occupa di traduzione. Pur essendo il numero di rispondenti che non ha letto le note leggermente maggiore rispetto all’altro gruppo, la quota di chi ha “bocciato” le note considerandole un ostacolo alla lettura della striscia è meno della metà rispetto a quella del gruppo dei traduttori. Anche la quota di chi ha letto le note ma non le ha trovate di alcuna utilità è inferiore (un 13% confrontato con il 17% di chi non le trova utili nel gruppo precedente).

 

In entrambi i gruppi la nota viene letta da gran parte dei rispondenti ed è generalmente gradita e ritenuta utile, anche se nel gruppo dei non traduttori si registra una percentuale più alta di gradimenti, il 77% contro il 69% del gruppo di chi lavora nel campo della traduzione. Quest’ultimo gruppo presenta una quota leggermente più bassa di rispondenti che non hanno letto le note, ma vi sono più persone che non hanno apprezzato la nota pur avendola letta e che l’hanno ritenuta un intralcio. Riguardo a quest’ultima opinione, in particolare, sono più del doppio le persone a scartare la nota rispetto al gruppo di rispondenti la cui attività non è legata alla traduzione.

Il numero maggiore di rigetti della nota nel gruppo di chi si occupa di traduzione può forse derivare dal fatto che la nota non è sempre considerata positiva nell’ambiente e pertanto chi è esperto della professione ha un approccio forse “prevenuto” nei confronti delle note nelle strisce.

Inoltre la lingua inglese è spesso tra le lingue di lavoro dei traduttori, pertanto è probabile che in molti intuiscano il significato del gioco di parole in questione senza bisogno di ricorrere alla spiegazione delle note anche se questo è tradotto alla lettera dalla lingua di partenza e non trova un corrispondente nella lingua italiana, e trovino quindi superflua una nota che spiega il significato di quanto hanno appena letto nella striscia.

Nel gruppo costituito da chi non lavora nel campo della traduzione non è detto che tutti abbiano una conoscenza della lingua straniera – pur trattandosi dell’inglese – sufficiente a comprendere i giochi di parole o i realia che non hanno subito un adattamento, quindi un numero maggiore di persone può aver trovato utile una spiegazione di quanto letto.

 

 

3.4  Con le note o senza le note?

 

Abbiamo visto come le note del traduttore nelle strisce a fumetti siano apprezzate dalla maggior parte dei lettori e come abbiano ottenuto un ampio consenso in tutte le fasce di età e tra persone di ogni titolo di studio.

Come già spiegato, le due versioni delle strisce a fumetti sono state disposte in modo che la versione con le note e quella adattata si alternassero nell’ordine, così da ridurre il più possibile il numero di risposte casuali. Ne risulta che la versione con le note a piè di pagina non era sempre la versione A e la versione senza note non era sempre la versione B. Di conseguenza anche il lettore che tendeva a scegliere una delle due versioni a priori si trovava costretto in ogni caso a leggere entrambe le strisce per assicurarsi di selezionare la versione preferita.

Un’ulteriore analisi dei dati suddivide i rispondenti in due nuove grandi categorie, stavolta per preferenza: chi nel complesso ha preferito le versioni con le note e chi ha invece scelto le versioni adattate.

 

 

Le versioni senza note sono generalmente le favorite. Fa eccezione la striscia n. 5 con una netta preferenza per la versione con note. Nella maggior parte dei casi, comunque, lo scarto tra la versione con note e quella adattata è di pochi voti. Più significativa è la disparità tra la versione con note e quella senza note nelle strisce n. 1 e 2, forse a causa dell’utilizzo di giochi di parole e realia troppo distanti dalla cultura ricevente.

Nel complesso le preferenze per le versioni senza note del traduttore – che sono 833 – ricoprono il 60% delle scelte, a fronte del 40% di preferenze per le versioni che presentano le note (567 preferenze).

 

In sei strisce su sette la preferenza è andata alla versione adattata e senza note del traduttore. Nel questionario abbiamo chiesto ai lettori di fornire una motivazione alla loro scelta spiegando perché avessero scelto quella versione piuttosto che l’altra e abbiamo proposto sei opzioni in modo da offrire ai rispondenti una scelta più ampia possibile. Le motivazioni proposte erano:

– l’hai trovata più interessante;

– l’hai trovata più scorrevole;

– l’hai trovata più divertente;

– non sai perché, ma ti è piaciuta di più;

– l’hai trovata più completa;

– l’hai trovata più comprensibile

 

Nei casi di preferenza della versione senza note del traduttore, tra le motivazioni più frequenti troviamo al primo posto “ho trovato la striscia più divertente”, con il 29% delle selezioni, seguita dalla comprensibilità (27%) e poi dalla scorrevolezza (19%). Con quote minori seguono i rispondenti che hanno trovato le strisce senza nota più complete (il 10% dei rispondenti), più interessanti (8%) e infine coloro che non hanno saputo dare una motivazione precisa alla loro scelta (7%).

 

In una delle sette strisce proposte la versione presentante le note del traduttore è stata la più apprezzata. Tra le motivazioni troviamo al primo posto quelle che ritenevano questa versione più divertente con il 43%, poi più comprensibile con il 24%, più scorrevole (il 14% delle motivazioni) e a seguire i lettori che l’hanno trovata più completa (8%) e più interessante (7%), per poi finire con chi non ha dato una motivazione precisa (6%).

 

3.5 Casi particolari

 

Tra le strisce utilizzate nel questionario ve ne sono alcune in cui la preferenza per la versione senza note è particolarmente evidente, in particolar modo in due casi. Vi è poi una striscia in cui si è registrata una netta preferenza per la versione che presenta la note del traduttore.

 

 

3.5.1 Le versioni adattate

 

La prima striscia propone un’espressione tipica della lingua inglese, quindi un realia, nella frase «Let’s see if mom jumps out of her skin». L’espressione to jump out of one’s skin, letteralmente «saltare fuori dalla propria pelle», è utilizzata in lingua inglese per esprimere un grosso spavento e non trova un corrispondente in italiano.

 

 

 

In questo caso la componente visiva costituisce un vincolo per il traduttore che deve trovare una traduzione efficace cercando di non stravolgere il legame con l’immagine e il senso della striscia. Il risultato della traduzione nella striscia adattata è «E ora vediamo se alla mamma prende un colpo». Si parla sempre di spavento, ma si usa un’espressione che il lettore della striscia tradotta comprende senza problemi. La versione con nota prevede invece una traduzione denotativa dell’espressione in «E adesso vediamo se la mamma salta fuori dalla pelle»: traduzione che pur mantenendo interamente il legame con l’immagine proposta risulta incomprensibile e viene compensata con la spiegazione in nota.

Anche se la nota nella versione non adattata risultava gradita a quasi tutti i rispondenti, tale versione è stata preferita da 59 rispondenti contro i 141 che hanno optato per quella adattata. Questo significa che la nota piace e qui è utile a molti ma in certi casi, probabilmente, l’espressione originale viene reputata troppo distante dalla cultura ricevente per essere divertente e immediatamente comprensibile mentre la versione adattata riusciva in questo caso a mantenere in parte il senso originale della battuta, il legame con la componente immagine e presentava un’espressione non estranea al pubblico della cultura ricevente.

 

La seconda striscia propone un problema simile che si risolve però in modo differente e porta al cambiamento del senso dell’intera striscia.

 

 

 

Il gioco di parole proposto da questa striscia fa leva sull’onomatopea, che richiama il suono del sasso nell’acqua, e sul verbo inglese to spelunk, che in lingua italiana non ha un corrispondente e significa «esplorare cave». La versione adattata cambia l’onomatopea in squash, che foneticamente rievoca la caduta di un sasso nell’acqua e indica anche il nome di uno sport in grado di sostituire il verbo to spelunk. La traduzione viene in questo modo stravolta in favore del gioco di parole, che regge anche nella lingua di arrivo e viene conservato.

 

 

 

Nella versione non adattata il verbo to spelunk viene italianizzato in spelunkare e il senso dell’associazione, come anche questo verbo inventato, vengono spiegati al lettore nella nota. In questa striscia si è registrato il numero più alto di apprezzamenti per la versione adattata della striscia, con 148 preferenze contro le 52 per la striscia con nota, sebbene le note in questa striscia – insieme alla precedente – registrino il numero più alto di gradimenti.

In questo caso l’onomatopea, se mantenuta, non viene riconosciuta dal lettore italiano che si trova disorientato. Torna invece l’associazione con lo sport in italiano e il suono squash. Per quanto riguarda i pareri sulle note, queste sono molto gradite nella striscia non adattata, che altrimenti lascia il lettore disorientato, anche se in questi casi una traduzione che sia comprensibile e divertente anche nella lingua di arrivo viene generalmente preferita a una striscia di più difficile comprensione che è in grado però di portare un arricchimento con alle spiegazioni in nota.

 

 

3.5.2 La versione con nota del traduttore

 

In una delle strisce proposte si è registrata una netta preferenza per la versione non adattata e completa di note del traduttore.

 

 

 

Il dialogo della striscia si basa sull’Ace, battuta vincente nel gioco del tennis, un termine conosciuto anche in italiano e che, pur avendo un corrispondente, viene raramente tradotto in “asso”.

Nella versione adattata il termine viene tradotto e il dialogo cambia il significato della striscia, mentre nell’altra il termine “Ace” viene mantenuto e chiarito nella nota.

 

 

 

In questo caso la versione con nota è quella preferita dalla maggior parte dei rispondenti, e la motivazione principale è che la versione più divertente delle due.

Questa striscia funziona: il termine ace in senso sportivo è comprensibile anche in lingua italiana e la nota contribuisce a chiarificare il senso della striscia al lettore, per cui una versione più affine all’originale è apprezzata perché comunque comprensibile e in più arricchita da una nota che spiega il termine. La striscia piace perché risulta divertente e gradevole senza bisogno di operare un adattamento e stravolgere inutilmente il senso della striscia intera cambiando un dialogo che regge già anche in italiano.

 

 

 

Conclusione

 

Con questa tesi si è cercato di comprendere, tramite l’uso del questionario come strumento di verifica, se le note del traduttore nell’ambito del fumetto tradotto possono essere apprezzate dai lettori della cultura ricevente e costituire un valido supporto alla comprensione di giochi di parole o realia appartenenti alla cultura emittente – così da evitare lo stravolgimento della traduzione – oppure se il lettore continua a preferire una striscia di facile lettura a scapito del senso, dei giochi di parole e dei realia originali, a favore della comprensibilità e della scorrevolezza nella cultura ricevente.

Le note vengono apprezzate e ritenute utili dalla maggior parte dei lettori delle strisce, a prescindere dalla fascia di età, dalla professione esercitata e dal titolo di studio conseguito. Dovendo operare una scelta tra versione con nota e versione adattata della striscia, la preferenza cade generalmente sulla versione adattata quando i giochi di parole o i realia propri della cultura emittente si discostano eccessivamente dalla cultura ricevente e risultano incomprensibili lasciando nel lettore un senso di straniamento. È proprio qui che le note del traduttore trovano un maggiore indice di gradimento da parte dei lettori, che sono disponibili a leggerle  nella quasi totalità dei casi – anche nel fumetto, la cui caratteristica distintiva è l’immediatezza – e che apprezzano la nota come aiuto per la comprensione e come strumento di arricchimento personale in merito alla cultura che è matrice della striscia che si sta leggendo. La versione adattata consiste in soluzioni che risultano comprensibili e divertenti anche se a scapito del senso originale e ha riscosso numerosi apprezzamenti, ma anche la versione completa di note del traduttore ha sempre ottenuto almeno il 20% delle preferenze e in alcuni casi molto di più, fino a raggiungere la maggioranza. Questa grande elasticità nei risultati è in parte dovuta anche alla striscia e al tipo di giochi di parole o realia proposti e, non da ultimo, agli adattamenti o alle note che ne conseguono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamenti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

 

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[1] «Gioco di parole è il nome dato ai numerosi fenomeni testuali in cui le caratteristiche strutturali della lingua utilizzate vengono sfruttate per produrre uno scontro comunicativamente significativo tra due (o più) strutture linguistiche con forme più o meno simili e significati più o meno diversi».

[2] «It is self-evident that, when such idioms are used in comics texts and supported by visual elements, the humorous effect cannot always be recreated in the translation; very frequently, it is only possible to translate the meaning of the text without making a reference to the image. Whenever this happens, at best, the result is a translation that is missing the pun but that makes sense otherwise. At worst, it is a translation that confuses the reader because there is a discrepancy between the words and the images» (Schnetzer 2003:21).

[3] «Translation is a kind of activity which inevitably involves at least two languages and two cultural traditions, i.e., at least two sets of norm-systems on each level» (Toury 1995:56).

[4] «Une note est un énoncé de longueur variable (un mot suffit) relatif à un segment plus ou moins déterminé du texte, et disposé soit en référence à ce segment. Le caractère toujours partiel du texte de référence, et par conséquent le caractère toujours local de l’énoncé  porté en note, me semble le trait formel le plus distinctif de cet élément de paratexte, qui l’oppose entre autres à la préface […]» (Genette 1987:293).

 

[5] Persi in buon libro, anno 2002, p. 21, 22, 23, 78, 79, 216, 274, 275, 277, 278, 281, 282.

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, Language and Culture

SIMONA CLERICI

Université de Strasbourg
Institut de Traducteurs, d’Interprètes et de Relations Internationales
Fondazione Milano
Master in Traduzione

Primo supervisore: Professor Bruno OSIMO
Secondo supervisore: Professoressa Valentina BESI

Master: Arts, Lettres, Langues
Mention: Langues et Interculturalité
Spécialité: Traduction et Interprétation
Parcours: Traduction littéraire
estate 2011

 1987 by The Jakobson Trust; Mouton Publishers 1985
 Clerici Simona per l’edizione italiana 2011

ROMAN JAKOBSON, ON LINGUISTIC ASPECTS OF TRANSLATION, LANGUAGE AND CULTURE

ABSTRACT

Two essays, On Linguistic Aspects of Translation (1959) and Language and Culture (1967), written within eight years of each other by the Russian-born scholar Roman Jakobson, gave new impetus to the theoretical analysis of translation on the basis of the author’s semiotic approach to language. Putting aside the fallacious attempt to find translation equivalents, which used to be the central issue in translation, the notion of “equivalence in difference” implies that translation can always be carried out, regardless of the cultural or grammatical differences between the two languages involved, since any language is able to convey everything. Providing a number of examples comparing mainly the English and Russian grammatical patterns, the author demonstrates that any assumption of untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms because the definition of our experience requires recoding interpretation; that is, translation. This thesis presents a translation into Italian and an analysis of Jakobson’s essays.

Sommario
1. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE 1
2. ANALISI TRADUTTOLOGICA 45
2.1. ROMAN JAKOBSON: 46
UN AMERICANO CON L’INDOLE DELL’EMIGRATO RUSSO 46
2.2. TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE 48
2.3. PECULIARITÀ DEL SAGGIO 50
2.3.1. Un crogiolo di culture 50
2.3.2. Il lettore modello 53
2.3.3. Perdite e compensazioni 54
2.3.3.1. Apparati metatestuali 54
2.4. ANALISI LINGUISTICA ED EXTRALINGUISTICA 57
2.4.1. Differenze tra campi semantici: le scelte lessicali 58
2.4.1.1. Celibate 58
2.4.1.2. Cottage cheese 60
2.4.1.3. Intricacies 62
2.4.1.4. Nurture and nature 64
2.4.1.5. Creative writers 65
2.5. METATESTI A CONFRONTO: 68
PERCHÉ PROPORRE UNA TRADUZIONE DIVERSA DEL SAGGIO 68
ON LINGUISTIC ASPECTS OF TRANSLATION 68
2.6. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 73
3. ERRATA CORRIGE 75

1. TRADUZIONE CON TESTO A FRONTE

On linguistic Aspects of Translation
According to Bertrand Russell, “no one can understand the word ‘cheese’ unless he has a nonlinguistic acquaintance with cheese” (Russell 1950). If, however, we follow Russell’s fundamental precept and place our “emphasis upon the linguistic aspects of traditional philosophical problems,” then we are obliged to state that no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” and if he has at least a linguistic acquaintance with curds. We never consumed ambrosia or nectar and have only a linguistic acquaintance with the words ambrosia, nectar, and gods – the name of their mythical users; nonetheless, we understand these words and know in what contexts each of them may be used.
The meaning of the words cheese, apple, nectar, acquaintance, but, mere, and of any word or phrase whatsoever is definitely a linguistic–or to be more precise and less narrow–a semiotic fact. Against those who assign meaning (signatum) not to the sign, but to the thing itself, the simplest and truest argument would be that nobody has ever smelled or tasted the meaning of cheese or of apple. There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. An array of linguistic signs is needed to introduce an unfamiliar word. Mere pointing will not teach us whether cheese is the name of the given specimen, or of any box of camembert, or of camembert in general or of any cheese, any milk product, any food, any refreshment, or perhaps any box irrespective of contents. Finally, does a word simply name the thing in question, or does it imply a meaning such as offering, sale, prohibition, or malediction? (Pointing actually may mean malediction; in some cultures, particularly in Africa, it is an ominous gesture.)
For us, both as linguists and as ordinary word-users, the meaning of any linguistic

Sugli aspetti linguistici della traduzione
Secondo Bertrand Russell «nessuno può capire la parola “cheese” se non ha un’esperienza non-linguistica del formaggio» (Russell 1950). Se però accettiamo il precetto fondamentale di Russell e mettiamo l’«enfasi sugli aspetti linguistici dei problemi filosofici tradizionali» siamo costretti ad affermare che nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» e se ha almeno un’esperienza linguistica di «latte cagliato». Noi non abbiamo mai assaggiato l’ambrosia o il nettare e abbiamo un’esperienza solo linguistica delle parole «ambrosia» [ambrosia], «nectar» [nettare], e «gods» [dèi] – il nome dei loro mitici consumatori; eppure, capiamo queste parole e sappiamo in quali contesti si può utilizzare ciascuna di esse.
Il significato delle parole «cheese», «apple», «nectar», «acquaintance», «but», «mere» [rispettivamente formaggio, mela, nettare, esperienza, ma, solo] e di qualsiasi parola o frase di qualsiasi tipo è chiaramente un fatto linguistico – o per essere più precisi e meno ristretti – semiotico. Contro chi assegna il significato (signatum) non al segno, ma alla cosa stessa, l’argomentazione più semplice e più vera sarebbe che nessuno ha mai sentito l’odore né il sapore del significato di «cheese» o di «apple». Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale. Per introdurre una parola sconosciuta è necessaria una serie di segni linguistici. Il semplice fatto di indicarla non ci dirà se «cheese» è il nome di quel singolo campione, o di qualsiasi confezione di camembert, o del camembert in generale, o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino, o forse qualsiasi confezione indipendentemente dal contenuto. Insomma, una parola dà semplicemente un nome alla cosa in questione, oppure implica un significato, per esempio, di offerta, vendita, proibizione o maledizione? (Indicare, di fatto, può significare maledizione; in alcune culture, in particolare in Africa, è un gesto di cattivo auspicio.)
Per noi, sia come linguisti sia come normali utenti di parole, il significato di

sign is its translation into some further, alternative sign, especially a sign “in which it is more fully developed” as Peirce, the deepest inquirer into the essence of signs, insistently stated (Dewey 1946). The term “bachelor” may be converted into a more explicit designation, “unmarried man,” whenever higher explicitness is required. We distinguish three ways of interpreting a verbal sign: it may be translated into other signs of the same language, into another language, or into another, nonverbal system of symbols. These three kinds of translation are to be differently labeled:
1. Intralingual translation or rewording is an interpretation of verbal signs by means of other signs of the same language.
2. Interlingual translation or translation proper is an interpretation of verbal signs by means of some other language.
3. Intersemiotic translation or transmutation is an interpretation of verbal signs by means of signs of nonverbal sign systems.
The intralingual translation of a word uses either another, more or less synonymous, word or resorts to a circumlocution. Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate.” A word or an idiomatic phrase-word, briefly a code-unit of the highest level, may be fully interpreted only by means of an equivalent combination of code units, that is, a message referring to this code unit: “every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor,” or “every celibate is bound not to marry, and everyone who is bound not to marry is a celibate.”
Likewise on the level of interlingual translation, there is ordinarily no full equivalence between code units, while messages may serve as adequate interpretations of alien code units or messages. The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr, because cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru I tvorogu (bring cheese and [sic] cottage cheese). In standard Russian, the food made of pressed curds is called syr only if ferment is used.
Most frequently, however, translation from one language into another substitutes

qualsiasi segno linguistico è la sua traduzione in un segno ulteriore, alternativo, in particolare un segno «in cui è più pienamente sviluppato», come affermava insistentemente Peirce, il più profondo indagatore nell’essenza dei segni (Dewey 1946). Il termine «bachelor» [scapolo] si può convertire in una designazione più esplicita, «unmarried man» [uomo non sposato], ogni volta che sia richiesta una maggiore esplicitezza. Si distinguono tre modi di interpretare un segno verbale: si può tradurre in altri segni della stessa lingua, in un’altra lingua, o in un altro sistema, non verbale, di simboli. Questi tre tipi di traduzione devono essere classificati in modo diverso:
1. La traduzione intralinguistica o riverbalizzazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di altri segni della stessa lingua.
2. La traduzione interlinguistica o traduzione vera e propria è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di un’altra lingua.
3. La traduzione intersemiotica o trasmutazione è un’interpretazione di segni verbali per mezzo di segni di sistemi segnici non verbali.
La traduzione interlinguistica di una parola o usa un’altra parola, più o meno sinonima, o ricorre a una circonlocuzione. Però la sinonimia, di norma, non è equivalenza completa: per esempio «every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate». Una parola o una frase idiomatica, insomma un’unità di codice del livello più alto, può essere interpretata pienamente solo per mezzo di una combinazione equivalente di unità di codice, e cioè un messaggio che si riferisce a questa unità di codice: «every bachelor is an unmarried man, and every unmarried man is a bachelor» o «every celibate is bound not to marry and everyone who is bound not to marry is a celibate».
Similmente, a livello di traduzione interlinguistica di norma non c’è piena equivalenza tra diverse unità di codice, mentre i messaggi potrebbero fungere da interpretazioni adeguate di unità di codice o messaggi straneiri. La parola inglese «cheese» non si può identificare completamente con il suo eteronimo russo standard «syr» perché il «cottage cheese» [fiocchi di latte] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte). Nel russo standard l’alimento fatto di latte cagliato pressato si chiama «syr» solo se è un formaggio fermentato.
Spessissimo, comunque, la traduzione da una lingua a un’altra sostituisce

messages in one language not for separate code units but for entire messages in same other language. Such a translation is a reported speech; the translator recodes and transmits a message received from another source. Thus translation involves two equivalent messages in two different codes.
Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. Like any receiver of verbal messages, the linguist acts as their interpreter. No linguistic specimen may be interpreted by the science of language without a translation of its signs into other signs of the same system or into signs of another system. Any comparison of two languages implies an examination of their mutual translatability; widespread practice of interlingual communication, particularly translating activities, must be kept under constant scrutiny by linguistic science. It is difficult to overestimate the urgent need for and the theoretical and practical significance of differential bilingual dictionaries with careful comparative definition of all the corresponding units in their intention and extension. Likewise differential bilingual grammars should define what unifies and what differentiates the two languages in their selection and delimitation of grammatical concepts.
Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaiming the dogma of untranslatability. “Mr. Everyman, the natural logician,” vividly imagined by B. L. Whorf, is supposed to have arrived at the following bit of reasoning: “Facts are unlike to speakers whose language background provides for unlike formulation of them” (Whorf 1956). In the first years of the Russian revolution there were fanatic visionaries who argued in Soviet periodicals for a radical revision of traditional language and particularly for the weeding out of such misleading expressions as “sunrise” or “sunset.” Yet we still use this Ptolemaic imagery without implying a rejection of Copernican doctrine, and we can easily transform our customary talk about the rising and setting sun into a picture of the earth’s rotation simply because any sign is translatable into a sign in which it appears to us more fully developed and precise.
An ability to speak a given language implies an ability to talk about this language.

messaggi in una lingua non per singole unità di codice ma per messaggi completi in un’altra lingua. Una traduzione di questo tipo è un discorso riferito; il traduttore ricodifica e trasmette un messaggio ricevuto da un’altra fonte. Così, la traduzione riguarda due messaggi equivalenti in due codici diversi.
L’equivalenza nella differenza è il problema cardinale della lingua e la preoccupazione primaria della linguistica. Come ogni ricevente di messaggi verbali, il linguista funge da loro interprete. La scienza del linguaggio non potrebbe interpretare nessun campione linguistico senza tradurne i segni in altri segni dello stesso sistema o in segni di un altro sistema. Qualsiasi confronto tra due lingue implica un esame della loro reciproca traducibilità; la pratica diffusa della comunicazione interlinguistica, e in particolare le attività di traduzione, devono essere tenute costantemente sotto osservazione dalla scienza linguistica. È difficile sopravvalutare l’urgente bisogno e il significato teorico e pratico di dizionari bilingui differenziali con un’accurata definizione comparativa di tutte le unità corrispondenti nella loro intensione ed estensione. Similmente, grammatiche bilingui differenziali dovrebbero definire che cosa unifica e che cosa differenzia le due lingue nella loro selezione e delimitazione dei concetti grammaticali.
Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono assai intricate, e di tanto in tanto si fa qualche tentativo di spezzare il nodo gordiano proclamando il dogma dell’intraducibilità. «Il signor Chiunque, il logico naturale» uscito dalla vivida immaginazione di B. L. Whorf, dovrebbe essere arrivato al seguente ragionamento: «I fatti sono diversi per i parlanti il cui background linguistico ne fa dare una formulazione diversa» (Whorf 1956). Durante i primi anni della Rivoluzione russa alcuni fanatici visionari dibattevano sui periodici sovietici per ottenere una revisione radicale della lingua tradizionale e in particolare per sradicare espressioni fuorvianti come il sorgere e il tramontare del sole. Eppure noi usiamo ancora questo immaginario tolemaico senza che ciò implichi il rifiuto della dottrina copernicana, e possiamo facilmente trasformare il nostro parlare abituale del sole che sorge e tramonta in un’immagine della rotazione terrestre semplicemente perché qualsiasi segno è traducibile in un segno nel quale ci sembra più pienamente sviluppato e preciso.
La facoltà di parlare una data lingua implica la facoltà di parlare a proposito di

Such a metalinguistic operation permits revision and redefinition of the vocabulary used. The complementarity of both levels – object language and metalanguage – was brought out by Niels Bohr: all well-defined experimental evidence must be expressed in ordinary language, “in which the practical use of every word stands in complementary relation to attempts of its strict definition” (Bohr 1948).
All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology may be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions. Thus in the newborn literary language of the Northeast Siberian Chukchees, “screw” is rendered as “rotating nail,” “steel” as “hard iron,” “tin” as “thin iron,” “chalk” as “writing soap,” “watch” as “hammering heart.” Even seemingly contradictory circumlocutions, like “electrical horsecar” (èlektričeskaja konka), the first Russian name of the horseless streetcar, or “flying steamship” (jeha paraqot), the Koryak term for the airplane, simply designate the electrical analogue of the horsecar and the flying analogue of the steamer and do not impede communication, just as there is no semantic “noise” and disturbance in the double oxymoron—“cold beef-and-pork hot dog.”
No lack of grammatical device in the language translated into makes impossible a literal translation of the entire conceptual information contained in the original. The traditional conjunctions “and,” “or” are now supplemented by a new connective“and/or”—which was discussed a few years ago in the witty book Federal Prose—How to Write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Of these three conjunctions, only the latter occurs in one of the Samoyed languages (Bergsland 1949). Despite these differences in the inventory of conjunctions, all three varieties of messages observed in “federal prose” may be distinctly translated both into traditional English and into this Samoyed language. Federal prose: (1) John and Peter, (2) John or Peter, (3) John and/ or Peter will come. Traditional English: (3) John and Peter or one of them will come. Samoyed: (1) John and/ or Peter, both will come, (2) John and/ or Peter, one of them will come.
If some grammatical category is absent in a given language, its meaning may be translated into this language by lexical means. Dual forms like Old Russian brata are

questa lingua. Tale operazione “metalinguistica” permette la revisione e la ridefinizione del vocabolario usato. La complementarità di entrambi i livelli – linguaggio-oggetto e metalinguaggio – è stata messa in luce da Niels Bohr: ogni evidenza sperimentale ben definita deve essere espressa nella lingua ordinaria, «nella quale l’uso pratico di ogni parola sta in una relazione complementare con i tentativi della sua rigida definizione» (Bohr 1948).
Tutta l’esperienza cognitiva e la sua classificazione è trasponibile in qualsiasi lingua esistente. Quando vi sia una deficienza, è possibile qualificare e amplificare la terminologia mediante prestiti o traduzioni di prestiti, mediante neologismi o cambiamenti semantici e, infine, mediante circonlocuzioni. Così, nella neonata lingua letteraria dei ciukci della Siberia nordorientale, «vite» diventa «chiodo rotante», «acciaio» «ferro duro», «latta» «ferro sottile», «gesso» «sapone che scrive», «orologio» «cuore martellante». Persino le circonlocuzioni apparentemente contraddittorie, come «tram a cavalli elettrico» («èlektričeskaja konka»), il primo nome russo del tram senza cavalli, o «nave a vapore volante» («jena paragot»), il termine coriaco per l’aeroplano, designano semplicemente l’analogo elettrico del tram a cavalli e l’analogo volante della nave a vapore e non impediscono la comunicazione, allo stesso modo in cui non c’è “rumore” semantico o disturbo nel doppio ossimoro «cold beef-and-pork hot dog».
Nessuna categoria grammaticale mancante nella lingua verso la quale si traduce rende impossibile una traduzione letterale dell’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate da un nuovo connettivo – «and/or» [e/o] – di cui si è discusso qualche anno fa con arguzia nel libro Federal Prose – How to write in and/or for Washington (Masterson, Wendell Brooks 1948). Di queste tre congiunzioni, in una lingua samoieda esiste solo l’ultima (Bergsland 1949). Nonostante le differenze nell’inventario delle congiunzioni, tutte e tre le varietà di messaggi osservate nella “prosa federale” possono essere tradotte distintamente sia verso l’inglese tradizionale sia verso la lingua samoieda in questione. Prosa federale: 1) John and Peter, 2) John or Peter, 3) John and/or Peter will come. Inglese tradizionale: 3) John and Peter or one of them will come. Samoiedo: 1) John e/o Peter verranno entrambi, 2) John e/o Peter, uno dei due verrà.
Se una data lingua manca di una categoria grammaticale, il suo significato si può tradurre in questa lingua con mezzi lessicali. Le forme duali come «brata» in russo

translated with the help of the numeral: “two brothers.” It is more difficult to remain faithful to the original when we translate into a language provided with a certain grammatical category from a language devoid of such a category. When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers”—“She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities—brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother.
As Franz Boas neatly observed, the grammatical pattern of a language (as opposed to its lexical stock) determines those aspects of each experience that must be expressed in the given language: “We have to choose between these aspects, and one or the other must be chosen” (Boas 1938). In order to translate accurately the English sentence I hired a worker, a Russian needs supplementary information, whether this action was completed or not and whether the worker was a man or a woman, because he must make his choice between a verb of completive or noncompletive aspect—nanjal or nanimal—and between a masculine and feminine noun—rabotnika or rabotnicu. If I ask the utterer of the English sentence whether the worker was male or female, my question may be judged irrelevant or indiscreet, whereas in the Russian version of this sentence an answer to this question is obligatory. On the other hand, whatever the choice of Russian grammatical forms to translate the quoted English message, the translation will give no answer to the question of whether I hired or have hired the worker, or whether he/she was an indefinite or definite worker (a or the). Because the information required by the English and Russian grammatical pattern is unlike, we face quite different sets of two-choice situations; therefore a chain of translations of one and the same isolated sentence from English into Russian and vice-versa could entirely deprive such a message of its initial content. The Geneva linguist S. Karcevskij used to compare such a gradual loss with a circular series of unfavorable currency transactions. But evidently the richer the context of a message, the smaller the loss of information.

antico si traducono con l’aiuto dei numerali: «due fratelli». È più difficile restare fedeli all’originale quando si traduce verso una lingua che dispone di una certa categoria grammaticale da una lingua che manca di tale categoria. Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli». Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» [fratello] o «brothers» [fratelli], o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «She has either one or more than one brother» [Lei ha uno o più fratelli].
Come ha acutamente osservato Boas, il modello grammaticale di una lingua (diversamente dal suo bagaglio lessicale) determina quali aspetti di ogni esperienza devono essere espressi in quella data lingua: «Dobbiamo scegliere tra questi aspetti, e uno o l’altro va scelto» (Boas 1938). Per tradurre correttamente la frase inglese «I hired a worker» [Ho assunto un/ un’ operaio/ a] a un russo occorrono altre informazioni: se questa azione è stata completata o no e se l’operaio era uomo o donna, perché deve effettuare la scelta tra un verbo di aspetto perfettivo o imperfettivo – «nanjal» o «nanimal» – e tra un nome maschile o femminile – «rabotnika» o «rabotnicu». Se chiedessi a chi ha pronunciato la frase inglese se l’operaio in questione era un uomo o una donna, la mia domanda potrebbe essere reputata irrilevante o indiscreta, mentre nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo. D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre il messaggio inglese in questione, la traduzione non darà risposta alla domanda se «I hired» o «I have hired» il lavoratore, o se lui/ lei era una persona indefinita o definita («a» [un/ un’] o «the» [il/ l’]). Dato che le informazioni richieste dal modello grammaticale inglese e russo sono diverse, ci troviamo di fronte a sequenze completamente discordanti di situazioni ambigue; perciò più traduzioni a catena di una stessa frase dall’inglese verso il russo e viceversa potrebbero svuotare completamente del contenuto iniziale un messaggio del genere. Il linguista ginevrino S. Karcevski paragonò questa perdita graduale a una serie circolare di transazioni finanziarie sfavorevoli. Ma evidentemente, più è ricco il contesto di un messaggio, minore è la perdita di informazioni.

Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey. Each verb of a given language imperatively raises a set of specific yes-or-no questions, as for instance: is the narrated event conceived with or without reference to its completion? is the narrated event presented as prior to the speech event or not? Naturally the attention of native speakers and listeners will be constantly focused on such items as are compulsory in their verbal code.
In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations—the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms. But in jest, in dreams, in magic, briefly, in what one would call everyday verbal mythology, and in poetry above all, the grammatical categories carry a high semantic import. In these conditions, the question of translation becomes much mare entangled and controversial.
Even such a category as grammatical gender, often cited as merely formal, plays a great role in the mythological attitudes of a speech community. In Russian the feminine cannot designate a male person, nor the masculine specify a female. Ways of personifying or metaphorically interpreting inanimate nouns are prompted by their gender. A test in the Moscow Psychological Institute (1915) showed that Russians, prone to personify the weekdays, consistently represented Monday, Tuesday, and Thursday as males and Wednesday, Friday, and Saturday as females, without realizing that this distribution was due to the masculine gender of the first three names (ponedel’nik, vtornik, četverg) as against the feminine gender of the others (sreda, pjatnica, subbota). The fact that the word for Friday is masculine in some Slavic languages and feminine in others is reflected in the folk traditions of the corresponding peoples, which differ in their Friday ritual. The widespread Russian superstition that a fallen knife presages a male guest and a fallen fork a female one is determined by the masculine gender of nož (knife) and the feminine of

Le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere. Ogni verbo di una data lingua pone imperativamente una serie di domande che prevedono le risposte sì o no, come per esempio: l’evento narrato è concepito facendo riferimento al suo compimento oppure no? L’evento narrato è presentato come antecedente all’atto discorsuale oppure no? Naturalmente l’attenzione sia attiva che passiva dei madrelingua è costantemente focalizzata sulle parti obbligatorie nel loro codice verbale.
Nella sua funzione cognitiva la lingua dipende solo in minima parte dal modello grammaticale perché la definizione della nostra esperienza è in relazione complementare alle operazioni metalinguistiche – il livello cognitivo della lingua non solo ammette, ma richiede immediatamente un’interpretazione ricodificante, e cioè, una traduzione. Qualsiasi presunzione di ineffabilità o intraducibilità dei dati cognitivi sarebbe una contraddizione in termini. Ma negli scherzi, nei sogni, nella magia, insomma, in ciò che si potrebbe chiamare mitologia verbale quotidiana e soprattutto nella poesia, le categorie grammaticali hanno una forte rilevanza semantica. In queste condizioni, la questione della traduzione diventa molto più intricata e controversa.
Anche una categoria come il genere grammaticale, spesso ritenuta meramente formale, riveste un ruolo importante negli atteggiamenti mitologici di una comunità discorsuale. In russo il femminile non può designare una persona di sesso maschile, né il maschile può specificare una persona di sesso femminile. I modi di personificare o interpretare metaforicamente nomi inanimati sono suggeriti dal genere. Uno studio condotto presso l’Istituto psicologico di Mosca (1915) ha mostrato che i russi, inclini a personificare i giorni della settimana, rappresentavano costantemente il lunedì, il martedì e il giovedì come maschi e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femmine, senza rendersi conto che questa distinzione fosse dovuta al genere maschile dei primi tre nomi («ponedel’nik», «vtornik», «četverg») e, al contrario, al genere femminile degli altri («sreda», «pjatnica», «subbota»). Il fatto che la parola che sta per «venerdì» sia maschile in alcune lingue slave e femminile in altre si riflette nelle tradizioni folcloriche dei popoli corrispondenti, che differiscono nel rituale del venerdì. La diffusa superstizione russa secondo cui un coltello che cade è presagio di un ospite maschile e una forchetta che cade di uno femminile è determinata dal genere maschile di «nož» (coltello) e da quello

vilka (fork) in Russian. In Slavic and other languages where “day” is masculine and “night” feminine, day is represented by poets as the lover of night. The Russian painter Repin was baffled as to why Sin had been depicted as a woman by German artists: he did not realize that “sin” is feminine in German (die Sünde), but masculine in Russian (grex). Likewise a Russian child, while reading a translation of German tales, was astounded to find that Death, obviously a woman (Russian smert’, fem.), was pictured as an old man (German der Tod, masc.). My Sister Life, the title of a book of poems by Boris Pasternak, is quite natural in Russian, where “life” is feminine (žizn’), but was enough to reduce to despair the Czech poet Josef Hora in his attempt to translate these poems, since in Czech this noun is masculine (život).
What was the initial question which arose in Slavic literature at its very beginning? Curiously enough, the translator’s difficulty in preserving the symbolism of genders, and the cognitive irrelevance of this difficulty, appears to be the main topic of the earliest Slavic original work, the preface to the first translation of the Evangeliarium, made in the early 860s by the founder of Slavic letters and liturgy, Constantine the Philosopher, and recently restored and interpreted by A. Vaillant (Vaillant 1948). “Greek, when translated into another language, cannot always be reproduced identically, and that happens to each language being translated,” the Slavic apostle states. “Masculine nouns like potamos ‘river’ and astēr ‘star’ in Greek, are feminine in another language like rěka and zvězda in Slavic.” According to Vaillant’s commentary, this divergence effaces the symbolic identification of the rivers with demons and of the stars with angels in the Slavic translation of two of Matthew’s verses (7:25 and 2:9). But to this poetic obstacle, Constantine resolutely opposes the precept of Dionysius the Areopagite, who called for chief attention to the cognitive values (silě razumu) and not to the words themselves.
In poetry, verbal equations become a constructive principle of the text. Syntactic and morphological categories, roots, and affixes, phonemes and their components (distinctive features)—in short, any constituents of the verbal code—are confronted, juxtaposed, brought into contiguous relation according to the principle of similarity and contrast and carry their own autonomous signification.

femminile di «vilka» (forchetta) in russo. Nelle lingue slave e nelle altre in cui «giorno» è maschile e «notte» è femminile, il giorno è rappresentato dai poeti come l’amante della notte. Il pittore russo Repin era perplesso di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come una donna: non si era reso conto che «peccato» è femminile in tedesco («die Sünde»), ma maschile in russo («grex»). Similmente, un bambino russo, leggendo alcune fiabe tedesche tradotte, si stupì nel vedere che Morte, ovviamente una donna (in russo «smert’», femm.) fosse ritratta come un vecchio (in tedesco «der Tod», masch.). Mia sorella la vita, il titolo di un libro di poesie di Boris Pasternak, è del tutto naturale in russo, dove «vita» è femminile («žizn’»), ma bastò per portare alla disperazione il poeta ceco Josef Hora nel tentativo di tradurre queste poesie, dal momento che in ceco questo nome è maschile («život»).
Quale fu il primo problema che emerse nella letteratura slava ai suoi albori? Piuttosto curiosamente, la difficoltà del traduttore nel preservare il simbolismo dei generi, e l’irrilevanza cognitiva di questa difficoltà, sembrano essere l’argomento principale della prima opera originale slava, la prefazione alla prima traduzione dell’Evangeliario, fatta poco dopo l’860 dal fondatore delle lettere e della liturgia slava, Costantino il Filosofo, e recentemente riportata alla luce e interpretata da André Vaillant (Vaillant 1948). «Il greco, quando è tradotto verso un’altra lingua, non si può sempre riprodurre in modo identico, e questo accade a ogni lingua che viene tradotta» afferma l’apostolo del mondo slavo. «I nomi maschili in greco come “potamos” (fiume) e “aster” (stella) sono femminili in un’altra lingua come “rěka” e “zvězda” in slavo». Secondo il commentario di Vaillant, questa divergenza cancella l’identificazione simbolica dei fiumi con i demoni e delle stelle con gli angeli nella traduzione slava di due versi di Matteo (7:25 e 2:9). Ma a questo ostacolo poetico, Costantino oppone con risolutezza il precetto di Dionigi l’Areopagita, che richiamava l’attenzione principale sui valori cognitivi («silě razumu») e non sulle parole stesse.
In poesia, le equazioni verbali diventano un principio costitutivo del testo. Le categorie sintattiche e morfologiche, le radici, e gli affissi, i fonemi e i loro componenti (tratti distintivi) – in breve, qualsiasi cosa costituisca il codice verbale – vengono confrontati, giustapposti, messi in relazioni contigue secondo il principio della somiglianza e del contrasto e sono dotati di una loro significazione autonoma. La

Phonemic similarity is sensed as semantic relationship. The pun, or to use a more erudite, and perhaps more precise term—paronomasia, reigns over poetic art, and whether its rule is absolute or limited, poetry by definition is untranslatable. Only creative transposition is possible: either intralingual transposition—from one poetic shape into another, or interlingual transposition—from one language into another, or finally intersemiotic transposition—from one system of signs into another, (from verbal art into music, dance, cinema, or painting).
If we were to translate into English the traditional formula Traduttore, traditore as “the translator is a betrayer,” we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? betrayer of what values?

Written in 1958 in Cambridge, Mass., and published in the book On Translation (Harvard University Press, 1959).

somiglianza fonemica è percepita come relazione semantica. Il gioco di parole, o per usare un termine più erudito, e forse più preciso, la paronomasia, regna sull’arte poetica, e, che il suo dominio sia assoluto o limitato, la poesia è per definizione intraducibile. Solo una trasposizione creativa è possibile: la trasposizione intralinguistica – da una forma poetica in un’altra, o la trasposizione interlinguistica – da una lingua in un’altra – o infine la trasposizione intersemiotica – da un sistema segnico in un altro (dall’arte verbale alla musica, alla danza, al cinema o alla pittura).
Se dovessimo tradurre verso l’inglese la formula tradizionale italiana «Traduttore traditore» come «The translator is a betrayer» priveremmo l’epigramma in rima di tutto il suo valore paronomastico. Quindi, un atteggiamento cognitivo ci costringerebbe a trasformare questo aforisma in un’affermazione più esplicita e a rispondere alle domande: traduttore di quali messaggi? Traditore di quali valori?

Scritto a Cambridge, Mass., nel 1958, e pubblicato nel volume On translation (Harvard University Press, 1959).

Language and Culture
The two speeches which have just been delivered are the first lectures in Japanese which I have heard in my life, and I shall tell you exactly what my feeling was. Around 1910, in my Moscow high-school years, I saw and heard a remarkable Japanese actress from Tokyo, Hanako. She ravished the Russian audience, was extolled by avant-garde writers and sketched by modern painters. I was deeply impressed by her performance and recounted to my parents her talks and monologues. Surprised by their question — “But what was her language?” — I answered, “Of course, it was Japanese, but we did understand it.” This is exactly what I can add to the clear-cut assertion of Professor Tsurumi.
What is needed in order to grasp the language of another? — One must have a keen feeling of intelligibility, an intuition of solidarity between the speaker and listener, and their joint belief in the capability of the message to go through, a capability which, in Russian, has found a felicitous label, doxodčivost’. If one longs for communication with his fellow man, the first step toward mutual comprehension is ensured. Because what is language? Language is overcoming of isolation in space and time. Language is a struggle against isolationism. And this fight occurs not only within the limits of an ethnic language, where people try to adjust to each other, and to understand each other within the bounds of family, town, or country; a similar striving also takes place on a bilingual or multilingual, international scale. One feels a powerful desire to understand each other. A palpable specimen is the example of neighboring Norwegian and Russian fishermen, who, during decades, or perhaps even centuries, met together for joint work and thus elaborated a common language which was called — Russians thought the label is Norwegian, and Norwegians, that this term is Russian — briefly, the common verbal code was named moyapåtvoya, which, in a Scandinavian shaping of Russian, means “mine in your way”. This may serve as a foreword to the topic of my paper.
Four decades ago, when the First International Congress of Linguists met in The Hague, all of us were struggling for the autonomy of linguistics, namely for the elaboration of its own specific methods and devices, and the very important task was to

Lingua e cultura
I due discorsi appena tenuti sono le prime conferenze in giapponese che io abbia mai ascoltato in vita mia, e vi dirò esattamente che sensazione ho provato. Attorno al 1910, all’epoca in cui frequentavo le scuole superiori a Mosca, ho visto e sentito parlare una notevole attrice giapponese di Tokio, Hanako. Rapì il pubblico russo, fu lodata da alcuni scrittori d’avanguardia e alcuni pittori moderni ne fecero degli schizzi. Io fui profondamente colpito dal suo spettacolo e ne raccontai discorsi e monologhi ai miei genitori. Sorpreso dalla loro domanda – «Ma in che lingua parlava?» – risposi: «In giapponese, naturalmente, ma lo capivamo». Questo è esattamente ciò che posso aggiungere all’affermazione esplicita del Professor Tsurumi.
Che cosa serve per cogliere la lingua altrui? – Bisogna sentire con chiarezza che c’è intelligibilità, intuire la solidarietà tra chi parla e chi ascolta e credere insieme che il messaggio possa passare, potenzialità che, in russo, ha trovato una definizione felice, «doxodčivost». Se si desidera comunicare con un altro essere umano, il primo passo verso la comprensione reciproca è assicurato. Perché, che cos’è il linguaggio? Il linguaggio è la vittoria sull’isolamento nello spazio e nel tempo. Il linguaggio è una lotta contro l’isolazionismo. E questa battaglia non avviene solo all’interno dei limiti di una lingua etnica, dove le persone provano ad adattarsi le une alle altre, e a capirsi a vicenda all’interno dei confini della famiglia, della città o della nazione; una tensione simile ha luogo anche su scala internazionale, bilingue o multilingue. Si avverte un forte desiderio di capirsi reciprocamente. Un caso concreto è l’esempio dei pescatori confinanti della Russia e della Norvegia, che, per decenni, o forse anche secoli, si incontravano per lavorare insieme ed elaborarono così un linguaggio comune che fu chiamato – i russi pensavano che il nome fosse norvegese, e i norvegesi che il termine fosse russo – insomma, questo codice verbale comune fu chiamato «moyapåtvoya», che, in una distorsione scandinava del russo, significa «mio a modo tuo». Ciò potrebbe fungere da prefazione al tema del mio intervento.
Quarant’anni fa, in occasione del Primo congresso internazionale dei linguisti a L’Aia, tutti noi ci battemmo per l’autonomia della linguistica, e cioè per l’elaborazione di tecniche e metodi specifici, e il compito più importante era quello di trovare e mostrare

find out and to show where are the boundaries of linguistic science and what are the questions to which linguists must, and only linguists actually can, give an answer. Now, when we are near to the Tenth Congress of Linguists, which will begin in Bucharest at the end of this August, we stand before a completely different problem. At present, it is no longer the slogan of autonomy, but a program of integration, a plan of interdisciplinary relations, the problem of creative cooperation between diverse sciences. It is the problem of harmonious coordination for constructing a joint scientific domain, a science of mankind, and — in a far wider scope — a general science of life. Of course, integration implies autonomy, but, as it was once more neatly emphasized here by my dear friend, Professor Shirô Hattori, integration implies autonomy and excludes isolationism, because any isolationism harms our cultural life and our life in general. Obviously, there is no real integration without an autonomy which takes into account the necessity of intrinsic laws for every partial field and every discipline. There is another foe of these two creative ideas, autonomy and integration. The other dread enemy beside isolationism is heteronomy, or — if you permit me to translate this somewhat technical term into the vocabulary currently used by the newspapers — it is “colonialism” that we have to combat. Autonomy and integration: always welcome; isolationism and colonialism: henceforth inadmissible.
Now, what is the problem of language and culture? These two concepts are to be viewed in their interconnection. Then, first and foremost, what should we have in mind: language and culture or language in culture? Can we consider language as a part, as a constituent of culture, or is language something different, separate from culture? I know, many in the audience would like to ask: well, but how would one define culture? There are so many definitions, and an entire voluminous book was devoted by two outstanding American anthropologists, Kluckhohn and Kroeber, to the multifarious definitions of culture, their detailed list and discussion (Kluckhohn, Kroeber 1952). We may choose a very simple, operational definition, proposed in the instructive book Human Evolution by the biologist Campbell: “Culture is the totality of behavior patterns that are passed between generations by learning, socially determined behavior learned by imitation and instruction” (Campbell 1967). I think, one can agree with this emphasis on imitation and

dove fossero i confini della linguistica e quali fossero le domande alle quali i linguisti devono, e a cui di fatto solo i linguisti possono, dare una risposta. Ora che siamo vicini al «Decimo congresso dei linguisti», che comincerà a Bucarest alla fine di agosto, ci troviamo di fronte a un problema completamente diverso. Oggi non c’è più lo slogan dell’autonomia, ma un programma di integrazione, un progetto di relazioni interdisciplinari, il problema della cooperazione creativa tra scienze diverse. È il problema di un coordinamento armonioso per costruire un campo scientifico comune, una scienza dell’umanità, e – in un’ottica molto più vasta – una scienza generale della vita. Naturalmente l’integrazione implica l’autonomia, ma, come è già stato enfatizzato una volta con più decisione da un mio caro amico, il Professor Shirô Hattori, l’integrazione implica l’autonomia ed esclude l’isolazionismo, perché qualunque tipo di isolazionismo nuoce alla nostra vita culturale e alla nostra vita in generale. Ovviamente non c’è vera integrazione senza un’autonomia che tenga in considerazione la necessità di leggi intrinseche a ogni ramo parziale e a ogni disciplina. C’è un altro rivale di queste due idee creative, autonomia e integrazione. L’altro acerrimo nemico insieme all’isolazionismo è l’eteronimia, o – se mi consentite di tradurre questo termine, piuttosto tecnico, nel vocabolario usato normalmente dai giornali – è il “colonialismo” che va combattuto. Autonomia e integrazione: sempre gradite; isolazionismo e colonialismo: d’ora in poi inammissibili.
Ma qual è il problema della lingua e della cultura? Questi due concetti devono essere visti nelle loro reciproche relazioni. Inoltre, prima di tutto, che cosa dobbiamo avere in mente? Lingua e cultura o lingua nella cultura? Possiamo considerare la lingua come una parte, un costituente della cultura, o la lingua è qualcosa di diverso, di separato dalla cultura? Lo so, molti tra il pubblico vorrebbero chiedere: sì, ma come si potrebbe definire la cultura? Ne esistono tantissime definizioni, e due antropologi americani, Kluckhohn e Kroeber, hanno dedicato un intero volume alle molteplici definizioni di cultura, al loro elenco dettagliato e alla loro discussione (Kluckhohn, Kroeber 1952). Potremmo scegliere una definizione molto semplice e operativa, proposta nell’istruttivo libro Storia Evolutiva dell’uomo del biologo Campbell: «La cultura è la totalità dei modelli comportamentali trasmessi per apprendimento di generazione in generazione, un comportamento socialmente determinato appreso per imitazione e istruzione» (Campbell 1967). Penso

instruction as the basic cultural devices. But there is one gap in the passage cited and Professor Tsurumi’s lecture showed what the gap is: the diffusion of culture takes place not only in time but also in space. Learned solidarity of contemporaries cannot be disregarded. Yet if we accept the standpoint that cultural values are transmitted by learning, then what is to be said about language? Is it a cultural fact? Evidently language is transmitted by learning, and of course the acquisition of the child’s first language implies a learning contact between the infant and his parents or adults in general. If, moreover, one has to learn a second or further language, it requires a relation between people who learn one from the other. Among the definitions of culture current in anthropological literature, we also find an assertion that the principal way of diffusion for cultural goods is through the word, through the medium of language. Does this statement apply also to language itself? Of course, language is learned through the medium of language, and the child learns new words by comparing them with other words, by identifying and differentiating the new and previously acquired verbal constituents. According to the precise formula of the great American thinker Charles Sanders Peirce, verbal symbol originates from verbal symbol. Such is the way of language development.
If we define language as a cultural phenomenon, a very serious question immediately arises. In culture, we deal with the relevant notion of progress. I hardly need to add that any idea of straightforward progress is a bewildering oversimplification. We find most various and whimsical curves, and if we confront, for instance, the poetry of Dante and the pictorial masterpieces of the Italian 14th and 15th centuries with Italy’s poetry or art of the recent epochs, we could hardly view the 19th century as thoroughly advanced in comparison with works of the trecento. Many other striking examples could be adduced. When contemplating the fascinating Franco-Cantabrian cave paintings of beasts and hunters produced in the paleolithic period, sometimes we cannot but state how much more impressive and monumental they are than the so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers. These observations, however, do not imply any denial of progress. In the history of art, we deal

che si possa essere d’accordo con l’enfasi posta sull’imitazione e sull’istruzione come meccanismi culturali di base. Ma c’è una lacuna nel passaggio citato e la conferenza del professor Tsurumi ha mostrato di quale lacuna si tratta: la diffusione della cultura ha luogo non solo nel tempo ma anche nello spazio. Non si può trascurare la solidarietà appresa dei contemporanei. Eppure, se accettiamo l’idea che i valori culturali si trasmettono per apprendimento, cosa dire allora della lingua? È un fatto culturale? È evidente che la lingua si trasmette per apprendimento e ovviamente l’acquisizione della prima lingua da parte del bambino implica un contatto di apprendimento tra il neonato e i genitori o gli adulti in generale. Se, inoltre, si deve imparare una seconda o ulteriore lingua, è necessaria una relazione tra persone che imparano le une dalle altre. Fra le definizioni di cultura diffuse nella letteratura antropologica, si dice anche che è attraverso la parola che si diffondono maggiormente le merci culturali, per mezzo della lingua. Questa affermazione vale anche per la lingua stessa? Certo, la lingua si impara per mezzo della lingua, e il bambino impara le parole nuove confrontandole con altre parole, identificando e differenziando i nuovi costituenti verbali e quelli precedentemente acquisiti. Secondo la precisa formulazione del grande pensatore americano Charles Sanders Peirce, il simbolo verbale si origina dal simbolo verbale. È questo il modo in cui avviene lo sviluppo della lingua.
Se definiamo la lingua come fenomeno culturale, sorge immediatamente una questione molto seria. Nella cultura si ha a che fare con l’importante concetto di progresso. Non c’è bisogno di aggiungere che qualsiasi idea di progresso diretto è una semplificazione eccessiva che può disorientare. Vi si trovano le curve più diverse e inaspettate, e se confrontiamo, per esempio, la poetica di Dante e i capolavori pittorici del Trecento e del Quattrocento italiano con la poesia e l’arte italiana delle epoche recenti, faremmo fatica a considerare l’Ottocento veramente avanzato rispetto alle opere del Trecento. E di esempi così lampanti se ne potrebbero citare molti altri. Quando si contemplano le affascinanti pitture rupestri franco-cantabriche di animali e cacciatori risalenti al paleolitico, qualche volta non possiamo far altro che constatare quanto siano più impressionanti e monumentali delle cosiddette tele realistiche dell’Europa moderna, e, in particolare, dell’arte officiale dei suoi poteri autoritari. Queste osservazioni, comunque, non implicano alcuna negazione del progresso. Nella storia dell’arte abbiamo a che fare

with a progressively developing differentiation, technical innovations, etc. Similar conclusions on gradual sophistication may be made in the history of sciences, where, likewise, no straightforward line of development can be admitted. For instance, I recollect what was said to me by the greatest specialist of our time in questions of hearing, Professor G. von Békésy, who experienced a lively pleasure when reading Latin acoustical treatises of the 16th and 17th centuries where, despite the immense technical progress of modern acoustics, he used to detect some ideas of a higher refinement; with an affable smile he added: “It is not at all surprising; Stradivarius was made, not today, but just then.” Similar things could be stated on diverse scientific, for example, linguistic problems; certain branches, especially semantics, were in some respects more deeply conceived and elaborated during the Middle Ages than at present. Nonetheless, we must not forget those general lines of development which lead us still farther and farther and open ever new vistas.
Now let us approach language itself. Vocabulary may become richer and more adapted to the newer and more complex culture. The same with phraseology and with the diversity and variability of verbal styles. But in the grammatical system, morphological and syntactic, and in the whole sound pattern, no progress whatever has been detected. We can compare languages of the most cultivated nations with those of the socalled primitive peoples and we observe analogies and parallels between the former and the latter both in their grammatical processes and concepts: morphological categories and subclasses; structure of phrases, clauses, and sentences. All attempts of diverse linguists to find here traces of progress, and divergences between peoples of different cultural levels in the grammatical and phonological structure of their languages remained vain.
Occasionally, the question was raised whether that Samoyed language which has only one conjunction, in correspondence with our two conjunctions “and” and “or”, does not reflect a more primitive ethnic mind. However, a written variety of American English has recently developed a synthetic conjunction “and/or”, which is often considered a quite useful cultural tool. Now let us discuss whether a language which has merely one conjunction “and/or” instead of our two conjunctions “and” and “or” is impoverished in

con una differenziazione che si sta progressivamente sviluppando, con innovazioni tecniche, eccetera. Si possono trarre conclusioni simili a proposito di una graduale sofisticazione nella storia delle scienze, dove, anche in questo caso, non si può ammettere un andamento diretto dello sviluppo. Per esempio, ricordo ciò che mi è stato detto dal maggior specialista del nostro tempo per le questioni di udito, il Professor G. von Békésy, che provava grande soddisfazione nel leggere i trattati latini di acustica del sedicesimo e diciassettesimo secolo in cui, a dispetto dell’immenso progresso tecnico dell’acustica moderna, individuava alcune idee di maggior raffinatezza; con un sorriso affabile aggiunse: «La cosa non sorprende affatto; lo Stradivari si faceva all’epoca, non oggi». Considerazioni simili si potrebbero fare a proposito di diversi problemi scientifici, per esempio linguistici. Alcune branche, soprattutto la semantica, erano sotto certi punti di vista concepite ed elaborate molto più a fondo durante il Medioevo di quanto non lo siano oggi. Eppure, non vanno dimenticate quelle linee di sviluppo generali che ci conducono ancora più lontano aprendoci prospettive sempre nuove.
Ora avviciniamoci alla lingua in senso stretto. Il vocabolario può diventare più ricco e adattarsi maggiormente a una cultura più nuova e più complessa. Vale lo stesso per la fraseologia e la diversità e variabilità degli stili verbali. Ma nel sistema grammaticale, morfologico e sintattico, e nell’intero schema sonoro, non è stato individuato nessun progresso. Possiamo mettere a confronto le lingue delle nazioni culturalmente più avanzate con quelle dei cosiddetti popoli primitivi e osservarne analogie e paralleli sia nei processi sia nei concetti grammaticali: le categorie e le sottoclassi morfologiche; la struttura di proposizioni e frasi. Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso e divergenze tra popoli di diversi livelli culturali nella struttura grammaticale e fonologica delle loro lingue sono rimasti vani.
Ogni tanto qualcuno si è chiesto se quella lingua samoieda che dispone di una sola congiunzione corrispondente alle nostre due congiunzioni «and» [e] e «or» [o] non riflettesse una mente etnica più primitiva. Comunque, una varietà scritta di inglese americano ha di recente sviluppato una congiunzione sintetica «and/or» che è spesso considerata uno strumento culturale molto utile. Esaminiamo ora se una lingua che abbia una sola congiunzione «and/or» al posto delle nostre due congiunzioni «and» e «or» sia

its communicative means. Not at all! Everything can be expressed. If in this type of Samoyed language one says that “father and/or mother, one of them, will come”, we know that or is meant. If, however, the native says that “father and/or mother, both of them, will come”, then obviously and is the key: again, there is no annoying ambiguity in the message. The grammatical structure never does prevent the speaker from conveying the most complex and most exact information. If we venture to translate Albert Einstein’s or Bertrand Russell’s books into Bushmen or Gilyak languages, this task is perfectly achievable, whatever the grammatical structure of the given vernacular. Only its vocabulary must be enriched and adapted to the needs of a new scientific terminology. However, any new scientific or technical branch requires similar terminological reforms, adjustments, and innovations in languages of our civilization as well. Thus, for instance, such new fields as molecular genetics or quantum theory have generated their own, completely new dictionary, whereas the phonology, morphology, and syntax are pliable to any cultural need, with no request for modifications.
Still, there is the problem of explaining why no progress is seen in the phonological and grammatical structure of languages. The penetrating linguist Nikolaj Trubetzkoy told me once: “We should not forget that, in the age between two and five years, when we acquire the fundamentals of phonology and grammar, we do not belong to any adult culture, and the cultural level of the children’s environment plays no substantial role.” The primary orientation of infants tending to acquire the environmental language is directed towards linguistic universals. Here, we face the problem of universality in regard to languages. Yes, we search for a common language with our fellow men, and there is only one necessary prerequisite for finding a common language. Namely, we must apprehend that other human beings also speak a human language, and that, consequently, our languages are mutually translatable. Under these conditions, we may and must look for an actual accomplishment of the translation intended. Such a possibility vanishes only in the case when one of the virtual interlocutors does not realize that the other fellow is equally a human being. According to an old legendary story, after a shipwreck, the only white man who managed to reach a remote island was regarded by the natives as some kind of ape or demonic being. In either case, he was not suspected of mastering any

impoverita nei suoi mezzi comunicativi. Niente affatto! Si può esprimere tutto. Se in questo tipo di lingua samoieda si dice che «verrà il padre e/ o la madre, uno di loro» sappiamo che si intende «o». Se, invece, il madrelingua dice «verranno il padre e/ o la madre, entrambi» allora è evidente che la chiave è «e»: anche in questo caso non c’è alcuna fastidiosa ambiguità nel messaggio. La struttura grammaticale non impedisce mai al parlante di trasmettere l’informazione nel modo più complesso e più esatto. Se ci avventuriamo nella traduzione dei libri di Albert Einstein o Bertrand Russell nelle lingue boscimane o in gilyac, l’obiettivo è perfettamente raggiungibile qualunque sia la struttura grammaticale del vernacolo. Soltanto, il suo vocabolario deve essere arricchito e adattato alle necessità di una nuova terminologia scientifica. Del resto, qualsiasi nuova branca scientifica o tecnica richiede simili riforme, adattamenti, e innovazioni terminologiche anche nelle lingue della nostra civiltà. Così, per esempio, campi nuovi come la genetica molecolare o la teoria quantistica hanno generato i loro dizionari, completamente nuovi, mentre la fonologia, la morfologia e la sintassi si piegano a qualsiasi necessità culturale, senza richiedere alcuna modifica.
Eppure, occorre spiegare perché non si ravvisa alcun progresso nella struttura fonologica e grammaticale delle lingue. Il penetrante linguista Nikolaj Trubetzkoy una volta mi disse: «Non dovremmo dimenticare che, nell’età compresa tra i due e cinque anni, quando acquisiamo i fondamentali della fonologia e della grammatica, non apparteniamo a nessuna cultura adulta, e il livello culturale dell’ambiente che circonda i bambini non riveste un ruolo sostanziale». L’orientamento primario dei bambini che tendono ad acquisire la lingua ambientale è diretto verso gli universali linguistici. Qui ci troviamo di fronte al problema dell’universalità in relazione alle lingue. Sì, siamo alla ricerca di una lingua in comune con l’altro, e c’è un solo prerequisito necessario per trovare una lingua comune. E cioè, dobbiamo riconoscere che anche gli altri esseri umani parlano una lingua umana e che, di conseguenza, le nostre lingue sono mutuamente traducibili. In queste condizioni possiamo e dobbiamo cercare una realizzazione effettiva della traduzione desiderata. Tale possibilità svanisce solo nel caso in cui uno degli ipotetici interlocutori non comprenda che anche l’altro è un essere umano. Secondo una vecchia leggenda, dopo un naufragio, l’unico uomo bianco che riuscì a raggiungere un’isola remota fu visto dagli indigeni come una sorta di scimmione o di essere

intelligible language, and perished, unable to convince the aborigines that he, too, was a human being, and that, therefore, mutual comprehension was achievable.
We are faced with the fundamental fact and problem of the universally human and only human, command of language. Except in obviously pathological cases, all human beings, from their childhood, speak and understand speech. Nothing similar to human intercommunication exists outside mankind. This unique endowment must have some biological premises, namely, certain particular properties in the structure of the human brain. A further pertinent phenomenon has come to light. We observe a set of universal features in the structure of languages. Thus, all languages exhibit the same architectonic pattern, the same hierarchy of constituents from the smallest units to the widest, viz. from distinctive features and phonemes to morphemes, and from words to sentences. Any language whatever displays the same rules of implication and superposition, the same order alien to other sign systems. This structure of language turns it into an indispensable tool of thought and endows it with an imaginative and creative power. Language enables us to build ever new sentences and utterances, and to speak about things and events which are absent and remote in space and in time; to evoke nonexistent fictitious entities as well. The humane essence of language lies in the liberation of sayers and sayees from a confinement to the hic et nunc.
Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other — briefly, to delimit nurture from nature. Once again, we are faced with one of the most intricate questions of present scholarship. It is necessary to realize and to remember that the absolute boundary which our forebears saw between culture and nature does not exist. Both nature and culture intervene significantly in the behavior of animals, and also in that of human beings. A leading expert in problems of animal behavior, the English zoologist W. H. Thorpe, showed us, on the basis of his own observations and experiments which were supported by the research of other specialists, that birds, for instance, finches, if totally isolated from all other birds even before emerging from the egg, and moreover,

demoniaco. In un caso o nell’altro, non si sospettò che padroneggiasse una lingua intellegibile, e morì, incapace di convincere gli aborigeni che anche lui era un essere umano e che, quindi, si poteva arrivare a una comprensione reciproca.
Ci troviamo di fronte al fatto e al problema fondamentale della padronanza universalmente umana, e solo umana, della lingua. Ad eccezione di casi ovviamente patologici, tutti gli esseri umani, fin dall’infanzia, parlano e comprendono il parlato. Non esiste nulla di simile alla comunicazione fra esseri umani al di fuori del genere umano. Questa dotazione unica deve avere alcune premesse biologiche, e cioè, alcune proprietà particolari che risiedono nella struttura del cervello umano. È emerso un ulteriore e pertinente fenomeno. Nella struttura del linguaggio è presente una serie di caratteristiche universali. Così, tutte le lingue presentano lo stesso schema architettonico: la stessa gerarchia di costituenti dalle unità più piccole a quelle più ampie, cioè dai caratteri distintivi e fonemi ai morfemi, e dalle parole alle frasi. Qualsiasi lingua presenta le stesse regole di implicazione e sovrapposizione, ordine che è estraneo a sistemi segnici di altro tipo. Questa struttura della lingua la trasforma in uno strumento indispensabile di pensiero e la dota di potere immaginifico e creativo. La lingua ci consente di costruire frasi ed enunciati sempre nuovi, e di parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani nello spazio e nel tempo; e anche di evocare entità fittizie inesistenti. L’essenza umana della lingua risiede nella liberazione di coloro che dicono e coloro ai quali è detto dalla reclusione nell’hic et nunc.
Ora, quando si prende in considerazione la natura universalmente umana, e solo umana, della lingua, bisogna affrontare la questione delle barriere tra cultura e natura; tra adattamento culturale e apprendimento da un lato, ed eredità e innatezza dall’altro – insomma, si devono delimitare «nurture» e «nature». Ancora una volta, siamo di fronte a una delle questioni più intricate della scienza contemporanea. È necessario comprendere e ricordare che la barriera netta che i nostri predecessori vedevano tra cultura e natura non esiste. Sia la natura sia la cultura intervengono in modo significativo nel comportamento degli animali, così come in quello degli esseri umani. Uno dei massimi esperti nei problemi di comportamento degli animali, lo zoologo inglese W. H. Thorpe, ci ha mostrato, sulla base delle sue stesse osservazioni e di esperimenti supportati dalle ricerche di altri specialisti, che gli uccelli, per esempio i fringuelli, se completamente isolati da

if they are deafened after being hatched, still perform the inborn blueprint of the song proper to the habit of their species, or even to the “dialect” of the subspecies (Thorpe 1961; 1963). This is a really inborn inheritance. If these artificially isolated fledgelings, (on the condition that their hearing has not been injured), are introduced into the society of other finches, they find and imitate their tutors. No equality exists even in the song of finches: there are better and worse performances, and the fledgelings try to follow the best singers. They learn, and their song improves.
In my adolescence, I had the opportunity to observe nightingales of the Tula region. If there was a master nightingale in the surroundings, all other neighboring nightingales sought to imitate him and to sing the habitual song with its customary variations in the best and most expanded way. But, whatever happens, a nightingale performs nothing else than the nightingale’s native song, and if you put a nightingale nestling among birds of another species, he will still cling to his inborn pattern without any adaptation to the environment. It is quite different with human children. If deprived of the adults’ model, they will remain speechless, without any traces of ancestral verbal habits. What they received as a biological endowment from their ancestors is the ability to learn a language as soon as there is a model at their disposal. Any of the extant human languages may serve them as an efficient cultural model. I knew a Nordic girl who spent her early childhood in South Africa, surrounded by aborigines, whom her father, a Norwegian anthropologist, was investigating. She spoke Bantu so well that students of Bantu could use her as a perfect native informant. After the family’s return to Norway, if she at any time felt insulted by her parents, she retorted in the purest Bantu language.
We conclude that both components — nature and culture, inheritance and acculturation — are present, but that the hierarchy of both factors is different. It is primarily nature in animals; primarily culture, ergo learning, in human beings. Accordingly, how will we define the place of language? We must say that language is situated between nature and culture, and that it serves as a foundation of culture. We may go even further and state that language is THE necessary and substantial foundation of human culture.

tutti gli altri uccelli ancor prima di uscire dall’uovo, e assordati appena dopo la schiusa, riproducono lo schema innato del canto caratteristico del comportamento della loro specie, o perfino del “dialetto” della sottospecie (Thorpe 1961; 1963). Si tratta di un retaggio davvero innato. Se questi uccellini isolati artificialmente (a condizione che il loro udito non sia stato danneggiato) sono introdotti in un’altra società di fringuelli, trovano e imitano i loro istruttori. Non c’è uguaglianza neppure nel canto dei fringuelli: ci sono prestazioni migliori e peggiori, e gli uccellini tentano di seguire chi canta meglio. Man mano che imparano, il loro canto migliora.
Da adolescente ho avuto l’opportunità di osservare gli usignoli della regione di Tula. Se c’era un usignolo maestro nelle vicinanze tutti gli altri usignoli da quelle parti cercavano di imitarlo e di eseguire il solito canto con le consuete variazioni nel modo migliore e più esteso possibile. Ma, qualunque cosa accada, un usignolo non canta nient’altro se non il canto innato dell’usignolo, e se mettiamo una nidata di usignoli tra gli uccelli di un’altra specie, resterà comunque fedele al suo modello innato senza adattarsi in alcun modo all’ambiente. Nel caso dei bambini, la situazione è completamente diversa. Se privati del modello adulto, resteranno muti, senza alcuna traccia delle abitudini verbali ancestrali. Ciò che hanno ricevuto come dotazione biologica dai loro antenati è la capacità di imparare una lingua in presenza di un modello a loro disposizione. Qualsiasi lingua umana ancora esistente potrebbe fungere da efficace modello culturale. Ho conosciuto una ragazza nordica che ha passato i primi anni della sua infanzia in Sudafrica, circondata dagli aborigeni che suo padre, un antropologo norvegese, stava studiando. Parlava il bantu così bene che gli studiosi del bantu potevano servirsi di lei come perfetta informatrice nativa. Dopo il ritorno della famiglia in Norvegia, ogni volta che si sentiva mancare di rispetto dai genitori rispondeva nella più pura lingua bantu.
In conclusione, entrambe le componenti – natura e cultura, eredità e acculturazione – sono presenti, ma la gerarchia di ciascuno dei due fattori è diversa. È soprattutto la natura negli animali; soprattutto la cultura, quindi l’apprendimento, negli esseri umani. Di conseguenza, come definiremo la posizione della lingua? Va detto che la lingua risiede tra la natura e la cultura, e che funge da fondamento della cultura. Potremmo anche spingerci oltre e affermare che la lingua è IL fondamento necessario e sostanziale della cultura umana.

When we hear the exact translation of these statements into Japanese by such a connoisseur of the two languages involved as Professor Shigeo Kawamoto, once more we ascertain the wonderful possibility of transposing scientific propositions and, in general, any statement of a purely cognitive character from one language into another. We learn again that the whole problem consists in a subtle, rational adjustment of the lexical and phraseological inventory. And what about the grammatical pattern? Here we enter into a question which had been repeatedly raised and, at the beginning of the 19th century, was clearly formulated by the prominent philosopher of language, Wilhelm von Humboldt. The most challenging approach to this question has been developed by the inquisitive linguist Benjamin Lee Whorf (1897-1941), plunged in a search as to whether and to what degree differences in the grammatical structure of languages reflect various attitudes toward the universe and dissimilarities in the thought of given ethnic groups (Whorf 1956). Sometimes, such a quest for an interconnection between language and thought led to narrowly isolationist doctrines, claiming that divergences in linguistic structure predestine peoples to an inevitable failure to understand each other. It might be replied to these fallacies that in any intellectual ideational, cognitive activities, we are always positively able to overcome the, so to speak, idiomatic character of grammatical structure and to reach a complete mutual comprehensibility.
However, beside strictly cognitive activities, there exists, and plays a great role in our life, a set of phenomena which might be labeled “everyday mythology”, and which finds its expression in divagations, puns, jokes, chatter, jabber, slips of the tongue, dreams, reverie, superstitions, and, last but not least, in poetry. The grammatical patterning of language plays a significant and autonomous part in these various manifestations of such mythopoeia.
I shall limit myself to a few examples. Students whose native tongue has no grammatical division of nouns into those of feminine and those of masculine gender are inclined to believe that such a division is purely formal. They admit that in application to animates a concept of the two sexes seems to underlie and to justify the difference of the two classes in languages which distinguish the above-mentioned grammatical genders, and that in these cases, the grammatical distinction is understandable, although hardly necessary. But we are told that, in respect to inanimate nouns, the opposition of

Quando sentiamo la traduzione esatta di queste affermazioni in giapponese da un tale conoscitore delle due lingue coinvolte come il Professor Shigeo Kawamoto, ancora una volta constatiamo la meravigliosa possibilità di trasporre proposizioni scientifiche e, in generale, qualsiasi affermazione di carattere puramente cognitivo da una lingua in un’altra. Ancora una volta comprendiamo come l’intero problema consista in un adattamento sottile e razionale dell’inventario lessicale e fraseologico. E il modello grammaticale? Qui introduciamo una questione che è stata sollevata più volte, e, all’inizio dell’Ottocento, è stata formulata con chiarezza dall’importante filosofo del linguaggio Wilhelm von Humboldt. L’approccio più stimolante alla questione è stato sviluppato dall’intraprendente linguista Benjamin Lee Whorf (1897-1941), intento a indagare se e in quale misura le differenze nella struttura grammaticale della lingua riflettano i diversi atteggiamenti nei confronti dell’universo e le diversità nel pensiero di dati gruppi etnici (Whorf 1956). A volte, una tale ricerca delle interconnessioni tra lingua e pensiero conduce a dottrine strettamente isolazioniste, che pretendono che le divergenze nella struttura linguistica condannino le persone a un inevitabile insuccesso nel comprendersi a vicenda. A queste fallacie si potrebbe ribattere che in qualsiasi attività intellettuale, ideativa e cognitiva, siamo sempre positivamente capaci di superare il cosiddetto carattere idiomatico della struttura grammaticale e raggiungere una piena comprensibilità reciproca.
Però, oltre alle attività strettamente cognitive, esiste, e riveste un ruolo importante nella nostra vita, una serie di fenomeni che potremmo chiamare “mitologia quotidiana”, e che trova la sua espressione in divagazioni, giochi di parole, chiacchiere, pettegolezzi, lapsus, sogni, fantasticherie, superstizioni, e, da ultimo ma non per importanza, nella poesia. La schematizzazione grammaticale della lingua riveste un ruolo significativo e autonomo nelle diverse manifestazioni di questa mitopoiesi.
Mi limiterò a qualche esempio. Gli studiosi la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile sono inclini a pensare che tale divisione sia puramente formale. Ammettono che, se applicato a esseri animati, il concetto dei due sessi sembra sottolineare e giustificare la differenza delle due classi nelle lingue che distinguono i sopracitati generi grammaticali, e che, in questi casi, la distinzione grammaticale è comprensibile, seppure quasi superflua. Ma ci dicono che, quanto ai nomi inanimati, l’opposizione di femminile e maschile perde

feminines and masculines loses any semantic pertinence. Let us illustrate the latent semantic value of these opposites in such a language as Russian, where the division of all nouns into genders is a relevant grammatical process. About 1915, an experiment was made in the Moscow Psychological Institute with the purpose of investigating how the ability to personify inanimate objects and abstract notions works. Fifty people were asked whether they could attribute such a personal nature to the days of the week. Five people said that to them the question made no sense, and were asked to leave the hall. The other forty-five had to write down how they visualized any week-day. The results were that all saw Monday, Tuesday, and Thursday as males, and Wednesday, Friday, and Saturday as females. Most of them did not realize that the reason for this division lies in the fact that in Russian these first three words are masculine, while the other three are feminine.
There is a superstitious or jocular foretoken that is widespread in Russia: when a knife (designated by a masculine noun) falls off the dining table, a male visitor is to be expected, but when it happens to be a fork or a spoon, then — in view of their feminine names — a female is supposed to come. In verbal art, the category of grammatical genders creates most peculiar situations. When, in my childhood, I read Grimms’ folk tales in Russian translation, I asked my mother, “How is it possible that death is an old man while actually she is a woman?” In German, the word for death — der Tod — is masculine, whereas its Russian equivalent — smert’ — is feminine. The association between sex and gender even filters into figurative art. The Russian painter I. Repin reacted to a German picture of “Sin” represented as a naked woman by an angry remark: “What a stupidity; sin (Russian masculine grex) must be virile.” Yet for Germans, with their feminine die Sünde, a manlike image of sin looks perverted.
The question of genders causes trouble in the translation of poetry. A noted Czech poet and translator of Russian poetry, Josef Hora, once called me in Prague, and said, “I am going crazy. I have translated all the poems of Boris Pasternak’s book My Sister Life (Sestra moja žizn’), but I am unable to reproduce its title.” The word for life (žizn’) is feminine in Russian, but masculine in Czech (život). He felt that it was awkward to build an apposition between the feminine sister and the masculine name of life, or to substitute

qualsiasi pertinenza semantica. Illustriamo il valore semantico latente di questi opposti in una lingua come il russo, dove la divisione di tutti i nomi in generi è un processo grammaticale importante. Nel 1915 circa è stato condotto un esperimento presso l’Istituto psicologico di Mosca, nell’intento di indagare in che modo funzionasse la capacità di personificare oggetti inanimati e nozioni astratte. Fu chiesto a cinquanta persone se fossero in grado di attribuire una natura personale ai giorni della settimana. In cinque risposero che la domanda era per loro priva di senso, e a questi fu chiesto di lasciare il locale. Gli altri quarantacinque dovevano scrivere in che modo visualizzassero ciascun giorno della settimana. Il risultato fu che tutti vedevano il lunedì, il martedì e il giovedì come maschili, e il mercoledì, il venerdì e il sabato come femminili. La maggior parte di loro non si rese conto che la ragione di questa divisione risiede nel fatto che in russo le prime tre parole sono maschili, mentre le altre tre sono femminili.
In Russia è diffuso un presagio, per superstizione o per scherzo: quando un coltello (designato da un nome maschile) cade dalla tavola, ci si deve aspettare un ospite di sesso maschile, mentre quando a cadere sono una forchetta o un cucchiaio, a causa dei loro nomi femminili, dovrebbe arrivare una donna. Nell’arte verbale la categoria dei generi grammaticali crea situazioni molto peculiari. Quando, durante la mia infanzia, ho letto le fiabe dei fratelli Grimm nella traduzione russa, chiesi a mia madre: «Com’è possibile che la morte sia un vecchio quando in realtà è una donna?». In tedesco, la parola per morte – «der Tod» – è maschile, mentre il suo equivalente russo – «smert′» – è femminile. L’associazione tra sesso e genere traspare anche nelle arti figurative. Il pittore russo I. Repin, di fronte a una rappresentazione tedesca di «Peccato» raffigurato come una donna nuda, reagì con un’osservazione seccata: «Che sciocchezza; il peccato («grex» è il nome russo maschile) dev’essere virile». Eppure ai tedeschi, con il loro «die Sünde» femminile, un’immagine maschile del peccato sembra perversa.
La questione dei generi causa problemi nella traduzione poetica. Un noto poeta ceco e traduttore di poesie russe, Josef Hora, una volta mi chiamò a Praga e mi disse: «Sto impazzendo. Ho tradotto tutte le poesie del libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita (Sestra moja žizn’), ma non riesco a riprodurne il titolo». La parola vita («žizn’») è femminile in russo, ma maschile in ceco («život»). Trovava che fosse goffo inserire un’apposizione tra il nome femminile sorella e il nome maschile di vita, o sostituire

Brother for Sister in Pasternak’s suggestive simile. I shall choose my last example from countless, equally embarassing, divergences. In the famous octet of one of the greatest German poets, Heinrich Heine, a fir tree, alone and surrounded by snow and darkness in the far north, dreams about a palm, also lonely in the parching heat of the south. In its German text, this succinct poem is full of lyrical, unquenchable longing and grief; the contrasting genders, the masculine Fichtenbaum and the feminine Palme, prompt an erotic symbolism. The latter vanishes upon translation into a language deprived of a similar grammatic division, and for instance, English renditions of these lines make an insipid, rhetorical impression. A different complication arises when the same poem is transposed into Russian, where the names of the two trees both belong to the feminine gender (sosna, pal’ma). Therefore, in the translation made even by such an artist of Russian verse as Lermontov, native readers feel a peculiar, let us say, sugary tinge. French readers and listeners are amused or bewildered by Heine’s octet when translated into their mother tongue, which calls both trees by masculine nouns: le pin, le palmier.
Such grammatical categories as genders obviously find a wide and multiplex employment in those varieties of language where poetic or emotive function prevails over strictly cognitive aims. But what is the role of grammatical categories in the ordinary, current language of our everyday life? How can we define the grammatical meanings which necessarily underlie those categories? The pathfinder of American linguistics and anthropology, Franz Boas (1858-1942), outlined the specific character of grammatical meanings, namely the fact that they are compulsory in our speech (Jakobson 1959). Speakers are obliged to make constant use of them. Russian distinguishes, for instance, the perfective aspect, which signalizes the completion of a given process, and the imperfective which does not. Any time a Russian verb is used, one must state whether the completion is meant, or only the process, with no regard to completion. And when such a binary selection is incessantly repeated, almost in every sentence or even clause, one has to deal with a similar choice. This constant repetitiveness furthers a latent readiness (Einstellung) to respond to the given alternative and develops a specific subliminal orientation of the speakers’ and listeners’ attention. A similar focusing of attention takes place in regard to genders.

«Sorella» con «Fratello» nella suggestiva similitudine di Pasternak. Sceglierò il mio ultimo esempio tra innumerevoli differenze, tutte ugualmente imbarazzanti. Nel famoso ottetto di uno dei più grandi poeti tedeschi, Heinrich Haine, un abete, solo e circondato da neve e tenebre all’estremo nord, sogna una palma, anch’essa sola nell’arida calura del sud. Nel testo tedesco questa succinta poesia è pervasa di desiderio, lirico e inappagabile, e di dolore; i generi contrastanti, il maschile «Fichtenbaum» e il femminile «Palme», suggeriscono un simbolismo erotico. Quest’ultimo svanisce in una traduzione verso una lingua priva di tale divisione grammaticale e, per esempio, le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica. Una difficoltà ulteriore emerge quando si traspone la stessa poesia in russo, dove i nomi dei due alberi appartengono entrambi al genere femminile («sosna», «pal’ma»). Di conseguenza, anche nella traduzione di un artista della poesia russa come Lermontov, i lettori madrelingua sentono, per così dire, una punta di leziosità. I lettori e gli ascoltatori francesi restano divertiti o sorpresi dall’ottetto di Heine tradotto nella loro lingua madre, che chiama entrambi gli alberi con nomi maschili: «le pin», «le palmier».
Categorie grammaticali come i generi ovviamente trovano un ampio e molteplice impiego in quelle varietà della lingua in cui le funzioni poetica ed emotiva prevalgono sulle finalità strettamente cognitive. Ma qual è il ruolo delle categorie grammaticali nella lingua ordinaria e corrente della nostra vita quotidiana? Come possiamo definire i significati grammaticali che necessariamente stanno alla base di queste categorie? Il pioniere della linguistica e dell’antropologia in America, Franz Boas (1858-1942), ha delineato il carattere specifico dei significati grammaticali, cioè il fatto che sono obbligatori nel nostro discorso (Jakobson 1959). I parlanti sono costretti a farne un uso costante. Il russo distingue, per esempio, l’aspetto perfettivo, che segnala la compiutezza di un dato processo, e l’imperfettivo, che non lo segnala. Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento. E quando tale selezione binaria è ripetuta incessantemente, quasi in ogni frase o addirittura in ogni proposizione, bisogna fare i conti con tale scelta. Questa ripetitività costante incoraggia una disposizione latente (Einstellung) a reagire alla data alternativa e sviluppa uno specifico orientamento subliminale dell’attenzione dei parlanti e degli ascoltatori. Una simile focalizzazione dell’attenzione entra in gioco anche rispetto ai generi.

Grammatically, languages do not differ in what they can and cannot convey. Any language is able to convey everything. However, they differ in what a language must convey. If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It is none of your business.” But if we speak French or German or Russian, I am obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka. I am compelled to inform you about the sex of my companion not by virtue of a higher frankness, openness, and informativeness of the given languages, but only because of a different distribution of the focal points imparting information in the verbal codes of diverse languages. If you translate the mentioned sentence from Japanese into German, and the context of this sentence remains unknown to you, then three binary selections, compulsory in German, but deprived of equivalents in the grammatical pattern of Japanese, viz. a selection between masculine and feminine, between singular and plural, and between the definite and indefinite article, constrain you to choose one of eight semantically distinct possibilities: mit dem Nachbar; mit einem Nachbar; mit den Nachbarn; mit Nachbarn; mit der Nachbarin; mit einer Nachbarin; mit den Nachbarinnen; mit Nachbarinnen. Of course, if the verbal context or the nonverbalized situation of the given sentence does not supply its translator with sufficient cues, the latter faces certain dilemmas. They disappear when the same sentence has to be translated from German into Japanese, which is devoid of such grammatical distinctions. On the other hand, similar complications arise also for a translator of a German or Russian text into Japanese, which, in turn, is rich in grammatical distinctions without equivalents in Western languages. The outlined difficulties almost come to naught when translating a scientific work written clearly, unambiguously, and with lucid contextual meanings of all its verbal constituents.
The case of poetic language is quite different. One might even say that a close, faithful translation of poetry is a contradiction in terms. What remains possible is a congenial transposition — a free, creative response of an English poet to a Russian or Japanese author, and vice versa — a performance essentially similar to an artful,

Grammaticalmente, le lingue non differiscono in ciò che possono o non possono esprimere. Qualsiasi lingua è in grado di esprimere tutto. Al contrario, differiscono in ciò che una lingua deve esprimere. Se dico, in inglese (o analogamente in giapponese): «I spent last evening with a neighbor», potreste chiedermi se la persona che era con me fosse maschio o femmina, e io ho il diritto di fatto di darvi la risposta sgarbata «Non è affar vostro». Ma se parliamo francese, tedesco o russo, sono obbligato a evitare l’ambiguità e dire: «voisin» o «voisine», «Nachbar» o «Nachbarin», «Sosed» o «Sosedka». Sono costretto a informarvi sul sesso della persona che era con me non in virtù di una maggiore franchezza, apertura e informatività di tali lingue, ma solo a causa di una distribuzione diversa dei punti focali che ripartiscono l’informazione nei codici verbali di lingue diverse. Se traducete la frase in questione dal giapponese al tedesco, e il contesto di questa frase resta a voi sconosciuto, tre selezioni binarie, obbligatorie in tedesco ma prive di equivalenti nel modello grammaticale giapponese, e cioè una selezione tra maschile e femminile, tra singolare e plurale, e tra articolo determinativo e indeterminativo, vi costringono a scegliere una delle otto possibilità semanticamente distinte: «mit dem Nachbar»; «mit einem Nachbar»; «mit den Nachbarn»; «mit Nachbarn»; «mit der nachbarin»; «mit einer nachbarin»; «mit den Nachbarinnen»; «mit Nachbarinnen». Naturalmente, se il contesto verbale o la situazione non-verbalizzata della data frase non forniscono al traduttore indizi sufficienti, quest’ultimo si trova di fronte a una serie di dilemmi. Questi spariscono quando la stessa frase deve essere tradotta dal tedesco al giapponese, che è privo di queste distinzioni grammaticali. D’altro canto, simili complicazioni emergono anche per un traduttore di un testo tedesco o russo verso il giapponese, che, a sua volta, è ricco di distinzioni grammaticali senza equivalenti nelle lingue occidentali. Le difficoltà evidenziate diventano quasi irrilevanti traducendo un’opera scientifica scritta in modo chiaro, senza ambiguità, e con lucidi significati contestuali di tutti i suoi costituenti verbali.
Nel caso del linguaggio poetico le cose sono completamente diverse. Qualcuno potrebbe persino dire che una traduzione accurata e fedele della poesia è una contraddizione in termini. Ciò che rimane possibile è una trasposizione congeniale – una risposta libera e creativa di un poeta inglese a un autore russo o giapponese, e viceversa – un’interpretazione essenzialmente simile a una trasposizione ingegnosa, artistica di una

ingenious transposition of a poem or novel into a painting, motion-picture, ballet, or a piece of music. On the futility of any literal translation of poetic works into another language, we find a charming Russian story recounted by the linguist A. Potebnja: when a Greek was weeping over a native song, and curious Russians asked him to translate it, he replied that it was about a tree with leaves on its branches and a singing bird among the leaves; he added, “It’s nothing when translated, but as long as I hear it in Greek, it makes me cry.”
Our discussion of language and culture would remain incomplete without a few concluding remarks on the culture of language. With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities. In particular, the manifold problems of language teaching and learning on its different levels demand a wise and influential intervention from linguistic science. Various questions of standardization also acquire a heightened significance, and we linguists are prompted by colleagues from diverse fields of science, for instance, physics, who realize the great instrumental role of language in scientific operations, and who envisage and welcome the decisive contribution to be brought by the science of language to an overall checking inquiry into the language of science. In this connection it is, indeed, appropriate once more to recollect Niels Bohr’s insistence on the complementarity between the formalized or semi formalized language of sciences, particularly physics, and the usual, natural language which is the final foundation, the root of such artificial superstructures. This interrelation necessitates a durable interdisciplinary work. People primarily involved in the science of language, in other words linguists, must undertake it in collaboration with those representatives of diverse sciences who pay careful attention to the make-up of the formalized languages used by the given disciplines.
As to the question of the first paper delivered today, the need and task of an international auxiliary language, we must state that this question or rather bundle of questions, which had been deliberately disregarded by most linguists and linguistic institutions of the late nineteenth century, are presently more and more discussed.

poesia o di un romanzo in un quadro, un film, una danza o un brano musicale. Sulla futilità di qualsiasi traduzione letterale di opere poetiche in un’altra lingua esiste una storia affascinante raccontata dal linguista A. Potebnja: un greco stava piangendo mentre ascoltava una canzone della sua terra e, quando alcuni russi incuriositi gli chiesero di tradurla, rispose che parlava di un albero con i rami ricoperti di foglie e di un uccello che cantava tra le foglie; aggiunse: «Tradotta non dice nulla, ma quando la sento in greco mi fa piangere».
La nostra discussione a proposito di lingua e cultura resterebbe incompleta senza qualche considerazione conclusiva sulla cultura della lingua. Con il generale sviluppo, la crescita e la differenziazione della cultura, un’attenzione costante e attiva verso la cultura della lingua nei suoi diversi aspetti diventa un compito sempre più intricato, carico di responsabilità e urgente, per il quale i linguisti devono collaborare deliberatamente e sistematicamente con scrittori e altri validi portatori di attività culturali. In particolare, i molteplici problemi dell’insegnamento e apprendimento della lingua nei suoi diversi livelli richiedono un vasto e influente intervento della scienza linguistica. Anche diverse questioni di standardizzazione diventano più significative, e noi linguisti siamo stimolati dai colleghi di campi scientifici diversi, per esempio la fisica, che comprendono il grande ruolo strumentale della lingua nelle operazioni scientifiche, e che prevedono e accolgono volentieri il contributo decisivo che la scienza del linguaggio porta a un’indagine globale di controllo sul linguaggio della scienza. A questo proposito, infatti, è appropriato ricordare ancora una volta l’insistenza di Niels Bohr sulla complementarità tra linguaggio delle scienze formalizzato o semi-formalizzato, in particolare la fisica, e la lingua abituale, naturale, che è il fondamento ultimo, la radice di tali sovrastrutture artificiali. Questa interrelazione necessita di un lavoro interdisciplinare duraturo. Chi è primariamente coinvolto nella scienza del linguaggio, in altre parole i linguisti, deve portarla avanti in collaborazione con quei rappresentanti di scienze diverse che prestano particolare attenzione alla composizione delle lingue formalizzate usate da tali discipline.
Tornando alla questione sollevata nel primo intervento di oggi, il bisogno e il compito di una lingua ausiliaria internazionale, bisogna dire che la questione, o piuttosto il groviglio di questioni che sono state deliberatamente trascurate dalla maggior parte dei linguisti e delle istituzioni linguistiche della fine del diciannovesimo secolo, sono oggi

Linguists see now, with an ever greater clarity, that the study of a language cannot stop at its limits, and that we are faced with the vital phenomenon of languages in contact. The further experience of linguistic science reveals that interlingual ties are not confined to a territorial contact, since, furthermore, there exists a cultural contact between languages, independent of geographical contiguity. Such contact becomes an ever stronger international and universalistic bent and force, both in cultural and in linguistic aspects.

First presented as a public lecture in Tokyo on July 27, 1967 and published in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, no. 3 (May 1972).

sempre più discusse. Ora i linguisti capiscono, con sempre maggior chiarezza, che lo studio di una lingua non può fermarsi davanti ai suoi limiti, e che ci troviamo di fronte al fenomeno vitale delle lingue a contatto. L’ulteriore esperienza della scienza linguistica rivela che i legami interlinguistici non si limitano al contatto territoriale, dato che, a maggior ragione, esiste un contatto culturale tra le lingue, indipendente dalla contiguità geografica. Tale contatto diventa una spinta e una forza internazionale e universalistica ancora più forte, tanto per gli aspetti linguistici quanto per quelli culturali.

Presentato per la prima volta in occasione di una conferenza tenuta a Tokyo il 27 luglio del 1967 e pubblicato in Sciences of Language (Tokyo), vol. 2, n° 3 (maggio 1972).

Riferimenti bibliografici
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2. ANALISI TRADUTTOLOGICA

2.1. ROMAN JAKOBSON:
UN AMERICANO CON L’INDOLE DELL’EMIGRATO RUSSO

Qualche anno fa un uomo piuttosto anziano e trasandato entrò in un negozio di scarpe, a Ostia. Lo accompagnava una signora con la quale conversava fittamente in francese. Quasi senza interrompere il filo del discorso, scelse un paio di scarpe, le infilò e, lasciate quelle vecchie al centro del negozio, se ne andò. L’uomo era Roman Jakobson, ma se qualcuno si fosse preso la briga di informare il proprietario del negozio o i clienti presenti circa l’identità di quell’eccentrico personaggio, avrebbe avuto in risposta, quasi sicuramente, uno sguardo interrogativo […] (Mauri 1986).
Poco importa se le cose siano andate davvero nel modo in cui sono raccontate in questo aneddoto apparso su Repubblica il 25 novembre del 1986. Certo è che Jakobson, notissimo agli uomini di cultura del mondo intero, non è mai stato, a rigor di termini, popolare. Per questo motivo, prima di procedere all’analisi traduttologica dei due saggi cui il presente elaborato intende dedicarsi, ritengo opportuno fornire una breve nota biografica per inquadrare meglio una figura tanto eccentrica quanto schiva.
Nato nel 1896 in una famiglia benestante di Mosca, a soli diciannove anni, ancora studente presso la facoltà di storia e filologia della sua città natale, fondò insieme ad altri sei colleghi il Circolo linguistico di Mosca, la cui missione, «the study of linguistics, poetics, metrics and folklore» (Jakobson 1965: 530), gettò le basi della riflessione contemporanea non solo sulla poesia, ma, più in generale, sulla parola, sulla lingua. Nel corso degli anni Venti il progetto subì una battuta d’arresto; il nuovo assetto politico sovietico fu all’origine della diaspora del gruppo. Jakobson si trasferì a Praga, e nel 1933 gli fu assegnata una cattedra all’Università di Brno, che mantenne fino al 1939. Nel 1926 rivestì un ruolo di primo piano nella fondazione del Circolo linguistico di Praga, istituzione che influenzò enormemente lo strutturalismo europeo e la linguistica angloamericana del secondo dopoguerra. Nel 1939 l’occupazione nazista della Cecoslovacchia costrinse Jakobson alla fuga: dapprima in Danimarca, poi in Norvegia, e infine, nel 1940, in Svezia. Nel 1941 arrivò a New York, e nel corso degli anni Quaranta insegnò presso la Columbia University e l’École Libre des Hautes Études, dove ebbe modo di conoscere il padre fondatore dello strutturalismo antropologico, Claude Lévi-Strauss. Nel 1949 gli fu assegnata una cattedra alla Harvard e nel 1957 approdò all’M.I.T. Gli anni trascorsi negli Stati Uniti, dal 1941 fino alla morte avvenuta a Boston nel 1982, furono senza dubbio i più fecondi per la sua produzione. Ma l’autore non abdicò mai alle sue origini russe, e chi lo ha frequentato in America racconta che «la sua casa, la sua tavola, persino il suo funerale, celebrato secondo il rito ortodosso, erano tutt’ altro che americani» (Mauri 1986). Jakobson conservò sempre l’indole dell’emigrato, e la formazione multietnica cui fu esposto per tutta la vita riecheggia nell’intera sua opera.
Negli anni, entrando in contatto con le personalità più influenti del mondo scientifico e letterario dell’epoca, i suoi interessi si moltiplicarono: studiò i disturbi del linguaggio, grazie alla frequentazione di neurologi e psichiatri, si dedicò al linguaggio infantile e contribuì alla fondazione di una serie di discipline destinate a svilupparsi nel corso dei decenni successivi. Mauri, nell’articolo menzionato, ne riassume l’intensissima attività con queste parole: «[…] l’ uomo che era partito dalla fondazione di una scienza della poesia, dedicandosi a profondi studi anche sulla metrica cinese, oltre che sul verso russo e cèco, era arrivato infine a cercare i tratti unitari, le concatenazioni, nella apparente diversità del mondo» (Mauri 1986); una lettura a mio parere condivisibile, della quale i due saggi in esame sono una prova eloquente.

2.2. TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE
A otto anni di distanza l’uno dall’altro, Roman Jakobson scrive due saggi destinati a dare inizio a un nuovo corso per gli studi sulla traduzione e a sgomberare il campo dai luoghi comuni che per anni li hanno assediati. On Linguistics Aspects of Translation (1959) e Language and Culture (1967) contengono, prima ancora che considerazioni sulla traduzione come attività, spunti sulla traduzione come concetto, sull’importanza che riveste nelle riflessioni in campo semiotico.
Alcuni anni prima, Benjamin Lee Whorf aveva avanzato la tesi secondo cui la nostra lingua madre restringerebbe l’ambito di ciò che siamo capaci di pensare, e che quindi «nessun individuo è libero di descrivere la natura con imparzialità assoluta ma è limitato a certe modalità interpretative anche mentre si crede assai libero» (Osimo 2002: 122). Le considerazioni di Whorf sul modellamento reciproco tra lingua e realtà stanno alla base dell’atteggiamento di Jakobson, che però affronta la questione dall’altra estremità: anziché soffermarsi su ciò che le lingue impediscono di pensare, l’attenzione è tutta rivolta a ciò che invece impongono di dire. Accantonata l’idea della presunta intraducibilità di alcuni fatti in parole, nel saggio del ’59 Jakobson giunge a una conclusione tanto semplice quanto geniale: «le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere» (p. 13). In altre parole, dal momento che non ci sono prove del fatto che esistano lingue che impediscono di pensare a qualcosa, era necessario guardare in un’altra direzione per scoprire in che modo la lingua madre modelli la nostra esperienza del mondo: se lingue diverse influenzano la mente in modi diversi, ciò non dipende da quello che la lingua ci permette di pensare, ma piuttosto da ciò che ci costringe a dire.
Da queste considerazioni prende le mosse il secondo saggio, Language and Culture, in cui la riflessione sulla relazione tra lingua e cultura si fa più profonda e articolata. Con sapiente retorica l’autore rivendica la stretta interconnessione tra lingua e cultura, fino ad affermare che la lingua è il fondamento della cultura umana.
Il riferimento implicito o esplicito a Peirce, «the great American thinker» (p. 22), è costante. In particolare, il richiamo al concetto di semiosi, da cui discende la volontà di inserire la traduzione nel campo d’indagine della «semiotica», permette di allargare lo studio della traduzione a fenomeni che fino a quel momento erano considerati del tutto estranei a questo ambito.
One of the most felicitous, brilliant ideas which general linguistics and semiotics gained from the American thinker is his definition of meaning as “the translation of a sign into another system of signs” (4.127). How many fruitless discussions about mentalism and anti-mentalism would be avoided if one approached the notion of meaning in terms of translation […] The problem of translation is indeed fundamental in Peirce’s views and can and must be utilized systematically (Jakobson 1977: 251).
Anche per Jakobson, in definitiva, «il nocciolo di qualunque processo di significazione […] è un insieme di processi traduttivi» (Osimo 2002: 181).

2.3. PECULIARITÀ DEL SAGGIO
2.3.1. UN CROGIOLO DI CULTURE
È raro che la traduzione dei saggi venga isolata come categoria a sé stante tra le diverse tipologie di testi tradotti. Eppure, meriterebbe un discorso a parte. Un saggio è «un testo non narrativo su un argomento di carattere prevalentemente filosofico, ma non necessariamente di filosofia pura: può occuparsi di letteratura, scienza, attualità, costume, politica» (Osimo 2004: 126). E, lungi dall’escludersi reciprocamente, queste (e altre) categorie spesso coesistono all’interno del medesimo saggio, complicando ulteriormente la situazione. La traduzione saggistica rientra nel campo della non-fiction, alla stregua dei testi scientifici, ma ha anche una forte componente estetica e intertestuale, propria dei testi letterari. Da un punto di vista formale, infatti, nel saggio prevale l’aspirazione estetica sul nozionismo puro, cosa che lo rende di più ampio respiro e più elegante rispetto a un articolo scientifico. Il suo elevato grado di connotatività e intertestualità, accanto alla precisione terminologica e al rigore delle argomentazioni, rende evidente come la distinzione tradizionale fra «traduzione letteraria» e «traduzione tecnica» non esaurisca la gamma delle traduzioni possibili. Nella traduzione saggistica, insomma, alle difficoltà terminologiche della traduzione settoriale si sommano le difficoltà stilistiche della traduzione letteraria. La presenza di riferimenti dati per scontati dall’autore, rimandi intertestuali impliciti ed espliciti e riflessioni di carattere filosofico hanno ricadute molto importanti sul piano della traduzione. Una sapiente abilità retorica consente a Jakobson di avvalorare le tesi scientifiche sostenute all’interno del saggio mettendole contemporaneamente in pratica: nel rivendicare l’integrazione tra scienze diverse e l’importanza delle relazioni interdisciplinari come base per costruire «a joint scientific domain, a science of mankind, and – in a far wider scope – a general science of life» (p.20), Jakobson abbraccia svariate discipline, anche molto distanti dall’ambito della linguistica, e dimostra di conoscerle a fondo.
Si spazia dall’antropologia di Kluckhohn, Kroeber e Boas alla biologia di Campbell, dalla neurofisiologia di Békésy alla fisica di Einstein, dalla zoologia di Thorpe alla filosofia di Russell. Anche la storia dell’arte e della letteratura sono chiamate in causa per stabilire che cosa si debba intendere per «progresso»: Dante e i capolavori della pittura italiana del Trecento e del Quattrocento sono paragonati ai risultati ben più deludenti dell’arte e della poesia dell’Ottocento. Jakobson risale fino al Paleolitico per citare le pitture rupestri franco-cantabriche, ancora una volta messe a confronto con la modernità delle «so-called realistic canvases of modern Europe, and, in particular, the official art of its authoritarian powers». Non mancano i riferimenti anche ad altre letterature europee: per la tradizione tedesca compaiono i fratelli Grimm e le poesie di Heinrich Heine, mentre per la Cecoslovacchia il poeta Josef Hora. Dal mondo della religione provengono invece i cenni all’Evangeliario, a Costantino il Filosofo e a Dionigi l’Areopagita. Ovviamente, non potevano non esserci richiami alla linguistica: il linguista americano Benjamin Lee Whorf, il ginevrino Karcevskij, il tedesco Von Humboldt, il danese Bohr, l’ucraino Potebnja e l’immancabile Peirce.
Ma è il mondo russo a fare da sostrato culturale e linguistico a entrambi i saggi in esame. Benché Jakobson li abbia scritti in inglese, l’autore spesso sente la necessità di ricorrere alla sua lingua madre tanto nel lessico quanto nella scelta della cultura da cui estrarre i numerosi esempi proposti: la regione di Tula, il pittore Repin, il libro di Boris Pasternak Mia sorella la vita, il poeta Lermontov. Anche le leggende, i racconti popolari, i vissuti dell’autore che costellano queste poche pagine attingono, per la maggior parte, alla tradizione russa. La dimensione esotica, già forte nel prototesto, risulta di impatto ancora maggiore per il lettore del metatesto, che oltre a dover fare i conti con i numerosi elementi culturospecifici di cui si è detto, deve confrontarsi con il riferimento costante al modello grammaticale inglese come termine di paragone nei confronti delle altre lingue chiamate in causa. Decidere quale trattamento riservare a questi esotismi (→ 2.3.3.1) è stato un elemento fondante della strategia traduttiva. Non è sembrato opportuno operare una scelta di localizzazione perché il tipo di testo non lo avrebbe consentito: si tratta di saggi sulla traduzione, in cui l’autore riflette sul modo in cui categorie grammaticali diverse influiscono sul modo in cui le varie culture segmentano la realtà. Il confronto sistematico con il modello grammaticale inglese avrebbe perso di efficacia se gli esempi tratti da quella lingua fossero stati tradotti indiscriminatamente. Anzi, una simile strategia avrebbe fatto correre il rischio di commettere errori macroscopici. In Language and Culture, per esempio, un intero paragrafo è dedicato alla dimostrazione che «Languages differ essentially in what they must convey and not in what they can convey» (p.12) e a tal proposito l’inglese e il giapponese vengono confrontati con il francese, il tedesco e il russo:
If I say in English (or correspondingly in Japanese) that “I spent last evening with a neighbor”, you may ask whether my companion was a male or a female, and I have the factual right to give you the impolite reply, “It’s none of your business”. But if we speak French or German or Russian, I’m obliged to avoid ambiguity and to say: voisin or voisine; Nachbar or Nachbarin; sosed or sosedka.
Nel caso della frase «I spent last evening with a neighbor», la traduzione verso l’italiano di «neighbor» implica necessariamente la scelta tra «vicino» o «vicina» anche laddove il contesto non fornisca elementi sufficienti per valutarlo, e questa “disambiguazione coatta” non darebbe adito a nessun equivoco sul sesso del vicino di casa. In questo senso le lingue differiscono in quello che devono esprimere, perché una traduzione della stessa frase che andasse nella direzione opposta, e cioè dall’italiano all’inglese, imporrebbe un solo traducente e ripristinerebbe l’ambiguità di fondo che solo il contesto potrebbe (forse) chiarire. Si tratta, in realtà, di un’ambiguità solo apparente, perché
Il fatto che nelle diverse culture si abbiano obblighi diversi di esprimere concetti significa che tutto ciò che non è obbligatoriamente espresso è dato per scontato, è implicito nella cultura, oppure è considerato di secondaria importanza (Osimo 2004: 33).
Peter Torop tra i parametri di traducibilità di una cultura inserisce anche il «parametro della lingua» (Torop 1995: 71) in cui rientrano le categorie grammaticali. In un esempio come quello citato sarebbe impensabile tradurre la frase esemplificativa in italiano, perché verrebbe meno la veridicità delle informazioni veicolate dal messaggio, data la diversità tra il modello grammaticale italiano e quello inglese. Per evitare simili inconvenienti e mantenere una coerenza di fondo nelle scelte traduttive si è deciso di non tradurre questi esempi e affidarne una spiegazione esaustiva al presente apparato metatestuale, con la consapevolezza che tale scelta postula un lettore modello non solo disposto ad aprirsi all’altro, ma anche «capace e attrezzato per affrontare la realtà del mondo altro» (Osimo 2004: 56).

2.3.2. IL LETTORE MODELLO
[…] un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui […] (Eco 1979: 54).
Dalle parole di Eco si evince che l’autore (come il traduttore) deve prevedere un «modello del lettore possibile», condizione necessaria all’attualizzazione del testo e alla sua traduzione (Eco 1979: 7). È opportuno interrogarsi sulla sua identità, immaginarne gli interessi e le motivazioni che lo hanno spinto a prendere in mano due saggi di Jakobson. A un primo esame, risulta difficile ipotizzare un lettore che possa fruire di questi testi integralmente e in tutte le loro componenti. Le «condizioni di felicità», per dirla ancora con Eco, da soddisfare perché il testo sia pienamente attualizzato vorrebbero, a prima vista, un lettore-tuttologo. Basti pensare all’immenso patrimonio linguistico che si annida fra le pagine; per quantificare, sono citate sedici lingue, con relativi esempi: l’inglese, l’inglese americano, il russo, lo slavo antico, il norvegese, il giapponese, il bantu, il tedesco, il ceco, il francese, l’italiano, il latino, il greco, il koryak, le lingue samoiede e quelle slave. Considerato l’altissimo tasso di intertestualità dei testi in esame, una robusta competenza enciclopedica è indispensabile se non altro «per rendersi conto di sapere di non sapere […] e reagire indagando, e non assumendo di essere già in grado di affrontare lo scoglio» (Osimo 2007: 21). È opportuno supporre di eleggere a lettore modello una persona di cultura medio-alta, altrimenti rischierebbe di non cogliere i molti rimandi intertestuali di cui si è detto, presumibilmente di età adulta e con una conoscenza almeno rudimentale dell’inglese. Il notevole sforzo divulgativo compiuto dall’autore, che accanto all’enunciazione di concetti scientifici molto seri non disdegna l’aneddoto, la battuta e il tono colloquiale, va incontro al lettore interessato all’argomento ma con poche conoscenze di base. Le frequenti riformulazioni, le domande retoriche volte a tenere viva l’attenzione e a rendere più chiari i rapporti di causa-effetto delle argomentazioni, le fonti scrupolosamente indicate e la precisione terminologica concorrono all’innegabile fruibilità di un testo all’apparenza così ricco di insidie.

2.3.3. PERDITE E COMPENSAZIONI
Prendo in prestito il titolo di questo paragrafo da un capitolo del libro di Umberto Eco Dire quasi la stessa cosa (Eco: 2003) in cui l’autore demonizza le note a piè di pagina riducendole a ultima ratio a disposizione del traduttore, del quale sancirebbero la sconfitta. Di diverso parere è Torop, che anzi identifica una relazione di complementarità tra metatesto e paratesto:
[…] la parte fondamentale del protesto viene tradotta nel metatesto, ma alcune parti o aspetti possono essere “tradotti” nel commentario, nel glossario, nella prefazione, nelle illustrazioni (figure, mappe) e così via. In una simile complementarità non si può a mio parere ravvisare un’incompletezza nel metatesto: semplicemente, per il lettore del prototesto e per il lettore del metatesto il confine tra testuale ed extratestuale non coincide (Torop 1995: 64).
Non è un caso che la scuola semiotica di Tartu chiami «metatesto» tanto il testo tradotto quanto l’insieme delle informazioni paratestuali sul testo principale: entrambi i metatesti sono frutto di un processo traduttivo, interlinguistico in un caso, metatestuale («che genera metatesti»), dall’altro (Osimo 2004: 30). Il testo scritto, qualsiasi testo scritto, si sa, è solo la punta di un iceberg. Tutto il resto, la parte più cospicua, è non-detto. Esiste uno «spazio intertestuale» all’interno del quale ogni testo nasce, e da cui un autore è necessariamente influenzato, che ne sia consapevole o meno. Per questo motivo ogni testo è sempre un intertesto, e «ogni testo che viene generato porta in sé le tracce della memoria culturale collettiva, oltre a quella dell’autore» (Osimo 2004: 42). Tale rapporto tra detto e non-detto diviene in parte razionale nel caso di un testo tradotto, e una simile razionalizzazione comporta che la sua struttura venga denudata, esposta, messa in mostra (Torop 1995: 63). Da qui l’utilità di un ricco apparato metatestuale in cui convogliare tutte quelle informazioni che potrebbero interessare al lettore più desideroso di confrontarsi con l’altro, senza né venire meno alla cura filologica per l’originale, né imporre una lettura più lunga del necessario a chi non ne mostrasse interesse.

2.3.3.1. APPARATI METATESTUALI
I due saggi in esame non esulano da queste considerazioni. L’elaborazione della strategia traduttiva deve prevedere anche a quale sede destinare la compensazione del residuo. Anzi, la decisione di come gestire il residuo è stata determinante per concepire la strategia traduttiva stessa: qualora non avessi avuto a disposizione lo spazio per redigere una postfazione accurata avrei certamente fatto ricorso alle note del traduttore per rendere conto degli impliciti culturali (che inglobano, secondo un approccio semiotico, anche le differenze linguistiche) e risolvere le questioni legate alla diversa categorizzazione grammaticale delle lingue e alle conseguenti differenze nella visione della realtà. Un caso di residuo incolmabile nel corpo del testo, ma di cui è semplice fornire una spiegazione in una sede diversa, è stata la traduzione di «cold beef-and-pork hot dog» (p. 8). È evidente che il gioco di parole tra «hot dog» e «cold beef-and-pork» può funzionare solo mantenendo l’esempio in inglese, e che, per giunta, una traduzione parola per parola sortirebbe un effetto di ridicolo nonsense («cane caldo freddo di manzo e maiale»). La presente postfazione, dunque, rientra a pieno titolo tra gli «artifici compensatori ed esplicitanti testuali» (Osimo 2004: 75) in quanto cerca di comunicare al lettore ciò che verosimilmente nella lettura andrebbe altrimenti perso, rendendo esplicito ciò che nel testo è implicito. In questo modo si ovvia alla spontanea «tendenza ipertrofica alla mediazione» (Osimo 2004: 75) propria di molti traduttori adottando una strategia consapevole con un apparato metatestuale ad hoc.
Ho invece preferito inserire direttamente all’interno del testo, isolate tra le consuete parentesi quadre, le traduzioni in italiano di singole parole che sono state mantenute in inglese anche nel metatesto per coerenza con altre scelte traduttive. Trattandosi di traduzioni funzionali esclusivamente alla comprensione lessicale, che non portano con sé un residuo di cui valga la pena rendere conto in una sede separata, ho ritenuto che fosse utile per il lettore trovarne la traduzione a portata di mano. Procedendo in questo modo la lettura non viene interrotta troppo di frequente, e anche il lettore che non avesse bisogno di consultarle non ne sarebbe disturbato vista la loro estrema sinteticità.
Le note inserite da Jakobson all’interno dei due saggi sono invece di carattere esclusivamente bibliografico. Per una loro catalogazione ho preferito adottare il sistema del richiamo per autore e anno di pubblicazione, collocati all’interno del testo in modo che non interrompano ma integrino adeguatamente la lettura, mentre l’elenco dei riferimenti bibliografici è stato inserito in coda ai saggi. In quest’ultimo, per una pronta identificazione, la data segue immediatamente il nome dell’autore, conformemente alle norme UNI 10168 e UNI ISO 7144.

2.4. ANALISI LINGUISTICA ED EXTRALINGUISTICA
Dalle considerazioni fatte fin qui (→ 2.3) emerge, in sostanza, che per realizzare una comunicazione totale, e cioè «essere in grado di individuare, sia durante il processo di decodifica, sia durante il processo traduttivo, l’informazione invariante» (Lûdskanov 1967: 54) chi traduce deve essere in possesso di quella che Lûdskanov chiama «informazione traduttiva necessaria». Se ci si chiede, con Lûdskanov, in che modo e da che fonte il traduttore possa accumularla, la risposta va cercata nell’analisi linguistica ed extralinguistica del testo in questione. Può accadere, infatti, che
[…] l’informazione ricavata attraverso l’analisi linguistica non [sia] sufficiente, in quanto la scelta del traduttore deve essere condizionata anche dalla conoscenza dell’epoca, dai tratti peculiari dell’opera, dalla visione stilistica e dal punto di vista estetico dell’autore, dalla sua visione del mondo. In tutti questi casi si dice che il traduttore fa riferimento alla realtà (Lûdskanov 1967: 53).
All’analisi, che permette di estrapolare le informazioni veicolate dal prototesto, segue la fase di decodifica, e cioè la scelta dei traducenti da attualizzare. È in questa fase che entra in gioco la necessità di avere a disposizione una quantità di informazioni maggiore di quella ricavabile dal co-testo, dalla porzione di testo in questione. E a chi sostiene che questa fase interessi esclusivamente i testi di natura letteraria, l’autore ribatte che tali dinamiche coinvolgono, invece, qualsiasi linguaggio anisomorfo, in quanto la necessità di fare riferimento alla realtà è intrinseca alla natura stessa dei linguaggi naturali. Laddove, infatti, si riconosce il carattere creativo del processo traduttivo, che si manifesta «nella necessità di compiere scelte non predeterminate tra i significati degli elementi linguistici del prototesto per attualizzarne uno» (Lûdskanov 1967: 55) non si può non condividere che la necessità di far riferimento alla realtà «sussiste nella traduzione di tutti i generi testuali attualizzati nella forma dei linguaggi naturali» (Lûdskanov 1967: 63).
Anche chi traduce il saggio, e forse a maggior ragione vista la natura ibrida di questo genere testuale, deve costantemente fare i conti con le dinamiche descritte. A livello di analisi lessicale, nei due saggi in esame sono stati individuati termini, parole ed espressioni sulla cui traduzione vale la pena di soffermarsi.

2.4.1. DIFFERENZE TRA CAMPI SEMANTICI: LE SCELTE LESSICALI
In questo paragrafo vengono presi in esame i problemi di traducibilità derivanti dalle «scarse possibilità di coincidenza tra campi semantici di parole diverse, sia della stessa lingua (i cosiddetti “sinonimi”) sia di lingue diverse (i cosiddetti “equivalenti”)» (Osimo 2004: 70). La scelta lessicale è uno dei punti nevralgici attorno ai quali si costruisce la coerenza di un testo, e il traduttore dev’essere sempre all’erta di fronte all’eventualità che l’autore abbia fatto ricorso ad allusioni velate realizzate proprio grazie all’ampiezza del campo semantico delle parole impiegate. Certo, non è sempre possibile conservare i riferimenti «narcotizzati» (Osimo 2001: 57), e talvolta diventa inevitabile sopprimerli: si tratta di scelte che devono essere di volta in volta dettate dalla strategia traduttiva e dal buon senso del traduttore. L’essenziale è però avere fiuto e accorgersi della loro presenza affrontando tutte le valutazioni del caso consapevoli dei limiti connaturati alla traduzione, che del resto ne fanno la miseria e lo splendore, come ebbe a dire José Ortega y Gasset.
Ecco qualche esempio che illustra alcune di queste dinamiche; i primi tre sono stati estratti dal saggio On Linguistic Aspects of Translation, mentre gli ultimi due da Language and Culture.

2.4.1.1. CELIBATE
Yet synonymy, as a rule, is not complete equivalence: for example, “every celibate is a bachelor, but not every bachelor is a celibate” (p. 4).
Riporto questa citazione perché vorrei soffermarmi sulla traduzione di «celibate». A una prima stesura l’istinto mi ha portato a tradurre «celibate» con «celibe», ma cercando la definizione di «celibate» sul dizionario monolingue per confrontarla con quella di «bachelor» e chiarire il senso della frase in esame, ho constatato che «celibate» e «celibe» hanno un significato molto diverso.

celibate (Merriam-Webster 2000) celibe (Devoto, Oli 2000)
A person who lives in celibacy. Non ammogliato, scapolo.

Occorre a questo punto verificare la definizione di «celibacy»:

celibacy (Merriam-Webster 2000)
1. the state of not being married.
2. a: abstention from sexual intercourse; b: abstention by vow from marriage.

Dalle definizioni riportate si evince che il campo semantico di «celibate» coincide solo in parte con quello di «celibe», ma questo fatto del tutto normale deriva, si sa, dall’anisomorfismo delle lingue naturali. Tuttavia nel caso in esame il rischio di una traduzione solo parziale, quale potrebbe essere «celibe», non sarebbe foriera solo di un residuo traduttivo, ma precluderebbe la comprensione dell’intero messaggio veicolato dal prototesto. L’accezione che interessa a Jakobson nel suo esempio è evidentemente la seconda, quella non contemplata dal traducente «celibe», relativa a chi rinuncia a contrarre matrimonio (per motivi religiosi o di altra natura) e si astiene da ogni attività sessuale. Solo in questa accezione infatti la parola «celibate» si emancipa dalla sinonimia con «bachelor» nel contesto e fa acquisire senso all’esempio contenuto nel saggio. Ma qui il problema della scelta del traducente è ancor più rilevante se si pensa che la frase vuole essere un esempio lampante proprio del fatto che la sinonimia assoluta non esiste, e che anche all’interno della stessa lingua i presunti sinonimi non stanno in una relazione transitiva, come dimostra il fatto che «every celibate is a bachelor» ma «not every bachelor is a celibate». Di fronte a un caso simile, in assenza di un apparato metatestuale in cui convogliare il residuo in questione, ritengo che la decisione più opportuna da prendere sarebbe quella di mantenere l’esempio in inglese all’interno del testo e procedere a una sintetica spiegazione in nota del significato della frase. In questo modo non si precluderebbe l’indubbia efficacia dell’esempio in inglese a chi dispone dei mezzi linguistici adatti a comprenderlo, senza tentare di fornire una traduzione “comoda” ma fuorviante a chi ne è invece privo.

2.4.1.2. COTTAGE CHEESE
The English word cheese cannot be completely identified with its standard Russian heteronym syr because cottage cheese is a cheese but not a syr (p. 4):
In questo caso la difficoltà concerne la traduzione di «cottage cheese». Eccone, innanzitutto, la definizione che è stata ricavata dal dizionario monolingue Merriam-Webster:

cottage cheese (Merriam-Webster 2000)
a bland soft white cheese made from the curds of skim milk —called also Dutch cheese, pot cheese, smearcase.

Il corrispettivo italiano di tale prodotto inizialmente pareva essere la ricotta, salvo poi scoprire che il dizionario inglese distingue il cottage cheese dalla nostra ricotta, che è definita nel modo seguente:

ricotta (Merriam-Webster 2000)
a white unripened whey cheese of Italy that resembles cottage cheese; also: a similar cheese made in the United States from whole or skim milk.

La ricotta differisce dal cottage cheese innanzitutto perché si ricava dal siero avanzato dalla preparazione di altri formaggi, motivo per cui, a rigor di termini, non si tratta di un vero e proprio formaggio ma di un semplice latticino. Ai fini della traduzione nel contesto dato quest’ultima informazione è molto importante perché, se si decidesse di tradurre «cottage cheese» come «ricotta», un esperto in materia potrebbe obiettare che l’esempio riportato in traduzione sarebbe un controsenso, in quanto la ricotta non è un «cheese». La definizione data dal vocabolario in un caso così specifico non è sufficiente, ed è necessario ricorrere a testi specialistici che spieghino in modo più accurato le caratteristiche di questi formaggi per poter effettuare una scelta traduttiva sensata. L’atlante dei formaggi fa rientrare il «cottage cheese» nella famiglia dei formaggi freschi a struttura granulare, di cui fanno parte anche i «fiocchi di latte». Ecco le due descrizioni a confronto:

cottage cheese (Ottogalli 2001: 213) fiocchi di latte (Ottogalli 2001: 213)
Si trova con questo nome solo nei paesi anglosassoni dove viene addizionato di panna e spesso di aromi, verdure o frutta. [Questi formaggi] in Italia non si conoscono con la dizione “Cottage”, ma come “Fiocchi di latte”, con una precisazione: vengono stabilizzati con un trattamento termico alla fine della lavorazione.

Indubbiamente ora siamo molto più vicini al significato di «cottage cheese» di quanto non lo fossimo prima. Certo qualche differenza c’è ancora, differenze sulle quali ritengo si possa soprassedere, considerato il tipo di testo e la funzione puramente esemplificativa per la quale sono stati chiamati in causa questi formaggi. Tuttavia, se si affronta la medesima questione da un punto di vista diverso, altre considerazioni farebbero propendere per una traduzione più «adeguata», per dirla con Toury. Per rendersene conto basta tornare per un attimo alla citazione originale, che si chiude così: «cottage cheese is a cheese but not a syr». «Syr» è il traducente russo di «cheese» più immediato, eppure un «cheese», che per di più contiene all’interno del suo nome la parola «cheese», (il «cottage cheese») non è un «syr». Altrimenti detto, la preferenza accordata a «cottage cheese» rispetto a qualunque altro traducente italiano deriva dal fatto che la ripetizione della parola «cheese» inserisce a maggior ragione il cottage cheese nella categoria dei «cheese», e quindi all’orecchio di un anglofono la frase russa tradotta in inglese suona assurda, ridondante. Da qui l’efficacia dell’esempio: Il cottage cheese è uno dei tanti cheese, ma lo tvoróg non è uno dei tanti syr, in quanto la parola «syr» rimanda, come ricorda Jakobson, soltanto ai formaggi fermentati.
È utile schematizzare questa situazione che si presta molto bene a fare luce su un problema ricorrente della traduzione:

Benché generalmente «cheese» (A) si traduca in russo con «syr», esisteranno sempre delle eccezioni come «cottage cheese» (Aa) che impediranno il formarsi di una relazione biunivoca automatica tra i campi semantici delle due parole.
Tornando al caso in esame, la strategia traduttiva adottata ha voluto privilegiare il principio dell’adeguatezza non censurando dunque del tutto il «cottage cheese» nel metatesto italiano. Mi sono però riservata di affiancargli la traduzione «fiocchi di latte» perché non bisogna dimenticare che Jakobson, citando il nome di alcuni formaggi ben noti al pubblico di madrelingua inglese, voleva fare un esempio che fosse lampante e spiegasse in modo molto concreto le considerazioni teoriche fatte fino a quel momento. Mi è sembrato sensato offrire anche al lettore italiano l’opportunità di fruire di questa dimensione ulteriore del testo affiancandogli una traduzione plausibile di «cottage cheese».

2.4.1.3. INTRICACIES
Both the practice and the theory of translation abound with intricacies, and from time to time attempts are made to sever the Gordian knot by proclaming the dogma of untranslability (p. 6).
Questo esempio mira a sottolineare l’importanza di riconoscere e mantenere, nel limite del possibile, i rimandi intratestuali contenuti nel saggio. Prendiamo in esame la parola «intricacy» e vediamo che definizione ne dà il dizionario monolingue:

intricacy (Merriam-Webster 2000)
1. the quality or state of being intricate.
2. something intricate.

Cerchiamo a questo punto la definizione di «intricate»:

intricate (Merriam-Webster 2000)
1. having many complexly interrelating parts or elements: complicated.
2. difficult to resolve or analyze.

Il significato appare subito chiaro e comprensibile. Il traducente «difficoltà», adottato in un primo momento, sembra una soluzione sufficientemente rispettosa del senso dell’originale, benché generalizzante in quanto non evoca le «interrelating parts» che la parola inglese racchiude in sé. Muovendosi allora in questa seconda direzione, dalla stessa radice di «intricacies» si risale all’aggettivo «intricato», utile punto di partenza per ragionare su un nome che rimandi allo stesso campo semantico. Motivo ulteriore della necessità di trovare un traducente che vada in questa direzione è il seguito della frase con il riferimento al «Gordian knot», il famoso nodo gordiano, mentre qualche pagina dopo la questione della traduzione è definita «entangled». Siamo quindi in presenza di una metafora estesa in cui le parole «knot», «intricacies» e «entangled», provenienti dallo stesso campo semantico, si richiamano a vicenda. Da qui l’esigenza di una soluzione che mantenga il rimando anche per il lettore del metatesto. Partendo dall’aggettivo «intricato» si risale, per associazione di idee, al sostantivo «groviglio», che è stato adottato nella versione definitiva: «Tanto la pratica quanto la teoria della traduzione sono piene di grovigli». Ecco una spiegazione efficace del perché è opportuno che il traduttore faccia tutto il possibile per conservare il maggior numero di elementi del prototesto:
La connotazione, e quindi anche il colorito, fa parte del significato, e di conseguenza è tradotta alla pari con il significato semantico della parola. Se non si è riusciti a farlo, se il traduttore è riuscito a trasmettere solo la “nuda” semantica dell’unità lessicale, per il lettore della traduzione la perdita di colorito si esprime nella incompleta percezione dell’immagine, ossia, in sostanza, nel suo travisamento (Vlahov e Florin 1986: 121 [in Osimo 2004b]).

2.4.1.4. NURTURE AND NATURE
Now, when taking into account the universally human, and only human, nature of language, we must approach the question of boundaries between culture and nature; between cultural adaptation and learning on the one hand, and heredity, innateness on the other – briefly to delimit nurture from nature (p. 28).
Come si è detto nel capitolo 2.3, i saggi di Jakobson sono costellati di riferimenti a concetti scientifici la cui conoscenza da parte del lettore è data, il più delle volte, per scontata. L’immensa cultura dell’autore gli consente di muoversi con agilità tra discipline diverse e molto distanti dalla linguistica, a dimostrazione della tesi, ribadita in più occasioni, che coniugare i saperi di ambiti diversi sia il solo modo proficuo di garantirne la sopravvivenza e il reciproco arricchimento.
Molto spesso però si tratta di riferimenti impliciti con i quali Jakobson strizza l’occhio al lettore competente attraverso dei piccolissimi accenni che il lettore meno colto può trascurare senza che questo intacchi in modo sostanziale la sua fruizione del testo. Il traduttore invece deve stare all’erta per individuare il maggior numero possibile di questi riferimenti nascosti, e poi decidere se e quanto andare incontro al lettore nella sua opera di decodifica del testo.
Il caso di «nurture and nature» esemplifica bene la situazione appena descritta. Una breve ricerca enciclopedica consente di comprendere che i concetti di «nurture» e «nature» non solo sono interrelati fra loro, ma costituiscono i due estremi del dibattito sull’importanza dell’eredità e dell’ambiente nello sviluppo dell’uomo. La paternità dell’espressione è da attribuire all’antropologo inglese Francis Galton, che la consacra nel libro English men of Science: their Nature and Nurture, pubblicato nel 1874, in cui si legge:
The phrase “Nature and nurture” is a convenient jingle of words, for it separates under two distinct heads the innumerable elements of which personality is composed. Nature is all that a man brings with himself into the world; nurture is every influence that affects him after his birth (Galton 1874: 12).
Come spesso avviene in ambito scientifico, dove il gusto diffuso per le parole straniere è dovuto, in parte, al fatto che gli studiosi leggono articoli scritti perlopiù in inglese, alcune espressioni si cristallizzano nella lingua in cui sono state coniate e restano tali anche lontano dalla loro terra d’origine. Ed è questo il caso di «nurture» e «nature» le quali, complice l’assonanza che le rende accattivanti anche al lettore italiano che conosca poco o nulla l’inglese, compaiono tali e quali sulle nostre pubblicazioni scientifiche di maggior rilievo. Per queste ragioni si è scelto di mantenere l’espressione in inglese anche nella traduzione italiana.

2.4.1.5. CREATIVE WRITERS
With the general development, growth, and differentiation of culture, a consistent and active attention to the culture of language in its various aspects becomes an ever more intricate, responsible, and pressing task, on which linguists must cooperate deliberately and systematically with creative writers and other efficient carriers of cultural activities (p. 40).
Il problema, qui, è la traduzione di «creative writers». La parola «writer», apparentemente priva di insidie, nasconde invece un significato molto preciso che si sovrappone solo in parte al significato di «scrittore». Procediamo con la ricerca di «writer» sul dizionario monolingue inglese, e confrontiamo i risultati con le accezioni della parola «scrittore»:

writer (Merriam-Webster 2000) scrittore (Devoto, Oli 2000)
1. a person who writes.
2. a person whose work or occupation is writing; now, specif., an author, journalist, or the like.
1. Chi si dedica all’attività letteraria in quanto mosso da un intendimento d’arte.
2. Scrivano, copista.

In italiano, uno scrittore è primariamente chi scrive di professione, e, molto meno comunemente, un sinonimo di scrivano o copista. In inglese invece un «writer» è, nella prima accezione della parola, una persona che scrive, uno scrivente qualsiasi. Nella seconda accezione dell’inglese, che è quella che in parte si sovrappone semanticamente a quella italiana, si evince però che sono «writer» anche i giornalisti e gli scrittori di testi tecnici. Da qui nasce, per Jakobson, la necessità di accostare al nome comune e generico «writer» l’aggettivo «creative» per distinguerlo da un «writer» di testi di carattere settoriale, tecnico. In altre parole, tradurre «creative writer» con «scrittore creativo» risulterebbe fuorviante per il lettore italiano, che sarebbe portato a pensare che Jakobson non stia parlando di tutta la categoria degli scrittori, ma solo di quelli particolarmente creativi, escludendo tutti gli altri. Mantenendo invece il solo traducente «scrittore», molto probabilmente si trasmette al lettore italiano la stessa rete di significati che Jakobson attribuisce a «creative writer».
Del resto, è lo stesso Jakobson ad aver teorizzato, nel saggio On Linguistic Aspects of Translation un principio fondamentale per la traduzione:
Equivalence in difference is the cardinal problem of language and the pivotal concern of linguistics. […] All cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language. Whenever there is a deficiency, terminology can be qualified and amplified by loanwords or loan translations, by neologisms or semantic shifts, and, finally, by circumlocutions (p. 6).
Anche se, a causa della convenzionalità dei segni linguistici e delle differenze nello sviluppo storico dei rispettivi popoli, «i diversi linguaggi naturali suddividono in maniera distinta la realtà unica e comune per tutti» (Lûdskanov 1967: 29), motivo per cui la ricerca di presunti “equivalenti” traduttivi è destinata a essere vana e infruttuosa, Jakobson dichiara che la traduzione è sempre possibile, anzi, è addirittura necessaria: si tratta solo di cercare l’«equivalenza nella differenza» operando non su singole unità di codice, ma sull’intera informazione concettuale contenuta nell’originale. Questo perché
In its cognitive function, language is minimally dependent on the grammatical pattern, because the definition of our experience stands in complementary relation to metalinguistic operations – the cognitive level of language not only admits but directly requires recoding interpretation, that is, translation. Any assumption of ineffable or untranslatable cognitive data would be a contradiction in terms (p. 12).

2.5. METATESTI A CONFRONTO:
PERCHÉ PROPORRE UNA TRADUZIONE DIVERSA DEL SAGGIO
ON LINGUISTIC ASPECTS OF TRANSLATION

Nel 1966 Feltrinelli pubblica la traduzione di Luigi Heilmann e Letizia Grassi degli Essais de linguistique générale, che comprendono, tra gli altri, anche il saggio On Linguistic Aspects of Translation. Quest’ultimo, scritto nel 1959, risalta per la sua importanza nell’ambito delle riflessioni sui problemi della traduzione, concentrando in poche pagine ciò che ancora oggi rappresenta una pietra miliare per chi si dedica a questa disciplina. Il limite della traduzione esistente risiede proprio nella scelta della strategia traduttiva che privilegia, per dirla con Toury, il criterio dell’accettabilità su quello dell’adeguatezza. Questo vale soprattutto per due aspetti, la standardizzazione dei realia e la localizzazione degli esotismi, che emergono principalmente nelle traduzioni sistematiche e fortemente addomesticanti delle citazioni. In un caso come nell’altro, il criterio adottato sembra essere poco efficace, tanto più a causa dello status del tutto particolare di questo tipo di testo, cui si è già accennato: una traduzione sulla traduzione. Il generale addomesticamento culturale porta il lettore a perdere la consapevolezza di essere in presenza di un testo tradotto che, di conseguenza, deve essere recepito come altrui. La traduzione di Heilmann, indubbiamente più scorrevole di quella qui proposta, risulta però priva di stimoli e in parte inefficace nella sua funzione didascalica. Per contro, la scelta di mantenere le citazioni in lingua originale è sembrata la sola praticabile per ovviare all’alternativa fuorviante di ritrovarsi a dover tradurre riflessioni sulla traduzione, riflessioni che prendono come esempi parole scelte appositamente da una certa lingua e non da un’altra. La sostituzione sistematica di tutti gli elementi esotici con elementi che appartengono alla metacultura crea, come si evince dagli esempi riportati di seguito, un forte senso di spaesamento nel lettore interessato e consapevole della cultura da cui proviene il testo.
Ecco una schematica analisi comparata del prototesto con i due metatesti in questione, limitatamente agli ambiti fin qui presi in esame, per osservarne i cambiamenti traduttivi.

PROTOTESTO METATESTO (1) METATESTO (2)
I […] no one can understand the word cheese unless he has an acquaintance with the meaning assigned to this word in the lexical code of English. […] nessuno può capire la parola formaggio se non conosce il significato attribuito a questa parola nel codice lessicale dell’italiano. […] nessuno può capire la parola «cheese» se non ha un’esperienza del significato assegnato a questa parola nel codice lessicale dell’inglese.
II Any representative of a cheese-less culinary culture will understand the English word cheese if he is aware that in this language it means “food made of pressed curds” […]. Qualsiasi membro di una collettività culinaria che ignora il formaggio capirà la parola italiana formaggio se sa che in questa lingua tale parola significa “alimento ottenuto con la fermentazione del latte cagliato” […]. Qualsiasi rappresentante di una cultura culinaria in cui non esista il formaggio capirà la parola inglese «cheese» se è consapevole che in questa lingua significa «alimento fatto di latte cagliato pressato» […].
III There is no signatum without signum. The meaning of the word “cheese” cannot be inferred from a nonlinguistic acquaintance with cheddar or with camembert without the assistance of the verbal code. Non esiste significato senza segno, né si può dedurre il senso della parola formaggio da una conoscenza non linguistica della mozzarella o del provolone senza l’aiuto del codice linguistico. Non esiste signatum senza signum. Il significato della parola «cheese» non si può inferire da una conoscenza non-linguistica del cheddar o del camembert senza l’aiuto del codice verbale.
IV […] cottage cheese is a cheese but not a syr. Russians say: prinesi syru i tvorogu “bring cheese and [sic] cottage cheese.” […] il formaggio bianco è bensì un formaggio, ma non un syr. I russi dicono prinesi syru i tvorogu, “porta del formaggio e (sic) del formaggio bianco (giuncata).” […] il «cottage cheese» [«fiocchi di latte»] è un «cheese» ma non un «syr». I russi dicono: «prinesi syru i tvorogu» (porta il formaggio e [sic] i fiocchi di latte).
V When translating the English sentence She has brothers into a language which discriminates dual and plural, we are compelled either to make our own choice between two statements “She has two brothers” – “She has more than two” or to leave the decision to the listener and say: “She has either two or more than two brothers.” Quando si deve tradurre la frase italiana “essa ha dei fratelli,” in una lingua che distingue duale e plurale, siamo obbligati a scegliere fra due proposizioni: “essa ha due fratelli” / “essa ha più di due fratelli”, ovvero a lasciare la decisione all’ascoltatore dicendo: “essa ha due, o più di due, fratelli.” Traducendo la frase inglese «She has brothers» verso una lingua che distingue duale e plurale siamo costretti a scegliere tra due affermazioni: «Lei ha due fratelli» – «Lei ha più di due fratelli» oppure a lasciare la decisione a chi ascolta e dire «Lei ha due o più fratelli».
VI Again, in translating from a language without grammatical number into English, one is obliged to select one of the two possibilities – brother or brothers or to confront the receiver of this message with a two-choice situation: She has either one or more than one brother. Allo stesso modo, se traduciamo in italiano da una lingua che ignora il numero grammaticale, siamo costretti a scegliere una delle due possibilità – “fratello” o “fratelli” – o a proporre al ricevente del messaggio una scelta binaria: “essa ha uno, o più di un, fratello.” Ancora, traducendo da una lingua priva della categoria grammaticale del numero verso l’inglese si è costretti a selezionare una delle due possibilità, «brother» o «brothers», o a mettere il ricevente di questo messaggio di fronte a una situazione di ambiguità: «Lei ha uno o più fratelli».

Osserviamo il primo esempio: si tratta di una citazione di Russell, che riflette sul significato della parola «cheese» nel «lexical code of English». Il metatesto (1) propone di tradurre «cheese» con «formaggio», scelta di per sé praticabile se non fosse che, per mantenere la coerenza della citazione, saremmo costretti a modificare anche il seguito della dichiarazione. E per farlo, dovremmo tradurre «English» con «italiano» mettendo in bocca a Russell parole che non ha mai pronunciato, né avrebbe mai potuto pronunciare. La piena esplicitezza della citazione nega, a maggior ragione, ogni diritto di manipolare le parole dell’autore. Lo stesso può dirsi per gli esempi II, V e VI, in cui, per coerenza, si è proceduto allo stesso modo, mentre il metatesto (1) è andato nella direzione opposta, ottenendo un risultato molto poco «traduzionale» (Popovič 1975: 48) in cui la dominante è senza dubbio la naturalizzazione, ottenuta attraverso la sistematica sostituzione degli elementi esotici con elementi propri della cultura ricevente. Un ragionamento analogo sorge spontaneo anche per la traduzione di «cheddar» o «camembert» (esempio III). È evidente che diventa piuttosto grottesco immaginare Jakobson parlare di mozzarella o di provolone. E non solo. Il lettore più attento e scrupoloso potrebbe persino pensare che Jakobson volesse in qualche modo strizzare l’occhio all’Italia e alle sue tradizioni culinarie. Niente di tutto ciò invece, e basta osservare l’originale per rendersene conto. È bene riportare fedelmente i nomi dei due formaggi citati, che sono peraltro ben noti al lettore italiano, in virtù del fatto che un testo tradotto è, e deve essere, espressione di una cultura estranea.
La strategia traduttiva adottata fino a questo punto ha subito una battuta d’arresto quando ho dovuto fare i conti con la traduzione delle frase riportata al punto IV. Per coerenza con le scelte precedenti avrei dovuto mantenere in inglese anche «cottage cheese», scelta che sarebbe stata praticabile nella prima parte della frase ma non nella seconda, dove avrei ottenuto qualcosa come: «Porta del “cheese” e del “cottage cheese”. Al fine di evitare di ridurre il testo a una serie di “mezze traduzioni” che finirebbero per richiedere al lettore uno sforzo di code switching sproporzionato rispetto alle intenzioni del prototesto, ho preferito affiancare a «cottage cheese» (→ 2.4.1.2) una traduzione addomesticante, collocandola all’interno delle consuete parentesi quadre, in modo da poter utilizzare direttamente quest’ultima nell’esempio riportato alla riga successiva. In tal modo il testo guadagna in chiarezza, senza però venire meno alla precisione lessicale che un saggio di linguistica deve garantire.
Il metatesto (2) si propone, quindi, di ovviare alle difficoltà elencate proponendo una soluzione traduttiva diversa, che tenga conto dei limiti che sono stati messi in luce. Va ribadito che non esiste una soluzione corretta in assoluto, ma ogni tentativo di traduzione deve essere dettato da una strategia che necessariamente sacrifica alcuni elementi per privilegiarne altri, ritenuti, in quel determinato contesto, prioritari. La differenza di fondo tra i due risulati ottenuti è che il metatesto (1) passa (o tenta di passare) per un originale, ed è quindi molto poco traduzionale, mentre leggendo il metatesto (2) i campanelli d’allarme del fatto che si tratti di una traduzione sono molteplici. L’atteggiamento focalizzato sull’alta traduzionalità comporta molti rischi, primo su tutti quello di rendere molto ardua la fruizione da parte del lettore, e basta confrontare le due traduzioni proposte nella tabella per rendersene conto. D’altronde, se siamo concordi nell’affermare che «dal confronto matura la coscienza sia delle identità sia delle differenze» (Osimo 2010: 86), si deve riconoscere a questo canale un ruolo fondamentale nell’arricchimento della cultura.
Del resto, la traduzione è, in un certo senso, una contraddizione in termini, un ossimoro: «si presenta come copia ma in realtà è un’originale» (Osimo 2010: 109). Accantonata la pretesa di realizzare fantomatiche “traduzioni fedeli”, concetto che l’autore sfiora alla fine del saggio chiamando in causa il detto «Traduttore, traditore» per metterne a nudo l’infondatezza («traditore di quali valori? Traduttore di quali messaggi?»), Jakobson ribadisce l’importanza di definire innanzitutto i termini della questione affinché la materia trovi posto a pieno titolo tra le scienze. Per indagare su questo ossimoro, insomma, Jakobson reputa necessaria una scienza linguistica a un tempo autonoma e in grado di arricchirsi con i contributi di altre scienze, che ha dimostrato di saper integrare sapientemente come solo uno tra i più grandi ed eclettici studiosi di linguistica del secolo scorso poteva fare: con la semplicità dei geni.

2.6. Riferimenti bibliografici

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3. ERRATA CORRIGE

Pagina Posizione
nel testo Metatesto 1 Metatesto 2 Note
3 cpv. 1,
riga 11 eppure, eppure punteggiatura
3 cpv. 2,
riga 2 [rispettivamente formaggio, mela […] [rispettivamente: formaggio, mela […] punteggiatura
3 cpv. 2,
riga 3 di qualsiasi tipo di qualsiasi tipo ridondante
3 cpv. 2,
riga 10 indicarla indicarlo concordanza con «cheese»
3 cpv. 2,
riga 11-12 […] o di qualsiasi formaggio, qualsiasi latticino, qualsiasi alimento, qualsiasi spuntino o forse qualsiasi confezione […] […] o di qualsiasi formaggio, latticino, alimento, spuntino o forse qualsiasi confezione […] evitare dove possibile la ripetizione di «qualsiasi»
5 cpv. 1,
riga 15 interlinguistica intralinguistica
5 cpv. 1,
riga 18 frase idiomatica espressione idiomatica lessico
6 cpv. 1,
riga 1 same some trascrizione
7 cpv. 1,
riga 2 Una traduzione di questo tipo […] Una simile traduzione […] corpo sonoro (assonanza tra «tipo» e «riferito»)
8 cpv. 1,
riga 1 metalinguistic “metalinguistic” trascrizione
8 cpv. 2,
riga 8 jeha paraquot jena paragot trascrizione
9 cpv. 2,
riga 2 amplificare ampliare lessico
(amplificare: aumentare nella misura consentita dalla moltiplicazione dei valori o delle dimensioni iniziali: a. un suono; rappresentare in modo esagerato.
ampliare: aumentare quanto all’estensione o alle dimensioni. Fig: accrescere, aumentare) Devoto-Oli: 2000
9 cpv. 2,
riga 3 mediante neologismi mediante neologismi ripetizione superflua che appesantisce la frase
9 cpv. 2,
riga 7 apparentemente all’apparenza corpo sonoro (assonanza con «semplicemente»)
9 cpv. 3,
riga 3 Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o], ora sono state integrate […] Le congiunzioni tradizionali «and» [e] e «or» [o] ora sono state integrate […] punteggiatura
9 cpv. 3,
riga 8 […] possono essere tradotte […] […] si possono tradurre […] forma
11 cpv. 1,
riga 1 […] dei numerali […] del numerale numero
11 cpv. 1,
riga 10 […] lei ha uno o più fratelli. […] lei ha uno o più di un fratello.
11 cpv. 2,
riga 11 […] nella versione russa di questa frase una risposta a questa domanda è d’obbligo. […] nella versione russa di questa frase una risposta a tale domanda è d’obbligo. forma (evitare la ripetizione del dimostrativo)
11 cpv. 2,
riga 11 D’altro canto, qualunque sia la scelta delle forme grammaticali russe per tradurre
[…] D’altro canto, qualunque forma grammaticale russa sia scelta per tradurre
[…] forma
11 cpv. 2,
riga 13 il lavoratore l’operaio coerenza con scelte precedenti
11 cpv. 2,
riga 19 Karcevski Karcevskij trascrizione
11 cpv. 2,
riga 19 paragonò paragonava tempo verbale
12 cpv. 2,
riga 8 mare more trascrizione
13 cpv. 1,
riga 2-3 una serie di domande una serie di domande specifiche omissione di «specific»
13 cpv. 1,
riga 3 […] le risposte sì o no […] […] le risposte «sì» o «no» […] forma
13 cpv. 1,
riga 5 Naturalmente l’attenzione […] Come è naturale, l’attenzione […] forma (evitare l’assonanza tra «naturalmente» e «costantemente»)
13 cpv. 1,
riga 6 […] è costantemente focalizzata […] […] sarà costantemente focalizzata […] tempo verbale
13 cpv. 3,
riga 10 […], al contrario, […] […], per contro, […] lessico
15 cpv. 1,
riga 3 […] di fronte al fatto che Peccato fosse stato raffigurato dagli artisti tedeschi come […] […] di fronte al fatto che alcuni artisti tedeschi avessero raffigurato Peccato come […] forma
15 cpv. 2,
riga 5 […] fatta poco dopo l’860 […] […] scritta poco dopo l’860 […] forma
15 cpv. 2,
riga 13 Ma a questo ostacolo poetico, Costantino […] Ma a questo ostacolo poetico Costantino […] punteggiatura
15 cpv. 2,
riga 14 […] richiamava l’attenzione principale sui […] […] richiamava l’attenzione principalmente sui […] forma
15 cpv. 3,
riga 3 in breve insomma forma
15 cpv. 3,
riga 3 qualsiasi cosa costituisca qualsiasi costituente del forma
17 cpv. 1,
riga 2 un termine più erudito, e forse più preciso un termine più erudito e forse più preciso punteggiatura
17 cpv. 1,
riga 5 − da una lingua in un’altra − − da una lingua in un’altra, punteggiatura
17 cpv. 2,
riga 1 «Traduttore traditore» «Traduttore, traditore» punteggiatura
19 cpv. 2,
riga 4 doxodčivost doxodčivost’ trascrizione
19 cpv. 3,
riga 3 […] e il compito più importante era quello di trovare […] […] e il compito più importante era trovare […] forma
21 cpv. 1,
riga 3 «Decimo congresso dei linguisti» Decimo congresso dei linguisti coerenza con scelte precedenti
21 cpv. 1,
riga 6 É il problema […] C’è il problema […] coerenza con struttura frase precedente
21 cpv. 1,
riga 10 […] come è già stato enfatizzato una volta con più decisione […] […] come è già stato enfatizzato una volta di più con decisione […] senso
23 cpv. 1,
riga 11 […] nella letteratura antropologica, si dice […] […] nella letteratura antropologica si dice […] punteggiatura
23 cpv. 2,
riga 12 officiale ufficiale refuso
25 cpv. 1,
riga 4 […] ricordo ciò che mi è stato detto dal […] […] ricordo ciò che mi disse il […] forma e coerenza con tempi verbali successivi
25 cpv. 1,
riga 13 Eppure, Eppure punteggiatura
25 cpv. 2
riga 4 […] non è stato individuato nessun progresso. […] non è stato individuato alcun progresso. forma
25 cpv. 2,
riga 8 Tutti i tentativi di diversi linguisti di trovarvi tracce di progresso […] Tutti i tentativi compiuti da vari linguisti per trovarvi segni di progresso […] corpo sonoro
(evitare assonanze e la ripetizione di «diversi»)
27 cpv. 1,
riga 9 Soltanto, Soltanto punteggiatura
27 cpv. 1,
riga 11 […] adattamenti, e innovazioni terminologiche […] […] adattamenti e innovazioni terminologiche […] punteggiatura
27 cpv. 2,
riga 3 […] non dovremmo dimenticare […] […] non dimentichiamo […]
28 cpv. 2,
riga 8 […] pattern, […] […] pattern: […] trascrizione
29 cpv. 2,
riga 7 Nella struttura del linguaggio è presente […] Nella struttura della lingua osserviamo […] lessico e forma
(evitare la ripetizione tra «è presente» e «presentano»)
29 cpv. 2,
riga 9 […] dai caratteri distintivi e fonemi […] […] da caratteri distintivi e fonemi […] prep. semplice
29 cpv. 2,
riga 12 […] strumento indispensabile di pensiero […] […] indispensabile strumento di pensiero […] ordine delle parole
29 cpv. 2,
riga 14 […] parlare di cose ed eventi che sono assenti e lontani […] […] parlare di cose e situazioni che sono assenti e lontane […] corpo sonoro
29 cpv. 2,
riga 16 […] coloro che dicono e coloro ai quali è detto […] […] sayers and sayees […] riferimento implicito al saggio Thought and language (1890) di Samuel Butler, contenuto in Essays on life, art and science. In particolare: «It takes two people to say a thing – a sayer as well as a sayee».
31 cpv. 1
riga 1 […] appena dopo la schiusa […] […] appena dopo la schiusa […] aggiunta
31 cpv. 2,
riga 8 Se privati del modello adulto, resteranno muti […] Se privati del modello adulto resteranno muti […] punteggiatura
33 cpv. 1,
riga 13 A volte, Talvolta forma e punteggiatura
33 cpv. 1,
riga 14 conduce ha condotto tempo verbale
33 cpv. 1,
riga 17 […] e cognitiva, […] […] e cognitiva […] punteggiatura
33 cpv. 2,
riga 5 […] riveste un ruolo significativo e autonomo […] […] occupa una parte significativa e autonoma […] forma
(evitare ripetizione con frase precedente)
33 cpv. 3,
riga 2 […] la cui lingua madre non ha la divisione grammaticale dei nomi in quelli di genere femminile e quelli di genere maschile[…] […] la cui lingua madre non prevede la divisione grammaticale dei nomi di genere femminile e di genere maschile[…]
35 cpv. 1,
riga 4 […], nell’intento di […] […] con l’obiettivo di […] punteggiatura e forma
35 cpv. 2,
riga 5 durante la mia infanzia durante l’infanzia forma (evitare il possessivo)
35 cpv. 2,
riga 5 […] ho letto le fiabe […] […] lessi le fiabe […] tempo verbale
37 cpv. 1,
riga 8 […] le interpretazioni inglesi di questi versi danno un’impressione scialba e retorica […] […] la resa inglese degli stessi versi appare scialba e retorica […] lessico, forma e corpo sonoro
37 cpv. 2,
riga 10 […] che non lo segnala. […] che non la segnala. concordanza con «compiutezza»
37 cpv. 2,
riga 10 Ogni volta che si usa un verbo russo, si deve esprimere se si intende l’azione compiuta, o solo il processo senza riferimenti al suo compimento. Ogni volta che si usa un verbo russo si deve esprimere se si intende l’azione compiuta o solo il processo, senza riferimenti al suo compimento. punteggiatura
39 cpv. 1,
riga 4 «[…]», potreste chiedermi […] «[…]» potreste chiedermi […] punteggiatura
39 cpv. 1,
riga 10 ripartiscono trasmettono lessico
41 cpv. 2,
riga 8 vasto e influente intervento intervento ponderato e influente lessico e forma
41 cpv. 2,
riga 14 […] complementarità tra linguaggio delle scienze […] […] complementarità tra il linguaggio delle scienze […] forma
41 cpv. 2,
riga 20 alla composizione all’elaborazione lessico

Suzanne: Traduzione culturale di un testo poetico Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

Suzanne:

Traduzione culturale di un testo poetico

SILVIA CASALE

 

 

Fondazione Milano

Civica Scuola Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli»

via Carchidio 2   20144 MILANO

 

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione Linguistica

Ottobre 2010

 

 

© Leonard Cohen, Suzanne, 1966

© Silvia Casale 2010

 

A chi, come me,

pensa che i veri viaggi siano i viaggiatori.

 

 

A Bruno Osimo,

piacevole compagno di viaggio.

 


Abstract in italiano

Suzanne, brano poetico di Leonard Cohen, costituisce un testo simbolico di un’epoca e di una cultura internazionale. La tecnica della traduzione culturale ha lo scopo di attualizzare un testo in funzione del contesto in cui è nato e del contesto in cui viene reinterpretato. Nel caso specifico il contesto è costituito di aspetti personali, storici e sociali. Nella tesi il testo di Cohen è stato riattualizzato dal punto di vista della cultura italiana di mezzo secolo dopo.

 

English abstract

Suzanne, a poetic piece by Leonard Cohen, represents a symbolic text of an epoch and of an international culture. The technique of cultural translation aims at presenting a text in contemporary terms depending on the context in which it was conceived and on the context in which it is reinterpreted . In this specific case the context is made up of personal, historical and social aspects. In this degree thesis Cohen’s text has been represented in contemporary terms from the perspective of a fifty-year-later Italian culture.

 

Deutsche Zusammenfassung

Suzanne, ein poetisches Stück von Leonard Cohen, stellt einen symbolischen Text einer ganzen Epoche und einer internationalen Kultur dar. Die Technik der kulturellen Übersetzung verfolgt den Zweck, einen Text in Funktion des Kontextes, in dem er konzipiert wurde und  des Kontextes, in dem er neu interpretiert wird, zu aktualisieren. In diesem spezifischen Fall besteht der Kontext aus persönlichen, historischen und gesellschaftlichen Aspekten. In dieser Diplomarbeit wird Cohens Text fünfzig Jahre später vom Standpunkt der italienischen Kultur aus neu aktualisiert.

 

 

 

 

Sommario

0. Materiale empirico 9

1. Premessa: chi è Suzanne? 12

2. Verso 1 13

2.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 14

2.2 Commento culturale….. 18

2.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 20

3. Versi 2 e 3 20

3.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 20

3.2 Commento culturale….. 23

3.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 26

4. Versi 4 e 5 26

4.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 26

4.2 Commento culturale….. 28

4.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 30

5. Versi 6 e 7 31

5.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 31

5.2 Commento culturale….. 32

5.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 35

6. Versi 8 e 9 36

6.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 36

6.2 Commento culturale….. 36

6.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 37

7. Versi 10, 11 e 12 38

7.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 38

7.2 Commento culturale….. 40

7.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 41

8. Versi 13 e 14 41

8.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 42

8.2 Commento culturale….. 44

8.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 47

9. Versi 15 e 16 47

9.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 47

9.2 Commento culturale….. 49

9.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 51

10 Versi 17 e 18 51

10.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 51

10.2 Commento culturale….. 54

10.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 57

11. Versi 19 e 20 57

11.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 58

11.2 Commento culturale….. 59

11.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 60

12. Versi 21 e 22 60

12.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 60

12.2 Commento culturale….. 61

12.3 Raffronto con la versione di Fabrizio De Andrè….. 62

13. Versi 23 e 24 62

13.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 62

13.2 Commento culturale….. 63

13.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 63

14. Versi 25 e 26 64

14.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 64

14.2 Commento culturale….. 64

14.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 65

15. Versi 27 e 28 66

15.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 66

15.2 Commento culturale….. 67

15.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 67

16. Versi 35 e 36 68

16.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 68

16.2 Commento culturale….. 69

16.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 69

17. Versi 37 e 38 70

17.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 70

17.2 Commento culturale….. 70

17.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 71

18. Versi 39 e 40 72

18.1             Ricerca delle parole nel contesto culturale      72

18.2             Commento culturale      72

18.3             Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè      74

19. Versi 41 e 42 74

19.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 74

19.2 Commento culturale….. 75

19.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 75

20. Versi 43 e 44 75

20.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 76

20.2 Commento culturale….. 76

20.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 77

21. Versi 45 e 46 77

21.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale….. 78

21.2 Commento culturale….. 78

21.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè….. 79

22. Riferimenti bibliografici….. 79

 

 


0. Materiale empirico

Nella tesi si prende in considerazione il testo della lirica di Leonard Cohen Suzanne (1966) come attestata nel sito ufficiale dell’autore.

 

  1. Suzanne takes you down to her place near the river
  2. You can hear the boats go by
  3. You can spend the night beside her
  4. And you know that she’s half crazy
  5. But that’s why you want to be there
  6. And she feeds you tea and oranges
  7. That come all the way from China
  8. And just when you mean to tell her
  9. That you have no love to give her

10. Then she gets you on her wavelength

11. And she lets the river answer

12. That you’ve always been her lover

13. And you want to travel with her

14. And you want to travel blind

15. And you know that she can trust you

16. For you’ve touched her perfect body with your mind.

 

17. And Jesus was a sailor

18. When he walked upon the water

19. And he spent a long time watching

20. From his lonely wooden tower

21. And when he knew for certain

22. Only drowning men could see him

23. He said “All men will be sailors then

24. Until the sea shall free them”

25. But he himself was broken

26. Long before the sky would open

27. Forsaken, almost human

28. He sank beneath your wisdom like a stone

29. And you want to travel with him

30. And you want to travel blind

31. And you think maybe you’ll trust him

32. For he’s touched your perfect body with his mind.

 

33. Now Suzanne takes your hand

34. And she leads you to the river

35. She is wearing rags and feathers

36. From Salvation Army counters

37. And the sun pours down like honey

38. On our lady of the harbor

39. And she shows you where to look

40. Among the garbage and the flowers

41. There are heroes in the seaweed

42. There are children in the morning

43. They are leaning out for love

44. They will lean that way forever

45. While Suzanne holds the mirror

46. And you want to travel with her

47. And you want to travel blind

48. And you know that you can trust her

49. For she’s touched your perfect body with her mind.


 

1. Premessa: chi è Suzanne?

Prima di avanzare qualsiasi proposta di traduzione del testo, occorre analizzare ciò che la figura di Suzanne, protagonista del brano, rappresenta per l’autore, al fine di comprendere meglio i significati profondi e i motivi peculiari che hanno dato vita a una canzone di straordinaria eleganza e di forte impatto emotivo. Stereotipo della ballata coheniana per eccellenza, questa lirica, che entrerà di diritto nella storia della canzone folk canadese e americana, può essere descritta come il ritratto della donna vista nella sua veste “totalitaristica”. Già dalle prime righe del testo è possibile percepire immediatamente il carisma e il fascino che trasuda la protagonista: una donna dai più diversi e disparati volti, la quale dà adito a molteplici interpretazioni. Suzanne potrebbe infatti essere una musa ispiratrice, un amore perso, una guida dalle connotazioni materne, o persino, secondo un’interpretazione iperbolica, la Madonna; ma anche una pazza, una prostituta, una ladra, una vagabonda o una zingara che vivendo ai margini della società, profondamente a contatto con la natura, riproduce emblematicamente la concezione della figura femminile hippie e bohémien. Suzanne viene in ogni caso idealizzata come salvezza ultima per l’anima, come qualcosa da cui non si può prescindere e a cui bisogna rimettere i propri peccati. È il simbolo ideale di Cohen: un estro ispiratore alla ricerca perpetua della libertà, che sia essa prigione di se stessa o libertà immateriale ed eterna. Divenendo oggetto di devozione soprannaturale, Suzanne si presenta come unica ancora di salvezza capace di redimere l’autore da una realtà in cui tutte le contraddizioni che la caratterizzano (i rifiuti e i fiori), sono elevate a bellezza e perfezione. Ecco perché nella visione coheniana Suzanne non sarà mai identificabile nella figura tradizionale di una sposa che cerca di legare a sé il compagno.

Senza la presunzione di voler necessariamente e forzatamente ricondurre a un riscontro reale e biografico, alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che la donna ispiratrice di quella descritta nella canzone possa presumibilmente essere Suzanne Erold, madre dei suoi figli. Ipotesi smentita da una seconda, contrastante ma già comprovata, che identifica la protagonista del brano con Suzanne Verdal, ballerina e moglie del noto scultore Armand Vaillancourt. Incontrata dal poeta anni prima a Montreal, aveva già ispirato diverse poesie successivamente pubblicate su Parasites of Heaven. In una di queste appare già il famoso verso: Suzanne takes you down, che rappresenta proprio il verso di apertura della lirica. La canzone intreccia una visita a casa della Verdal, vicino al fiume St.Lawrence, e fantasie bibliche suscitate da una visita a una piccola chiesa di marinai a Montreal, la Chapelle de Bonsecours.

«My ballads strive for folk-song simplicity and the fable’s intensity»(Nadel, 1997:46)

«The two qualities most important for a young poet are arrogance and inexperience» ­-Irving Layton (Footman, 2009:20)

 

 

2. Verso 1

Suzanne takes you down, to her place near the river

2.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Il verbo take down ha diversi significati. Nel verso della canzone è utilizzato in forma transitiva ed è alla terza persona singolare, seguito da una «s» alla fine della parola, secondo la convenzione anglosassone. Il dizionario monolingua Webster’s New World Dictionary lo descrive così: 1.) to remove from a higher place and put in a lower one, pull down; 2.) to unfasten; 3.) to take apart; 4.) to put in writing; record e ancora  5.) to make less conceited, humble. Il verbo considerato viene spiegato in modo simile da un altro dizionario monolingua, il Merriam Webster: 1.)to lower without removing, 2.) to pull to pieces, to disassemble, 3.) to write down, to record by mechanical means, 4.) to lower the spirit of vanity of. Quindi significa: «tirare giù, prendere (dall’alto), abbassare», ma anche: «staccare, smontare, smantellare», oppure ancora: «portare giù, accompagnare giù (qlcu.)», «annotare, prendere nota di, scrivere», in senso figurativo: «umiliare, ridimensionare, far abbassare la cresta a qlcu.» e più specificamente nel contesto americano viene utilizzato in ambito sportivo per: «buttare a terra, atterrare (un avversario)» (Garzanti 2009).

A questo punto, considerando anche un’opinione generalmente diffusa, è facile riscontrare l’incongruenza che sorge in italiano, quando, anche solo a colpo d’occhio, si legge: «Suzanne ti porta giù»; espressione che può essere metaforicamente intesa come qualcosa che crea sconforto, che deprime, che avvilisce.

E ciò accade nonostante in questo senso in italiano corrente, piuttosto che «portare giù», ricorra con più frequenza l’espressione «buttare» o in forma riflessiva: «buttarsi giù». Perciò bisogna eludere la possibilità di evocare una sensazione emotiva demoralizzante, soprattutto alla luce del fatto che l’intervento di Suzanne pare volto a alleviare le pene, a “scrostare” i malesseri del disagio e a sollevare il morale e a suscitare un “decollo emotivo”. L’intervento è incoraggiante, benefico, permeato dalla speranza e dal conforto.

Inoltre richiamare l’idea di un fiume «che sta giù», potrebbe rievocare in qualche modo (anche se, ovviamente, non in maniera immediata), un «fiume sotterraneo». Evocazione che, nell’immaginario collettivo italiano, si carica di un forte significato allusivo richiamando alla mente lo Stige: il fiume degli inferi tipico della mitologia greco-romana, ancora così viva nella cultura della lingua d’arrivo. Ciononostante è bene conservare il rimando a un luogo distante, immerso nella natura dove scorre appunto, un fiume e ciò si può fare eliminando, per esempio, la parola «giù» e conseguentemente convogliando questo senso di distacco dal mondo quotidiano, di isolamento raccolto, di vicinanza alla natura nell’espressione «lungo il fiume».

Un’altra possibile traduzione del verbo take down potrebbe essere «accompagnare» («Suzanne ti accompagna lungo il fiume dove vive»), anche se bisogna sottolineare che in questo modo Suzanne da castellana di corte, da amazzone alla guida del suo destriero, da padrona della situazione, viene relegata a un ruolo di mera accompagnatrice, perdendo così parte dell’estro ispiratore e del fascino trascinatore che la contraddistinguono.

Una valida alternativa è rappresentata dalla semplice espressione: «Suzanne ti porta con sé», la quale risalta molto lo spirito d’iniziativa peculiare alla figura della donna: musa, guida e stella polare della dimensione intima e spirituale dell’autore. È lei a stabilire le regole del gioco, unica detentrice di un ascendente decisionale senza pari. La traduzione mantiene il verbo «portare», che però non è seguito da una direzione (che come ho scritto poco sopra, ho cercato di trasporre nel sintagma seguente), ma da una locuzione («portare con sé») che ricorda l’ospitalità, l’invito, l’accoglienza.

Consultando l’Urban Dictionary, un dizionario on-line meno convenzionale, ho riscontrato l’esistenza di un ennesimo significato: the word take down, or TD, is used to describe a male or female meeting a member of the opposite sex (or same sex I suppose) at a bar, restaurant social gathering, super market, gym, etc., and physically leaving with that person either making out extensively or having sex. There are different levels of take downs. A full TD is sex. A partial TD may just be oral sex or extensive making out. Credo che sia proprio questo a cui allude, non senza servirsi di un abile gioco di parole, Leonard Cohen. L’utilizzo del verbo «portare» in questo senso, è comune anche in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, («se lo/a è portato/a»), anche se in questo contesto sarebbe meglio completare l’espressione mediante un modo di dire italiano d’uso corrente: «portarsi qlcu. a letto». Di conseguenza tra i vari significati culturali del verbo esaminato, ve ne è uno allusivo che denota un incontro molto meno ingenuo e innocente di quello che può sembrare a primo impatto. Da un esame delle occorrenze nel corpus che è internet, è facile appurare l’esistenza del riferimento agli incontri sessuali. Questo è ben rappresentato da un verso emblematico di una canzone dei Kiss: Strutter, in cui il verbo compare nella frase she takes you down and drives you wild, dove il significato del verbo considerato è più esplicito in quanto l’allusione è alimentata dalla locuzione seguente (drive someone wild).

Nell’analizzare l’espressione take someone down, si incorre agevolmente in un modo di dire inglese: to sell someone down the river che significa: to betray the faith of (Merriam-Webster); to betray, to deceive, to cheat on someone (Webster’s 2008) e «tradire, ingannare, mettere qlcu. nei guai» (Garzanti 2009). L’origine dell’idiotismo risale alla tratta degli schiavi in cui erano coinvolti i proprietari delle piantagioni di canna da zucchero nella regione meridionale del Mississippi, dove le condizioni erano più ostili (Apple Dictionary 2005-2007).

Similmente l’idiotismo to sell someone up the river significa allo stesso modo to betray, to cheat on someone ma, diversamente dal modo di dire a cui accennavo prima, allude ai detenuti della prigione Sing Sing situata lungo il fiume Hudson a New York (Apple Dictionary 2005-2007).

In secondo luogo ricercando i molteplici significati della parola place, si nota che questa è traducibile con diversi termini: «luogo, posto, località, zona»; «casa, abitazione, dimora», «posto a tavola, posto a sedere», ma anche «posizione sociale, rango, condizione» e infine «compito, dovere» (Garzanti 2009). L’Urban Dictionary spiega il sostantivo come the area imagined which fulfills a desired emotion or feeling that is lacking in the present e quindi: a residence, dwelling (Webster’s 2008); an area occupied as a home (Merriam-Webster Dictionary). Nella scelta traduttiva, il sostantivo place, può essere anche reso con la relativa «dove vive», proprio perché si presume che Suzanne sia una vagabonda, una zingara o una hippie e che dimori solo in luoghi temporanei e di fortuna e non certo in abitazioni stabili, come può essere, per esempio, una casa.

2.2 Commento culturale

Il particolare tipo di rapporto che Cohen instaura con la sua musa è molto più carnale, fisico e concreto di come viene generalmente concepita una relazione di “subordinazione mentale”, in base alla quale la profonda devozione è motivo di distacco e di contemplazione raccolta. Non è questo il caso. La relazione tra i due si presenta piuttosto come un connubio perfetto di entrambi gli elementi: l’aspetto passionale, fugace, terreno e quello più spirituale, religioso e immateriale. Anzi, nella concezione coheniana i due aspetti non sono così imprescindibilmente distinti, ma nella figura emblematica della stessa Suzanne, sono piuttosto due lati della stessa medaglia.

A questo punto è utile osservare come l’aspetto più spirituale risenta ancora molto dell’influenza esercitata dalla concezione cavalleresca ben rappresentata da testi come La chanson de Roland, emblema del poema epico-cavalleresco che celebra gli alti valori della società feudale aristocratica, come la fede religiosa, la fedeltà al proprio sovrano, la difesa dei deboli, il rispetto e l’esaltazione della donna. Quest’ultima concezione dell’amore, come aspetto preponderante e nobile della vita del cavaliere, viene associata al tratto della cortesia e della nobiltà d’animo, dando vita a una concezione nuova e innovativa definita «amor cortese». Una concezione secondo la quale solo chi ama possiede un cuore nobile e che identifica l’amore come un’esperienza ambivalente fondata sulla compresenza di desiderio erotico e tensione spirituale. Un’ambivalenza che si esprime nella giusta distanza (detta mezura, misura) tra sofferenza e piacere, tra angoscia ed esaltazione.

Ma come abbiamo ben potuto vedere, l’amor cortese coheniano non è certo alla ricerca del termine aulico e del gusto raffinato tipici del Dolce stilnovo e la donna della visione coheniana rispecchia solo per certi aspetti la donna angelo tipica della concezione stilnovistica. Il modello sociale radicalmente nuovo che il movimento hippie stava apportando in quel periodo, promuove, tra gli altri valori, la libertà sessuale, che si traduceva anche nel coinvolgimento in relazioni sessuali casuali e in sperimentazioni della sfera sessuale, che non appartenevano alle esperienze delle generazioni passate. Molte persone accusavano gli hippie di promiscuità, di partecipazione a orge selvagge e di altre perversioni sessuali. La loro idea di «libero amore» era in realtà una vera e propria rivoluzione sessuale scaturita anche come reazione e movimento di ribellione al puritanesimo dell’epoca. Solo la generazione precedente infatti, cresciuta nell’America degli anni ’50, era stata educata all’idea generica e vaga di amore, mentre il sesso era raramente argomento di discussione: masturbazione e sesso prematrimoniale erano una sorta di tabù, ostracizzati da genitori e media. Ai ragazzi veniva insegnato che il sesso era riservato alle persone che si amavano e si erano sposate. Il fine riproduttivo era lo scopo determinante della sessualità. Il sesso che non rientrava in queste caratteristiche era considerato perverso. Quando l’argomento della libertà sessuale venne più approfonditamente affrontato (anche per opera di molti artisti della beat generation come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs eccetera), i giovani impararono che il sesso è un’azione normale come mangiare o dormire; è una libera espressione di sé stessi e dei propri sentimenti. Il concetto di «amore libero» rappresentava semplicemente la libertà di amare chiunque, dovunque, in ogni momento. Questo incoraggiò una serie di attività sessuali spontanee e di sperimentazione di gruppo, sesso in pubblico, omosessualità: tutti i tabù vennero infranti e sperimentati. Le relazioni aperte divennero una realtà del mondo hippie. Pur avendo una relazione importante con qualcuno si poteva sperimentare una particolare attrazione con un’altra persona senza restrizioni e condizionamenti. La gelosia era concepita come un sentimento cieco e ottuso, che portava inevitabilmente all’inaridimento della relazione.

2.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

Dopo aver analizzato e conseguentemente elaborato il primo verso della canzone ho poi considerato quella di Fabrizio De Andrè. Trovo interessante il fatto che anche questa versione riprenda il forte potere decisionale di Suzanne, di cui parlavo sopra: «nel suo posto in riva al fiume Suzanne ti ha voluto accanto». Se si è in sua compagnia è perché lei ha espresso così la sua volontà.

 

 

3. Versi 2 e 3

You can hear the boats go by

You can spend the night beside her

3.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Nel distico considerato si può notare che il sostantivo boat, comunemente inteso come: «barca, battello, imbarcazione, piccola nave» (Garzanti 2009), oppure, secondo la definizione data dal dizionario monoligua Webster’s New World Dictionary: any large seagoing water vehicle, si presti a ulteriori interpretazioni. Lo spunto interessante è dato, ancora una volta, dall’ Urban Dictionary, che, oltre alle definizioni indicate sopra, designa la parola come un tipo di droga: 1000 pills of ecstasy; weed soaked in embalming fluid and laced with PCP. Gives you scary trips. Questo significato del termine è indicativamente reso credibile da ben 144 up, contro 90 down. È lo stesso Urban Dictionary a informarci che la parola appartiene a uno slang regionale (Mid Atlantic slang for PCP. Primarily Washington D.C. and surrounding Virginia), non utilizzato correntemente nell’inglese standard, ma comunque compreso in larga parte dagli americani anglofoni. A primo impatto l’allusione con l’ecstasy potrebbe non aver alcun senso, soprattutto alla luce di un riscontro storico. Tale allusione pare assumere senso più semplicemente in base al valore nominale del termine.

Ciononostante è doveroso osservare che, contrariamente a quanto generalmente si crede, l’ecstasy (o MDMA) e il PCP venivano già utilizzati in alcuni ambienti della controcultura americana e in particolare californiana, a scopi di sperimentazione allucinogena.

Perciò, come spiegherò meglio in seguito, sebbene negli anni Sessanta il culto dell’MDMA e del PCP non fosse così ampiamente diffuso come quello dell’LSD, questi farmaci possono essere comunque annoverati tra le droghe sintetiche tipiche di quegli anni e di cui l’autore ha fatto uso. Alla luce di quanto detto, è chiaro che l’allusione a qualche tipo di droga sintetica può presumibilmente essere considerata probabile.

Contestualizzando ulteriormente il termine boat è facile osservare come questo richiami fortemente la simbologia freudiana tornata alla ribalta nei circoli intellettuali del tempo. La barca è un emblema femminile che richiama in parte la funzione uterina (trasporta tante persone sull’acqua), in parte la forma dell’apparato sessuale femminile. Cohen, appassionato fin dall’adolescenza all’alterazione dello stato di coscienza, alle tecniche legate all’ipnosi e al suo potere straordinario (Nadel 1997:43) è senza dubbio consapevole del significato freudiano a cui implicitamente allude il vocabolo.

«He wanted to touch people like a magician, to change them or hurt them, leave his brand on them, to make them beautiful. He wanted to be the hypnotist who takes no chances of falling asleep himself. He wanted to kiss with one eye open» (Nadel 1997:43). Quest’ultima espressione sta a significare la volontà di Cohen di non lasciarsi mai coinvolgere totalmente, ma piuttosto, di mantenere sempre un po’ il controllo.

Il primo distico può essere tradotto con: «puoi sentir le barche passare», lasciando il soggetto (seconda persona singolare) sottinteso, poiché esprimerlo in maniera esplicita darebbe un’enfasi non voluta e non intesa dall’autore. Inoltre nella speranza di conferire a una possibile traduzione un’aura più poetica e aulica, è utile mantenere la struttura del verso concludendola servendosi di un’infinitiva («puoi sentir le barche passare», piuttosto che «puoi sentir le barche che passano»).

Allo stesso modo nella seconda parte del distico considerato, il sostantivo night significa ovviamente: the period of actual darkness after sunset and before sunrise (Webster’s 2008), ma indica anche un significato culturale: night is when everything from robbery, drag racing, sex and other fun things happen (Urban Dictionary). Un’idea della notte che qui viene descritta in modo un po’ semplicistico e banale, ma che rende bene la concezione di quest’ultima che aveva lo stesso Cohen.

«Puoi sentir le barche passare, puoi trascorrere la notte al suo fianco».

3.2 Commento culturale

Come esplicitato bene dalla spiegazione fornita dall’Urban Dictionary che riportavo sopra, la notte assurge a una dimensione iniziatica, misteriosa e affascinante. Dalle numerose biografie di Leonard Cohen e dalle dichiarazioni dello stesso autore, si evince quanto questa sia stata la migliore insegnante e amica del poeta.

Nel 1961 Cohen raggiunge Cuba spinto soprattutto dalla curiosità e dal senso dell’avventura, dall’esigenza di toccare con mano una realtà soggetta alla dittatura comunista. L’Avana, soprannominata the whorehouse of America, «il bordello d’America», accoglie calorosamente Cohen, il quale riprende una vecchia abitudine adolescenziale che poi continuerà ad avere per lungo tempo, ovvero «esplorare la scena notturna» (Nadel 1997:93). Il poeta rimane spesso sveglio a scrivere, bere o discorrere tra amici fino alla sua ora preferita: le 3.00. Trascorrendo le notti in compagnia di magnaccia, prostitute, ladruncoli, piccoli criminali e giocatori d’azzardo gironzola per i bassifondi del quartiere Jesús del Monte, nei sobborghi vivaci della zona litoranea di Miramar e nei vicoli più frequentati dell’Avana Vecchia. Subisce il fascino esotico della sensualità cubana e nonostante le restrizioni imposte dal socialismo, la città è permeata da una bellezza violenta che si dispiega in tutta la sua interezza proprio di notte, al suono delle maracas e al ritmo di rumba e cha-cha. Cohen trascorre la maggior parte del tempo in casinò (in quel periodo illegali), cabaret, nightclub, case da gioco ecc., incontrando artisti e scrittori e confrontandosi con questi ultimi sulle libertà artistiche e l’oppressione politica. Non mancano momenti di screzio, soprattutto con i comunisti statunitensi che lo coinvolgono facilmente in diverbi accesi e discussioni vivaci.

In questo periodo continua a far uso di droghe, abitudine che aveva preso nella seconda metà degli anni Cinquanta. Le droghe, panacea degli anni Sessanta, avevano finito per coinvolgere anche Cohen che faceva principalmente uso di marijuana e LSD. Con l’andare del tempo, si sono sviluppate anche altre droghe come quelle farmaceutiche. Così hanno cominciano a essere commercializzate anche le anfetamine, gli acidi e lo hashish. Sotto l’effetto della marijuana Cohen riscopre la libertà della sperimentazione poetica e dell’esplorazione di nuove forme di scrittura. Per Cohen le droghe sono anche una sorta di surrogato della religione: l’estasi in sostituzione alla religione mistica e profetica in cui credeva profondamente, ma da cui ora si sente distante. A volte condivide esperienze allucinogene con i suoi amici artisti. Infatti, come descritto precedentemente, l’esperienza psichedelica di quegli anni permea determinati entourage tipici della controcultura alternativa americana.

Anche l’MDMA può essere annoverata tra le varie droghe da laboratorio utilizzate, seppur non profusamente come l’LSD, dagli anticonformisti dell’epoca. L’MDMA nasce intorno al 1912 nei laboratori della società farmaceutica tedesca Merck & Co. per opera di due ricercatori che, lavorando alla sintesi di un farmaco dimagrante, arrivano alla sintesi di un preparato semisintetico il cui acronimo MDMA è la forma breve del suo nome scientifico, ovvero 3,4 metilen-diossi-metamfetamina. Dagli effetti psicoattivi, stimolanti e allucinogeni, tale farmaco viene ritirato dal mercato proprio a causa dell’impatto emotivo eccessivamente dirompente e corroborante che si manifesta mediante atteggiamenti legati all’aggressività e inquietudine. Negli anni Settanta alcuni psichiatri americani somministrano il farmaco ai loro pazienti per aumentarne le capacità di comunicazione ed empatia e per alleviare gli stati d’ansia.

Il termine «ecstasy» non era ovviamente ancora stato inventato. Questo viene coniato nel 1983 da un giornalista di Los Angeles che voleva semplificare il termine «entactogeno» dato alla sostanza che cominciava a muovere i primi passi tra i frequentatori dei locali notturni. Allo stesso modo droghe come il PCP (fenciclidina) e la ketamina, vengono inizialmente sviluppate come anestetici generici nella chirurgia producendo sensazioni di distacco e dissociazione tra l’ambiente e sé stessi e sono conseguentemente noti come “anestetici dissociativi”. Il PCP è un agente stimolante del sistema nervoso centrale con proprietà anestetiche, analgesiche e allucinogene. Fu immesso sul mercato con il nome di Sernyl, ma perse favore a causa dei vari effetti collaterali come estrema eccitazione, disturbi visivi e delirio. Dopo lo sviluppo dell’LSD, composto sintetico prodotto in laboratorio, l’abuso di allucinogeni si è diffuso maggiormente e dagli anni Sessanta è cresciuto molto.

3.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

La traduzione di De Andrè «e ora ascolti andar le barche / e ora puoi dormirle al fianco», a cui ricorro spesso per un costruttivo confronto, si presta bene alla melodia del testo da cui, per motivi fonetici e ritmici, dipende. Ma è un peccato penalizzare la traduzione originale privandola della concezione del poeta legata alla notte. Perciò questo passo potrebbe essere tradotto con l’espressione: «puoi trascorrere la notte accanto a lei», traduzione che non soddisfa pienamente, in quanto risulta appesantita dalla troppo lunga locuzione «accanto a lei». Intuitivamente viene in mente «puoi trascorrere la notte al suo fianco», che sembra rendere meglio l’idea.

 

 

4. Versi 4 e 5

And you know that she’s half crazy

But that’s why you want to be there

4.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Cercando di interpretare il distico considerato ponendo le diverse culture a confronto, si riscontra subito un’immediata incongruenza tra il significato degli aggettivi italiani «matto» e «pazzo» e quello dell’aggettivo inglese crazy, in base alla quale non sarebbe idoneo tradurre la frase con: «e sai che è mezza matta». Consultando i dizionari monolingui ho appurato i molteplici significati dell’aggettivo crazy, tra cui: an eccentric or mentally unbalanced person, a person who acts with no restraint (Webster’s 2008); being out of the ordinary, absurd, bizarre, fantastic, fanciful, nonsensical, unreal, wild (Merriam-Webster). Di conseguenza è facile notare come, tra i molteplici significati che l’aggettivo assume, questo viene correntemente usato nello slang per riferirsi a una persona eccentrica a cui magari manca anche qualche rotella, una persona che si esprime senza troppi condizionamenti. Credo che sia proprio questo il senso che Cohen intende descrivere nella sua Suzanne, una caratteristica che cerca forse di attenuare leggermente “dimezzandola” per così dire, mediante l’impiego della parola half la quale, quando è usata come avverbio, e questo è il caso, assume il significato: to some extent; partly (Webster’s 2008).

A questo proposito è necessario chiarire che le implicazioni dell’aggettivo inglese crazy sono soprattutto positive, denotando una persona divertente, creativa, che stupisce per i modi di fare particolarmente coinvolgenti, che riesce a intrattenere gli altri. Ho trovato alcuni sinonimi in Webster 2008 (cool, hip, wild, fun to be with, entertaining, enthusiastic, awesome…), mentre in italiano l’aggettivo «pazza» o «matta» può risultare più facilmente offensivo, giacché risente ancora molto della connotazione negativa dovuta alla dimensione di instabilità mentale a cui è strettamente correlato (seppure attualmente con il diffondersi di una certa etica legata all’ambito della psiche umana, non si parla più di «matti» ma di individui instabili o che soffrono di disturbi mentali e così via).

Nel secondo verso l’espressione to be there significa non soltanto «esserci» fisicamente ma, specialmente se formulata in un contesto informale, vuol anche dire: to be in full possession of one’s wit; to be mentally sound (Webster’s 2008) ed è in piena contrapposizione con il significato di crazy, che prima spiegavo. Perciò mentre Suzanne si presenta come una donna disinibita, emancipata, eccentrica, che assume atteggiamenti non soggetti a condizionamenti, l’autore del testo vuole rimanere nel pieno delle sue facoltà (psicologiche, cognitive, emotive), proprio per godersi appieno il benessere suscitato dalla compagnia di una presenza tanto interessante. Pertanto Cohen cerca di prestare il massimo dell’attenzione, di essere profondamente concentrato e raccolto; di essere presente nel senso più vero del termine mentre è con lei. È bene osservare l’esistenza dell’espressione to be there con il parallelismo italiano, spesso formulato sotto forma di domanda: «Ci sei?» per dire «Mi segui? Mi ascolti? Mi dai retta?». Questo distico potrebbe quindi anche essere tradotto con: «sai che è un po’ eccentrica / ed ecco perché vuoi darle retta».

Consultando l’Urban Dictionary ho poi scoperto che to be there assume anche un altro significato, ovvero: to seduce, to get laid, to hook up, to get banged, to screw, to have sex. E anche in questo caso mi sembra verosimile l’ipotesi che Cohen intenda anche dire: «sai che è un po’ fuori / ed ecco perché vuoi portartela a letto».

4.2 Commento culturale

Lo stesso Leonard Cohen non è estraneo a squilibri umorali. Intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta comincia ad abbandonarsi a uno stato di depressione, che inizialmente si concretizza nella ricerca di solitudine e nell’esigenza di intimità con sé stesso, successivamente nell’uso di droghe (Nadel 1997: 48). Si sente sempre meno compreso dai coetanei e comincia a percepirsi sempre più come un “diverso”, un outsider, un incompreso. Crescendo, Cohen rivela sempre più i sintomi di maniacalità: sbalzi ciclici e ricorrenti di creatività spiccata, estrema socievolezza da un lato e intensa apatia, spossatezza e ansia da un altro. In genere le persone soggette a questo tipo di disturbo sono ossessive ed estremamente organizzate; questo è proprio il suo caso se si considera la cura ossessiva che, sin da giovane, dedica al più piccolo dettaglio e la pulizia maniacale della casa e di sé. Ancora oggi la ricerca di perfezione e ordine è determinante in tutte le sue azioni: il lavoro, gli amori e la ricerca di pace spirituale.

La tendenza di Cohen alla depressione è stata esacerbata dal contrasto tra il desiderio di condurre un’esistenza votata alla vita artistica e gli obblighi e le restrizioni legati alla vita del ceto medio. Questi due mondi sono diventati presto incompatibili. Una serie di elementi destabilizzanti hanno inciso profondamente sul suo stato d’animo: la morte prematura del padre quando Leonard era ancora bambino, la depressione della madre, il suicidio del suo primo mentore e maestro di chitarra. Inoltre, il fatto di avere ambizioni legate alla scrittura e all’arte, nello stereotipo attività considerate “fuori dalla norma”, una vita sentimentale instabile e entrate irregolari hanno alimentato una certa resistenza da parte della famiglia e acuirono i conflitti interni del poeta.

La sua poetica è stata influenzata da Federico García Lorca (in suo onore Leonard ha dato a sua figlia il nome Lorca). «Federico García Lorca led me into the racket of poetry. He educated me. He taught me to understand the dignity of sorrow through flamenco music and to be deeply touched by the dance image of a gypsy man and woman. And soon I became inflamed by the civil war leftist folk song movement. Sometimes I ironically think he… ruined my life with his brooding vision and powerful verse» (Nadel 1997:23).

A questo punto è facile condividere l’opinione di Tim Footman, il quale, scrivendo una delle biografie più complete sulla vita di Cohen, descrive l’esistenza dell’autore come un pregiatissimo manufatto artistico, finemente impreziosito dalle sue canzoni. Un po’ come per Oscar Wilde, il quale ha sempre considerato la propria esistenza come a work of art. Così quando la vita e l’arte si incontrano tutto diviene più interessante e coinvolgente. E proprio come le sue poesie sono aperte a diverse interpretazioni e opinioni, così la sua vita è ricca di storie che nel tempo hanno acquisito un’aura di leggenda e una sorta di autonomia. La biografia di Cohen è in continuo divenire proprio perché è più importante il racconto della storia in sé e non vi è nulla che lo riguardi che possa essere etichettato come «definitivo» (Footman 2009:11).

4.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

De Andrè ha tradotto il distico così: «Sì lo sai che lei è pazza / ma per questo sei con lei». Qui De Andrè ha il coraggio di usare la parola «pazza» e lo fa in senso trasgressivo. Teniamo presente che in questi anni in Italia si sta ridefinendo, grazie agli interventi dello psichiatra Franco Basaglia, il concetto di «pazzia». Tale dibattito culmina con l’approvazione della legge 180/78, altresì detta «Legge Basaglia», la quale prevede l’introduzione di importanti revisioni ordinamentali sui manicomi e la promozione di notevoli trasformazioni nei trattamenti psichiatrici sul territorio. Successivamente le modifiche avviate sono approdate alla definitiva abolizione dei manicomi stessi.

«Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale […]; viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo e insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo totale della sua oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento […]» (Basaglia 1964).

5. Versi 6 e 7

And she feeds you tea and oranges

That come all the way from China

5.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Il verbo feed  significa: 1.) to provide food for, to supply for use or consumption, 2.) to give food to; to serve as food, 3.) to provide something necessary for the growth, development, or existence of; nourish, sustain (Webster’s 2008), quindi «nutrire, dar da mangiare, imboccare», ma anche in senso più figurativo «alimentare, nutrire» (Garzanti 2009).  In questo caso Suzanne fa gli “onori di casa” e da brava ospite accoglie Cohen offrendogli tè e arance. La parola tea significa ovviamente «tè», «infuso di tè», ma viene anche usata nello slang per indicare la marijuana (Webster’s 2008; Merriam-Webster; Urban Dictionary).

Oppure: a white-flowered, evergreen plant (Camellia sinensis) of the tea family, grown in China, India, Japan etc. (Webster’s 2008). L’Urban Dictionary definisce il termine come: a drug stereotypically popular in England. Comes from India or China; secondariamente come: a slang term used by Jack Kerouac and the Beats when referring to marijuana, seen in Kerouac’s novel On the Road. («Ask him if we can get any tea. Hey kid, you got ma-ree-wa-na?»). Questo ultimo punto viene indicativamente confermato da 140 up e 46 down. Il significato allusivo alla marijuana è abbastanza plausibile proprio perché ritorna ancora una volta il motivo della beat generation – tra i cui esponenti vi è appunto Jack Kerouac – che permea la cultura alternativa dell’epoca.

L’espressione come all the way from può essere traducibile con «che provengono direttamente da». Ancora una volta l’Urban Dictionary rivela un significato che non mi aspettavo: all the way può anche voler dire: having sex with a woman, ma questa volta dare un significato allusivo all’espressione risulterebbe un po’ forzato poiché non vi è coesione con il senso generale del verso. Probabilmente in questo caso l’intenzione dell’autore non è di far riferimento a un incontro fisico tra lui e la donna. Resta però il senso potenziale nascosto nella frase.

5.2 Commento culturale

Una volta giunti al cospetto di Suzanne, averci passato la notte insieme, aver pienamente goduto della sua compagnia, Suzanne offre ciò che ha da mangiare: tè e arance che provengono addirittura dalla Cina. Alimenti esotici che richiamano un particolare tipo di cultura e mentalità molto in voga in quegli anni. Un riferimento inevitabile, almeno a titolo esemplificativo, è il viaggio in Oriente compiuto dai Beatles nel 1968. La band partì alla volta di Rishikesh, in India, per raggiungere il guru Maharishi Mahesh Yogi. Un viaggio che ridisegnò la geografia spirituale dei giovani di quegli anni – e delle generazioni successive – proprio per il largo seguito mediatico e culturale che ha riscontrato. I Beatles scoprivano l’India, la sua musica e la sua cultura e con loro lo faceva un’intera generazione.

Lo stesso Cohen si avvicina alla cultura orientale quando incontra per la prima volta un buddista zen giapponese, Joshu Sasaki Roshi, che si trasferì negli USA nel 1962 per diffondere un orientamento dello zen noto come «Rinzai». A differenza del buddismo Soto, che sviluppa uno stato di illuminazione graduale, lo zen Rinzai enfatizza l’illuminazione improvvisa ed esplosiva che giunge dopo aver osservato il regime austero dello zazen (meditazione), del sazen  (incontri con la guida spirituale zen durante i quali viene posta una domanda all’apparenza contraddittoria – koan – come ad esempio: Qual è il suono di una sola mano che applaude?) e dei rituali quotidiani legati al lavoro e al riposo. Nello stesso periodo negli USA stava appena prendendo le mosse il movimento degli Hare Krishna a cui senza esitazione aveva partecipato anche Allen Ginsberg, amico di Cohen ed esponente assieme a Jack Kerouac della beat generation e a cui lo stesso George Harrison rimase devoto per il resto della vita. Inizialmente Cohen si mostrava scettico o quantomeno reticente nei riguardi della dimensione mistica. Ciò che ha cominciato ad avvicinarlo al buddismo è stata l’esperienza del malessere spirituale. Dopo aver tentato la strada dell’LSD e successivamente della cocaina, dopo essersi interessato per breve tempo alla setta di Scientology e all’I Ching, ha cominciato ad avvicinarsi al buddismo proprio perché attratto dall’enfasi che questo poneva sulla sofferenza. Cohen ha scritto: «Suffering has led me to whatever I am. Suffering has made me rebel against my weakness. I find a certain amount of suffering educational. You’ve got to recreate your own personality so that you can live a life appropriate to your station and predicament» (Nadel 1997:180).

Cominciò così a concentrarsi seriamente sulla meditazione e a rifiutare il materialismo. Percepiva che gli mancava il coraggio e la capacità di esaminare il suo malessere in modo profondo e autentico. Col tempo ha smesso di fare uso di droghe riconoscendo che asserire che queste stimolino la creatività è in parte una giustificazione ad abusarne e ha cominciato a scrivere con più autenticità, naturalezza. Con il trascorrere del tempo Cohen riscontra nello zen ciò che manca all’ebraismo: un’attenzione per la meditazione e i metodi di preghiera. Nonostante le differenze il cantautore capisce che praticare lo zen può essere compatibile con la sua identità e il suo credo ebraico.

«The school of Buddhism that Roshi comes out of and his particular take on it, which is very unusual, there’s no deity that is affirmed or rejected, so it doesn’t really come in conflict with one’s family religion» (Footman 2009:80).

Sebbene il suo interesse per lo zen negli anni sia sfumato, l’interesse di Cohen per la meditazione l’ha indubbiamente aiutato a distaccarsi dai risvolti meno piacevoli e più compromettenti della sua vita artistica e personale (come il ricorso alle droghe). Inoltre la sua capacità di stare dentro il gioco riuscendo nel contempo a non parteciparvi rispecchia proprio la quintessenza della filosofia zen. In fondo Cohen rappresenta l’incarnazione stessa del koan.

«The world is vast and wide. Why do you put on your robes at the sound of a bell?» (Footman 2009:81).

5.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

De Andrè ha elaborato il seguente verso: «e ti offre il tè e le arance / che ha portato dalla Cina». Anche io traducendo il verso in senso culturale, ho voluto dare l’idea di una Suzanne attenta all’accoglienza che bada al costume dell’ospitalità, ma non per questo rigida osservatrice dei dettami sociali. Mentre la traduzione parola per parola «e ti offre il tè e le arance / che provengono addirittura dalla Cina» si limita a mettere in relazione la donna con la dimensione esotica, De Andrè accosta moltissimo i due elementi (Suzanne e la Cina) facendoli quasi coincidere: Suzanne è stata sicuramente in Cina, magari ne è un’assidua frequentatrice, potrebbe addirittura essere lei stessa cinese. In questo caso De Andrè rafforza il senso originariamente inteso dall’autore, ma personalmente trovo che sia un’idea geniale quella di delineare i tratti di una donna che viaggia moltissimo (ed è sicuramente il caso di Suzanne), tanto da raggiungere luoghi molto lontani e inesplorati, luoghi che, come ho spiegato, erano tenuti in particolare riguardo dalla cultura dell’epoca. Una donna dinamica e indipendente che raggiunge personalmente e fisicamente le mete più ambite di quegli anni. De Andrè ha portato Suzanne in Cina, ma sicuramente lo stesso Cohen non disdegnerebbe tale prospettiva interpretativa ed ecco perché trovo la trasposizione culturale del cantautore italiano tutt’altro che fuori luogo.

6. Versi 8 e 9

And just when you mean to tell her

That you have no love to give her

6.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Questi versi sono molto complessi da analizzare contestualmente, poiché sono molto astratti e non presentano particolari riferimenti alla realtà o alla dimensione biografica dell’autore. Parole come mean, tell, love, give, hanno significati ben precisi e difficilmente possono adottarne di diversi da quelli comunemente intesi.

«E proprio quando hai intenzione di dirle / che non hai amore da darle».

6.2 Commento culturale

In quegli anni il nuovo senso di ottimismo economico aveva ormai assunto l’aspetto di un vibrante capitalismo consumistico, il quale si rivolgeva prevalentemente a un nuovo target: i giovani. Per la prima volta, la musica, il settore dell’abbigliamento, le bevande analcoliche venivano dedicate soprattutto ai giovani; e il linguaggio che gli esperti di marketing usavano, seppur indirettamente, prendeva spunto dall’ossessione generale giovanile per il sesso.

Non vi sono riscontri comprovati del fatto che il giovane Leonard avesse una vita sessuale più intensa dei suoi coetanei. Comunque i suoi “ormoni impazziti” venivano sublimati da atteggiamenti insoliti, che portavano spesso a risultati grotteschi. Come quella volta in cui, ancora ragazzino e, come già ricordato, appassionato alle pratiche ipnotiche, è riuscito a far entrare in trance la domestica, per poi procedere a svestirla ma senza riuscire facilmente a farla uscire dalla trance. Oppure come quando Cohen, sentendosi impacciato dalla bassa statura (sia perché ostacolava l’approccio con l’altro sesso, sia perché non gli permetteva di andare a vedere i film vietati ai minori), si imbottiva le scarpe di fazzoletti. Perse l’abitudine quando, dovendo partecipare a un corso di ballo che prevedeva scarpe col tacco, tornò a casa dolorante e zoppicante, vittima della sua stessa trovata (Footman 2009:16).

Le pulsioni sessuali sono servite all’autore da stimolo: sublimandole fin dall’adolescenza, ne ha tratto spunto per creazioni artistiche musicali e poetiche.

C’è da notare, inoltre, che la non disponibilità del personaggio a farsi coinvolgere emotivamente nel tempo è pienamente rispondente alla tendenza della filosofia hippie dell’amore libero di cui ho parlato nel paragrafo 2.2 e alla sua volontà di rimanere sempre vigile e attento (in base al pensiero: He wanted to kiss with one eye open) a cui ho accennato nel paragrafo 3.1.

 6.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«E proprio mentre stai per dirle / che non hai amore da offrirle».

La traduzione di De Andrè è estremamente simile a quella da me proposta, proprio perché, come già sostenuto, non vi sono tanti modi diversi di interpretare le parole di questi versi.

7. Versi 10, 11 e 12

Then she takes you on her wavelength

And she lets the river answer

That you’ve always been her lover

7.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

La parola chiave del primo verso è senza dubbio wavelength. Il Webster’s 2008 ne dà un duplice significato: 1.) Physics: the distance measured in the direction of a wave from any given point to the next point in the same phase, as from crest to crest. 2.) Informal: a way of thinking, understanding, etc.; chiefly in the phrase «on the same wavelength», thinking or responding alike.

Il Merriam Webster, invece, definisce il termine come segue: 1.) The distance in the line of advance of a wave from any one point to the next point of corresponding phase; 2.) A particular course of thought especially as related to mutual understanding. L’Urban Dictionary conferma il secondo senso indicato sia dal Webster’s 2008 sia dal Merriam Webster. Affermando: «Suzanne ti porta sulla sua lunghezza d’onda» si vuole probabilmente far riferimento, ancora una volta, all’ascendente che la donna esercita sull’autore, questa volta enfatizzando però l’aspetto mentale, emotivo. È altamente probabile che la parola wavelength sia da intendere metaforicamente e che altrettanto probabilmente la parola faccia riferimento a un’intesa empatica e percettiva tra i due.

In riferimento a tale intesa diventa interessante ricercare i significati che la parola vibration evoca nell’immaginario collettivo anglofono. Questa significa: 1.) Physics: motion or oscillation of an object, as an elastic body or the particles of a fluid when it is displaced from the rest position or position of equilibrium, as in transmitting sound; 2.) a rapid rhythmic movement back and forth; 3.) a vacillation or wavering between two choices or opinions; 4.) (pl): emotional qualities or supernatural emanation that are sensed or felt by another person or thing (Webster’s 2008).

Il Merriam Webster riporta i medesimi significati: 1.) a periodic motion of the particles of an elastic body or medium in alternately opposite directions from the position of equilibrium when that equilibrium has been disturbed (as when a stretched cord produces musical tones or molecules in the air transmit sounds to the ear); 2.) the action of vibrating the state of being vibrated or in vibratory motion as oscillation or quiver; vacillation in opinion or action; 3.) a characteristic emanation, aura, or spirit that infuses or vitalizes someone or something and that can be instinctively sensed or experienced – often used in plural 4.) a distinctive usually emotional atmosphere capable of being sensed – usually in plural. Gli stessi significati sono confermati dall’Urban Dictionary: l’unico dizionario a riportare i significati del verbo vibe che viene utilizzato come slang per intendere: a distinctive emotional atmosphere, sensed intuitively. Oppure: a pleasing ambience. A relaxed, intimate and/or prefacing intercourse or sexual activity. Viene anche indicato un riferimento al contesto musicale: any musical aspect or quality indicative of a genre; mood or atmosphere, a feeling, aura; (plural) signals or messages sent out to someone (Webster’s 2008; Merriam Webster).

Come già detto relativamente ai primi versi, la parola river sta a indicare: a natural stream of water of usually considerable volume oppure: any similar or plentiful stream or flow (Webster’s 2008). Anche questo elemento non si presta a un’interpretazione particolarmente originale rispetto a quella più ovvia.

«Ti porta sulla sua lunghezza d’onda e lascia che sia il fiume a risponderti che sei sempre stato il suo amante»

7.2 Commento culturale

In tutta la lirica assistiamo alla personificazione delle forze della natura: un altro elemento fortemente connesso con le religioni orientali e, in questo specifico caso, con l’induismo. Come già detto, Cohen, pur seguace del buddismo zen, ha comunque subìto una certa influenza dal misticismo orientale in generale e dall’induismo stesso. Ancora una volta è il fiume, l’elemento naturale, che viene enfatizzato. Questo viene personificato a tal punto da essere in grado di rispondere a una domanda e ciò è possibile solo grazie a una concessione di Suzanne – she lets the river answer – indicando come tutto, anche la natura stessa, obbedisca a un suo ordine.

A questo punto è bene ribadire che porre domande è un atteggiamento tipico del buddismo zen, un tratto che qui viene espresso indirettamente. Seppur a Suzanne non venga fatta alcuna domanda, nei versi precedenti è possibile percepire una certa esitazione da parte dell’autore che ha intenzione di dichiararle spontaneamente i propri sentimenti con chiarezza, rivelandole di non avere amore da darle. Ma la donna gli “legge dentro”, lo coglie di sorpresa e lascia che sia il fiume a rispondere a un’incertezza non espressa esplicitamente da parte dell’autore. Questi versi potrebbero rappresentare una sorta di punto di incontro tra culture diverse, ma fondamentalmente molto simili, in cui vengono rievocati diversi aspetti del misticismo orientale.

7.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

Nell’elaborazione di questi versi De Andrè traduce: «lei è già sulla sua onda / e fa che il fiume ti risponda / che da sempre siete amanti». Il cantautore italiano sceglie di tradurre la parola wavelength con «onda», evitando di fare riferimento esplicito al concetto fisico di «lunghezza d’onda», il cui senso metaforico è presente anche nella cultura ricevente. Come già accennato, tale locuzione potrebbe essere semanticamente ricondotta anche al campo prettamente scientifico della fisica, ma ciò “restringe” – per così dire – il senso, alludendo unicamente a una proprietà naturale. Probabilmente De Andrè cerca di confermare la concretezza e la carnalità di Suzanne, cercando di evocare la sua immagine a cavallo di un’onda e, come anticipato nella premessa, dando l’idea di dominio, come se questa fosse un’amazzone. Nella versione data da De Andrè vi è un’ulteriore modifica del testo e del senso originario: la seconda persona singolare dell’ultimo verso viene tradotta in seconda persona plurale – e fa che il fiume ti risponda / che da sempre siete amanti –, probabilmente per motivi metrici e forse anche per rafforzare l’idea di «coppia» (ovviamente libera) ed evitare di delineare un rapporto sbilanciato di sottomissione, che si può leggere tra le righe se in italiano si traduce: «e fa che il fiume ti risponda che da sempre sei il suo amante».

8. Versi 13 e 14

And you want to travel with her,

And you want to travel blind

8.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Il verbo travel  può essere inteso in numerosi modi ovvero: 1.) to go from one place to another; 2.) to make a journey; 3.) to move, pass or be transmitted from one point or place to another;4.) to move or be capable of moving in a given path or for a given distance: said of mechanical parts; to advance or progress; ma assume anche il significato informale di 5.) to associate or spend time with (Webster’s 2008). Gli stessi significati sono dati dall’Urban Dictionary e dal Merriam Webster. Qui l’autore del brano poetico probabilmente intende veicolare il significato informale del verbo. Conferendo al verso una sfumatura allusiva Cohen intende dire: «e vuoi trascorrere del tempo con lei»; «e vuoi farti trasportare da lei». Anche se il viaggio inteso da Cohen allude chiaramente anche ad altri tipi di esperienze. A tal proposito basti prendere in considerazione i diversi richiami che il sostantivo del verbo in analisi – ovvero trip – esercita nella cultura anglosassone e non solo. Il Webster 2008 lo spiega come segue: most frequently implies a relative short course of travel, although it is also commonly used as an equivalent for journey; a psychedelic experience: hallucinations, LSD trip, pipe dream, being turned on.

Il Merriam Webster conferma tale senso: an intense visionary experience undergone by a person who has taken psychedelic drugs such as LSD.

Allo stesso modo l’Urban Dictionary fornisce i seguenti significati: a short complete experience of using acid such as LSD, or any other powerful hallucinogenic drugs, to act crazy (as from hallucinogenic drugs), to overreact.

È interessante notare come lo slang italiano, e in particolare quello giovanile, sia stato fortemente influenzato da quello inglese. Anche in italiano si parla di trip per indicare un’esperienza allucinogena legata alle droghe e, allo stesso modo, è curioso notare come si faccia riferimento a una persona che ad esempio si arrabbia molto e si infuria, indicando un atteggiamento fuori di testa, con l’espressione: «strippare», dove è evidente la trasformazione italiana della radice trip, tra l’altro ancora presente e intatta nel nucleo della parola. Sempre in italiano esiste un altro verbo che deriva probabilmente dal sostantivo inglese in questione, il quale è, anche in questo caso, ancora intatto nella parola italiana: «intrippare». Questa espressione viene usata nello slang giovanile come sinonimo di «fissarsi», «farsi carico di preoccupazioni», «farsi troppi problemi» riprendendo forse lo stato catatonico in cui si cade quando si è sotto effetto di acidi.

L’aggettivo qualificativo inglese blind significa ovviamente: without the power of sight; unable to see; sightless; not able or willing to notice, understand or judge; reckless, unreasonable; not controlled by intelligence; lacking a directing or controlling consciousness; having no regard to rational discrimination, guidance or restriction. Ancora una volta ho riscontrato l’esistenza di un senso diffuso nello slang dove l’aggettivo è sinonimo di drunk. (Webster’s 2008 e Merriam Webster). L’Urban Dictionary riporta un’ulteriore allusione, ovvero: to be in love.

8.2 Commento culturale

Probabilmente Cohen intende proprio far riferimento un po’ a tutti questi aspetti: alla sensazione data dallo stato di ebbrezza, al senso di abbandono che si prova quando ci si innamora, al dolce senso di irrazionale affidamento. Cohen è ubriaco d’amore per Suzanne, lei rappresenta la sua fuga. L’esperienza di fuga dello scrittore è chiaramente un’esperienza d’amore; la canzone ci dice contemporaneamente che amare è accendere e accendere è amare. Da un punto di vista strutturale è bene esplicitare che il ritornello della canzone si apre proprio con questo distico, che costituisce così il nucleo del testo. Tale scelta non è affatto casuale poiché il distico rappresenta la parte centrale del brano anche da un punto di vista semantico e culturale. In questi versi, infatti, è presente l’essenza del pensiero del tempo. Il viaggio, così rilevante nell’esperienza personale dell’individuo, si declina secondo il famoso trinomio «sesso, droga e rock n’ roll», alla base della cultura giovanile del tempo. Un viaggio che conduce nella dimensione sessuale, in quella musicale e nel mondo della droga. E nel paragrafo precedente anche i dizionari confermano le molteplici allusioni in tal senso espresse sia dal verbo travel, sia dal sostantivo trip.

In questi anni anche la modalità stessa di «viaggio» inteso come «spostamento», «trasporto», si trasforma e instaura un connubio senza precedenti con la moda, connubio che viene alimentato, ancora una volta, dal boom economico. Un particolare riferimento va fatto per la famosa Vespa: un mezzo semplice ed economico che ha dato la possibilità anche a chi non poteva permettersi un’automobile, di spostarsi liberamente e con facilità. Forse la più grande innovazione di questo modello, che contribuì al suo successo planetario, fu la carrozzeria portante, che copriva integralmente il motore e le parti meccaniche principali, con i risultati di una protezione efficace dalle intemperie e il vantaggio di poter utilizzare finalmente la motocicletta con l’abbigliamento di tutti i giorni. Perciò, questa rappresenta di fatto il mezzo della prima motorizzazione di massa per molte famiglie italiane. Il nome stesso ha contribuito molto a lanciare alla ribalta il ciclomotore. Come sia nato, esattamente, non è dato sapere. La leggenda vuole che in fase di progettazione lo scooter si chiamasse Paperino ma quando Enrico Piaggio vide il modello definitivo esclamò: «Bello! Sembra una vespa». E Vespa fu. Mai nome fu più adatto. Infatti la vespa è un insetto simpatico: individualista, indipendente, amante della natura, ma pericoloso e improduttivo (dato che non fa il miele). Si muove senza sosta un po’ dappertutto quasi a interpretare l’etimo stesso del verbo scoot  che significa «filar via alla svelta», «darsela a gambe», «andare di corsa». Diverte senza dimenticarsi della primaria funzione utilitaristica; è libera e anticonformista, senza lasciarsi andare ai ruggiti e alla violenza della velocità; offre l’idea di invenzione, originalità e modernità rappresentando uno dei simboli più significativi dell’identità italiana.

Oltre alla Vespa, un altro mezzo di trasporto che merita di essere quantomeno citato perché, come questa, è emblema di un’epoca e di una cultura, è il furgoncino Bulli – della Volkswagen.

Il furgone Volkswagen ha rappresentato il partner ideale di tutti i giovani e gli adolescenti di un’epoca. Le dimensioni ridotte e la capacità di mantenersi ben controllabile anche sui percorsi più difficili hanno regalato al furgoncino un po’ bombato un’aura di indistruttibilità. E tutti vi hanno fatto affidamento: il servizio postale, la polizia, le ferrovie, le ambulanze, gli automezzi dei vigili del fuoco. Tra l’altro, questo ha rappresentato una dimensione in grado di trasportare anche sogni, ovunque, pure là dove il cinema non era ancora arrivato, portando l’eco dei film che spopolavano nella Germania del dopoguerra. La versatilità del Bulli si è rivelata tale da dare addirittura origine a una nuova area del mondo automobilistico: quella degli allestitori interni.

In sessant’anni di attività, il Bulli si è guadagnato la stima di tantissimi viaggiatori ed è stato protagonista in ogni angolo del mondo di avventure on the road (per riprendere, ancora una volta, una tipica espressione lanciata dalla beat generation), a tal punto che la sua storia, se raccontata attraverso queste esplorazioni del mondo, ha dell’incredibile: proprio per questo è stata più volte romanzata. Non a caso è diventato il mezzo di trasporto che è riuscito a conquistare un’altra particolare categoria di viaggiatori: gli artisti.  Alcuni attori e cantanti famosi hanno scelto il veicolo della Volkswagen per i propri spostamenti, utilizzandolo come una vera e propria “limousine”. Grazie alla sua proverbiale spaziosità, il Bulli può ospitare tranquillamente diverse persone e rappresenta una conveniente soluzione di mobilità. Ed è proprio un pullmino VW chiamato Mystery Machine – o magic bus – il protagonista di un film dei Beatles che, asservito a un viaggio particolare, il Magical Mystery Tour, avrebbe dovuto spostarsi per le strade di Liverpool. Il film è stato inizialmente pensato come mockumentary, ma l’assalto ingestibile dei fan, causando diversi problemi di ordine pubblico, ha fatto sì che questo fosse girato fuori città, in ambienti aperti e sulle stradine di campagna.

Proprio in quel decennio, in tutt’altro mondo, il Bulli iniziò a essere particolarmente apprezzato dai surfisti. Alle Hawaii arrivarono i primi appassionati del furgone e del surf, che si affermò come sport di tendenza attorno alla seconda metà degli anni Sessanta. Gli amanti del surf divennero sempre più numerosi e cominciarono a recarsi in spiaggia con il furgone che, oggi come allora, li porta sull’oceano e continua a essere simbolo di libertà e indipendenza.

8.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

In questo distico si palesa tutta l’abilità del cantautore italiano che, rivelando la sua forza poetica traduce il distico con: «E tu vuoi viaggiarle insieme / vuoi viaggiarle insieme ciecamente». Un distico forse più riuscito – perché più poetico – della versione originale, grazie alla posizione del pronome complemento posto in coda al verbo «viaggiare».

Anche nella versione italiana il viaggio a cui si allude si presta alle molteplici interpretazioni descritte nel paragrafo precedente.

9. Versi 15 e 16

And you know that she can trust you

For you’ve touched her perfect body with your mind.

9.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Anche questo distico, come quello analizzato al paragrafo 6.1, non offre particolari spunti sul piano strettamente denotativo. Le parole chiave da tenere in considerazione sono senza dubbio i verbi know, trust, touch e i sostantivi body e mind. Il verbo know si spiega come segue: 1.) to have a clear perception or understanding of, to be sure or well informed about; 2.) to be aware or cognizant of, have learned, 3.) to have a firm mental grasp of, have securely in the memory, 4.) to be acquainted or familiar with, to have experience, to acknowledge 5.) – Archaic – to have a sexual intercourse with (Webster’s 2008).

Questi significati sono confermati anche dagli altri dizionari, ma è abbastanza palese che l’utilizzo del verbo know in questo contesto non si rifaccia al retaggio biblico. Se così fosse la frase avrebbe dovuto essere formulata diversamente ovvero con un pronome personale complemento che segue la locuzione and you know, (che diverrebbe and you know her piuttosto che and you know that she…). Così è appurato che il verbo considerato nel contesto rimandi al suo significato primario: «conoscere, sapere, essere consapevole» (Garzanti 2009).

Allo stesso modo il verbo trust significa: 1.) firm believe or confidence in the honesty, integrity, loyalty, reliability justice etc. of another person or thing; 2.) confident expectation, anticipation or hope, 3.) keeping, care, custody, 4.) something entrusted to one, charge, duty etc. 5.) confidence in a purchaser’s intention or future ability to pay for goods or services delivered, credit (Webster’s 2008). Il termine si riferisce anche al settore giuridico e finanziario, ma non è certamente ciò a cui Cohen vuole alludere. I medesimi significati vengono ripetuti dal Merriam Webster.

Il verbo touch significa: 1.) to bring a bodily part into contact with especially so as to perceive through the tactile sense: handle or feel gently usually with the intent to understand or appreciate; 2.) to strike or push lightly especially with the hand or foot or an implement; 3.) to lay hands upon with intent to heal, 4.) Archaic to play on, to perform (a melody) by playing or singing, 5.) to deal with: to become involved with; 6.) to cause to be briefly in contact or conjunction with something; 7.) to meet without overlapping or penetrating, 8.) to get to, to reach; 9.) to relate to, to concern, to have an influence on, to affect; 10.) to leave a mark or impression on, to give a delicate tint, line or expression to; 11.) to hurt the feelings of, to wound, to move to sympathetic feeling (Merriam Webster).

Nel contesto considerato è possibile che Cohen faccia riferimento al sentimento empatico mediante il quale riesce a toccare Suzanne con la mente.

9.2 Commento culturale

Come affermato precedentemente si esclude che il verbo know sia da intendere in senso biblico.

Ciononostante è interessante come vi sia comunque un parallelismo evangelico tra i verbi trust e touch. Un sottinteso rimando alla figura di Tommaso Didimo, il quale non ha creduto alla resurrezione di Cristo in base alle testimonianze degli altri apostoli, finché non lo ha veduto personalmente e non ha toccato il costato con le dita. Da questo passo biblico è nato il famoso idioma italiano: «Se non vedo non credo» oppure, diversamente formulato: «Vedere per credere» presente anche nella cultura anglofona come: seeing is believing.

In questo ambito però, l’allusione forse non è intenzionale, poiché non è Suzanne a toccare, ma è lei ad essere soggetta al tocco di Cohen e, solo come conseguenza delle sue carezze, portata a fidarsi di lui.

Inoltre può essere significativo analizzare un altro parallelismo presente nel verso, ovvero quello che associa la mente al corpo. Già gli antichi, medianti frasi idiomatiche tutt’oggi comunemente conosciute, avevano elaborato la concezione che accosta la mente al corpo. La locuzione latina mens sana in corpore sano, appartiene a Giovenale (Satire X, 356). La decima satira del poeta è volta a mostrare la vanità dei valori o dei beni (ricchezza, fama e così via) che gli uomini cercano con ogni mezzo di ottenere. Solo il saggio si rende conto che tutto ciò è effimero e, talvolta, anche dannoso. Nell’intenzione di Giovenale, l’uomo non dovrebbe aspirare che a due beni soltanto: la sanità dell’anima e la salute del corpo (ciò che in inglese si esprimerebbe mediante l’idioma: a sound mind in a sound body). Nell’uso moderno si attribuisce alla frase un senso diverso, intendendo che, per avere sane le facoltà dell’anima, bisogna avere sane le facoltà del corpo. Probabilmente però, il parallelismo voluto da Cohen si avvicina maggiormente all’associazione originale intesa da Giovenale, che al senso attuale – più orientato forse alla dimensione sportiva ed estetica – attribuito alla massima del poeta.

Perciò per Cohen «corpo» e «mente» sono due entità imprescindibili. Cohen riesce con la forza della mente a toccare fisicamente il corpo di Suzanne, esercitando su di lei un fascino e un’attrazione inequivocabili. Come accennato precedentemente, non è solo l’autore a subire il fascino di Suzanne, ma la forza seduttiva è reciproca, delineando così un rapporto paritario.

9.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

Il Bob Dylan italiano ha tradotto il distico considerato: «perché le hai toccato il corpo / il suo corpo perfetto con la mente».

In questo caso De Andrè ripete la parola «corpo», probabilmente perché non è riuscito a far rientrare, per motivi di metrica, il senso dell’aggettivo perfect nel verso 17. A differenza del testo originale, viene posta una certa enfasi sull’elemento «corpo», forse dovuta solo al problema tecnico di versificazione.

10. Versi 17 e 18

And Jesus was a sailor

When he walked upon the water

10.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Sailor significa sicuramente «marinaio». Il Merriam Webster spiega il sostantivo così: 1.) one that sails: mariner; 2.) a member of a ship’s crew: a seaman; 3.) a traveler by water; 4.) a stiff straw hat with a low flat crown and straight circular brim. Anche il Webster’s 2008 conferma i medesimi significati: 1.) a person who makes a living by sailing; a mariner, a seaman; 2.) an enlisted man in the navy, 3.) a stiff straw hat with a flat crown and straight circular brim.

Ancora una volta è l’Urban Dictionary a indicare i significati più scomodi e allusivi rispetto a quelli più conosciuti. A person, who after spending much time at sea, sleeps with women in many different ports; a codeword for someone who sleeps around. L’allusione a una persona che si circonda di molte donne è calzante nel caso di Gesù, anche se il doppio senso dato dalla parola sailor è fuori luogo e forzato se ci si riferisce al caso di Gesù come figura religiosa. La parola in analisi rimanda a un contesto prettamente marinaresco, nel quale vengono alla mente determinati atteggiamenti agevolmente associabili a tratti quotidiani fortemente umani. Si pensi all’espressione italiana «scaricatore di porto». In inglese è presente la medesima locuzione idiomatica con i rispettivi richiami alle dimensioni più pratiche e volgari di chi svolgeva tale mestiere. «Stevedore», «dockworker», «docker» and «longshoreman» can have various waterfront-related meanings concerning loading and up-loading ships. The word «stevedore» originated in Portugal or Spain and entered the English language through its use by sailors. It started as a phonetic spelling of the word «estivador» (Portuguese) or «estibador» (Spanish), meaning «a man who stuffs», «a man who loads ships», which was the original meaning coming from the Latin word «stīpāre». In the UK men who load and upload ships are usually called «dockers», while in the US and Canada the term «longshoreman», derived from «man-along-the-shore» is used. «Stevedore» has also become common as an appellation for a person who is over-muscular or foulmouthed.

Allo stesso modo l’espressione «porto di mare», metafora a cui si ricorre di sovente per indicare un luogo frequentato da un via-vai continuo di persone diverse fra loro.

Tenendo conto dell’esistenza di un Jesus movement in questo periodo, nell’ambito del movimento culturale hippie, è possibile che il riferimento, fatto tra l’altro da un ebreo, non sia tanto alla figura religiosa quanto all’icona hippie di persona libera da condizionamenti che persegue la libertà degli altri e la propria. A questa dimensione si aggiunge l’aspetto “marinaresco”, ossia di “oggi qui, domani là” che si riferisce al concetto di «amore libero» a cui si è già accennato nel paragrafo 2.2.

Il verbo walk ha significati imprevedibili. Primariamente significa: 1.) to go along or move about on foot at a moderate pace, a) to move by placing one foot firmly before lifting the other as two-legged creatures do, or by placing two feet firmly before lifting either of the others, as four-legged creatures do; 2.) to return after death and appear as a ghost, 3.) to advance or move in a manner suggestive of walking: said of inanimate objects; 4.) to join with others in a cooperative action, a cause etc., to be active or in motion, to keep moving; 5.) [Slang]: to go on strike, to leave abruptly, often in anger or in a show of protest; 6.) [Slang]: to be acquitted or set free without punishment: usually connoting a belief in the accused person’s guilt.

Il fatto che il verbo considerato faccia riferimento anche al ritorno in vita di un fantasma lascia alquanto basiti perché esprime un significato calzante (perlomeno per coloro che ci credono) con la figura di Gesù, quasi che questo sia uno spirito che aleggia sulle acque.

La parola water, se presente al plurale, significa: 1.) [often pl.] a) a large body of water, as a river, lake or sea, 2.) the part of sea contiguous with a specifies country, land, mass, etc. or the parts away from this [international waters] (Webster’s 2008).

10.2 Commento culturale

La prima cosa che colpisce nel distico in analisi è l’identificazione di Gesù con la figura di un marinaio. Come indicato dalla tradizione cristiana, Gesù era invece un falegname – o meglio, un carpentiere: lavoratore specializzato nella costruzione di strutture portanti in legno – che avrebbe intrapreso dapprima il mestiere a fianco del padre putativo Giuseppe e successivamente, una volta specializzatosi, avrebbe dovuto subentrare nell’attività artigianale, una volta venuto a mancare il capofamiglia. È pur vero che nella società del tempo non era possibile classificare i lavori svolti in maniera rigida e schematica come è invece possibile fare analizzando le società a venire. Si svolgevano diverse attività in base ai bisogni che si presentavano.

Alcuni studiosi hanno evidenziato che, ai tempi di Gesù, nei dintorni di Nazareth il legno era praticamente assente e che le case dei duecento abitanti erano costruite in pietra, se non addirittura ricavate dall’adattamento di grotte pre-esistenti. Ritengono assai improbabile che Giuseppe e, in seguito, Gesù abbiano potuto guadagnarsi da vivere svolgendo il mestiere di falegname o carpentiere a Nazareth. Esistono numerose spiegazioni per questa apparente incongruenza. Il testo originale greco di Mt e Mc, per designare il mestiere di Giuseppe e di Gesù, utilizza le parole equivalenti τέκτονος (Mt) e τέκτων (Mc).

Il termine greco tekton è ampiamente polisemico, potendo indicare il mestiere di carpentiere, falegname, artigiano del legno, muratore o tagliatore di pietre (Fabris 1983:93-94).

Secondo gli studi condotti da C. P. Thiede, la traduzione corretta è «costruttore». Thiede intende tale termine nel senso di «muratore» o, al massimo, «manovale». Altri autori interpretano la traduzione «costruttore» nel significato di «capomastro», ipotizzando l’esistenza di una piccola impresa edilizia (Thiede 1993:66-71).

Che mestiere svolgeva dunque Giuseppe? L’ipotesi più realistica è che fosse un artigiano di villaggio, in grado di risolvere ogni problema pratico, ma particolarmente esperto nel campo delle costruzioni e della lavorazione del legno. Diversi studi rivelano che con il termine tekton gli evangelisti intendessero indicare una figura professionale più qualificata, un artigiano specializzato, più che un semplice uomo di fatica. Infatti nel contesto socio-culturale in cui sono stati scritti i Vangeli, il lavoro del manovale non era considerato una mansione tanto umile. Non ci troviamo in ambiente greco-romano, in cui il lavoro manuale era considerato un’attività degna solo degli schiavi, ma in ambiente essenzialmente giudaico. Per gli ebrei il lavoro manuale era abituale, ed era comune anche tra i rabbini che dedicavano la loro vita allo studio della Legge. Coltivare l’erudizione e, nel contempo, praticare un mestiere, era considerata una cosa normalissima.

Il famoso rabbino Hillel guadagnava, lavorando, solo mezzo denaro al giorno, Rabbi Aqiba faceva lo spaccalegna, Rabbi Joshua era carbonaio, Rabbi Meir era scrivano, Rabbi Johanan era calzolaio. A ciò si aggiunga il fatto che David, prima di essere unto re da Samuele, svolgeva uno dei mestieri più esecrati dagli ebrei, facendo il pastore a Betlemme (1 Sam 17, 15). Queste considerazioni fanno cadere il preconcetto sull’umiltà del lavoro di carpentiere, visto anche che non si trattava affatto di un mestiere così disprezzabile (Ricciotti 1941:164).

Nonostante i vari dibattiti sul mestiere di Gesù, si esclude a priori che egli potesse svolgere un lavoro che lo ritrae impegnato su qualsiasi tipo di imbarcazione. Probabilmente Cohen ha voluto avvicinarlo alla figura di marinaio che, metaforicamente parlando, si trova “al timone” della situazione, governando così il viaggio – da intendere nei modi più diversi – di Cohen e di Suzanne.

Nel secondo verso c’è un ovvio riferimento all’episodio evangelico di Gesù che cammina sulle acque. La camminata sull’acqua è un miracolo compiuto da Gesù e descritto in tre vangeli: nel Vangelo secondo Marco (6, 45-52), nel Vangelo secondo Matteo (14, 22-33), nel Vangelo secondo Giovanni (6, 15-21), in cui Gesù si fa precedere dai suoi discepoli in barca verso Beit Zaidàh, ma quando questi sono a metà strada in mezzo al lago, Gesù ci cammina sopra e li raggiunge. «Camminare sull’acqua» è comunemente divenuta una frase colloquiale che si usa quando si vuole indicare un’impresa apparentemente impossibile.

L’acqua, essenza vitale ed elemento esistenziale in cui cresce il feto durante la gravidanza, è assoggettata a Gesù a cui questa obbedisce permettendogli di camminarci sopra contrariamente alle leggi della fisica. Da questo distico è possibile comprendere il forte parallelismo tra Suzanne e Gesù: le forze della natura rispondono al volere della donna, come a quello di Gesù. Quest’ultimo, come la prima, esercita una forte influenza sull’autore del testo poetico e su tutto ciò che lo circonda: Cohen viaggia con lui, oltre che con Suzanne.

10.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

La traduzione di De Andrè è: «E Gesù fu un marinaio / finché camminò sull’acqua». Di questa versione risulta difficile comprendere perché De Andrè ha scelto di tradurre when con «finché». Infatti anche da un punto di vista metrico e stilistico sarebbe stato meglio tradurre l’avverbio temporale con «quando».

A meno che il cantautore italiano non abbia voluto fare intendere che Gesù era un marinaio finché ha camminato sull’acqua; dopo non lo è stato più. Ma è difficile cogliere la logica secondo la quale questi non avrebbe più dovuto essere identificabile con un marinaio.

Anche la traduzione del simple past con un passato remoto piuttosto che imperfetto lascia perplessi. Forse sarebbe stato meglio tradurre con: «E Gesù era marinaio / quando camminava sulle acque», giacché l’impiego del passato remoto in italiano è sempre più obsoleto e sta lentamente cadendo in disuso. Forse si tratta di una considerazione basata sulla metrica del verso.

Anche parlare di acque invece che acqua è più consono perché riprende il passo delle scritture (in ebraico, a cui i Vangeli sono in parte ispirati, la parola ma’im è duale) e poiché, come precisato anche nel paragrafo 10.1, quando ci si riferisce a una distesa d’acqua ampia come un fiume, un lago o il mare, si parla generalmente al plurale e di «acque».

11. Versi 19 e 20

And he spent a long time watching

From his lonely wooden tower

11.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Il verbo watch vuol dire: 1) the act or facto f keeping awake and alert, in order to look after, protect, or guard; 2) a part of the night; 3) the act or process of vigilant, careful guarding; 4) the period of duty of a guard, the post of a guard; 5) to be looking or waiting attentively (Webster’s 2008). Il Merriam Webster ne riporta i medesimi significati: 1.) to keep vigil as a devotional exercise; 2.) to be awake during the night; 3.) to be attentive or vigilant, to keep guard; 4.) to keep someone or something under close observation; 5.) to observe as a spectator; 6.) to be expectant: to wait.

Il sostantivo tower invece significa: 1.) a building or structure that is relatively high for its length and width, either standing alone or forming part of another building; 2.) such a structure used as a fortress or prison; 3.) a person or thing that resembles a tower in height, strength, dominance, etc.; 4.) a person or thing that tows (Webster’s 2008).

In questo contesto è abbastanza evidente che la torre di legno a cui Cohen si riferisce è la croce su cui Gesù è stato crocifisso. Ma è possibile che abbia metaforicamente descritto la croce come una torre di legno, anche per rievocare la torre di Babele. Nel libro della Genesi (11, 1-9) viene narrata la leggendaria costruzione di una torre il cui fine era quello di erigersi così in alto da raggiungere il cielo e Dio. La costruzione della torre di Babele, allegoricamente rappresentata come simbolo di unità e concordia tra gli uomini e Dio, venne però impedita dall’intervento divino, che portò scompiglio anche tra gli uomini e li disperse. L’episodio biblico vuole che gli uomini del tempo parlassero tutti la stessa lingua e solo dopo la reazione divina questi cominciarono a sviluppare lingue e culture diverse.

11.2 Commento culturale

Leonard Cohen è cresciuto in un ambiente fortemente influenzato dalla moralità religiosa e dalla tradizione ebraica. La famiglia Cohen esercitava una certa influenza sulla comunità di Montreal già da diverse generazioni. Il bisnonno di Leonard era un rabbino rispettabile, ma anche un uomo d’affari di successo. Suo figlio, Lyon è annoverabile tra i nomi dei fondatori del primo giornale ebraico del Canada. Il primogenito di Lyon, Nathan, (padre di Leonard) ha sposato Masha Klein, anche lei di discendenza ebraica e di origini lituane. La combinazione del lignaggio religioso e del successo economico hanno dato alla famiglia Cohen una certa rispettabilità nella società di Montreal, pur essendo una minoranza isolata sotto molti aspetti. Prima di tutto le persone che parlavano inglese come prima lingua, anche se culturalmente ed economicamente dominanti, erano meno dei francofoni nella città e in Quebec in generale. Inoltre sebbene l’antisemitismo era meno espresso rispetto alla persecuzione brutale che aveva indotto i progenitori di Cohen a lasciare l’Europa, era comunque molto presente.

Durante la giovinezza di Cohen, le tematiche della ribellione e della musica si sono riconnesse con le sue radici etniche e religiose nel 1950, quando è stato eletto consigliere ebraico al campo estivo di Motreal. La classe ebraica medio borghese di Montreal era unita in un conservatorismo sociale e politico. Per la prima volta in quegli anni Cohen percepì un legame tra la sua religiosità e un senso più generale di resistenza, sia espresso nei riguardi del male storico rappresentato emblematicamente da Hitler o da Franco, o dal razzismo e dallo sfruttamento economico del Nord America contemporaneo (Footman 1998: 18).

11.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«E restò per molto tempo a guardare solitario / dalla sua torre di legno». De Andrè traduce il distico rimanendo – come vuole la logica grammaticale – nella dimensione del passato remoto, che viene preferito al passato prossimo e all’imperfetto. Della versione fornita da De Andrè è facile notare come il tratto della solitudine viene traslato dalla torre di legno (his lonely wooden tower) allo stesso Gesù. Il distico potrebbe essere anche tradotto con: «E ha trascorso molto tempo guardando / dalla sua torre di legno solitaria».

È forse più toccante la versione di De Andrè, la quale, mediante un artificio stilistico ben riuscito, conferisce al distico la giusta forza evocativa per veicolare il senso di angoscia e di abbandono provato da Gesù.

12. Versi 21 e 22

And when he knew for certain

Only drowning men could see him

12.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

In questo distico può essere interessante analizzare il significato del verbo drow: 1.) to die by suffocation in water or other liquid; 2.) to kill by suffocation in water or other liquid; 3.) to cover with water, flood, inundate; 4.) to overwhelm; 5.) to be so loud as to overcome (another sound): usually with «out»; 6.) to cause to disappear, get rid of (Webster’s 2008). L’Urban Dictionary svela un riferimento alla marijuana, anche se questa citazione indiretta è data dal sostantivo drow e non dal verbo: cannabis, an expensive type of weed. Tale senso è confermato indicativamente da 122 up e 60 down.

«Quando ha saputo con certezza / che solo gli uomini che affogano erano in grado di vederlo».

12.2 Commento culturale

L’espressione drowning men designa probabilmente degli individui che vengono sopraffatti e sommersi dall’acqua. È probabile che, ancora una volta, l’acqua non sia solo un elemento chimico-naturale, ma l’emblema della vita, della pulsione legata alla sopravvivenza. Gesù può essere visto e percepito solo dagli uomini che sono affogati – o meglio, che sono disposti ad affogare –. Facendo riferimento al Jesus movement, a cui ho precedentemente accennato nel paragrafo 10.1, si può presumere che coloro i quali sono disposti ad affogare, siano gli individui che riescono a “lasciarsi andare”, magari anche grazie all’uso di droghe a cui si accenna indirettamente ma soventemente. Se si preferisce dare più spessore al senso religioso è facile fare riferimento al passo evangelico di Gesù e del giovane ricco. Nelle scritture (Mc 10) è lo stesso Gesù a chiederci di lasciare tutto e di seguirlo, di abbandonarci a lui. Questo distico potrebbe avanzare la medesima richiesta di Gesù, ma farlo metaforicamente e poeticamente. Il racconto dell’incontro di Gesù con il giovane ricco è diventato il paradigma dell’incontro che sconvolge e cambia la vita. Anche in questo passaggio è facile riscontrare la forte corrispondenza tra la figura di Suzanne e quella di Gesù.

«Gli disse Gesù: va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».

12.3 Raffronto con la versione di Fabrizio De Andrè

«E poi quando fu sicuro / che soltanto agli annegati fosse dato di vederlo». Il cantautore italiano traduce il distico introducendo l’espressione «essere dato di», la quale conferisce ai versi uno stile aulico particolare e caratteristico che non permea i versi originali.

13. Versi 23 e 24

He said “All men would be sailor

Then until the sea shall free them”

13.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

In questo distico compare il primo discorso diretto del brano rappresentato dalle parole di Gesù. Mentre i significati del sostantivo sailor sono stati già ampiamente discussi nel paragrafo 10.1, il sostantivo sea rimanda a un’espressione – go to sea – che significa to become a sailor; to embark on a voyage (Webster’s 2008). Il verbo free significa: 1.) to make free; to release from bondage or arbitrary power, authority; obligation; etc.; 2.) to clear of obstruction, entanglement, etc.; disengage (Webster’s 2008). Quindi: to relieve or rid of what restrains, confines, restricts, or embarrasses (Merriam Webster). Di questi versi è interessante analizzare l’uso dell’intercalare then che va a rafforzare l’avverbio temporale until, ma riempie, per così dire, il verso anche da un punto di vista metrico.

13.2 Commento culturale

La tematica del viaggio è una costante del brano a cui si fa riferimento espressamente o allusivamente, ma che è comunque sempre presente. Nei versi considerati il fatto di essere marinai rievoca un altro episodio evangelico, ovvero la proposta che Gesù fa agli apostoli: quella di renderli «pescatori di uomini» e di seguirlo. Ancora una volta Gesù si rivela un modello da prendere come esempio ed è sempre più palese il nesso che viene stabilito con Suzanne.

La caratteristica di questi versi è che i marinai paiono prigionieri dell’acqua e continueranno a esserlo finché il mare non li libererà. Da cosa? Forse dall’abitudine, dalla ciclicità rappresentata dalla dimensione del mare, in cui le onde si susseguono tutte uguali, ritmicamente, a differenza del fiume in cui, come descritto metaforicamente dal celebre aforisma attribuito a Eraclito: «Panta rei os potamòs» (dal greco πάντα ῥεῖ), tradotto come «Tutto scorre come un fiume», con cui la tradizione filosofica successiva ha voluto identificare il pensiero del filosofo con il tema del divenire. Oppure il mare libererà questi uomini (in cui probabilmente tutti noi possiamo identificarci) dalla solitudine di cui ha sofferto lo stesso Gesù.

13.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

De Andrè ha tradotto il distico con i seguenti versi: «Disse: “Siate marinai / finché il mare vi libererà”». Questa versione è interessante perché fa in modo che Gesù si rivolga direttamente a coloro che leggono o ascoltano il brano in analisi. Il verso all men would be sailor viene tradotto mediante l’imperativo per rendere esplicito l’invito avanzato con forza da Gesù che ci sollecita a partire, a viaggiare, a lasciare ciò che possediamo e ci spinge metaforicamente e, in maniera ancor più sorprendente, mentalmente al cambiamento.

 

 

14. Versi 25 e 26

But he himself was broken

Long before the sky would open

14.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

L’aggettivo broken significa: «rotto», «spezzato», «guasto»; ma se riferito a un individuo significa: «accorato», «avvilito», «scoraggiato» (Garzanti 2009). A broken man; a broken spirit vengono figurativamente definito anche con sick, weakened or beaten (Webster’s 2008). Tra gli altri significati vuole anche dire: 1.) split or cracked into pieces; splintered, fractured, burst, etc.; 2.) not in working condition; out of order; 3.) not kept or observed; violated; 4.) disrupted, as by divorce; 5.) Bankrupt; 6.) not even or continuous; interrupted; 7.) not complete (Merriam Webster). L’aggettivo assume una connotazione emotivamente toccante quando viene usato in relazione agli stati d’animo. Questo ne è il caso, un caso particolare perché il dramma di Gesù rappresenta il dramma dell’umanità.

14.2 Commento culturale

In questi versi si percepisce la solitudine e l’avvilimento di Gesù. «Lui stesso si sentiva avvilito / molto prima che il cielo si aprisse». Si è già precedentemente accennato alla solitudine e alla desolazione provate da Gesù ai versi 20 e 21. Questo senso di estraniamento era percepito «molto prima che il cielo si aprisse». Nella Bibbia “il cielo si apre” quando si manifesta un intervento diretto dello Spirito Santo che appare metaforicamente assumendo le sembianze di una colomba. Questo avviene anche quando Gesù viene battezzato da Giovanni Battista per esempio (Matteo 3-17, Marco 1-11, Luca 3-21).

In questo distico Cohen vuole forse ascrivere Gesù a una dimensione avulsa dalla realtà, una dimensione che va al di là del tempo e dello spazio e quindi non può essere assoggettata alle percezioni terrene. In tale dimensione il destino di Gesù si presenta come un destino di solitudine e incomprensione.

14.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«Lui stesso fu spezzato / ma più umano, abbandonato / nella nostra mente lui non naufragò»

De Andrè traduce solo il primo verso dei due analizzati. La parte seguente della traduzione del cantautore nostrano presenta già il distico successivo, la cui versione originale non è ancora stata analizzata. Credo che ciò sia, ancora una volta, dovuto a problemi legati alla metrica che segue altre regole nella lingua di arrivo. Per questo motivo i tre versi vengono allacciati insieme nella versione italiana. Anche la resa del primo verso non sembra rispecchiare pienamente la sensazione evocata dall’aggettivo inglese broken, che viene tradotto letteralmente. Forse De Andrè voleva intenzionalmente rendere l’idea di qualcosa che si frantuma e si rompe. Sicuramente l’aggettivo italiano «spezzato», si lega bene all’aggettivo che lo stesso De Andrè propone nel verso seguente («abbandonato») con cui fa rima e che quindi viene ripreso su un piano fonetico e semantico. Infatti questo verso propone un’interessante metafora: come per un comune oggetto che una volta usurato, rotto, rovinato, si getta via, allo stesso modo Gesù è stato abbandonato, dimenticato, ignorato. Questi versi rappresentano forse la parte più innovativa della traduzione di De Andrè, perché sono quelli che più si discostano dalla versione originale, addirittura astenendosi dal tradurre delle parti. Infatti il verso originale long before the sky would open non è contemplato nel testo proposto dal cantautore italiano.

15. Versi 27 e 28

Forsaken, almost human

He sank beneath your wisdom like a stone

15.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

La parola forsaken significa: to renounce or turn away entirely (Merriam-Webster), ma anche: abandoned, deserted, forlorn, desolate (Webster’s 2008).  Invece il verbo sink significa: 1.) to go beneath the surface of water, deep snow, soft ground, etc. so as to be partly or completely covered; 2.) to go down slowly, fall or descend gradually; 3.) to become lower in level, diminish in height or depth; 4.) to slope downward; 5.) to become lower in value or amount, lessen; 6.) to become increasingly and dangerously ill, approach death, fail; 7.) to lose position, wealth, prestige, dignity, etc.; 8.) to lose or abandon one’s moral values and stoop (Webster’s 2008).

15.2 Commento culturale

In questo distico l’intento di Cohen è quello di veicolare poeticamente il senso di profonda desolazione e abbandono di Gesù causato dall’indifferenza dell’umanità e da una saggezza “sorda”, che volta le spalle e ignora lo stato di solitudine in cui questi viene relegato. Ciò che colpisce dei versi analizzati è il tono di accusa che Cohen sembra assumere nei riguardi dei destinatari del brano poetico e che si evince dall’uso dell’aggettivo possessivo your.

«Abbandonato, quasi umano / è affondato alle spalle della vostra saggezza come una pietra»

15.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«Ma più umano abbandonato / nella nostra mente lui non naufragò». Come osservato precedentemente De Andrè in questa strofa si prende delle libertà elaborando in maniera innovativa il testo originale. Forse il cantautore genovese ha voluto intenzionalmente umanizzare Gesù più di quanto non avesse fatto lo stesso Cohen. Probabilmente per motivi metrici De Andrè evita di tradurre la similitudine like a stone, ma formula un nuovo verso «nella nostra mente lui non naufragò», che non è presente nel distico originale. È interessante considerare come a differenza di Cohen che si è estraniato dal verso mediante l’aggettivo possessivo inglese your, De Andrè si lascia coinvolgere nella frase mediante l’aggettivo possessivo italiano «nostra». Però è necessario sottolineare che mentre Cohen esprime il concetto negativo di abbandono, indifferenza, trascuratezza, De Andrè comunica il contrario affermando che Gesù è sempre presente nei «nostri» pensieri. Ma mentre per Cohen Gesù «affonda» nella nostra indifferenza, per De Andrè «non naufraga» nella nostra mente. Entrambe le espressioni rimandano a un contesto legato all’acqua.

Sempre alla luce di un raffronto tra i due testi poetici è bene osservare come l’acqua sia la costante di tutta la canzone. Seppure la presenza di questa viene espressa diversamente dai due autori, l’acqua ci accompagna in tutto il corso della lirica, quasi fosse essa stessa a condurci lungo le strofe della poesia, proprio come un fiume: lo stesso lungo il quale Suzanne ci ha accolti all’inizio del brano, lo stesso fiume in cui lasciamo affondare Gesù oppure, secondo la percezione di De Andrè, nel quale non permettiamo che questo naufraghi. Ecco perché il ritornello analizzato nei versi 14-18 viene ripetuto – pur con qualche leggera modifica –, questa volta riferendosi a Gesù invece che a Suzanne.

16. Versi 35 e 36

Now Suzanne takes your hand

And she leads you to the river

16.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

In questo distico sono presenti parole-chiave che ho analizzato nei versi precedenti, come river. È necessario precisare i significati del verbo lead, i quali delineano ancor più nitidamente i contorni peculiari alla figura di Suzanne. Il verbo significa: 1.) to show the way to, or direct the course of, by going before or along with; conduct; guide; to show (the way) in this manner; 2.) to guide, or cause to follow one, by physical contact, holding the hand, pulling a rope, etc. [to lead a horse by the bridle]; 3.) to conduct (water, steam, rope, etc.) in a certain direction, channel, or the like; 4.) to guide or direct, as by persuasion or influence, to a course of action or thought; to cause; prompt 5.) to proceed at the front of (a parade, etc.); to act as chief officer of; command the operations of (a military unit); to direct operations of (an expedition, etc.); to direct, conduct, or serve as the leader or conductor of (an orchestra, ballet, etc.) (Webster’s 2008).

16.2 Commento culturale

Questa strofa si apre riprendendo la prima strofa del brano poetico proponendo due distici fratelli per la forte somiglianza. Suzanne takes you down / to her place near the river ora diviene Suzanne takes your hand / and she leads you to the river. Questo distico si riallaccia al primo sia strutturalmente (le prime e le ultime parole dei distici in esame sono le medesime), sia semanticamente. Come già spiegato nei paragrafi 2.1 e 2.2, il primo distico può essere diversamente interpretato, mentre il distico in analisi non si presta a numerose interpretazioni. Quest’ultimo ci riporta nuovamente alla figura di Suzanne, riprendendo a raccontare un secondo momento dell’incontro tra Suzanne e l’autore e determinando così una sorta di impianto ciclico del testo.

16.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

De Andrè traduce il distico come segue: «E Suzanne ti dà la mano / ti accompagna lungo il fiume» riprendendo una delle soluzioni traduttive da me proposte (però per il primo distico) nel paragrafo 2.1.

 

 

17. Versi 37 e 38

She is wearing rags and feathers

From Salvation Army Counters

17.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

La parola rag significa: «cencio», «brandello», «straccio» (Garzanti 2009). Questi significati sono confermati anche dal Webster’s 2008 che spiega il sostantivo così: 1.) a waste piece of cloth, esp. one that is old or torn; 2.) a small piece of cloth for dusting, cleaning, washing, etc.; 3.) anything considered to resemble a rag in appearance or in lack of value; 4.)[pl.] a) old, worn clothes; b) any clothes: used humorously. La parola feather  vuol dire «piuma», «penna». In inglese si usa soventemente l’espressione to be in high feather; to be in fine feather; to be in good feather come sinonimo di to be in a good mood; to be in good health; to be in good form (Merriam Webster). Probabilmente la parola feather rievoca questi idiotismi nell’immaginario collettivo anglosassone, contribuendo, ancora una volta, a delineare i tratti brillanti e gradevoli della protagonista della poesia.

17.2 Commento culturale

Il fatto che Suzanne sia vestita in modo così stravagante e anticonformista rafforza l’idea paventata da alcuni critici della donna come vagabonda. Sicuramente dà credito all’ipotesi accennata nel paragrafo 4.1, secondo cui l’aggettivo crazy riferito a Suzanne non sia da interpretare univocamente come «pazza», «matta», ma anche come «eccentrica», «fuori di testa», «di carattere». Suzanne potrebbe essere anche una vagabonda che si veste degli stracci e delle piume di coloro che sono stati arruolati nell’esercito della salvezza.

L’esercito della salvezza è un’organizzazione umanitaria, strutturata militarmente. Si presenta come movimento umanitario internazionale fondato nel 1865 dai coniugi William e Catherine Booth che, prendendo le mosse dalla dottrina evangelico-cristiana, si propone di diffondere il messaggio religioso avvicinando gli emarginati sociali e i reietti. Inizialmente sono stati proprio le prostitute, gli alcolizzati, i drogati e altri outsider a essere arruolati in questo esercito. Oggi questa organizzazione rappresenta uno dei più grandi enti umanitari di aiuto sociale. L’esercito della salvezza gestisce negozi che vendono abiti di seconda mano. Il ricavato delle vendite va in beneficienza e da ciò si può desumere che Suzanne si sia vestita con stracci e piume raccattati da uno di questi banconi (counter).

17.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«Porta addosso stracci e piume / prese in qualche dormitorio» La versione proposta da De Andrè ancora una volta non coincide precisamente con quella originale. Nel distico italiano non viene fatto alcun riferimento all’esercito della salvezza, ma viene efficacemente evocata la dimensione legata all’emarginazione sociale e alla solitudine degli esclusi citando la realtà dei dormitori, forse più vicina all’immaginario collettivo della cultura ricevente. Questo distico costituisce una sorta di ponte che conduce alla stessa linea poetica di De Andrè, i cui temi principali si incentrano sui reietti e gli emarginati e, più in generale, su tutti gli individui che la società “perbene” fatica ad accettare.

18. Versi 39 e 40

And the sun pours down like honey

On our lady of the harbor

18.1    Ricerca delle parole nel contesto culturale

Il verbo pour down significa: 1.) to flow freely or continuosly or copiously; 2.) to rain heavily; 3.) to rush in a crowd; swarm; 4.) to serve as a hostess at a reception or the like by pouring the tea, coffee, etc. for the guests (Webster’s 2008) e quindi «piovere a dirotto», «diluviare», «cadere (di pioggia)». Invece il sostantivo honey significa certamente: 1.) a thick, sweet, syrupy substance that bees make as food from the nectar of flowers and store in honeycombs ma anche, come risaputo: 2.) sweet one; darling; dear: often a term of affectionate address. Se inteso in senso informale vuole anche dire: 3.) something pleasing or excellent of its kind (Webster’s 2008).

Il sostantivo harbor  significa: 1.) a place of refuge, safety, etc.; retreat; shelter; 2.) a protected inlet, or branch of a sea, lake, etc., where ships can anchor, esp. one with port facilities (Webster’s 2008).

18.2    Commento culturale

Ancora una volta il distico analizzato ricorda indirettamente la dimensione legata all’acqua che latente o esplicita è comunque presente. Il verbo pour down viene sovente usato per indicare qualcosa che viene versato. L’aggettivo pouring viene spesso associato alla pioggia scrosciante (pouring rain). Affermando «il sole si riversa come miele» Cohen fa sì che due piani sensoriali diversi si incontrino in un connubio poetico ben riuscito.

La donna del porto baciata dal sole è sicuramente Suzanne. Nel verso 40 vi è un chiaro parallelismo tra la protagonista della canzone e una delle leggendarie sette meraviglie del mondo: il Colosso di Rodi. Tale statua, situata nel porto di Rodi in Grecia nel III secolo a.C., innalzava una torcia. Secondo alcuni storici questa rappresentava il dio Helios, il dio del Sole che a gambe divaricate poggiava i piedi alle estremità del porto di Mandraki tenendo la torcia. Si presume che la statua si erigesse talmente in alto da fungere da faro, permettendo alle navi di individuare facilmente il porto e di transitare più agevolmente.

Questa immagine tradizionale rispecchia una teoria ormai superata, dato che per garantire il passaggio delle navi le dimensioni della statua (32 metri di altezza) sarebbero state chiaramente insufficienti.

Oltre al Colosso di Rodi, l’espressione lady of the harbor fa riferimento anche a un’altra famosissima statua che si erige sull’acqua (elemento che ritorna per l’ennesima volta), ovvero la Statua della Libertà. Lo scultore che eseguì la grandiosa statua è il francese Auguste Bartholdi, il cui lavoro ha subìto grandemente l’influenza dell’antico e celebre scultore Fidia. Quest’ultimo creava statue gigantesche, effigi di antiche divinità in particolare di Atena e Nemesi, la cui realizzazione è stata in parte influenzata dal Colosso di Rodi. Prima di cominciare a lavorare al progetto della Statua della Libertà, Bartholdi stava cercando un committente per la costruzione di una statua gigantesca della dea Iside (la regina egizia del Cielo) che avrebbe dovuto sovrastare il canale di Suez. Questa doveva raffigurare una donna avvolta in un drappo, la quale avrebbe dovuto tenere alta una torcia. Il progetto non è stato ultimato per mancanza di fondi, ma ha trovato comunque una realizzazione nella Statua della Libertà che ha accolto milioni di emigranti, divenendo uno degli emblemi più conosciuti di libertà e affrancamento.

18.3    Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«Il sole scende come miele / su di lei donna del porto»

19. Versi 41 e 42

And she shows you where to look

Among the garbage and the flowers

19.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

La parola garbage significa: refuse, waste,rubbish, litter; quindi: 1.) spoiled or waste food that is thrown away; 2.) any worthless, unnecessary, or offensive matter (Webster’s 2008).

La parola flower invece: 1.) a.) the seed-producing structure of an angiosperm, consisting of a shortened stem usually bearing four layers of organs, with the leaf like sepals, colorful petals, and pollen-bearing stamens unfolding around the pistils; b) a blossom; bloom; c) the reproductive structure of any plant; 2.) a plant cultivated for its blossoms; flowering plant; 3.) the best or finest part or example [the flower of a country’s youth]; 4.) the best period of a person or thing; time of flourishing; 5.) something decorative; esp., a figure of speech (Webster’s 2008).

19.2 Commento culturale

Suzanne eleva tutto a perfezione. Lei indica dove posare lo sguardo tra i rifiuti e i fiori. Come già accennato al paragrafo 1, Suzanne offre una possibilità di redenzione da una realtà eterogenea in cui i fiori sbocciano accanto ai rifiuti.

19.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«E ti indica i colori / tra la spazzatura e i fiori»

La versione che De Andrè ci propone è senza dubbio molto suggestiva e interessante da un punto di vista evocativo e interpretativo. Il cantautore italiano non traduce l’espressione: she shows you where to look con «ti indica dove guardare»; ma piuttosto con l’espressione «ti indica i colori», ovvero, la perfezione della natura, la completezza della diversificazione, la bellezza della moltitudine. Inoltre il sostantivo «colori» fa rima con «fiori» alla fine del secondo verso, riprendendo quest’ultima parola un piano di assonanza non solo fonetica ma anche evocativo-semantica. De Andrè ha ripreso il concetto in uno dei suoi distici più famosi «dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior», in chiusura alla celebre canzone Via del Campo scritta nel 1967, appena un anno dopo la pubblicazione di Suzanne.


20. Versi 43 e 44

There are heroes in the seaweeds

There are children in the morning

20.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

La parola hero significa «eroe», «persona celebre» (Garzanti 2009), o meglio: 1.) Myth Legend: a man of great strenght and courage, favored by the gods and in part discende from them, often regarded as a half-god and worshiped after his death; 2.) any person admired for courage, nobility, or exploits, esp. in war; 3.) any person admired for qualities or achievements and regarded as an ideal or model; 4.) the central male character in a novel, play, poem, etc. with whom the reader or audience is supposed to sympathize; 5.) the central figure in any important event or period, honored for outstanding qualities (Webster’s 2008).

Il Merriam Webster indica l’esistenza della medesima parola ma con l’iniziale maiuscola (Hero) in riferimento a una figura mitologica. Questa è identificabile con: a priestness of Aphrodite at Sestos: her lover, Leander, swims the Hellespont from Abydos every night to be with her; when he drowns in a storm, Hero throws herself into the sea.

20.2 Commento culturale

Il riferimento alla figura mitologica di Èro è abbastanza palese. Anche se in italiano si perde il doppio senso che invece è più lampante nella versione inglese. Probabilmente in questo distico Cohen allude alla presenza di Èro che, affogata per riunirsi all’amore perduto, continua a vivere nelle acque e in tutti gli elementi che le abitano. Ancora una volta si fa accenno alla personificazione delle forze della natura, come nel verso 12.

Ma gli eroi a cui Cohen allude possono anche essere persone comuni, che vivono situazioni precarie – e sono metaforicamente impigliati nelle alghe, spesso rigettate dal mare stesso che le ha partorite – e quindi lottano in silenzio per la sopravvivenza. A questo proposito può essere interessante fare un parallelismo con la canzone italiana di Caparezza Sono un eroe (storia di Luigi delle Bicocche). Anche se questa è stata scritta recentemente, esprime bene una delle possibili linee guida sottintese dal distico in analisi anche perché approfondisce temi che non possono certo essere ascritti a una data epoca.

Il verso 44 rappresenta invece un tripudio di speranza e dolcezza. L’immagine dei bambini (simbolo del futuro e di ciò che deve ancora essere stabilito e determinato) nel mattino è indubbiamente una scena di impatto evocativo molto forte e la cui interpretazione dipende dalla soggettività di ognuno proprio perché parla differentemente alla dimensione emotiva personale di ciascuno.

20.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«Scopri eroi tra le alghe marce / e bambini nel mattino»

In questo distico De Andrè ripropone il paradigma della perfezione analizzato nei paragrafi precedenti. Il cantautore italiano delinea le alghe in modo più connotativo aggiungendo l’aggettivo «marce» e rendendole così ancor più ripugnanti delle alghe descritte in modo abbastanza neutrale dallo stesso Cohen.


21. Versi 45, 46 e 47

They are leaning out for love

And they will lean that way forever

While Suzanne holds the mirror

21.1 Ricerca delle parole nel contesto culturale

Il verbo lean significa: 1.) to bend or deviate from an upright position; stand at a slant; incline; 2.) to bend or incline the body so as to rest part of one’s weight upon or against something; 3.) to depend for encouragement, aid, etc.: rely (on or upon); 4.) to have a particular mental inclination, tend (toward or to a certain opinion, attitude, etc.); 5.) Slang: to pressure, as by using influence or intimidating (Webster’s 2008). Lean out significa quindi:«sporgersi». (Garzanti 2009). Il sostantivo mirror invece significa: 1.) a smooth surface that reflects the images of object; esp., a piece of glass coated on the reverse side as with silver or amalgam; 2.) anything that gives a true representation or description; 3.) Rare: something to be imitated or emulated; model; 4.) Archaic: a crystal used by fortune-tellers, sorcerers, etc.; 5.) give or show a likeness of (Webster’s 2008).

21.2 Commento culturale

In questo distico Cohen rivolge l’attenzione a un’altra categoria di “deboli e indifesi”: i bambini. Questi ultimi, comparsi (nel mattino) già nel distico precedente, ora si sporgono, si protendono all’amore e così faranno per sempre. Questa espressione di eternità pare voler indicare l’esistenza di un ordine che governa tutte le cose e al quale sono soggetti anche i più piccoli. In base a questa rappresentazione mentale tutti i bambini dell’umanità passata, presente e futura hanno un bisogno spasmodico di amore anelando ad amare ed essere amati.

Mentre l’essenza di speranza e futuro si protrae verso l’amore, Suzanne regge lo specchio. Evidentemente con questa metafora Cohen vuole indicare, facendo ancora una volta riferimento all’acqua, che Suzanne dirige la scena in una sorta di regia forse surrealista e onirica, ma altamente evocativa e profondamente suggestiva.

21.3 Raffronto con la traduzione di Fabrizio De Andrè

«che si sporgono all’amore / e così faranno sempre / e Suzanne regge lo specchio»

La traduzione proposta da De Andrè è parola per parola e quindi semanticamente molto vicina al testo originale, poiché – come già accennato per i versi 8 e 9 – se il testo è molto astratto risulta più difficile e rischioso fornire una traduzione che incanala rigidamente le possibilità interpretative.

 

 

22. Riferimenti bibliografici

 

 

 

[o.b.1] 

 

AGASSO D. 2001 Famiglia Cristiana, disponibile al sito: http://www.santiebeati.it/dettaglio/21150 consultato nel settembre 2010

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 [o.b.1]aggiungere autore titolo anno eccetera

Il senso come invariante della traduzione

 

Il senso come invariante della traduzione

DMITRII SARTOR

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18   20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Mediazione Linguistica

Dicembre 2010

 

 

 

© I. I. Revzin, V. J. Rozencvejg: «Osnovy obŝego i mašinnogo perevoda» 1964

© Dmitrii Sartor per l’edizione italiana 2010

 

Il senso come invariante della traduzione

 

 

 

Abstract in italiano

 

La traduzione e l’analisi contenutistica affrontano alcuni motivi di Revzin e Rozencvejg in un’epoca in cui andava definendosi il carattere scientifico della traduzione. La teorizzazione e la riflessione sui concetti necessari per il processo traduttivo, il linguaggio d’intermediazione e l’informazione invariante, è ancora discussa, il che conferma l’attualità di un’opera che ha quasi cinquant’anni. Nel processo traduttivo si identifica l’informazione invariante che il traduttore mantiene nel trasferimento da una lingua all’altra, informazione che gli autori riconoscono nel senso. L’impossibilità di stabilire determinate corrispondenze tra categorie linguistiche porta all’interpretazione, con cui il senso fa riferimento alla realtà.

 

English abstract

 

The translation and content analysis tackle some of the themes of Revzin and Rozencvejg at a time in which the scientific nature of translation was being defined. The theorization and considerations about the concepts needed for the translation process, the intermediary language and the invariant information, are still being discussed nowadays, affirming the topicality of this work nearly fifty years after its creation. During the translation process, the invariant information is identified and the translator keeps it in the transfer from one language to the other. According to the authors this invariant information constitutes the meaning itself. The inability to set well-defined correspondences between the language categories leads to the interpretation process by which the meaning refers to reality.

 

Абстракт на русском языке

 

Перевод и анализ содержания касаются некоторых обоснований Ревзина и Розенцвейга в эпоху определения научного характера перевода. Теоретизация и размышления по поводу понятий, необходимых для процесса перевода, языка-посредника и инвариантной информации, обсуждаются до сих пор, что свидетельствует об актуальности научного труда, которому почти пятьдесят лет. В процессе перевода выявляется инвариантная информация, которую переводчик сохраняет при передаче с одного языка на другой и которую авторы видят в смысле. Hевозможность установить определенные соответствия между языковыми категориями ведет к интерпретации, посредством которой смысл обращается к действительности.

 

 

 

Sommario

 

 

 

1. Prefazione…………………………………………………………………………………….3

 

 

2. Analisi dei contenuti………………………………………………………………………6

 

 

3. Traduzione………………………………………………………………………………….15

 

 

 

 

1. Prefazione

La presente tesi ha come oggetto la traduzione e l’analisi contenutistica dei paragrafi 14-15-16 del secondo capitolo dell’opera Oсновы общего и машинного перевода [Fondamenti di traduzione generale e automatica], pubblicato nel 1964 da Isaak Iosifovič Revzin e Viktor Jul’evič Rozencvejg, entrambi docenti presso il Laboratorio di Traduzione Meccanica dell’Istituto di Lingue Straniere di Mosca. Dal frontespizio si evince che il libro si presenta come un manuale scolastico diretto agli studenti dell’Università e raccoglie le nozioni di traduzione discusse dagli autori durante un ciclo di lezioni tenuto negli anni 1959-61.  L’approccio scientifico alla traduzione, tipico della scuola semiotica di Tartu-Mosca, a cui sia Revzin che Rozencvejg sono riconducibili, è stato sin dall’inizio messo in dubbio dagli occidentali, soprattutto per quanto riguarda i testi letterari; questo può ritenersi il motivo per cui il testo analizzato non trova, ad oggi, delle traduzioni esistenti in lingue occidentali.

 

Gli anni Sessanta hanno segnato un periodo di svolta nel campo della traduzione. Nella prima parte del Novecento, infatti, nella maggior parte dei casi la traduzione veniva affrontata da un punto di vista prettamente linguistico, vista semplicemente come un processo di sostituzione di un testo in una lingua con un testo in un’altra lingua. Con l’evoluzione del pensiero sovietico e lo studio di nuovi aspetti quali la traducibilità e la traduzione adeguata, lo studio della traduzione iniziò ad assumere un carattere sempre più scientifico, che portò, in parte, a una svolta significativa nell’ambito della traduzione automatica.

 

L’idea della traduzione automatica risale a qualche secolo prima; già nel 1629 Cartesio aveva proposto la creazione di un linguaggio universale che comprendesse idee equivalenti in lingue diverse ma corrispondenti allo stesso segno. Negli anni Cinquanta il Georgetown experiment (1954) presentò la traduzione interamente automatizzata di oltre sessanta frasi russe verso l’inglese. L’esperimento ebbe un enorme successo, i finanziamenti per le ricerche inerenti la traduzione automatica incrementarono notevolmente, tanto da far credere agli autori dell’esperimento che presto avrebbero raggiunto il loro obiettivo. Tuttavia, il processo fu molto più lento e solo qualche anno dopo, un comitato guidato da John Pierce  (rapporto ALPAC), accertò l’infondatezza delle ricerche effettuate fino a quel momento poiché basate su principi errati. La traduzione automatica andava ridiscussa in maniera diversa.

 

 

2. Analisi dei contenuti

È in questo contesto che si colloca l’opera di Revzin e Rozencvejg. Il principio da cui partire, secondo loro, è il linguaggio d’intermediazione, inteso come lingua “ponte” tramite la quale la cultura emittente e la cultura ricevente creano una rete di corrispondenze tra unità di senso elementari. Per comprendere a fondo questa nozione è necessario introdurre il concetto di «informazione invariante» da loro creata, che verrà ripresa anche dal noto ricercatore bulgaro Lûdskanov.

Considerando la traduzione come trasformazione di un messaggio, i due studiosi russi arrivano a definire la nozione di «invariante».

 

«Ad ogni trasformazione sorge sempre la questione riguardante ciò che rimane invariato nel processo di trasformazione, comunemente noto come «invariante» della traduzione» (1964:64, traduzione mia).

 

Come si evince dal titolo della mia tesi, gli autori individuano nel concetto di «senso» l’informazione invariante della traduzione, concetto che, tuttavia, non si presta a una precisa definizione. Il senso, infatti, è ciò che intuitivamente si cerca di lasciare invariato mentre si traduce. La difficoltà nel riconoscere ciò che davvero rimane invariato nel processo di trasformazione però, risiede nel fatto che non sempre il senso corrisponde al frammento di realtà segnalato da un certo messaggio, chiamato referente. Ciò accade quando il traduttore interpreta il proposito dell’autore invece di lasciarne invariato il senso dell’originale.

Tornando al concetto di senso, Church afferma:

 

«Il senso della proposizione si può definire come ciò che viene assimilato quando la proposizione è stata compresa, o come ciò che hanno in comune  due proposizioni in due lingue differenti, se si si traducono correttamente l’un l’altra (Church: 31-32)» (1964:67-68, traduzione mia).

 

È proprio durante il processo traduttivo che si riconosce il senso di una proposizione. Tuttavia, la vera novità della teoria proposta da Revzin e Rozencvejg sta nella nuova concezione del «linguaggio d’intermediazione». L’invariante del senso, infatti, non è considerata una categoria assoluta, si definisce e si precisa solo in correlazione al linguaggio d’intermediazione dato.

Anche il semiotico bulgaro Aleksandr Lûdskanov si è espresso in sintonia con il pensiero della scuola di Tartu-Mosca:

 

L’identificazione del significato degli elementi linguistici presuppone un sistema di riferimento comune. Questo sistema di riferimento, che può essere un linguaggio artificiale o naturale o verbale che rispecchia l’esperienza comune della realtà, verrà convenzionalmente chiamato «linguaggio d’intermediazione» (Lûdskanov 2008:XII).

 

In base a quanto detto, è utile precisare che il senso di un’espressione, inteso come «l’insieme delle unità minime di senso del linguaggio d’intermediazione, messe in corrispondenza con le espressioni stesse» corrisponde pienamente all’intuizione, mentre quello che intendiamo parlando di «invariante», è la comunanza dei contenuti semantici espressa dagli elementi di almeno due lingue diverse messi in corrispondenza.

 

In uno dei paragrafi da me tradotti, gli autori si soffermano sulla questione della traducibilità, intesa come «la possibilità di fissare determinate corrispondenze tra categorie lessicali e grammaticali di due lingue, prevista dallo schema traduttivo». Generalmente infatti, proprio questa possibilità viene messa in dubbio dalla differente classificazione della realtà nelle diverse lingue.

Quest’idea è ben riassunta in una celebre affermazione di Wilhelm von Humboldt, storico linguista tedesco, secondo il quale:

 

«Ogni lingua traccia un cerchio intorno alla nazione alla quale appartiene, cerchio dal quale è possibile uscire solo entrando in un’altra sfera. Lo studio di una lingua straniera si potrebbe per questo paragonare all’acquisizione di un nuovo punto di vista nella precedente concezione del mondo; … proprio perché nella lingua straniera trasferiamo in misura diversa la nostra concezione del mondo e la nostra concezione linguistica, non percepiamo con piena chiarezza i risultati di questo processo» (Humboldt: 81 traduzione mia).

 

In tempi recenti, le idee di Humboldt riguardo la questione dell’influenza della lingua sul pensiero e sulla formazione dei concetti per mezzo della lingua data, sono state riprese dagli studiosi americani Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf. Secondo la cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf, esistono delle relazioni sistematiche tra le categorie grammaticali della lingua parlata da una persona e il modo in cui quella persona capisce il mondo e si comporta al suo interno. Spesso, questo “principio di relatività linguistica” viene stereotipato come visione “prigione” della lingua, in cui il proprio pensiero e comportamento vengono completamente e interamente formati dalla propria lingua. Lo stesso Whorf, però, cercò semplicemente di sostenere che il pensiero e l’azione erano linguisticamente e socialmente mediate.

Sulla base di quanto detto, Whorf enuncia il suo pensiero così:

 

«La formazione del pensiero non è un processo libero, completamente razionale nel vecchio senso del termine, bensì un elemento della grammatica di una lingua che si distingue nelle varie nazioni, alcune volte in modo irrilevante, altre invece in maniera molto significativa, così come la struttura grammaticale delle lingue corrispondenti» (Whorf:174 traduzione mia).

 

Noi vediamo il mondo così come lo rappresenta la nostra lingua. Ora, poiché le lingue sono diverse, vediamo mondi diversi. Ecco perchè secondo lo stesso Whorf gli studiosi che non parlano le lingue europee con le quali sono stati formulati i principi base della scienza, possono interessarvisi e potenziare il suo progresso solo dopo avere assorbito il modo di pensare e la cultura dei popoli corrispondenti, e non sulla base della rappresentazioni derivanti dalla propria lingua. Partendo da questo presupposto Whorf rivolge l’attenzione a quelle che sono le caratteristiche singolari di ogni lingua, quei fenomeni che non hanno risentito dell’influenza di altre lingue o culture. È facile pensare come queste categorie linguistiche non possano trovare delle corrispondenze dirette nelle altre lingue. Si parla perciò di «intraducibilità», definita come l’impossibilità di fissare determinate corrispondenze tra alcune categorie linguistiche. Ciò non significa, però, che l’invarianza del senso non possa essere mantenuta. Lo stesso Whorf, ritiene che non sia necessario smentire l’intraducibilità in quanto non esiste traduttore, che nella pratica del suo lavoro non si sia mai imbattuto in un fenomeno che non prevedeva un traducente. Occorre precisare, tuttavia, quali categorie si intendano quando si parla di intraducibilità.

Gli autori propongono una classificazione delle categorie linguistiche dal punto di vista semantico, divisibili convenzionalmente in semanticamente piene e semanticamente vuote.

 

Si possono chiamare semanticamente piene le categorie che portano un’informazione extralinguistica, che può essere allo stesso tempo rielaborata tramite l’aiuto di un linguaggio d’intermediazione. Chiameremo semanticamente vuote tutte le categorie che non detengono questa caratteristica. In particolare, le categorie semanticamente vuote sono quelle che portano solo un’informazione linguistica, e cioè vengono utilizzate solamente per le necessità interne di una lingua  (1964:71 traduzione mia).

 

Si può intuire come alla teoria della traduzione interessino esclusivamente le categorie semanticamente piene, in quanto il fatto, per esempio, che un sostantivo di genere maschile venga tradotto in un’altra lingua con un sostantivo di genere femminile, non incide in alcuna misura sul cambiamento di significato del testo corrispondente.

Gli autori segnalano tre gruppi in cui possono, a loro volta, essere suddivise le categorie piene, in base al tipo di rapporto che instaurano con le altre categorie nel momento della descrizione della situazione.

Le categorie che ci riconducono direttamente al concetto di «intraducibilità» sono quelle “il cui uso è compatibile con una certa situazione, anche se non ne è causato”. Questo significa che una stessa situazione può essere descritta mediante categorie differenti, come accade nella grammatica con le categorie di modo e tempo verbale o nel lessico con i cosiddetti sinonimi ideografici. La differenza che intercorre tra i sinonimi stilistici non è legata alla diversa suddivisione della realtà e quindi si dice appartengano alla stessa categoria lessicale.

 

In realtà, se in una lingua la divisione del tempo è diversa da quella di un’altra lingua, nella misura in cui la peculiarità di questa divisione non è condizionata dalla situazione, ragionando teoricamente, non è possibile stabilire una corrispondenza tra queste due categorie

(cit. Whorf in 1964:72-73 traduzione mia).

 

Come dimostrano Revzin e Rozencvejg, il presupposto da cui parte l’ipotesi Sapir-Whorf riguardo all’impossibilità di confrontare le categorie di due lingue diverse, può esser vero solo in caso di mancanza di contatti tra le lingue date, cosa che si può ritenere possibile, anche se non tipica. In questo modo possiamo affermare che quanto detto da Whorf valga sì per l’esempio da lui riportato, in cui analizza la mancanza di corrispondenze tra la lingua Hopi e le lingue occidentali, ma non può valere per le lingue che sono in costante contatto tra loro, in cui le ripetute traduzioni dei testi, portano, di regola, all’unificazione delle categorie semantiche.

In questo modo gli autori limitano il valore dell’ipotesi Sapir-Whorf ma riconoscono la veridicità di alcuni dei concetti da loro introdotti. L’intraducibilità sussiste anche tra due lingue regolarmente in contatto tra loro, ma in maniera diversa. In tal caso, infatti, le categorie ritenute “intraducibili” appartengono all’attività quotidiana di una persona e si trovano alla periferia di un dato sistema linguistico. Quando il traduttore si trova di fronte a una proposizione considerata «intraducibile», e cioè quando la realtà si presenta categorizzata in maniera differente nelle due lingue prese in considerazione, si deve ricorrere al processo d’interpretazione, in cui avviene un trasferimento del contenuto facendo riferimento alla realtà.

 

Nella trasformazione, è possibile stabilire una corrispondenza con il referente anche grazie alla diversa suddivisione della realtà, che  si dimostra non solo con la pratica traduttiva, ma anche con la pratica dei rapporti linguistici (1964:75,  traduzione mia).

 

Il principio generale del processo di interpretazione consiste nel fatto che la corrispondenza nella cultura ricevente si costruisca introducendo alcuni nuovi elementi. Ě grazie alle abilità interpretative di un traduttore che il riferimento alla realtà rimane intatto. Ogni cultura emittente dispone di alcuni casi in cui è impossibile stabilire una corrispondenza nella cultura ricevente, e il compito del traduttore è cercare di interpretare quegli aspetti originali della lingua di partenza per renderli nella lingua d’arrivo senza alterare il rapporto dell’autore con l’oggetto.

 

Le circostanze più difficili sono la ricerca di corrispondenze lessicali attraverso l’interpretazione per mezzo di situazioni culturali diverse che vengono equiparate (1964:79 traduzione mia).

 

In questi casi è necessario ricercare un’equivalenza nella cultura ricevente, procedura che si ripete in presenza della traduzione degli idiomatismi. Il linguista americano Nida ha proposto una classificazione di queste circostanze, descrivendo diversi casi di interpretazione, ognuno dei quali volto a dimostrare l’importanza che l’uomo ha in questo processo. Il dizionario non potrebbe prevedere la corretta interpretazione della stessa parola in situazioni diverse, motivo per cui gli stessi autori arrivano a smentire la possibilità di una completa ed efficace trasformazione automatica senza l’ausilio dell’uomo.

 

 

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3. Traduzione

 

 

 

 

 

§ 14 Смысл как инвариант перевода

 

 

Итак, мы определили перевод как определенное преобразование сообщения. При всяком преобразовании всегда встает вопрос о том, что остается неизменным в процессе преобразования или, как принято говорить, об инварианте преобразования.

Интуитивно всегда сознавалось, что инвариантом при переводе должен быть смысл (ср. в этой связи обычное требование “переводить не слова, а смысл” и т. п.). Дело, однако, в том, что понятие “смысл” с большим трудом поддается точному определению.

Первая трудность состоит в том, что смысл не всегда однозначно соответствует обозначаемому данным сообщением отрезку действительности (или, как мы будем говорит, референту. Иногда в том же значении употребляем термин “денотат”). Иначе говоря, необходимо различить сообщение, референт сообщения и смысл сообщения.[1] Например, сообщения: “Вальтер Скотт” и “автор Веверлея” имеют тот же референт, но разный смысл (Черч, стр. 18).

Говоря о разграничении понятий референта, смысла и сообщения (символа), Ферс приводит следующий показательный пример: “Обычно разные газеты печатают статьи об одном и том же событии под различными заголовками. Предположим событие – это приговор лорду Икс. Заголовок в “Таймсе” гласит: “Дело Р.М.С.П.” (R.M.S.P. Case); в “Ньюс Кроникл”: “Приговор лорду Икс вынесен”; в “Дейли Геральд”: Лорд Икс заключен в тюпьму сроком на один год”; б “Дейли Миррор”: Лорд Икс приговорен к 12 месяцам мюрьмы; в “Дейли Мейл”: Приговор лорду Икс поразил Лондон. И, наконец, заговолок в “Дейли Уоркер”, в тоне которого явно сквозит “и поделом ему”: Лорд Икс получил 12 месяцев… Референт здесь один – приговор лорду Икс. Он обозначен множеством символов в различных заголовках, причем разные отношения – это отношения между двумя сторонами: заголовком и событием” (Ферс, стр. 76)[2].

Заметим, что при интерпретации соответствие устанавливается через референт (отрезок дейcтвительности). Тождество смысла, вообще говоря, не требуется.

В самом деле, на практике известны случаи, когда при интерпретации референт остается тем же самым, в то время как смысл меняется. Явления подобново рода возникают в простейших переводческих ситуациях, например, при употреблении так называемых перифраз. Так, смысл не сохраняется при переводе нем. Мessestadt через ‘Лейпциг’, фр. ville-lumière через ‘Париж’ и т.п.

 

 

При передаче технических терминов интерпретацией пользуются довольно часто. Допустим, что в технической характеристике автомобиля нужно перевести термин Bodenfreiheit. Терминологический эквивалент встречается в приминении к танкам, где он выражается заимствованным с английского языка словом ‘клиренс’. Означает этот термин расстояние от днища до грунта. В приминении же к автомобилям чаще встречается термин ‘дорожный просвет’. В данном случае можно использовать прием описательного перевода и перевести: ‘Расстояание от низших точек автомобиля до дороги’. Это описательное выражение и используется в описаниях автомобиля на русском языке.

 

Приведем еще несколько примеров описательного перевода терминов:

 

-Unterflurmotor : двигатель, расположенный под полом кузова;

-Solokraftrad: мотоцикл без коляски;

-Strichplatte: пластика с мерными делениями;

-Abwälzverfahren: нарезание зубчатых колес методом обкатки

 

При подобном подходе к оригиналу, т.е. соотнесении текста с референтом, имеет место не перевод в строгом значении этого термина, а интерпретация, причем трудно ограничить меру такого рода толкования. В самом деле, не очевидна правомерность перевода, вернее – интерпретация слова bonhomme через ‘некий старичок’ в контексте новеллы Доде “Un teneur de livres”: ‘Brr…quel brouillard!…dit le bonhomme en mettant le pied dans la rue’. – ‘Бррр…какой туман! – говорит некий старичок, выходя на улицу’  (Федеров, стр. 134).

Особенно чревата опасностями искажения оригинала интерпретация текстов документальных, классических и т.п. Показательна и в этом отношении переводческая практика В.И. Ленина. В книге “Материализм и эмпириокритицизм” В.И.Ленин переводит второй тезис Маркса о Фейербахе: In der Praxis muss der Mensch die Wahrheit, d.h. die Wirklichkeit und Macht, die Diesseitigkeit seines Denkens beweisen таким образом: ‘В практике должен доказать человек истинность, т.е. действительность, мощь, посюсторонность своего мышления. При этом Ленин говорит: ‘У Плеханова вместо “доказать посюсторонность мышления” (буквалный перевод) стоит: доказать, что мышление “не останавливается по сю сторону явлений”… Плеханов дал пересказ, а не перевод… вольный пересказ Плеханова не обязателен для тех, кто хочет знать самого Маркса…”[3]

 

Второй пример. В работе «Что такое друзья народа…» В.И.Ленин переводит одно место из журнала «Sozialpolitisches Centralblatt» где о народничестве говорилось, что оно «…wird herabsinken …zu einer ziemlich blassen kompromißfähigen und kompromißsüchtigen Reformrichtung» следующим образом: «oно либо выродится в довольно бледное направление реформ, способное на компромиссы и ищущее компромиссов….». B подстрочном замeчании к этому переводу В.И.Ленин говорил: «Ziemlich blasse kompromißfähige und kompromißsüchtige Reformrichtung – по-русску это можно, кажется, и так передать: культурический оппортунизм».[4] Как мы видим, В.И.Ленин явно различал собственно перевод, при котором смысл оригинала остается неизменным, и толкование авторского намерения переводчиком[5].

 

Проблема перевода и интерпретации особо остро встает при переводе древних текстов, когда вероятность искажения смысла оригинала при интерпретации возрастает, ввиду трудности определения референта  (Шеворошкин, ср., однако, Маркиш, стр. 155).

Что же касается процесса перевода, то здесь положение иное. Референт вообще не участвует в схеме, и задача состоит в том, чтобы установить такое соответствие, которое обеспечивает инвариантность смысла. Это особенно важно по следующему соображению. Интуитивное понятие смысла лучше всего определять именно через перевод. Интересно, что так и поступают в тех научных исследованиях, которые стремятся к максимальной точности. Ср. следующее определение: «Смысл предложения можно описать как то, что бывает усвоено, когда понято предложение, или как то, что имеют общего два предложения в различных языках, если они правильно переводят друг друга  »    (Черч, стр. 31-32)

Kак же отразить инвариантность смысла в теории перевода? Мы уже говорили (cp.10), что каждому выражению ставится в соответсвие некаторая совокупность единиц языка-посредника. Отсюда основное требование к языку-посреднику: его единицы должны соответствовать смысловым единицам, выделяемым в обоих языках (как в ИЯ, так и в ПЯ). Таким образом, язык-посредник и инвариантность смысла должны определяться одновременно и взаимно уточнять друг друга по мере привлечения нового языкового материала. В соответствии со сказанным мы будем понимать под смыслом некоторого выражения совокупность элементарных смысловых единиц языка-посредника, поставленных в соответствие с данным выражением. Заметим, что такое понимание смысла вполне соответствует интуиции, причем инвариантность смысла в нашем понимании соответствует тому, что имеется в виду, когда говорят, что «теория перевода стремится к установлению закономерных соответствий между единицами двух (по крайней мере) разных языков на основе общности выражаемого ими семантического содержания» (Барху – даров, стр. 11). Пожалуй, наиболее существенное отличие изложенного здесь от традиционной теории в том, что инвариантность смысла трактуется нами не как абсолютная категория, а как инвариантность по отношению к построенному языку-посреднику.

 

 

§ 15. Проблема переводимости

 

В §13 обсуждался вопрос о том, возможно ли автоматизация перевода. Интересно, однако, что вопрос о переводимости, т.е. о возможности установить такое соответствие между лексическими и грамматическими категорями двух языков, которое предпологается схемой перевода, вообще неоднократно ставился под сомнение. Это связано с тем, что действительность по-разному членится разными языками (см. 11). Именно исходя из этого факта, многие лингвисты ставили под сомнение возможность перевода текстов с одного ясыка на другой. Наиболее ярко идея несводимости друг к другу двух картии мира, описываемых разными языками, была высказана в лингвистике В.Гумбольдтом. Характерно следующее его высказывание: «Каждый язык описывает вокруг народа, которому он принадлежит, круг, из пределов которого можно выйти только в том случае, если вступаешь в другой круг. Изучение иностранного языка можно было бы поэтому уподобыт приобретению новой точки зрения в прежнем миропонимании; … только потому, что в чужой язык мы в большей или меньшей степени переносим свое собственное миропонимание и свое собственное языковое воззрение, мы не ощущаем с полной ясностью результатов этого процесса» (Гумбольдт, стр. 81). В новейшее время идеи Гумбольдта были в другой форме высказаны в Европе Кассирером и Вейссгербером, а в Соединенных Штатах Америки Сепиром. Подробно вопрос о влиянии языка на мышление и формирование средствами данного языка понятий, выражение которых на другом языке невозможно, рассматривается в работах Б.Уорфа. Развивая мысль Сепира о том, что значения «…не только открываются в опыте, сколько накладываются на него в силу той тиранической власти, которой обладает языковая форма над нашей ориентацией в мире» (Sapir cтр. 78, цит. «Новое в лингвистике», вып. 1, стр 117).

 

Уорф приходит к выводу, что своеобразие строя каждого языка обуславливает культуру и мировоззрение его носителей. Как и Сепир, Уорф выводит свое понимание соотношения языка и мышления из наблюдений над культурой и языками американских индейцев. Экзотичность этих языков привела Уорфа к следующим гипотезам: 1) наши представления (например, времени и пространства) не одинаковы для всех людей, а обусловлены категориями данного языка и 2) существует связь между нормами культуры и структурой языка. Подтверждение этих гипотез Уорф видит и в западноевропейских языках. Он пишет: «Ньютоновские понятия пространства, времени и материи не есть данные интуиции. Они даны культурной и языком. Именно из этих источников и взял их Ньютон» (Уорф, «Новое в лингвистике», вып. 1, стр. 168).

 

 

Объективизированному времени, свойственному по Уорфу западноевропейским языкам, соответствуют такие черты западноевропейской культуры, как бухгалтерия, математика, интерес к точной последовательности, историчность, коковых черт нет в культуре американских индейцев. «Мы сталкиваемся, -писал Уорф в другой работе,- с новым принципом относительности, который гласит, что сходные физические явления позволяют создать сходную картину вселенной только при сходстве или по крайней мере при соотносительности языковых систем» (там же, стр. 175).

В другом месте, непосредственно относящемся к рассматриваемому здесь вопросу о переводимости, Уорф формулирует свою мысль так: «Формирование мыслей – это не независимый процесс, строго рациональный в старом смысле этого слова, но часть грамматики того или иного языка и различается у различных народов в одних случаях незначительно, в других – весьма значительно, так же, как грамматический строй соответствующих языков» (там же, стр. 174).

Уорф не отрицает очевидного единства современного научного мышления. Ему представляется, однако, что ученые, не являющеися носителями европейских языков, на которых были сформулированы основные понятия науки, могут приобщаться к ней и развивать ее достижения лишь усвоив образ мышления, культуру соответствующих народов, а не на основе представлений, сложившихся под воздействием своего языка. Тем самым концепция Уорфа сближается с мыслью о непроницаемости языков, высказывавшейся некоторыми лингвистами-индоевропеистами. Так же, как эти лингвисты, Уорф обращает внимание на самобытное и своеобразное в языке, на те явления, которые не испытали воздействия других языков и культур. Такой подход в значительной мере навязан был Уорфу самим объектом, т.е. языками коренного населения Америки, которые в течение многих столетий развивались независимо друг от друга и от Старого Света. Нет основания отрицать полностью мысль о непереводимости. Нет переводчика, который в своей практической деятельности не наталкивался бы на явления, не поддающиеся переводу. Да и теоретически ясно, что существуют такие категории языка, между которыми соответствия установить нельзя, а следовательно, нельзя и сохранить инвариантность смысла. Важно, однако, уточнить, какие категории языка имеются в виду, когда говорят о непереводимости.

Поскольку ставится вопрос об инвариантности смысла, необходима семантическая классификация языковых категорий, а не классификация формальная. В порядке первого приближения можно наметить следующую классификацию.

Прежде всего, все категории, т.е. все способы членения действительности грамматическими или лексическими средствами можно условно разделить на семантически пустые и семантически полные.

Семантически полными можно назвать те категории, которые несут экстралингвистическую информацию, причем такую, которая может быт переработана при помощи заданного языка-посредника[6]. Всякую категорию, которая не соответствует этому требованию, мы будем называть семантически пустой. В частности, семантически пустыми категориями являются те, которые несут чисто лингвистическую информацию, т.е. используются лишь для внутренних нужд языка (например, синтаксические категории).

Примеры пустых категорий: род существительных, все категории прилагательных, кроме степеней сравнения, род, число и лицо глаголов и т.п. Примеры полных категорий: число, определенность и неопределенность существительных, вид и модальность, время глаголов, по-видимому, все лексические категории (предполагается, что языком-посредником является естественный язык или искусственный язык, перерабатывающий всю экстралингвистическую информацию, которую несет естественный язык).

Семантически пустые категории не существенны в переводе. То, что существительное мужского рода (например, “стол”) будет переведено на другой язык существительным женского рода (например, la table) ни в коей мере не влияет на смысловое преобразавание соответствующего текста.

Теорию перевода интересуют семантически полные категории. Их можно, в свою очередь, подразделить на три группы[7] в зависимости от того, в какие отношения они вступают с другими категориями при описании ситуаций.

 

А. Существуют категории, употребление которых диктуется соответствующей ситуацией. Например, в грамматике – определенность и неопределенность, абсолютное и относительное время; в лексике – всякого рода плеоназмы. Хотя эти категории и представляют трудности для начинающего переводчика, принципальных трудностей они не вызывают. В самом деле, если в ПЯ есть данная категория, то знающии этот язык употребит ее (например, перевод категории определенности существительного с русского языка на французский). Если же соответствующей категории нет, то она избыточна, поскольку употребление ее определено ситуацией. Бессмысленно искать грамматический эквивалент категории вида русского глагола при переводе на язык, в котором этой категории нет: за исключением редчайших случаев (ср. «Колумб был счастлив не тогда, когда он открыл Америку, а тогда, когда ее открывал» (Достоевский)), употребление категории вида автоматически следует из ситуации (и больше того, из окружающего текста[8]).

Категории, целиком предсказываемые ситуацией, существуют и в лексике. Легко заметить, например, что при переводе русских прилагательных типа ‘предвыборный’, ‘всесоюзный’ на английский, французский или немецкий язык, приставки пред- и все- не могут быт переведены. (Ср. предвыборная кампания – фр. campagne électorale, нем. Wahlkampagne).

Б. Существуют категории, употребление которых совместимо с некоторой ситуацией, хотя ею и не обусловлено. Это означает, что одна и та же ситуация может быт описана с примениенем разных категорий. Так, например, в грамматике категории модальности и времени глагола, категории числа существительного; в лексике – так называемая идеографическая синонимика. (Можно считать, что стилистические синонимы принадлежат к одной и той же лексической категории. Ср. ‘есть’, ‘кушать’, ‘жрать’, различие между которыми не связано с разным членением действительности). Именно категории этой группы привели к мысли о непереводимости. В самом деле, если в некотором языке существует членение времени, отличное от членения времени в другом языке, то в той мере, в кокой своеобразие этого членения ситуативно не обусловлено, теоретически рассуждая, невозможно установить соответствия между этими двумя категориями. Наблюдения такого рода, проведенные на американо-индейских языках в сопоставлении с западноевропейскими, привели, как мы видели, к формулировке гипотезы Сепира-Уорфа о непереводимости текстов на разных языках. В области лексики такого рода непереводимость отмечена была давно. Ср. несоответствие между лексическими единицами ‘изба’, ‘хата’ и chaumière, maison; или, с другой стороны, между ‘уют’, confort, Gemutlichkeit. (Ср. также пограничные между лексикой е грамматикой явления, как разные формы обращения – ‘ты’ и ‘Вы’ в русском, you в английском; ‘Вы’ в русском и существительное, используемое в этой функции в польском, не говоря уже об аналогичных расхождениях между европейскими и восточными языками).

 

В. Существуют категории, употребление которых логически противоречит ситуации. В грамматике такое употребление категории случается редко. Ср., однако, фразу: ‘Вчера несколько раз шел дождь’, где форма ‘шел’, обозначающая непрерываемое действие, противоречит ситуации. Сюда относятся такие случаи нейтрализации, как употребление форм настаящего и прошедшего времени для выражения категорий допущения в настоящем и будущем. (Ср. фр. Si j’ai de l’argent, j’achèterai ce livre; si j’avais de l’argent, j’achèterais ce livre).

В лексике такое употребление семантических дифференциальных признаков, противоречащих ситуации, наблюдается весьма часто. Ср., например, употребление слова emprunter во фразе Pour pénétrer dans la maison le voleur a emprunté une fenêtre donnant sur la cour, дословно:’Чтобы проникнуть в дом, вор одолжил окно, выходящее во двор.’ Очевидно, что значение emprunter – ‘занимать’, ‘одалживать’ – противоречит описанной ситуации. Наличие подобных лексических категорий не приводит к непереводимости, ибо данный дифференциальный признак нейтрализуется окружающим текстом: иcчезновение этого признака в переводе не ведет к потере информации.

Это положение подтверждается практикой перевода идиомов. Существует такое распространенное мнение, что наличие идиомов ведет к непереводимости. Между тем, идиомы, с точки зрения переводимости, расподаются на две группы: а) идиомы, включающие слова, семантические признаки которых не противоречат ситуации, и б) идиомы, построенные на словах, значение которых противоречит ситуации. Сопоставим для примера следующие два идиоматических выражения: ‘Ай, Моська, знать она сильна, что лает на слона’ и ‘Здравстуйте, я ваша тетя’. Первое из них может быт переведено дословно, при условии передачи метра и рифмы (Ср. нем.: Ei schau, was das Möpschen kann, es bellt den Elephanten an, т.к. образная структура этого выражения достаточно прозрачна, и поэтому сравнение не противоречит ситуации. Дословный перевод второго выражения невозможен, т.к. он ведет к бессмыслице.

Таким образом, мы видим, что к непереводимости приводит, вообще говоря, лишь вторая группа полных категорий, а именно, когда две разных категории совместимы с одной и той же ситуацией. Уже одно это указывает на ограниченную значимость гипотезы Сепира-Уорфа. Этим не сказано, что названную гипотезу можно отвергнуть с порога, как несостоятельную. Наоборот, необходимо отметить важность установленных ею фактов. Полная проверка этой гипотезы – дело будущего, когда в результате семантического описания словаря можно будет сопоставить лексику разных языков. Вместе с тем, уже сейчас напрашиваются два возражения,которые, если и не опровергают гипотезу Сепира-Уорфа, то ограничивают ее значение.

 

 

Как мы видели, гипотеза Сепира-Уорфа исходит из того, что категории двух языков не сопоставимы. Это верно лишь при отсутствии контактов между данными языками, что, вообще говоря, возможно, хотя и не характерно. Регулярные языковые контакты, многократные переводы текстов, как правило, ведут к унификации семантических категорий. Показательно, что Уорф считает возможным говорит о существовании стандартного западноевропейского языка, т.е. о единой семантической системе английского, французского и немецкого языков. Возникновение этой единой системы объясняется, разумеется, исчезновением, или значительным ослаблением в результате языковых контактов, своеобразной категоризации действительности в языках, входящих в так называемый стандартный европейский язык. Заметим, между прочим, что стандартизация касается только полных семантических категорий, хотя и в этих пределах некоторые явления существенно различаются (например, формы времени и вида). Что касается неполных семантических категорий, то они выражаются своеобразно и языками, входящими, по Уорфу, в единый европейский стандарт. Но Уорф не делает различия между семантически полными и семантически пустыми категориями. Нельзя, поэтому, не согласиться с мыслью, что если быть последовательным в проведении гипотезы Уорфа, то придется признать, что и каждый из западноевропейских языков обуславливает своеобразие мышления данного народа, и, следовательно, полное взаимопонимание между их носителями невозможно. Так, русское предложение ‘Маленькии мальчик  катается на коньках’ при полной передаче всех категории должно «переводиться» на английский язык предложением He-small he-boy drives himself on little he-horses (Бархударов, 1962, стр. 12). Вообще говоря, если определять перевод как преобразование, при котором не происходит никакая потеря, а передается все своеобразие содержания и формы оригинала (см. 4), то придется признать, что такое преобразование принципально неосуществимо, т.е. признать полностью правомерность гипотезы Уорфа. Если же исходить из данного нами определения (см. 13), то следует признать возможность такого выбора языка-посредника, при котором, как правило, семантически полные категории находят свое выражение. Правда, некаторые категории языков не сводятся в единую семантическую систему, и это происходит не только в таких экзотических языках, как язык хопи, о котором говорит Уорф, но и в языках, регулярно контактирующих между собой. Эти категории, как правило, относятся к бытовой сфере деятельности человека и находятся на периферии данной языковой системы. Признавая со сделанными выше оговорками, непереводимость, т.е. невозможность в определенных случаях установить соответствие, требуемое схемой N° 4, мы принципально отвергаем неинтерпретируемость, которая, повидимому, также предполагается гипотезой Сепира-Уорфа. При обращении к референту можно установить соответствия и при разном членении действилтельности, что доказывается не только практикой перевода, но и практикой языковых контактов. Правда, есть один случай, широко известный в практике перевода, который, по-видимому, дает повод говорить не только о непереводимости, но и о «неинтерпретируемости»[9]. Речь идет о тех случаях, когда форма языкового выражения становится существенным элементом ситуяции, т.е. когда мы имеем дело с установкой на систему языка (на код).

Здесь непереводимые (а может быть и неинтерпретируемые) ситуации возникают даже на базе пустых категорий. (Таков известный в теории перевода пример с гейневским стихотворением «Еin Fichtenbaum», Щерба, 1923), не говоря уже о семантически полных категориях, как грамматических, так и лексических. Неинтерпретируемы, по-видимому, и ситуации, возникающие на базе идиом, ср. знаменитые выходки Тиля Уленшпигеля (то, что по-немецки называется Eulenspiegeleinen). Сказанное относится в еще большей степени к стихотворному языку (примеры общеизвестны).

 

 

§ 16. К вопросу об «интерпретируемости»

 

Покажем теперь на ряде примеров, как в случае разной категоризации действительности в двух языках и возникающей в связи с этим непереводимости в строгом смысле слова, происходит процесс интерпретации, т.е. передачи содержания при помощи обращения к действительности.

А. Наиболее наглядным примером могут служить слова с суффиксами субъективной оценки. Здесь трудность не только в том, что соответствующие суффиксы в одних языках (русский, итальянский) встречаются гораздо чаще, чем в других (английский, французский), но и в том, что эти суффиксы по-разному комбинируются с разными основами. Так, увеличительно-умножительные суффиксы достаточно распpостранены в русском языке, ср. ‘домище’, ‘силища’ и т.п., но для таких, например, итальянских слов, как il donnone; la donnaccia; l’avaraccio, нет прямого соответствия, сохраняющего смысл, ср. русские интерпретации: ‘мужеподобная женщина’; ‘злая женщина’; ‘скупец’.

Даже, когда соответствующие суффиксы комбинируются с теми же основами, возможны очень резкие расхождения в употреблении слов в двух языках. Так, в немецком языке имеются суффиксы субъективной оценки -chen, -lein и некоторые другие, во французском -et, -ette.

Но, во-первых, их гораздо меньше, да и стилистическая сфера их употребления гораздо уже, чем в русском языке. Такие слова, как нем. Häuschen, Tischlein, Tellerchen, фр. maisonette, fillette и т.п., употребляются, как правило, в детской литературе, в сказках, иногда в фамильярно окрашенной речи, не говоря уже о том, что они не могут передать такого богатства оттенков, как различные русские суффиксы.

Таким образом, даже такому простому отношению, как отношение между словами ‘стол’ и ‘столик’, не соответствует в стилистическом плане отношение между словами Haus – Häuschen, maison – maisonette, и слово ‘домик’, как правило, переводится просто при помощи нем. Haus, фр. maison, в особенности, в случаях так называемого «экспрессивного» согласования в русском языке: ‘маленький домик’, нем. das kleine Haus, фр. la petite maison. К тому же, имеющийся в западных языках ряд, как правило, не насчитывает более двух-трех слов: Tisch, Tischlein и т.п. Невозможно передать на немецком или французском и, тем более английском языке, различие между ‘домик, домок, домишко’ и т.п. Ведь основное в таких словах не уменьшительность сама по себе (ее часто можно передать хотя бы прилагательным), а различное отношение говорящего к предмету. Переводчик должен передать отношение автора или героя к предмету, выраженное данным суффиксом во всей фразе, и даже, может быть, на протяжении более широкого текста. Возьмем, например, перевод романа К. Федина «Первые радости» выполненный Г. Ангаровой. Героиню романа зовут Аночка, но от того, чро мы просто транслитерируем слово (Anotschka), немецкий читатель не почувствует особенного отношения автора к ней, отношения, проходящего через весь роман. И переводчица уже с первой страницы находит нужные слова и обороты, чтобы передать это авторское отношение. Роман начинается словами: ‘Девочка-босоножка сидела’ и т.д., что передано словами: Ein kleines barfüßiges Ding von etwa zehn Jahren и т.д. Экспрессивно окрашенное слово Ding хорошо передает здесь отношение автора к героине.

 

 

Б. Близка к рассмотренной выше проблеме и проблема перевода русских абстрактных существительных, образованных при помощи суффиксов -ость, -щина и т.п. Дело здесь в том, что, хотя и можно высказать некоторые общие соображения о методе передачи таких слов, каждый отдельный случай требует обращения к действительности. Важно, однако, что такое обращение к действительности всегда – при некоторых навыках – дает возможность нахождения решения. Общий же принцип состоит в том, что соответствие в ПЯ строится при помощи введения некоторых новых элементов.

Возьмем к примеру образования с суффиксом -ость. Если слово ‘законность’ переводится на французский язык как légalité, на немецкий язык как Gesetzlichkeit, то подобные соответствия суть случаи довольно редкие, ср., например, слово ‘партийность’, которое на немецкий язык может переводиться как Parteilichkeit, а во французском языке имеет соответствие esprit de parti.

Разумеется, что если бы подобные соответствия были раз навсегда зафиксированы в словаре, то не нужно было бы говорить об интерпретации. Дело, однако, в том, что модель эта очень продуктивна в русском языке, и поэтому очень часто возникают случаи, словарем не предусмотренные.

Возмьем слово ‘идейность’. Идейность произведения это его идейное содержание. Поэтому для некоторых контекстов возможен перевод нем. Ideengehalt, фр. contenu idéologique. В других контекстах это слово интерпретируется как нем. Ideenreichtum, фр. richesse d’idées ‘идейное богатство’ и нем. Ideenreinheit – ‘идейная чистота’. Иногда можно слово идейность перевести его синонимом ‘принципальность’. Встает, однако, вопрос, как переводить слово ‘принципальность’. В большинстве случаев оно интерпретируется как нем. Prinzipienfestigkeit  или Prinzipientreue, или фр. fidélité aux principes.

Точно так же следует подходить к переводу слов типа ‘хованщина’. Можно сказать по нем. Chowanskimeuterei или -aufstand, или Chowanskizeit ‘восстание Хованского’, ‘период Хованского’ и т.д. ‘Корниловщина’ – Kornilowleute, Kornilowzeit, Kornilowmeuterei. ‘Керенщина’ может переводиться как Kerenskizeit или Kerenskischmach (если переводчик хочет передать эмоциональную окраску слова).

 

 

 

Как видно из приведенных примеров у переводчика нет готовых шаблонов для перевода того или иного слова данного типа. Даже когда соответствие кажется однозначным, возможны отклонения.

Выше мы указывали, что термин «партийность» переводится на немецкий язык при помощи Parteilichkeit. Но возможен и перевод по принципу объяснительного словосложения: Parteiprinzip, Parteistandpunkt, Parteigeist. А в одной из работ В.И. Ленина термин ‘партийность’ употреблен в совершенно особом смысле:

«Партийность в России весьма велика, и перед народом каждая партия имеет определенное политическое лицо».

(В.И. Ленин, изд. 4-е, т. 26, стр. 304).

Ясно, что ни одно из приведенных выше соответствий не подходит для данного случая. Переводчик нашел здесь следующее очень интересное решение – первое предложение переведено: die Parteiungen in Rußland sind sehr weit gediehen. Слово die Parteiung вообще употребляется редко и означает примерно ‘разделение на партии’, ‘приверженность каждого и кокой-то партии’.

Еще пример. В работе В.И. Ленина «Аграрный вопрос в России» (Соч., изд. 4-е, т. 15, стр. 5-6) есть следующее предложение: ‘Растет и чрезычайно быстро растет бессословность землевладения’. Слово ‘бессословность’ можно передать только описательно.

 

 

Ср. интерпретацию этого предложения:

Der Bodenbesitz auf nichtständischer Grundlage nimmt außerordentlich rasch zu.

В. Более сложными являются случаи нахождения лексических соответствий через интерпретацию путем приравнивания друг другу разных культурных ситуаций (авторы серии Stylistique comparée употребляют для этого случая термин équivalence ‘эквиваленция’[10]).

 

 

 

Ср.

 

кандидат наук                           – фр. licensié

аспирант                                   – фр. boursier d’études

аттестат зрелости                     – фр. baccalauréat

 

 

Очень часто подобная процедура применяется при переводе идиом, ср.:

 

                      Немецкий язык                 Русский язык

 

Ich will einen Besen                  Голову даю на

fressen, dass…                           отсечение, что..

 

Wer das Wasser fürchtet,           Волков бояться – в

muss nicht baden.                      лес не ходить.

 

Wenn meine Tante Räder          Если бы, да кабы,

hätte, wäre sie längst ein           да во рту росли

Omnibus.[11]                                   грибы, то это

были бы не рот,

а целый огород.

 

Der Bauch läßt sich nicht         Соловьбаснями

mit Worten abspeisen.               не кормят.

 

Wie man sich bettet, so            Что посеешь,

liegt man.                                   то и пожнешь.

 

Unter den Blinden ist               На безрыбьи

der Einäugige König.               и рак рыба.

 

Blinder Eifer schadet              Услужливый дурак

nur.                                          опаснее врага.

 

Viele Köche verderben            У семи нянек

den Brei.                                  дитя без глаза.

 

Lügen, dass sich die                Врать, как сивый

Balken biegen.                         мерин.

 

Wie der Ochs vorm                 Уставиться, как

Berge stehen.                           баран на новые

ворота.

 

Es wird nichts so heiß             Не так страшен

gegessen, wie es                      черт, как его

gekocht wird.                           малюют.

 

Man soll den Tag nicht           1) Не говори “гоп”,

vor dem Abend loben.             пока не перескочишь.

2) Цыплят по осени

считают.

 

Wer A sagt, muss auch             Взялся за гуж, не

B sagen.                                   говори, что не дюж.

 

Mein Name ist Hase,               Я не я, лошадь не

ich weiss von Nichts.               моя, я не извозчик.

 

Моя хата с краю, я

ничего не знаю.

 

 

Ср. также:

 

                 Русский язык                        Немецкий язык

 

Не выносить сор                   Seine schmutzig Wäsche

из избы.                                  nicht vor allen Leuten

waschen.

 

                        Французский язык

 

C’est en famille qu’il faut

laver son linge sale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Интересная классификация относящихся сюда случаев была предложена американским лингвистом Найда («Оn translation» стр. 29-31). Он описывает следующие случаи интерпретации:

 

 

a) oтсутствие в ПЯ знака и соответствующего референта, но наличие эквивалентной функции, выполняемой другим референтом.

 

Пример:  ‘белоснежный’ передается на язык, в   котором отсутствует понятие ‘снег’ (ввиду отсутствия референта’снег’ через white as egret feathers (‘белый, как оперение белой цапли’)).

 

 

б) наличие в ПЯ референта, но с другой функцией[12].

 

Пример: слово ‘сердце’ переводится на язык каббалака (Экваториальная Африка) словом ‘печень’, а на язык коноб (разновидность языка майя в Гватемале) через ‘брюшная полость’.

 

 

в) отсутствие в ПЯ и эквивалентного слова и соответствующей ситуации. В этом случае приходится прибегнуть к заимствованию, причем заимствованное слово, как правило, сопровождается пояснением. Примеры, приводимые Найда для этого случая, не очень показательны. Пеэтому мы отсылаем читателя к примерам, приводимым для этой категории случаев Федоровым (стр. 141 у сл.).

§ 14 Il senso come inviarante della traduzione

 

 

Dunque, abbiamo definito la traduzione come una determinata trasformazione del messaggio. A ogni trasformazione sorge sempre la questione riguardante ciò che rimane invariato nel processo di trasformazione, come si dice l’«invariante» della traduzione.

Intuitivamente si è sempre pensato che l’invariante nella traduzione dovesse essere il senso (in base a ciò la consueta raccomandazione di «non tradurre la parola, bensì il senso»). A ogni modo, però, il concetto di «senso» si presta molto difficilmente a una definizione precisa.

Il primo ostacolo sta nel fatto che il senso non sempre corrisponde univocamente al frammento di realtà significato da un certo messaggio (o, come diremo, al referente. Talvolta viene usato il termine «denotato» con lo stesso significato).

In altre parole, è necessaria una distinzione tra segno, referente del messaggio e senso del messaggio. Per esempio, negli enunciati: «Walter Scott» e «l’autore di Waverley» il referente è lo stesso mentre il senso è diverso (Church:18).

Per quanto riguarda la delimitazione dei concetti di «referente», «senso» ed «enunciato» (simbolo), Firth fa il seguente esempio dimostrativo:

«Solitamente i vari giornali scrivono articoli riguardanti lo stesso avvenimento, differenziandosi nel titolo. Supponiamo che la notizia sia la sentenza di Lord X. Il titolo del Times dice: «Il caso R.M.S.P.» ; nel News Chronicle: «Emessa sentenza su Lord X»; nel Daily Herald: «Lord X in carcere per un anno»; nel Daily Mirror: «Lord X condannato a un anno di carcere»; nel Daily Mail: «La sentenza su Lord X stupisce Londra»; e , infine, il titolo del Daily Worker, dal cui tono traspare chiaramente «se lo meritava»: «Lord X ha preso 12 mesi»… Qui il referente è uno: la sentenza su Lord X. È significato da numerosi simboli sulle diverse testate, mentre le diverse sfumature con cui il fatto è riportato sono frutto del rapporto tra il titolo e l’avvenimento» (Firth:76).

Osserviamo che l’interpretazione implica una corrispondenza attraverso il referente (frammento della realtà).

L’identità del senso, in genere, non è necessaria. Di fatto, come mostra la pratica di certi casi, quando in fase d’interpretazione il referente rimane lo stesso, il senso cambia. Fenomeni simili si verificano nelle più ordinarie situazioni traduttive, come per esempio con l’uso delle cosiddette perifrasi. Infatti, il senso non rimane lo stesso quando traduciamo con «Lipsia» il tedesco Messestadt, oppure quando usiamo il traducente «Parigi» per il francese ville lumière.

 

Quando si tratta di comunicare termini tecnici molto spesso si ricorre all’interpretazione. Supponiamo che nella descrizione tecnica di un’automobile si debba tradurre il termine Bodenfreiheit. Il traducente terminologico si trova applicato ai carri armati, dove si trova in qualità di prestito sull’inglese con la parola clearance. Con questo termine si intende la distanza del fondo dal suolo. In campo automobilistico si incontra più spesso il termine «altezza di marcia». In questo caso si può ricorrere al procedimento della traduzione descrittiva e tradurlo: «distanza dal punto più basso dell’automobile alla strada». Questa espressione descrittiva si utilizza anche nella descrizione di un’automobile in russo.

 

 

Riportiamo alcuni altri esempi di traduzione descrittiva dei termini:

 

 

-Unterflurmotor:  motore disposto sotto il pavimento della carozzeria;

-Solokraftrad: moto senza carrozzella;

-Strichplatte: plastica con divisioni regolari:

-Abwälzverfahren: filettatura delle ruote dentate con metodo di rodaggio

 

Con un simile approccio all’originale, e cioè il collegamento del testo al referente, non si verifica una traduzione nel significato preciso di questo termine, ma un’interpretazione, ed è difficile limitare la misura di questo tipo d’interpretazione. In realtà, non è così evidente la fondatezza della traduzione, o meglio, l’interpretazione della parola bonhomme come «un vecchietto» nel contesto della novella di Daudet Un teneur de livres «Brr…quel brouillard!…dit le bonhomme en mettant le pied dans la rue».- «Brrr… che nebbia!.. esclamò un certo vecchietto uscendo sulla strada»

(Fedorov, 134).

È particolarmente suscettibile al rischio di alterazione dell’originale l’interpretazione di testi documentari, classici e così via.  Anche riguardo a ciò, è significativa la pratica traduttiva di Vladimir Il’ič Lenin. Nel libro Materialismo e empiriocriticismo Lenin traduce la seconda tesi di Marx su Feuerbach: «In der Praxis muss der Mensch die Wahrheit, d.h. die Wirklichkeit und Macht, die Diesseitigkeit seines Denkens beweisen» così: «Nello studio, l’uomo deve dimostrare la autenticità, e cioè la realtà, la potenza, l’unilateralità del suo pensiero». Riguardo a ciò Lenin dice: «Nella versione di Plehanov, al posto di «dimostrare l’unilateralità del pensiero» (traduzione letterale) c’è scritto: dimostrare che il pensiero “non si ferma dall’altra parte dei fenomeni»… Plehanov ha fatto un parafrasi, non una traduzione…la parafrasi libera di Plehanov non può ritenersi affidabile per coloro che vogliono capire il pensiero di Marx…»

Un secondo esempio. Nell’opera Cosa sono gli amici del popolo… Lenin traduce un passo dalla rivista Sozialpolitisches Centralblatt, in cui si diceva che il populismo «…wird herabsinken …zu einer ziemlich blassen kompromißfähigen und kompromißsüchtigen Reformrichtung», nel seguente modo: «… o degenererà in un corso riformista all’acqua di rose, capace di compromessi e alla ricerca di compromessi…». Nella nota a piè pagina a questa traduzione Lenin scrisse: «Ziemlich blasse kompromißfähige und kompromißsüchtige Reformrichtung – pare si possa rendere in russo anche con “opportunismo culturale”». Come si può notare, Lenin ha chiaramente distinto la traduzione vera e propria, nella quale il senso dell’originale rimane invariato, dall’interpretazione del proposito dell’autore data dal traduttore.

Il problema della traduzione e dell’interpretazione si presenta in maniera particolarmente incisiva nella traduzione di testi antichi, in cui la probabilità di alterare il senso dell’originale aumenta, data la difficoltà di determinare il referente (Šěvoroškin, vedi però Markiš155).

 

Per quanto riguarda invece il processo traduttivo, la situazione è diversa. Il referente non è neanche incluso nello schema, e lo scopo è stabilire una corrispondenza che garantisca l’invariabilità del senso. Questo è particolarmente importante in vista di quanto segue. Il modo migliore per individuare il concetto intuitivo di senso è la traduzione. È interessante che si giunga a questa conclusione anche in quelle ricerche scientifiche che aspirano alla massima esattezza. Si veda questa definizione: «Il senso della proposizione si può definire come ciò che viene assimilato quando la proposizione è stata compresa, o come ciò che hanno in comune  due proposizioni in due lingue differenti, se si si traducono correttamente l’un l’altra (Church: 31-32)

E in che modo si manifesta l’invariante del senso nella teoria della traduzione? Abbiamo già detto (§ 10) che  a ogni espressione si attribuisce una corrispondenza con un certo insieme di elementi del linguaggio d’intermediazione. Ne consegue il requisito principale del linguaggio d’intermediazione: le sue unità devono corrispondere alle unità di senso individuabili in entrambe le lingue (sia nella cultura emittente che nella cultura ricevente).

Quindi il linguaggio d’intermediazione e l’invariante del senso si definiscono contemporaneamente e si precisano reciprocamente in base all’attrazione del nuovo materiale linguistico. In base a quanto detto,  per «senso di un’espressione» intendiamo l’insieme delle unità minime di senso del linguaggio d’intermediazione, messe in corrispondenza con le espressioni stesse. Si noti che questa interpretazione di «senso» corrisponde pienamente all’intuizione, mentre l’invariante del senso nella nostra interpretazione corrisponde a ciò che si intende quando si dice che «la teoria della traduzione aspira a istituire regolari corrispondenze tra gli elementi di (almeno) due lingue diverse, sulla base della comunanza del contenuto semantico da loro espressa» (Barhudarov 11). Forse, la differenza più sostanziale di questa teoria dalla teoria tradizionale sta nel fatto che noi non consideriamo l’invariante del senso una categoria assoluta, bensì un’invariante in relazione al linguaggio d’intermediazione dato.

 

§ 15. Il problema della traducibilità

 

In §13 si è discussa la questione circa la possibilità di automatizzare la traduzione.

È interessante, tuttavia, che la questione riguardante la traducibilità, e cioè la possibilità di fissare determinate corrispondenze tra categorie lessicali e grammaticali di due lingue, prevista dallo schema traduttivo, è stata più di una volta messa generalmente in dubbio. Questo è dovuto al fatto che la realtà è classificata diversamente a seconda della lingua (§ 11). Proprio in base a questa constatazione, molti linguisti hanno messo in dubbio la possibilità di tradurre i testi da una lingua a un’altra.

In modo chiarissimo l’idea dell’irriducibilità reciproca di due visioni del mondo descritte da  lingue diverse, è stata espressa nella linguistica da Wilhelm von Humboldt. È tipica la sua seguente affermazione: «Ogni lingua traccia un cerchio intorno alla nazione alla quale appartiene, cerchio dal quale è possibile uscire solo entrando in un’altra sfera. Lo studio di una lingua straniera si potrebbe per questo paragonare all’acquisizione di un nuovo punto di vista nella precedente concezione del mondo; […] proprio perché nella lingua straniera trasferiamo in misura diversa la nostra concezione del mondo e la nostra  concezione linguistica, non percepiamo con piena chiarezza i risultati di questo processo» (Humboldt:81). In tempi più recenti, le idee di Humboldt sono state espresse in forma diversa da Kassirer e Weisgerber in Europa, e da Sapir negli Stati Uniti.  In particolare, la questione dell’influenza della lingua sul pensiero e sulla formazione dei concetti per mezzo della lingua data, la cui espressione non è possibile in un’altra lingua, è esaminata nelle opere di Benjamin Whorf. Elaborando il pensiero di Sapir, riguardo al fatto che i significati «…non solo sono in funzione dell’esperienza, ma vi si applicano grazie a quel potere tirannico che la forma linguistica esercita sul nostro orientamento nel mondo»  (Sapir:78, citazione da «Introduzione alla Linguistica», 1:117)

 

Whorf arriva alla conclusione che la peculiarità strutturale alla base di ogni lingua condiziona la cultura e la  concezione del mondo dei suoi parlanti. Così come Sapir, Whorf trae la sua concezione del rapporto tra lingua e pensiero dall’osservazione della lingua e della cultura degli indiani d’America. L’esoticità di queste lingue ha portato Whorf alle seguenti ipotesi: 1) le nostre concezioni (per esempio, del tempo e dello spazio) non sono uguali per tutti, ma sono condizionate dalle categorie di una data lingua e 2) esiste un legame tra le regolarità di una cultura e la  struttura della lingua. Whorf vede la conferma di tali ipotesi anche nelle lingue europee occidentali. Scrive: «Le concezioni di Newton di spazio, tempo e materia non sono date dall’intuito, ma dalla cultura e dalla lingua. Ed è proprio da queste fonti che lo stesso Newton le ha ricavate» (Whorf, «Introduzione alla linguistica», 168).

 

 

All’oggettività del tempo, caratteristica che secondo Whorf appartiene alle lingue europee occidentali, corrispondono tratti tipici della cultura dell’Europa occidentale, come la contabilità, la matematica, l’interesse per la consequenzialità precisa, lo storicità, che non troviamo nella cultura degli indiani d’America. «Ci stiamo scontrando, – scriveva Whorf in un’altra opera, – con un nuovo principio di relatività, secondo il quale tali fenomeni fisici permettono di concepire un’immagine simile dell’universo solo in corrispondenza, o perlomeno in rapporto, ai sistemi linguistici» (Whorf:175).

In un altro passo che tratta in modo diretto la questione della traducibilità, Whorf enuncia il suo pensiero così: «La formazione del pensiero non è un processo libero, completamente razionale nel vecchio senso del termine, bensì un elemento della grammatica di una lingua che si distingue nelle varie nazioni, alcune volte in modo irrilevante, altre invece in maniera molto significativa, così come la struttura grammaticale delle lingue corrispondenti» (Whorf:174).

Whorf non nega l’evidente unitarietà del pensiero scientifico contemporaneo. Secondo lui, però, gli studiosi che non parlano le lingue europee con le quali sono stati formulati i principi base della scienza, possono interessarvisi e potenziare il suo progresso solo dopo avere assorbito il modo di pensare e della cultura dei popoli corrispondenti, e non sulla base delle rappresentazioni derivanti dalla propria lingua. Whorf, con la stessa teoria, si avvicina al concetto di impermeabilità della lingua formulato da alcuni linguisti indoeuropeisti. Come questi linguisti, Whorf  rivolge l’attenzione alle caratteristiche singolari e peculiari di una lingua, a quei fenomeni che non hanno risentito dell’influenza di altre lingue e culture. Tale criterio  è stato collegato in larga misura da Whorf  con l’oggetto stesso, e cioè con le lingue delle popolazioni native dell’America che nel corso di molti secoli si sono sviluppate indipendentemente, sia tra loro che dal Vecchio Continente. Non c’è motivo di smentire completamente il concetto di intraducibilità. Non esiste traduttore, che nella pratica del suo lavoro non si sia mai imbattuto in un fenomeno che non prevedeva un traducente. È chiaro anche teoricamente che esistono categorie linguistiche tra le quali non si possono definire delle corrispondenze, ma non per questo non si può non mantenere l’invarianza del senso. È importante precisare, tuttavia, quali categorie linguistiche si intendono quando si parla di intraducibilità.

Dal momento che la questione riguarda l’invarianza del senso, è necessaria una classificazione semantica delle categorie linguistiche, non formale. In prima approssimazione, si può osservare la seguente classificazione.

 

 

Innanzitutto, tutte le categorie, e cioè tutti i metodi della divisione della realtà con strumenti grammaticali o lessicali possono essere suddivisi convenzionalmente in semanticamente vuoti e semanticamente pieni.

Si possono chiamare semanticamente piene le categorie che portano un’informazione extralinguistica, che può essere allo stesso tempo rielaborata tramite l’aiuto di un linguaggio d’intermediazione. Chiameremo semanticamente vuote tutte le categorie che non detengono questa caratteristica. In particolare, le categorie semanticamente vuote sono quelle che portano solo un’informazione linguistica, e cioè vengono utilizzate solamente per le necessità interne di una lingua (ad esempio le categorie sintattiche).

 

Esempi di categorie vuote: genere dei sostantivi, tutte le categorie degli aggettivi, esclusi i gradi di comparazione, genere, numero e persona dei verbi etc…

Esempi di categorie piene: numero, sostantivi determinativi e indeterminativi, aspetto e modalità, tempo verbale e, evidentemente, tutte le categorie lessicali (si presuppone che il linguaggio d’intermediazione sia il linguaggio naturale o il linguaggio artificiale che rielabora tutta l’informazione extralinguistica portata dal linguaggio naturale).

 

Le categorie vuote non sono prese in considerazione nella traduzione. Il fatto che un sostantivo di genere maschile (ad esempio “tavolo”) venga tradotto in un’altra lingua con un sostantivo di genere femminile (ad esempio “la table”) non incide in alcuna misura sul cambiamento di significato del testo corrispondente.

Alla teoria della traduzione interessano le categorie piene, che possono, a loro volta, essere suddivise in tre gruppi in base al tipo di rapporto che instaurano con le altre categorie nel momento della descrizione della situazione.

 

A. Esistono alcune categorie il cui utilizzo viene imposto dalle corrispettive situazioni. Per esempio, in grammatica, la determinatività e l’indeterminatività, il tempo assoluto e il tempo relativo; nel lessico i pleonasmi di qualunque tipo. Sebbene queste categorie rappresentino un ostacolo per un traduttore alle prime armi, non comportano difficoltà di principio. Di fatto, se nella cultura ricevente sussiste la categoria data, l’esperto di questa lingua la userà (per esempio,  la traduzione dal russo al francese della categoria della determinatività con un sostantivo). Nel caso invece in cui non ci sia una categoria corrispondente, è superflua, in quanto il suo utilizzo è stabilito dalla situazione. È insensato cercare l’equivalente grammaticale della categoria dell’aspetto dei verbi russi quando si traduce in una lingua in cui questa categoria non esiste: a eccezione di rarissimi casi («Колумб был счастлив не тогда, когда он открыл Америку, а тогда, когда ее открывал» [«Colombo fu felice non tanto quando scoprì l’America, ma mentre la stava scoprendo»] (Dostoevskij)), l’uso della categoria dell’aspetto dipende automaticamente dalla situazione (e soprattutto dal testo circostante).

Le categorie che dipendono completamente dalla situazione comprendono anche il lessico. È facile notare, per esempio, che nella traduzione di aggettivi russi come ‘предвыборный’ (preelettorale), ‘всесоюзный’ (pansovietico), i prefissi  пред- e все- non possono essere tradotti. (vedi  “предвыборная кампания”, [campagna elettorale], in francese campagne électorale, in tedesco Wahlkampagne).

B. Esistono alcune categorie il cui uso è compatibile con una certa situazione, anche se non ne è causato. Questo significa che  una stessa situazione può essere descritta mediante categorie differenti; così, per esempio, accade nella grammatica con le categorie di modo e tempo verbale e con la categoria di numero del sostantivo; nel lessico con i cosiddetti sinonimi ideografici. (Si può ritenere che i sinonimi stilistici appartengano alla stessa categoria lessicale. Vedi ‘есть’, ‘кушать’, ‘жрать’ [«mangiare»]: la differenza non è legata alla diversa suddivisione della realtà).

Proprio le categorie di questo gruppo hanno portato all’ idea di intraducibilità. In realtà, se in una lingua la divisione del tempo è diversa da quella di un’altra lingua, nella misura in cui la peculiarità di questa divisione non è condizionata dalla situazione, ragionando teoricamente, non è possibile stabilire una corrispondenza tra queste due categorie. Osservazioni di questo tipo, condotte sulle lingue degli indiani d’America messe a confronto con le lingue europee occidentali, hanno portato, come abbiamo visto, alla formulazione dell’ipotesi di Sapir-Whorf sull’intraducibilità dei testi nelle diverse lingue. Nel campo del lessico l’intraducibilità di questo tipo era stata segnalata da tempo. Si veda la non corrispondenza tra elementi lessicali come ‘izbà’, ‘hata’ e chaumière, maison; o, d’altra parte, tra uût, confort e Gemutlichkeit. (Si vedano  anche i casi al limite tra lessico e grammatica, come i diversi modi di rivolgersi a una persona – ‘ty’ e ‘vy’ in russo, you in inglese; il ‘vy’ in russo e anche un sostantivo usato con questa funzione in polacco, senza parlare di simili divergenze tra le lingue europee e quelle dell’est).

 

 

 

B. Esistono alcune categorie il cui uso è in contraddizione logica con la situazione. In grammatica quest’uso delle categorie si presenta raramente. Si veda però la frase:  Вчера несколько раз шел дождь (Ieri pioveva a tratti), in cui la forma шел (pioveva), che significa un’azione ininterrotta, non corrisponde alla situazione. A questo tipo fanno capo alcuni casi di neutralizzazione, come l’utilizzo delle forme in tempo presente e passato per esprimere le categorie della supposizione al presente e al futuro. (Si veda il francese Si j’ai de l’argent, j’achèterai ce livre; si j’avais de l’argent, j’achèterais ce livre).

Nel lessico, quest’uso di segni semantici differenziali in contraddizione con la situazione si verifica abbastanza spesso. Si veda, per esempio, l’uso della parola emprunter nella frase Pour pénétrer dans la maison le voleur a emprunté une fenêtre donnant sur la cour, letteralmente: «Per introdursi in casa, il ladro ha preso in prestito la finestra che dava sul cortile».  È evidente che il significato di emprunter – «prendere in prestito», «prestare” – è in contraddizione logica con la situazione descritta. La presenza di simili categorie lessicali non porta all’intraducibilità, poiché il segno differenziale dato è neutralizzato dal testo circostante: la scomparsa di questo segno in traduzione non porta a perdite d’informazione.        Questa situazione si ripropone con la pratica della traduzione dei idiomatismi. Secondo l’opinione comune, l’esistenza dei idiomatismi determina intraducibilità. Dal punto di vista della traducibilità, invece, i modi di dire si suddividono in due gruppi: a) idiomatismi che includono parole i cui segni semantici non sono in contraddizione con la situazione, e b) i idiomatismi costituiti da parole il cui significato contraddice la situazione.    Mettiamo a confronto, come esempio, le due seguenti espressioni idiomatiche: ‘Ай, Моська, знать она сильна, что лает на слона’ e ‘Здравстуйте, я ваша тетя’. Il primo può essere tradotto parola per parola, a patto che si mantengano metro e ritmo (Si veda il tedesco. : Ei schau, was das Möpschen kann, es bellt den Elephanten an), in quanto la struttura poetica di quest’espressione è abbastanza trasparente, e per questo il paragone non contraddice la situazione. La traduzione parola per parola della seconda espressione non è possibile, in quanto porta al nonsenso.

In questo modo possiamo vedere che ciò che porta all’intraducibilità, generalmente parlando,  è solo il secondo gruppo delle categorie semanticamente piene, e in particolare, quando due categorie diverse sono compatibili con  la stessa situazione. Già solo questo indica l’importanza limitata dell’ipotesi Sapir-Whorf.  Ciò non significa che l’ipotesi sopracitata possa  essere respinta perché inconsistente. Al contrario, è necessario  riconoscere l’importanza degli elementi stabiliti grazie ad essa. La prova del nove di questa ipotesi si avrà quando in conseguenza della descrizione semantica del dizionario si potrà confrontare il lessico di lingue diverse. Nel contempo, già ora avanzano due obiezioni, che se non arrivano propriamente a smentire l’ipotesi Sapir-Whorf, ne  limitano quantomeno il valore.

 

Come abbiamo visto, l’ipotesi Sapir-Whorf  parte dal presupposto che le categorie di due lingue diverse non sono confrontabili. Ciò è vero solo in caso di mancanza di contatti tra le lingue date, cosa che possiamo ritenere possibile, anche se non tipica. I contatti linguistici regolari, le ripetute traduzioni dei testi, portano, di regola, all’unificazione delle categorie semantiche. È notevole che Whorf ritenga possibile parlare dell’esistenza della lingua europea occidentale standard, e cioè di un sistema semantico comune per l’inglese, il francese e il tedesco.

L’origine di questo sistema comune si spiega e si sottointende con la scomparsa o con una considerevole riduzione nel risultato dei contatti linguistici, della categorizzazione peculiare della realtà nelle lingue che fanno parte della cosiddetta lingua europea standard. Notiamo, tra l’altro, che la standardizzazione riguarda solo le categorie semanticamente piene, sebbene in questo ambito alcuni fenomeni si distinguono notevolmente (per esempio, le forme di tempo e aspetto). Per quanto riguarda le categorie semanticamente vuote, si manifestano in maniera peculiare

grazie alle lingue che, secondo Whorf, rientrano nello standard europeo comune. Ma Whorf non fa una distinzione tra le categorie semanticamente piene e quelle semanticamente vuote. Non è possibile, per questo, non essere d’accordo con il fatto che, per poter proseguire la realizzazione dell’ipotesi di Whorf, bisognerà riconoscere che anche ognuna delle lingue europee occidentali condiziona l’originalità del pensiero di una data nazione e, pertanto, la totale comprensione reciproca tra i loro popoli non è possibile. Dunque, la proposizione russa ‘Маленькии мальчик катается на коньках‘ (il piccolo ragazzo in sella ai cavallini)  per un completo trasferimento  di tutte le categorie dev’essere « tradotto» in inglese con la proposizione ‘He-small he-boy drives himself on little he-horses’  (Barkhudarov 1962;12).

Generalmente parlando, se definiamo la traduzione come trasformazione in cui non avviene alcuna perdita, ma si trasmettono tutte le originalità del contenuto e della forma dell’originale (§ 4), bisogna  riconoscere che questa trasformazione è irrealizzabile per principio, riconoscendo la piena legittimità dell’ipotesi di Whorf.

Basandosi sulla definizione data da noi (§ 13), si deve riconoscere la possibilità di scelta del linguaggio d’intermediazione, grazie al quale, di regola, le categorie semanticamente piene trovano la loro espressione. Di fatto, alcune categorie linguistiche non si riconducono a un unico sistema semantico, e questo vale non solo per le lingue cosiddette esotiche, come il hopi, di cui parla Whorf, ma anche per le lingue che sono regolarmente in contatto tra loro. Queste categorie, di regola, appartengono all’attività quotidiana di una persona e si trovano alla periferia di un dato sistema linguistico. Riconoscendo le considerazioni sopracitate, l’intraducibilità, ossia l’impossibilità di stabilire una corrispondenza in determinate situazioni, richiesta dallo schema N° 4, noi non accettiamo, per principio, la non interpretabilità, che, probabilmente, è prevista anche dall’ipotesi Sapir-Whorf. Nella trasformazione, è possibile stabilire una corrispondenza con il referente anche grazie alla diversa suddivisione della realtà, che si dimostra non solo con la pratica traduttiva, ma anche con la pratica dei rapporti linguistici. Esiste di fatto un caso molto conosciuto nella pratica traduttiva che, probabilmente, fornisce il pretesto di parlare non solo di intraducibilità, ma anche di «non interpretabilità». Si tratta di quei casi in cui la forma dell’espressione linguistica  diventa l’elemento essenziale della situazione, e cioè quando abbiamo a che fare con il focus sul sistema linguistico (sul codice).

 

Qui le situazioni intraducibili (probabilmente anche non interpretabili) nascono anche sulla base delle categorie vuote. (Un esempio noto nella teoria della traduzione è la poesia di Heine «Еin Fichtenbaum»,   Scherba, 1923), per non parlare delle categorie semanticamente piene, come quelle grammaticali o lessicali.

Si ritengono non interpretabili, evidentemente, anche le situazioni che sorgono sulla base di un idiomatismo, come le famose battute di  [Till Eulenspiegel (quello che in tedesco si chiama  Eulenspiegeleinen). Quanto detto riguarda in misura ancor maggiore il linguaggio poetico (gli esempi sono noti a tutti).

 

§ 16. La questione dell’«interpretabilità»

 

Vi porteremo ora una serie di esempi su come,  nel caso di diversa categorizzazione della realtà in due lingue differenti (cosa che porta all’intraducibilità nel senso stretto del termine), avviene un processo d’interpretazione, e cioè la trasmissione del contenuto facendo riferimento alla realtà.

A. Gli esempi più evidenti sono le parole con  i suffissi di valutazione del sostantivo. In questi casi, la difficoltà non sta solo nel fatto che i suffissi corrispondenti in alcune lingue (russo, italiano) si trovino molto più spesso che in altre (inglese, francese), ma anche nel fatto che questi suffissi si combinano in maniera diversa con radici diverse. I suffissi accrescitivi sono abbastanza diffusi nella lingua russa, vedi ‘домище’ [casona],  ‘силища’ [gran forza] etc, ma per quelle parole italiane, come per esempio il donnone, la donnaccia, l’avaraccio, non esiste una corrispondenza diretta che conservi il senso, vedi le interpretazioni russe: ‘мужеподобная женщина’ [donna mascolina], ‘злая женщина’ [donna cattiva], ‘скупец’ [l’avaraccio].

Inoltre, quando i suffissi corrispondenti si combinano con le stesse radici, sono possibili delle divergenze molto forti d’uso della parola nelle due lingue. Così, in tedesco abbiamo dei suffissi di valutazione soggettivo come -chen, -lein, e alcuni altri in francese, come -et, -ette.

Ma, oltre ad essercene molti di meno, anche la sfera d’uso in cui vengono usati è di gran lunga minore rispetto alla lingua russa. Parole tedesche quali Häuschen, Tischlein, Tellerchen, o francesi come  maisonette, fillette e così via, si usano, di regola, nella letteratura per bambini, nelle favole, talvolta nel parlato confidenziale, senza parlare del fatto che non possono trasmettere le ricche sfumature dei vari suffissi russi.

In questo modo, neanche al più semplice dei rapporti, come il rapporto tra la parole ‘стол’ [tavolo] e ‘столик’ [tavolino], corrisponde da un punto di vista stilistico il rapporto tra le parole Haus – Häuschen, maison – maisonette, e la parola  ‘домик’ [casetta], di regola, si traduce semplicemente con il tedesco Haus o il francese maison; in particolare, nel caso della cosiddetta concordanza “espressiva” in russo: ‘маленький домик’ [la piccola casetta], in tedesco das kleine Haus, in francese la petite maison.

Inoltre, la serie contenuta nelle lingue occidentali non conta più di due-tre parole: Tisch, Tischlein eccetera.  È impossibile rendere in tedesco o in francese, o ancor più in inglese la differenza tra ‘домик, домок, домишко’ [casetta, casina, casupola] e così via. Dopotutto, ciò che è indispensabile in queste parole non è la diminuzione di per sé (che si può spesso rendere anche con un aggettivo), bensì il diverso atteggiamento del parlante nei confronti dell’oggetto. Il traduttore deve trasmettere il rapporto dell’autore o del protagonista con l’oggetto,  espresso dal suffisso in tutta la frase, o addirittura, magari, in un testo più lungo. Prendiamo come esempio la traduzione del romanzo di Konstantin Fedin «Первые радости»  [Frühe Freuden] realizzata da Galina Angarova. La protagonista del romanzo si chiama  Аночка  [Anočhka], e per il semplice fatto che la parola è stata traslitterata, il lettore tedesco non avverte il rapporto speciale che l’autore ha con lei, rapporto che si avverte lungo tutto il romanzo. E la traduttrice trova, già dalla prima pagina, parole e costrutti necessari per rendere quest’atteggiamento dell’autore. Il romanzo inizia con le parole: ‘Девочка-босоножка сидела’ [Una giovane ragazza scalza era seduta] e così via, tradotto con le parole:  Ein kleines barfüßiges Ding von etwa zehn Jahren….  In questo caso, la parola Ding,  espressiva, rende bene l’atteggiamento dell’autore nei confronti della protagonista.

 

 

B. Simile al problema preso in esame sopra è il problema della traduzione dei sostantivi russi astratti formati per mezzo dei suffissi -ость, -щина e così via. In questo caso il problema sta nel fatto che, per quanto si possano enunciare alcune considerazioni generali circa il metodo con cui tradurre queste parole, ogni singolo caso richiede un riferimento alla realtà. È importante, tuttavia, che il riferimento alla realtà, in presenza di alcune abilità, dia la possibilità di trovare la soluzione. Il principio generale consiste nel fatto che la corrispondenza nella cultura ricevente si costruisce grazie all’intruduzione di alcuni nuovi elementi.

Prendiamo come esempio la formazione con il suffisso -ость. La parola ‘законность’ [legalità], viene tradotta in francese con légalité e in tedesco con  Gesetzlichkeit, e rappresenta un caso di corrispondenza abbastanza raro, si veda, per esempio, la parola  ‘паpтийность’ [parzialità], che può essere tradotta in tedesco con Parteilichkeit, mentre in francese ha la corrispondenza esprit de parti.

È sottointeso che se tali corrispondenze potessero essere fissate una volta per tutte nel dizionario, non sarebbe necessario parlare di interpretazione. Fatto sta che, tuttavia, questo modello è molto produttivo nella lingua russa, e per questo molto spesso si verificano casi che il dizionario non prevede.

Prendiamo la parola  ‘идейность’ [dedizione a un’idea]. L’идейность di un’opera è il suo contenuto ideologico. Ecco perché in alcuni contesti è possibile la traduzione tedesca Ideengehalt, e quella francese contenu idéologique. In altri contesti questa parola è interpretabile con il tedesco Ideenreichtum e il francese richesse d’idées ‘идейное богатство’ [ricchezza d’idee] o con il tedesco Ideenreinheit, ‘идейная чистота’ [purezza ideologica]. Talvolta si può tradurre la parola ‘идейность’ come sinonimo di ‘принципальность’ [coerenza coi principi]. Sorge, tuttavia, la questione di come tradurre la parola ‘принципальность’. Nella maggior parte dei casi si interpreta con il tedesco Prinzipienfestigkeit  o Prinzipientreue, e con il francese fidélité aux principes. In questa maniera giungiamo alla traduzione di parole come ‘хованщина’ [la sommossa di Hovanskij]. Si può dire in tedesco Chowanskimeuterei  o -aufstand, oppure Chowanskizeit ‘восстание Хованского’ [la sommossa di Hovanskij], ‘период Хованского’ [l’epoca di Hovanskij] e così via. ‘Корниловщина’ [il tempo di Kornilov],  Kornilowleute, Kornilowzeit, Kornilowmeuterei. ‘Керенщина’ [lo smacco di Kerenskij] può essere tradotto come Kerenskizeit o Kerenskischmach (nel caso in cui il traduttore voglia rendere la sfumatura emotiva della parola).

 

Come dimostrano gli esempi riportati, il traduttore non possiede traducenti standard per parole di un tipo o dell’altro. Anche quando la corrispondenza sembra univoca, sono possibili deviazioni.

Sopra abbiamo indicato che il termine «партийность» [appartenenza al partito] si traduce in tedesco con la parola  Parteilichkeit. Ma è possibile anche la traduzione secondo il principio del costrutto esplicativo:  Parteiprinzip, Parteistandpunkt, Parteigeist. Mentre in una delle opere di Lenin il termine ‘партийность’ viene utilizzato con un senso molto particolare: «L’appartenenza al partito in Russia è molto importante, e agli occhi del popolo ogni partito ha una specifica faccia politica» (Lenin, opere, 4:304).

È chiaro che nessuna delle corrispondenze elencate sopra può andar bene in questo caso. Qui il traduttore ha trovato la seguente soluzione molto interessante, traducendo la prima proposizione: die Parteiungen in Rußland sind sehr weit gediehen. La parola Parteiung si usa molto raramente e significa grosso modo «la suddivisione in partiti», «la simpatia di ciascuno per un partito».

Altro esempio. Nell’opera di Lenin La questione agraria in Russia (4:5-6) c’è la seguente proposizione: ‘Растет и чрезычайно быстро растет бессословность землевладения’ [«Cresce in maniera straordinaria l’uguaglianza tra i ceti per quanto riguarda le proprietà terriere»]. La parola ‘бессословность’ [mancanza di divisione della campagna in poderi] è traducibile solo con una perifrasi.

Vedi l’interpretazione di questa proposizione:

Der Bodenbesitz auf nichtständischer Grundlage nimmt außerordentlich rasch zu.

B. Le circostanze più difficili sono la ricerca di corrispondenze lessicali attraverso l’interpretazione per mezzo di situazioni culturali diverse che vengono equiparate (gli autori della collana Stylistique comparée utilizzano per questo caso il termine  équivalence [equivalenza]).

 

 

 

Vedi

 

кандидат наук [dottore di ricerca]             – фр. licensié

аспирант [dottorando]                               – фр. boursier d’études

аттестат зрелости [diploma di maturità]   – фр. baccalauréat

 

 

Molto spesso si applica una simile procedura in caso di traduzione degli idiomatismi, si veda:

 

                      Немецкий язык                     Русский язык

[tedesco]                                 [russo]

 

Ich will einen Besen                Голову даю на

fressen, dass…                         отсечение, что..

[Ci scommetto la testa che…]

 

Wer das Wasser fürchtet,           Волков бояться – в

muss nicht baden.                     лес не ходить.

[Chi ha paura del lupo non va nel bosco]

 

Wenn meine Tante Räder           Если бы, да кабы,

hätte, wäre sie längst ein           да во рту росли

Omnibus.                                   грибы, то этo былибы не рот,

а целый огород.

[Se in bocca crescessero i funghi, non   sarebbe una bocca ma un orto intero]

                   Der Bauch läßt sich nicht            Соловья басням

mit Worten abspeisen.                 не кормят.

[Gli usignoli non si nutrono di favole]

 

 

Wie man sich bettet, so                Что посеешь,

liegt man.                                     то и пожнешь.

[Ciò che viene seminato viene anche mietuto]

 

Unter den Blinden ist                   На безрыбьи

der Einäugige König.                   и рак рыба.

[In mancanza di pesce anche il granchio è pesce]

 

Blinder Eifer schadet                  Услужливыйдурак

nur.                                               опаснее врага.

[Uno sciocco servizievole è più pericoloso di un nemico]

 

Viele Köche verderben                У семи нянек

den Brei.                                       дитя без глаза.

[Nella famiglia delle bambinaie il bimbo non ha occhi]

 

Lügen, dass sich die                     Врать, как сивый

Balken biegen.                              мерин.

[Mentire come uno stallone castrato]

 

Wie der Ochs vorm                      У ставиться, как

Berge stehen.                                баран на новые

ворота.

[Fissare come un montone davanti al cancello nuovoporte nuove]

 

Es wird nichts so heiß                  Не так страшен

gegessen, wie es                           черт, как его

gekocht wird.                                малюют.

[Il diavolo non è brutto come lo si dipinge]

 

Man soll den Tag nicht            1) Не говори “гоп”, пока

vor dem Abend loben.                не перескочишь.

2) Цыплят по осени

считают.

[Non dire “op” finché non l’hai oltrepassato]

[I pulcini si contano in autunno]

 

Wer A sagt, muss auch                Взялся за гуж, не

B sagen.                                      говори, что не дюж.

[Impugnata la correggia, è tardi per dire di non essere abbastanza forti]

 

Mein Name ist Hase,                  Я не я, лошадь не

ich weiss von Nichts.                  моя, я не извозчик.

 

Моя хата с краю, я

ничего не знаю.

[Io non sono io, il cavallo non è mio, non sono il cocchiere]

[Vengo da lontano, non so niente]

 

Si veda anche:

 

                       Русский язык                     Немецкий язык

[russo]                                [tedesco]

 

Не выносить сор            Seine schmutzige Wäsche

из избы.                           nicht vor allen Leuten

waschen.

[Non tirare fuori la spazzatura dall’isba]

 

                          Французский язык

[francese]

C’est en famille qu’il faut

laver son linge sale.

 

 

Il linguista americano Nida («Оn translation» 29-31) ha proposto una classificazione interessante riguardo a queste circostanze,  descrivendo i seguenti casi di interpretazione:

 

 

a) assenza del segno e del corrispettivo referente nella cultura ricevente, ma è presente una funzione equivalente, svolta da un altro referente.

 

Esempio: ‘белоснежный’ [bianco come la neve]  viene riportato in una lingua in cui manca la concetto di «neve» (data la mancanza del referente «neve» mediante white as egret feathers (bianco come il piumaggio di un airone bianco).

 

b) presenza del referente nella cultura ricevente, ma con un’altra funzione.

 

Esempio: la parola «сердце» [cuore] si traduce nella lingua kabbalah (Africa equatoriale) con la parola «печень» [fegato], mentre in lingua konob (variante della lingua maya in Guatemala)  si traduce con «брюшная полость» [cavità addominale]

 

c) l’assenza nella cultura ricevente sia del traducente che della situazione corrispondente. In questo caso siamo tenuti a ricorrere al prestito, che allo stesso tempo, di regola, comporta una spiegazione. Gli esempi che Nida riporta su questa circostanza non sono molto indicativi. Per questo rimandiamo il lettore agli esempi fatti da Fëdorov su queste categorie. ( 141).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1]            Ср. у А. А. Реформатского (1959) о соотношении между словом, понятием и предметом.

            [Vedi Aleksandr Reformatskij (1959), riguardo al rapporto tra parola, concetto e oggetto]

[2]            Свой пример Ферс заимствует у Straumann, стр. 28   [L’esempio che Firth fa è preso da Straumann, 28]

[3]            В. И. Ленин. Соч., изд. 4-е, т. 14, стр. 92  [ Lenin, Opere, 14:92]  

[4]            В. И. Ленин. Соч., изд. 4-е, т. 1, стр. 255  [ Lenin, Opere, 1:255]

[5] На этот пример указал авторам Г. В. Шниттке  [Questo esempio è stato suggerito agli autori da Alfred Schnittke]

[6] Зависимость свойства семантической полноты от свойств языка-посредника определяется следующим: язык-посредник может строиться со включением большего или меньшего количество понятий. Поучителен пример перевода заглавий статей по химии на информационный язык. При таком переводе слова, характеризующие озаглавленную работу: «Замечания о…» , «исследование», «к вопросу…»  и т.п., а также слова, выражающие оценку излагаемого материала: «новый (метод)», «простой», «трудный» и т.п. вообще не переводятся (Лахути, Стоколова, стр. 3-5).

[La dipendenza della proprietà della pienezza semantica dalle prorpietà del linguaggio d’intermediazione si determina così: il linguaggio d’intermediazione può reggersi sull’inserimento di un maggiore o minor numero di concetti. Un esempio istruttivo è la traduzione di titoli di articoli di chimica in un linguaggio informativo. In questo tipo di traduzione la parola che caratterizza l’articolo: «Osservazioni su…», «ricerca», «Sulla questione», e così via, e anche delle parole che esprimono il valore del materiale presentato: «nuovo (metodo)», «semplice», «difficile» e così via, non si traduce per niente (Lahuti, Stokova 1961:3-5)].

[7] Эта классификация близка в некоторых отношениях классификации, предложенной в работе: Gougenheim, 1960 p. 3-10.

[Questa classificazione è simile in alcuni aspetti alla classificazione proposta nell’opera: Gougenheim 1960: 3-10. ]

[8] Ср. возможность механического выбора формы вида при машинном переводе на русский язык. (Николаевa, 1959).

[Vedi la possibilità della scelta automatica della forma dell’aspetto nella traduzione automatica in lingua russa. (Nikolaeva, 1959).]

[9] Термин «интерпретируемость» вводится по аналогии с термин «переводимость» и находится к нему в том же отношении, что термин «интерпретация» к термину «перевод».

[Il termine «interpretabilità» viene introdotto per analogia con il termine «traducibilità» e vi si trova in relazione allo stesso modo in cui «interpretazione» sta al termine  «traduzione»].

[10] Насколько можно судить, Я. И. Рецкер употребляет в подобных случаях термин «адекватная замена» (ср. Рецкер, 1962, стр. 47).

[Per quanto si possa giudicare, Âkov Recker utilizza in simili casi il termine «адекватная замена» [sostituzione adeguata]  (si veda Recker, 1962:47)].

[11] Сравни французское: Avec un «Si», on mettrait Paris dans une bouteille.

[Si veda il francese: Avec un «Si», on mettrait Paris dans une bouteille].

[12] Этот же случай подробно разбирается Федоровым (стр. 161), где разбирается передача реалий ‘фиакр’ через ‘извозчик’, реалии ‘консьерж’ через ‘привратник’, реалии ‘полицейский комиссар’ через ‘будочник’ и т.п.

[Questo caso è analizzato in modo particolare da Fëdorov (161), che esamina la trasmissione del realia ‘фиакр’ [fiacre, vettura da piazza] con ‘извозчик’  [vetturino], del realia ‘консьерж’ [portiere] con ‘привратник’ [portinaio], del realia ‘полицейский комиссар’ [commissario di polizia] con ‘будочник’ [poliziotto] e così via].

KRESS: THE FUTURES OF LITERACY

KRESS: THE FUTURES OF LITERACY

LEA MIRANDA

Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue
Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 – 20151 MILANO

Relatore: professor Bruno Osimo

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Marzo 2009

© RoutledgeFalmer 2003, New York
© Lea Miranda per l’edizione italiana 2009

Abstract in italiano

Il passaggio dalla scrittura all’immagine, dal medium libro al medium schermo, da un significato espresso attraverso la logica del tempo a quello percepito attraverso la logica dello spazio produrrà effetti di vasta portata non solo nella sfera della comunicazione ma anche nei rapporti di potere. È in corso una rivoluzione che sta alterando radicalmente il rapporto tra la scrittura e la pagina stampata. Il lettore/utente è chiamato a compiere un lavoro semiotico diverso, e più precisamente quello di stabilire da sé l’ordine di lettura di un testo. L’immediato accesso a una quantità enorme di risorse rappresenta una sfida al precedente potere dei testi e cambia il concetto di autore e autorevolezza. Alcuni dei concetti più profondi della nostra cultura sono a rischio: cosa vuol dire «leggere»; quali sono le funzioni della scrittura. Le previsioni sulle potenzialità e sugli effetti democratici delle nuove tecnologie di informazione e comunicazione devono essere viste alla luce delle inevitabili lotte per il potere che ci saranno.

English Abstract

The shift from writing to image, from the medium of the page to that of the screen and from meaning conceived through a logic of time to meaning perceived through a logic of space, will produce far- reaching changes not just in the sphere of communication but also in relations of power. A revolution is underway that is radically altering the relation between writing and the book. The reader/user is called on to perform a new semiotic operation, more precisely, that of establishing, by himself, the reading path of a text. Ready access to an enormous number of texts constitutes a challenge to the former power of texts, changing the notion of authorship and authority. Some of the most profound concepts of our culture are at stake: the meaning of ‘reading’, the functions of writing. Democratic potentials and effects of the new information and communication technologies will have the widest imaginable consequences and must be seen in the light of inevitable struggle for power yet to come.

Zusammenfassung

Der Übergang vom Schreiben zum Bild, vom Medium des Buches zu dem des Bildschirmes, von der Bedeutung, die durch eine Logik der Zeit wahrgenommen wird, zur Bedeutung, die durch eine Logik des Raumes begriffen wird, produziert weitreichende Effekte nicht nur im Bereich der Kommunikation, sondern auch in den Machtverhältnissen. Eine Revolution ist im Gang, die die Relation zwischen dem Schreiben und dem Buch radikal ändert. Der

Leser/Benutzer wird ersucht, eine neue semiotische Arbeit durchzuführen, das heißt den Leseweg eines Textes allein herzustellen. Der bereite Zugang zu einer enormen Anzahl von Ressourcen setzt eine andere Herausforderung zur ehemaligen Macht der Texte fest und ändert den Begriff der Autorschaft und des Ansehens. Einige der tieferen Konzepte unserer Kultur stehen auf dem Spiel: die Bedeutung von „Lesen“, die Funktionen des Schreibens. Demokratische Potentiale und Effekte der neuen Informations- und Kommunikationstechniken müssen im Licht der unvermeidbaren Kämpfe für die Macht gesehen werden.

SOMMARIO

Prefazione…………………………………………………………………………………………………………… 1 Strategia traduttiva ………………………………………………………………………………………….. 4 Riferimenti bibliografici ……………………………………………………………………………………. 7 Traduzione con testo a fronte ……………………………………………………………………….. 9 Bibliografia ……………………………………………………………………………………………………….. 38

Prefazione

Non è necessario essere degli esperti per rendersi conto che la tecnologia sta rivoluzionando ancora una volta i mezzi di comunicazione.

Per chi come me non appartiene alla schiera dei digital natives, cioè i nati dopo il 1980 cresciuti con tecnologie digitali, che non ricordano un mondo in cui le lettere si scrivevano a mano e si spedivano per posta ordinaria e le persone si incontravano alle feste invece che su Facebook, i cambiamenti sono evidenti. La sollecitazione consumistica e culturale esige la condensazione di molteplici attività nel tempo: il multitasking, un sms mentre si naviga mentre si ascolta l’iPod mentre si parla. Stiamo diventando il popolo degli schermi.

Il libro come l’abbiamo sempre inteso sta andando in pensione mentre le immagini, soprattutto quelle in movimento, vengono catapultate al centro della scena culturale. Stiamo passando dalle parole che scorrono sulla pagina alle immagini che scorrono sullo schermo, dalla scrittura alla visualità. La supremazia del libro cartaceo sarebbe probabilmente finita da tempo se non fosse stato per l’asimmetria che i mezzi di comunicazione implicavano: è più facile leggere un libro che scriverlo ed è sicuramente più facile guardare un film che farlo. Oggi, i nuovi strumenti per la gestione delle immagini, economici e accessibili a tutti, stanno riducendo rapidamente l’impegno necessario per creare immagini. Leggere non è più come una volta. Chi usa internet legge saltando da una parte all’altra, tra titoli e riassunti superando la logica della linearità del testo, e adottando un approccio più ipertestuale. Lo scopo non è quasi mai l’analisi, l’approfondimento ma la rapidità, procedendo tra motori di ricerca, rimandi intertestuali e ipertesti, con un mondo di informazioni disponibile in un click. Difficile riflettere, concentrarsi, ricordare. Oppure, al contrario, si può pensare che il web sviluppi capacità assopite, solleciti l’intelligenza come mai prima di adesso. La questione è aperta, gli esperti sono divisi, gli effetti delle nuove tecnologie sono difficili da calcolare adesso, è troppo presto.

Se è vero ciò che affermava Marshall McLuhan negli anni Sessanta, e cioè che i media formano il processo del pensiero, figuriamoci allora quali possono essere gli effetti di internet rispetto a un libro che si sfoglia pagina dopo pagina.

Sono proprio i cambiamenti, e quindi gli effetti e le conseguenze di tali cambiamenti dovuti al passaggio dalla pagina allo schermo, a interessare Gunther Kress. Professore d’inglese presso la University of London, autore del saggio da me tradotto, tratto dal volume Literacy in the new media age, Kress ha un interesse specifico per le interrelazioni tra i diversi modi di comunicazione – scrittura, immagine, discorso, musica – e i relativi effetti sulle forme dell’apprendimento e della conoscenza oltre che a livello socio- economico. Ciò appare evidente già dai titoli delle sue pubblicazioni più recenti: Multimodal Discourse: the modes and media of contemporary communication (2001), Multimodal Literacies (2003) Analysing media texts (2003).

Fin dalla prima pagina di Literacy in the new media age Kress mette in chiaro quali sono i due fattori principali da considerare: da un lato, il passaggio dal dominio della scrittura a quello dell’immagine, e dall’altro, il passaggio dal dominio del medium libro a quello del medium schermo. Il mezzo dominante è ora lo schermo – che sia quello del Gameboy, del cellulare, del computer o quello più tradizionale del televisore. Il libro e la pagina sono stati per secoli la sede della scrittura, e la logica della scrittura regolava l’ordine della pagina e del libro; adesso lo schermo è la sede dell’immagine e la logica dell’immagine forma e ordina le disposizioni sullo schermo.

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Ciascuna modalità ha una sua logica ed esercita un’influenza sul significato. Ci sono modalità espressive basate sul tempo quali, per esempio, il discorso, la danza o la musica, e modalità basate sullo spazio e sulla simultaneità degli elementi come, per esempio, le immagini. La scrittura si basa sia su una logica spaziale – in quanto le parole sono presentate graficamente, che temporale – in quanto le parole seguono una sequenza. Il genere testuale della narrazione è l’espressione più potente della modalità temporale mentre il genere testuale del display è l’espressione più potente della modalità spaziale. Questa dicotomia tra tempo e spazio porta Kress ad affermare: «il mondo narrato è un mondo diverso dal mondo mostrato». I testi contemporanei, che si tratti di libri di informazioni di qualsiasi tipo, di pagine web, di cartelli stradali e così via, vanno nella direzione della multimodalità e il lettore è chiamato a compiere un lavoro semiotico diverso, e più precisamente quello di stabilire da sé l’ordine di lettura di un testo. Due logiche sono messe insieme, quella della scrittura e quella dell’immagine. La scrittura che appare sullo schermo è subordinata alla logica dell’immagine così come l’immagine appare, sulla pagina, subordinata alla logica della scrittura. La logica dell’immagine regolerà sempre più l’apparenza e gli usi della scrittura. In passato, la figura dell’autore e la modalità della scrittura dominavano, adesso dominano il designer e la modalità dell’immagine. Nella comunicazione multimediale la scelta del design diventa quindi di importanza centrale avendo, come già detto, effetti profondi sul significato. Alcuni dei concetti più profondi della nostra cultura sono a rischio. Ciò che ci serve adesso, secondo Kress, è riflettere su cosa vuol dire «leggere», quali sono le funzioni della scrittura, cosa perderemmo se scomparissero molte delle forme di scrittura che conosciamo. Di una cosa l’autore è sicuro, il

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cambiamento in corso è profondo e i suoi effetti si produrranno non solo nella sfera delle comunicazioni ma anche nei rapporti di potere.

Strategia traduttiva

Literacy in the new media age viene pubblicato nel 2003 e ha come obiettivo principale quello di informare un pubblico sicuramente competente ed esperto in materia. Questo obiettivo si è concretizzato nello stile scelto dall’autore, contemporaneamente colloquiale e ricco di termini settoriali. Il risultato è un inglese non sempre lineare, con periodi subordinati eccessivamente lunghi che a volte risultano poco comprensibili alla prima lettura (non va dimenticato che il prototesto è stato scritto da una persona di madrelingua tedesca con un inglese appreso dopo il trasferimento in Australia all’età di 16 anni).

Una delle maggiori difficoltà nella stesura del metatesto è stata l’individuazione e la scelta del traducente di alcune parole prime fra tutte il termine inglese «literacy».
La traduzione del termine inglese «literacy» è complessa in quanto si tratta di tradurre in modo comprensibile e allo stesso tempo preciso un’espressione e un concetto che sono stati concepiti in un’altra lingua. D’altra parte questa difficoltà è condivisa dalla maggior parte degli altri Paesi non anglofoni. Kress stesso afferma:

In English-speaking contexts we have this word ‘literacy’!…” we need to be aware that other languages do not have such a word (2003:22).

Alla voce «literacy» del dizionario bilingue il Ragazzini 2005 (Ragazzini 2004) troviamo:

1 il saper leggere e scrivere, alfabetismo 2 alfabetizzazione

La traduzione italiana è quindi piuttosto ristretta e limitata al concetto di «alfabetizzazione» che indica il processo con cui gli analfabeti

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imparano a leggere e a scrivere ed è dunque strettamente legata alla nozione di «analfabetismo».
Mentre, per ammissione di Kress stesso, il termine inglese è usato in modo molto più esteso:

A vast range of meanings is gathered up in the word; in Anglophone contexts it can be anything […] (2003:22).

Il termine «alfabetismo» suonava dunque un po’ riduttivo. Forse avrei potuto azzardare un «alfabetismo testuale» contrapposto quindi all’«alfabetismo visuale». Per andare sul sicuro, considerato che il testo è rivolto a un pubblico competente ho deciso di lasciare il termine in inglese anche perché suppongo che, a giudicare dall’uso, questo verrà recepito anche dai dizionari di italiano.

Un altro caso di difficoltà nell’identificazione del traducente più idoneo nella lingua italiana è stato quello del termine inglese «affordance» anche perché non figura tra i lemmi di un dizionario monolingue britannico e tanto meno in un dizionario bilingue italiano- inglese. Pur essendo chiara l’etimologia del termine che deriva dal verbo «to afford» con il doppio significato «essere in grado di fare qualcosa» e «offrire» non era comunque chiaro come renderlo in italiano.

Il primo passo è stato quindi quello di capire il significato della parola nel contesto. Attraverso varie indagini ho appreso che il termine è stato coniato dallo psicologo James J. Gibson e utilizzato per la prima volta nel 1977 nell’articolo «The theory of affordances» a indicare, con le parole di Gibson stesso:

I mean simply what things furnish […] What they afford the observer, after all, depends on their properties (1983:285).

Si intende quindi «l’aspetto fisico di un oggetto che permette all’utilizzatore di dedurne le funzionalità o i meccanismi di

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funzionamento». Tutto molto interessante ma nessuna traccia di un possibile traducente in quanto le informazioni erano disponibili esclusivamente in inglese e il termine viene impiegato in inglese anche nei testi tradotti.

Non ho ritenuto comunque opportuno lasciare il termine nella lingua originale in quanto avrebbe reso il testo poco comprensibile. Ho quindi deciso di tradurre «affordance» con «potenzialità».

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7

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Traduzione con testo a fronte

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THE FUTURES OF LITERACY Modes, logics, affordances

It is no longer possible to think about literacy in isolation from a vast array of social, technological and economic factors. Two distinct yet related factors deserve to be particularly highlighted. These are, on the one hand, the broad move from the now centuries-long dominance of writing to the new dominance of the image and, on the other hand, the move from the dominance of the medium of the book to the dominance of the medium of the screen. These two together are producing a revolution in the uses and effects of literacy and of associated means for representing and communicating at every level and in every domain. Together they raise two questions: what is the likely future of literacy, and what are the likely larger- level social and cultural effects of that change?

One might say the following with some confidence. Language-as- speech will remain the major mode of communication; language-as- writing will increasingly be displaced by image in many domains of public communication, though writing will remain the preferred mode of the political and cultural elites. The combined effects on writing of the dominance of the mode of image and of the medium of the screen will produce deep changes in the forms and functions of writing. This in turn will have profound effects on human cognitive/affective, cultural and bodily engagement with the world, and on the forms and shapes of knowledge. The world told is a different world to the world shown. The effects of the move to the screen as the major medium of communication will produce far- reaching shifts in relations of power, and not just in the sphere of communication.

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THE FUTURES OF LITERACY Modalità espressive, logiche e potenzialità

Non è più possibile pensare alla literacy separatamente da una vasta gamma di fattori sociali, tecnologici ed economici. Due fattori distinti eppure collegati meritano una menzione particolare. Tali fattori sono, da un lato, il passaggio generico dal dominio della scrittura, che dura ormai da secoli, al nuovo dominio dell’immagine e, dall’altro lato, il passaggio dal dominio del medium libro a quello del medium schermo. Insieme, questi due fattori stanno generando una rivoluzione negli usi e negli effetti della literacy e dei mezzi a questa associati per rappresentare e comunicare a ogni livello e in ogni settore. Insieme, sollevano due questioni: qual è il futuro più probabile della literacy e quali sono i probabili effetti di questo cambiamento a un livello socio-culturale più ampio?

Si potrebbe affermare con una certa sicurezza quanto segue: la lingua-discorso continuerà a essere la modalità principale di comunicazione; la lingua-scrittura sarà sostituita sempre più dalle immagini in molti settori delle comunicazioni pubbliche anche se continuerà a essere la modalità di comunicazione preferita dalle élite politiche e culturali. Gli effetti combinati del dominio della modalità immagine e del medium schermo sulla scrittura produrranno cambiamenti profondi nelle forme e nelle funzioni della scrittura. Ciò, a sua volta, avrà effetti profondi sul coinvolgimento umano, cognitivo/affettivo, culturale e corporeo nel mondo nonché sugli aspetti e sulle forme della conoscenza. Il mondo raccontato è un mondo diverso dal mondo mostrato. Gli effetti del passaggio allo schermo come mezzo principale di comunicazione produrranno spostamenti di vasta portata nei rapporti di potere, e non solo, nell’ambito delle comunicazioni.

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Where significant changes to distribution of power threaten, there will be fierce resistance by those who presently hold power, so that predictions about the democratic potentials and effects of the new information and communication technologies have to be seen in the light of inevitable struggles over power yet to come. It is already clear that the effects of the two changes taken together will have the widest imaginable political, economic, social, cultural, conceptual/cognitive and epistemological consequences.

The two modes of writing and of image are each governed by distinct logics, and have distinctly different affordances. The organisation of writing – still leaning on the logics of speech – is governed by the logic of time, and by the logic of sequence of its elements in time, in temporally governed arrangements. The organisation of the image by contrast, is governed by the logic of space, and by the logic of simultaneity of its visual/depicted elements in spatially organised arrangements. To say this simply: in speaking I have to say one thing after another, one sound after another, one word after another, one clause after another, so that inevitably one thing is first, and another thing is second, and one thing will have to be last. Meaning can then be – and is – attached to ‘being first’ and to ‘being last, and maybe to being third and so on. If I say ‘Bill and Mary married’ it means something different to ‘Mary and Bill married’ – the meaning difference perhaps referring to which of the two is closer to me. In a visual representation the placement of elements in the space of representation – the page, the canvas, the screen, the wall – will similarly have meaning. Placing something centrally means that other things will be marginal, at least relatively speaking. Placing something at the top of the space means that something else will likely be

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Dove cambiamenti significativi nella distribuzione del potere rappresentano una minaccia, vi sarà una resistenza accanita da parte di coloro che attualmente detengono il potere. Per questa ragione le previsioni sulle potenzialità e sugli effetti democratici delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione devono essere viste alla luce delle inevitabili lotte per il potere. È già evidente che gli effetti dei due cambiamenti considerati insieme produrranno le più ampie conseguenze immaginabili a livello politico, economico, sociale, culturale, concettuale/cognitivo ed epistemologico.

Le due modalità, scrittura e immagine, sono regolate da logiche distinte e hanno potenzialità completamente diverse. L’organizzazione della scrittura – pur sempre supportata dalla logica del discorso – è regolata dalla logica del tempo e dalla logica della sequenza dei suoi elementi nel tempo, in disposizioni regolate dal tempo. L’organizzazione delle immagini, al contrario, è regolata dalla logica dello spazio e dalla logica della simultaneità degli elementi visivi/raffigurati in disposizioni organizzate nello spazio. Per dirlo in modo semplice: parlando si dice una cosa dopo l’altra, un suono dopo l’altro, una parola dopo l’altra, una proposizione dopo l’altra, in modo che inevitabilmente una cosa è prima e un’altra è seconda e un’altra ancora dovrà necessariamente essere ultima. Il significato può quindi essere – ed è – collegato all’“essere primi” e all’“essere ultimi” e, magari, all’essere terzi e così via. Se io dicessi «Bill and Mary married», sarebbe diverso dal dire «Mary and Bill married» – la differenza di significato forse si riferisce a quale dei due mi è più caro. Allo stesso modo, il posizionamento degli elementi nello spazio in una rappresentazione visiva – la pagina, la tela, lo schermo, la parete – avrà un certo significato. Posizionare qualcosa al centro significa che altre cose saranno marginali almeno in termini relativi. Mettere qualcosa nella parte superiore significa che qualcos’altro sarà

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below. Both these places can be used to make meaning: being central can mean being the ‘centre’, in whatever way; being above can mean being ‘superior’, and being below can mean ‘inferior’.

The point is that whether I want to or not I have to use the possibilities given to me by a mode of representation to make my meaning. Whatever is represented in speech (or to some lesser extent in writing) inevitably has to bow to the logic of time and of sequence in time. The world represented in speech or in writing is therefore (re)cast in an actual or quasi-temporal manner. The genre of the narrative is the culturally most potent formal expression of this. Human engagement with the world through speech or writing cannot escape that logic; it orders and shapes that human engagement with the world. Whatever is represented in image has to bow, equally to the logic of space, and to the simultaneity of elements in spatial arrangements. The world represented in image is therefore (re)cast in an actual or quasi-spatial manner. Whatever relations are to be represented about the world have inevitably to be presented as spatial relations between the depicted elements of an image. Human engagement with the world through image cannot escape that logic; it orders and shapes how we represent the world, which in turn shapes how we see and interact with the world. The genre of the display is the culturally most potent formal expression of this. ‘The world narrated’ is a different world to ‘the world depicted and displayed’.

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probabilmente più in basso. Entrambe queste posizioni possono essere usate per costruire il significato: essere in posizione centrale può significare essere “il centro” a prescindere dal modo; essere in alto può voler dire essere “superiore” ed essere in basso può significare essere “inferiore”.

Il punto è che, lo voglia o no, devo usare le possibilità che mi sono date da una modalità di rappresentazione per creare il mio significato. Qualunque cosa rappresentata nel discorso (o in misura minore per iscritto) deve inevitabilmente inchinarsi alla logica del tempo e della sequenza nel tempo. Il mondo rappresentato nel discorso o per iscritto è perciò (ri)formulato in un modo “attuale” o quasi temporale. Il genere testuale della narrazione ne è, dal punto di vista culturale, l’espressione formale più forte. Il coinvolgimento umano nel mondo attraverso il discorso o la scrittura non può sfuggire a questa logica che ordina e forma quel coinvolgimento umano nel mondo. Qualunque cosa sia rappresentata come immagine deve inchinarsi, allo stesso modo, alla logica dello spazio e alla simultaneità degli elementi in disposizioni spaziali. Il mondo rappresentato come immagine è perciò (ri)formulato in modo “attuale” o quasi spaziale. Qualunque relazione debba essere presentata riguardo al mondo, deve inevitabilmente essere presentata come relazione spaziale tra gli elementi raffigurati di un’immagine. Il coinvolgimento umano nel mondo attraverso le immagini non può sfuggire a questa logica che ordina il modo in cui rappresentiamo il mondo e gli dà forma, il che a sua volta dà forma al modo in cui vediamo il mondo e interagiamo col mondo. Il genere testuale del display ne è, dal punto di vista culturale, l’espressione formale più forte. Il «mondo raccontato» è un mondo diverso dal «mondo raffigurato e mostrato» su un display.

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To get closer to the core of that difference we need to ask more specifically about the affordances of each of the two modes. Is the world represented through words in sequence – to simplify massively – really different to the world represented through depictions of elements related in spatial configurations? Let me start with a very simple fact about languages such as English (not all languages of the world are like English in this respect, though many are). In English if I want to say or write a clause or a sentence about anything, I have to use a verb. Verbs are, by and large, words that represent actions, even if the actions are pseudo-actions, such as seem, resemble, have, weigh and so on. There is one verb which is not really about action, the verb be, which names relations between entities – ‘John is my uncle’, or states of affairs – ‘the day is hot’. But whichever I choose, and normally it is an actional verb, I cannot get around the fact that I have to name the relation, and refer to either a state or an action, even if I do no want to do so at all. ‘I have a holiday coming up’ is not really about ownership stated by have; nor is ‘I think that’s fine’ really about what I think – it is saying that I feel fine in relation to whatever ‘that’ is. Yet both speech and writing absolutely insist that I choose a name/word for an action, even though I do not wish to do so.

To take another example, if I am in a science lesson and I am talking about cells, and the structure of cells, I might want to say ‘every cell has a nucleus’. As in my example above, I have to use a word to name a relation between two entities – cell and nucleus – which invokes a relation of possession, have. I actually do not think of it as being about possession, but it is

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Per avvicinarci all’essenza di tale differenza dobbiamo porre domande più specifiche sulle potenzialità di ciascuna delle due modalità. Il mondo rappresentato attraverso parole in sequenza – per semplificare enormemente – è veramente diverso dal mondo rappresentato attraverso la raffigurazione di elementi collegati in configurazioni spaziali? Comincerei con un fatto basilare su lingue come l’inglese; sebbene molte lingue del mondo siano come l’inglese relativamente a questo aspetto, non tutte lo sono. In inglese se voglio dire o scrivere una proposizione o una frase su qualunque cosa, devo usare un verbo. I verbi sono, a grandi linee, parole che rappresentano azioni, anche se le azioni sono pseudoazioni, come «sembrare», «rassomigliare», «avere», «pesare» e così via. Vi è un verbo che non rappresenta veramente un’azione, il verbo «essere», che significa relazioni tra le entità – «John is my uncle», oppure lo stato dei fatti – «the day is hot». Ma qualunque verbo io scelga, e normalmente è un verbo d’azione, non posso sottrarmi al fatto che devo significare la relazione, e fare riferimento o a uno stato oppure a un’azione, anche se non voglio assolutamente farlo. In «I have a holiday coming up», «have» non indica realmente possesso, e neanche «I think that’s fine» ha veramente a che fare con ciò che penso – significa che a me va bene la “cosa” in questione qualunque sia. Tuttavia sia il discorso che la scrittura pretendono che io scelga un nome/parola per un’azione, anche se io non voglio.

Per portare un altro esempio, se tengo una lezione di scienze e sto parlando di cellule e della struttura cellulare, magari voglio dire che «ogni cellula ha un nucleo». Come nel mio esempio di prima, devo usare una parola per nominare una relazione tra due entità – cellula e nucleo – che richiama una relazione di possesso, «have». In realtà questa relazione non la vivo come azione di possesso: è

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a commitment which language forces me to make. If I ask the class to draw a cell, there is no such commitment. Now, however, every student who draws the cell, has to place the nucleus somewhere in the cell, in a particular spot. There is no way around that, whether the nucleus actually has this or that specific place in the cell or not. There is a demand for an epistemological commitment, but it is a totally different one in the case of the two modes: commitment to naming of a relation in one case – ‘the cell owns a nucleus’, and commitment to a location in space in another – ‘this is where it goes’.

Let me make another comparison of affordances, to draw out the impact of the shift. In writing I can use ‘every cell has a nucleus’ without having any idea what a nucleus actually is do, does, looks like and so on. The same applies to cell; nor do I know what have actually means in that structure – other than a kind of ‘there is’. The reason for that is that words are, relatively speaking, empty of meaning, or perhaps better, the word as sound-shape or as letter- shape gives no indication of its meaning, it is there to be filled with meaning. It is that ‘filling with meaning’ which constitutes the work of imagination that we do with language. In what may seem a paradox given common-sense views about language, I want to say that words are empty of meaning relatively. If someone says to me ‘I have a new car’ I know very little indeed about that person’s vehicle. It is this characteristic of words which leads to the well-known experience of having read a novel and really enjoyed it – filling it with our meaning – only to be utterly disappointed or worse when we see it as a film, where some others have filled the words with their very different meanings.

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piuttosto un impegno che la lingua mi costringe ad assumere. Se chiedo agli allievi di disegnare una cellula, tale impegno viene meno. A questo punto, ogni studente che disegna la cellula deve posizionare il nucleo da qualche parte nella cellula, in un punto ben preciso. Non c’è alcun modo per evitarlo, che il nucleo abbia effettivamente questa o quella posizione specifica nella cellula oppure no. C’è l’esigenza di un impegno epistemologico ma nelle due modalità è completamente diverso: in un caso l’impegno di nominare una relazione– «the cell owns a nucleus» e nell’altro l’impegno nei confronti di una posizione nello spazio,– «this is where it goes».

Vorrei fare un altro confronto sulle potenzialità, per evidenziare l’impatto del cambiamento. Posso scrivere «every cell has a nucleus» senza avere alcuna idea di cosa sia realmente un nucleo, cosa faccia, che forma abbia e così via. Lo stesso vale per «cell»; non so cosa significa «have» in quella struttura – a parte una specie di «there is». La ragione di ciò è che le parole sono, relativamente parlando, prive di significato, o, forse meglio, la parola in quanto forma sonora o forma grafica non dà indicazioni circa il proprio significato, è fatta per essere riempita di significato. È questo “riempire di significato” il lavoro d’immaginazione che svolgiamo con la lingua. Anche se può sembrare un paradosso dati i punti di vista del buon senso riguardo alla lingua, voglio dire che le parole sono prive di significato, relativamente parlando. Se qualcuno mi dice «I have a new car», so pochissimo sul veicolo di quella persona. È da questa caratteristica delle parole che deriva la ben nota esperienza di aver letto un romanzo che ci è piaciuto molto – riempiendolo con il significato nostro – per poi rimanere completamente delusi o peggio quando lo vediamo trasformato in film, in cui altri hanno riempito le parole con il diversissimo significato loro.

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At the same time, these relatively empty things occur in a strict ordering, which forces me to follow, in reading, precisely the order in which they appear. There is a ‘reading path’ set by the order of the words which I must follow. In a written text there is a path which I cannot go against if I wish to make sense of the meaning of that text. The order of words in a clause compels me to follow, and it is meaningful. ‘Bill and Mary married’ has a point of view coded in the reading path which makes it different from ‘Mary and Bill married’. If I have two clauses – ‘The sun rose, the mists dissolved’ – then the order in which I have put them structures the path that my reader must follow. ‘The mists dissolved and the sun rose’ has a quite different meaning, a near mystical force compared to the mundane ‘the sun rose and the mists dissolved’. But the affordance which is at issue here is that of temporal sequence and its effects are to orient us towards causality, whether in a simple clause (‘the sun dissolved the mists’) where an agent acts and causes an effect, or in the conjoined clauses just above. The simple yet profound fact of sequence in time orients us towards a world of causality.

Reading paths may exist in images, either because the maker of the image structured that into the image – and it is read as it is or it is transformed by the reader, or they may exist because they are constructed by the reader without prior construction by the maker of the image. The means for doing this rest, as with writing, with the affordances of the mode. The logic of space and of spatial display provides the means; making an element central and other elements marginal will encourage the reader to move from the centre to the margin. Making some elements salient through some means – size, colour, shape, for instance – and other less salient again encourages a reading path.

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Allo stesso tempo, queste cose relativamente prive di significato avvengono in un ordine ben preciso che mi costringe, leggendo, a seguire precisamente l’ordine in cui appaiono. Vi è un “percorso di lettura” stabilito dall’ordine delle parole che devo seguire. In un testo scritto vi è un percorso contro il quale non posso andare, se voglio che il testo abbia un senso. L’ordine delle parole in una proposizione mi costringe a seguirlo ed è significativo. «Bill and Mary married» ha un punto di vista codificato nel percorso di lettura che lo rende diverso da «Mary and Bill married». Se ho due proposizioni – «The sun rose, the mists dissolved» – l’ordine in cui le ho messe struttura il percorso che deve seguire il mio lettore. «The mists dissolved and the sun rose» ha un significato piuttosto diverso, una forza quasi mistica in confronto al banale «The sun rose, the mists dissolved». Ma la potenzialità in questione è quella della sequenza temporale e i suoi effetti sono quelli di orientarci verso la causalità, sia in una proposizione semplice («The sun dissolved the mists»), in cui un agente agisce e causa un effetto, sia nelle proposizioni collegate di cui sopra. Il fatto semplice eppure profondo della sequenza nel tempo ci orienta verso un mondo di causalità.

I percorsi di lettura possono esistere nelle immagini o perché l’autore dell’immagine ha strutturato tali percorsi nell’immagine stessa – da leggersi così com’è – oppure possono esistere perché sono costruiti dal lettore senza una precedente costruzione da parte dell’autore dell’immagine. I mezzi per farlo risiedono, come per la scrittura, nelle potenzialità espressive della modalità. È la logica dello spazio e della visualizzazione nello spazio a darne i mezzi; rendere un elemento centrale e altri elementi marginali incoraggia il lettore a spostarsi dal centro al margine. Mettere alcuni elementi in rilievo attraverso alcuni mezzi – dimensione, colore, forma, per esempio – e altri meno in evidenza è un altro modo per incoraggiare un percorso

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However, I say ‘encourages’ rather than ‘compels’ as I did with writing. Reading the elements of an image ‘out of order’ is easy or at least possible; it is truly difficult in writing.

However, while the reading path in the image is (relatively) open, the image itself and its elements are filled with meaning. There is no vagueness, no emptiness here. That which is meant to be represented is represented. Images are plain full with meaning, whereas words wait to be filled. Reading paths in writing (as in speech) are set with very little or no leeway; in the image they are open. That is the contrast in affordance of the two modes: in writing, relatively vacuous elements in strict order (in speech also, to a somewhat lesser extent); and full elements in a (relatively) open order in image. The imaginative work in writing focuses on filling words with meaning – and then reading the filled elements together, in the given syntactic structure. In image, imagination focuses on creating the order of the arrangements of elements which are already filled with meaning.

This is one answer to the cultural pessimists: focus on what each mode makes available, and use that as the starting point for a debate. There is then the further question of whether in the move from the dominance of one mode to the other there are losses – actually and potentially – which we would wish to avoid. On the one hand, the work of imagination called forth by writing – even in the limited way I have discussed it here (and the kinds of imaginative work and the potential epistemological losses I have suggested – the loss of an underlying orientation towards cause as on instance) may make us try to preserve features of writing which might otherwise

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di lettura. In ogni caso ho detto “incoraggiare” piuttosto che “costringere” come ho fatto parlando della scrittura. Leggere gli elementi di un’immagine “non in ordine” è facile o almeno possibile; è veramente difficile nella scrittura.

Tuttavia, mentre nelle immagini il percorso di lettura è (relativamente) aperto, l’immagine stessa e i suoi elementi sono pieni di significato. Non vi è nulla di vago, di vuoto. Ciò che si intende rappresentare è rappresentato. Le immagini sono chiaramente piene di significato, mentre le parole aspettano di essere riempite. I percorsi di lettura nella scrittura (così come nel discorso) sono impostati con pochissimo o nessun margine di flessibilità, nelle immagini sono aperti. Questo è il contrasto nella potenzialità delle due modalità di scrittura: nella scrittura elementi relativamente vuoti in ordine preciso (in misura minore anche nel discorso); ed elementi pieni in ordine (relativamente) aperto nelle immagini. Il lavoro di immaginazione nella scrittura si focalizza nel riempire le parole di significato – e poi nel leggere insieme gli elementi riempiti, nella struttura sintattica data. Nelle immagini, l’immaginazione si focalizza sul creare l’ordine della disposizione di elementi che sono già pieni di significato.

Questa è una risposta ai pessimisti culturali: focalizzatevi su ciò che ogni modalità mette a disposizione e usatelo come punto di partenza per un dibattito. Vi è poi l’ulteriore questione se nel passaggio dal dominio di una modalità all’altro vi siano perdite – reali e potenziali – che vorremmo evitare. Da un lato, il lavoro d’immaginazione sollecitato dalla scrittura – persino nel modo limitato discusso qui (e i tipi di lavoro d’immaginazione e le potenziali perdite epistemologiche da me ipotizzate – la perdita di un orientamento implicito verso la causa per esempio) può portarci a cercare di conservare caratteristiche della scrittura che potrebbero altrimenti

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disappear. On the other hand, I may actually not want to live in a semiotic/cultural world where everything is constructed in causal ways, whether I want it or not – as just one example. I will return to the question both of affordances and of gains and losses in other places in the book.

Affordances of mode and facilities of media

The shift in mode would, even by itself, produce the changes that I have mentioned. The change in media, largely from book and page to screen, the change from the traditional print-based media to the new information and communication technologies, will intensify these effects. However, the new media have three further effects. They make it easy to use a multiplicity of modes, and in particular the mode of image – still or moving – as well as other modes, such as music and sound effect for instance. They change, through their affordances, the potentials for representational and communicational action by their users; this is the notion of ‘interactivity’ which figures so prominently in discussions of the new media. Interactivity has at least two aspects: one is broadly interpersonal, for instance, in that the user can ‘write back’ to the producer of a text with no difficulty – a potential achievable only with very great effort or not at all with the older media, and it permits the user to enter into an entirely new relation with all other texts – the notion of hypertextuality. The one has an effect on social power directly, the other has an effect on semiotic power, and through that on social power less immediately.

The technology of the new information and communication media rests among other factors on the use of a single code for the representation of all information, irrespective of its

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scomparire. Dall’altro, solo per fare un esempio, in realtà potrei non voler vivere in un mondo semiotico/culturale dove tutto è costruito in modo causale, che io lo voglia o no. Ritornerò in altri punti del libro a entrambe le questioni delle potenzialità e dei vantaggi e delle perdite.

Potenzialità delle modalità espressive e strutture dei media

Il passaggio da una modalità all’altra produrrebbe, di per sé, i cambiamenti che ho citato. I cambiamenti nei media, principalmente dal libro e dalla pagina allo schermo, il passaggio dai media tradizionali basati sulla stampa alle nuove tecnologie di informazione e comunicazione, intensificheranno questi effetti. Comunque, i nuovi media hanno tre ulteriori effetti. Facilitano l’uso di molteplici modalità e in particolare della modalità dell’immagine – ferma o in movimento – oltre che di altre modalità, quali per esempio musica ed effetti sonori. Le modalità alterano, per mezzo delle loro potenzialità espressive, il potenziale dell’azione rappresentativa e comunicativa da parte degli utenti; questo è il concetto di «interattività» che appare abbondantemente nelle discussioni sui nuovi media. L’interattività ha almeno due aspetti: uno largamente interpersonale, in quanto, per esempio, l’utente può facilmente reagire per iscritto al produttore di un testo – un potenziale con i vecchi media raggiungibile solo con sforzo notevole o non raggiungibile affatto, e permette all’utente di entrare in un rapporto completamente nuovo con tutti gli altri testi – il concetto di «ipertestualità». Uno ha un effetto diretto sul potere sociale, l’altro ha effetto sul potere semiotico e attraverso questo, meno direttamente, sul potere sociale.

La tecnologia dei nuovi mezzi di informazione e comunicazione si basa, oltre che su altri fattori, sull’uso di un singolo codice di rappresentazione di tutte le informazioni, a prescindere dal

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initial modal realisation. Music is analysed into this digital code just as much as image is, or graphic word, or other modes. That offers the potential to realise meaning in any mode. This is usually talked about as the multimedia aspect of this technology, because with the older media there existed a near automatic association and identification of mode (say, writing) with medium (say, book).

With print-based technology – technologically oriented and aligned with word – the production of written text was made easy, whereas the production of image was difficult; the difficulty expresses itself still in monetary cost. Hence image was (relatively) rare, and printed word was ubiquitous in the book and on the page. With the new media there is little or no cost to the user in choosing a path of realisation towards image rather than towards word. Given that the domains, the new technology facilitates, supports and intensifies that preference. What is true of word and image is also increasing true of other modes. The ease in the use of different modes, a significant aspect of the affordances of the new technologies of information and communication, makes the use of a multiplicity of modes usual and remarkable. That mode which is judged best by the designer of the message for specific aspects of the message and for a particular audience can be chosen with no difference in ‘cost’. Multimodality is made easy, usual, ‘natural’ by these technologies. And such naturalised uses of modes will lead to greater specialisation of modes: affordances of modes will become aligned with representational and communicative need.

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modo iniziale di realizzazione. La musica viene codificata in modo digitale così come le immagini, la grafica o altre modalità espressive. Ciò dà la possibilità di creare significato in qualsiasi modalità. È quello che viene solitamente descritto come «aspetto multimediale» di questa tecnologia, in quanto con i vecchi media esisteva un’associazione e un’identificazione quasi automatica della modalità (scrittura, per esempio) con il medium (libro, per esempio).

Con la tecnologia basata sulla stampa – allineata e orientata tecnologicamente con la parola – la produzione di un testo scritto era facilitata, mentre la produzione di immagini era difficile; la difficoltà si esprime ancora in termini di costi. Perciò le immagini erano (relativamente) rare e la parola stampata era onnipresente nei libri e sulla pagina. Con i nuovi media, i costi per l’utente nello scegliere un percorso orientato verso le immagini piuttosto che verso la parola sono minimi o inesistenti. Dato che in molti settori il mondo della comunicazione attorno a noi sta andando verso una preferenza per l’immagine, la nuova tecnologia, facilita, supporta e intensifica questa preferenza. Ciò che è vero per parola e immagine è anche sempre più vero per le altre modalità. La facilità d’uso delle diverse modalità espressive, aspetto rilevante delle potenzialità delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione, rende comune e consueto l’uso di molteplici modalità. La modalità che viene giudicata migliore dall’autore del messaggio per gli aspetti specifici del messaggio stesso e per un particolare pubblico può essere scelta senza differenza di “costo”. La multimodalità è resa facile, comune, “naturale”, da queste tecnologie. E tali usi naturalizzati delle modalità comporteranno una maggiore specializzazione delle modalità stesse: le potenzialità delle modalità espressive si allineeranno alle esigenze di rappresentazione e comunicazione.

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The new technologies allow me to ‘write back’. In the era of the book, which partly overlapped with the era of mass communication, the flow of communication was largely in one direction. The new technologies have changed unidirectionality into bidirectionality. E- mail provides a simple example: not only can I write back, but the moment I hit the reply or forward button, I can change the text that I have just received in many ways. If an attachment has come with the e-mail I can in any case rewrite it and send it anywhere I wish. In that process the power of the author, which has been such a concern in the era of the dominance of the old technologies and of the mode of writing, is lessened and diffused. Authorship is no longer rare. Of course the change to the power of the author brings with it a consequent lessening in the author’s or the text’s authority. The processes of selection which accompanied the bestowal of the role of author brought authority. When that selection is no longer there, authority is lost as well. The promise of greater democracy is accompanied by a levelling of power; that which may have been desired by many may turn out to be worth less than it seemed when it was unavailable.

Ready access to all texts constitutes another challenge to the former power of texts. There was a certain fictionality in any case to the notion of the author as the source of the text. Just as no one in a speech community has ‘their own words’ – the frequent request in schools for putting something in ‘your own words’ notwithstanding – so no one really ever originated their own texts. The metaphor of text-as-texture was in that respect always accurate: our experience of language cannot be, is never, other than the experience of texts. Our use of language in the making of texts cannot be other than the quotation of fragments of texts,

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Le nuove tecnologie mi permettono di “reagire”. Nell’epoca del libro, che, in parte si sovrapponeva all’epoca della comunicazione di massa, il flusso delle comunicazioni andava per gran parte in una direzione. Le nuove tecnologie hanno trasformato l’unidirezionalità in bidirezionalità. La posta elettronica ne è un esempio: non solo posso rispondere, ma nel momento in cui clicco su «rispondi» o «inoltra», posso cambiare in molti modi il testo che ho appena ricevuto. Se c’era un allegato al messaggio elettronico, posso riscriverlo e mandarlo ovunque voglia. In questo processo il potere dell’autore, che all’epoca del dominio delle vecchie tecnologie e della modalità della scrittura è stato al centro dell’attenzione, è ridotto e diffuso. Essere autori non è più una rarità. Naturalmente il passaggio al potere dell’autore porta con sé la conseguente riduzione dell’autorevolezza dell’autore e del testo. I processi di selezione che accompagnavano il conferimento del ruolo di autore comportavano autorevolezza. Quando la selezione viene meno, si perde anche in autorevolezza. La promessa di maggior democrazia è accompagnata da un livellamento del potere; ciò che molti potrebbero aver desiderato può rivelarsi meno importante di quanto sembrasse quando non era disponibile.

L’immediato accesso a tutti i testi rappresenta un’altra sfida al precedente potere dei testi. In ogni caso v’era una certa dose di finzione nel concetto di «autore come fonte del testo». Così come nessuno in una comunità linguistica ha “parole proprie” – nonostante la frequente richiesta nelle scuole di esprimersi con “parole proprie” – nessuno dà mai davvero origine al proprio testo. Sotto questo punto di vista, la metafora del testo-come-tessitura è sempre stata esatta: la nostra esperienza della lingua non può essere, non è mai, altro che l’esperienza dei testi. Il nostro uso della lingua nella creazione di testi non può essere altro che la citazione di frammenti di testi,

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previously encountered, in the making of new texts. The ease with which texts can be brought into conjunction, and elements of tests reconstituted as new texts, changes the notion of authorship. If it was a myth to see the author as originator, it is now a myth that cannot any longer be sustained in this new environment. Writing is becoming ‘assembling according to designs’ in ways which are overt, and much more far-reaching, that they were previously. The notion of writing as ‘productive’ or ‘creative’ is also changing. Fitness for present purpose is replacing previous conceptions, such as text as the projection of a world, the creation of a fictional world, a world of the imagination.

The dominance of the screen as the currently most potent medium – even if at the moment that potency may still be more mythical than real – means that it is these practices and these conceptions which hold sway, and not only on the screen but also in all domains of communication. The affordances and the organisation of the screen are coming to (re)shape the organisation of the page. Contemporary pages are beginning to resemble, more and more, both the look and the deeper sense of contemporary screens. Writing on the page is not immune in any way from this move, even though the writing of the elite using the older media will be more resistant to the move than writing elsewhere. It is possible to see writing once again moving back in the direction of visuality, whether as letter, or as ‘graphic block’ of writing, as an element of what are and will be fundamentality visual entities, organised and structured through the logics of the visual. It is possible to see writing becoming subordinated to the logic of the visual in many or all of its uses.

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precedentemente incontrati, nella creazione di nuovi testi. La facilità con cui i testi possono essere uniti, ed elementi di testi ricostituiti in testi nuovi, cambia la concezione di «autore». Se era un mito considerare l’autore come creatore, è un mito che adesso in questo nuovo ambiente non può più essere sostenuto. Scrivere sta diventando «assemblare a seconda dei progetti» in modi che rispetto al passato sono manifesti e di più vasta portata. Anche il concetto di scrittura «produttiva creativa» sta cambiando. L’idoneità allo scopo del momento sta sostituendo vecchie concezioni quali quella di «testo come proiezione del mondo», «creazione di un mondo finzionale, un mondo dell’immaginazione».

Il dominio dello schermo come mezzo attualmente più potente – anche se al momento questa potenza può ancora essere più mitica che reale – significa che sono queste pratiche e queste concezioni a dominare, e non solo sullo schermo ma anche in tutti i campi della comunicazione. Le potenzialità e l’organizzazione dello schermo cominciano a (ri)plasmare l’organizzazione della pagina. Le pagine contemporanee tendono ad assomigliare sempre più sia visivamente sia in senso più profondo agli schermi contemporanei. La scrittura sulla pagina non è affatto immune da questo cambiamento anche se la scrittura dell’élite che usa i vecchi media sarà più resistente al cambiamento rispetto alla scrittura in qualsiasi altro campo. È possibile vedere la scrittura spostarsi ancora una volta nella direzione della visualità che sia sotto forma di lettera o di “blocco grafico” di scrittura, come elemento di quelle che sono e saranno entità visive fondamentali, organizzate e strutturate attraverso le logiche visive. È possibile vedere che la scrittura sta diventando subordinata alla logica visiva in molti o in tutti i suoi usi.

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Right now, an objection

It may be as well to try and answer here and now three objections that will be made. One is that more books are published now than ever before; the second is, that there is more writing than ever before, including writing on the screen. The third, the most serious, takes the form of a question: what do we lose if many of the forms of writing that we know disappear?

To the first objection I say: the books that are published now are in very many cases books which are already influenced by the new logic of the screen, and in many cases they are not ‘books’ as that word would have been understood thirty or forty years ago. I am thinking here particularly of textbooks, which then were expositions of coherent ‘bodies of knowledge’ presented in the mode of writing. The move from chapter to chapter was a stately and orderly progression through the unfolding matter of the book. The contemporary textbook – since the late 1970s for lower years of secondary school and by now for all the years of secondary school – is often a collection of ‘worksheets’ organised around the issues of the curriculum, and put between more or less solid covers. This is still called a book. But there are no chapters, there is none of that sense of a reader engaging with and absorbing a coherent exposition of a body of knowledge, authoritatively presented. Instead there is a sense that the issue now is to involve students in action around topics, of learning by doing. Above all, the matter is presented through image more than through writing – and writing and image are given different representational and communicational functions.

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Adesso, un’obiezione

Tanto vale cercare di rispondere una volta per tutte a tre obiezioni che saranno avanzate. La prima è che adesso più che mai vengono pubblicati libri; la seconda è che si scrive più che in passato, se si considera anche la scrittura sullo schermo. La terza, la più seria, prende forma da una domanda: cosa perderemmo se scomparissero molte delle forme di scrittura che conosciamo?

Alla prima obiezione dico: i libri che vengono pubblicati oggigiorno sono in moltissimi casi libri che sono già influenzati dalla nuova logica dello schermo, e in molti casi non sono «libri» nel senso in cui si sarebbe pensato trenta o quarant’anni fa. Penso in particolare ai libri di testo, che allora erano esposizioni di “corpi di conoscenza” coerenti presentati nella modalità della scrittura. Il passaggio da un capitolo all’altro era dato dalla progressione solenne e metodica del materiale del libro. Il libro di testo contemporaneo – a partire dalla fine degli anni Settanta per i primi anni della scuola secondaria e adesso per tutti gli anni della scuola secondaria – è spesso una raccolta di “fogli di calcolo” organizzati sull’argomento del programma e inseriti dentro copertine più o meno provvisorie. Questo si chiama ancora «libro». Ma non ci sono capitoli, non c’è il senso di un lettore che si relaziona con un corpo di conoscenza presentato in modo autorevole e ne assorbe un’esposizione coerente. Vi è invece il senso che la questione è adesso quella di coinvolgere gli studenti in modo attivo negli argomenti, imparare facendo. Soprattutto, l’argomento viene presentato attraverso le immagini più che attraverso la scrittura – e alla scrittura e all’immagine vengono attribuite funzioni di rappresentazione e di comunicazione diverse.

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These are still called ‘book’ though I think we need to be wary of being fooled by the seeming stability of the word. These are not books that can be ‘read’, for instance, in anything like that older sense of the word ‘read’. These are books for working with, for acting on. So yes, there are more ‘books’ published now than ever before, but in many cases the ‘books’ of now are not the ‘books’ of then. And I am not just thinking of factual, information books but of books of all kinds.

And yes, there is more writing than ever before. Let me make two points. The first is, who is writing more? Who is filling the pages of websites with writing? Is it the young? Or is it those who grew up in the era when writing was clearly the dominant mode? The second point goes to the question of the future of writing. Image has coexisted with writing, as of course has speech. In the era of the dominance of writing, when the logic of writing organised the page, image appeared on the page subject to the logic of writing. In simple terms, it fitted in how, where and when the logic of the written text and of the page suggested. In the era of the dominance of the screen, writing appears on the screen subject to the logic of the image. Writing fits in how, where and when the logic of the image- space suggests. The effects on writing, as is already ‘visible’ in any number of ways, tiny at times, larger at others, will be inescapable.

That leaves the third objection. It cannot be dealt with quickly. It requires a large project, much debate, and an uncommon generosity of view. On one level the issue is one of gains and losses; on another level it will require from us a different kind of reflection on what writing is, what forms of imagination it fosters. It asks questions of a profounder kind, about human potentials, wishes, desires – questions which go beyond

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Questi sono ancora chiamati «libri» anche se penso che non dobbiamo farci ingannare dall’apparente stabilità della parola. Questi non sono libri che, per esempio, non possono neanche lontanamente essere “letti” nel senso tradizionale della parola «leggere». Questi sono libri con cui lavorare, su cui agire. Quindi sì, oggigiorno vengono pubblicati più “libri” che mai ma, in molti casi i “libri” di oggi non sono i “libri” di una volta. E non mi sto riferendo solo a libri che si limitano ai fatti, alle informazioni, ma a libri di tutti i tipi.

E sì, si scrive oggi più che mai. Vorrei puntualizzare due cose. La prima è: chi sta scrivendo di più? Chi sta riempiendo le pagine dei siti web di scrittura? Sono i giovani? Oppure sono coloro che sono cresciuti nell’epoca in cui la scrittura era chiaramente la modalità dominante? Il secondo punto riguarda la questione del futuro della scrittura. L’immagine è coesistita con la scrittura così come, ovviamente, il discorso. Nell’epoca del dominio della scrittura, quando era la logica della scrittura a organizzare la pagina, l’immagine sulla pagina era soggetta alla logica della scrittura. In termini semplici, veniva inserita come, dove e quando suggerito dalla logica del testo scritto e della pagina. E nell’epoca del dominio dello schermo, la scrittura sullo schermo è soggetta alla logica dell’immagine. La scrittura viene inserita come, dove e quando suggerisce la logica dello spazio-immagine. Gli effetti sulla scrittura, già “visibili” in molti modi, più o meno evidenti, saranno inevitabili.

Questo ci porta alla terza obiezione che non può essere affrontata in modo veloce. Necessita di un progetto esteso, di grandi dibattiti e di una generosità di vedute fuori dal comune. A un certo livello è una questione di guadagni e perdite; a un altro livello necessiterà di un altro tipo di riflessione su cos’è la scrittura, quali forme di immaginazione promuove. Pone domande di genere più profondo sulle potenzialità e sui desideri umani – domande che vanno al di là

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immediate issues of utility for social or economic needs. I attempt some answers at different points in the book.

What do I hope to achieve with this book? There is a clear difference between this book and others dealing with the issues of literacy and new media. The current fascination with the dazzle of the new media is conspicuous here by its absence. I focus on just a few instances and description of hypertextual arrangements, internet texts, or the structure of websites. I am as interested in understanding how the sentence developed in the social and technological environments of England in the seventeenth century, as I am in seeing what sentences are like now. The former like the latter – in showing principles of human meaning-making – can give us ways of thinking about the likely development of the sentence in the social and technological environments of our present and of the immediate future. In that sense the book is out of the present mould; in part it looks to the past as much as to the present to understand the future. It is a book about literacy now, everywhere, in all its sites of appearances, in the old and the new media – it is about literacy anywhere in this new media age.

So what can readers hope to get from the book? My sense is that what is needed above all is some stocktaking, some reflection, a drawing of breath, and the search for the beginning of answers to questions such as: Where are we? What have we got here? What remains of the old? What is common about the making of representations and messages between then and now, and in the likely tomorrow? I think that what we need are new tools for thinking with, new frames in which to place things, in which to see the old and the new, and see them both newly. That is what I hope the book will offer its readers: a conceptual framework and tools for thinking about a field that is in a profound state of transition.

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delle questioni dell’utilità sociale o economica immediata. Cercherò di dare delle risposte in diverse parti del libro.

Cosa spero di ottenere con questo libro? Vi è una netta differenza tra questo libro e gli altri che si occupano di literacy e dei nuovi media. L’attuale attrazione per il bagliore dei nuovi media qui si fa notare per la propria assenza. Mi concentro solo su pochi esempi e poche descrizioni delle disposizione ipertestuali, dei testi in internet e sulla struttura dei siti web. Mi interessa capire come si è sviluppata la frase negli ambienti sociali e tecnologici dell’Inghilterra del Seicento tanto quanto capire come sono le frasi di oggi. La prima, come quest’ultime – mostrando i principi della creazione del significato da parte dell’uomo – può suggerirci modi di concepire il probabile sviluppo della frase negli ambienti sociali e tecnologici del nostro presente e del prossimo futuro. In questo senso, il libro è fuori dagli schemi attuali; in parte guarda al passato tanto quanto al presente per capire il futuro. È un libro sulla literacy adesso, ovunque appaia, nei vecchi e nei nuovi media – sulla literacy da qualsiasi parte in questa epoca dei nuovi media.

I lettori cosa possono sperare di ricavare da questo libro? La mia impressione è che ciò che serve maggiormente è un’attenta valutazione, un po’ di riflessione, tirare il fiato e cercare di cominciare a rispondere a domande quali: «Dove siamo?» «Cosa abbiamo?» «Cosa resta del vecchio?» «Cosa c’è in comune tra la creazione di rappresentazioni e messaggi allora e adesso e nel probabile futuro?» Penso che ciò di cui abbiamo bisogno siano nuovi strumenti con cui pensare, nuove strutture in cui collocare le cose, in cui vedere il vecchio e il nuovo e vederli entrambi in modo nuovo. Questo è ciò che spero che il libro offra ai lettori: una struttura di riferimento concettuale e strumenti per pensare a un settore che si trova in uno stato di profonda transizione.

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Bibliografia

Barthes, R. (1977) «The death of the author» in R. Barthes (1977) Image – Music – Text, London: Fontana

Jewitt, C. (2002) «The move from page to screen: the multimodal reshaping of school English», in Journal of Visual Communication, vol. 1, no. 2, pp. 171-96

Kress, G. R. e Van Leeuwen, T. (1996) Reading Images: The Grammar of Graphic Design, London: Routledge

Kress, G. R. e Van Leeuwen, T. (2001) Multimodal Discourse: The Modes and Media of Contemporary Communication, London: Edward Arnold

Snyder, I. (ed.) (1997) Page to Screen, London: Routledge
Van Leeuwen, T. (1999) Speech, Music, Sound, London: Macmillan

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