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Entrevista com Bruno Osimo. Anna Palma, Andréia Guerini «Cadernos de Tradução», 2008, ISSN 2175-7968, Florianópolis, Brasil. Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

INTERVISTA A BRUNO OSIMO

1. Com’è nato il suo interesse per la traduzione?

Nonostante il lavoro fatto su di me per capirlo, non posso dire di essere arrivato a una

soluzione precisa. Da un lato credo che abbia avuto un ruolo l’educazione materna, dopo la

quale ho avuto modo di attribuire estrema importanza alla precisione delle sfumature nel modo

di esprimersi, forse anche un po’ come una sorta di reazione; dall’altra il contesto

indirettamente cosmopolita della mia educazione, sia perché sono ebreo e figlio di due persone

entrambe perseguitate dalle leggi razziali italiane e scampate al nazismo grazie alla fuga e

anche alla fortuna, sia perché mio padre viaggiava molto per lavoro e, ogni volta che tornava,

mi accorgevo che in quello che raccontava c’era sempre un residuo, qualcosa che, per capirla,

occorreva conoscere direttamente. Qualcosa d’intraducibile senza residuo.

2. Come sono stati accolti i suoi libri in Italia e all’estero?

In Italia i miei libri sono stati accolti bene, ma in sordina. Sono adottati in molti atenei e scuole

di specializzazione, ma, forse anche grazie al fatto che il mio editore, Hoepli, sembra non amare

le promozioni e gli eventi pubblici, non sono mai stati presentati in nessun luogo. All’estero,

ovviamente, c’è il grande limite della lingua. La lingua italiana è minoritaria ovunque. Ciò

nonostante, le poche recensioni sono uscite tutte all’estero.

Bisogna anche dire che il decennio che quest’anno compiono i miei libri (la prima edizione del

Manuale del traduttore è del 1998, e sono contento di festeggiare l’evento con i lettori di XXX)

è stato un decennio di trasformazione dell’università italiana, con la drastica riduzione dei corsi

in «lingue e letterature straniere moderne» e la fioritura di quelli in «mediazione linguistica»

(livello B.A.) e «traduzione» (livello M.A.). Questo ha comportato, per molti ex docenti di

letteratura, un reinserimento, il trovare un ruolo nuovo all’interno del proprio o di altri

dipartimenti. Molti docenti di traduzione erano stati formati come esperti di letteratura, e hanno

a volte un atteggiamento di sufficienza e di superiorità sia verso la traduzione, che considerano

“solo” un mestiere, sia verso i manuali, in quanto tipo di testo diametralmente opposto ai

discorsi “accademici”. Si può immaginare come abbiano considerato un libro che racchiude

entrambi questi difetti! Devo confessare che, durante il dottorato di ricerca, dovevo tenere

nascosta alla maggior parte dei docenti del collegio la pubblicazione dei miei libri, perché li

consideravano un titolo di demerito in quanto “didattici” e non “scientifici”.

3. Qual è il ruolo che la traduzione occupa nello scenario italiano? E quale quello degli Studi

della Traduzione fatti in Italia rispetto agli altri paesi dell’UE?

In Italia la traduzione ha un ruolo fondamentale, poiché la cultura italiana, dopo la fase

dominante dell’impero romano, attraversa un periodo di declino culturale. È perciò del tutto

naturale che (come afferma Even-Zohar), in quanto cultura periferica del polisistema culturale,

al suo interno la traduzione occupi una posizione centrale: è di qui che passano i testi che

importiamo dalle culture via via dominanti: quella statunitense in primis, soprattutto per quanto

riguarda la saggistica. In campo narrativo, è ora in fase di fortissima dominanza – rispetto

all’esiguità numerica – la cultura israeliana. Comunque in Italia si traduce molto: e si pubblicano

più traduzioni che originali, diversamente da quanto succede, per esempio, nei paesi anglofoni.

Per quanto riguarda gli studi sulla traduzione in Italia, siamo abbastanza arretrati rispetto ad

altri paesi europei. Anche se, a mio parere, è tutta l’Europa occidentale che sconta

un’arretratezza rispetto, da un lato, alla scuola semiotica estone e slava, e, dall’altro, rispetto

all’insegnamento fondamentale dello statunitense Charles Sanders Peirce. È vero che nei Paesi

Bassi, in Belgio, nel Regno unito e in Francia si pubblica molto di più sulla traduzione, ma è

anche vero che tali studi non sempre sono aperti alle autentiche novità rivoluzionarie degli studi

pubblicati nei paesi slavi negli anni Sessanta. Per esempio, il fondamentale libro di Popovič, La

scienza della traduzione, che ho curato in edizione italiana per Hoepli, prima era uscito solo in

slovacco, russo e tedesco, ed è tuttora fortemente sottovalutato dai più; il seminale libro di

Lûdskanov, Una concezione semiotica della traduzione, che sta uscendo da Hoepli nella

primavera del 2008, oltre all’edizione bulgara conosce solo una versione in francese

sgrammaticato, con una tiratura esigua e una diffusione pressoché nulla. E Lotman e Peirce,

che non hanno mai scritto esplicitamente sulla traduzione, hanno però dato un contributo

essenziale, se lo si sa e lo si vuole cogliere.

4. In Italia i traduttori sono riconosciuti? Hanno i loro diritti autorali riconosciuti e sono

remunerati come vorrebbero e dovrebbero?

In Italia, dove i traduttori sono importanti almeno quanto i camionisti (ossia moltissimo) per

l’economia del paese, perché si è scelta la politica di tradurre i modelli culturali altrui, anziché

proporre modelli propri (così come si è scelto di costruire autostrade anziché ferrovie), se

fossero compatti potrebbero paralizzare il paese, in mancanza di tariffe e condizioni adeguate.

Invece c’è l’epidemia di una malattia, apparentemente infettiva, la “traduttósi”, che causa nel

paziente un’insana voglia di tradurre a qualsiasi condizione e a qualsiasi prezzo… Scherzi a

parte, la domanda di traduzione è inferiore all’offerta, che è davvero enorme. Ci sono centinaia

di persone disposte a tradurre anche gratis, solo per l’onore (da chi tale è considerato) di avere

il proprio nome stampato, in piccolo, in una pagina che nessuno mai guarda, quella del

copyright. Vicino al copyright, e non in relazione a esso, perché nel 99% dei casi la legge sul

diritto d’autore viene disattesa e le traduzioni vengono pagate a forfait, senza nessuna

percentuale sulle vendite. A questo si aggiunge che il livello medio (e sottolineo «medio») di

cultura editoriale dei redattori e degli editor è scarso, che non hanno nessuna idea di cosa

significhi la qualità di una traduzione, o meglio, che hanno un’idea ben precisa di una qualità

della traduzione che penalizza il testo a vantaggio della sua (presunta: e sottolineo «presunta»)

vendibilità. In base a questa logica, qualsiasi sopruso è lecito ai danni del testo (sia il

prototesto, l’originale, sia il metatesto, il frutto della fatica del traduttore), purché ciò lo renda

più “leggibile”. Ma il concetto di «leggibilità» dipende dal concetto di lettore implicito che ci si

forma, e, a mio modo di vedere, gli editori tendono ad avere una visione del lettore implicito

come molto più ignorante e stupido di com’è in realtà il lettore medio.

Con ciò credo di avere implicitamente risposto anche alla seconda metà della domanda: no, i

traduttori italiani sono mal pagati e hanno uno status da paria, inferiore perfino a quello già

bassissimo (in Italia) degli insegnanti (il cui stipendio è inferiore a quello di un bancario). Ma un

po’ è anche colpa nostra: anziché piangerci addosso, dovremmo avere maggiore autostima,

dimostrare più coraggio ed essere meno disposti a subire. Insomma: il masochismo è curabile.

Propongo una psicoterapia intensiva per tutti, magari con convenzioni e sconti per la categoria.

5. Teoria e pratica della traduzione possono essere dissociate tra loro? In che misura teoria e

critica della traduzione possono aiutare a migliorare la qualità della traduzione?

Non penso che possa esistere una teoria della traduzione dissociata dalla pratica, né una pratica

dissociata dalla teoria. Quando la teoria era dissociata dalla pratica, per esempio con Catford e

Fëdorov negli anni Cinquanta e Sessanta, nessun traduttore ci credeva, perché a tutti saltava

all’occhio che si trattava di una teoria solo linguistica, che non contemplava tutti gli aspetti

extralessicali, primo tra tutti la cultura. La pratica dissociata dalla teoria è invece un’utopia, perché

le scelte che un traduttore fa, le fa comunque, che lui si renda conto o no segue una teoria,

esplicita o implicita. Altrimenti le sue scelte le farebbe a caso, e non credo che ci sia nessuno

disposto a sostenerlo. Popovič parla di teoria implicita della traduzione in riferimento a questo

fenomeno. Si potrebbe anche cercare di fare una storia della teoria della traduzione basata sulle

traduzioni pratiche. Più la teoria è implicita, più si corre il rischio di commettere incongruenze, di

avere una strategia traduttiva incoerente con sé stessa.

La cultura della critica della traduzione, diffondendosi, non può che migliorare le condizioni di

lavoro dei traduttori, e la qualità del prodotto così come viene poi considerato “finito”, ossia nella

fase finale di consumo da parte dei clienti. In mancanza di chiarezza su cosa s’intende per «qualità

della traduzione», si rischia di perseguire due fini diversi e inconciliabili: la facilitazione della

lettura, ottenuta mediante l’eliminazione degli scogli; e la preparazione di un testo presentato

come «altrui», ossia che conserva molte delle caratteristiche che lo connotano come traduzione di

un altro testo che proviene da una cultura diversa. Spesso in Italia si persegue il primo dei due fini,

ma non lo si dichiara quasi mai, anche perché risulterebbe offensivo per i clienti-lettori: si

attribuisce loro scarsa curiosità e poco interesse per ciò che il resto del mondo ha da offrirci; si

attribuisce loro fretta, disinteresse, desiderio di consumo veloce. Se vogliamo che i bagnanti

possano accedere a una costa piena di scogli, abbiamo due possibilità: fare una colata di cemento

e creare comodi scivoli, oppure attrezzare i bagnanti perché riescano a valicare la scogliera. Nel

primo caso, i bagnanti arrivano, ma non c’è più nulla da vedere.

6. Ci parli del suo interesse per la scuola di Tartu, di com’è nato e dell’importanza che ha avuto

e che ha nei suoi studi di Traduttologia.

Quando ero studente, la professoressa Elda Garetto, mia relatrice di laurea, mi diede un libro in

russo che, dal punto di vista grafico, aveva un aspetto molto modesto: era La traduzione totale, di

Peeter Torop. Leggendo quel libro, mi accorsi che, per quanto fosse molto difficile per me da

capire, trattava i problemi a un livello completamente diverso da quello a cui ero abituato: molto

più scientifico, metodico, ambizioso. Rimasi colpito dal contrasto tra il basso profilo dell’edizione

(sembrava una dispensa qualsiasi) e l’altissimo rigore del contenuto. Scrissi all’autore, e da lì prese

vita dapprima la traduzione, poi l’edizione italiana, poi l’amicizia con Peeter, poi la collaborazione.

In sostanza (lo dico con un po’ di vergogna per la mia ignoranza), scoprii la scuola di Tartu a

7. Attualmente lei fa parte di un progetto all’interno dell’Università di Tartu, ci può spiegare

Lo Stato estone, pur essendo molto più povero dello Stato italiano, ha una politica lungimirante e

sa che è molto importante, per il bene della nazione, investire nella ricerca. Di conseguenza ci

sono, anche nel campo della semiotica della traduzione, progetti di ricerca in cui sono a volte

coinvolti studiosi internazionali come guest researcher. Un progetto riguarda la storia della

traduzione e dovrebbe sfociare nella pubblicazione di un libro in inglese sull’argomento, distribuito

dalla Tartu University Press. Naturalmente in chiave semiotica. Un altro progetto riguarda la

riscoperta di Roman Jakobson e dell’enorme patrimonio nella sua opera per quanto riguarda la

8. Lei ha pubblicato diverse traduzioni di racconti e romanzi dal russo e dall’inglese. Nella

selezione dei libri da tradurre in italiano, su quali criteri si basa principalmente? E in che

misura le case editrici vi partecipano? La scelta del testo di un determinato autore da

tradurre è una fase che fa già parte, secondo lei, del processo traduttorio?

Tranne in rari casi (come L’isola di Sahalin di Čehov o L’ebreo in Russia e L’Angelo sigillato di

Leskov) nella mia vita la scelta è stata totalmente dell’editore. Fosse per me, per esempio,

tradurrei le opere complete di Čehov e lo considererei un grande onore e piacere. Invece

Mondadori, dopo avere cominciato la pubblicazione di tutti i racconti, a ritroso, cominciando dai più

recenti, a un certo punto si è fermato, senza preavviso. Peccato.

La scelta del testo fa parte senz’altro della critica della traduzione e del processo traduttivo. Si

tratta, come dice Popovič, di critica preventiva. Tra l’altro, difficilissima da fare, perché bisogna

essere esperti di marketing, di sociologia e di psicologia sociale. Non sono certo che coloro che la

fanno abbiano tutte queste competenze. E pensare che il primo lavoro che si offre a un aspirante

traduttore è proprio quello di leggere un libro e preparare la scheda di lettura che serve a prendere

tale decisione… Credo che si dovrebbe investire di più in questo campo, per ottenere risultati più

9. Nella sua traduzione del libro di Torop, La traduzione Totale, nelle Avvertenze per il lettore,

lei spiega la translitterazione dei caratteri cirillici ai quali si è attenuto, aggiungendo anche

alcune “norme spicciole di pronuncia”. Questo suo procedimento affinché il lettore possa

avvicinarsi, nella pronuncia anche solo interiorizzata dei nomi propri, a quella più vicina alla

lingua originale, sottolinea la sua preoccupazione anche per i suoni della cultura emittente.

Quando traduce testi letterari, quale criterio usa con i nomi propri di personaggi o di luoghi,

li traduce o no? e perché? E come si comportano o si sono comportati gli altri traduttori dal

russo in italiano o in altre lingue, sempre a questo proposito?

Io credo che nella traduzione di testi non strettamente utilitaristici lo scopo sia quello di far

conoscere al lettore mondi diversi, culture diverse, usi e costumi diversi. La traduzione la vedo

come strumento per combattere il provincialismo che affligge tutti noi e che, forse, sta anche alla

base di molti conflitti. Di conseguenza, quando non ho limiti imposti dall’editore, conservo nomi

propri sia di persona sia di luogo sia di istituzione nella forma più simile possibile a quella della

cultura originaria, fatto salvo l’alfabeto latino. Un disastro avviene quando, per esempio, si

traducono i nomi delle università, ciò che spesso le rende irriconoscibili, come quel giornalista che

ha tradotto “Washington University” con “Università di Washington”, proponendo al lettore italiano

qualcosa di interamente falso: si tratta dell’università intitolata a George Washington, e ha sede a

Saint Louis, nel Missouri. Solo le istituzioni che hanno nomi in più lingue (come l’UE) possono

essere nominate in quelle lingue. Che la cultura emittente sia quella russa o qualsiasi altra non fa

nessuna differenza. Le culture hanno una loro peculiarità che va rispettata e che è utile conoscere,

anche quando non si è disposti a condividerla. Dato che però le norme di traslitterazione non

tengono conto delle difficoltà dei non addetti ai lavori, e per la trascrizione delle lingue con alfabeto

cirillico è uscito un aggiornamento nel 1995 che semplifica il lavoro agli addetti ma lo complica per

i profani (per esempio, la lettera â serve ora a traslitterare un carattere cirillico che si pronuncia

«ia»), io sono favorevole a un’applicazione degli standard ISO, ma anche a una spiegazione iniziale

per i lettori con esempi semplici di pronunce di parole più locali possibili.

Molti traduttori dal russo sono rimasti fermi allo standard precedente, del 1968, anche perché nella

slavistica italiana c’è poco aggiornamento e una tendenza alla conservazione e al dogma. Quello

standard aveva il grave difetto di non comportare una corrispondenza biunivoca tra segno cirillico e

segno latino, con la conseguenza che nelle biblioteche, per esempio, i catalogatori che non sanno il

russo non sempre erano in grado di ricostruire la grafia originaria.

10. Nella sua opinione, lo studioso di Traduttologia ed il traduttore hanno un ruolo politico-

sociale nella società attuale? Se sì, qual è? Allo stesso modo, qual è l’impatto della

Traduttologia nelle case editrici, e in che modo può cambiare la relazione tra queste e

l’edizione del testo tradotto, tra queste ed i traduttori?

Il traduttore e il traduttologo hanno un ruolo molto importante. Non sono soltanto lo specchio del

modo in cui una cultura “legge” le altre, ma sono anche una forza attiva di riflessione su tale

relazione interculturale e di indirizzamento di tale lettura.

Le case editrici sono aziende, ma questo, oltre a essere un male, può anche essere un bene.

Spesso i redattori nel rapporto coi traduttori chiamano in causa il bilancio aziendale per giustificare

proposte di compensi esigui. È importante capire che il bilancio può crescere se, invece di pensare

alla produzione libraria in senso quantitativo, la si pensa in senso qualitativo. In questo senso

traduttologo e traduttore possono essere di enorme aiuto. Se si desse ascolto al traduttore e al

traduttologo anche come consulenti di commercializzazione, si potrebbe rivoluzionare il modo di

fare i libri, e i lettori si sentirebbero più coinvolti, come avviene in Israele, che ha il tasso di lettura

11. Alcuni dei suoi libri sono disponibili in modo integrale in Rete. Che opinione ha del ruolo di

Internet nella diffusione della cultura e della conoscenza in generale? Ed in particolare che

importanza ha la Rete nella produzione intellettuale, nell’interscambio tra i ricercatori, nel

migliorare la qualità delle traduzioni, ecc.?

Internet ha solo pochi anni ma è già uno strumento la cui assenza sembra inconcepibile. Il mio

modo di lavorare, negli ultimi quindici anni, è cambiato in modo radicale grazie a internet. I miei

allievi non riescono nemmeno a pensare di poter fare una traduzione senza stare costantemente

online. Le potenzialità di internet per gli scambi tra ricercatori sono enormi. Anche questa intervista

ne è una testimonianza e una dimostrazione.

Quanto al diritto d’autore e ai libri online, credo fermamente nel diritto dell’autore di avere una

retribuzione dai suoi lettori, e considero la fotocopia abusiva un vero e proprio furto, come anche

la copia abusiva di CD e DVD. Se un autore mette a disposizione online alcune risorse che sono di

sua proprietà, bene, allora questo è un fenomeno diverso. Ma l’onestà di fondo degli utenti viene

data per scontata. E ci si aspetta un gesto di reciprocità.

Angela Catrani intervista Bruno Osimo sul tema della traduzione Civica Scuola Interpreti Traduttori «Altiero Spinelli»

Dal momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi su se stesso, il problema delle diverse lingue che si parlano nel mondo ha incuriosito, affascinato, preoccupato, tanto che una delle prime “storie” raccontate nella Bibbia, e declinate in varie forme artistiche e culturali, è la storia biblica sulle origini delle differenze linguistiche, racconto che nella sua struttura narrativa sfiora il mito: parlo, naturalmente, dell’episodio noto come La Torre di Babele, che spiega come la proliferazione nel mondo di migliaia di lingue differenti sia stata una punizione divina per la superbia dell’uomo. Forse è proprio questa punizione divina che mi porto addosso, la mia assoluta incapacità di imparare una lingua straniera, ad avermi, per contrasto, fatto innamorare prima delle lingue cosiddette morte, il latino e il greco, e poi della scienza della traduzione, e dei traduttori in particolare, da me considerati ponte necessario (e vitale) per accedere agli amatissimi libri scritti in origine in altra lingua. La traduzione, ci insegnano i semiologi, è intorno a noi, filtra il mondo attraverso i nostri occhi e le nostre orecchie, attraversa i nostri studi e le nostre conoscenze. La percezione che ognuno di noi ha di un qualsiasi oggetto, anche il più comune, è talmente diversa che a volte occorre proprio una “traduzione” in un linguaggio codificato e fisso. Apro la conversazione con Bruno Osimo, professore universitario, semiotico, traduttore, scrittore. La sua competenza mi aiuterà a entrare nel tema, a districarmi tra significato e significante, tra metatesto e paratesto, cercando di capire cosa renda così affascinante e misteriosa questa scienza. Bruno Osimo studia le lingue da quando, come racconta nel suo libro Dizionario affettivo della lingua ebraica, ha scoperto che la lingua che parlava sua madre non era italiano, ma il tamponico, cioè una lingua volta a tradurre la realtà perché non ci faccia troppo male. Inglese e russo sono le sue lingue d’elezione e di insegnamento, a cui si affianca la Scienza della traduzione, materia fondamentale del primo anno della Scuola per interpreti e traduttori, laurea triennale.

Angela Catrani

Caro Bruno, ho la fortuna di conoscerti ormai da qualche anno, da quando ho superato la timidezza dopo aver letto il Dizionario affettivo e ti ho fatto i complimenti tramite Facebook. Sorprendentemente mi rispondesti e da quel momento avviammo un dialogo proficuo e costruttivo, almeno per me. Per Voland, due anni fa, hai affrontato una traduzione inconsueta e innovativa de I racconti di Odessa di Gogol, una traduzione in cui hai potuto mettere in atto tutta la teoria della Scienza della traduzione, rompendo gli argini rispetto a una staticità e piattezza che forse ha attraversato tutta la narrativa tradotta in Italia: il linguaggio che usi fa ampio utilizzo di parole dialettali, neologismi, errori, cercando di proiettare il lettore nella cultura poliedrica, multiforme, oserei dire “caciarona” della Odessa della fine dell’Ottocento. Partiamo proprio da qui: cosa e come una traduzione letteraria deve rispettare del testo originario?

Bruno Osimo

La tua domanda apre molti spiragli anche sui costrutti culturali impliciti nell’ambiente da cui è stata generata. Volendo ci si potrebbe domandare cos’è una traduzione “letteraria”: io sono incline a pensare alle traduzioni come processi – “letterari” o no – teoricamente identici e sempre creativi. Quando il testo è artistico, anche la traduzione ha una componente artistica, che comunque si affianca a quella razionale, necessariamente propria del traduttore. Ci si potrebbe domandare anche cosa significa «rispettare». Il primo rispetto che si deve all’originale penso che sia riconoscerne l’alterità, o meglio riconoscere l’alterità della traduzione. Trovo che presentare le traduzioni come “equivalenti” dell’originale sia un pericoloso processo di negazione. È rispetto prima di tutto della realtà delle cose. Riconoscimento della propria impotenza («Non posso leggere quel libro in originale perché non so quella lingua»); riconoscimento che la traduzione comporta alcuni passaggi mentali anche parzialmente inconsci e che è quindi sempre traduzione intersemiotica, frutto di pesanti influenze e interferenze della poetica del traduttore; quindi riconoscimento che le culture che s’incontrano e si scontrano nel processo traduttivo sono almeno tre: quella emittente, quella traducente, quella ricevente. Rispetto del lettore, che non va imbonito a credere che sta leggendo “lo stesso libro”, ma educato a pensare che ne sta leggendo un altro, non solo scritto in un’altra lingua da un’altra persona che è un altro autore, ma anche scritto in un diverso linguaggio culturalmente parlando: il linguaggio che il traduttore ha inventato apposta per riuscire a mettere in comunicazione prototesto e cultura ricevente. Quello che ho detto riflette una visione del mondo delle culture come fenomeni eterogenei e reciprocamente interessanti, e quindi la traduzione come inserimento dell’altrui nel proprio; ma naturalmente esiste anche la traduzione intesa come assorbimento, furto, prestito, che quindi si configura come appropriazione dell’altrui. È un po’ come la differenza che c’è tra citazione e plagio. Il plagio (traduzione appropriante) non è sempre volontario: può anche essere inconscio e anzi forse lo è nella maggior parte dei casi. Forse il rispetto del testo originario in essenza è rispetto per sé stessi, cura per l’autodefinizione di sé e altrettanta cura per la definizione dell’altro, delimitazione del proprio e dell’altrui e individuazione di strategie comunicative che esprimano la dialettica tra queste tre entità: altrui primario (segno), proprio traduttivo (interpretante), altrui secondario (oggetto). Sempre tenendo conto che nel mare dell’intertestualità sempre più feconda, concetti come «prototesto» e «testo primario» possono solo avere valore relativo, allo stesso modo in cui in semiotica l’interpretante del primo segno può a sua volta farsi segno “primario” di una successiva triade.

A. C.

I passaggi inconsci di cui parli riguardano i processi culturali impliciti del traduttore o moti emotivi legati al contenuto del testo che si sta traducendo?

Bruno Osimo

I passaggi inconsci riguardano sia l’inconscio soggettivo del traduttore sia, per così dire, l’inconscio della cultura di

appartenenza del traduttore. Possono verificarsi interferenze tra l’ideologia (in senso profondo, psichico) del traduttore e l’ideologia del testo, che danno luogo a quella che Popovič chiama «traduzione polemica». Possono anche esserci “zone d’ombra” della cultura ricevente intesa come collettivo, e allora nascono difficoltà di decodifica di determinati elementi del prototesto perché manca la specializzazione percettivo-cognitiva necessaria.

A. C.

Come e quanto entra la psiche del traduttore e quanto è opportuno che si cerchi di restare il più neutri possibili?

Bruno Osimo

La pretesa di neutralità del traduttore è – secondo me – insensata, e forse ha un parallelo nella pretesa di neutralità dello psicoterapeuta. Se, come ci diceva già Kant, la percezione è giudizio, già la percezione è ideologica, e con questo la neutralità è inesistente fin da subito. Il traduttore non deve restare neutro, ma deve dichiarare la propria ideologia. Messo a confronto con il prototesto, e con la necessità di proiettarne il senso sulla cultura ricevente, il traduttore elabora (consapevolmente o no) un linguaggio nuovo, fatto su misura per convogliare ciò che soggettivamente per il traduttore è il senso dominante del prototesto verso la cultura ricevente. Nel paratesto (per esempio in una postfazione) il traduttore denuda la propria strategia, denuncia la propria ideologia interpretativa, dichiara i propri intenti comunicativi e, nel contempo, confessa anche il proprio residuo (loss, perdita, lutto): anziché negarlo, il lutto, lo elabora (proprio come avviene in psicoanalisi) e lo svela al lettore.

A. C.

Riesci a farmi qualche esempio pratico, di traduzioni famose, per esempio? Oppure di risoluzione di un conflitto interno?

Angela Catrani, Bruno Osimo

Prendiamo come esempio il concetto di pošlost’ in Čehov. La pošlost’ deriva dal verbo hodit’ che significa «andare» ed è una specie ben precisa di volgarità. La volgarità è un concetto molto culturospecifico. Per esempio, nella cultura italiana contemporanea «volgarità» è spesso accostato a sessualità e a pornografia. In Čehov invece la pošlost’ è spesso accostata alla sytnost’, ossia alla sazietà. Se si considera l’opera di Čehov nell’insieme, si trovano svariati riferimenti alla sazietà, sia alimentare sia monetaria sia sul piano di quelli che ora chiameremmo i comfort, che è disprezzata dai personaggi che sono alter ego dell’autore. La sazietà materiale porta a una sorta di “sazietà spirituale” che è nemica dell’intelligenza, della curiosità, dell’attività che in ebraico si chiama tiqun olam, ossia riparare il mondo, valore di cui Čehov, non ebreo, sembra però carico.

Se si traduce Čehov in italiano, la cultura italiana presenta un enorme “buco nero” intorno a questo concetto. Buona parte delle attività popolari in Italia – mangiare, bere, sdraiarsi al sole, tradire il partner, fare il furbo, cavarsela con mezzucci – sono pošlye per Čehov, mentre da noi è considerato stereotipicamente volgare, che ne so, sfogliare Playboy o esprimersi in termini scatologici. In altre parole, la cultura espressa da un racconto di Čehov, letta dal mediatore culturale che è il traduttore e proiettata sulla attuale cultura italiana di massa produce una sorta di corto circuito. C’è un antropologo statunitense, Michael Agar, che definisce questi cortocircuiti «rich points», punti di arricchimento, perché dal punto di vista del confronto con culture altre avere un momento di smarrimento in cui non si riesce a capire/tradurre qualcosa è benefico e arricchisce. Qui si parrà la tua nobilitate, traduttore, perché ci sono due strategie con due esiti molto diversi. Una strategia stucca e liscia il muro e poi fa un ritocco di pittura, perché non si noti che la differenza culturale ha prodotto una crepa e magari fatto cadere un pezzo d’intonaco. L’altra strategia non persegue la liscezza del muro, ma insegue la dialettica tra le differenze: lascia che l’intonaco si stacchi, anzi fa cadere anche quello tremolante non ancora staccato, e poi fissa il muro e permette a chi lo osserva di accettarlo per quello che è: il frutto di un confronto tra culture diverse.

In termini strettamente traduttivi, il primo mediatore trova una soluzione andante (pošlyj, per l’appunto), trova un traducente come gretto o triviale e procede con il suo lavoro; il secondo mediatore apre un varco nella cultura cehoviana, parla della pošlost’ nella prosfazione o nelle note, informa i lettori che si trovano di fronte a un rich point, e chi ha voglia di arricchirsi si arricchisca (con l’aiuto del traduttore), e gli altri pàssino oltre.

A. C.

Come ultima domanda vorrei parlare proprio della tua particolare traduzione de I racconti di Odessa, completa, come da te teorizzato, di una prefazione in cui dichiari il tuo intento traduttorio. Questo apparato paratestuale diventa così parte integrante e necessaria di un libro, che non è più e solo di Babel, ma diventa di Babel-Osimo (come tra l’altro è dichiarato in copertina). Ci puoi raccontare la genesi di questo libro e della libertà che ti ha concesso l’editore di Voland?

Bruno Osimo

La traduzione mi è stata commissionata (non ho scelto io il testo) in quanto traduttore-autore (purtroppo in Italia si tende a pensare che un traduttore che non scrive anche in proprio sia uno scalino più giù nella scala socioculturale) perché la collana è riservata a classici tradotti da scrittori. Questa impostazione, già di suo, implica che il traduttore non sia stato incaricato di un lavoro di bassa manovalanza (come ahimè avviene a volte nella mentalità dell’editore) ma abbia anche una sua sfera di autonomia. In effetti ho intrapreso la traduzione senza preparazione e, man mano che procedevo, mi sono reso conto che mi stavo addentrando in un mondo stranissimo, caratterizzato non da una sola cultura ma dall’incontro/scontro di tante culture in un cronotopo variopinto, eterogeneo, screziato. Se ero sconcertato io, che nel cunicolo ero il capofila con la torcia accesa nell’elmetto, figuriamoci quelli in fila dietro di me – i lettori – che sarebbero passati più frettolosamente e con meno possibilità d’illuminazione – pensavo.

La mia preoccupazione dominante in questo frangente era di evitare il più possibile l’appiattimento. Da lettore mi stavo gustando un piatto esotico pieno di combinazioni creative di sapori inediti e come autore non volevo consegnare a mia volta ai miei lettori un anonimo sofficino surgelato da sbattere nel microonde e trangugiare spensieratamente. Quindi mi sono ingegnato come potevo per creare un (sotto) linguaggio, uno stile, dei tratti che dessero al lettore italiano l’idea di qualcosa di strano, di nuovo, di esotico, forse non del tutto comprensibile, ma che stimola la curiosità e la voglia di conoscere e di esplorare. Daniela Di Sora è stata molto collaborativa e non solo ha assecondato la mia richiesta di scrivere una postfazione, ma mi ha addirittura proposto una prefazione, che è molto più impegnativa e “invadente” dal punto di vista del lettore. Lavorare così è un lusso (in Italia) e credo che bisognerebbe adoperarsi tutti per trasformarla da eccezione a regola.

Bruno Osimo è nato a Milano il 14 dicembre 1958 in una famiglia culturalmente ebraica laica non osservante. Ha un diploma di traduttore dal russo e dall’inglese e un dottorato in scienza della traduzione. Dal 1980 traduce per l’editoria e per le aziende. Dal 1989 è docente di traduzione e scienza della traduzione presso la Civica Scuola Interpreti e Traduttori di Milano. Dal 1998 pubblica con Hoepli testi sulla traduzione (il più recente è il «Manuale del traduttore di Giacomo Leopardi»). Nel 2002 ha pubblicato l’articolo «On psychological aspects of translation» su Sign Systems Studies e da allora sviluppa questo filone di ricerca. Dal 2007 traduce e divulga autori importanti dell’est europeo nel campo della semiotica della traduzione: Jakobson, Lotman, Torop, Popovič, Lûdskanov, Revzin, Rozencvejg. Dal 2011 ha pubblicato tre romanzi con Marcos y Marcos: “Dizionario affettivo della lingua ebraica”, “Bar Atlantic”, “Disperato erotico fox”.

osimo@trad.it

Angela Catrani nasce a Rimini e vive vicino a Bologna, in una grande casa ecologica di legno, con il marito, due figli e un cane. Dopo la Maturità classica, si laurea con lode in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Bologna. Appassionata lettrice fin da bambina, alla classica domanda su “cosa vuoi fare da grande” risponde “Leggere”. Dato il suo carattere determinato, persegue il suo obiettivo e ora di professione principalmente legge e studia. Non aveva ancora terminato gli studi universitari e già lavorava in una casa editrice, Il Mulino, a cui è seguita una seconda casa editrice d’arte; ora lavora per una cooperativa sociale di Imola, Il Mosaico, per cui cura tutto il settore editoriale dei libri per bambini, in stretta sinergia con l’editore Bacchilega. Scrive articoli per riviste on line e per blog. Ha molte passioni e grandi entusiasmi, tra cui i libri per bambini, che ritiene essere una delle più alte espressioni artistiche in cui si possano coniugare spontaneità, eccellenza e bellezza.

angela.catrani@gmail.com

Pubblicato nel mese di febbraio 2016

www.aracne-rivista.it Rubriche 2016 – Transiti

Transiti #2

Iscritta nel Pubblico Registro della Stampa del Tribunale di Rimini: n° 11 del 24-05-2011 ISSN: 2239-0898

Alessandro de Lachenal, LA SCUOLA DI NITRA (E MOLTO ALTRO)

Cominciò con una domanda, apparentemente generica, su una lista di discussione. In realtà risultò ben mirata, perché mi fece rendere conto quasi subito di non saper trovare assolutamente nulla sull’argomento Nitra school – nonostante i libri ben impilati sugli scaffali e qualche altro chiletto di fotocopie impolverate (ricettacolo di temibilissimi pesciolini d’argento).
Ed è finito con un convegno proprio a Nitra, organizzato presso l’università statale diCostantino il Filosofo [1] (così chiamata dal 1996, dopo esser stata fondata quattro anni prima a aprtire da un istituto pedagogico esistente dal 1959) dal locale Dipartimento di studi traduttivi (posso tradurre così ‘Translation Studies’?), dall’Istituto di letterature mondiali dell’Accademia slovacca delle scienze e dalCETRA, il Centro di studi traduttivi di Lovanio.
Una joint venture inedita e (anche per questo) interessante, rispecchiata pure dal titolo assegnato all’intera manifestazione: Some Holmes and Popovič in All of Us?, che Bruno Osimo mima nel suo intervento, fissato per le 14,30 di oggi (giovedì 8 ottobre, nella sessione 1): Any Holmes and Popovič in any of us Italians?

Il logo del convegno slovacco.

Il logo del convegno slovacco.

Tutti gli altri relatori col programma completo li trovate in un PDF di 8 pagine a questo link.
Andate invece sul sito ufficiale per ogni altra informazione, compresa la sponsorizzazione dell’editore Brill, che ha innestato un catalogo tipicamente accademico sulla lunga e nobile tradizione editoriale dei Paesi Bassi (sebbene oggi l’azienda abbia sede non più solo a Leida, ma anche a Boston e Tokyo).

 

Per chi non conosca bene Holmes e Popovič, dirò subito che condividono una morte prematura attorno alla metà degli anni Ottanta, la quale forse ha impedito loro di dispiegare tutte le implicazioni delle loro proposte, che però sono state accolte tempestivamente e in maniera estremamente positiva dalla comunità dei ricercatori interessati.

James Stratton Holmes (1924-1986) figura in quasi tutte le trattazioni di storia più recente della traduzione, nella cui ricostruzione ha assunto, grazie al saggio The Name and Nature of Translation Studies del 1972 (ma pubblicato tre anni più tardi), il ruolo di fondatore della corrente omonima: da un lato voleva opporsi sia all’impressionismo dell’approccio letterario, sia alle pretese di scientificità (ritenute eccessive) dell’approccio linguistico imperante, ma dall’altro ampliava le prospettive di studio e riflessione in una direzione che poi sarebbe stata ‘culturologica’. [2]
Un suo saggio del 1969 sulla traduzione poetica (La versificazione: le forme di traduzione e la traduzione delle forme, tradotto da Margherita Di Michiel) è incluso nell’antologia curata da Siri Neergard, Teorie contemporanee della traduzione(Bompiani 1995, 20022, pp. 239-256); che sia un contributo secondario rispetto al tema qui escusso lo dimostra, credo, il fatto che l’introduzione stessa della curatrice gli dedica una sola paginetta (p. 36), sebbene l’apporto di Holmes alle ‘grandi manovre’ della traduttologia sia comunque riconosciuto nelle note 3 e 17 da Neergard.

Anton Popovič (1933-1984) è invece l’esponente più noto (si fa per dire…) in Occidente della scuola slovacca di Nitra, ed è merito assoluto di Osimo la presenza sul mercato librario italiano del suo testo chiave, «un pilastro della scienza della traduzione»: Teória umeleckého prekladu (Bratislava 1975), che tradotta da Daniela Laudani, rivista da Osimo e collazionata sull’edizione sovietica seriore (Problemy chudožestvennogo perevoda, Moskva 1980) ha dato origine a La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva (Hoepli 2006), «la prima traduzione in una lingua al di qua della vecchia cortina di ferro». [3]
Opportunamente sia la traduttrice sia Laura Salmon [4] rammentano la collaborazione fra i due studiosi ed, è ancora Osimo che affianca le loro schede nel suo Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei (Hoepli 2002, pp. 212-5)

Anton Popovič. La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva, trs. Bruno Osimo and Daniela Laudani. Milano: Editore Ulrico Hoepli, 2006. xx + 194 pp. ISBN 88-203-3511-5. 19 €. [Original: Teória umeleckého prekladu. Bratislava: Tatran, 1975.] Reviewed by Ubaldo Stecconi (Brussels)

On May 1, 2004 ten new countries joined the EU and the division of the continent into Western and Eastern blocs symbolically came to an end. According to many commentators, the division had always been artificial: Europeans on opposite sides had always shared more than their governments did. This is how Prof. Peter Liba — who helped me put Anton Popovič’s work in its proper historical context — put it: “We [under the totalitarian regime, behind the Iron Curtain] have never stopped being in Europe and develop its cultural potential” (Liba 2006). From a Western European viewpoint, this has been repeatedly confirmed as the institutional, cultural, and intellectual heritage of the East has become progressively familiar. The Italian edition of Teória umeleckého prekladu (1975) brings this realisation to Translation Studies. Anton Popovič (1933–1984) was not exactly unknown. A good academic manager and organiser, his international links included Poland, Hungary, the Netherlands, Canada, and the US. From his Cabinet of literary communication at the University of Nitra, he established contacts with translation scholars (cf. Holmes, de Haan and Popovič 1970; Popovič 1970) and the quality of his work was recognised in Western circles (cf. Dimić 1984; Beylard-Ozeroff, Králová and Moser-Mercer, eds. 1998; Tötösy de Zepetnek 1995; Zlateva 2000; Gentzler 2001). However, according to Mr Osimo, who translated the text reviewed here with Daniela Laudani, no extended part of his work has been available in the academic lingua francas of the West (cf. pp. x–xi).1 Unfortunately, Italian is not exactly the first choice as a lingua franca either. Teória umeleckého prekladu should appear in more widely used languages, and I hope the reasons will be clear to you by the end of this review. Why did an interest in translated communication arise in Nitra in the late 1960s? Prof. Liba informs us that the Cabinet of Literary Communication was born as an interdisciplinary project of František Miko, a linguist, Popovič, a literary comparatist, and other teachers. A covert disagreement with Marxist approaches to literature lay in the background, but the project could push through because Nitra’s marginal position eluded political monitoring. Secondly, those scholars felt they had to critically come to terms with Western theories of literature. The initial interest was thus literary studies, particularly Miko’s theory of style, which Popovič 74 Book reviews — whose main interest had always been translation theory — later applied to literary translation. La scienza della traduzione appears 31 years after the Slovak original and 26 after the 1980 translation into Russian, on which it is also based. In spite of this, many positions and insights still read fresh and provocative. How can it be that the book does not show its age? I can think of two reasons: either Popovič was a Leonardo-like genius way ahead of his time, or Translation Studies has been running out of steam lately. This seems the conclusion Palma Zlateva reached at the end of her comprehensive overview of the Russian edition of the work: It is unfortunate that Popovič left us so early, before he could witness both the influence of his ideas and our failure to overcome during these years some of the pitfalls which he had been warning us in his writings. (Zlateva 2000: 115) I believe she has a point. Already in the introduction, Popovič laments the lack of a solid theoretical background in translation circles, especially practitioners (p. xxvii). As we know, this is still the case. His solution is as follows: a theory of translation can be developed on the basis of a more general semiotic theory of communication and it should strive to remain an open interdisciplinary field. However, this implies the danger that Translation Studies loses its individual character: To prevent that researchers from other disciplines deny the science of translation the status of an independent discipline, I have drawn a map of the relationships between the science of translation, linguistics and comparative literature. (pp. xxviii–xxix) The map appears at pages 12–13 and makes an interesting read if compared with the Toury-Holmes map (e.g. in Toury 1995: 10) Western scholars are more familiar with. Popovič was bold and optimistic, but it seems to me that we have not moved a lot forward since. Perhaps Translation Studies has chosen the wrong time to fight for the independence of its province within the larger confederation of the human sciences. Today’s research — both in the human and the natural sciences — is no longer structured around disciplinary boundaries but around problems, regardless of where their solutions may come from. At any rate, it is interesting to note the close association between a solid theory for translation and a precise technical terminology for its operational concepts. This attention to a ‘scientific’ terminology is demonstrated by a 30-page glossary that closes the book. The glossary is explicitly presented as “a theoretical microsystem” (p. 147) and most of the entries it includes read like an encyclopedia. Theory, specialist terminology, and independence are three corners of one and the same figure for Popovič: “although the science of translation has an interdisciplinary outlook, there exists a specific Book reviews 75 domain for it which does not automatically borrow the terminology of the other disciplines” (p. 5). According to Prof. Liba, Popovič translated little and did not have a large firsthand experience of literary translation. In spite of this, I found his remarks on the practical act of translating insightful and to the point. Starting from the recognition that any translation is a secondary model, Popovič writes that “Translating … is a consequence of the clash between primary and secondary communication” (p. 47). This is a theoretical position that sets the stage for a dynamic and dialectical view of translating. One can find a first reflection of this view already in the terms proposed for what we sometime call source and target texts. Popovič defines them prototext and metatext, thus highlighting their distinct and convergent functions for the act of translating. The prototext is defined as “Subject of intertextual continuity. Original text, primary model which is the basis for second-degree textual operations” (p. 166). This definition suggests an ontological primacy for the act of translating, of which the prototext is nothing more than a ‘basis’. Consistently, the metatext is defined as a “Model of the prototext” which is the product of “a logopoietic activity carried out by the author of the metatext” (p. 159). What are the crucial elements around which this logopoietic activity revolves? Recalling the literary context in which Popovič operated, it is not surprising that style comes first, with content and expression distant seconds. “The concept of translational correspondence must be defined above all at the stylistic level; content and language elements give equally important functional contributions to it” (p. 76). At this point it should be obvious that the text is the only workable unit of translation: “Ideally a translation that strives to build stylistic similarities must be carried out at textual level” (p. 68). This outlook has interesting consequences on the notion of equivalence. “The art of translation is the exact reproduction of the prototext as a whole” (p. 82). This statement should not be mistaken as endorsing such ideas as perfect equivalence or identity. Popovič forcefully rejects the notion of total equivalence; in fact, his core theoretical argument is the alternative and more realistic notion of change or shift. Translators change the prototext precisely in order to convey it as exactly as possible, “to possess it in its totality” (ibid.). Both absolute freedom and absolute faithfulness are self-contradictory conceptions; in fact, translating can actually be defined in terms of stylistic, linguistic or semantic shifts. There can be no trade-off between faithfulness and freedom; rather, they are dialectically related. The optimal situation is functional stylistic change; i.e. change whose goal is the expression of the prototext’s character in a way that responds to the conditions of the other system (p. 83). This state of affairs gives translators their fair share of semiotic responsibility. Popovič has no doubt that translating involves creativity: 76 Book reviews Every translator interprets the prototext and develops its creative potential. (p. 126) A translator is both more and less than a writer. Less, because his or her art is ‘secondary’. More, because … he or she has to mix analytical thinking with creative abilities; create according to fixed rules; and introduce the prototext into a new context. (p. 38) Because creativity means making choices, this complex translational task can be neatly expressed as follows: “Translators choose within choices already made” (p. 39). As we know well, not everyone is convinced that translating involves creativity yet. Those who deny translators’ creative efforts presuppose that translating is a simple recording of the original; those who recognise them presuppose that translating happens in the mind of the translator. Popovič would certainly prefer the latter position as is evidenced by his rejection of the conception of the copy and of machine translation: “Machine translation … is devoid of style; to use a figure, it is ‘dehydrated’. Since it is not a text, automatic translation cannot even be regarded as a translation in the first place” (p. 69). Popovič refuses to accept that the copy, the perfect matching of all levels of expression between prototext and metatext, is a desirable — if unreachable — limit translators should tend to. In fact, the copy is the opposite of translation; its very negation. It is not the first time a case needs to be made along these lines for the independence of a form of semiotic work. A debate in early 16th century Italy compared the expressive powers of painting to poetry and sculpture. Then too people wondered whether painting originated in the imagination or was a mere recording of something else. Today, we have no doubt that painters are creative artists, but before the year 1500 they were regarded more or less as craftsmen. Masters such as Bellini, Giorgione and Titian, active in Venice in the first three decades of the century, helped change the public perception of painters. When will this happen to translators? Arguments like those included in La scienza della traduzione can certainly bring that time closer, and this is another reason why — I repeat — I hope this book will soon appear in a language that is more familiar to the community of scholars. Note . All references to La Scienza della traduzione include page numbers only; all translations into English are mine. Book reviews 77 References Beylard-Ozeroff, Ann, Jana Králová and Barbara Moser-Mercer, eds. 1998. Translators’ strategies and creativity: Selected papers from the 9th International Conference on Translation and Interpreting, Prague, September 1995 — In honor of Jiří Levý and Anton Popovič. AmsterdamPhiladelphia: John Benjamins. [Benjamins Translation Library, 27.] Dimić, Milan V. 1984. “Anton Popovič in Memoriam”. Canadian review of comparative literature / Revue Canadienne de Littérature Comparée. 11:2. 350. Gentzler, Edwin. 2001. Contemporary translation theories (2nd edition). Clevedon: Multilingual Matters. Holmes, James S, Frans de Haan and Anton Popovič, eds. 1970. The nature of translation: Essays on the theory and practice of literary translation. The Hague: Mouton. Liba, Peter. 2006. Personal communication. 5 August. Popovič, Anton. 1976. Dictionary for the analysis of literary translation. Edmonton: Department of Comparative Literature, The University of Alberta. Popovič, Anton. 1970. “The concept of ‘shift of expression’ in translation analysis”. Holmes et al. 1970. 78–90. Toury, Gideon. 1995. Descriptive Translation Studies and beyond. Amsterdam-Philadelphia: John Benjamins. Tötösy de Zepetnek, Steven. 1995. “Towards a taxonomy for the study of translation”. Meta 40:3. 421–444. [Reworked version of Popovič 1976.] Zlateva, Palma. 2000. “A wheel we have been reinventing. Review of Anton Popovic’s Problemy khudozhestvennogo perevoda [Problems of Literary Translation]”. The translator 6:1. 109–116. Reviewer’s address European Commission MADO 10/84 B-1049 BRUSSELS Belgium e-mail: ubaldo.stecconi@ec.europa.eu 

Disperato erotico fox: intervista di Lilie Haha Fantomatique a Bruno Osimo sul suo romanzo del 2014

DISPERATO EROTICO FOX: Intervista di Lilie Haha Fantomatique a Bruno Osimo

Lilie: La scena di Arturo che si avviluppa ad Alberta con l’angoscia di essere scaricato è di stile molto diverso dal carattere di Adàm Goldstein, il protagonista del tuo romanzo precedente, Bar Atlantic. Che ti è successo?
Bruno: Ha ha ha! Hai ragione Lilie, sono due personaggi molto diversi. Entrambi sono “perdenti” ma, mentre Adàm ne fa una ragione di vita, uno stile di vita, Arturo nella scena iniziale cui tu alludi accusa fortemente il colpo. Adàm è più stabile, Arturo, ha un basso bassissimo e poi un alto altissimo.

Lilie: Guardando su YouTube alcune poesie che tu leggi a casa tua, ho visto che le tue librerie sono poco profonde come quelle descritte nel libro. E chissà se ci sono altri dettagli presi da casa tua, immagino di sì.
Bruno: Per me è fondamentale quando scrivo ambientare le scene in un luogo che conosco. Le librerie del romanzo in realtà sono molto diverse da quelle di casa mia – che peraltro sono diverse tra loro – ma capisco che a occhi non “falegnàmici” e non abituati a considerare l’arredamento come soggetto (prodotto proprio) oltre che come oggetto possano sembrare simili. Del resto, se dopo trent’anni di vita traduttiva solitaria qualcuno mette il naso a casa mia non mi dà certo fastidio.
def ritagliato

Lilie: La “rizdora” Emma è la tipica donna di origine contadina (da me conosciuta però in Emilia), magari poco scolarizzata ma piena di buonsenso, sensibilità e accettazione della vita per come si presenta di giorno in giorno; non rifiuta quel che non può capire, non ha aspettative particolari né curiosità “malsane o mal riposte” e per questo grande apertura all’ignoto e pazienza: pur con deferenza verso “un professore, un cittadino” non pare sentirsi in posizione di inferiorità come se – a parte questi formalismi inculcati evidentemente da tradizioni ataviche – il suo mondo godesse di pari dignità di qualunque altro ed è una donna forte, anche per questo sarà d’aiuto ad Arturo – in pieno marasma, lui, in piccolo scombussolamento lei. La mia ex-suocera soleva dire che le persone semplici come lei (ha la 5° elementare) sono più felici di quelle istruite o molto consapevoli dei grandi fatti del mondo o di quelli molto interiori dell’animo umano – credo a ragion veduta.
Bruno: In altre parole, nel romanzo si vede la stessa questione sotto una luce lievemente diversa: la rizdora è sana, non è nevrotica, ha un’influenza positiva su Arturo in virtù di questa sua semplicità. Non ha quel tratto spesso presente nei nevrotici metropolitani, consistente nell’avere non solo angosce reali, ma anche angosce dovute alle angosce stesse, di secondo grado, per così dire.

Lilie: La strutturazione in capitoli, scelti come base obbligata per il Dizionario Affettivo della Lingua Ebraica è un tuo pallino, poi ripetuto con scansioni giornaliere in ebraico/italiano in Bar Atlantic e in Disperato Erotico Fox (che d’ora in poi abbrevieremo come: Dizionario + BA + DEF) con i numeri primi e le strofe della canzone di Dalla. Il tutto corredato sempre da note a piè di pagina che, in DEF, sono posizioni di ballo che rimandano – per assonanza, analogia, chiarimenti ed altro – al testo. L’idea di un manuale di ballo era interessante per i seguenti motivi: dopo un “Dizionario Affettivo” e il “Diario del precariato amore-sesso-lavoro di un uomo”, si trattava di proporre una nuova veste, un “Manuale di Ballo” (che però è ben diverso dal ballo in sé che è la messa in pratica e dunque un vissuto) e renderlo cornice di fatti da incasellarci. A) Il ballo in sé, come metafora di adattamento di due esseri l’uno all’altro con tutto ciò che implica in generale e, nel caso specifico, come mezzo per riappropriarsi di una nuova vita dopo la precedente finita in pezzi (di entrambi, sebbene in modo diverso – Arturo con divorzio da Alberta, Emma per altri motivi). B) Il ballo come piacere in sé (ritmo, movimento, musica, vicinanza con la persona amata/desiderata) se in coppia. C) Il ballo da sala come coreografia e posizioni precise, descritte minuziosamente fino al tedio e, secondo me, ossessivamente imposte come note, dove mi innervosivo nel dilemma: da un lato il capire quanto descritto e il “sentire” a livello cinestesico (per chi ama danzare viene spontaneo), dall’altro il non riuscire a “sentirlo” e la conseguente pedanteria di questa veste, di cui peraltro spesso non capivo la pertinenza col testo. E infatti il punto è: c’è sempre bisogno di una veste/cornice per un romanzo?
Bruno: Nella mia esperienza presente sì. Forse sarà la mia provenienza dalla traduzione, dove soggiorno da tempo, nel cui mondo ti danno sempre un originale a cui ispirarti. Mi affascina la scrittura alla Queneau, alla Calvino del Castello dei destini incrociati, dove la scommessa è quella di riuscire a produrre un testo artistico con costrizioni tecniche. Alcuni ritengono che questo sia un mio limite da superare, in presenza di maggiore sicurezza di sé in campo letterario. Altri, invece, mi esortano a continuare a usare le note a piè pagina e altri artifici normalmente usati nei saggi più che nei romanzi, o a volte nei romanzi tradotti, ai quali ritorno sempre volentieri, con affetto e riconoscenza.

Lilie: La storia di DEF e il modo in cui hai trattato il tema, accostandolo alla poetica di Dalla, mi sembravano già di per sé ampiamente sufficienti e complessi per un libro scritto peraltro molto bene a vario titolo… non è eccesso di zelo aggiungere anche l’idea del manuale di ballo?
Bruno: Può darsi, ma sono attratto dalla commistione anche un po’ forzosa di mondi diversi. Cos’hanno in comune Dalla e il ballo liscio e i numeri primi? Ho cercato di dare una specie di risposta a questa domanda. A pensarci bene, la traduzione è sempre creazione di un linguaggio per mettere in comunicazione due mondi, due culture. È il compito che mi prefiggo da solo quando mi accingo a scrivere un romanzo.

Lilie: Alberta lascia Arturo con un piglio tipicamente maschile, così come la spietatezza che ne segue; Arturo diventa quasi come i padri separati che dormono in auto, causa gli alimenti per moglie e figli – peraltro questo non implica oggigiorno che la colpa della separazione sia ascrivibile alla moglie ma solo che le condizioni economiche dei soggetti produce spesso tali scenari. Ma la cosa interessante qui è che veramente Arturo è la “parte debole” – legalmente parlando e non solo, in quanto anche e soprattutto sul piano emotivo. È situazione piuttosto rara dato il machismo degli uomini o comunque una loro maggiore indipendenza sotto vari profili, compreso solitamente quello emotivo. Le statistiche parlavano (dieci anni fa) in modo chiaro: l‘uomo lascia quando ha già un’altra donna o tira avanti coi piedi in due scarpe (anche perché non ama stare da solo, vedovi insegnano), la donna lascia quando è stufa; ovviamente, nei tradimenti, a fronte di un uomo che tradisce, c’è per forza una donna che ci sta, spesso sposata ma anche single. Dunque Arturo deve ricominciare a vivere, esattamente come tocca spessissimo a noi donne, con tutto il dolore e le difficoltà che ciò comporta.
Bruno: Mi fa piacere che tu faccia questa osservazione perché la mia idea era proprio di esprimere questo: come per certi versi anche succedeva con Adàm nel romanzo precedente, Arturo è un maschio soccombente, un maschio passivo, un maschio dipendente che non ha difficoltà a riconoscere la propria dipendenza. È istruito e ha una cultura solida, ma questa sua vita “di mente” è resa possibile dalle certezze affettive offertegli dalla moglie. Quando lo lascia, Arturo precipita in una crisi apparentemente definitiva.
poesie da disperato erotico fox

Lilie: Una recensione in particolare ha evidenziato il finale scontato di questo libro. Mi si permetta un commento: non sei un autore alla moda né tratti necessariamente, almeno per ora, temi importantissimi e attuali – quali ad esempio il mondo gay, i problemi di genere ad esso legati e le rivendicazioni per un’eguaglianza ancora lontana in Italia – che tuttavia hanno un unico svantaggio: quello di monopolizzare l’attenzione, purtroppo a scapito di questioni magari già affrontate in passato ma non per questo risolte e non più attuali. Mi riferisco al nucleo di ogni uomo e donna: in primis come individui dotati di un’identità di genere definita, ma anche variamente mitigata o esaltata dalla presenza della componente di sesso opposto; poi come protagonisti nella coppia eterosessuale. Queste sfumature, che strutturano la personalità di ciascuno, vanno poi – nel tuo libro come nella vita di tutti i giorni – a confrontarsi con l’altra metà del cielo, in una dialettica più o meno riuscita a seconda della cassa di risonanza che l’altro fornisce: il pregio di questo tuo libro sta proprio nella sapiente descrizione di queste componenti e sfumature, negli scontri e incontri e nell’evolversi delle persone al variare delle loro relazioni. Pertanto, se Arturo è o pare un maschio soccombente (e forse lo rimarrà tutta la vita, questione magari secondaria: Bruno, pensi forse ad un seguito di quest’avventura che ci sveli l’epilogo della sua vita???) – mentre la moglie una tigre approfittatrice che gli fa da quasi ovvio contrappeso – la verità importantissima che colgo in questo libro sta nell’essere ciò che si è, nell’accettarlo dolorosamente e gioiosamente cammin facendo, perché la vita riserva comunque sorprese se non fingiamo di essere ciò che non siamo, mettendo a nudo di pari passo debolezze interiori e guanti e stivali di gomma – di per sé controcorrente rispetto al classico corredo di strumenti seduttivi. Dunque, il simbolo della danza acquisisce qui ancora un altro significato, forse primordiale: quello della scoperta di sé e della propria rigenerazione. Se mi rifaccio a Biodanza (che in questo libro non ha nulla a che vedere ma che si potrebbe usare un po’ dovunque come unità di misura qualitativa): le cinque dimensioni fondamentali della persona umana, sarebbero: la vitalità, la sessualità, la creatività, l’affettività e la trascendenza. Biodanza mirerebbe a restaurare la loro reciproca armonia. Per reimparare a vivere si dovrebbero ricalibrare quei parametri e, indubbiamente il ballo, se mi limito ad un discorso sia individuale che di coppia (ma non di gruppo, come invece Biodanza include, sebbene non “intruppato” come descrivi tu in modo divertente per balli di gruppo “discotecari”), è un aiuto straordinario. Perciò un manuale che ingabbia e ingessa, a mio avviso, toglie quella fluidità sia nel dipanarsi del racconto per il lettore che nel vissuto dei protagonisti stessi.

Historia de la traducción. Reflexiones en torno del lenguaje traductivo desde la antigüedad hasta los contemporáneos, 2012, de Bruno Osimo, traducción del italiano de M. Cristina Secci, Paidós, México, 349 pp. ISBN 978-607-9202-31-6.

Historia de la traducción. Reflexiones en torno del lenguaje traductivo desde la antigüedad hasta los contemporáneos, 2012, de Bruno Osimo,Paidós, México, 349 pp. ISBN 978-607-9202-31-6.
http://www.pueblosyfronteras.unam.mx/v09n17/art11.html

Fausto Bolom Ton

fbolom@unam.mx

PROIMMSE-IIA-UNAM

Empecemos con una adivinanza ¿En qué se parecen Aristóteles, Sigmund Freud y Miguel de Cervantes? Si respondemos que los tres son personajes que han revolucionado el pensamiento sería una respuesta aceptable; sin embargo, en el marco del libro que en esta ocasión toca reseñar podemos tener una respuesta alternativa: ellos se parecen en que abordan, a su modo, un asunto de vital importancia para el hombre: la traducción.

Hablar de traducción nos remite a un proceso que necesariamente guarda una gran complejidad y que puede ir desde la lingüística, la psicológica, la literaria, hasta la fisiológica, que sin embargo es inherente al hombre y lo ha acompañado desde su formación como tal hasta la actualidad. En la antigüedad podemos advertir el proceso traductivo desde la transacción comercial amigable entre dos grupos étnicos hasta los brutales encuentros entre culturas distintas y su posterior fusión. La llamada traducción intertextual ha estado presente en nuestras vidas desde disímiles e influyentes obras como los cuentos de Andersen, El origen de las especies de Darwin, la Biblia o Principia mathematica de Newton, El Príncipe de Maquiavelo, El contrato social de Rousseau o El Capital de Marx, hasta los llamados actualmente best sellers como el de Harry Potter de J. K. Rawlling. El proceso traductivo está tan asimilado y resulta tan «normal» en nuestro globalizado y mediatizado mundo que es raro notarlo en los doblajes y los subtítulos que se realizan, por ejemplo, para programas y películas extranjeros.

Sin embargo, siendo una actividad de tal relevancia, sorprenderá la poca literatura en español que aborda en exclusiva el tema, sin que tenga que estar adscrito o supeditado a otras disciplinas como la literatura, la psicología, la semiología, etc. Es en este marco que obras como la que nos presenta Bruno Osimo resultan reveladoras para enmarcar los esfuerzos que, a lo largo de las épocas, las disciplinas y los pensamientos, se han vertido para comprender el fenómeno y el proceso.

Bruno Osimo proporciona una colección de variados y disímiles personajes, antiguos y contemporáneos, que, por sus reflexiones, él considera relevantes para relatar una historia de la traducción. El libro fue publicado originalmente en Italia, en 2002, bajo el título original de Storia della traduzione; luego, la obra fue traducida del italiano por M. Cristina Secci y publicada recientemente en español, en 2012. La obra posee ocho capítulos, una nota de la traductora, un prefacio y un útil glosario al cual remitirse. Para cada capítulo el autor proporciona una generosa bibliografía, lo cual indica una buena revisión de la documentación existente y permite también que el lector ahonde posteriormente en la materia.

El autor advierte en el prefacio que el libro «no fue concebido para ser completo ni objetivo», puesto que su selección de autores fue realizada de manera parcial en función de su propio bagaje y experiencia. Asimismo, justifica la presencia de varios semióticos y psicólogos dada la importancia que tienen la significación y el componente psíquico en el proceso traductivo. Ya desde aquí el autor presenta una definición de la traducción como «un proceso que contempla la presencia de un prototexto y un metatexto», definición que, como él mismo dice, pretende alejarse de una más simple: de «texto de salida» y «texto de llegada».

Siendo la historia el tema principal del libro, en el primer capítulo, bajo el título de «Concepción de la historia de la traducción», el autor expone los aprietos para construir tal historia puesto que, a pesar de su independencia como disciplina, la historia de la traducción ha estado ligada a la de la filosofía, la semiótica, la psicología, la lingüística, entre otras disciplinas afines; todo lo cual conlleva distintas expectativas y enfoques. No obstante, la historia de la traducción debiera conectar aspectos temporales de los textos traducidos y de la teoría y el metalenguaje generados sobre la actividad traductiva y la traducción.

En el segundo capítulo, «De la Biblia al Humanismo», se exponen autores importantes como Platón, Aristóteles, Cicerón, entre otros. Ya se esbozan en varios de ellos conceptos como el de símbolo, signo, objeto, interpretante, que más tarde formarán parte fundamental del pensamiento semiótico. También en términos prácticos se tratan problemas relevantes para el acto traductivo como la polisemia, el problema de los equivalentes lingüísticos, la dominante del texto y los residuos, el lector modelo y la interpretación, que ya en épocas posteriores se tratarán con mayor detalle. También ya se advierten pensamientos prescriptivos sobre lo que debe ser una «buena» traducción.

En el tercer capítulo, «De la Reforma a la Revolución Francesa», encontramos pensadores fundamentales como Lutero, Bacon, Cervantes, Descartes, Hobbes, Locke, Kant, entre varios más. Muchos de ellos esbozan conceptos novísimos como el de isomorfismo y anisomorfismo del lenguaje y también evidencian precoces referencias a conceptos de la semiótica; pero los hay también que exponen el deber ser de la traducción o sus tipologías. Se advierte ya en algunos de ellos la visión de que la traducción es un instrumento de intercambio cultural pues implica una decisión y una estrategia para integrar un texto ajeno a una cultura propia. En tal sentido, Lutero tiene una posición importante en la historia al traducir la Biblia del latín al alemán vulgar, lo cual le valió la ira de la Iglesia. Pero como Lutero lo indica

No hay que solicitar a estas letras latinas cómo hay que hablar el alemán, que es lo que hacen esos burros; a quienes hay que interrogar es a la madre en la casa, a los niños en las calles, al hombre corriente en el mercado, y deducir su forma de hablar fijándose en su boca. Después de haber hecho esto es cuando se puede traducir: será la única manera de que comprendan y de que se den cuenta de que se está hablando con ellos en alemán (p. 48).

En contraste, hay autores como Cervantes que cuestionan la relevancia y validez del traductor y de su traducción a lenguas vulgares:

[…] me parece que el traducir de una lengua en otra, como no sea de las reinas de las lenguas, griega y latina, es como quien mira los tapices flamencos por el revés; que aunque se ven las figuras, son llenas de hilos que las oscurecen, y no se ven con la lisura y tez de la haz; y el traducir de lenguas fáciles, ni arguye ingenio ni elocución, como no le arguye el que traslada ni el que copia un papel de otro papel (p. 52).

En el cuarto capítulo, «El siglo XIX», el autor recorre varios autores del Romanticismo quienes van un tanto en oposición con la concepción del mundo de la «Ilustración racionalista y enciclopedista». En este apartado se muestra las reflexiones de pensadores como Friedrich Scheleiermacher, Madame de Sataël, Humboldt, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, entre muchos más. En varios de los autores la traducción se observa como un enriquecimiento mutuo de las lenguas y las culturas y también como una experiencia afectiva entre el lector y el traductor. Otros autores nos enfrentan a dilemas prácticos como en qué grado deberían ser modificadas las obras y adaptarlas a la cultura de llegada, también sobre el énfasis del traductor en la armonía y musicalidad de un poema en desmedro de su precisión, o la decisión de dejar notas aclaratorias o dejar el proceso de desambiguación al lector y privilegiar la fluidez del texto. Nos llevan también a reflexionar sobre la imposibilidad de conseguir una traducción textual y en la imposibilidad de lograr el mismo efecto que el escrito habría tenido en su lengua original, en parte debido a la falta de equivalencia lingüística.

Para Osimo requieren atención especial los descubrimientos de Charles S. Pierce y de Sigmound Freud que, aunque alejados de la lingüística, han contribuido enormemente al progreso actual de la ciencia de la traducción. Es por ello que reseña a estos dos únicos autores en el quinto capítulo denominado de modo familiar y simple como «Peirce y Freud». Peirce, dentro de la disciplina de la lógica, funda la semiótica moderna y, si bien no se pronuncia directamente por la traducción interlingüística, serán muy útiles sus conceptos para enmarcar teóricamente el procedimiento por el cual es posible deducir el significado de un signo (un proceso traductivo, de hecho). Del mismo modo con Freud, padre del psicoanálisis y la psicoterapia, el autor encuentra paralelismos en el proceso traductivo al realizar el inconsciente labores de decodificación de signos, pero también en la actividad de la traducción de los sueños, en tanto son códigos y representaciones del yo.

El sexto y séptimo capítulos son los dos más extensos del libro y en estos Osimo dedica bastante esfuerzo de revisión de autores más cercanos a nuestra época. Los títulos de ambos capítulos son descriptivos de su contenido: «Traductores, escritores, lingüistas del siglo XIX» y «Psicólogos, filósofos, semiólogos del siglo XX». Y es aquí donde desfilan importantes personajes de las más variadas disciplinas y escuelas, quienes abordan temas, otra vez, muy variados como el asunto de la posibilidad o no de preservar en una traducción la musicalidad y la belleza original de una poesía, el tema del detalle y la precisión en la traducción o la generalización, los afanes y dilemas de un traductor para hallar la traducción precisa, el grado de traducibilidad de una lengua, el grado de deslizamiento semántico para preservar metáforas. Pero también son reseñadas las relevantes aportaciones en lingüística y semiología de Saussure y también las de filósofos de la talla de Wittgenstein, Heidegger y Gadamer.

De la enorme colección de autores reseñados en estos dos capítulos llama, por ejemplo, la atención el concepto de traducción de Octavio Paz:

Aprender a hablar es aprender a traducir; cuando el niño pregunta a su madre por el significado de esta o aquella palabra, lo que realmente le pide es que traduzca a su leguaje el término desconocido. La traducción dentro de una lengua no es, en este sentido, esencialmente distinta a la traducción entre dos lenguas, y la historia de todos los pueblos repite la experiencia infantil (p. 149).

En el marco de la referencia que hace el propio Paz a Richard Pierce, hablando del concepto y la definición de «efectos análogos», Bruno Osimo reflexiona:

Cada lectura es una traducción, cada crítica es interpretación, y la diferencia principal entre autor y traductor está en el paralelismo que, en este último caso, se debe instaurar a fuerza en dos procesos: el autor no siempre sabe a dónde irá a parar, mientras el traductor lo sabe con anticipación, porque su objetivo es «reproducir con medios diferentes efectos análogos» (p. 150).

Por último, en el octavo capítulo, intitulado «La ciencia de la traducción», Bruno Osimo presenta a una diversidad de investigadores occidentales y orientales con contribuciones fundamentales para la construcción formal de una ciencia de la traducción. El autor resalta que aun en la segunda mitad del siglo XX existen autores que ignoran asuntos ya tratados anteriormente y continúan proponiendo hipótesis supuestamente «nuevas», sin embargo, ya se perfila una nueva idea de la traducción gracias a desarrollos innovadores de la teoría sistémica y la teoría semiótica. Es así que en el marco de su reseña a Aleksàndr Davìdovic Švejcer, el autor subraya la complejidad del proceso traductivo y su carácter multifacético determinado por factores tanto lingüísticos como no lingüísticos, y señala que no se trata solo de un acto comunicativo sino de interacción entre dos culturas. Asimismo, en el marco de su reseña a Dinda Gorlée, el autor ofrece una visión dinámica y relativa de una traducción:

La concepción semiótica de la traducción propende hacia una visión más elástica, más efímera, del significado. Por lo tanto, las traducciones interlingüísticas escritas no pueden ser consideradas más que actualizaciones provisorias, fijaciones hipotéticas y desactualizadas de interpretaciones siempre discutibles y que se pueden enriquecer (p. 326).

En verdad, el libro nos ofrece un excelente panorama de los pensamientos que se han vertido sobre la traducción y su proceso. Sin embargo, debido a la gran cantidad de autores reseñados (165 en total), se extraña una reflexión final que permita –quizás ilusoriamente– aglutinar la enorme variedad de enfoques y perspectivas. Una vez avanzado el libro, el lector puede sentirse abrumado por al número de autores y por la sensación de redundancia en los pensamientos o en los múltiples lugares comunes. No obstante, esto mismo ilustra un punto del autor: la complejidad y sofisticación alcanzadas por la ciencia de la traducción pero que es, todavía, un proceso en cierne.

Las perspectivas esbozadas pueden muy bien enmarcar nuestras cotidianas actividades de traducción no solo intertextual o interlingüística sino también intercultural, en el contexto de nuestra «maldición babélica»; sin embargo, dejaré la estafeta traductora-interpretativa al próximo lector del texto de Bruno
Osimo.

Michele Valcarenghi, Magda Talamini, Herinneringen aan mijn jeugd: fragmenten uit Dizionario affettivo della lingua ebraica van Bruno Osimo

Herinneringen aan mijn jeugd: fragmenten uit Dizionario affettivo della lingua ebraica van Bruno Osimo

MICHELE VALCARENGHI

Fondazione Milano

Milano Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatrice: professoressa MAGDA TALAMINI

Diploma in Mediazione Linguistica

Estate 2014

© Hoepli, Milano, 2001 per i testi citati

© Marcos y Marcos, Milano, 2011 per i testi citati

© Michele Valcarenghi per l’edizione italiana, 2014

ABSTRACT

ABSTRACT IN ITALIANO

Viene presentata la traduzione nederlandese di alcune voci del Dizionario affettivo della lingua ebraica di Bruno Osimo. Con l’ausilio del modello macrostrutturale di Torop vengono quindi analizzate le scelte traduttive più rilevanti emerse durante la resa metatestuale. Metatesto che riesce a mantenere la musicalità e la quasi totalità dei rimandi intratestuali, nonostante si sia reso necessario l’inserimento di un ampio apparato di note dovuto alle differenze tra la cultura emittente e quella ricevente.

Parole chiave: traduzione, voci, nederlandese, modello macrostrutturale, note

ENGLISH ABSTRACT

A Dutch translation of a selection of entries from Dizionario affettivo della lingua ebraica by Bruno Osimo is examined. The salient translation choices have been analysed on the basis of Torop’s top-down model. The musicality and most of the intertextual references have been preserved in the Dutch translation; however, due to the cultural differences between the source and target reader models, a set of explanatory notes have been worked into the target text.

Tags: translation, entries, Dutch, top-down model, notes

SAMENVATTING

Hier volgt de Nederlandse vertaling van enkele trefwoorden uit de Dizionario affettivo della lingua ebraica van Bruno Osimo. Door het gebruik van het macrostructurele model van Torop worden de belangrijkste vertalingskeuzes geanalyseerd die tijdens het vertalingsproces naar voren zijn gekomen. Deze vertaling heeft de muzikaliteit van het origineel en bijna alle interne verwijzingen behouden. Het is echter noodzakelijk gebleken een aanzienlijk aantal noten in te voeren, teneinde de culturele verschillen tussen de uitzendende en ontvangende cultuur te overbruggen.

Sleutelwoorden: vertaling, trefwoorden, Nederlands, macrostructurele model, noten

SOMMARIO

· ABSTRACT 1

· SOMMARIO 2

· PREFAZIONE 3
Il modello macrostrutturale di Torop 3

· ANALISI DELLA TRADUZIONE DELLE VOCI ‘MAMMESE
(O TAMPÒNICO)’, ‘MASCHIO’ E ‘CAMPI’
DEL DIZIONARIO AFFETTIVO DELLA LINGUA EBRAICA
DI BRUNO OSIMO 4

– Dominante, sottodominanti e lettore modello 4
I rimandi intertestuali 11

I realia 13

I campi espressivi 15

Le espressioni funzionali 18

Il residuo traduttivo 19

Le particolarità del nederlandese 20

Conclusioni 21

· TRADUZIONE DELLE VOCI –
VERTALING VAN DE TREFWOORDEN 23

Mammese (o Tampònico) – Mammaans (of Zeefjenees) 23
Maschio – Mannen 33
Campi – Kampen 43

Note al testo italiano 48

Noten bij de Nederlandse tekst 48

· RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 50

· BIBLIOGRAFIA 50

· RINGRAZIAMENTI 51

PREFAZIONE

L’analisi traduttologica che segue, relativa a tutto il testo tradotto, si concentra sulle più rilevanti particolarità incontrate nella traduzione verso il nederlandese. È stato scelto come riferimento il modello macrostrutturale di Torop.

Il modello macrostrutturale di Torop

L’individuazione della dominante, delle sottodominanti e del lettore modello sono il punto di partenza dell’analisi secondo il modello macrostrutturale di Torop (conosciuto anche come metodo cronotopico o metodo top-down). Il passo successivo consiste nell’individuazione delle parole chiave del testo per poter così determinare la macrostruttura sulla quale questo si regge e gli elementi linguistici che lo costituiscono. Gli elementi linguistici costituenti sono:

  • i rimandi intertestuali e i realia, elementi che mettono in relazione il testo e i suoi elementi culturali, con altri testi e culture;

  • i campi espressivi, che consistono nella ripetizione di frasi, parole, locuzioni e forme grammaticali; non si tratta di rimandi interni ma sono caratteristiche dell’espressività dell’autore;

  • le espressioni funzionali, parole posizionate in modo strategico all’interno del testo per collegare zone fisicamente distanti tra loro, creando in questo modo i cosiddetti rimandi intratestuali;

  • le parole concettuali, che esprimono concetti d’importanza fondamentale per il testo;

  • i deittici, parole che riflettono un rapporto individuale dell’autore nei confronti della situazione narrata.

Prototesto e metatesto vengono analizzati al fine di verificare in quale misura gli elementi individuati sono stati mantenuti nella traduzione, e quali invece generano un residuo traduttivo.1

ANALISI DELLA TRADUZIONE DELLE VOCI ‘MAMMESE (O TAMPÒNICO)’, ‘MASCHIO’ E ‘CAMPI’ DEL DIZIONARIO AFFETTIVO DELLA LINGUA EBRAICA DI BRUNO OSIMO

Dominante, sottodominanti e lettore modello

La dominante del testo è rappresentata dal significato che le singole voci – in senso lato – del dizionario hanno avuto nella vita dell’autore. Un significato che viene presentato attraverso il racconto di diverse esperienze relative alla sua infanzia. A questo proposito è molto importante il modo in cui l’autore le racconta. Il suo stile è caratterizzato da un singolare uso della punteggiatura, troviamo infatti periodi molto lunghi dove la scarsità di interpunzione rende la lettura poco agevole, ed elenchi dove le virgole sono state volutamente tralasciate.
Oltre al significato delle voci, è parte integrante della dominate anche la manipolazione della lingua. L’autore prende spesso un guscio sintattico e/o semantico del tutto normale e vi inserisce un nocciolo sintattico/semantico alieno. Sovverte la lingua senza però sfuggirle completamente; è anticonvenzionale all’interno di certe convenzioni. Analizzando più specificatamente le voci che sono state tradotte, che da un punto di vista teorico rientrano nella categoria delle parole concettuali, troviamo parole come «mammese» e «tampònico», parole che non esistono in italiano e la cui traduzione in una qualsiasi lingua si rivela complessa ma avvincente al tempo stesso. Con «mammese (o tampònico)»2 l’autore si riferisce alla lingua parlata dalla madre. Una lingua dove la realtà viene attenuata, addolcita, filtrata, tamponata. «Tampònico» deriva proprio da «tampone». Nella traduzione in nederlandese sono riuscito a mantenere la radice del primo nome di questa lingua creando «Mammaans». In nederlandese «mamma» si dice «mama» o «mam». Nel conio dell’autore ritroviamo il suffisso -ese, comunemente utilizzato in italiano per la formazione del nome delle lingue; pensiamo ad esempio a «francese», «cinese» e allo stesso «nederlandese». Nella creazione di «Mammaans» si è tenuto conto del suffisso -aans, spesso usato in nederlandese per indicare il nome delle lingue; pensiamo a «Italiaans», «Spaans» e «Afrikaans».
Relativamente a «tampònico» la traduzione è stata molto più complessa. «Tampon», che in nederlandese significa per l’appunto «tampone» ha come prima accezione quella di assorbente femminile, che poco si presta per descrivere quello che l’autore intende dire. Tra gli aggettivi usati in precedenza per descrivere la lingua «mammese» abbiamo usato «filtrata». L’idea di un filtro mi ha portato a «zeef» (setaccio) e da qui a «Zeefjenees». In nederlandese un altro suffisso usato per il nome delle lingue è -ees; pensiamo a «Chinees» e «Portugees». È stato poi usato un diminutivo di «zeef», «zeefje» per rendere «Zeefjenees» una parola quasi naturale per un parlante nederlandese e con un significato che non lascia spazio a fraintendimenti. Con «Mammaans» si è mantenuta la radice italiana, con «Zeefjenees» la si è cambiata, ma il principio morfologico resta identico. Il passo che segue è molto interessante per vedere come si è risolta la questione dell’etimologia di «tampònico»:

«Più che una lingua, è una difesa. È uno smorzamento, un ammosciamento. È un’attenuazione. È un materasso, un respingente, un tampone: l’etimo del secondo nome di questa lingua – tampònico – è incerto, ma molti studiosi propendono per l’attribuzione proprio a questo effetto di tamponamento di qualsivoglia componente affettiva di coinvolgimento».3

«Het is eerder een verdedigingsmechanisme dan een taal. Het is een matiging, een verslapping. Het is een vermindering. Het is een matras, een stootkussen, een zeef. De etymologie van de tweede naam van deze taal – Zeefjenees – is onzeker, maar vele onderzoekers wijzen de naam toe aan een zeef waardoor alle betrekkingen en emoties worden gegoten».

La questione è stata risolta utilizzando l’immagine di un setaccio attraverso il quale passano, vengono filtrati, setacciati tutti i rapporti e le emozioni. Solo quelli più fini, leggeri riescono a passare e a raggiungere l’autore.

La seconda voce tradotta è «maschio»4. In nederlandese non esiste un traducente esatto per questa parola; «mannelijk» può sembrare simile dal punto di vista visivo e sonoro però si tratta di un aggettivo. Di conseguenza si è optato per «mannen» che tradotto letteralmente significa «uomini». Dato che i protagonisti di questa voce sono l’autore e il padre, entrambi alle prese con questioni da maschi, da uomini, il sostantivo «mannen» mi è sembrata la scelta più adatta per la voce «maschio».

La terza voce tradotta è «campi»5. Per la traduzione in nederlandese è indispensabile prendere in considerazione il campo semantico della parola «campo»; termine che in italiano ha assunto una grandissima varietà di accezioni e usi. Di seguito ne elencherò solo alcuni. Un «campo» può essere uno spazio di terreno destinato alla coltivazione, un luogo dove si fanno esercitazioni militari, un terreno dove si svolgono le gare e gli incontri di vari sport, un accampamento (militare o meno), un recinto con costruzioni di vario genere dove vengono raccolte delle persone. È proprio quest’ultima accezione quella cui dobbiamo fare riferimento. La traduzione immediata in nederlandese è «velden» che però ha un campo semantico diverso rispetto alla voce italiana. Il termine che è stato scelto, «kampen», risponde perfettamente alle nostre esigenze, oltre ad assomigliare molto alla parola italiana. Non dobbiamo però dimenticare che, a differenza dell’italiano, il campo semantico di «kampen» non comprende alcun riferimento all’agricoltura o a luoghi dove si svolge un’attività sportiva, in questi casi si utilizza il sopracitato «velden». All’interno della traduzione, «velden» è stato usato nel passo che segue, quando si fa riferimento alla posizione della casa delle vacanze:

«Da bravo clandestino in una famiglia di clandestini, tutto era stato calcolato con precisione: la casa acquistata sull’angolo, in alto, al confine con i campi, in modo da essere vicini al Giacomo (che potava l’ulivo) e alla Nina (che ci dava le uova), e da poter partire senza fare rumore di shabàt senza svegliare il rabbino»6.

«Als perfecte illegaal in een familie van illegalen werd alles tot in het kleinste detail berekend: men kocht een hoekhuis hoog op de helling aan de rand van de velden zodat we dicht bij Giacomo waren (die de olijvenboom afsnoeide) en bij Nina (die ons eieren gaf), en zo konden we op sjabbat geluidloos vertrekken zonder de rabbijn wakker te maken».

La prima delle sottodominanti è sicuramente rappresentata, riprendendo quanto già anticipato in precedenza, dagli effetti sortiti dal particolare uso della punteggiatura nel testo. Una punteggiatura che vuole trasmettere l’idea di un flusso continuo e costante di pensieri. In molti casi, quando ci aspettiamo un punto, troviamo un virgola, e di conseguenza i periodi diventano molto lunghi. In nederlandese, lingua che si caratterizza per periodi brevi e concisi è stato molto difficile, se non in qualche raro caso, mantenere le stesse scelte di punteggiatura dell’autore. Periodi particolarmente lunghi, ma nonostante tutto comprensibili in italiano, sono stati spezzati in nederlandese perché il rischio di incomprensioni e fraintendimenti da parte del lettore nederlandofono era troppo alto. Di seguito viene riportato un paragrafo della voce ‘maschio’ in italiano e la sua traduzione in nederlandese:

«Dopo il giornalaio, scendevamo a piedi sul selciato lucido e scuro, a passi lenti, con i piedi in fuori da turisti, stando attenti a non scivolare perché era davvero lucido, e i sandali erano quello che erano, e passavamo accanto al negozio sulla sinistra che più tardi, in orario da turisti normali, metteva fuori una cesta enorme, tutta piena di bottigliette piccole, finti fiaschetti grandi come boccettine di profumo contenenti vini raccapriccianti dolcissimi, Lachrima Christi e altre miscele ottenute con acqua alcol zucchero aromi naturali coloranti, che una volta lo zio Arturo, generoso, mi ha comprato, litigando con papà, però bisognava berlo poco poco alla volta, mettere solo una goccia sulla lingua e poi basta per un po’, senza esagerare, che in mammese voleva dire “fra un mese controllo se ce n’è ancora”»7.

«Na bij de krantenkiosk te zijn geweest liepen we langzaam op het blinkende en donkere plaveisel met onze voeten die uitstaken zoals toeristen meestal doen. We zorgden ervoor om niet uit te glijden, omdat het plaveisel echt glibberig was en de sandalen niet echt slipvast. We liepen langs de winkel aan de linkerkant die later, wanneer de echte toeristen op straat liepen, een grote mand buitenzette vol met heel kleine flesjes, nep mandflesjes net zo groot als parfumflesjes met vreselijk zoete wijnen erin, Lachrima Christi en andere mengsels gemaakt van water alcohol suiker natuurlijke aroma’s kleurstoffen. Oom Arturo, die gul was, had eens één van die flesjes voor me gekocht, na ruzie te hebben gemaakt met papa, en ik mocht die wijn beetje bij beetje drinken. Ik mocht maar één druppel per keer op mijn tong laten vallen en daarna niets meer, zonder te overdrijven, wat in het Mammaans betekende: “over een maand controleer ik of er nog wijn in het flesje zit”».

Nel testo italiano l’intero paragrafo è costituito da un periodo ininterrotto, mentre la traduzione nederlandese è divisa in ben cinque periodi.
Come abbiamo detto, periodi particolarmente lunghi sono inusuali in nederlandese. L’uso del punto e virgola (;) è quasi completamente assente nei testi letterari e anche la lineetta (-) non ricorre spesso come in inglese. La traduzione riportata sopra è da preferire, ma esiste anche la possibilità di sostituire tutti i punti con le lineette. In questo modo l’intero passo resta composto da un solo periodo e si mantengono i vantaggi di maggior comprensione che la precedente divisione in più periodi aveva garantito. Di seguito vediamo come apparirebbe il sopracitato passo con l’applicazione delle scelte appena descritte:

«Na bij de krantenkiosk te zijn geweest liepen we langzaam op het blinkende en donkere plaveisel met onze voeten die uitstaken zoals toeristen meestal doen – we zorgden ervoor om niet uit te glijden, omdat het plaveisel echt glibberig was en de sandalen niet echt slipvast – we liepen langs de winkel aan de linkerkant die later, wanneer de echte toeristen op straat liepen, een grote mand buitenzette vol met heel kleine flesjes, nep mandflesjes net zo groot als parfumflesjes met vreselijk zoete wijnen erin, Lachrima Christi en andere mengsels gemaakt van water alcohol suiker natuurlijke aroma’s kleurstoffen – oom Arturo, die gul was, had eens één van die flesjes voor me gekocht, na ruzie te hebben gemaakt met papa, en ik mocht die wijn beetje bij beetje drinken – ik mocht maar één druppel per keer op mijn tong laten vallen en daarna niets meer, zonder te overdrijven, wat in het Mammaans betekende: “over een maand controleer ik of er nog wijn in het flesje zit».

Altro ottimo esempio a questo riguardo è rappresentato dal lungo elenco di lavori domestici che l’autore ha appreso durante l’adolescenza: «Poi da adolescente ho imparato a fare ogni genere di lavoro domestico: elettricista idraulico falegname muratore imbianchino»8. In questo caso però è stato possibile mantenere la punteggiatura dell’autore in quanto non intaccava la comprensione del metatesto: «Later, als puber, leerde ik alle huishoudelijke klussen: elektricien loodgieter timmerman metselaar huisschilder».

Altre sottodominanti sono il suono e le differenze di registro. Per quanto riguarda il suono pensiamo ad esempio alla frase detta dalle suore alla zia Argìa: «sia lodato Gesù Cristo»9 e quello che la zia, quasi del tutto sorda, effettivamente capisce: «l’ha mandata il macchinista?»10. Nella traduzione in nederlandese, grazie a una piccola modifica, si è ottenuta una rima perfetta: «geprezen zij de Heer» (sia lodato il Signore) e «stuurt de machinist u weer?» (l’ha mandata di nuovo il macchinista?). Altro interessante esempio è l’allitterazione «parametro paradigmatico di qualsiasi percezione»11 dove l’autore gioca con i suoni ‘par’ ‘par’ ‘per’. Per esprimere il concetto sarebbe bastato usare «parametro», ma l’autore ha scelto appositamente di esprimerlo con ironia per farlo diventare, secondo le sue stesse parole: «scientific-pomposo-bombastic». Nella traduzione in nederlandese «paradigmatische parameter van alle percepties» è stato possibile mantenere sia l’allitterazione sia il significato. Questo stesso esempio si presta perfettamente anche dal punto di vista delle differenze di registro. Possiamo, ad esempio, contrapporlo alla scena dove l’autore protesta con la madre su quanto un nuovo paio di scarpe somigli, o meno, a quello che lui vorrebbe acquistare:

«Al che io obbiettavo che erano diversissime, perché queste hanno una cucitura intorno, e sono marrone chiaro, e hanno il tacco di cuoio»12.

«Ik stribbelde tegen en zei dat die totaal anders waren, omdat deze een stiksel eromheen hadden, en licht bruin waren, en een leren hak hadden».

Sia nell’italiano sia nella traduzione nederlandese notiamo una certa insistenza nell’uso dei verbi quando l’autore cerca di far capire alla madre quanto le scarpe siano, in realtà, diverse tra loro. Il periodo preso in considerazione rappresenta anche un ottimo esempio di quelli che, sotto il profilo teorico, si definiscono campi espressivi. Questa ripetizione verbale è tipica di un bambino che si intestardisce e non la si può certo definire una scelta di registro alto, a maggior ragione se la confrontiamo con l’allitterazione presa ad esempio.

Il lettore modello del prototesto può essere una qualsiasi persona che riesca a non farsi tradire dal titolo dell’opera, non si tratta infatti di un vero e proprio dizionario ma di un romanzo che racconta l’infanzia dell’autore e la vita all’interno di una famiglia italiana con origini ebraiche negli anni’60. Il lettore modello del metatesto invece, potrebbe essere un nederlandofono interessato ad approfondire la storia di un italiano con un retroterra culturale e religioso atipico. Resta poi la possibilità che sia il lettore del metatesto sia quello del prototesto, conoscano Bruno Osimo attraverso altre pubblicazioni di carattere tecnico, e decidano di approfondire la loro conoscenza dell’autore.

I rimandi intertestuali

Prima di iniziare ad analizzare i rimandi intertestuali è interessante notare come l’autore ne abbia inseriti molti in tutta l’opera segnalandoli però come [nota del traduttore]. Chiaramente l’autore si considera un traduttore dal mammese (o tampònico) verso l’italiano. Dato che, traducendo verso il nederlandese, si è reso necessario inserire alcune note a spiegazione di rimandi – e realia – che l’autore considera scontati per il lettore del prototesto, quelle che l’autore chiama [nota del traduttore] saranno riportate nel testo in nederlandese con carattere corsivo [noot van de vertaler] (nota dell’autore), mentre le note che sono state aggiunte traducendo verso il nederlandese saranno segnalate in grassetto [noot van de vertaler] (nota del traduttore).

Sono inoltre da segnalare ripercussioni sull’apparato delle note a piè di pagina dei testi tradotti; ripercussioni che si sono create a causa dell’impaginazione. Infatti, i testi nelle due lingue, sono stati impaginati in due colonne, in maniera tale che ogni frase in italiano abbia nella colonna a fianco l’equivalente nederlandese. Per questo motivo è stato necessario intervenire sull’apparato delle note a piè di pagina eliminandole e raccogliendole, mantenendo sempre la distinzione per lingua, tutte insieme in una pagina alla fine della traduzione. Le note del prototesto verranno indicate con numeri romani, mentre quelle del metatesto attraverso numeri arabi.

Come anticipato, nel testo troviamo diversi rimandi intertestuali in forma di citazioni di altre opere letterarie, cinematografiche o musicali. Limiteremo l’analisi ai rimandi intertestuali non previsti dall’autore ma resisi necessari nella traduzione nederlandese.

Nel prototesto troviamo: «Le donne dovevano essere modeste, come diceva Manzoni»13. Probabilmente non tutti i lettori italiani sapranno che si tratta di una citazione dal primo capitolo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni, ma sicuramente capiranno di chi si sta parlando dato che Manzoni è uno dei pilastri di tutti i corsi di letteratura italiana nelle nostre scuole. Per il lettore del metatesto invece, questo collegamento non è spontaneo. Difficilmente un nederlandofono medio ha mai sentito parlare di Alessandro Manzoni; di conseguenza si rende indispensabile l’inserimento di una nota del traduttore: «Citaat uit het eerste hoofdstuk van I promessi sposi (De verloofden) geschreven door Alessandro Manzoni (1785 – 1873) een Italiaans dichter en romanschrijver» (citazione dal primo capitolo de I promessi sposi, scritto da Alessandro Manzoni, 1785 – 1873, poeta e scrittore italiano).

Ciò che nel prototesto può sembrare ovvio non sarà per forza altrettanto nel metatesto. La questione può infatti essere affrontata anche con un approccio completamente diverso. Anziché mantenere (o addirittura ampliare) a tutti i costi un rimando intertestuale, esasperando il lettore del metatesto, è possibile decidere di eliminarlo purché questo non comprometta il prototesto. A titolo di esempio, analizziamo com’è stato affrontato il seguente rimando: «“Guarda i muscoli del” macellaio!»14. L’autore ha inserito una nota a piè di pagina rimandando a una canzone di De Gregori dal titolo I muscoli del capitano. Dato che l’eliminazione di questo rimando non compromette in alcun modo il prototesto, si è deciso di tradurre con: «Kijk naar de spieren van de slager!» (guarda i muscoli del macellaio) senza però inserire alcuna indicazione relativa al rimando intertestuale. Si genera in questo modo quello che, dal punto di vista teorico, si definisce un residuo traduttivo.

La citazione de Le nozze di figaro nella voce «mammese» rappresenta un esempio di rimando intertestuale molto particolare: «“A ubbidirvi, signor, son già disposto”. Emmanuel Conegliano, Le nozze di Figaro, atto primo, scena quarta»15. Anche se il librettista dell’opera in questione cambierà il suo nome in Lorenzo Da Ponte, l’autore decide di usare il nome precedente, Emmanuel Conegliano, dal quale si evince la possibile provenienza da una famiglia ebraica. Per conservare intatta tutta questa serie di rimandi, si è deciso di mantenere la citazione in lingua italiana anche nella versione nederlandese, scelta che si giustifica ulteriormente se consideriamo che le opere liriche, in genere, non vengono tradotte. È stata comunque inserita, nelle note, una traduzione della citazione per renderla fruibile a qualsiasi lettore del metatesto: «mijnheer, ik ben al gereed u te gehoorzamen».

I realia

Per quanto riguarda i realia, alcuni tra i più interessanti sono relativi alla cultura gastronomica italiana: «culatello» e «tortelli alla piacentina»16 non hanno un equivalente nederlandese, motivo per cui sono stati mantenuti in lingua italiana e sono stati spiegati con una breve nota; nello specifico: «een soort Italiaanse vleeswaren» (un tipico affettato italiano) e «een soort tortellini uit de provincie Piacenza» (un particolare tipo di tortellini tipici della provincia di Piacenza).

Altro particolare realia: «Dopo il barbiere arrivavamo al bar, dove papà prendeva il caffè, quello con la leva»17 che si riferisce ad un caffè preparato mediante una particolare macchina espresso dotata di una leva manuale. In questo caso si è optato per la versione nederlandese di «leva» ovvero «hefboom»: «Na de kapper gingen we naar het café waar papa een espresso bestelde, die met een apparaat met een hefboom werd gemaakt» (dopo essere stati dal barbiere andavamo al bar, dove papà prendeva un caffè, quello fatto con una macchinetta azionata da una leva); è stata poi inserita una nota in corrispondenza di «hefboom» spiegando brevemente in che cosa consistesse questa particolare macchina da caffè.

Interessante anche il caso seguente: «I turisti tedeschi ne andavano pazzi, perché nei loro inverni titanici guardando quel segno potevano pensare tutto il tempo all’Italia e al bagno e al caldo e alle camere zimmer.»18. Mi riferisco alla questione delle «camere zimmer». Nelle località di villeggiatura italiane, capita spesso di vedere cartelli con scritto «camere-rooms-zimmer», che indicano la possibilità di affittare una camera. Probabilmente l’autore, da piccolo, sarà rimasto molto sorpreso da questo particolare termine proveniente dalla lingua tedesca – Zimmer – e potrebbe aver deciso di usare questi due sostantivi, uno a fianco dell’altro per enfatizzare il concetto. In nederlandese si sono mantenuti entrambi i sostantivi, ma dato che per il lettore del metatesto sarebbe stato difficile capire la ragione di una simile scelta, si è segnalato in una nota l’ipotetico motivo: «In het Duits is ‘Zimmer’ een kamer. In vele Italiaanse toeristische plekken vindt men borden op straat met ‘camere-rooms-zimmer’ geschreven. Zo’n bord wordt gebruikt om verblijfsfaciliteiten aan te geven die te huur staan voor toeristen. De auteur heeft ‘Zimmer’ samen met ‘kamer’ gebruikt om zijn idee sterker over te dragen».

Ancora due realia che non possono sfuggire alla nostra analisi: il riferimento a «il Corriere» e «Topolino»19. In entrambi i casi si è ritenuto opportuno segnalare, all’interno di una nota, alcune informazioni indispensabili al lettore del metatesto per comprendere i due riferimenti. Relativamente a Il Corriere: «Il Corriere della Sera in 1876 opgericht, is een van de grootste Italiaanse kranten met een oplage van ca. 700.000 exemplaren» (Il Corriere della Sera, fondato nel 1876 è uno dei principali giornali italiani con una tiratura di circa 700.000 copie). Nei Paesi Bassi esiste una versione locale di «Topolino» alla quale si è fatto riferimento nella nota esplicativa: «Een wekelijks verschijnend Italiaans tijdschrift met stripverhalen van Walt Disney-figuren. Vergelijkbaar met de Nederlandse Donald Duck» (Una rivista settimanale con storie a fumetti dei personaggi Walt Disney. Paragonabile a «Donald Duck» nei Paesi Bassi).

I campi espressivi

Nel prototesto troviamo: «ingegneressa»20, parola che non esiste e che viene creata dall’autore rispettando però le regole morfologiche di formazione di una parola femminile. Ennesima dimostrazione che Osimo riesce a essere anticonvenzionale all’interno di certe convenzioni. Per la traduzione in nederlandese ci si è comportati esattamente come l’autore, attenendosi quindi alle regole di formazione di un sostantivo femminile partendo da uno maschile: «ingenieuresse».

Altro interessante esempio è costituito dall’espressione «marrone topo»21 usata per riferirsi al colore dei sandali del padre. L’autore si ispira a un colore esistente, il «grigio topo», per creare una metafora originale. Per analogia, nella traduzione ci si è comportati allo stesso modo, ispirandosi all’esistente «muisgrijs» (grigio topo) si è quindi creato: «muisbruin».

L’uso, nel prototesto, dell’espressione inglese «downtown»22 per riferirsi al viaggio dell’autore e di suo padre verso il paese per le spese del sabato mattina, crea un piacevole effetto ironico. Normalmente, infatti, l’espressione viene usata nel contesto di città e non di paese23. Questa scelta è interessante e perfetta se consideriamo che la casa delle vacanze si trova in alto rispetto al paese, di conseguenza, per raggiungerlo devono necessariamente scendere”, raggiungere la «downtown». Utilizzando la stessa parola inglese è stato possibile mantenere quest’effetto anche in nederlandese: «Toen we downtown aankwamen» (quando giungevamo downtown).

Interessante da analizzare, è anche la scelta di scrivere alcune parole con la lettera maiuscola, come vediamo nel seguente passo:

«Continuando a camminare lungo il corso, sulla sinistra si apriva un anfiteatro di case in stile tardofascista delimitato da due vie in salita come rami rampicanti intorno a un Palazzo dalle grandi vetrate, un Palazzo Importante: lì nel grande salone papà si faceva tagliare la barba, eventualmente spuntare quei pochi capelli che aveva intorno alla pelata, e soprattutto i copiosi peli del naso e delle orecchie. A volte – molto di rado per fortuna – anche a me tagliavano i capelli, ma con la macchinetta che faceva male, perché quello era un posto da Maschi, al quale io ero ammesso in via provvisoria, solo perché raccomandato. Avevo firmato un patto col diavolo e non lo sapevo. Quindi non solo non dovevo azzardarmi a piangere quando con la macchinetta mi pizzicavano la pelle della nuca, ma, pur con l’occhio iniettato di lacrima, non dovevo nemmeno dar a vedere che provavo dolore»24.

«Terwijl we door de hoofdstraat bleven lopen verscheen aan de linkerkant een amfitheater van huizen in laat fascistische stijl. Aan de zijden van dat huizenblok waren twee oplopende straten die leken op klimtakken om een Paleis heen met grote ramen, een Belangrijk Paleis: daar in een grote salon liet papa zich scheren, en als het nodig was liet hij ook de haren rond zijn kale kop bijknippen, maar bovenal liet hij zijn overvloedige neus- en oorharen knippen. Soms – en dat gebeurde niet vaak gelukkig – werden ook mijn haren geknipt, maar met een tondeuse die pijn deed, omdat dit een plek voor Mannen was, en ik had hier een voorlopige toegang gekregen alleen omdat ik de juiste connecties bezat. Ik had een pact met de duivel gesloten, maar ik wist het zelf niet. Daarom moest ik meer doen dan niet huilen toen de tondeuse de huid van mijn nek vastgreep, ik moest zelfs met mijn ogen vol tranen niet laten zien dat ik pijn voelde.»

Le lettere maiuscole di «Palazzo Importante» vengono usate per sottolineare quanto quell’architettura sia imponente agli occhi del bambino, consapevole che si troverà faccia a faccia con situazioni più grandi di lui. Quest’ultimo discorso vale anche per «Maschi». Questa scelta è stata mantenuta anche all’interno della traduzione, come possiamo vedere da «Belangrijk Paleis» e «Mannen».

Nel prototesto troviamo anche l”espressione «l’esibizionismo è un morbo che colpisce a macchia di leopardo»25. L’autore usa un’espressione esistente in italiano «a macchia di leopardo» che però non esiste in nederlandese. Le opzioni a disposizione erano due: crearla ex novo in nederlandese od optare per la spiegazione dell’espressione con «op onregelmatige wijze» (in modo irregolare). È stata scelta la prima opzione: «die zich als een luipaardvlek verspreidt» perché penso esprima efficacemente l’idea di qualcosa che colpisce in modo diffuso ma senza uno schema logico o comunque prevedibile.

Nella traduzione della voce «mammese», incontriamo la seguente espressione: «versando fiumi e fiumi di pipì»26. L’autore intende dire che «se la faceva addosso». Approfittando dell’esistenza in nederlandese dell’espressione «in de broek plassen» che ricalca alla perfezione il significato di quella italiana, si è ritenuto opportuno usarla in questo contesto scrivendo: «plaste ik constant in mijn broek» (me la facevo costantemente addosso). Questa scelta si giustifica anche con l’impossibilità di usare lo stesso verbo dall’autore, «versare» (schenken), che rimanda in prima istanza al «servire delle bevande». Si sarebbe quindi creata un’imbarazzante incomprensione sul fatto che l’autore servisse la propria urina a degli ipotetici commensali.

In un passo della voce «maschio» troviamo l’espressione: «quasi senza soluzione di continuità»27. L’autore usa così un’espressione ormai consolidata nel vocabolario italiano per dire «senza interruzione della continuità» e quindi, «continuativamente». In nederlandese non esiste un’espressione simile e di conseguenza si è deciso di tradurla in modo tale da mantenere lo stesso significato di superficie con: «alsof er geen verband was tussen» (come se non ci fosse un legame tra).

Le espressioni funzionali

Relativamente alle espressioni funzionali, uno dei casi più interessanti da analizzare è contenuto nel seguente passo:

«In mammese, ‘vagamente simile’ si dice ‘proprio uguale’: se andavamo a comprare un paio di scarpe, lei diceva che erano proprio uguali a quelle che mi piacevano tanto e che non volevo cambiare. Al che io obbiettavo che erano diversissime, perché queste hanno una cucitura intorno, e sono marrone chiaro, e hanno il tacco di cuoio, ma lei insisteva che erano praticamente uguali. Come se in una disquisizione logica ci fosse spazio per la pratica!»28.

«In het Mammaans zeg je ‘bijna gelijk’, ‘praktisch hetzelfde’. Als we een paar schoenen gingen kopen, zei ze dat deze praktisch hetzelfde waren als die ik eigenlijk leuk vond en die ik eigenlijk wilde hebben. Ik stribbelde tegen en zei dat die totaal anders waren, omdat deze een stiksel eromheen hadden, en licht bruin waren, en een leren hak hadden, maar ze drong aan dat ze praktisch hetzelfde waren. Alsof er in een logische uiteenzetting ruimte zou kunnen zijn voor iets praktisch!».

L’autore gioca con «proprio uguali», «praticamente uguali» e «pratica» intessendo dei rimandi intratestuali. Nella traduzione in nederlandese si è ritenuto opportuno tradurre le tre parole in questione, con lo stesso traducente «praktisch» (praticamente): «praktisch hetzelfde», «praktisch hetzelfde» e «iets praktisch». In questo modo non solo si è mantenuta l’espressione funzionale scelta dall’autore, ma usando un solo traducente, si è anche rafforzato il rimando intratestuale.

Altra espressione funzionale molto interessante la troviamo nel seguente passo:

«In questa famiglia bislacca e tremendamente iniqua, per diventare qualcuno bastava concentrarsi molto intensamente e pensare “ce l’ho solo io, ce l’ho solo io, ce l’ho solo io”; “nemmeno dopo tanto”, tutti ti riconoscevano il titolo»29.

«In deze zotte en vreselijk onrechtvaardige familie moest je laten zien dat je bestond, je heel erg concentreren en denken “ik ben de beste, ik ben de beste, ik ben de beste”. “Niet echt veel later” erkende iedereen je als dé beste».

Nello specifico ci concentriamo su «ce l’ho solo io» e «ti riconoscevano il titolo». La prima espressione viene usata in italiano quando ci si vuole riferire ad una persona altezzosa e boriosa. Nella traduzione, data l’assenza in nederlandese di un traducente specifico si è scelto di trasformarla in «ik ben de beste» (sono il migliore). La seconda espressione è stata tradotta con «erkende iedereen je als dé beste» (ti riconoscevano il titolo di migliore). Con questa scelta si crea un rimando intratestuale più marcato nel metatesto, grazie all’espressione funzionale «de beste».

Il residuo traduttivo

Inevitabilmente la traduzione ha generato un residuo traduttivo, consistente in locuzioni, frasi e rimandi che non è stato possibile mantenere in traduzione, o che si è scelto di eliminare.

Sicuramente il caso più interessante e palese di residuo traduttivo riguarda il seguente passo:

«La mia disperazione non era per il cibo mortale, ma per il cibo celeste (il suo colore preferito) – per difendere la mia analisi logica»30.

«Mijn wanhoop kwam niet voort uit het voedsel voor het lijf maar uit het voedsel voor de ziel – om mijn logische analyse te verdedigen».

«Cibo mortale» e «cibo celeste» sono stati tradotti con «voedsel voor het lijf» (cibo per il corpo) e «voedsel voor de ziel» (cibo per l’anima). In nederlandese non è stato possibile mantenere il riferimento al colore azzurro e, di conseguenza, il riferimento tra parentesi al colore preferito della madre viene meno. Il metatesto riesce a mantenere il suo significato originario pur rinunciando a un piccolo riferimento che comunque non compromette il tessuto semantico dell’opera.

Altro interessante residuo traduttivo è quello dovuto all’omissione del rimando intertestuale alla canzone di De Gregori, già analizzato precedentemente. In questo caso, il residuo si genera a causa di una scelta volontaria.

Altro residuo traduttivo lo troviamo nella seguente frase in dialetto contenuta nella voce «campi»: «Sciùr Colòna, ma cusa l’aspèta a scapa’?»31. La frase viene poi spiegata, con grande ironia, attraverso una nota dell’autore in un italiano molto forbito. «Signor Colonna, invero, che cosa attende prima di porre in fuga la sua famiglia al sicuro?»32. Nella traduzione in nederlandese non avrebbe avuto senso tradurre la frase in un dialetto diverso dall’originale, motivo per cui ci si è limitati a riportarla in nederlandese standard «waar wacht u op om te vluchten meneer Colonna?» (che cosa aspetta a fuggire signor Colonna?) perdendo però il piacevole effetto ironico, presente nel prototesto, ottenuto dalla contrapposizione tra dialetto e italiano di registro alto.

Le particolarità del nederlandese

Il nederlandese è una lingua all’interno della quale le parole composte sono presenti in grande quantità. Nel caso specifico della traduzione che stiamo analizzando, all’interno della voce «maschio», nella frase d’apertura troviamo: «il sabato mattina»33. In italiano abbiamo due parole mentre in nederlandese diventa «zaterdagochtend», che è una parola unica. Una delle particolarità di questo dizionario consiste nel fatto che alcune parole al suo interno sono sottolineate. La sottolineatura non è una scelta casuale in quanto si sottolineano quelle parole che rimandano ad altre voci descritte nel dizionario stesso. Nel caso appena citato quindi, «sabato» rimanda alla voce «sabato» contenuta nel dizionario. In nederlandese non si è potuto sottolineare l’intero sostantivo «zaterdagochtend» perché avrebbe significato creare un rimando alla voce «sabato mattina», che non è contenuta nel dizionario. Per questo motivo, nel metatesto, si è deciso di sottolineare solo metà sostantivo in modo da mantenere inalterata la struttura dei rimandi all’interno del dizionario.

Conclusioni

Come già annunciato nella prefazione, l’analisi si è concentrata su quei casi particolari che sono affiorati nella traduzione del testo verso il nederlandese. Nonostante le particolarità descritte fino ad ora, il metatesto mantiene in gran parte le specificità del prototesto, si è infatti riusciti a mantenere la musicalità che l’autore ha previsto in certi casi e lo stesso si può dire dei rimandi intratestuali. L’apparato delle note è stato ampliato a causa dei frequenti realia ma questo non influisce sulla fluidità del testo. La revisione della punteggiatura, invece, si è rivelata in certi casi essenziale a causa della struttura propria del nederlandese, dove periodi troppo lunghi diventano di difficile comprensione per il lettore. Il residuo traduttivo è minimo e come abbiamo visto non intacca la struttura portante del testo così come non influisce sulla comprensione del messaggio, superficiale e profondo, dell’autore. Considerando l’ampliamento dell’apparato delle note nel metatesto possiamo dire che il residuo quasi scompare a favore di quello che si potrebbe definire un ‘approfondimento traduttivo’.

Sia il lettore del prototesto sia quello del metatesto, vivono un’esperienza di lettura simile. Per il primo, la maggior parte dei riferimenti sarà esplicita e il lettore riuscirà a coglierli senza alcuna difficoltà; per il secondo, invece l’ampio e approfondito apparato metatestuale riuscirà a colmare le differenze culturali che separano i due lettori modello. Di conseguenza, il metatesto risulterà meno immediato, relativamente ai rimandi, rispetto al prototesto.

TRADUZIONE DELLE VOCI – VERTALING VAN DE TREFWOORDEN

אימהיתMammese (o Tampònico)I

A ubbidirvi, signor, son già disposto.

Emmanuel Conegliano, Le nozze di Figaro, atto primo, scena quarta

La famiglia di mia madre è una famiglia di strampalati. Suo
nonno faceva il capostazione, e quindi da piccola mia nonna
aveva abitato in mille
appartamenti diversi,
quelli al piano
disopra delle
stazioni.

Una delle zitelle di famiglia, la zia Argìa, in non so quale dei numerosi paesini in cui hanno abitato, aveva trovato lavoro e andava tutti i giorni a cucire o ricamare dalle suore.
Aveva avuto il contatto
da un macchinista, collega del bisnonno.
La zia Argìa era quasi del tutto sorda. La prima volta che era arrivata dalle suore, le avevano detto “Sia lodato Gesù Cristo”, e lei – forse anche a causa della sua appartenenza a una cultura non cattolica – aveva capito “L’ha mandata il macchinista?”, e aveva risposto “Sì, mi ha mandato lui”.

Nella famiglia di mia mamma, l’esibizionismo era a un tempo esecrato e
venerato. Le donne dovevano essere modeste, come diceva Manzoni, tranne quelle che il nonno decideva che erano
speciali. L’esibizionismo è un morbo che colpisce a macchia di leopardo anche perché, come la macchia del leopardo, ha bisogno che intorno ci sia uno sfondo diverso per mostrarsi: in un mondo di soli esibizionisti, ci sarebbe l’estinzione della specie per suicidio collettivo. Ah, che bel mondo! E subito dopo la loro autoestinzione noi verremmo fuori dal cespuglio:
cucù!

In questa famiglia bislacca e tremendamente iniqua, per diventare qualcuno bastava concentrarsi molto intensamente e pensare “ce l’ho solo io, ce l’ho solo io, ce l’ho solo io”II, “nemmeno dopo tanto”III, tutti ti riconoscevano il titolo. Nata in
una famiglia così,
la mamma si è sentita
in dovere di fare
da sfondo. E a volte il dovere è vissuto come un diritto. Non sono riuscita a prendere il diploma perché c’era la guerra, però so tante cose lo stesso. Io non sono laureata, ma mio marito è ingegnere, e quindi io sono ingegneressa. E mio figlio, mio figlio… mio figlio è medico! Quando si è fidanzata con
papà nel 1946, la mamma lavorava come commessa nel magazzino di articoli per macchine per maglieria di suo padre.

Anche a lei l’espulsione razzista dalle scuole pubbliche – a undici anni, ne aveva sette meno di papà – aveva dato un senso forte d’identità ebraica. Poi c’erano stati gli anni della guerra, in cui non mangiava a sufficienza, in particolare non abbastanza
calcio. La malnutrizione le ha causato problemi fisici
permanenti. Da allora ha sempre avuto un bisogno non
confessato nemmeno a sé stessa da un lato di fare
economia, di non sprecare, per esempio in vestiti, dall’altro di essere sempre certa di avere scorte di cibo.
Non riesce a mangiare niente di fresco perché c’è sempre qualcosa da finire.

Mia madre non parla né
italiano né ebraico
(questa dell’ebraico la dico così, a scanso di equivoci,
perché molti quando sentono che sei ebreo non capiscono bene cosa vuol dire, e
pensano che tu parli ebraico,
anzi ‘ebreo’ o, a volte,
‘israeliano’): lei parla
mammese, detto anche
tampònico. Questa lingua non è ancora stata analizzata, ma consiste fondamentalmente nel fatto che non descrive la realtà come appare, ma come apparirebbe se non facesse paura. Se non mettesse in
imbarazzo. Se non facesse
provare dei sentimenti.
Più che una lingua,
è una difesa.
È uno smorzamento, un ammosciamento. È un’attenuazione. È un materasso, un respingente, un tampone: l’etimo del secondo nome di questa lingua – tampònico –
è incerto, ma molti studiosi propendono per l’attribuzione proprio a questo effetto di tamponamento di qualsivoglia componente affettiva di coinvolgimento.

Quand’ero piccolo imparavo com’è fatto il mondo dalle sue parole, come se non avessi i sensi per percepire direttamente la realtà. Non c’era nessuna coercizione nel modo in cui mi trattava, mi chiedeva sempre molto gentilmente dove
volevo andare, cosa volevo mangiare, per esempio, solo che poi mi convinceva – con le buone, sempre con le buone – che quello che io desideravo era in realtà un’altra cosa. Se io avevo voglia di andare ‘giù a giocare’ non appena avevo finito di mangiare, lei tamponava: “ma a quest’ora fa troppo caldo, vero? E poi passare tutto il pomeriggio giù a giocare è troppo, vero? E poi i bambini con cui giochi giù, l’Antonio, la Iris e la Antonella, non sono molto simpatici, vero?”

Se lei mi diceva che saremmo andati in montagna, d’inverno, con la neve, con i suoi amici e con gli amici di Carlo, e io lì avevo freddo, soffrivo come un cane per far funzionare gli sci di legno
con gli scarponi di ferro e gli attacchi di pietra, io gioivo e mi sentivo autentico nel gioire, perché era il sentimento predominante. Che importa se mi rompevo una gamba ed ero terrorizzato dal gelo e dalla erre straniera dei maestri di sci e pensavo che fosse un’esercitazione alla sopravvivenza per la prossima guerra?

In mammese, ‘vagamente simile’ si dice ‘proprio uguale’: se andavamo a comprare un paio di scarpe, lei diceva che erano proprio uguali a quelle che mi piacevano tanto e che non volevo cambiare.
Al che io obbiettavo che erano diversissime, perché queste hanno una cucitura intorno, e sono marrone chiaro, e hanno il tacco di cuoio, ma lei insisteva che erano praticamente uguali. Come se in una disquisizione logica ci fosse spazio per la
pratica! Questa negligenza deliberata mi faceva disperare, e io facevo scene isteriche; la mia disperazione non era per le scarpe, ma per l’incapacità della mamma di vedere le cose
come stavano:
sì, perché in fondo in fondo,
a sprazzi, avevo momenti
di autonomia in
cui mi era chiarissimo come stavano le cose,
ma allora come faceva lei – parametro paradigmatico di qualsiasi percezione – a non vederle? La mia disperazione non era per il cibo mortale,
ma per il cibo celeste (il suo colore preferito) – per difendere la mia analisi logica. Le scene non erano rivolte tanto a lei,
quanto al mondo, che non riconosceva la mia raffinata capacità d’analisi. E, proprio per reazione al mammese, ho sviluppato un’attenzione morbosa per il dettaglio.

Dato che lei era sempre
svagata, sempre a rincorrere le proprie visioni di parte, e a
cercare di convincermi che
le cose stavano proprio così,
io per distrarla da sé stessa ho sempre cercato in tutti i modi di attirare la sua attenzione.
Prima versando fiumi e fiumi di pipì. Poi da adolescente ho imparato a fare ogni genere di lavoro domestico: elettricista idraulico falegname muratore imbianchino. Poi ho imparato a cucinare, che è una cosa che a lei non è mai piaciuta tanto. Ma mi sono finalmente reso conto che è un amore tampònico il suo, per definizione così, che da lei non si può pretendere un affetto sfacciato, ma bisogna saper apprezzare l’amore màmmico attenuato. Anche quando è generosa, riesce a esserlo nel modo più catastrofico per la sua immagine, così che tutti pensano a lei ingenerosamente. Se ti fa un panino al prosciutto, di per sé ottimo, lo accompagna con un commento di scusa: “Volevo fartelo col culatello,
ma l’avevo finito”.
E il panino assume un
sapore meno
invitante. Se prepara gnocchi di
ricotta e spinaci conditi con
l’olio e il grana, si giustifica: “Volevo fare i tortelli alla piacentina della
nonna Elena, quelli a forma di caramella, ma non ho
fatto in tempo a fare
la pasta”.
È l’opposto di una
commerciante. Vende sé stessa al ribasso. Proprio per questo sento il bisogno di
proteggerla. Esibizionista, lei, non è stata mai.

Complimenti, mamma, e auguri!” Che in tampònico vuol dire: “Ti voglio un
oceano di bene”.

זכר MaschioIV

Il sabato mattina a Salò ci svegliavamo per primi, io e papà, e sgattaiolavamo fuori dalla camera senza far rumore.
Non si trattava di lavarsi
e vestirsi – avremmo
fatto rumore e
svegliato il
nemico – ma semplicemente di riinfilarsi alla bell’e meglio
i vestiti del giorno
prima. Papà si metteva i pantaloni corti. Dato che aveva un fisico globalmente magro, ma con una gran pancia che prima sparava verso l’esterno e poi gli cascava sopra l’inguine, i pantaloni lunghi se li faceva fare su misura, e sembravano due triangoli, con la base in alto e la punta
in basso. I pantaloni corti, però, del triangolo avevano solo la parte larga, e così in pantaloni corti era buffissimo,
perché erano di taglia
cinquantasei, ma poi dai tuboni mozzicati delle gambe
uscivano due stuzzicadenti, che erano le sue gambe magre magre e poco pelose, e i suoi
piedi magri magri e delicatissimi, che in vacanza calzava con dei sandali di pelle marrone topo aperti dietro e con
un incrocio di fasce di
pelle davanti.

M’infilavo anch’io pantaloncini corti e sandali e, saliti
sulla millecento
posteggiata
in discesa, papà toglieva il bloccasterzo e andavamo
giù a motore
spento; solo verso la fine,
poco prima della curva, quando avevamo raggiunto un certo momento papà girava la chiave dell’accensione poco poco, solo fino a far accendere la spia rossa, e lasciava andare il pedale della frizione lentamente, quasi senza soluzione di continuità tra la discesa libera dell’automobile priva di freni e la sua propulsione a motore, in terza. Da bravo clandestino in una famiglia di clandestini, tutto era stato calcolato con precisione: la casa acquistata sull’angolo, in alto, al confine con i campi, in modo da essere vicini al Giacomo (che potava l’ulivo) e alla Nina (che ci dava le uova), e da poter
partire senza fare rumore di shabàt senza svegliare
il rabbino.

Arrivando downtown, il traffico del sabato mattina che all’inizio era esiguo per non dire nullo si faceva più animato, perché era giorno di mercato. Mentre sulla destra si dispiegava il vialone alberato in discesa che arrivava fino all’inizio del lungolago, chiamato per qualche curioso motivo ‘piazza’, e al centro, sopra l’ampio marciapiede tra gli alberi, si organizzavano le bancarelle,
di fronte ci accoglieva l’arco con sopra l’orologio dove noi posteggiavamo, tra rare automobili sparse qua e là.
Proprio sotto l’arco, dentro le mura che erano molto profonde, tanto da poter ospitare al loro interno un giornalaio, compravamo il Corriere per papà, un lenzuolo bianco e sporco, e Topolino, che invece era sottile, non più di
un centimetro, e lucido,
fatto di carta patinata sottile colorata, con la costina punteggiata azzurra e bianca. Non che fosse una cosa che si poteva sempre, comprare Topolino, e nemmeno comprare il Corriere si faceva tutti i giorni.

Dopo il giornalaio, scendevamo a piedi sul selciato lucido e scuro,
a passi lenti,
con i piedi
in fuori da turisti,
stando attenti a non scivolare perché era davvero
lucido, e i sandali erano quello che erano, e passavamo accanto al negozio sulla sinistra che più tardi, in orario da turisti
normali, metteva fuori una cesta enorme, tutta piena di bottigliette piccole, finti fiaschetti grandi come boccettine di profumo contenenti vini raccapriccianti dolcissimi, Lachrima Christi e altre miscele ottenute con acqua alcol zucchero aromi naturali
coloranti, che una volta lo zio Arturo, generoso, mi ha comprato, litigando con
papà, però bisognava
berlo poco poco alla volta,
mettere solo una goccia sulla lingua e poi basta
per un po’,
senza esagerare, che in
mammese voleva dire “fra un mese controllo se ce n’è
ancora”. Il fiaschetto aveva due tappi: uno rosso,
a vite, con cinque
forellini, che quindi sembrava inutile come tappo,
ma invece era tutto studiato apposta per invogliare i genitori a comprarlo ai loro figli perché,
una volta consumato il vino – e che ci voleva? –
si poteva usare come salino, a tavola. I turisti tedeschi ne andavano pazzi, perché nei loro inverni titanici guardando quel segno potevano pensare tutto il tempo all’Italia
e al bagno e al caldo e
alle camere zimmer.

Continuando a camminare lungo il corso, sulla
sinistra si apriva un anfiteatro di case in stile tardofascista delimitato da due vie
in salita come
rami rampicanti intorno a un Palazzo dalle grandi vetrate, un Palazzo Importante: lì nel grande salone papà si faceva tagliare la barba, eventualmente spuntare quei pochi capelli che aveva intorno alla pelata, e soprattutto i copiosi peli del naso e delle orecchie. A volte – molto di rado per fortuna –
anche a me tagliavano i capelli,
ma con la macchinetta che faceva male, perché quello era un posto da Maschi, al quale io ero ammesso in via provvisoria,
solo perché
raccomandato. Avevo firmato un patto col diavolo e
non lo sapevo. Quindi non solo non dovevo azzardarmi a piangere quando con la macchinetta mi pizzicavano la pelle della nuca, ma, pur con l’occhio iniettato di lacrima, non dovevo nemmeno dar a vedere che provavo dolore.

Dopo il barbiere arrivavamo al bar, dove papà prendeva il caffè, quello con la
leva, e io mangiavo
qualcosa che mi guastava l’appetito. Poi scendevamo al lungolago dai vicoli e
lo risalivamo, prendendo
il mercato alle
spalle, in salita. I sacchetti di plastica non esistevano ancora, e a ogni bancarella ci davano dei sacchetti di carta, bagnati dalle verdure e dalla frutta, e così, di contrattazione in contrattazione, arrivavamo alla millecento carichi di pacchetti e di odori. Una spesa abbondante dalla quale
poi scaturivano i piatti
del papà.

Quando ci serviva anche la carne, andavamo a Gazzane.
Era un viaggio per me molto avventuroso perché le strade erano strette come la nostra macchina.
Papà imboccava con energia la salita del viale alberato della Tassoni su su fino alla strada dei Tórmini, come per andare a casa a Milano, ma da lì, anziché a sinistra, girava a destra, verso Roè VolcianoV, e poi girava ancora a destra in salita per una stradina strettissima, ché ogni volta che s’incrociava qualcuno
bisognava fare
centinaia di metri in
retromarcia e io ero
sicuro che prima o poi qualcuno avrebbe infilato le ruote in un fosso, o in un burrone,
o contro un
muro.

Il macellaio era all’incrocio di quattro di queste stradine strettissime, in cima a un colle interamente costruito in pietra, strade comprese. Bisognava tirare il freno a mano e mettere anche una pietra dietro la ruota, fatto gradevolmente poco
urbano. Davanti alla vetrina c’era un minimo slargo, comunque bisognava essere sempre pronti a spostare la millecento se fosse arrivato qualcuno. La
suspense era alta, ma papà sapeva fare tutto. Dentro la macelleria, che mi assaliva con quell’odore di sangue, di schegge di ossa, di marmo umido, non c’era mai da aspettare, eravamo sempre gli unici clienti. Potevamo sbizzarrirci. Compravamo rognone, fegato, animella e cervella. Che delizie!
Poi compravamo anche la carne vera e propria. Il macellaio aveva muscoli enormi che guizzavano
flop flop mentre maneggiava i muscoli di qualcun altro
e li faceva a fettine
bellissime. Il suo coltello più piccolo sembrava il
Titanic, e quando doveva tagliare le bistecche con l’osso tirava fuori una mannaia pesantissima che scagliava sulla carne da altezze astrali. “Guarda i muscoli del”VI macellaio!

C’era un vetro che separava la zona macellaio dalla zona bambino, però ugualmente papà,
quando il macellaio alzava la mannaia, mi metteva una mano davanti agli occhi e alla fronte. Io non capivo se il
problema fosse
vedere quello che succedeva (ma allora perché solo quando spaccava le ossa?),
sentire (ma allora perché non le orecchie?) o
semplicemente dare un
senso di
protezione. Spesso sento quella mano morbida e asciutta sugli occhi e sulla fronte che mi protegge mentre vedo le cose brutte davanti a me.

מחנותCampiVII

Quand’ero piccolo una delle narrazioni in mammese più
difficili da decifrare era quella sui campi. La mamma ogni tanto diceva di essere stata
nei campi, ma di cosa si trattasse non c’era nessun
indizio. Una cosa bella non era, perché era sempre collegata a fatti negativi. “In campo ero con Lalla, ma mi avevano separato
dalla nonna e dal nonno
e dalle sorelle”. “Dopo il
campo, quando ero dalla signorina Frey il dentista mi ha trovato sedici carie”. “In
campo ci davano i
sanguinacci, ma non li mangiava quasi nessuno, c’era un ragazzo giovane che se li faceva dare da tutti e se li mangiava lui”. “In campo quando ci facevano sbucciare le patate, ce ne nascondevamo sempre due o tre addosso, e poi le cucinavamo nella stufa”. “In campo rubavamo le mele per la zia Marta,
ché era l’unica cosa che mangiava”.

In una prima parte della mia vita avere una mamma che era stata ‘nei campi’ mi bloccava,
se era una cosa così tremenda da non potersi nemmeno raccontare e spiegare doveva essere una catastrofe immensa. Io non capivo niente e, quando a scuola e un po’ anche a casa ho cominciato a sapere che c’era stata la Catastrofe, il Disastro, ossia la Shoàh,
a cui è stato eretto il monumento, ho pensato che
la mamma fosse stata internata nei campi di sterminio
e che lei si fosse salvata per miracolo. È stato soltanto molto tempo dopo che ho capito che ‘campi’ in mammese significa ‘campi profughi svizzeri’ dove lei è scappata insieme alla
sua famiglia e ha
vissuto un anno e mezzo.

Suo padre sembrava sordo al pericolo, e per organizzare la fuga ha aspettato che un conoscente gli dicesse “Sciùr Colòna, ma
cusa l’aspèta a
scapa’?”
VIII Allora aveva
preso un treno delle
ferrovie nord,
aveva proseguito fino al
capolinea e poi, una volta arrivato, aveva chiesto al macchinista di indicargli la casa di qualcuno che fosse in grado di aiutarlo per il passaggio
clandestino. Il nonno era vestito in modo talmente antiquato e poco naturale, che la prima impressione era quella d’un poliziotto in borghese, ma finalmente è riuscito a organizzare la fuga della numerosa famiglia a scaglioni di
tre persone, a una settimana di distanza l’uno
dall’altro perché la guardia ‘amica’ che chiudeva un occhio
(e apriva la tasca) aveva
il turno solo una volta alla settimana.

Di ritorno a Milano, la
mamma ha provato a dare l’esame di maturità, c’erano
sessioni riservate ai
profughi di guerra e
ai perseguitati
politici e
razziali. Non aveva mai frequentato il liceo. Le commissioni d’esame erano benevole
verso i candidati,
si teneva conto
della difficile situazione storica
e di quella loro
personale. Ma la mamma non riusciva a concentrarsi. Si sedeva davanti ai libri e
si distraeva. C’era qualcosa che la distoglieva, anche se un ragazzo carino l’aiutava a studiare matematica, e lei chissà a cosa pensava: nella sua mente già si vedeva sposata, e allora forse quel diploma non le sarebbe mai servito…

Il presidente della commissione incoraggiava la mamma, le faceva altre domande, ma lei proprio non era preparata, e non
è passata. Però, in
tampònico, “Anche se non sono laureata, molte cose le so perché ho letto e perché me le ha spiegate papà”.
Forse potevo fare così anch’io: fregarmene del titolo
di studio e delle
mie mutande.

I discorsi in mammese
sugli anni della persecuzione e poi della fuga e del soggiorno in Svizzera erano talmente ripetitivi e vaghi che hanno ottenuto l’effetto di farmi sottovalutare questo problema reale e di farmi
pensare che lei fosse una persona noiosa e sofferente di delirio di persecuzione che
aveva bisogno di lamentarsi d’un destino che non era poi
così male. Le è toccato un destino drammatico, ma tamponandolo in mammese s’è cancellata la differenza tra un campo profughi svizzero e un campo di sterminio tedesco. La confusione
tra il suo dramma e
la tragedia di molti altri ha prodotto in me una reazione di rigetto.

La mia rivolta adolescenziale – necessaria per preservare la salute mentale
ma crudele, insensata, e parzialmente autodistruttiva –
si è poi tradotta negli slogan a favore dei fedayin, che urlavo durante le manifestazioni.

אימהית Mammaans (of Zeefjenees)1

A ubbidirvi, signor, son già disposto.2

Emmanuel Conegliano, Le nozze di Figaro, atto primo, scena quarta

De familie van mijn moeder is een familie van mafkezen. Haar grootvader was stationschef en daarom hadden ze, toen mijn oma klein was, in duizenden verschillende appartementen gewoond, die woningen die zich op de eerste verdieping van stations bevinden.

Tante Argìa, een van de oude vrijsters van de familie, had een baan gevonden, ik weet niet in welke van de vele dorpjes waar ze gewoond hadden, en ging elke dag bij de nonnen naaien of borduren. Een machinist, collega van overgrootvader, had haar geholpen met het vinden van deze bezigheid. Tante Argìa was bijna volkomen doof. De eerste keer dat ze naar de nonnen ging, zeiden ze tegen haar: “Geprezen zij de Heer” maar tante had begrepen, waarschijnlijk door haar niet katholieke achtergrond “Stuurt de machinist u weer?”, en antwoordde “Ja, hij heeft me hier gestuurd”.

In de familie van mijn moeder was het exhibitionisme tegelijkertijd verafschuwd en vereerd. Vrouwen moesten bescheiden zijn3, zoals Manzoni beweerde, behalve die waarvan de grootvader besloot dat ze speciaal waren. Exhibitionisme is een ziekte die zich als een luipaardvlek verspreidt. Om zich te laten zien, zoals een luipaardvlek,
moet de achtergrond
anders zijn: in een wereld van exhibitionisten alleen zou dit soort uitsterven door gezamenlijke zelfmoord. Ach, wat een mooie wereld! En meteen na hun zelfveroorzaakte uitsterving zouden wij uit de struiken komen: kiekeboe!

In deze zotte en vreselijk onrechtvaardige familie moest je laten zien dat je bestond, je heel erg concentreren en
denken “ik ben de beste, ik ben de beste, ik ben de beste”4.
“Niet echt veel later”5 erkende iedereen je als dé beste. Mijn moeder, die in zo’n familie is geboren, heeft de plicht gevoeld om zich op de achtergrond te houden. En soms wordt de plicht als een recht ervaren. Ik heb geen diploma behaald
omdat er oorlog was, maar ik weet sowieso veel dingen. Ik ben niet afgestudeerd, maar mijn man is ingenieur, daarom ben ik ingenieuresse. En mijn zoon, mijn zoon… mijn zoon is arts!
Toen mijn moeder zich in 1946 met mijn vader verloofde, werkte ze als winkeljuffrouw in het pakhuis van haar vader, waar ze artikelen voor tricotagemachines verkochten.

De racistische uitzetting uit staatsscholen – ze was elf, zeven jaar jonger dan mijn vader
– had ook aan haar een sterk Joods identiteitsgevoel gegeven. En toen kwamen de oorlogsjaren, waarin ze niet genoeg at, waarin ze in het bijzonder niet voldoende calcium binnenkreeg. Ondervoeding heeft haar permanente fysieke schade aangericht. Sinds dat moment heeft ze altijd een – zelfs aan haarzelf – niet opgebiechte nood gehad. Aan de ene kant wilde ze zuinig zijn, niets verspillen, bijvoorbeeld kleren, aan de andere wilde ze zeker zijn dat er altijd genoeg voedsel op voorraad was. Het lukt haar nooit om iets vers te eten, want er is altijd iets anders dat op moet.

Mijn moeder spreekt geen Italiaans en ook geen Hebreeuws (ik begin hiermee om misverstanden te voorkomen aangezien, wanneer mensen horen dat je Joods bent, ze vaak niet goed begrijpen wat dat betekent en vaak denken dat je Hebreeuws spreekt, of nog beter ‘Joods’ of soms ‘Israëlisch’): zij spreekt Mammaans, ook Zeefjenees genaamd. Deze taal is nog nooit geanalyseerd, maar zorgt er kortweg voor
de werkelijkheid niet te beschrijven zoals hij is, maar hoe hij zou zijn
als hij geen angst zou opwekken. Als hij de mensen niet in verlegenheid zou brengen. Als hij geen gevoelens zou laten voelen. Het is eerder een verdedigingsmechanisme dan een taal. Het is een matiging, een verslapping. Het is een vermindering. Het is een matras, een stootkussen, een zeef.
De etymologie van de tweede naam van deze taal – Zeefjenees – is onzeker, maar vele onderzoekers wijzen de naam toe
aan een zeef waardoor
alle betrekkingen en
emoties worden
gegoten.

Toen ik klein was ontdekte ik de wereld door haar woorden alsof mij de zintuigen ontbraken
om de werkelijkheid zelf waar te nemen. Er was geen enkele dwang in de manier waarop ze me behandelde, ze vroeg me bijvoorbeeld altijd vriendelijk waar ik naartoe wilde gaan, wat ik wilde eten, maar dan overtuigde
ze mij – heel vriendelijk, altijd heel vriendelijk – dat wat ik
wilde, eigenlijk iets
anders was. Als ik meteen na het eten met de andere kinderen ‘buiten’ wilde gaan spelen, zeefde ze: “maar nu is het te warm, nietwaar? En de hele middag buiten spelen is
te lang, nietwaar? En de kinderen waarmee je speelt, Antonio, Iris en Antonella zijn niet echt aardig, nietwaar?”

Als ze zei dat we in de winter naar de bergen zouden gaan, met de sneeuw, met haar vrienden en met die van Carlo, en ik had het daar koud, en ik leed verschrikkelijk tijdens het skiën op de houten ski’s met de stalen skischoenen en de rotsen skibindingen, dan was ik blij en dat gevoel was echt omdat het het overheersende gevoel was.
Het maakte niet uit of ik een been brak, of ik bang was voor de vorst en voor de rare ‘r’ van de skileraren, en of ik dacht dat het een overlevingsoefening voor de volgende oorlog was.

In het Mammaans zeg je ‘bijna gelijk’, ‘praktisch hetzelfde’. Als we een paar schoenen gingen
kopen, zei ze dat deze
praktisch hetzelfde waren als die ik eigenlijk leuk vond en die ik eigenlijk wilde hebben.
Ik stribbelde tegen en zei dat die totaal anders waren, omdat deze een stiksel eromheen hadden, en licht bruin waren, en een leren hak hadden, maar ze drong aan dat ze praktisch hetzelfde waren. Alsof er in een logische uiteenzetting ruimte zou kunnen zijn voor
iets praktisch! Ik werd gek van deze opzettelijke nalatigheid en maakte hysterische scènes. Ik was niet wanhopig om de schoenen,
maar om het onvermogen van mijn moeder om de dingen te zien zoals ze in werkelijkheid waren:
ja, want diep van binnen ervoer ik af en toe onafhankelijkheidsmomenten waarin het mij duidelijk was hoe de dingen werkelijk in elkaar zaten. Maar hoe kon het zijn dat zij – paradigmatische parameter van alle percepties – dat niet
zag? Mijn wanhoop kwam niet voort uit het voedsel voor het lijf maar uit het voedsel voor de ziel
– om mijn logische analyse te verdedigen. Mijn hysterische optreden was niet tot haar gericht, maar tot de wereld, die mijn verfijnde analysevermogen niet erkende. En, juist als reactie op het Mammaans, heb ik een ziekelijke aandacht voor het detail ontwikkeld.

Aangezien ze altijd verstrooid was, altijd met eigenzinnigheid haar ideeën volgde, en mij probeerde te overtuigen dat
de dingen echt zo in elkaar zaten, heb ik altijd van alles gedaan om haar van haarzelf af te leiden en haar aandacht op mij te vestigen.
Toen ik klein was, plaste ik constant in mijn broek. Later, als puber, leerde ik alle
huishoudelijke klussen: elektricien loodgieter timmerman metselaar huisschilder. Daarna leerde ik koken, iets dat zij nooit echt leuk vond. Maar uiteindelijk ben ik erachter gekomen dat haar liefde is gezeefd, zo is het,
je kan van
haar geen allesomvattende
liefde eisen, maar je moet haar fijnere gezeefde moederliefde naar waarde leren schatten. Ook wanneer ze gul is, doet ze dat op de meest catastrofale manier voor haar imago, zodat iedereen denkt dat zij gierig is. Als ze een
broodje met ham voor je klaarmaakt, wat op zich heerlijk is, excuseert ze zich daarbij: “Ik wilde een broodje met culatello6 voor je klaarmaken, maar die was op”. Plotseling krijgt het broodje daardoor een minder uitnodigende smaak. Als ze gnocchi van
ricotta en spinazie klaarmaakt met olijfolie en Parmezaanse kaas, verontschuldigt ze zich: “Ik wilde tortelli alla piacentina7 van grootmoeder Elena maken, die met de vorm van een snoepje, maar ik heb geen tijd gehad om het deeg te maken”.
Zij is het tegenovergestelde van een winkelier. Ze zet zichzelf in de uitverkoop. Om die reden voel ik de behoefte om haar te verdedigen. Een exhibitionist is zij nooit geweest.

Gefeliciteerd, mam, en veel geluk!” In het Zeefjenees betekent dat: “Mijn liefde voor jou is net zo groot als de oceaan”.

זכרMannen8

Mijn vader en ik werden op zaterdagochtend in Salò gewoonlijk als eerste wakker en glipten uit de kamer zonder lawaai te maken.
We wasten ons niet en deden geen schone kleren aan – dan zouden we teveel lawaai hebben gemaakt en zou de vijand wakker zijn geworden – maar trokken gewoon, zo goed en zo kwaad als het ging, de kleren van de dag daarvoor weer aan. Papa droeg meestal een korte broek. Omdat hij een nogal mager lichaam had, maar een grote buik die eerst naar voren

schoot en dan over zijn
lies hing, liet hij zijn lange broeken op maat maken. Deze
leken op twee driehoeken, met de basis naar boven en de punt naar beneden. Van de driehoek hadden de korte broeken echter alleen de breedte daarom was hij met een korte broek aan altijd heel grappig. Die broeken waren maat zesenvijftig en uit de grote afgesneden broekspijpen verschenen twee tandstokers wat zijn hele magere en weinig behaarde benen waren. Ook zijn voeten waren heel mager en fijn. Tijdens de vakantie droeg hij altijd muisbruine leren sandalen die open waren aan de achterkant en een kruising van leren banden aan de voorkant hadden.

Ik deed ook een korte broek en sandalen aan, en toen we op de Fiat 1100 waren gestapt die met z’n neus naar beneden op een helling geparkeerd was, deed papa het stuurslot uit en zonder de motor aan te zetten gingen we naar beneden. Alleen aan het einde, vlak voor de bocht, draaide papa op een bepaald moment de contactsleutel om een heel klein beetje zodat alleen
het rode lichtje aanging. Dan liet hij langzamerhand de koppeling los in de derde versnelling, alsof er geen verband was tussen de
vrije afdaling van de auto
die niet remde en zijn motoraandrijving. Als perfecte illegaal in een familie van illegalen werd alles tot in het kleinste detail berekend: men kocht een hoekhuis hoog op de helling aan de rand van de velden zodat we dicht bij Giacomo waren (die de olijvenboom afsnoeide) en bij Nina (die ons eieren gaf), en zo konden we op sjabbat geluidloos vertrekken zonder de rabbijn wakker te maken.

Toen we downtown aankwamen nam het aantal auto’s van de zaterdagochtend geleidelijk toe omdat het
marktdag was. Aan de rechterkant liep de grote laan met bomen
naar beneden (die men om een of andere reden ‘plein’ noemt) die het begin van de boulevard langs het meer bereikte. In het midden, op de grote stoep tussen de bomen, werden de marktkramen geplaatst. Tegenover ons bevond zich de grote rondboog met de klok waar we parkeerden tussen de weinige auto’s die hier en daar stonden. Direct onder de boog, in de dikke muren, zo diep dat zich er een krantenkiosk in
bevond, kochten we de Corriere9 voor papa, een vies wit laken, en de Topolino10, die in tegenstelling met de krant heel dun was, niet dikker dan een centimeter, gemaakt van gekleurd glanzend papier, en met een boekrugje vol lichtblauwe en witte stipjes. Het was iets dat niet altijd kon,
de Topolino kopen, en ook de Corriere kochten we niet
elke dag.

Na bij de krantenkiosk te zijn geweest liepen we langzaam op het blinkende en donkere plaveisel met onze voeten die uitstaken zoals toeristen meestal doen. We zorgden ervoor om niet uit te glijden, omdat het plaveisel echt glibberig was en de sandalen niet echt slipvast. We liepen langs de winkel aan de linkerkant die later, wanneer de echte toeristen op straat liepen, een grote mand buitenzette vol met heel kleine flesjes, nep mandflesjes net zo groot als parfumflesjes met vreselijk zoete wijnen erin, Lachrima Christi en andere mengsels gemaakt van water alcohol suiker natuurlijke aroma’s kleurstoffen. Oom Arturo, die gul was, had eens één van die flesjes voor me gekocht, na ruzie te hebben gemaakt met papa, en ik mocht die wijn beetje bij beetje drinken. Ik mocht maar één druppel per keer op mijn tong laten vallen en daarna niets meer, zonder te overdrijven, wat in het Mammaans betekende: “over een maand controleer ik of er nog wijn in het flesje zit”. Het mandflesje had twee dopjes: het ene was rood, een schroefdop, met vijf kleine gaatjes erin waardoor het in eerste instantie nutteloos leek als dopje, maar eigenlijk was dit expres bedacht zodat ouders dit voor hun kinderen zouden kopen. Als de wijn dan op was – en dat was die natuurlijk heel snel – konden ze het flesje als zoutvaatje gebruiken. De Duitse toeristen waren er gek op omdat als ze tijdens hun titanische winters naar dat ding keken, ze de hele tijd aan Italië konden denken en aan het zwemmen en aan de warmte en aan de Zimmer11 kamers.

Terwijl we door de hoofdstraat bleven lopen verscheen aan de linkerkant een amfitheater van huizen in laat fascistische stijl. Aan de zijden van dat huizenblok waren twee oplopende straten die leken op klimtakken om een
Paleis heen met grote ramen, een Belangrijk Paleis: daar in een grote salon liet papa zich
scheren, en als het nodig was liet hij ook de haren rond zijn kale kop bijknippen, maar bovenal liet hij zijn overvloedige neus- en oorharen knippen. Soms – en dat gebeurde niet vaak gelukkig – werden ook mijn haren geknipt, maar met een tondeuse die pijn deed, omdat dit een plek voor Mannen was, en ik had hier een voorlopige toegang gekregen alleen omdat ik de juiste connecties bezat. Ik had een pact met de duivel gesloten, maar ik wist het zelf niet. Daarom moest ik meer doen dan niet huilen
toen de tondeuse de huid van mijn nek vastgreep, ik moest zelfs met mijn ogen vol tranen
niet laten zien dat ik
pijn voelde.

Na de kapper gingen we naar het café waar papa een espresso bestelde, die met een apparaat met een hefboom12 werd gemaakt, en ik at iets dat mijn eetlust zou bederven. Daarna liepen we naar beneden door de stegen naar de boulevard langs het meer en dan weer naar boven zodat de markt achter ons lag. Plastic tasjes bestonden er toen nog niet, en bij elke kraam kregen we papieren zakjes, die nat werden door het fruit en de groenten. Dus bereikten we, onderhandeling na onderhandeling de Fiat 1100 vol met pakjes en geuren. Een grote hoeveelheid boodschappen waaruit papa’s gerechten ontsprongen.

Als we ook vlees nodig
hadden, gingen we naar Gazzane. Dat was voor mij een heel avontuurlijke reis omdat de straten net zo breed waren als onze auto. Papa reed met veel kracht de helling op van de beboomde laan van Tassoni tot aan de Tòrministraat, alsof we terug naar huis in Milaan gingen, maar dan sloeg hij in plaats van naar links naar rechts af, richting Roè Volciano13, en daarna sloeg hij opnieuw naar rechts af naar een heel smal straatje opwaarts, waar elke keer dat je iemand tegenkwam, je honderden meter naar achteren moest rijden en ik was zeker dat vroeg of laat iemand de wielen in een greppel of in een ravijn zou hebben gereden, of tegen een muur zou hebben gebotst.

De slager was bij de kruising van vier van deze heel smalle straatjes, op een heuvel van stenen
gemaakt, zoals ook
de straatjes. Je moest aan de handrem trekken en ook een steen achter je wiel neerzetten, een zeer aangename niet stedelijke bezigheid. Voor de etalage was een kleine verbreding, maar je moest sowieso altijd paraat zijn om de Fiat 1100 te verplaatsen in het geval er iemand aankwam. De spanning was enorm, maar papa kon alles. In de slagerij,
die mij met die geur van bloed, van botfragmenten en van vochtig marmer aanviel, hoefden we nooit te wachten, we waren altijd de enige klanten. We konden ons uitleven. We kochten nieren, lever, zwezerik en hersenen. Wat een delicatessen! Daarna kochten we ook echt vlees. De slager had hele grote spierballen die heen en weer schoten flop flop terwijl hij de spieren van iemand anders vastgreep en in mooie dunne lapjes sneed. Zijn kleinste mes was net zo groot als de Titanic, en als hij een biefstuk met bot moest snijden, pakte hij een hele zware slagersbijl die hij vanuit de hoogte
van de sterren in het vlees hakte. “Kijk naar de spieren van de slager!”

Er was een raam dat het slagersgebied van het kindergebied scheidde, maar toch deed papa, wanneer de slager de slagersbijl omhoog hield, zijn hand altijd over mijn ogen en voorhoofd. Ik begreep niet wat het probleem was. Was het om mij niet te laten zien wat er gebeurde (maar waarom dan alleen wanneer de slager de botten brak?), of om te voorkomen dat ik zou horen (maar waarom bedekte hij dan mijn oren niet?) of wilde hij mij simpelweg een gevoel van bescherming geven? Vaak voel ik nog die zachte droge hand voor mijn ogen en voorhoofd, die mij beschermt wanneer ik nare dingen
tegenkom.

מחנות Kampen14

Toen ik klein was, was een van de moeilijkste verhalen die ik moest ontcijferen uit het Mammaans die over de kampen. Af en toe zei mama dat ze in de kampen was geweest, maar er was geen aanwijzing van waar het over ging. Het was vast niets leuks, omdat het altijd met negatieve gebeurtenissen verbonden was. “In het kamp was ik met Lalla, maar ze hadden me van oma en opa en mijn zussen gescheiden.” “Na het kamp, toen ik bij juffrouw
Frey woonde, vond de tandarts zestien gaatjes in mijn tanden.” “In het kamp gaven ze ons bloedworsten, maar bijna niemand at ze. Er was een jongen die alle bloedworsten verzamelde en opat.” “Toen ze ons in het
kamp aardappelen
lieten schillen,
verborgen we er altijd twee of drie in onze kleren en dan kookten we ze in de kachel.” “In het kamp stalen we appels voor tante Marta, omdat dat het enige was dat ze at.”

Toen ik jong was, was ik vaak geblokkeerd door het feit dat ik een moeder had die in ‘de kampen’ was geweest. Als het zo erg was dat je het niet eens kon vertellen en uitleggen, moest het een vreselijke catastrofe zijn geweest. Ik begreep er helemaal niets van en, toen ik op school en ook een beetje thuis kwam te weten dat de Catastrofe, de Ramp, ofwel de Shoah, waarvoor het monument is gebouwd, had plaatsgevonden dacht ik dat mama in de vernietigingskampen had gezeten en dat ze op een wonderbaarlijke wijze was overleefd. Slechts veel later ben ik erachter gekomen dat ‘kampen’ in het Mammaans ‘Zwitserse vluchtelingenkampen’ betekende, waarnaar zij met haar familie is gevlucht en waar ze voor anderhalf jaar heeft gewoond.

Haar vader leek zich eerst van geen gevaar bewust. Het heeft zover moeten komen dat een kennis tegen hem zei “Waar wacht u op om te vluchten meneer Colonna?”, voor hij de vlucht van zijn familie op touw zette. Hij had dus een trein van de Ferrovie Nord15 genomen, bereikte de eindhalte en toen hij aangekomen was, vroeg hij aan de machinist of er iemand in staat was om hem te helpen met de
illegale grensovergang. Opa was op zo’n ouderwetse en onnatuurlijke manier gekleed dat de eerste indruk die hij gaf die van een politieman in burger was. Maar uiteindelijk is het hem gelukt om de vlucht van zijn grote familie te organiseren, in ploegen van drie personen per keer met een week reisverschil tussen de verschillende ploegen, omdat de ‘vriendelijke’ bewaker die een oogje dichtkneep (en tegelijkertijd zijn portemonnee opendeed) slechts een keer per week dienst had.

Terug in Milaan heeft mijn moeder geprobeerd om haar eindexamen te behalen: er werden speciale tentamenperioden voor oorlogsvluchtelingen georganiseerd en voor mensen die werden vervolgd om politieke en raciale redenen. Ze had nooit op de middelbare school gezeten. De examencommissies waren welwillend tegenover de kandidaten, ze hielden rekening met de moeilijke historische omstandigheden en die van de kandidaten zelf. Maar moeder kon zich niet concentreren. Ze ging voor haar boeken zitten en werd constant afgeleid. Er was altijd iets dat haar aandacht trok, zelfs als een leuke jongen haar hielp met wiskunde, wie weet wat er dan in haar hoofd omging. Ze zag zichzelf al getrouwd en misschien zou ze dan haar diploma nooit meer nodig hebben gehad…

De commissievoorzitter moedigde moeder aan, hij stelde haar andere vragen, maar zij was echt niet voorbereid en haalde de eindexamens niet. In het Zeefjenees betekende dat: “Ook al ben ik niet afgestudeerd, ik weet veel dingen omdat ik veel lees en omdat papa ze me heeft uitgelegd”. Misschien zou ik ook hetzelfde kunnen doen! Mij niets aantrekken van een diploma en van mijn onderbroeken.

De verhalen in het Mammaans over de onderdrukkingsjaren en de daaropvolgende vlucht en het verblijf in Zwitserland waren zo vaag en werden zo vaak herhaald dat ik dit reële probleem heb onderschat. Ik heb als gevolg altijd gedacht dat moeder alleen vervelend was, aan vervolgingswaan leed en die constant behoefte had om te klagen over een lot dat eigenlijk zo slecht niet was. Zij maakte een dramatisch lot mee, maar ze zeefde het met het Mammaans zodat er geen verschil meer was tussen een Zwitsers vluchtelingenkamp en een Duits vernietigingskamp. De verwarring tussen haar drama en de tragedie van vele anderen heeft een afstotingsreactie in mij ontwikkeld.

Mijn opstandige puberteit –
die noodzakelijk was om mijn geestelijke gezondheid te bewaren maar die wreed, zinloos, en gedeeltelijk zelfvernietigend was – heeft zich in de kreten ten gunste van de Fedayin vertaald, die ik schreeuwde tijdens de betogingen.

 

Note al testo italiano

  1. Imahìt [nota del traduttore].

  2. Suggerimento del mio maestro di ballo liscio Roberto [nota del traduttore].

  3. Guccini 1976 [nota del traduttore]

  4. Zakhàr [nota del traduttore].

  5. Se questi nomi fossero inventati, li cambierei, perché suonano poco plausibili [nota del traduttore].

  6. De Gregori 1984 [nota del traduttore].

  7. Makhanòt [nota del traduttore].

  8. Signor Colonna, invero, che cosa attende prima di porre in fuga la sua famiglia al sicuro?” [nota del traduttore].

Noten bij de Nederlandse tekst

  1. Imahìt [noot van de vertaler].

  2. Mijnheer, ik ben al gereed u te gehoorzamen [noot van de vertaler].

  3. Citaat uit het eerste hoofdstuk van I promessi sposi (De verloofden) geschreven door Alessandro Manzoni (1785 – 1873) een Italiaans dichter en romanschrijver [noot van de vertaler].

  4. Aanwijzing van Roberto mijn stijldans leraar [noot van de vertaler].

  5. nemmeno dopo tanto” citaat uit het lied: Canzone quasi d’amore door Francesco Guccini – 1976 [noot van de vertaler].

  6. Een soort Italiaanse vleeswaren [noot van de vertaler].

  7. Soort tortellini uit de provincie Piacenza [noot van de vertaler].

  8. Zakhàr [noot van de vertaler].

  9. Il Corriere della Sera; in 1876 opgericht, het is een van de grootste Italiaanse kranten met een oplage van ca. 700.000 exemplaren [noot van de vertaler].

  10. Een wekelijks verschijnend Italiaans tijdschrift met stripverhalen van Walt Disney-figuren. Vergelijkbaar met de Nederlandse Donald Duck weekbald [noot van de vertaler].

  11. In het Duits is ‘Zimmer’ een kamer. In vele Italiaanse toeristische plekken vind je borden op straat met ‘camere-rooms-zimmer’ daarop geschreven. Zo’n bord wordt gebruikt om verblijfsfaciliteiten aan te geven die te huur staan voor toeristen. De auteur heeft ‘Zimmer’ samen met ‘kamer’ gebruikt om zijn idee sterker over te dragen [noot van de vertaler].

  12. Het gaat hier over een espressomachine met een manuele hefboom. Hiermee om een espresso te maken moet je de hefboom naar beneden trekken en wanneer je de gewenste hoeveelheid koffie in het kopje hebt, moet je het weghalen [noot van de vertaler].

  13. Als deze namen verzonnen zou zijn, zou ik ze veranderen, omdat ze niet plausibel klinken [noot van de vertaler].

  14. Makhanòt [noot van de vertaler].

  15. Noord-Italiaanse treinvervoerder [noot van de vertaler].

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Osimo Bruno, 2001. Propedeutica della traduzione, Milano: Hoepli.

Osimo Bruno, 2011. Dizionario affettivo della lingua ebraica, Milano: Marcos y Marcos.

Versione on-line e gratuita del Merriam-Webster, disponibile in internet all’indirizzo http://www.merriam-webster.com/dictionary consultato nel mese di luglio 2014.

BIBLIOGRAFIA

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Lo Cascio V., 2009. Middelgroot woordenboek Nederlands – Italiaans, Utrecht/Antwerpen: Van Dale Uitgevers.

Lo Cascio V., 2009. Middelgroot woordenboek Italiaans – Nederlands, Utrecht/Antwerpen: Van Dale Uitgevers.

Versione on-line e gratuita del Nederlands Woordenboek, disponibile in internet all’indirizzo http://www.woorden.org/ consultato nel mese di luglio 2014.

Versione on-line e gratuita del vocabolario Treccani, disponibile in internet all’indirizzo http://www.treccani.it/vocabolario/ consultato nel mese di luglio 2014.

RINGRAZIAMENTI

Il primo ringraziamento va, senza ombra di dubbio, alla professoressa Magda Talamini che si è dimostrata da subito interessata e disponibile a collaborare al mio progetto di traduzione.
Un sentito ringraziamento anche al professor Andrew Tanzi i cui suggerimenti si sono rivelati fondamentali nella realizzazione dell’analisi.
Un grazie dal profondo del cuore a tutti i professori del dipartimento di nederlandese di Milano Lingue, senza i quali non avrei mai potuto apprendere la lingua ad un livello così alto. Nello specifico ringrazio Michel Dingenouts che per primo ha iniziato ad insegnarmi quello che noi chiamiamo più semplicemente olandese. Grazie Michel, ora più che mai sono soddisfatto della scelta fatta anni addietro. Grazie anche ad Annie Demol, la quale mi ha fatto scoprire la variante belga e capire di preferire quella olandese.
Un grazie anche a tutti i famigliari, amici, conoscenti e colleghi che mi hanno sopportato durante la stesura della tesi. Primo fra tutti, Mirko: grazie per non avermi ucciso anche se in certi momenti, a causa della tensione, sono stato particolarmente odioso. Grazie a mamma e papà che a dire il vero mi sopportano già da anni (e potrei dire la stessa cosa nei loro confronti). Grazie a Valentina che aveva iniziato a raccogliere titoli e titoli per un progetto di tesi che poi è completamente cambiato. Grazie a Laura che da dietro lo schermo del suo smartphone mi ha sostenuto più di tutti. Hartelijk bedankt aan Yannick die een boek uit de “bijzondere collectie” voor mij heeft geraadpleegd. Grazie a Giulia, Davide e Paolo che non hanno denunciato la mia sparizione alle autorità. Grazie anche alle colleghe della tana per il loro supporto morale ai miei esaurimenti universitari (e non).

1Osimo, B., Propedeutica della traduzione, Milano, Hoepli, 2001, pp.74-79,92.

2Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 39.

3Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 41.

4Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 90.

5Ibid., p. 177.

6Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 91.

7Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 92.

8Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 43.

9Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 39.

10Ibid.

11Ibid., p. 43.

12Ibid., p. 42.

13Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 39.

14Ibid., p. 95.

15Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 39.

16Ibid., p. 43 – 44.

17Ibid., p. 93.

18Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 92.

19Ibid., p. 91.

20Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 40.

21Ibid., p. 90.

22Ibid., p. 91.

24Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 93.

25Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 39.

26Ibid., p. 43.

27Ibid., p. 91.

28Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 42.

29Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 40.

30Ibid., p. 43.

31Osimo, B., Dizionario affettivo della lingua ebraica, Marcos y Marcos, 2011, p. 178.

32Ibid.

33Ibid., p. 90.