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Altiero Spinelli visto da se stesso: l’autobiografia

Tutti sanno che Altiero Spinelli ha fondato nel 1943 il Movimento Federalista Europeo, poi il Club del coccodrillo nel 1981, risultando determinante per la creazione di un progetto di trattato istitutivo di un’Unione Europea con marcate caratteristiche federali che venne adottato dal Parlamento europeo nel 1984.

Quello che non tutti sanno è che il personaggio che dà il nome alla nostra Civica Scuola per Interpreti e Traduttori ha avuto una vita personale molto piena e avventurosa che, per nostra fortuna, racconta in un libro uscito parzialmente postumo: il primo volume nel 1984, il secondo nel 1987, un anno dopo la morte. Quando si arriva alla frase «Quel giorno compivo vent’anni», si ha l’impressione di avere già letto non una, ma due vite. E invece si è solo all’inizio, a circa un quarto.

Altiero Spinelli è nato nel 1907 continua a leggere l’articolo

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Michael Zadoorian, Il cercatore di divertimento

Nella nostra cultura si pensa che la parola «vecchio» sia da evitare, e si preferisce la parola «anziano». E ciò è profondamente volgare. Mi fa venire in mente quella maestra di mia figlia che, quando scoprì che dei compagni le davano dell’ebrea per insultarla, anziché spiegare loro che “ebreo” non è un insulto, disse loro: “Non datele dell’ebrea!!!” Non usare la parola «vecchio» è il segno tangibile che la si considera una parolaccia. Non male per una società che in buona parte è composta da vecchi.

«Ecco, non posso crederci, ancora con questa storia. Ma se ne abbiamo parlato e riparlato, e si era deciso che una cosa simile era fuori discussione».

È proprio esasperata. Non mi piace che si scaldi così. Ha avuto problemi di… vedi il resto dell’articolo

 

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Čechov, Casa con mezzanino, nuova traduzione


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Casa con mezzanino (racconto di un pittore)

I

Fu sei-sette anni fa, vivevo in un distretto del governatorato di T., nella tenuta del possidente Belokùrov, un giovane che si alzava molto presto, portava la poddëvka1, la sera beveva birra e continuava a lamentarsi con me di non riuscire a trovare comprensione da nessuna parte in nessuno. Lui viveva nella dépendance in giardino, e io nella vecchia casa padronale, nell’enorme sala con colonne, che non aveva mobili a eccezione del divano largo su cui dormivo e del tavolo su cui facevo i solitari. Qui sempre, anche col bel tempo, c’era qualcosa che fischiava nelle vecchie stufe Amosov2, e durante i temporali tutta la casa tremava e, sembrava, cadeva a pezzi, e faceva un po’ paura, soprattutto di notte, quando tutte e dieci le grandi finestre venivano all’improvviso illuminate da un lampo.

Condannato dalla sorte al continuo ozio, non facevo decisamente nulla. Per ore intere guardavo dalle mie finestre il cielo, gli uccelli, i vialetti, leggevo tutto quello che mi portavano dalla posta, dormivo. A volte uscivo di casa e fino a tarda sera passeggiavo senza meta.

Una volta, mentre tornavo a casa, senza volere mi ritrovai in un podere che non conoscevo. Il sole si stava già nascondendo, e sulla segale in fiore si distendevano le ombre della sera. Due file di abeti vecchi, piantati uno vicino all’altro, molto alti, si ergevano come due muri continui, formando un vialetto scuro, bello. Varcai con facilità la siepe e m’incamminai per questo vialetto, scivolando sugli aghi d’abete che coprivano il terreno per qualche centimetro. Era silenzioso, buio, e solo in alto sulle cime degli alberi tremolava qua e là una luce chiara dorata che si rifletteva sulle ragnatele formando un arcobaleno. Forte, fin soffocante era l’odore degli aghi. Poi svoltai in un lungo vialetto di tigli. Anche qui desolazione e vecchiaia; il fogliame dell’anno passato frusciava con tristezza sotto i piedi e al crepuscolo le ombre si nascondevano tra gli alberi. A destra, nel vecchio frutteto, di malavoglia, con voce flebile cantava un rigogolo, anche lui vecchio, probabilmente. Ma ecco che finirono anche i tigli; passai accanto a una casa bianca con un terrazzo e un mezzanino, e davanti a me d’un tratto si rivelò una vista sul cortile padronale e su un ampio laghetto con una kupal’nâ3, con una distesa di salici verdi, con un paesino sull’altra riva, con un campanile alto e stretto, sul quale ardeva una croce, riflettendo il sole che tramontava. Per un momento mi avvolse l’incanto di qualcosa di caro, di molto familiare, come se avessi già visto questo stesso panorama da bambino.

E vicino alle colonne di pietra bianca, che dal cortile conducevano ai campi, vicino alle colonne robuste con i leoni, c’erano due ragazze. Una di loro, la maggiore, esile, pallida, molto bella, con una chioma di folti capelli castani, con una piccola bocca ostinata, aveva un’espressione severa e mi degnò a malapena di uno sguardo; l’altra invece, ancora molto giovane – avrà avuto diciasette o diciotto anni, non di più – anche lei esile e pallida, con la bocca grande e con gli occhi grandi, mi guardò sorpresa, mentre le passavo accanto, disse qualcosa in inglese e si imbarazzò, e mi sembrava di conoscere anche queste due facce graziose da molto tempo. E tornai a casa con la stessa sensazione di quando si fa un bel sogno.

Da lì a poco, a mezzogiorno, mentre io e Belokùrov stavamo passeggiando vicino a casa, all’improvviso, frusciando sull’erba, entrò nel cortile una carrozza molleggiata, con dentro una di quelle ragazze. Era la maggiore. Veniva a farci firmare una petizione a favore delle vittime dell’incendio. Senza guardarci, ci raccontò con molta serietà nei dettagli quante case erano andate a fuoco nel villaggio di Siânov, quanti uomini, donne e bambini erano rimasti senza tetto e che cosa intendeva fare come prima cosa il comitato per le vittime dell’incendio, di cui ora faceva parte. Dopo averci fatto firmare, mise via il foglio e cominciò subito a salutarci.

«Pëtr Petróvič, vi siete completamente dimenticato di noi» disse lei a Belokùrov, dandogli la mano. «Venite, e se monsieur N. (pronunciò il mio cognome) vorrà dare un’occhiata a come vivono gli ammiratori del suo talento, e venire a trovarci, io e la mamma ne saremo felici».

Feci un inchino.

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The Fundamentals of Translation, ebook by Bruno Osimo

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Bruno Osimo

The Fundamentals of Translation

Introductory Course with Exemplifying Tables for B. A. Students

translations by Alice Rampinelli, Anna Paradiso, Bruno Osimo

ISBN 9788898467099

1 Communicating always means translating

1.1 What is translation?

When speaking about translation, people usually think of the trasposition of a text from a language (a natural code) to another, different from the one in which the text was originally conceived and written. As a matter of fact, that is just a peculiar subprocess within the boundless universe of translation. One of the first steps towards a more scientific and complete approach to translation as it is generally thought of consists in acknowledging all its potential aspects.

The translation process is often described with metaphors relating to space and movement. In some languages the terms referring to “source text” and “target text” are undoubtedly linked to the notion of “space”. In Italian, for instance, “testo di partenza” and “testo d’arrivo” (literally, “starting text” and “arrival text”) refer to the semantic field of runs and races. The same is true, for example, for the French “texte de départ” and “texte d’arrivée”.

To some extent, it seems that translation were a sort of transportation of something (apparently words) from one place to another. And this might be due to the fact that even the Latin word from which “translation” derives, “translatus”, comes from the verbtrans-fero meaning “to bring on the opposite side of”. But even though it is true that translation has a spatial dimension, it also has a temporal and cultural one, all three made up of a number of other interrelated elements.

To avoid all the words which are too explicitly linked to the semantic field of departures and arrivals, which remind of military targets (“target text”) or which imply the misleading idea that there were no previous influences on the first text (“source text”), one may call “original” the text from which the translation process stems, and “translation” the text resulting from it. However, the word “translation” does not allow to make a distinction between the process and the outcome.

That is why the ideal terms would be “prototext” (i.e. “first text”, the original text) and “metatext” (i.e. the subsequent text, deriving from the first one). Such terms were coined by the Slovak semiotician Anton Popovič (1933-1984), who gave a substantial boost to translation studies in the 1960s and 1970s. Unfortunately, his ideas spread to the Western countries only after he had prematurely died.

It is also necessary to define the notion of “text”. The first definition that comes to mind when speaking of a text is a consistent group of written words with a unified structure that makes it a whole. But according to semiotics, the notion of “text” needs to be extended to nonverbal languages, such as music, figurative arts, cinema, advertisement, natural environment, street signals, and so on.

The consequences of such a widening of horizons are clear: if by “translation” we mean any process transforming a prototext into a metatext, with the text belonging to any verbal or nonverbal language or code (and by the way, prototext and metatext can even be expressed with the same code!), then the notion of “translation process” embraces a very wide range of processes, related to all possible transformations of texts.

That is why the translation process includes apparently different phenomena, such as film translation (often called “movie version”, a definition which does not stress its belonging to the sphere of translation) and intertextual translation (quotations, references, allusions, and so on). Already in 1683 the French churchman and scholar Pierre-Daniel Huet wrote in his De interpretatione:

the term “translation” also refers to the clarification of abstruse doctrines, to the interpretation of enigmas and dreams, to the interpretation of oracles, to the solution of complex issues, and, finally, to the spreading of all that is unknown. (Huet 1683:18)
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In the previous table, each row contains a communicative act which belongs to the translation process. Let us see some examples of translation processes.

The first row shows the standard interlingual translation process. The prototext is expressed in a natural code (i.e. in a language – English for instance – that differs from artificial codes such as, say, mathematics), and its transformation into a metatext is textual (both metatext and prototext are verbal texts) and interlingual (the prototext language is different from the metatext language).

The second row shows paraphrase: the process is the same as interlingual translation, but paraphrase usually occurs within the same language, as the content of the message is simply re-expressed with other words.

Quotations may take on the form of references or allusions especially if their ‘delimiters’ (such as inverted commas) are missing: sometimes it is a very hard task for the reader to recognize them as alien texts which were originally part of another, far different text. Even quotations are forms of translation because a word or a sentence uttered by someone in a given context and co-text (→ section 3.1) is re-uttered in a new context and co-text. In this way, the original utterance is now part of a new text: it is ‘translated’. The Internet and all the other telecommunication media are exponentially increasing intertextuality in our every-day communication practice. It is extremely easy for people with access to the Internet to come into contact with the other’s words, and the most modern communicative acts are consequently intertexts, i.e. intertextual translations.

Among the different types of intersemiotic translation there are also reading and writing, all the stages of dream elaboration as both intra- and interpersonal phenomena (i.e. reporting the dream, transcribing it), and psychotherapy, consisting both in the repeated translation of affects, feelings, and drives into words, and in the decoding and recoding of such words, which finally act as a feedback for the patient.

* * *

 

With a scientific explanation for the translation process as its goal, contemporary translation science does not only deal with interlingual translation. The present course on the fundamentals of translation does not aim at teaching how to translate – the translation practice represents a subsequent phase in the education of translators –, but at shading light on an often taken for granted and unconsciously practiced activity, as well as at paving the way for the interlingual translation practice.

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Roman Jakobson’s Translation Handbook

Bruno Osimo1

 

 

This book is based on the principle that it is possible to create a text out of the writings of an author, focusing on a subject that had not necessarily been considered central or fundamental in the original author’s view. Roman Jakobson wrote many articles and books, that only partially dealt with translation. My intention here is to synthesize his thought on translation by collecting a number of quotations from different papers and essays of different times, originally written in various languages, and rearranging them according to my own criteria.

 

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The result is a series of paragraphs and chapters whose identity derives from the assembling of heterogeneous texts that, however, see one given topic from different perspectives. The first chapters focus on inner language as a nonverbal code, and the consequences of the continuous shift from verbal to nonverbal and viceversa occurring during speech, writing – coding –, hearing, reading – decoding –, and therefore occurring within the translation process itself. The notion of “intersemiotic translation” is considered from a new perspective.

In the central chapter Jakobson’s distinctive features method is applied to translation. Using the similarity/contiguity and imputed/factual variables, taken from Peirce’s writings, Jakobson realizes that one of the four actualizations is missing from Peirce’s treatment. Translation, that according to Jakobson is not equivalence but evolution of sense, may well be imputed similarity, the missing actualization of the aforementioned variables.

In the third chapter the focus is on the difference between humane disciplines and exact sciences, and where translation studies belong. Scientific method should be limited to exact disciplines or extended to humane fields as well? This decision has many implications, starting from the name of our discipline – translation science, translatology, translation studies, translation theory – passing through scientific terminology and arriving to semiotics, that according to Jakobson is the science within which the translation discipline should develop itself. Since in classic times disciplines were divided into trivium (humane fields) and quadrivium (sciences), following Jakobson’s semiotic path would mean to overcome trivium, to get out of triviality, in a sense.

In a slightly different form the three chapters were published as articles as follows:

 

(2009). Jakobson and the mental phases of translation. Mutatis Mutandis, 2(1), 73 – 84.

(2008) Translation as imputed similarity”. Sign Systems Studies 36.2:315-339.

(2016) Translation from rags to riches in Jakobson. Sign Systems Studies, still to be defined.

 

 

 

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Disperato erotico fox: intervista di Lilie Haha Fantomatique a Bruno Osimo sul suo romanzo del 2014

DISPERATO EROTICO FOX: Intervista di Lilie Haha Fantomatique a Bruno Osimo

Lilie: La scena di Arturo che si avviluppa ad Alberta con l’angoscia di essere scaricato è di stile molto diverso dal carattere di Adàm Goldstein, il protagonista del tuo romanzo precedente, Bar Atlantic. Che ti è successo?
Bruno: Ha ha ha! Hai ragione Lilie, sono due personaggi molto diversi. Entrambi sono “perdenti” ma, mentre Adàm ne fa una ragione di vita, uno stile di vita, Arturo nella scena iniziale cui tu alludi accusa fortemente il colpo. Adàm è più stabile, Arturo, ha un basso bassissimo e poi un alto altissimo.

Lilie: Guardando su YouTube alcune poesie che tu leggi a casa tua, ho visto che le tue librerie sono poco profonde come quelle descritte nel libro. E chissà se ci sono altri dettagli presi da casa tua, immagino di sì.
Bruno: Per me è fondamentale quando scrivo ambientare le scene in un luogo che conosco. Le librerie del romanzo in realtà sono molto diverse da quelle di casa mia – che peraltro sono diverse tra loro – ma capisco che a occhi non “falegnàmici” e non abituati a considerare l’arredamento come soggetto (prodotto proprio) oltre che come oggetto possano sembrare simili. Del resto, se dopo trent’anni di vita traduttiva solitaria qualcuno mette il naso a casa mia non mi dà certo fastidio.
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Lilie: La “rizdora” Emma è la tipica donna di origine contadina (da me conosciuta però in Emilia), magari poco scolarizzata ma piena di buonsenso, sensibilità e accettazione della vita per come si presenta di giorno in giorno; non rifiuta quel che non può capire, non ha aspettative particolari né curiosità “malsane o mal riposte” e per questo grande apertura all’ignoto e pazienza: pur con deferenza verso “un professore, un cittadino” non pare sentirsi in posizione di inferiorità come se – a parte questi formalismi inculcati evidentemente da tradizioni ataviche – il suo mondo godesse di pari dignità di qualunque altro ed è una donna forte, anche per questo sarà d’aiuto ad Arturo – in pieno marasma, lui, in piccolo scombussolamento lei. La mia ex-suocera soleva dire che le persone semplici come lei (ha la 5° elementare) sono più felici di quelle istruite o molto consapevoli dei grandi fatti del mondo o di quelli molto interiori dell’animo umano – credo a ragion veduta.
Bruno: In altre parole, nel romanzo si vede la stessa questione sotto una luce lievemente diversa: la rizdora è sana, non è nevrotica, ha un’influenza positiva su Arturo in virtù di questa sua semplicità. Non ha quel tratto spesso presente nei nevrotici metropolitani, consistente nell’avere non solo angosce reali, ma anche angosce dovute alle angosce stesse, di secondo grado, per così dire.

Lilie: La strutturazione in capitoli, scelti come base obbligata per il Dizionario Affettivo della Lingua Ebraica è un tuo pallino, poi ripetuto con scansioni giornaliere in ebraico/italiano in Bar Atlantic e in Disperato Erotico Fox (che d’ora in poi abbrevieremo come: Dizionario + BA + DEF) con i numeri primi e le strofe della canzone di Dalla. Il tutto corredato sempre da note a piè di pagina che, in DEF, sono posizioni di ballo che rimandano – per assonanza, analogia, chiarimenti ed altro – al testo. L’idea di un manuale di ballo era interessante per i seguenti motivi: dopo un “Dizionario Affettivo” e il “Diario del precariato amore-sesso-lavoro di un uomo”, si trattava di proporre una nuova veste, un “Manuale di Ballo” (che però è ben diverso dal ballo in sé che è la messa in pratica e dunque un vissuto) e renderlo cornice di fatti da incasellarci. A) Il ballo in sé, come metafora di adattamento di due esseri l’uno all’altro con tutto ciò che implica in generale e, nel caso specifico, come mezzo per riappropriarsi di una nuova vita dopo la precedente finita in pezzi (di entrambi, sebbene in modo diverso – Arturo con divorzio da Alberta, Emma per altri motivi). B) Il ballo come piacere in sé (ritmo, movimento, musica, vicinanza con la persona amata/desiderata) se in coppia. C) Il ballo da sala come coreografia e posizioni precise, descritte minuziosamente fino al tedio e, secondo me, ossessivamente imposte come note, dove mi innervosivo nel dilemma: da un lato il capire quanto descritto e il “sentire” a livello cinestesico (per chi ama danzare viene spontaneo), dall’altro il non riuscire a “sentirlo” e la conseguente pedanteria di questa veste, di cui peraltro spesso non capivo la pertinenza col testo. E infatti il punto è: c’è sempre bisogno di una veste/cornice per un romanzo?
Bruno: Nella mia esperienza presente sì. Forse sarà la mia provenienza dalla traduzione, dove soggiorno da tempo, nel cui mondo ti danno sempre un originale a cui ispirarti. Mi affascina la scrittura alla Queneau, alla Calvino del Castello dei destini incrociati, dove la scommessa è quella di riuscire a produrre un testo artistico con costrizioni tecniche. Alcuni ritengono che questo sia un mio limite da superare, in presenza di maggiore sicurezza di sé in campo letterario. Altri, invece, mi esortano a continuare a usare le note a piè pagina e altri artifici normalmente usati nei saggi più che nei romanzi, o a volte nei romanzi tradotti, ai quali ritorno sempre volentieri, con affetto e riconoscenza.

Lilie: La storia di DEF e il modo in cui hai trattato il tema, accostandolo alla poetica di Dalla, mi sembravano già di per sé ampiamente sufficienti e complessi per un libro scritto peraltro molto bene a vario titolo… non è eccesso di zelo aggiungere anche l’idea del manuale di ballo?
Bruno: Può darsi, ma sono attratto dalla commistione anche un po’ forzosa di mondi diversi. Cos’hanno in comune Dalla e il ballo liscio e i numeri primi? Ho cercato di dare una specie di risposta a questa domanda. A pensarci bene, la traduzione è sempre creazione di un linguaggio per mettere in comunicazione due mondi, due culture. È il compito che mi prefiggo da solo quando mi accingo a scrivere un romanzo.

Lilie: Alberta lascia Arturo con un piglio tipicamente maschile, così come la spietatezza che ne segue; Arturo diventa quasi come i padri separati che dormono in auto, causa gli alimenti per moglie e figli – peraltro questo non implica oggigiorno che la colpa della separazione sia ascrivibile alla moglie ma solo che le condizioni economiche dei soggetti produce spesso tali scenari. Ma la cosa interessante qui è che veramente Arturo è la “parte debole” – legalmente parlando e non solo, in quanto anche e soprattutto sul piano emotivo. È situazione piuttosto rara dato il machismo degli uomini o comunque una loro maggiore indipendenza sotto vari profili, compreso solitamente quello emotivo. Le statistiche parlavano (dieci anni fa) in modo chiaro: l‘uomo lascia quando ha già un’altra donna o tira avanti coi piedi in due scarpe (anche perché non ama stare da solo, vedovi insegnano), la donna lascia quando è stufa; ovviamente, nei tradimenti, a fronte di un uomo che tradisce, c’è per forza una donna che ci sta, spesso sposata ma anche single. Dunque Arturo deve ricominciare a vivere, esattamente come tocca spessissimo a noi donne, con tutto il dolore e le difficoltà che ciò comporta.
Bruno: Mi fa piacere che tu faccia questa osservazione perché la mia idea era proprio di esprimere questo: come per certi versi anche succedeva con Adàm nel romanzo precedente, Arturo è un maschio soccombente, un maschio passivo, un maschio dipendente che non ha difficoltà a riconoscere la propria dipendenza. È istruito e ha una cultura solida, ma questa sua vita “di mente” è resa possibile dalle certezze affettive offertegli dalla moglie. Quando lo lascia, Arturo precipita in una crisi apparentemente definitiva.
poesie da disperato erotico fox

Lilie: Una recensione in particolare ha evidenziato il finale scontato di questo libro. Mi si permetta un commento: non sei un autore alla moda né tratti necessariamente, almeno per ora, temi importantissimi e attuali – quali ad esempio il mondo gay, i problemi di genere ad esso legati e le rivendicazioni per un’eguaglianza ancora lontana in Italia – che tuttavia hanno un unico svantaggio: quello di monopolizzare l’attenzione, purtroppo a scapito di questioni magari già affrontate in passato ma non per questo risolte e non più attuali. Mi riferisco al nucleo di ogni uomo e donna: in primis come individui dotati di un’identità di genere definita, ma anche variamente mitigata o esaltata dalla presenza della componente di sesso opposto; poi come protagonisti nella coppia eterosessuale. Queste sfumature, che strutturano la personalità di ciascuno, vanno poi – nel tuo libro come nella vita di tutti i giorni – a confrontarsi con l’altra metà del cielo, in una dialettica più o meno riuscita a seconda della cassa di risonanza che l’altro fornisce: il pregio di questo tuo libro sta proprio nella sapiente descrizione di queste componenti e sfumature, negli scontri e incontri e nell’evolversi delle persone al variare delle loro relazioni. Pertanto, se Arturo è o pare un maschio soccombente (e forse lo rimarrà tutta la vita, questione magari secondaria: Bruno, pensi forse ad un seguito di quest’avventura che ci sveli l’epilogo della sua vita???) – mentre la moglie una tigre approfittatrice che gli fa da quasi ovvio contrappeso – la verità importantissima che colgo in questo libro sta nell’essere ciò che si è, nell’accettarlo dolorosamente e gioiosamente cammin facendo, perché la vita riserva comunque sorprese se non fingiamo di essere ciò che non siamo, mettendo a nudo di pari passo debolezze interiori e guanti e stivali di gomma – di per sé controcorrente rispetto al classico corredo di strumenti seduttivi. Dunque, il simbolo della danza acquisisce qui ancora un altro significato, forse primordiale: quello della scoperta di sé e della propria rigenerazione. Se mi rifaccio a Biodanza (che in questo libro non ha nulla a che vedere ma che si potrebbe usare un po’ dovunque come unità di misura qualitativa): le cinque dimensioni fondamentali della persona umana, sarebbero: la vitalità, la sessualità, la creatività, l’affettività e la trascendenza. Biodanza mirerebbe a restaurare la loro reciproca armonia. Per reimparare a vivere si dovrebbero ricalibrare quei parametri e, indubbiamente il ballo, se mi limito ad un discorso sia individuale che di coppia (ma non di gruppo, come invece Biodanza include, sebbene non “intruppato” come descrivi tu in modo divertente per balli di gruppo “discotecari”), è un aiuto straordinario. Perciò un manuale che ingabbia e ingessa, a mio avviso, toglie quella fluidità sia nel dipanarsi del racconto per il lettore che nel vissuto dei protagonisti stessi.

Historia de la traducción. Reflexiones en torno del lenguaje traductivo desde la antigüedad hasta los contemporáneos, 2012, de Bruno Osimo, traducción del italiano de M. Cristina Secci, Paidós, México, 349 pp. ISBN 978-607-9202-31-6.

Historia de la traducción. Reflexiones en torno del lenguaje traductivo desde la antigüedad hasta los contemporáneos, 2012, de Bruno Osimo,Paidós, México, 349 pp. ISBN 978-607-9202-31-6.
http://www.pueblosyfronteras.unam.mx/v09n17/art11.html

Fausto Bolom Ton

fbolom@unam.mx

PROIMMSE-IIA-UNAM

Empecemos con una adivinanza ¿En qué se parecen Aristóteles, Sigmund Freud y Miguel de Cervantes? Si respondemos que los tres son personajes que han revolucionado el pensamiento sería una respuesta aceptable; sin embargo, en el marco del libro que en esta ocasión toca reseñar podemos tener una respuesta alternativa: ellos se parecen en que abordan, a su modo, un asunto de vital importancia para el hombre: la traducción.

Hablar de traducción nos remite a un proceso que necesariamente guarda una gran complejidad y que puede ir desde la lingüística, la psicológica, la literaria, hasta la fisiológica, que sin embargo es inherente al hombre y lo ha acompañado desde su formación como tal hasta la actualidad. En la antigüedad podemos advertir el proceso traductivo desde la transacción comercial amigable entre dos grupos étnicos hasta los brutales encuentros entre culturas distintas y su posterior fusión. La llamada traducción intertextual ha estado presente en nuestras vidas desde disímiles e influyentes obras como los cuentos de Andersen, El origen de las especies de Darwin, la Biblia o Principia mathematica de Newton, El Príncipe de Maquiavelo, El contrato social de Rousseau o El Capital de Marx, hasta los llamados actualmente best sellers como el de Harry Potter de J. K. Rawlling. El proceso traductivo está tan asimilado y resulta tan «normal» en nuestro globalizado y mediatizado mundo que es raro notarlo en los doblajes y los subtítulos que se realizan, por ejemplo, para programas y películas extranjeros.

Sin embargo, siendo una actividad de tal relevancia, sorprenderá la poca literatura en español que aborda en exclusiva el tema, sin que tenga que estar adscrito o supeditado a otras disciplinas como la literatura, la psicología, la semiología, etc. Es en este marco que obras como la que nos presenta Bruno Osimo resultan reveladoras para enmarcar los esfuerzos que, a lo largo de las épocas, las disciplinas y los pensamientos, se han vertido para comprender el fenómeno y el proceso.

Bruno Osimo proporciona una colección de variados y disímiles personajes, antiguos y contemporáneos, que, por sus reflexiones, él considera relevantes para relatar una historia de la traducción. El libro fue publicado originalmente en Italia, en 2002, bajo el título original de Storia della traduzione; luego, la obra fue traducida del italiano por M. Cristina Secci y publicada recientemente en español, en 2012. La obra posee ocho capítulos, una nota de la traductora, un prefacio y un útil glosario al cual remitirse. Para cada capítulo el autor proporciona una generosa bibliografía, lo cual indica una buena revisión de la documentación existente y permite también que el lector ahonde posteriormente en la materia.

El autor advierte en el prefacio que el libro «no fue concebido para ser completo ni objetivo», puesto que su selección de autores fue realizada de manera parcial en función de su propio bagaje y experiencia. Asimismo, justifica la presencia de varios semióticos y psicólogos dada la importancia que tienen la significación y el componente psíquico en el proceso traductivo. Ya desde aquí el autor presenta una definición de la traducción como «un proceso que contempla la presencia de un prototexto y un metatexto», definición que, como él mismo dice, pretende alejarse de una más simple: de «texto de salida» y «texto de llegada».

Siendo la historia el tema principal del libro, en el primer capítulo, bajo el título de «Concepción de la historia de la traducción», el autor expone los aprietos para construir tal historia puesto que, a pesar de su independencia como disciplina, la historia de la traducción ha estado ligada a la de la filosofía, la semiótica, la psicología, la lingüística, entre otras disciplinas afines; todo lo cual conlleva distintas expectativas y enfoques. No obstante, la historia de la traducción debiera conectar aspectos temporales de los textos traducidos y de la teoría y el metalenguaje generados sobre la actividad traductiva y la traducción.

En el segundo capítulo, «De la Biblia al Humanismo», se exponen autores importantes como Platón, Aristóteles, Cicerón, entre otros. Ya se esbozan en varios de ellos conceptos como el de símbolo, signo, objeto, interpretante, que más tarde formarán parte fundamental del pensamiento semiótico. También en términos prácticos se tratan problemas relevantes para el acto traductivo como la polisemia, el problema de los equivalentes lingüísticos, la dominante del texto y los residuos, el lector modelo y la interpretación, que ya en épocas posteriores se tratarán con mayor detalle. También ya se advierten pensamientos prescriptivos sobre lo que debe ser una «buena» traducción.

En el tercer capítulo, «De la Reforma a la Revolución Francesa», encontramos pensadores fundamentales como Lutero, Bacon, Cervantes, Descartes, Hobbes, Locke, Kant, entre varios más. Muchos de ellos esbozan conceptos novísimos como el de isomorfismo y anisomorfismo del lenguaje y también evidencian precoces referencias a conceptos de la semiótica; pero los hay también que exponen el deber ser de la traducción o sus tipologías. Se advierte ya en algunos de ellos la visión de que la traducción es un instrumento de intercambio cultural pues implica una decisión y una estrategia para integrar un texto ajeno a una cultura propia. En tal sentido, Lutero tiene una posición importante en la historia al traducir la Biblia del latín al alemán vulgar, lo cual le valió la ira de la Iglesia. Pero como Lutero lo indica

No hay que solicitar a estas letras latinas cómo hay que hablar el alemán, que es lo que hacen esos burros; a quienes hay que interrogar es a la madre en la casa, a los niños en las calles, al hombre corriente en el mercado, y deducir su forma de hablar fijándose en su boca. Después de haber hecho esto es cuando se puede traducir: será la única manera de que comprendan y de que se den cuenta de que se está hablando con ellos en alemán (p. 48).

En contraste, hay autores como Cervantes que cuestionan la relevancia y validez del traductor y de su traducción a lenguas vulgares:

[…] me parece que el traducir de una lengua en otra, como no sea de las reinas de las lenguas, griega y latina, es como quien mira los tapices flamencos por el revés; que aunque se ven las figuras, son llenas de hilos que las oscurecen, y no se ven con la lisura y tez de la haz; y el traducir de lenguas fáciles, ni arguye ingenio ni elocución, como no le arguye el que traslada ni el que copia un papel de otro papel (p. 52).

En el cuarto capítulo, «El siglo XIX», el autor recorre varios autores del Romanticismo quienes van un tanto en oposición con la concepción del mundo de la «Ilustración racionalista y enciclopedista». En este apartado se muestra las reflexiones de pensadores como Friedrich Scheleiermacher, Madame de Sataël, Humboldt, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, entre muchos más. En varios de los autores la traducción se observa como un enriquecimiento mutuo de las lenguas y las culturas y también como una experiencia afectiva entre el lector y el traductor. Otros autores nos enfrentan a dilemas prácticos como en qué grado deberían ser modificadas las obras y adaptarlas a la cultura de llegada, también sobre el énfasis del traductor en la armonía y musicalidad de un poema en desmedro de su precisión, o la decisión de dejar notas aclaratorias o dejar el proceso de desambiguación al lector y privilegiar la fluidez del texto. Nos llevan también a reflexionar sobre la imposibilidad de conseguir una traducción textual y en la imposibilidad de lograr el mismo efecto que el escrito habría tenido en su lengua original, en parte debido a la falta de equivalencia lingüística.

Para Osimo requieren atención especial los descubrimientos de Charles S. Pierce y de Sigmound Freud que, aunque alejados de la lingüística, han contribuido enormemente al progreso actual de la ciencia de la traducción. Es por ello que reseña a estos dos únicos autores en el quinto capítulo denominado de modo familiar y simple como «Peirce y Freud». Peirce, dentro de la disciplina de la lógica, funda la semiótica moderna y, si bien no se pronuncia directamente por la traducción interlingüística, serán muy útiles sus conceptos para enmarcar teóricamente el procedimiento por el cual es posible deducir el significado de un signo (un proceso traductivo, de hecho). Del mismo modo con Freud, padre del psicoanálisis y la psicoterapia, el autor encuentra paralelismos en el proceso traductivo al realizar el inconsciente labores de decodificación de signos, pero también en la actividad de la traducción de los sueños, en tanto son códigos y representaciones del yo.

El sexto y séptimo capítulos son los dos más extensos del libro y en estos Osimo dedica bastante esfuerzo de revisión de autores más cercanos a nuestra época. Los títulos de ambos capítulos son descriptivos de su contenido: «Traductores, escritores, lingüistas del siglo XIX» y «Psicólogos, filósofos, semiólogos del siglo XX». Y es aquí donde desfilan importantes personajes de las más variadas disciplinas y escuelas, quienes abordan temas, otra vez, muy variados como el asunto de la posibilidad o no de preservar en una traducción la musicalidad y la belleza original de una poesía, el tema del detalle y la precisión en la traducción o la generalización, los afanes y dilemas de un traductor para hallar la traducción precisa, el grado de traducibilidad de una lengua, el grado de deslizamiento semántico para preservar metáforas. Pero también son reseñadas las relevantes aportaciones en lingüística y semiología de Saussure y también las de filósofos de la talla de Wittgenstein, Heidegger y Gadamer.

De la enorme colección de autores reseñados en estos dos capítulos llama, por ejemplo, la atención el concepto de traducción de Octavio Paz:

Aprender a hablar es aprender a traducir; cuando el niño pregunta a su madre por el significado de esta o aquella palabra, lo que realmente le pide es que traduzca a su leguaje el término desconocido. La traducción dentro de una lengua no es, en este sentido, esencialmente distinta a la traducción entre dos lenguas, y la historia de todos los pueblos repite la experiencia infantil (p. 149).

En el marco de la referencia que hace el propio Paz a Richard Pierce, hablando del concepto y la definición de «efectos análogos», Bruno Osimo reflexiona:

Cada lectura es una traducción, cada crítica es interpretación, y la diferencia principal entre autor y traductor está en el paralelismo que, en este último caso, se debe instaurar a fuerza en dos procesos: el autor no siempre sabe a dónde irá a parar, mientras el traductor lo sabe con anticipación, porque su objetivo es «reproducir con medios diferentes efectos análogos» (p. 150).

Por último, en el octavo capítulo, intitulado «La ciencia de la traducción», Bruno Osimo presenta a una diversidad de investigadores occidentales y orientales con contribuciones fundamentales para la construcción formal de una ciencia de la traducción. El autor resalta que aun en la segunda mitad del siglo XX existen autores que ignoran asuntos ya tratados anteriormente y continúan proponiendo hipótesis supuestamente «nuevas», sin embargo, ya se perfila una nueva idea de la traducción gracias a desarrollos innovadores de la teoría sistémica y la teoría semiótica. Es así que en el marco de su reseña a Aleksàndr Davìdovic Švejcer, el autor subraya la complejidad del proceso traductivo y su carácter multifacético determinado por factores tanto lingüísticos como no lingüísticos, y señala que no se trata solo de un acto comunicativo sino de interacción entre dos culturas. Asimismo, en el marco de su reseña a Dinda Gorlée, el autor ofrece una visión dinámica y relativa de una traducción:

La concepción semiótica de la traducción propende hacia una visión más elástica, más efímera, del significado. Por lo tanto, las traducciones interlingüísticas escritas no pueden ser consideradas más que actualizaciones provisorias, fijaciones hipotéticas y desactualizadas de interpretaciones siempre discutibles y que se pueden enriquecer (p. 326).

En verdad, el libro nos ofrece un excelente panorama de los pensamientos que se han vertido sobre la traducción y su proceso. Sin embargo, debido a la gran cantidad de autores reseñados (165 en total), se extraña una reflexión final que permita –quizás ilusoriamente– aglutinar la enorme variedad de enfoques y perspectivas. Una vez avanzado el libro, el lector puede sentirse abrumado por al número de autores y por la sensación de redundancia en los pensamientos o en los múltiples lugares comunes. No obstante, esto mismo ilustra un punto del autor: la complejidad y sofisticación alcanzadas por la ciencia de la traducción pero que es, todavía, un proceso en cierne.

Las perspectivas esbozadas pueden muy bien enmarcar nuestras cotidianas actividades de traducción no solo intertextual o interlingüística sino también intercultural, en el contexto de nuestra «maldición babélica»; sin embargo, dejaré la estafeta traductora-interpretativa al próximo lector del texto de Bruno
Osimo.

Intervista di Lilie Ha-Ha Fantomatique a Bruno Osimo sulla poesia «Le smagliature del tuo seno»

Le smagliature del tuo seno

 

le smagliature del tuo seno

così bene posso capire solo io

dalla scollatura della maglietta a V verde militare troppo giovane per te

 

le venature delle tue gambe

le costellazioni di capillari scoppiati

chi meglio di me che le ha viste nascere

chi meglio di me che le ha viste crescere

può conoscere-apprezzare-venerare

 

i giovani corpi che ti danzano intorno

gli sguardi luminosi che ti ronzano intorno

le bocche vogliose che ti sciamano intorno

sono turgidi, sono gravidi

ma mentre amoreggi con loro continuano a passarti le immagini di te

mentre gestisci le mie voglie

Lilie: Nel tuo secondo romanzo, Bar Atlantic, hai inserito componimenti poetici. Purtroppo, hai dovuto sottostare alla scelta e alle limitazioni imposteti dall’editore, col risultato che forse la più bella poesia di questa raccolta è stata depennata e si può trovare solo all’indirizzo:

https://www.trad.it/hum-mugdal-le-smagliature-del-tuo-seno-traduzione-di-maya-katzir-e-bruno-osimo/

Bruno: Ti ringrazio, Lilie, per il complimento. Ti confesso che per me questa poesia è davvero centrale per il romanzo, è una sorta di Ur-Testo dal quale sono scaturite svariate idee che mi sono poi servite per l’elaborazione dell’intreccio.

Lilie: Ma in fondo poco importa sapere se questi versi siano attinenti o meno al romanzo (dal mio punto di vista lo sono), mentre è doveroso mettere in rilievo la loro grazia e la ricchezza dei contenuti. Perché questa poesia racchiude elementi universali che vanno ben oltre le inquietudini e la vita precaria sentimental-sessual-lavorativa di Adàm, protagonista del romanzo.

Bruno: Beh, naturalmente un romanzo ha senso se cerca non solo di propinare un intreccio, frutto della fantasia creativa dell’autore, ma anche di toccare corde che risuonino al di fuori del qui-e-ora. In questo senso mi fa molto piacere quello che dici, perché anche secondo me la prospettiva di Adàm ha connotazioni estensibili ad altri uomini e ad altre donne.

Lilie: Le giovani donne che i media ci propinano, perfette e patinate, non sono la realtà, se non in rarissimi casi, a cui peraltro Photoshop fornisce non pochi “aiutini”. La prova? Qualche passerella di dive intente a portare a spasso pargoli o in coda al supermercato; prive di trucco, gioielli e abiti da sogno, appaiono a volte anche al limite della sciatteria, per non dire banali e bruttine.

Bruno: Quello che tu dici rappresenta, dal mio punto di vista, uno dei momenti di maggiore volgarità della nostra cultura e società: non tanto il trucco in sé o la necessità di apparire più belli possibile, quanto la “vergogna” che si prova per essere “còlti in fragrante” quando si è allo stato naturale, come se la nostra cultura fosse una continua negazione della realtà. La mia ambizione scrivendo questo romanzo era spostare il focus della volgarità dal sesso all’arroganza, dall’erotismo alla falsità: per questo motivo il romanzo è costellato di episodi erotici che puntano a non essere volgari né pornografici.

Lilie: Dove e come si situa per te il limite tra descrizioni/episodi erotici e volgari/pornografici?

Bruno: Non è volgare il sesso, né l’anatomia, ma i costrutti culturali che vi vengono fatti sopra. È volgare pensare di potersi far dettare le “regole” del buon gusto dai media, e poi andare in giro come tapini con queste inserzioni forzose di “moda” trapiantate su corpi intrinsecamente volgari per come sono gestiti in senso alimentare e sanitario. In altre parole, trovo volgare che una persona che mangia male, e si cura male, e quindi ha un corpo che lo lascia trasparire, poi si metta il “capino” di moda, come ciliegina sulla fogna.

Lilie: Le donne vere sono quelle che invecchiano, sotto colpi impietosi: degli anni che attentano ai capillari; delle gravidanze e diete che producono smagliature e varici; del principio di gravità – quest’ultimo, almeno, in comune con gli uomini. Uomini che ci dicono – e quasi sempre ci dimostrano nei fatti – che il turgore della giovinezza è ciò che li attrae inesorabilmente; sorta di maschi soccombenti “povere vittime” – più o meno consenzienti – adescate dal tradimento, malgrado possano continuare ad amare o addirittura venerare la consorte o la compagna principale, come appare nella poesia, quasi nostalgicamente… Mastroianni ha sempre detto di essere cercato dalle donne e non viceversa!

Bruno: Sollevi una questione per me fondamentale: quella dell’autenticità delle donne, e dei maschi. Adàm Goldstein è un personaggio a mio modo di vedere autentico, e la sua frammentazione in vari rivoli di attività affettiva e anche sessuale non lo identifica col macho italiota a cui alludi tu, Lilie, ma dimostra la possibilità di avere vite parallele senza per questo necessariamente essere traditori. Adàm non tradisce ma moltiplica, è un piccione viaggiatore dell’affetto, non può farne a meno, come Boccadirosa.

Lilie: Questa risposta mi sembra una scusa per dare alibi ai maschi su come tradire comunque e senza alcun senso di colpa, purché – infatti – si tratti di frammentazione affettiva e purché si tratti di vite parallele a compartimenti stagni; a tal proposito ricordo che il maschio è biologicamente concepito per inseminare molte femmine in tutto il mondo animale, mentre la teoria della moltiplicazione affettiva itinerante, combinata al sesso, mi pare molto meno difendibile a meno di labilità specifiche o patologiche del maschio umano – quindi espressione di un deficit, magari anche positivo rispetto al macho – tanto più che il cervello del maschio è stato appunto ritenuto diverso da quello femminile anche dal punto di vista affettivo. Dunque vedo la tua versione come un harem dislocato autorizzato che, se tale, secondo me, è inconciliabile con coppia fissa o matrimonio o comunque una relazione privilegiata. I maschi o le femmine Boccadirosa sono per me non esempi universali ma casi limite o sporadici, sebbene idealmente attraenti e senz’altro poetici.

Bruno: Hai perfettamente ragione. La mia era solo una fantasia poetica, non una strategia pratica. Che nessuno se ne approfitti!

Lilie: I fiori freschi, sono bellissimi e profumati ma presto fanés: ma che dire di quei fiori, viole specialmente, che ci piace inserire e far seccare dentro un libro a imperitura memoria? Quando li ritroviamo, non ci paiono avvizziti ma bellissimi e forieri di ricordi ed emozioni, li mettiamo persino sotto vetro, religiosamente…

Bruno: il corpo femminile può invecchiare in modo volgare o in modo poetico. Volgare è quando è pretenzioso (e posticcio, aggiungerei, come le false travi a vista incollate al soffitto): quando pretende con pròtesi di silicone, e ostenta un seno tanto artificioso quanto brutto (implausibile) (e visi sfigurati-omologati – vedi labbra a canotto -); quando il chirurgo rimpiazza un difetto autentico con una perfezione falsa (presunta). Ma è volgare anche l’apparecchio che raddrizza artificiosamente denti meravigliosamente storti, nel maschio e nella donna.

Lilie: Quel che non ci dicono mai, codesti uomini, è che il turgore delle giovani donne rende forse più turgido ciò che la graduale senescenza maschile rammollisce ogni giorno di più, e non certo a causa della partner attempata. E soltanto colui il quale – pur con qualche assaggio di carne soda per rallegrare i sensi con menù alternativo e magari arginare qualche inizio di impotenza – ha costruito una relazione affettiva profonda, può vedere nel decadimento fisico della persona amata la storia di ciò che hanno vissuto e costruito assieme e tutte le sfumare passate e presenti – e chissà anche future – di un amore che può resistere nel tempo.

Bruno: Sono d’accordo con te su quello che si potrebbe definire «consumismo sessuale». Il narcisismo – e il bisogno di conferme, a sostegno di tante insicurezze maschili – dei maschi in questione li spinge a comportamenti autodistruttivi: sull’onda di un’erezione, mettono a repentaglio relazioni solide di coppia e, a volte, stima e affetto dei figli per inseguire il sogno impossibile della cancellazione della vecchiaia. Mi viene in mente la pubblicità (ricordi Lilie gli anni Sessanta? Carosello?) di «La pancia non c’è più» che, trasposta nel discorso che stiamo facendo, potrebbe diventare «L’età non c’è più». Non stupisce che in certi casi le compagne giovani di questi maschi attempati-ma-senza-volerlo-ammettere attuino ritorsioni sotto forma di ricatti e capricci («se non fai questo ti tradisco»), perché si accorgono di essere anche loro vittime di un narcisismo vuoto, senza fondamenti.

Lilie: Se poi ci addentriamo nell’andropausa, le donne vincono non solo sul fronte del viagra, ma anche grazie alla loro sapienza sessuale, amorosa e affettiva in età matura, che oggi non è più un tabù e che le rende spesso più attraenti delle giovani rivali, e capaci di condurre le danze (senza peraltro attentare alla virilità) come il poeta qui dice senza veli. Ulteriori prove ne siano le coppie spesso formate da donne anche parecchio più grandi dei loro partner. Ma qui, il poeta e io non stiamo parlando di toy-boys: questi fanno parte di un’altra storia, molto meno interessante di quanto ci racconta «Le smagliature del tuo seno».

«Adeguarsi o adeguare. Un racconto sulla traduzione» Opera recensita: Di seconda mano, di Laura Bocci, Rizzoli, 2004, p. 196, 15 euro. Pubblicato su Diario della settimana del 24 settembre 2004, p. 68.

Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani 2003

 

Questi saggi di traduttologia applicata non sono l’originale di Experiences in Translation, uscito in Canada due anni fa, anche se in parte ne ricalcano il contenuto. I quattordici capitoli, che si basano anche su altre conferenze di Oxford e di Bologna, sono caratterizzati dalla presenza di un grandissimo numero di esempi italiani che nell’edizione canadese, per evidenti motivi di traducibilità, erano perlopiù assenti o comunque diversi. Il volume canadese era perciò una traduzione senza un originale, mentre questo volume italiano è un originale che però con ogni probabilità non avrà una traduzione puntuale. Il che di per sé stesso dà già molto da pensare a cosa si può intendere per «traduzione», concetto che, da Jakobson in poi, diventa vieppiù nodale in semiotica, superando la concezione ristretta al solo passaggio testuale interlinguistico.

Negli anni Sessanta e Settanta, la disciplina si chiamava ancora «teoria della traduzione», e i traduttori non ne volevano sapere perché l’angusta impostazione lessicalistica non permetteva loro di trarne alcuno spunto pratico. Si ragionava, allora, in termini di “equivalenze”, senza tenere conto che le lingue naturali (a differenza di linguaggi artificiali come la matematica) nascono e si evolvono spontaneamente con la gente che parla e scrive, in modo diverso nei diversi contesti culturali. Se a questo si aggiunge che una componente importante del significato è soggettiva (come spiegano Peirce e Freud), andare alla ricerca di parole “equivalenti” diventa proprio impossibile. Era una teoria arida senza applicazioni, gli esempi scarseggiavano e, quando c’erano, erano “finti”, creati dal linguista a tavolino per mostrare qualcosa, non erano problemi reali incontrati da traduttori all’opera. Eco capovolge quella situazione claustrofobica, disponendo di un’enorme mole di esempi, tra i quali qua e là s’intrufola – senza parere – qualche notazione di semiotica della traduzione. Per questo motivo le ristampe già si susseguono e il volume trova moltissimi proseliti, in primo luogo fra i traduttori.

In alcuni casi, le esperienze riferite da Eco sono quelle dell’autore di testi narrativi interpellato dai propri traduttori nelle varie lingue; e, dato che i suoi romanzi sono stati diffusamente tradotti, questa da sola è una fonte pressoché inesauribile di casi concreti di problemi non già meramente lessicali, ma di traducibilità della cultura, delle implicazioni diverse della componente di non detto nella cultura emittente e in quella ricevente. Altri casi riguardano l’esperienza di Eco come traduttore – di Gérard de Nerval e di Queneau, per esempio –, e allora ci viene illustrato in che modo ha affrontato e risolto i problemi che gli si sono posti. In altri casi, infine, Eco è presente nel libro in veste di semiotico (non vedo perché dovremmo continuare a chiamarlo «semiologo», dal momento che si rifà assai più a Peirce che non a Saussure) che parla di traduzione nell’ottica della più generale teoria della significazione.

Ma quasi sempre Eco è tutte e tre le cose insieme. Del resto, fin dai tempi del Nome della rosa siamo abituati a incontrare, elegantemente celate nell’ordito narrativo, annotazioni di semiotica e filosofia del linguaggio, al punto che viene il sospetto che il vero e proprio topos del macrotesto echiano sia il gusto per la ricerca del rimando intertestuale, il piacere della congettura, la libido abduttiva.

Alcuni traduttori saranno forse annoiati dalla presenza di queste sparse annotazioni semiotiche con cui Eco tira le fila dei singoli esempi portati e li inquadra in categorie, indicando quale sarebbe l’approccio scientifico ai vari problemi. E, forse, simmetricamente, i ricercatori più rigidi potranno essere seccati dalla sicurezza con cui scelte traduttive sono indicate come giuste o sbagliate, dimentichi che nessuno meglio dell’autore empirico di un testo conosce l’intentio auctoris e l’intentio operis. È in fondo questa la migliore dimostrazione che si tratta di un libro interessante e ricco di spunti. Dovrebbero leggerlo anche alcuni editor di narrativa tradotta, il cui potere di scelta è inversamente proporzionale alla competenza: ma non sperateci.

recensione del «Movimento del linguaggio. Una ricerca sul problema del tradurre», a cura di Emilio Mattioli e Riccarda Novello, Marcos y Marcos 1997

Friedmar Apel, Il movimento del linguaggio. Una ricerca sul problema del tradurre, a cura di Emilio Mattioli e Riccarda Novello, Marcos y Marcos 1997.

Fiedmar Apel è il principale traduttologo tedesco vivente. Ha già pubblicato in Italia il Manuale del traduttore letterario.

Con Apel, viene ribaltata la vecchia concezione linguistica secondo cui esiste un messaggio, di cui la traduzione si fa tramite per convogliarlo ai lettori in un’altra lingua. In questa concezione il traduttore è asservito al Senso, e l’Originale è una sorta di divinità che va trasportata col minor numero possibile di scossoni. In questa vecchia concezione, il traduttore va a caccia di “equivalenze”, e perciò naturalmente torna sempre a casa col carniere vuoto, dato che nei linguaggi naturali le equivalenze non esistono.

Nella visione apeliana, al centro del paradigma non sta più il senso ma il linguaggio, e la dialettica tra la poetica del primo autore e la poetica del traduttore (secondo autore) dà vita appunto allo Sprachbewegung del titolo. Partendo da Gottsched e proseguendo fino a Celan, passando da Breitinger, Bodmer, Klopstock, Gottsched,  Hamann, Herder, Schlegel, Novalis, Schleiermacher, Humboldt, Benjamin e altri, Apel ravvisa alcuni tratti comuni sviluppati dalla scuola filologica tedesca. Con Herder viene dinamizzata l’idea di traduzione, che diventa un modo per dare forma alla lingua propria ed entra così a far parte della storia. Con Voss si comincia a capire che «nella traduzione dovrebbe apparire chiaro proprio il fatto che non si può dire tutto quello che idealmente vi si dovrebbe dire»: l’inadeguatezza, l’incompletezza assurgono a tratto dominante, dinamico: il lettore deve essere invogliato a farsi strada verso l’originale.

Esplicito, il dinamismo linguistico lo diventa in Humboldt: «La lingua non è un’opera (ergon), ma un’attività (energheia)». Da questa affermazione discende anche il capovolgimento di prospettiva lingua/percezione, la loro dipendenza reciproca. Ed energia è anche la traduzione, energia per l’arricchimento della cultura nazionale: «Se per avverso timore dell’inconsueto si […] vuole evitare persino lo stesso straniero, […] allora si distrugge tutto il tradurre e tutta la sua utilità per la lingua e la nazione». Il diverso, lo straniero, l’estraneo sono elementi di vitalità per la cultura nazionale.

La concezione di Benjamin è mistica, secondo il movimento del Tikkùn, la restaurazione del tutto: i vasi allineati sono un’immagine della creazione. Rivelatisi fragili, i vasi si rompono, consentendo di separare il bene dal male. Qui entra in gioco il traduttore-angelo, che traduce dall’inferiore al superiore, avvicinando a Dio e restaurando il vaso: un lavoro artigianale che produce un risultato migliore dell’originale.

Fino ad arrivare a Celan, le cui le traduzioni sono al tempo stesso poesia, poetica e interpretazioni storiche ben definite.

Dall’excursus storico-filologico si ricava una concezione della traduzione come rapporto tra due poetiche, che va continuamente superata nello spazio (al lettore deve venire il desiderio di gettare via la traduzione, portatrice di imperfettibilità, e di imparare la lingua originale) e nel tempo: ogni traduzione invecchia perché è la fotografia del rapporto tra la poetica dell’autore in un tempo X e quella del traduttore in un tempo Y, e va di continuo superata.

Bruno Osimo

1° marzo 1998